• #Roma_coloniale

    Sul colonialismo italiano pesa il torto di una rimozione storica, culturale e politica, ancora inspiegabile: un buco nel registro delle morti del Novecento, pagine bianche nei manuali di storia nazionale.
    Il Colonialismo spiega, più di quel che si è portati a credere, il pregiudizio razzista che ancora oggi pervade le piaghe più nascoste della società italiana; un razzismo ordinario, che può esplodere, a certe condizioni, in episodi terribili, oppure continuare a covare sotto la cenere.

    Roma è una città distratta. Le tracce coloniali, incomprese, sono ovunque: viali, piazze, obelischi, cinema, statue, targhe, tutti omaggi dedicati all’impero. Si incontrano a Villa Borghese, al Circo Massimo, alla Stazione Termini, a San Giovanni, al Foro Italico, a Garbatella, a Casalbertone. E in un intero quartiere: quello Africano.
    Forse è venuto il momento di discuterne, di ricercarle e assegnare loro un significato storico più doloroso e più giusto, senza continuare a sperare nell’oblio.

    https://lecommariedizioni.it/prodotto/roma-coloniale
    #Rome #colonialisme #Italie #Italie_coloniale #colonialisme_italien #livre #traces #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #noms_de_rue #liste #inventaire

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

  • Presentazione pubblica della mappa sull’odonomastica coloniale di Milano

    La ricerca storico archivistica commissionata dall’Area Museo delle Culture, Progetti Interculturali e Arte nello Spazio Pubblico e condotta dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri si è focalizzata sulle denominazioni e le intitolazioni con riferimenti alle campagne coloniali, di alcune strade e piazze della città: attraverso lo studio delle delibere del Consiglio comunale di Milano e delle delibere di Giunta è stato possibile ricostruire il periodo storico in cui queste sono state denominate dall’amministrazione cittadina. Con questa ricerca sono state individuate circa centocinquanta strade e piazze intitolate a militari, esploratori, battaglie, città e altre località o persone connesse alla storia coloniale italiana. L’elenco comprende anche quegli istituti culturali e monumenti che hanno avuto un ruolo centrale nel dibattito sul colonialismo italiano.

    La mappa che viene presentata è quindi uno strumento utile per avere una maggiore consapevolezza della storia coloniale italiana e sulla sua ricaduta sul tessuto urbano. Il lavoro svolto viene inquadrato all’interno di un panorama più ampio di riflessione sulle memorie coloniali. Il Mudec ha riattivato il dialogo con alcune personalità delle comunità Habesha presenti a Milano, già coinvolta nel progetto di museologia partecipata intrapreso per l’allestimento della sezione dedicata al colonialismo italiano all’interno di Milano Globale. Il mondo visto da qui, percorso permanente del museo. Nell’ottica di un processo di rilettura della nostra storia coloniale e di risignificazione del patrimonio ma anche dei luoghi della città marcati dalla presenza di odonimi coloniali, il Mudec ha aperto un confronto che si desidera costante e permanente sulle tematiche del colonialismo con cittadine e cittadini anche con origini diasporiche. Il lavoro realizzato fino ad oggi viene presentato a Palazzo Marino in una settimana fortemente simbolica che vuole ricordare Yekatit 12 (12 febbraio secondo il calendario etiopico, equivalente al 19 febbraio nel calendario gregoriano) data della strage di Addis Abeba del 19 febbraio 1937 a opera dell’esercito italiano.

    https://www.reteparri.it/eventi/pagine-rimosse-lesperienza-coloniale-nelle-vie-milano-nei-racconti-dalleti

    –-> j’espère pouvoir récupérer la carte...

    #toponymie #carte #Milan #Italie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #passé_colonial #colonialisme #cartographie #visualisation #noms_de_rue

    • Una settimana per indagare la memoria del colonialismo italiano

      La rete #Yekatit_12-19_febbraio -composta da associazioni, comunità di afrodiscendenti, collettivi e istituzioni- organizza una serie di eventi in diverse città italiane per riaccendere l’attenzione collettiva sul rimosso passato coloniale dell’Italia, fatto di violenze e crimini. Per riflettere sul passato ma soprattutto sul presente

      Per la quasi totalità degli italiani quella del 19 febbraio è una data senza particolari significati. Una data rimossa dalla memoria collettiva insieme a molti altri eventi dell’esperienza coloniale italiana ma che meriterebbe un uno spazio significativo sui libri di storia e non solo. Tra il 19 e il 21 febbraio 1937, infatti, le truppe italiane -con il supporto dei civili e delle squadre fasciste- massacrarono circa 20mila abitanti di Addis Abeba, una feroce repressione a seguito del fallito attentato contro il maresciallo Rodolfo Graziani -allora viceré d’Etiopia- a opera di due giovani resistenti eritrei. Le violenze degli italiani durarono per mesi e si estesero ad altre parti del Paese, fino all’eccidio di chierici e fedeli nella cittadina monastica di Debre Libanos a maggio dello stesso anno.

      Per riaccendere l’attenzione collettiva su questa vicenda, sulle violenze e i crimini del colonialismo italiano e sulle memorie rimosse della storia italiana, la rete Yekatit 12-19 febbraio -formata da associazioni, comunità di afrodiscendenti, collettivi e istituzioni- che prende il nome proprio dalla data del massacro indicata secondo il calendario etiope, sia secondo il calendario gregoriano, ha organizzato l’iniziativa “Memorie e (R)esistenze” con un ricco calendario di appuntamenti diffusi in numerose città (da Milano a Roma, da Bologna a Firenze passando per Modena, Padova, Napoli e Bari) che si concentra soprattutto nella settimana compresa tra il 12 e il 19 febbraio ma che in alcuni territori si prolungherà addirittura fino a maggio.

      “La rete vuole contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia, con l’obiettivo di proporre strumenti sempre più accurati per leggere la realtà in cui viviamo, i suoi legami con la storia recente dell’Italia e con la sua costruzione statuale, nazionale e identitaria”, spiegano i promotori di Yekatit 12-19 febbraio. Conferenze, dibattiti, presentazioni di libri e documentari “saranno occasione per condividere riflessioni sul passato e sul presente di un Paese che vogliamo aperto al mondo, transculturale e capace di riconoscere e combattere il razzismo, la violenza e le ingiustizie”.

      “Il nostro obiettivo è quello di arrivare al riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano”, spiega ad Altreconomia Silvano Falocco, uno dei coordinatori della rete e autore del saggio “Roma coloniale” (Le comari edizioni, 2022). Un primo passo in questo senso è stato fatto lo scorso ottobre quando è stata presentata alla Camera una proposta di legge per l’istituzione di un Giorno della memoria per commemorare gli eccidi, le campagne militari e la politica di occupazione a cui sono state sottoposte le popolazioni dei Paesi africani dominati dall’Italia: “La promozione di iniziative locali di sensibilizzazione e informazione dal basso su questo tema ha come obiettivo quello di farne comprendere all’opinione pubblica la necessità di questa giornata”.

      Tra gli eventi più significativi di “Memorie e (R)esistenze” c’è l’incontro “Memorie decoloniali” in programma martedì 20 febbraio alla Casa della memoria e della storia di Roma: un convegno che sarà anche occasione per iniziare costruire una raccolta “dal basso” delle fotografie e dei diari che raccontano la storia coloniale italiana. “Ogni volta che partecipo a un’iniziativa pubblica sul tema vengo avvicinato da persone del pubblico che mi raccontano di avere a casa foto d’epoca o altra documentazione, spesso appartenuta ai nonni -continua Falocco-. Ci rivolgeremo ai figli e ai nipoti dei colonizzatori invitandoli a condividere con noi questo materiale che spesso percepiscono come problematico. E ci piacerebbe molto anche riuscire a intercettare la documentazione che è stata portata in Italia dai discendenti dei colonizzati per conservare la memoria del proprio Paese d’origine”.

      La rete coinvolge diverse associazioni e realtà attive sui diversi territori, tra cui Resistenze in Cirenaica e il collettivo Arbegnouc Urbani che hanno organizzato due rappresentazioni dello spettacolo teatrale “Italiani brava gente”, ispirato all’opera dello storico Angelo Del Boca, a Bologna il 16 febbraio e a Reggio Emilia il 17 febbraio. A Modena, invece, gli eventi principali saranno il convegno “Altre resistenze. Etiopia e Liba”, la presentazione della graphic novel “Yekatit 12” che racconta la lotta degli etiopi contro l’occupazione fascista e lo spettacolo teatrale “Italiani bravissima gente. Quando eravamo colonialisti” di e con Carlo Lucarelli.

      La rassegna vuole essere anche un’occasione per riflettere sui luoghi delle nostre città che portano con sé un retaggio coloniale. A partire dalla toponomastica, dai nomi di strade e piazze in titolate a sanguinose battaglie o a militari che si sono resi responsabili di massacri ai danni della popolazione civile e che non vengono “interrogati”. “Il racconto di chi ha subito le mire espansionistiche dell’Italia liberale prima e dell’imperialismo fascista poi, non sembra trovare sufficiente spazio -continua la rete-. Così come non trova spazio il racconto di chi ha organizzato la resistenza all’occupazione italiana, di chi gli è sopravvissuto come figlio, figlia, compagna o concubina e di chi ha rielaborato quella storia pensando di poter trovare cittadinanza nel Belpaese a partire già dagli anni Venti”.

      Da qui la volontà di Rete Yekatit 12-19 febbraio di contribuire ad un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia, con l’obiettivo di proporre strumenti sempre più accurati per leggere la realtà in cui viviamo, i suoi legami con la storia recente dell’Italia e con la sua costruzione statuale, nazionale e identitaria. “Il colonialismo non è semplicemente un periodo storico, ma è anche una pratica economica che prevede occupazioni e stermini -conclude Falocco-. Tempo fa avevamo rivolto un questionario a un campione di cittadini e meno del 5% delle persone che hanno risposto conoscevano il passato coloniale dell’Italia. A dimostrazione che questa storia non fa ancora parte della nostra memoria collettiva”.

      https://altreconomia.it/una-settimana-per-indagare-la-memoria-del-colonialismo-italiano
      #19_février

  • #Pesticides : « Le prochain #indicateur d’#Écophyto va endormir les gens »

    Le nouvel indicateur qui pourrait être utilisé dans le plan Écophyto est « trompeur », défend François Veillerette, de #Générations_futures, pour qui le gouvernement a cédé à une demande de la #FNSEA.

    À la suite des manifestations agricoles de ces dernières semaines, le gouvernement a déclaré le 1er février mettre « en pause » le #plan_Ecophyto de réduction de 50 % des pesticides. L’annonce a suscité l’indignation des associations écologistes ainsi que d’associations d’agriculteurs victimes de ces produits. Cette pause « n’est pas la marche arrière » et doit permettre de retravailler sur plusieurs points du plan, et en particulier sur l’indicateur de suivi, a néanmoins précisé Marc Fesneau sur LCI le 4 février.

    Le ministre de l’Agriculture envisage ainsi de remplacer l’indicateur actuel, le #Nodu (#nombre_de_doses_unités), par l’indicateur actuellement en construction au niveau européen, le #HRI1 (#indicateur_de_risque_harmonisé). Cette évolution, réclamée de longue date par le syndicat productiviste la FNSEA, inquiète les associations écologistes. Si elle paraît à première vue relever du détail technique, elle risque en réalité de ruiner pour longtemps toute efficacité du plan Écophyto, explique François Veillerette, porte-parole de l’association Générations futures.

    Reporterre — Le ministre de l’Agriculture, Marc Fesneau, a déclaré que la France allait changer d’indicateur d’utilisation des pesticides au profit, sans doute, de « l’indicateur européen ». Pourquoi le présentez-vous comme trompeur ?

    François Veillerette — L’indicateur HRI1 européen est censé figurer une sorte d’évolution de la dangerosité des pesticides. Le plan Écophyto, lui, a toujours eu comme objectif de réduire de 50 % l’usage des pesticides. Ce n’est pas du tout la même chose.

    En plus, l’utilisation de l’indicateur HRI1 introduit des biais. Le premier, c’est la fausse réduction des pesticides. Quand on regarde l’évolution du Nodu, l’indicateur utilisé actuellement en France dans Écophyto, et du HRI1 entre 2011 et 2019, le premier indique une baisse de 12 % de l’utilisation des pesticides et le second une baisse de 40 %. On voit bien que cette baisse de 40 % est trompeuse. On comprend mieux pourquoi la FNSEA et l’industrie des pesticides aiment bien cet indicateur, qui laisse à penser que l’objectif du plan Écophyto est quasiment atteint.

    Le second biais, c’est une évaluation trompeuse des risques. Pour venir à bout de la tavelure de la pomme, une affection fongique, vous pouvez utiliser au choix de la levure chimique, à faible risque et utilisable en agriculture biologique, ou du difénoconazole, classé plus dangereux. Seulement, il faut utiliser tellement plus de levure que de traitement chimique que le traitement bio obtiendra un moins bon score HRI1 que le produit dangereux. C’est complètement aberrant.

    Enfin, la mesure du risque n’est d’ailleurs pas toujours très précise. Aujourd’hui, on va croire qu’un produit n’est pas dangereux. Dans deux ans, on dira qu’on s’est trompés et qu’il l’était. Ça arrive tout le temps. On se met à retirer des produits du marché parce que la science progresse. Regardez les discussions sur le glyphosate : dangereux, pas dangereux ? Les agences ne sont pas d’accord.

    Il est très étrange que la France se mette à défendre le HRI1, alors que la présidente de la Commission européenne Ursula von der Leyen a proposé le 6 janvier d’enterrer le règlement SUR de réduction de 50 % de l’utilisation des pesticides d’ici 2030, déjà flingué par le Parlement européen sous la pression des conservateurs d’extrême droite et des syndicats agricoles. La France avait toujours défendu le Nodu au niveau européen. Cette conversion subite est évidemment liée au mouvement des agriculteurs, alors que cela fait quinze ans que la FNSEA refuse cet indicateur.

    En quoi le Nodu, utilisé jusqu’à présent en France, était-il plus satisfaisant ?

    Le Nodu français compte le nombre de doses standards par hectare. Il a été négocié au lancement du plan Écophyto en 2009, juste après le Grenelle de l’environnement. Il est impitoyable, très robuste. Même si les produits évoluent avec le temps, qu’ils sont actifs à des doses plus faibles, l’indicateur ne va pas baisser si le nombre de traitements reste le même. Il cherche clairement à évaluer l’évolution de l’usage, donc de la dépendance du système agricole aux pesticides. S’il n’y a pas de baisse du Nodu, il n’y a pas de baisse de la dépendance.

    Avec le HRI1, on ne voit rien de tout cela. Si l’on retourne sur l’évolution des courbes entre 2011 et 2019, on voit une augmentation de 25 % du Nodu entre 2017 et 2018. La courbe HRI1, elle, reste plate. On a l’impression que tout va bien. Cet indicateur sert à endormir les gens, à faire croire qu’on a déjà fait le boulot de réduction et qu’on n’a surtout rien à changer. C’est absolument inacceptable pour nous.

    Cet indicateur, c’était une demande dans la liste de courses de la FNSEA. Le gouvernement, qui ne voulait pas se fâcher avec le syndicat, lui a donné raison tout en faisant croire qu’il allait protéger l’environnement et continuer à travailler.

    Si l’utilisation des pesticides en France a légèrement augmenté depuis 2009, le gouvernement tend plutôt à communiquer sur une baisse en se basant sur la quantité des produits épandus…

    Le gouvernement a toujours montré qu’il préférait utiliser l’indicateur qui l’arrange. Il parle de quantités de substances actives, sépare dans les courbes les produits de synthèse et ceux utilisables en bio ou en biocontrôle... Dans les dernières notes de suivi, on a un mal de chien à trouver le Nodu. Il est sournoisement invisibilisé sous la pression de la FNSEA. Quand Stéphane Le Foll était ministre de l’Agriculture [de 2012 à 2017], le syndicat agricole avait tenté un putsch contre cet indicateur, en inventant un indicateur d’impact. Il ne tenait pas la route et n’est pas passé, mais les pressions avaient été énormes et elles continuent.

    Le Premier ministre a notamment annoncé aux agriculteurs la mise en pause du plan Écophyto, alors que des annonces devraient être faites à son sujet d’ici le Salon de l’agriculture, qui débute le 24 février...

    Ce qui nous inquiète, ce n’est pas la mise en pause du plan Écophyto pour trois semaines, mais ce qu’il va devenir ensuite. Un comité opérationnel de suivi est prévu. Je ne sais pas s’ils vont inviter la société civile ou s’ils vont se réunir entre eux. Car les annonces de Gabriel Attal sont également un scandale sur la forme : le Premier ministre a fermé le ban sans concertation avec les parties prenantes, sous la pression de la FNSEA. C’est assez dramatique.

    On attend maintenant que le gouvernement se reprenne en main. De toute manière, dans 20 ou 30 ans, les pesticides ne fonctionneront plus. Ce n’est pas moi qui le dis, mais Christian Huyghe, directeur scientifique agriculture de l’Inrae. On ne trouve plus de nouveaux modes d’action et le vivant s’habitue aux molécules existantes, de plus en plus de résistance apparait. On le voit déjà dans le Bordelais, où plein de fongicides ne fonctionnent plus très bien.

    https://reporterre.net/Pesticides-Le-prochain-indicateur-d-Ecophyto-va-endormir-les-gens
    #Ecophyto #agriculture #industrie_agro-alimentaire

  • Et tu découvres que des vieilles peaux de Seenthis, façon grizzly, dont les publis ne valent ni plus ni moins, mais bon, c’est les réseaux sociaux, tu relaies, t’ont bloqué. Egos boursouflés... :-D :-D :-D

    Aux apatrides du web merdique, reconnaissants...

    Le Web 2.0 est mort, vive le Web de... !

    https://api.arretsurimages.net/api/public/media/pourquoi-internet-a-cesse-detre-fun/action/show?format=public&t=2024-01-25T17:54:30+01:00

    #média #communication #humour #triste #moraliste #sectaire #France #vérité #nombril #voisins_vigilants #société #seenthis #vangauguin

    https://www.arretsurimages.net/chroniques/clic-gauche/aux-apatrides-du-web-merdique

  • Top du tas de #fumier, les cons qui croient que le monde ne va pas tourner sans eux

    "Anti-écolo, anti-FNSEA : la #Coordination_rurale de mon cul, le syndicat qui attise la colère agricole

    Courtisée par l’extrême droite, la Co. ru. est un des acteurs de la mobilisation en cours. Elle se bat contre la mondialisation et les mesures écologiques, avec des méthodes parfois violentes. Les appels à bloquer Paris lundi se multiplient. (...)) #OMG

    Vous étiez où, les #culs_terreux, avec les #Gilets_Jaunes ?

     :-D :-D :-D Au boulot, les #bouseux #politique #agricole #France #souveraineté #nombril #seenthis #vangauguin

    https://www.mediapart.fr/journal/politique/280124/anti-ecolo-anti-fnsea-la-coordination-rurale-le-syndicat-qui-attise-la-col

  • « Nulle part mieux qu’entre ces murs, quatre murs et un plafond de ciel, je n’aurai goûté aux lèvres du vent la senteur brisée des tilleuls ; en cette citerne d’oubli où nous gisons, la tête pleine de « debout ». »

    La Cavale Partie I Chapitre IX

    #sensations #nommerlaprison

  • A scuola di antirazzismo

    Questo libro propone di partire dai bambini e dalle bambine per prendere consapevolezza di come i processi di razzializzazione siano pervasivi nella società italiana e si possa imparare molto presto a riflettere criticamente sulle diseguaglianze confrontandosi tra pari. Nasce da una ricerca-azione antirazzista che si è svolta nelle scuole primarie ed è rivolto in primis agli/alle insegnanti, per creare dei percorsi didattici che possano contrastare le diverse forme del razzismo (razzismo anti-nero, antisemitismo, antiziganismo, islamofobia, xenorazzismo e sinofobia).

    E’ un libro che offre ricchi e originali materiali di lavoro (tavole di fumetti e video-interviste a testimoni privilegiate/i) per promuovere dialoghi nei contesti educativi.

    volume 1 (pensé pour l’#école_primaire) :


    https://www.meltingpot.org/2021/09/antirazzismo-e-scuole-vol-1

    volume 2 (pensé pour l’#école_secondaire) :


    https://www.meltingpot.org/2023/11/antirazzismo-e-scuole-vol-2

    #anti-racisme #racisme #manuel #ressources_pédagogiques #livre #racialisation #pédagogie #didactique #parcours_didactique #racisme_anti-Noirs #antisémitisme #anti-tsiganisme #islamophobie #xénophobie #sinophobie #racisme_anti-Chinois #discriminations

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    Note : la couverture du volume 2 avec mise en avant des #noms_de_rue (#toponymie)

  • [Les Promesses de l’Aube] #gaz Russe, la dernière route des #nenets
    https://www.radiopanik.org/emissions/les-promesses-de-l-aube/gaz-russe-la-derniere-route-des-nenets

    Ce mercredi, j’aurai le plaisir d’accueillir #sergio_ghizzardi, documentariste belge qui viendra nous présenter son dernier film : Gaz Russe, la dernière route des Nenets.

    A Yamal, qui signifie « fin du monde », dans cette vaste région au nord de la Sibérie bien au delà du cercle polaire arctique, les NENETS, princes de la toundra et éleveurs de rennes, se déploient du Nord au Sud de la péninsule depuis plus de 200 générations. C’est le cas de Vassily et sa brigade qui entreprennent ce voyage de 1500 km.Mais pour combien de temps encore ?Profitant du réchauffement climatique et de la fonte des glaces, la #russie est devenue un des plus grands producteurs degaz naturel au monde, provenant essentiellement de la presqu’île de Iamale et de la mer de Kara. De Yamalpartent les pipelines qui continuent (...)

    #documentaire #energie #nomades #documentaire,russie,energie,gaz,sergio_ghizzardi,nomades,nenets
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/les-promesses-de-l-aube/gaz-russe-la-derniere-route-des-nenets_16971__1.mp3

  • Le #village_sous_la_forêt, de #Heidi_GRUNEBAUM et #Mark_KAPLAN

    En #1948, #Lubya a été violemment détruit et vidé de ses habitants par les forces militaires israéliennes. 343 villages palestiniens ont subi le même sort. Aujourd’hui, de #Lubya, il ne reste plus que des vestiges, à peine visibles, recouverts d’une #forêt majestueuse nommée « Afrique du Sud ». Les vestiges ne restent pas silencieux pour autant.

    La chercheuse juive sud-africaine, #Heidi_Grunebaum se souvient qu’étant enfant elle versait de l’argent destiné officiellement à planter des arbres pour « reverdir le désert ».

    Elle interroge les acteurs et les victimes de cette tragédie, et révèle une politique d’effacement délibérée du #Fonds_national_Juif.

    « Le Fonds National Juif a planté 86 parcs et forêts de pins par-dessus les décombres des villages détruits. Beaucoup de ces forêts portent le nom des pays, ou des personnalités célèbres qui les ont financés. Ainsi il y a par exemple la Forêt Suisse, le Parc Canada, le Parc britannique, la Forêt d’Afrique du Sud et la Forêt Correta King ».

    https://www.villageunderforest.com

    Trailer :

    https://www.youtube.com/watch?v=ISmj31rJkGQ

    #israel #palestine #carte #Israël #afrique_du_sud #forêt #documentaire

    #film #documentaire #film_documentaire

    (copier-coller de ce post de 2014 : https://seenthis.net/messages/317236)

    • Documentary Space, Place, and Landscape

      In documentaries of the occupied West Bank, erasure is imaged in the wall that sunders families and communities, in the spaces filled with blackened tree stumps of former olive groves, now missing to ensure “security,” and in the cactus that still grows, demarcating cultivated land whose owners have been expelled.

      This materiality of the landscape becomes figural, such that Shehadeh writes, “[w]hen you are exiled from your land … you begin, like a pornographer, to think about it in symbols. You articulate your love for your land in its absence, and in the process transform it into something else.’’[x] The symbolization reifies and, in this process, something is lost, namely, a potential for thinking differently. But in these Palestinian films we encounter a documenting of the now of everyday living that unfixes such reification. This is a storytelling of vignettes, moments, digressions, stories within stories, and postponed endings. These are stories of interaction, of something happening, in a documenting of a being and doing now, while awaiting a future yet to be known, and at the same time asserting a past history to be remembered through these images and sounds. Through this there arises the accenting of these films, to draw on Hamid Naficy’s term, namely a specific tone of a past—the Nakba or catastrophe—as a continuing present, insofar as the conflict does not allow Palestinians to imagine themselves in a determinate future of place and landscape they can call their own, namely a state.[xi]

      In Hanna Musleh’s I’m a Little Angel (2000), we follow the children of families, both Muslim and Christian, in the area of Bethlehem affected by the 2000 Israeli armed forces attacks and occupation.[xii] One small boy, Nicola, suffered the loss of an arm when he was hit by a shell when walking to church with his mother. His kite, seen flying high in the sky, brings delighted shrieks from Nicola as he plays on the family terrace from which the town and its surrounding hills are visible in the distance. But the contrast between the freedom of the kite in this unlimited vista and his reduced capacity is palpable as he struggles to control it with his remaining hand. The containment of both Nicola and his community is figured in opposition to a possible freedom. What is also required of us is to think not of freedom from the constraints of disability, but of freedom with disability, in a future to be made after. The constraints introduced upon the landscape by the occupation, however, make the future of such living indeterminate and uncertain. Here is the “cinema of the lived,”[xiii] of multiple times of past and present, of possible and imagined future time, and the actualized present, each of which is encountered in the movement in a singular space of Nicola and his kite.


      http://mediafieldsjournal.squarespace.com/documentary-space-place-and-la/2011/7/18/documentary-space-place-and-landscape.html;jsessioni
      #cactus #paysage

    • Memory of the Cactus

      A 42 minute documentary film that combines the cactus and the memories it stands for. The film addresses the story of the destruction of the Palestinian villages of Latroun in the Occupied West Bank and the forcible transfer of their civilian population in 1967. Over 40 years later, the Israeli occupation continues, and villagers remain displaced. The film follows two separate but parallel journeys. Aisha Um Najeh takes us down the painful road that Palestinians have been forcefully pushed down, separating them in time and place from the land they nurtured; while Israelis walk freely through that land, enjoying its fruits. The stems of the cactus, however, take a few of them to discover the reality of the crime committed.

      https://www.youtube.com/watch?v=DQ_LjknRHVA

    • Aujourd’hui, j’ai re-regardé le film « Le village sous la forêt », car je vais le projeter à mes étudiant·es dans le cadre du cours de #géographie_culturelle la semaine prochaine.

      Voici donc quelques citations tirées du film :

      Sur une des boîtes de récolte d’argent pour planter des arbres en Palestine, c’est noté « make wilderness bloom » :

      Voici les panneaux de quelques parcs et forêts créés grâce aux fonds de la #diaspora_juive :

      Projet : « We will make it green, like a modern European country » (ce qui est en étroit lien avec un certaine idée de #développement, liée au #progrès).

      Témoignage d’une femme palestinienne :

      « Ils ont planté des arbres partout qui cachaient tout »

      Ilan Pappé, historien israëlien, Université d’Exter :

      « ça leur a pris entre 6 et 9 mois poru s’emparer de 80% de la Palestine, expulser la plupart des personnes qui y vivaient et reconstruire sur les villes et villages de ces personnes un nouvel Etat, une nouvelle #identité »

      https://socialsciences.exeter.ac.uk/iais/staff/pappe

      Témoignage d’un palestinien qui continue à retourner régulièrement à Lubya :

      « Si je n’aimais pas cet endroit, est-ce que je continuerais à revenir ici tout le temps sur mon tracteur ? Ils l’ont transformé en forêt afin d’affirmer qu’il n’y a pas eu de village ici. Mais on peut voir les #cactus qui prouvent que des arabes vivaient ici »

      Ilan Pappé :

      « Ces villages éaient arabes, tout comme le paysage alentour. C’était un message qui ne passait pas auprès du mouvement sioniste. Des personnes du mouvement ont écrit à ce propos, ils ont dit qu’ils n’aimaient vraiment pas, comme Ben Gurion l’a dit, que le pays ait toujours l’air arabe. (...) Même si les Arabes n’y vivent plus, ça a toujours l’air arabe. En ce qui concerne les zones rurales, il a été clair : les villages devaient être dévastés pour qu’il n’y ait pas de #souvenirs possibles. Ils ont commencé à les dévaster dès le mois d’août 1948. Ils ont rasé les maisons, la terre. Plus rien ne restait. Il y avait deux moyens pour eux d’en nier l’existence : le premier était de planter des forêts de pins européens sur les villages. Dans la plupart des cas, lorsque les villages étaient étendus et les terres assez vastes, on voit que les deux stratégies ont été mises en oeuvre : il y a un nouveau quartier juif et, juste à côté, une forêt. En effet, la deuxième méthode était de créer un quartier juif qui possédait presque le même nom que l’ancien village arabe, mais dans sa version en hébreu. L’objectif était double : il s’agissait d’abord de montrer que le lieu était originellement juif et revenait ainsi à son propriétaire. Ensuite, l’idée était de faire passer un message sinistre aux Palestiniens sur ce qui avait eu lieu ici. Le principal acteur de cette politique a été le FNJ. »

      #toponymie

      Heidi Grunebaum, la réalisatrice :

      « J’ai grandi au moment où le FNJ cultivait l’idée de créer une patrie juive grâce à la plantation d’arbres. Dans les 100 dernières années, 260 millions d’arbres ont été plantés. Je me rends compte à présent que la petite carte du grand Israël sur les boîtes bleues n’était pas juste un symbole. Etait ainsi affirmé que toutes ces terres étaient juives. Les #cartes ont été redessinées. Les noms arabes des lieux ont sombré dans l’oubli à cause du #Comité_de_Dénomination créé par le FNJ. 86 forêts du FNJ ont détruit des villages. Des villages comme Lubya ont cessé d’exister. Lubya est devenu Lavie. Une nouvelle histoire a été écrite, celle que j’ai apprise. »

      Le #Canada_park :

      Canada Park (Hebrew: פארק קנדה‎, Arabic: كندا حديقة‎, also Ayalon Park,) is an Israeli national park stretching over 7,000 dunams (700 hectares), and extending from No man’s land into the West Bank.
      The park is North of Highway 1 (Tel Aviv-Jerusalem), between the Latrun Interchange and Sha’ar HaGai, and contains a Hasmonean fort, Crusader fort, other archaeological remains and the ruins of 3 Palestinian villages razed by Israel in 1967 after their inhabitants were expelled. In addition it has picnic areas, springs and panoramic hilltop views, and is a popular Israeli tourist destination, drawing some 300,000 visitors annually.


      https://en.wikipedia.org/wiki/Canada_Park

      Heidi Grunebaum :

      « Chaque pièce de monnaie est devenue un arbre dans une forêt, chaque arbre, dont les racines étaient plantées dans la terre était pour nous, la diaspora. Les pièces changées en arbres devenaient des faits ancrés dans le sol. Le nouveau paysage arrangé par le FNJ à travers la plantation de forêts et les accords politiques est celui des #parcs_de_loisirs, des routes, des barrages et des infrastructures »

      Témoignage d’un Palestinien :

      « Celui qui ne possède de #pays_natal ne possède rien »

      Heidi Grunebaum :

      « Si personne ne demeure, la mémoire est oblitérée. Cependant, de génération en génération, le souvenir qu’ont les Palestiniens d’un endroit qui un jour fut le leur, persiste. »

      Témoignage d’un Palestinien :

      "Dès qu’on mange quelque chose chez nous, on dit qu’on mangeait ce plat à Lubya. Quelles que soient nos activités, on dit que nous avions les mêmes à Lubya. Lubya est constamment mentionnées, et avec un peu d’amertume.

      Témoignage d’un Palestinien :

      Lubya est ma fille précieuse que j’abriterai toujours dans les profondeurs de mon âme. Par les histoires racontées par mon père, mon grand-père, mes oncles et ma grande-mère, j’ai le sentiment de connaître très bien Lubya.

      Avi Shlaim, Université de Oxford :

      « Le mur dans la partie Ouest ne relève pas d’une mesure de sécurité, comme il a été dit. C’est un outil de #ségrégation des deux communautés et un moyen de s’approprier de larges portions de terres palestiniennes. C’est un moyen de poursuivre la politique d’#expansion_territoriale et d’avoir le plus grand Etat juif possible avec le moins de population d’arabes à l’intérieur. »

      https://www.sant.ox.ac.uk/people/avi-shlaim

      Heidi Grunebaum :

      « Les petites pièces de la diaspora n’ont pas seulement planté des arbres juifs et déraciné des arbres palestiniens, elles ont aussi créé une forêt d’un autre type. Une vaste forêt bureaucratique où la force de la loi est une arme. La règlementation règne, les procédures, permis, actions commandées par les lois, tout régulé le moindre espace de la vie quotidienne des Palestiniens qui sont petit à petit étouffés, repoussés aux marges de leurs terres. Entassés dans des ghettos, sans autorisation de construire, les Palestiniens n’ont plus qu’à regarder leurs maisons démolies »

      #Lubya #paysage #ruines #architecture_forensique #Afrique_du_Sud #profanation #cactus #South_african_forest #Galilée #Jewish_national_fund (#fonds_national_juif) #arbres #Palestine #Organisation_des_femmes_sionistes #Keren_Kayemeth #apartheid #résistance #occupation #Armée_de_libération_arabe #Hagana #nakba #exil #réfugiés_palestiniens #expulsion #identité #present_absentees #IDPs #déplacés_internes #Caesarea #oubli #déni #historicisation #diaspora #murs #barrières_frontalières #dépossession #privatisation_des_terres #terres #mémoire #commémoration #poésie #Canada_park

    • The Carmel wildfire is burning all illusions in Israel

      “When I look out my window today and see a tree standing there, that tree gives me a greater sense of beauty and personal delight than all the vast forests I have seen in Switzerland or Scandinavia. Because every tree here was planted by us.”

      – David Ben Gurion, Memoirs

      “Why are there so many Arabs here? Why didn’t you chase them away?”

      – David Ben Gurion during a visit to Nazareth, July 1948


      https://electronicintifada.net/content/carmel-wildfire-burning-all-illusions-israel/9130

      signalé par @sinehebdo que je remercie

    • Vu dans ce rapport, signalé par @palestine___________ , que je remercie (https://seenthis.net/messages/723321) :

      A method of enforcing the eradication of unrecognized Palestinian villages is to ensure their misrepresentation on maps. As part of this policy, these villages do not appear at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. Likewise, they do not appear on first sight on Google Maps or at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. They are labelled on NGO maps designed to increase their visibility. On Google Maps, the Bedouin villages are marked – in contrast to cities and other villages – under their Bedouin tribe and clan names (Bimkom) rather than with their village names and are only visible when zooming in very closely, but otherwise appear to be non-existent. This means that when looking at Google Maps, these villages appear to be not there, only when zooming on to a very high degree, do they appear with their tribe or clan names. At first (and second and third) sight, therefore, these villages are simply not there. Despite their small size, Israeli villages are displayed even when zoomed-out, while unrecognized Palestinian Bedouin villages, regardless of their size are only visible when zooming in very closely.


      http://7amleh.org/2018/09/18/google-maps-endangering-palestinian-human-rights
      Pour télécharger le rapport :
      http://www.7amleh.org/ms/Mapping%20Segregation%20Cover_WEB.pdf

    • signalé par @kassem :
      https://seenthis.net/messages/317236#message784258

      Israel lifted its military rule over the state’s Arab community in 1966 only after ascertaining that its members could not return to the villages they had fled or been expelled from, according to newly declassified archival documents.

      The documents both reveal the considerations behind the creation of the military government 18 years earlier, and the reasons for dismantling it and revoking the severe restrictions it imposed on Arab citizens in the north, the Negev and the so-called Triangle of Locales in central Israel.

      These records were made public as a result of a campaign launched against the state archives by the Akevot Institute, which researches the Israeli-Palestinian conflict.

      After the War of Independence in 1948, the state imposed military rule over Arabs living around the country, which applied to an estimated 85 percent of that community at the time, say researchers at the NGO. The Arabs in question were subject to the authority of a military commander who could limit their freedom of movement, declare areas to be closed zones, or demand that the inhabitants leave and enter certain locales only with his written permission.

      The newly revealed documents describe the ways Israel prevented Arabs from returning to villages they had left in 1948, even after the restrictions on them had been lifted. The main method: dense planting of trees within and surrounding these towns.

      At a meeting held in November 1965 at the office of Shmuel Toledano, the prime minister’s adviser on Arab affairs, there was a discussion about villages that had been left behind and that Israel did not want to be repopulated, according to one document. To ensure that, the state had the Jewish National Fund plant trees around and in them.

      Among other things, the document states that “the lands belonging to the above-mentioned villages were given to the custodian for absentee properties” and that “most were leased for work (cultivation of field crops and olive groves) by Jewish households.” Some of the properties, it adds, were subleased.

      In the meeting in Toledano’s office, it was explained that these lands had been declared closed military zones, and that once the structures on them had been razed, and the land had been parceled out, forested and subject to proper supervision – their definition as closed military zones could be lifted.

      On April 3, 1966, another discussion was held on the same subject, this time at the office of the defense minister, Levi Eshkol, who was also the serving prime minister; the minutes of this meeting were classified as top secret. Its participants included: Toledano; Isser Harel, in his capacity as special adviser to the prime minister; the military advocate general – Meir Shamgar, who would later become president of the Supreme Court; and representatives of the Shin Bet security service and Israel Police.

      The newly publicized record of that meeting shows that the Shin Bet was already prepared at that point to lift the military rule over the Arabs and that the police and army could do so within a short time.

      Regarding northern Israel, it was agreed that “all the areas declared at the time to be closed [military] zones... other than Sha’ab [east of Acre] would be opened after the usual conditions were fulfilled – razing of the buildings in the abandoned villages, forestation, establishment of nature reserves, fencing and guarding.” The dates of the reopening these areas would be determined by Israel Defense Forces Maj. Gen. Shamir, the minutes said. Regarding Sha’ab, Harel and Toledano were to discuss that subject with Shamir.

      However, as to Arab locales in central Israel and the Negev, it was agreed that the closed military zones would remain in effect for the time being, with a few exceptions.

      Even after military rule was lifted, some top IDF officers, including Chief of Staff Tzvi Tzur and Shamgar, opposed the move. In March 1963, Shamgar, then military advocate general, wrote a pamphlet about the legal basis of the military administration; only 30 copies were printed. (He signed it using his previous, un-Hebraized name, Sternberg.) Its purpose was to explain why Israel was imposing its military might over hundreds of thousands of citizens.

      Among other things, Shamgar wrote in the pamphlet that Regulation 125, allowing certain areas to be closed off, is intended “to prevent the entry and settlement of minorities in border areas,” and that “border areas populated by minorities serve as a natural, convenient point of departure for hostile elements beyond the border.” The fact that citizens must have permits in order to travel about helps to thwart infiltration into the rest of Israel, he wrote.

      Regulation 124, he noted, states that “it is essential to enable nighttime ambushes in populated areas when necessary, against infiltrators.” Blockage of roads to traffic is explained as being crucial for the purposes of “training, tests or maneuvers.” Moreover, censorship is a “crucial means for counter-intelligence.”

      Despite Shamgar’s opinion, later that year, Prime Minister Levi Eshkol canceled the requirement for personal travel permits as a general obligation. Two weeks after that decision, in November 1963, Chief of Staff Tzur wrote a top-secret letter about implementation of the new policy to the officers heading the various IDF commands and other top brass, including the head of Military Intelligence. Tzur ordered them to carry it out in nearly all Arab villages, with a few exceptions – among them Barta’a and Muqeible, in northern Israel.

      In December 1965, Haim Israeli, an adviser to Defense Minister Eshkol, reported to Eshkol’s other aides, Isser Harel and Aviad Yaffeh, and to the head of the Shin Bet, that then-Chief of Staff Yitzhak Rabin opposed legislation that would cancel military rule over the Arab villages. Rabin explained his position in a discussion with Eshkol, at which an effort to “soften” the bill was discussed. Rabin was advised that Harel would be making his own recommendations on this matter.

      At a meeting held on February 27, 1966, Harel issued orders to the IDF, the Shin Bet and the police concerning the prime minister’s decision to cancel military rule. The minutes of the discussion were top secret, and began with: “The mechanism of the military regime will be canceled. The IDF will ensure the necessary conditions for establishment of military rule during times of national emergency and war.” However, it was decided that the regulations governing Israel’s defense in general would remain in force, and at the behest of the prime minister and with his input, the justice minister would look into amending the relevant statutes in Israeli law, or replacing them.

      The historical documents cited here have only made public after a two-year campaign by the Akevot institute against the national archives, which preferred that they remain confidential, Akevot director Lior Yavne told Haaretz. The documents contain no information of a sensitive nature vis-a-vis Israel’s security, Yavne added, and even though they are now in the public domain, the archives has yet to upload them to its website to enable widespread access.

      “Hundreds of thousands of files which are crucial to understanding the recent history of the state and society in Israel remain closed in the government archive,” he said. “Akevot continues to fight to expand public access to archival documents – documents that are property of the public.”

    • Israel is turning an ancient Palestinian village into a national park for settlers

      The unbelievable story of a village outside Jerusalem: from its destruction in 1948 to the ticket issued last week by a parks ranger to a descendent of its refugees, who had the gall to harvest the fruits of his labor on his own land.

      Thus read the ticket issued last Wednesday, during the Sukkot holiday, by ranger Dayan Somekh of the Israel Nature and Parks Authority – Investigations Division, 3 Am Ve’olamo Street, Jerusalem, to farmer Nidal Abed Rabo, a resident of the Jerusalem-area village of Walaja, who had gone to harvest olives on his private land: “In accordance with Section 228 of the criminal code, to: Nidal Abed Rabo. Description of the facts constituting the offense: ‘picking, chopping and destroying an olive tree.’ Suspect’s response: ‘I just came to pick olives. I pick them and put them in a bucket.’ Fine prescribed by law: 730 shekels [$207].” And an accompanying document that reads: “I hereby confirm that I apprehended from Nidal Abed Rabo the following things: 1. A black bucket; 2. A burlap sack. Name of the apprehending officer: Dayan Somekh.”

      Ostensibly, an amusing parody about the occupation. An inspector fines a person for harvesting the fruits of his own labor on his own private land and then fills out a report about confiscating a bucket, because order must be preserved, after all. But no one actually found this report amusing – not the inspector who apparently wrote it in utter seriousness, nor the farmer who must now pay the fine.

      Indeed, the story of Walaja, where this absurdity took place, contains everything – except humor: the flight from and evacuation of the village in 1948; refugee-hood and the establishment of a new village adjacent to the original one; the bisection of the village between annexed Jerusalem and the occupied territories in 1967; the authorities’ refusal to issue blue Israeli IDs to residents, even though their homes are in Jerusalem; the demolition of many structures built without a permit in a locale that has no master construction plan; the appropriation of much of its land to build the Gilo neighborhood and the Har Gilo settlement; the construction of the separation barrier that turned the village into an enclave enclosed on all sides; the decision to turn villagers’ remaining lands into a national park for the benefit of Gilo’s residents and others in the area; and all the way to the ridiculous fine issued by Inspector Somekh.

      This week, a number of villagers again snuck onto their lands to try to pick their olives, in what looks like it could be their final harvest. As it was a holiday, they hoped the Border Police and the parks authority inspectors would leave them alone. By next year, they probably won’t be able to reach their groves at all, as the checkpoint will have been moved even closer to their property.

      Then there was also this incident, on Monday, the Jewish holiday of Simhat Torah. Three adults, a teenager and a horse arrived at the neglected groves on the mountainside below their village of Walaja. They had to take a long and circuitous route; they say the horse walked 25 kilometers to reach the olive trees that are right under their noses, beneath their homes. A dense barbed-wire fence and the separation barrier stand between these people and their lands. When the national park is built here and the checkpoint is moved further south – so that only Jews will be able to dip undisturbed in Ein Hanya, as Nir Hasson reported (“Jerusalem reopens natural spring, but not to Palestinians,” Oct. 15) – it will mean the end of Walaja’s olive orchards, which are planted on terraced land.

      The remaining 1,200 dunams (300 acres) belonging to the village, after most of its property was lost over the years, will also be disconnected from their owners, who probably won’t be able to access them again. An ancient Palestinian village, which numbered 100 registered households in 1596, in a spectacular part of the country, will continue its slow death, until it finally expires for good.

      Steep slopes and a deep green valley lie between Jerusalem and Bethlehem, filled with oak and pine trees, along with largely abandoned olive groves. “New” Walaja overlooks this expanse from the south, the Gilo neighborhood from the northeast, and the Cremisan Monastery from the east. To the west is where the original village was situated, between the moshavim of Aminadav and Ora, both constructed after the villagers fled – frightened off by the massacre in nearby Deir Yassin and in fear of bombardment.

      Aviv Tatarsky, a longtime political activist on behalf of Walaja and a researcher for the Ir Amim nonprofit organization, says the designated national park is supposed to ensure territorial contiguity between the Etzion Bloc and Jerusalem. “Since we are in the territory of Jerusalem, and building another settler neighborhood could cause a stir, they are building a national park, which will serve the same purpose,” he says. “The national park will Judaize the area once and for all. Gilo is five minutes away. If you live there, you will have a park right next door and feel like it’s yours.”

      As Tatarsky describes the blows suffered by the village over the years, brothers Walid and Mohammed al-‘Araj stand on a ladder below in the valley, in the shade of the olive trees, engrossed in the harvest.

      Walid, 52, and Mohammed, 58, both live in Walaja. Walid may be there legally, but his brother is there illegally, on land bequeathed to them by their uncle – thanks to yet another absurdity courtesy of the occupation. In 1995, Walid married a woman from Shoafat in East Jerusalem, and thus was able to obtain a blue Israeli ID card, so perhaps he is entitled to be on his land. His brother, who lives next door, however, is an illegal resident on his land: He has an orange ID, as a resident of the territories.

      A sewage line that comes out of Beit Jala and is under the responsibility of Jerusalem’s Gihon water company overflows every winter and floods the men’s olive grove with industrial waste that has seriously damaged their crop. And that’s in addition, of course, to the fact that most of the family is unable to go work the land. The whole area looks quite derelict, overgrown with weeds and brambles that could easily catch fire. In previous years, the farmers would receive an entry permit allowing them to harvest the olives for a period of just a few days; this year, even that permit has not yet been forthcoming.

      The olives are black and small; it’s been a bad year for them and for their owners.

      “We come here like thieves to our own land,” says Mohammed, the older brother, explaining that three days beforehand, a Border Police jeep had showed up and chased them away. “I told him: It’s my land. They said okay and left. Then a few minutes later, another Border Police jeep came and the officer said: Today there’s a general closure because of the holiday. I told him: Okay, just let me take my equipment. I’m on my land. He said: Don’t take anything. I left. And today I came back.”

      You’re not afraid? “No, I’m not afraid. I’m on my land. It’s registered in my name. I can’t be afraid on my land.”

      Walid says that a month ago the Border Police arrived and told him he wasn’t allowed to drive on the road that leads to the grove, because it’s a “security road.” He was forced to turn around and go home, despite the fact that he has a blue ID and it is not a security road. Right next to it, there is a residential building where a Palestinian family still lives.

      Some of Walaja’s residents gave up on their olive orchards long ago and no longer attempt to reach their lands. When the checkpoint is moved southward, in order to block access by Palestinians to the Ein Hanya spring, the situation will be even worse: The checkpoint will be closer to the orchards, meaning that the Palestinians won’t be permitted to visit them.

      “This place will be a park for people to visit,” says Walid, up on his ladder. “That’s it; that will be the end of our land. But we won’t give up our land, no matter what.” Earlier this month, one local farmer was detained for several hours and 10 olive trees were uprooted, on the grounds that he was prohibited from being here.

      Meanwhile, Walid and Mohammed are collecting their meager crop in a plastic bucket printed with a Hebrew ad for a paint company. The olives from this area, near Beit Jala, are highly prized; during a good year the oil made from them can fetch a price of 100 shekels per liter.

      A few hundred meters to the east are a father, a son and a horse. Khaled al-‘Araj, 51, and his son, Abed, 19, a business student. They too are taking advantage of the Jewish holiday to sneak onto their land. They have another horse, an original Arabian named Fatma, but this horse is nameless. It stands in the shade of the olive tree, resting from the long trek here. If a Border Police force shows up, it could confiscate the horse, as has happened to them before.

      Father and son are both Walaja residents, but do not have blue IDs. The father works in Jerusalem with a permit, but it does not allow him to access his land.

      “On Sunday,” says Khaled, “I picked olives here with my son. A Border Police officer arrived and asked: What are you doing here? He took pictures of our IDs. He asked: Whose land is this? I said: Mine. Where are the papers? At home. I have papers from my grandfather’s time; everything is in order. But he said: No, go to DCO [the Israeli District Coordination Office] and get a permit. At first I didn’t know what he meant. I have a son and a horse and they’ll make problems for me. So I left.”

      He continues: “We used to plow the land. Now look at the state it’s in. We have apricot and almond trees here, too. But I’m an illegal person on my own land. That is our situation. Today is the last day of your holiday, that’s why I came here. Maybe there won’t be any Border Police.”

      “Kumi Ori, ki ba orekh,” says a makeshift monument in memory of Ori Ansbacher, a young woman murdered here in February by a man from Hebron. Qasem Abed Rabo, a brother of Nidal, who received the fine from the park ranger for harvesting his olives, asks activist Tatarsky if he can find out whether the house he owns is considered to be located in Jerusalem or in the territories. He still doesn’t know.

      “Welcome to Nahal Refaim National Park,” says a sign next to the current Walaja checkpoint. Its successor is already being built but work on it was stopped for unknown reasons. If and when it is completed, Ein Hanya will become a spring for Jews only and the groves on the mountainside below the village of Walaja will be cut off from their owners for good. Making this year’s harvest Walaja’s last.

      https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-israel-is-turning-an-ancient-palestinian-village-into-a-national-p
      https://seenthis.net/messages/807722

    • Sans mémoire des lieux ni lieux de mémoire. La Palestine invisible sous les forêts israéliennes

      Depuis la création de l’État d’Israël en 1948, près de 240 millions d’arbres ont été plantés sur l’ensemble du territoire israélien. Dans l’objectif de « faire fleurir le désert », les acteurs de l’afforestation en Israël se situent au cœur de nombreux enjeux du territoire, non seulement environnementaux mais également identitaires et culturels. La forêt en Israël représente en effet un espace de concurrence mémorielle, incarnant à la fois l’enracinement de l’identité israélienne mais également le rappel de l’exil et de l’impossible retour du peuple palestinien. Tandis que 86 villages palestiniens détruits en 1948 sont aujourd’hui recouverts par une forêt, les circuits touristiques et historiques officiels proposés dans les forêts israéliennes ne font jamais mention de cette présence palestinienne passée. Comment l’afforestation en Israël a-t-elle contribué à l’effacement du paysage et de la mémoire palestiniens ? Quelles initiatives existent en Israël et en Palestine pour lutter contre cet effacement spatial et mémoriel ?

      https://journals.openedition.org/bagf/6779

    • Septembre 2021, un feu de forêt ravage Jérusalem et dévoile les terrassements agricoles que les Palestinien·nes avaient construit...
      Voici une image :

      « La nature a parlé » : un feu de forêt attise les rêves de retour des Palestiniens

      Un gigantesque incendie près de Jérusalem a détruit les #pins_européens plantés par les sionistes, exposant ainsi les anciennes terrasses palestiniennes qu’ils avaient tenté de dissimuler.

      Au cours de la deuxième semaine d’août, quelque 20 000 dounams (m²) de terre ont été engloutis par les flammes dans les #montagnes de Jérusalem.

      C’est une véritable catastrophe naturelle. Cependant, personne n’aurait pu s’attendre à la vision qui est apparue après l’extinction de ces incendies. Ou plutôt, personne n’avait imaginé que les incendies dévoileraient ce qui allait suivre.

      Une fois les flammes éteintes, le #paysage était terrible pour l’œil humain en général, et pour l’œil palestinien en particulier. Car les incendies ont révélé les #vestiges d’anciens villages et terrasses agricoles palestiniens ; des terrasses construites par leurs ancêtres, décédés il y a longtemps, pour cultiver la terre et planter des oliviers et des vignes sur les #pentes des montagnes.

      À travers ces montagnes, qui constituent l’environnement naturel à l’ouest de Jérusalem, passait la route Jaffa-Jérusalem, qui reliait le port historique à la ville sainte. Cette route ondulant à travers les montagnes était utilisée par les pèlerins d’Europe et d’Afrique du Nord pour visiter les lieux saints chrétiens. Ils n’avaient d’autre choix que d’emprunter la route Jaffa-Jérusalem, à travers les vallées et les ravins, jusqu’au sommet des montagnes. Au fil des siècles, elle sera foulée par des centaines de milliers de pèlerins, de soldats, d’envahisseurs et de touristes.

      Les terrasses agricoles – ou #plates-formes – que les agriculteurs palestiniens ont construites ont un avantage : leur durabilité. Selon les estimations des archéologues, elles auraient jusqu’à 600 ans. Je crois pour ma part qu’elles sont encore plus vieilles que cela.

      Travailler en harmonie avec la nature

      Le travail acharné du fermier palestinien est clairement visible à la surface de la terre. De nombreuses études ont prouvé que les agriculteurs palestiniens avaient toujours investi dans la terre quelle que soit sa forme ; y compris les terres montagneuses, très difficiles à cultiver.

      Des photographies prises avant la Nakba (« catastrophe ») de 1948, lorsque les Palestiniens ont été expulsés par les milices juives, et même pendant la seconde moitié du XIXe siècle montrent que les oliviers et les vignes étaient les deux types de plantation les plus courants dans ces régions.

      Ces végétaux maintiennent l’humidité du sol et assurent la subsistance des populations locales. Les #oliviers, en particulier, aident à prévenir l’érosion des sols. Les oliviers et les #vignes peuvent également créer une barrière naturelle contre le feu car ils constituent une végétation feuillue qui retient l’humidité et est peu gourmande en eau. Dans le sud de la France, certaines routes forestières sont bordées de vignes pour faire office de #coupe-feu.

      Les agriculteurs palestiniens qui les ont plantés savaient travailler en harmonie avec la nature, la traiter avec sensibilité et respect. Cette relation s’était formée au cours des siècles.

      Or qu’a fait l’occupation sioniste ? Après la Nakba et l’expulsion forcée d’une grande partie de la population – notamment le nettoyage ethnique de chaque village et ville se trouvant sur l’itinéraire de la route Jaffa-Jérusalem –, les sionistes ont commencé à planter des #pins_européens particulièrement inflammables sur de vastes portions de ces montagnes pour couvrir et effacer ce que les mains des agriculteurs palestiniens avaient créé.

      Dans la région montagneuse de Jérusalem, en particulier, tout ce qui est palestinien – riche de 10 000 ans d’histoire – a été effacé au profit de tout ce qui évoque le #sionisme et la #judéité du lieu. Conformément à la mentalité coloniale européenne, le « milieu » européen a été transféré en Palestine, afin que les colons puissent se souvenir de ce qu’ils avaient laissé derrière eux.

      Le processus de dissimulation visait à nier l’existence des villages palestiniens. Et le processus d’effacement de leurs particularités visait à éliminer leur existence de l’histoire.

      Il convient de noter que les habitants des villages qui ont façonné la vie humaine dans les montagnes de Jérusalem, et qui ont été expulsés par l’armée israélienne, vivent désormais dans des camps et communautés proches de Jérusalem, comme les camps de réfugiés de Qalandiya et Shuafat.

      On trouve de telles forêts de pins ailleurs encore, dissimulant des villages et fermes palestiniens détruits par Israël en 1948. Des institutions internationales israéliennes et sionistes ont également planté des pins européens sur les terres des villages de #Maaloul, près de Nazareth, #Sohmata, près de la frontière palestino-libanaise, #Faridiya, #Kafr_Anan et #al-Samoui sur la route Akka-Safad, entre autres. Ils sont maintenant cachés et ne peuvent être vus à l’œil nu.

      Une importance considérable

      Même les #noms des villages n’ont pas été épargnés. Par exemple, le village de Suba est devenu « #Tsuba », tandis que #Beit_Mahsir est devenu « #Beit_Meir », #Kasla est devenu « #Ksalon », #Saris est devenu « #Shoresh », etc.

      Si les Palestiniens n’ont pas encore pu résoudre leur conflit avec l’occupant, la nature, elle, s’est désormais exprimée de la manière qu’elle jugeait opportune. Les incendies ont révélé un aspect flagrant des composantes bien planifiées et exécutées du projet sioniste.

      Pour les Palestiniens, la découverte de ces terrasses confirme leur version des faits : il y avait de la vie sur cette terre, le Palestinien était le plus actif dans cette vie, et l’Israélien l’a expulsé pour prendre sa place.

      Ne serait-ce que pour cette raison, ces terrasses revêtent une importance considérable. Elles affirment que la cause palestinienne n’est pas morte, que la terre attend le retour de ses enfants ; des personnes qui sauront la traiter correctement.

      https://www.middleeasteye.net/fr/opinion-fr/israel-jerusalem-incendies-villages-palestiniens-nakba-sionistes-reto

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      An Israeli Forest to Erase the Ruins of Palestinian Agricultural Terraces

      “Our forest is growing over, well, over a ruined village,” A.B. Yehoshua wrote in his novella “Facing the Forests.” The massive wildfire in the Jerusalem Hills last week exposed the underpinning of the view through the trees. The agricultural terraces were revealed in their full glory, and also revealed a historic record that Israel has always sought to obscure and erase – traces of Palestinian life on this land.

      On my trips to the West Bank and the occupied territories, when I passed by the expansive areas of Palestinian farmland, I was always awed by the sight of the long chain of terraces, mustabat or mudrajat in Arabic. I thrilled at their grandeur and the precision of the work that attests to the connection between the Palestinian fellah and his land. I would wonder – Why doesn’t the same “phenomenon” exist in the hills of the Galilee?

      When I grew up, I learned a little in school about Israeli history. I didn’t learn that Israel erased Palestinian agriculture in the Galilee and that the Jewish National Fund buried it once and for all, but I did learn that “The Jews brought trees with them” and planted them in the Land of Israel. How sterile and green. Greta Thunberg would be proud of you.

      The Zionist movement knew that in the war for this land it was not enough to conquer the land and expel its inhabitants, you also had to build up a story and an ethos and a narrative, something that will fit with the myth of “a people without a land for a land without a people.” Therefore, after the conquest of the land and the expulsion, all trace of the people who once lived here had to be destroyed. This included trees that grew without human intervention and those that were planted by fellahin, who know this land as they do their children and as they do the terraces they built in the hills.

      This is how white foreigners who never in their lives were fellahin or worked the land for a living came up with the national forestation project on the ruins of Arab villages, which David Ben-Gurion decided to flatten, such as Ma’alul and Suhmata. The forestation project including the importation of cypress and pine trees that were alien to this land and belong to colder climes, so that the new inhabitants would feel more at home and less as if they were in somebody else’s home.

      The planting of combustible cypresses and pines, which are not suited to the weather in this land, is not just an act of national erasure of the Palestinian natives, but also an act of arrogance and patronage, characteristics typical of colonialist movements throughout the world. All because they did not understand the nature, in both senses of the word, of the countries they conquered.

      Forgive me, but a biblical-historical connection is not sufficient. Throughout the history of colonialism, the new settlers – whether they ultimately left or stayed – were unable to impose their imported identity on the new place and to completely erase the place’s native identity. It’s a little like the forests surrounding Jerusalem: When the fire comes and burns them, one small truth is revealed, after so much effort went into concealing it.

      https://www.haaretz.com/opinion/.premium-an-israeli-forest-to-erase-the-ruins-of-palestinian-agricultural-t

      et ici :
      https://seenthis.net/messages/928766

    • Planter un arbre en Israël : une forêt rédemptrice et mémorielle

      Tout au long du projet sioniste, le végétal a joué un rôle de médiateur entre la terre rêvée et la terre foulée, entre le texte biblique et la réalité. Le réinvestissement national s’est opéré à travers des plantes connues depuis la diaspora, réorganisées en scènes signifiantes pour la mémoire et l’histoire juive. Ce lien de filiation entre texte sacré et paysage débouche sur une pratique de plantation considérée comme un acte mystique de régénération du monde.

      https://journals.openedition.org/diasporas/258

  • Le nomadisme, un « exode urbain » invisibilisé ? - AOC media
    https://aoc.media/analyse/2023/10/05/le-nomadisme-un-exode-urbain-invisibilise

    Et si le fameux « exode urbain », surestimé depuis le Covid et les confinements, ne concernait pas d’abord et avant tout les cadres en télétravail (dont le style de vie reste ancré en ville) et les ménages disposant des ressources pour assurer leur « transition rurale » mais bien plutôt d’autres catégories de populations, dont le nouveau nomadisme est largement passé sous les radars des médias ?

    https://justpaste.it/bvma6

  • Le #jardin_Villemin situé au 105 quai de Valmy est renommé Jardin Mahsa Jina Amini, du nom de cette Iranienne de 22 ans morte il y a tout juste un an, le 16 septembre 2022, aux mains de la police des moeurs, pour un voile mal porté.

    https://twitter.com/arminarefi/status/1702978930360111602
    #toponymie #toponymie_politique #Mahsa_Amini #noms_de_rue

  • En Italie, un maire baptise des rues d’après un fasciste et un communiste au nom de la « pacification nationale »

    Proche du gouvernement italien, le maire de #Grosseto en Toscane veut honorer #Giorgio_Almirante et l’ancien secrétaire du Parti communiste #Enrico_Berlinguer. Un geste au nom de la « #pacification_nationale ».

    Antonfrancesco Vivarelli Colonna est le maire de Grosseto, en Toscane. Il y a été élu en tant qu’indépendant en 2016.

    Aux élections municipales des 3 et 4 octobre 2021, il a été réélu dès le premier tour avec 56,2 % des voix, soutenu par la Lega , Forza Italia , Fratelli d’Italia et sa liste civique.

    Sa ville compte environ 82 000 habitants... et une polémique.

    #Antonfrancesco_Vivarelli_Colonna a reçu ce lundi le feu vert de la préfecture pour baptiser une rue de sa ville d’après Giorgio Almirante, journaliste fasciste et antisémite sous Benito Mussolini, et une autre d’après Enrico Berlinguer, ancien secrétaire général du Parti communiste italien (PCI) de 1972 à 1984.

    « Cela met fin à une polémique idéologique qui portait préjudice aux citoyens de Grosseto », a-t-il réagi. « Il ne s’agissait pas de gagner ou de perdre une bataille mais de surmonter les #conflits_idéologiques qui, depuis tant d’années, ont conditionné la vie politique de notre pays et de notre territoire », a-t-il plaidé sur son compte Facebook.

    Une #troisième_voie sera dénommée « Pacification nationale ».

    Qui est Giorgio Almirante ?

    Giorgio Almirante (1914-1988) était, pendant la période fasciste, éditeur du journal « #Défense_de_la_race », dont les premiers numéros coïncident avec les lois raciales contre les juifs votées en 1938.

    Il a créé en 1946 le Mouvement social italien (#MSI), un parti d’après-guerre héritier du mouvement fasciste, et a été élu onze fois député, de 1946 à 1987.

    La Première ministre italienne Giorgia Meloni fut elle-même une militante du mouvement de jeunesse du MSI. Fin 2012 début 2013, elle a créé le parti Fratelli d’Italia dont l’emblème porte encore aujourd’hui la flamme tricolore du MSI.

    L’Association nationale des partisans italiens (résistants au fascisme et à l’occupation allemande durant la Seconde guerre mondiale, Anpi) envisage de former un recours devant la justice administrative.

    Luana Zanella, présidente du groupe Alliance Verts-Gauche à la Chambre des députés, a dénoncé un acte relevant du « #révisionnisme historique ».

    https://france3-regions.francetvinfo.fr/provence-alpes-cote-d-azur/alpes-maritimes/menton/en-italie-un-maire-baptise-des-rues-d-apres-un-fasciste
    #toponymie #noms_de_rue #Italie #fascisme #communisme

  • #Allemagne : une nouvelle place au nom du résistant camerounais #Rudolf_Douala_Manga_Bell

    Une troisième place au nom de Rudolf Douala Manga Bell, résistant camerounais à la colonisation allemande, a été inaugurée en Allemagne, à #Aalen, le 1er juillet dernier. Une #pétition circule auprès des autorités allemandes pour la #réhabilitation de Rudolf Douala Manga Bell et de #Ngosso_Din.

    Rudolf Douala Manga Bell fut l’ancien roi du clan Bell du peuple Douala au Cameroun pendant la période coloniale allemande. Pour avoir tenté de fédérer les communautés contre le colonisateur, il fut pendu « pour haute trahison » le 8 août 1914 à Douala avec son secrétaire Ngosso Din.

    #Jean-Pierre_Félix_Eyoum, membre de la famille et installé en Allemagne depuis un demi-siècle, travaille depuis trente ans sur cette histoire. La place Manga Bell de Aalen a été inaugurée en présence des représentants des autorités du Cameroun. Avant cela, une place a été inaugurée à #Ulm en octobre, une autre à #Berlin en décembre.

    Jean-Pierre Félix Eyoum a déposé il y a un an une pétition auprès des autorités allemandes pour la réhabilitation de Rudolf Douala Manga Bell et Ngosso Din. Pourquoi une place à Aalen ? Parce que ce fut la ville d’accueil de Roudolf Douala Manga Bell, quand il vient apprendre l’allemand à 16/17 ans en 1891 en Allemagne raconte Jean-Pierre Félix Eyoum, au micro de Amélie Tulet, de la rédaction Afrique.

    La demande de réhabilitation de Rudolf Douala Manga Bell et Ngosso Din, figures de la #résistance contre la #colonisation_allemande, est examinée au Bundestag allemand. Avant sa visite en octobre dernier au Cameroun, la ministre adjointe aux Affaires étrangères allemande avait déclaré : « la peine capitale prononcée contre le roi Rudolf Douala Manga Bell en 1914 est un parfait exemple d’#injustice_coloniale ».

    https://amp.rfi.fr/fr/afrique/20230709-allemagne-une-nouvelle-place-au-nom-du-r%C3%A9sistant-camerounais-r

    #Cameroun #toponymie #toponymie_politique #décolonial #toponymie_décoloniale #colonialisme #mémoire #noms_de_rue

    ping @cede @_kg_ @reka

    • Le #martyr camerounais Rudolf Douala Manga Bell a désormais sa place à Berlin

      Après Ulm, Berlin est la deuxième ville allemande à avoir une rue ou une place du nom de Rudolf Douala Manga Bell, ce roi camerounais, figure de la résistance face aux colonisateurs.

      Le gris et le froid berlinois n’ont pas douché l’enthousiasme de la foule. Et pour cause : la place Gustav Nachtigal, du nom du colonisateur qui hissa le drapeau allemand sur le Cameroun, n’existe plus ; elle s’appelle désormais place Rudolf et Emily Douala Manga Bell.

      Rudolf Douala Manga Bell, c’est ce roi devenu héros national pour avoir osé défier le colonisateur allemand et qui fut exécuté en 1914. « Il s’était opposé à certains plans du gouvernement allemand colonial qui essayait de déposséder les gens, de leur prendre leurs terrains... et évidemment, ça n’a pas plu aux Allemands », raconte Jean-Pierre Félix Eyum, l’un de ses descendants. Emily Douala Manga Bell, l’épouse de Rudolf, fut quant à elle l’une des premières Camerounaises à avoir été scolarisées.
      « Un message d’espoir »

      Mais si Rudolf Douala Manga Bell a maintenant une place à son nom à Berlin, il n’est pas totalement réhabilité, ce qu’attend désormais Jean-Pierre Félix Eyum. « J’attends que le gouvernement allemand prononce enfin ces mots-là : "Nous sommes désolés d’avoir fait ce que nous avons fait". C’est cela que j’appelle réhabiliter Rudolf Douala Manga Bell », indique-t-il. Il se dit optimiste à ce sujet. Il a récemment déposé une pétition dans ce sens au Parlement allemand.

      L’actuel roi de Douala, Jean-Yves Eboumbou Douala Manga Bell, voit quant à lui dans cette cérémonie en l’honneur de son ancêtre « un symbole extraordinairement important de reconnaissance d’une situation qui a été déplorable en son temps ». « Un message d’espoir », dit-il. Cette inauguration est en tout cas une nouvelle étape dans la reconnaissance très récente par l’Allemagne de son passé colonial. Un passé longtemps éclipsé par les crimes commis par le régime nazi durant la Seconde Guerre mondiale.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20221202-le-martyr-camerounais-rudolf-douala-manga-bell-a-d%C3%A9sormais-sa-plac

    • L’Allemagne inaugure une place Rudolf Douala Manga Bell en hommage au martyr camerounais

      Pour la première fois sur le sol allemand, une place au nom de Rudolf Douala Manga Bell a été inaugurée le 7 octobre, dans une tentative allemande de regarder son passé de colonisateur du Cameroun. Cela à Ulm, dans le sud de l’Allemagne, où le roi Rudolf Douala Manga Bell avait étudié le droit à la fin du XIXe siècle, avant de rentrer au Cameroun, où il fut ensuite exécuté par l’administration allemande pour avoir tenté de fédérer des communautés camerounaises contre les colons.

      Au Cameroun, son nom est dans tous les manuels scolaires : Rudolf Douala Manga Bell était un roi, le roi du clan Bell au sein du peuple Douala. Celui-ci était établi depuis des générations sur la côte Atlantique, au bord de l’estuaire du Wouri, où se trouve l’actuelle ville de Douala, capitale économique du Cameroun.

      C’est son père, le roi Auguste Douala Ndumbe Bell, qui l’envoie étudier en Allemagne pour qu’il maîtrise la langue de ceux dont la présence augmente sur la côte, avec l’arrivée de missionnaires puis l’installation de comptoirs pour le commerce.

      Mais quelques années après le retour de Rudolf Douala Manga Bell au Cameroun, le gouvernement colonial allemand remet en cause le traité de protectorat signé avec les chefs Douala. Le texte stipule que la terre appartient aux natifs, mais le gouverneur allemand veut alors déplacer les populations.

      Rudolf Douala Manga Bell s’y oppose, d’abord de façon légaliste, allant jusqu’au Parlement allemand plaider la cause de son peuple, avant de se résoudre à tenter de fédérer les autres communautés du Cameroun contre le colonisateur allemand. Mais il est arrêté en mai 1914, jugé et condamné en un seul jour. Il est pendu le 8 août 1914 avec son lieutenant pour « haute trahison ».

      Le Cameroun avait été sous domination allemande d’abord, avant d’être placé sous les mandats britannique et français après la Première guerre mondiale.
      Les descendants de la figure camerounaise appellent à la réhabilitation de son image par l’Allemagne

      Les descendants du roi Rudolf Douala Manga Bell attendent notamment sa réhabilitation par les autorités allemandes, pour laver son nom. Un des combats que mène notamment son arrière-petite-fille, la Princesse Marylin Douala Manga Bell qui constate que les choses bougent en Allemagne depuis le milieu des années 2010.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20221025-l-allemagne-inaugure-une-place-rudolf-duala-manga-bell-en-hommage-au-ma

  • Place des grandes femmes : Audrey Dussutour en Aveyron
    https://academia.hypotheses.org/50840

    D’ici quelques jours, la commune de Rieupeyroux a baptisé une de ses places du nom de la biologiste Audrey Dussutour, sur une suggestion de deux jeunes de la commune, Chloé et Yanis, résolution adoptée par la Mairie. À qui le … Continuer la lecture →

    #Academic_Feminist_Fight_Club #Libertés_académiques_:_pour_une_université_émancipatrice #parité_femmes-hommes

  • L’écrivain écossais Kenneth White est mort à Trébeurden | Le Télégramme
    https://www.letelegramme.fr/cotes-d-armor/trebeurden-22560/lecrivain-ecossais-kenneth-white-est-mort-a-trebeurden-6410496.php


    Kenneth White habitait sur les hauteurs de Trébeurden, dans sa maison nommée « Gwenved », depuis 40 ans.
    Photo d’archives Le Télégramme

    L’écrivain et poète franco-écossais Kenneth White est mort, vendredi 11 août, à l’âge de 87 ans, dans sa maison de Trébeurden (22). Son décès a été révélé ce matin du lundi 14 août par le quotidien Le Figaro.

  • 🔴 Comment une ancienne dirigeante de la CGT a-t-elle pu être nommée préfète par Macron ? 🙃 😆

    Maryline Poulain, ancienne membre de la direction confédérale de la CGT et référente du travail en direction des travailleurs migrants, vient d’être nommée préfète déléguée à l’égalité des chances auprès de la préfète de la région Grand Est, préfète de la zone de défense et de sécurité Est, préfète du Bas-Rhin, par Emmanuel Macron, sous conseil du ministre de l’Intérieur Gérald Darmanin (...) L’ancienne syndicaliste a répondu très favorablement à cette nomination, en expliquant être « très fière et honorée » et en n’oubliant pas de remercier chaleureusement Macron, Borne et Darmanin pour cette place offerte en tant que haute-fonctionnaire de l’appareil d’État (...)

    #CGT #Maryline_Poulain #préfecture #Darmanin #macronie #nomination #BasRhin #bureaucratie #collaborationdeclasse #pouvoir #étatisme... 🤑 💩

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    > Décret du 13 juillet 2023 portant nomination de la préfète déléguée pour l’égalité des chances auprès de la préfète de la région Grand Est, préfète de la zone de défense et de sécurité Est, préfète du Bas-Rhin - Mme POULAIN (Marilyne)

    https://www.legifrance.gouv.fr/jorf/id/JORFTEXT000047836698

    🔴 ▶️ " ...elle garde avec le #PCF et avec la centrale cégétiste des liens privilégiés. Fabien #Roussel, qu’elle apprécie beaucoup, l’a chaleureusement complimentée pour sa promotion... "


    https://www.dna.fr/politique/2023/07/20/la-cegetiste-marilyne-poulain-nommee-prefete-a-l-egalite-des-chances-dans-le-bas

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    ⏩ Lire l’article complet (via le site trotskyste et très orthodoxe « RP ») :

    ▶️ https://www.revolutionpermanente.fr/Comment-une-ancienne-dirigeante-de-la-CGT-a-t-elle-pu-etre-nomm

  • « Après la lecture de cet ouvrage sur les chants inuits, on ne pourra qu’admirer l’incroyable sens de l’à-propos du prince Charles et de Camilla »
    https://www.lemonde.fr/series-d-ete/article/2023/08/04/apres-la-lecture-de-cet-ouvrage-sur-les-chants-inuits-on-ne-pourra-qu-admire


    « La Musique qui vient du froid », de Jean-Jacques Nattiez (Presses universitaires de Montréal, 2022).
    LEA GIRARDOT

    « La bibliothèque insolite de Mara Goyet » (5/23). Surprise par le rire, en 2017, du futur couple royal britannique face au chant de deux femmes inuites, l’autrice s’intéresse à cette pratique traditionnelle et à ses modalités dans «  La Musique qui vient du froid  ».

    Depuis toute petite, j’apprécie le prince Charles, aujourd’hui Charles III. Rien de ce qui le concerne ne m’échappe. Evidemment, je connais les fragilités qui m’ont menée à ce choix quand Diana aurait été un parti raisonnable : il était le mal-aimé, le ridicule, l’éternel dauphin, etc. J’ai voulu compenser.

    J’ai néanmoins été surprise par quelques fautes de goût de sa part, notamment ce fou rire au Canada, en 2017, lancé par Camilla, à l’écoute de deux femmes inuites exécutant un chant sans doute exotique à leurs oreilles. Comment quelqu’un qui se fait repasser ses lacets, se promène dans le Commonwealth comme dans un jardin depuis sa naissance et demande que l’on applique le dentifrice sur sa brosse à dents peut-il s’abaisser à un tel manque de tact, à un tel impair ? A une telle beauferie, en somme. Quand on est un prince anglais, on ne rigole pas devant une musique parce qu’elle ne ressemble pas à du Purcell, on bouffe des sauterelles en silence et l’on revêt quantité de coiffes avec le sourire. C’est son travail et son devoir.

    Evidemment, une forme de complaisance nous conduirait à voir dans ce fou rire un soupçon d’humanité. Mais je m’y refuse. J’ai d’ailleurs bien fait car, en lisant La Musique qui vient du froid. Arts, chants et danses des Inuits (Presses universitaires de Montréal, 2022), de Jean-Jacques Nattiez, j’ai pu en apprendre davantage sur ces chants que l’on décrit comme « haletés ». On les retrouve principalement au Canada, ils sont « caractérisés par l’alternance de l’expiration et de l’inspiration ». Ce qui peut les rendre un peu obscènes, du moins si l’on vit dans l’univers lubrique de Camilla et Charles. Ils sont par ailleurs « essentiellement réservés aux femmes ».

    Joutes vocales
    Ces chants permettent aux partenaires de démontrer leur capacité d’endurance au moyen de jeux narratifs que l’on fait durer, combine, juxtapose, enchaîne et répète. Parfois s’ajoutent des sons voisés (ou non) et des intonations diverses qui s’organisent autour d’un pattern rythmique constant.

    Ces joutes vocales doivent divertir mais aussi offrir la possibilité de surmonter les conflits : elles ne doivent pas entrer en opposition avec celles de l’adversaire. On parle à ce titre de chant ordalique. La gagnante sera celle qui utilisera les motifs les plus difficiles et les plus beaux. Quant à la perdante, elle se retrouvera souvent ridiculisée au cours de l’échange. L’humour n’est donc pas étranger à ces jeux de gorge, qui se terminent souvent par des éclats de rire. Dans un esprit similaire, au Groenland, on utilise des « bâtons de taquinerie ».

    reste 20% derrière le #paywall

  • Sur la route de Thiès, un exemple de préemption toponymique par le bas
    https://neotopo.hypotheses.org/6059

    Michel Ben Arrous, Chaire Unesco “Dénommer le Monde” Université de Genève ; Université de Saint-Louis, Sénégal Un bord de route ordinaire au Sénégal, avec ses vendeuses de mangues, de papayes et de pastèques. Sur...

    #African_Neotoponymy_Observatory_in_Network #ExploreNeotopo #Toponobservations

  • Quand une approche “pratique” de l’adressage d’un campus impose un environnement toponymique toujours plus masculin (94%). Le cas de Grenoble-Université-Alpes à Saint-Martin-d’Hères
    https://neotopo.hypotheses.org/5855

    Le Campus historique et principal de l’Université Grenoble-Université-Alpes situé sur la commune de Saint-Martin-d’Hères connaît quelques changements d’adressage liés à une restructuration de son secteur central. Changements qui se traduisent par l’adjonction de trois...

    #Billets #Toponobservations #ToponoGender

    • Réponse des services centraux de l’UGA, reçus par mail, le 8 juin 2023 :

      « Ces propositions permettent juste de résoudre un problème urgent, cela en avance de phase d’une réflexion plus globale portant sur la nécessité de dénommer les accès aux bâtiments, afin que ces derniers soient adressés directement sur les voies qui les desservent. Il nous faudra alors faire le choix d’un certain nombre de toponymes et cela sur la base de critères qui intègreront bien évidemment le problème de parité que vous soulevez et qu’il nous faut corriger. Cette démarche a fait l’objet d’une proposition de méthodologie en cours de validation pour une réflexion que j’espère pouvoir mener l’an prochain. »

      #urgence

    • ll est possible de faire autrement...

      Des amphis aux noms de femmes : ces universités s’emparent de la question

      Amphithéâtres, salles de TD, learning centers… Dans les universités françaises, les lieux nommés d’après des personnalités portent, dans leur écrasante majorité voire en totalité, des noms d’hommes. Certains établissements veulent changer la donne et se tournent vers leur communauté pour soumettre ou sélectionner des noms de femmes.

      En France, à peine 5 % des rues portent un nom de femme. Un constat partagé dans les universités que certains acteurs s’efforcent de faire évoluer. Comment s’y prennent-ils ?
      Des noms de femmes pratiquement toujours absents

      Sur 1 328 lieux recensés sur son campus par l’Université de Strasbourg (Unistra), seuls neuf portent le nom d’une femme contre 78 pour les hommes. Du côté des #amphithéâtres, l’un d’eux est nommé d’après une déesse, pour 37 aux noms masculins.

      Les universités de #Lille et de #Haute-Alsace n’ont pas fait un tel recensement, complexe pour des campus de plus en plus tentaculaires, mais le constat est le même : les femmes sont aux abonnées absentes.

      « Avec un très grand nombre de sites faisant partie de l’#Université_de_Lille, il est difficile d’obtenir des listings complets. Avant la consultation, nous avions seulement trouvé deux salles sur le campus scientifique avec des noms de femmes : Marie Curie et Marie-Louise Delwaulle. Cette dernière est une ancienne chercheuse de l’université qui n’est désignée que par son nom de famille, alors que les autres amphithéâtres ont également des prénoms et certains ont même des plaques biographiques », rapporte Hermeline Pernoud, cheffe de projet égalité-diversité de l’établissement.

      Deux autres salles qui devaient s’appeler Rosalind Franklin et Ada Lovelace n’ont jamais été renommées, pour des raisons inconnues. « Nous voulons les faire réapparaître, dit Hermeline Pernoud. »

      À l’#Université_de_Haute-Alsace (UHA), le syndicat étudiant Communauté solidaire des terres de l’Est ne décompte aucun amphithéâtre avec des #noms_féminins, contre une dizaine de masculins. Les femmes sont pour l’heure seulement présentes sur quelques salles du learning center.

      Impliquer la communauté via consultation ou votes

      Pour faire bouger les choses, les vice-présidentes égalité des universités lilloise et strasbourgeoise, mais aussi le syndicat étudiant de Haute-Alsace se tournent vers la communauté universitaire. « L’idée de renommer 15 amphis a été lancée par Sandrine Rousseau, alors vice-présidente égalité de l’Université de Lille en 2019. 45 noms ont été proposés au vote en 2020. L’objectif est d’inviter chacun et chacune à s’interroger sur ses figures au quotidien et d’inviter chaque faculté à s’approprier les noms mis en avant », retrace Hermeline Pernoud.

      Le travail autour des noms à soumettre au vote a également permis d’impliquer l’association de solidarité des anciens personnels (Asap) de l’université lilloise qui a pu se souvenir de chercheuses illustres de la région.

      L’Unistra a opté pour une consultation : étudiants, enseignants-chercheurs et personnels peuvent soumettre des noms de femmes emblématiques de l’histoire de l’université ou d’une discipline, ayant travaillé ou étudié dans l’établissement et ayant contribué à son rayonnement ou à celui de son pays par ses travaux. Huit seront choisis pour apparaître sur des amphithéâtres, un chiffre faisant référence à la journée des droits des femmes, le 8 mars.

      « Cette initiative produit une #émulation_positive en interne, notamment au sein d’une composante d’enseignement s’étant particulièrement investie allant jusqu’à faire voter les noms soumis devant le conseil de composante ! », se réjouit Isabelle Kraus, vice-présidente égalité, parité, diversité et maîtresse de conférences en physique.

      Cette dernière envisage d’embarquer un public plus large encore : « Aujourd’hui, au-delà de l’établissement, les alumni peuvent participer. Nous réfléchissons maintenant à ouvrir la consultation en dehors de l’université, en communiquant à ce propos dans les journaux de l’Est de la France. »

      À l’Université de Haute-Alsace, ce sont les étudiants, via à la Communauté solidaire des terres de l’Est présente sur 13 campus du Haut-Rhin, qui lancent la dynamique et ouvrent une consultation le 22 mars. 115 votes ont déjà été enregistrés par une majorité d’étudiants et une trentaine d’enseignants-chercheurs.

      « Nous y avons réfléchi pendant deux ans avant de lancer la campagne. L’idée est que ce projet soit plutôt ascendant : qu’il vienne des étudiants. La gouvernance était au courant que nous préparions cela et est encline à nous soutenir », expose Axel Renard, étudiant et président de la Communauté des terres de l’Est.

      Des modifications pourraient cependant encore intervenir : « Le projet de base était de renommer des amphithéâtres, mais l’équipe dirigeante semble plutôt s’orienter vers des bâtiments », poursuit Axel Renard.

      Mettre en valeur des personnalités de l’université et #femmes_scientifiques

      Faire sortir les femmes de l’université, souvent des scientifiques, de l’#anonymat : c’est aussi l’objectif de ces initiatives. À l’Université de Lille, en lien avec l’opération Université avec un grand Elles qui a nourri la liste de noms soumis au vote pour renommer les amphis, des stages ont été proposés.

      Les étudiantes ont cherché des portraits correspondant aux critères : 15 femmes de la région, si possible en lien avec l’université, « dans une volonté de matrimoine, afin de rendre femmage -car c’est bien de cela dont il s’agit ici plutôt qu’un « hommage »- à des personnes que l’on connait moins », souligne Hermeline Pernoud.

      Une diversité qu’observe également Isabelle Kraus de l’Unistra : « Parmi les noms proposés, il en y a des connus et d’autre que je découvre. Quelle richesse ! Certains sont remontés dans toutes les disciplines. »

      Pour sa sélection, la Communauté des terres de l’Est demande dans son formulaire d’argumenter le choix soumis. « Nous n’avons pour le moment pas reçu trop de retours négatifs, seulement une dizaine de propositions de trolls », indique Axel Renard.

      Éviter les personnages trop politiques et représenter la diversité

      « Nous évitons les personnes vivantes, pour ne pas avoir de problèmes », poursuit l’étudiant de l’UHA. En effet, la décision peut s’avérer délicate, notamment lorsque la personnalité se politise comme a pu en faire l’expérience l’Université de Lille.

      « Christiane Taubira devait être invitée pour inaugurer un amphi à son nom, mais il s’est avéré que c’était au moment où elle se lançait en politique. Nous avons préféré mettre les choses en pause pour des questions éthiques », explique Hermeline Pernoud. Il faut dire que l’instigatrice même du projet, Sandrine Rousseau, est aujourd’hui députée écologiste après une tentative à la primaire du parti politique Europe écologie les verts en 2021.

      Autre critère pour l’Université de Lille : proposer aussi des noms de femmes non blanches. À ce sujet, il reste du chemin à parcourir chez les hommes également. C’est pourquoi l’établissement a inauguré, en février dernier, sur le campus de Moulin, une salle en hommage au Chevalier Saint-Georges.
      Débaptiser pour renommer : sujet tabou ?

      Pour Pierre-Alain Muller, le président de l’UHA, s’exprimant dans l’Alsace en mai, il n’est pas question de « débaptiser » les amphis qui portent des noms d’hommes. Alexandre Renard remarque : « La décision se fera avec les composantes. Il y a un seul cas où la question de pose, pour la fac de lettres et sciences humaines : trois amphis portent des noms de physicien, ingénieur… Des personnalités qui ne sont pas en lien avec la thématique. »

      Les universités de Lille et Strasbourg s’accordent également sur le fait de choisir des lieux désignés par des chiffres et seulement en dernier recours des noms d’hommes. Pourtant, à l’Université de Lille la problématique risque de se poser : « En médecine il n’y a que des noms d’hommes. Sur le campus de Roubaix, où les bâtiments sont neufs, nous pourrons sûrement en profiter pour mettre des noms féminins, mais, à terme, il faudrait une parité sur tous les sites », souligne Hermeline Pernoud.

      En pratique, une décision qui n’est pas anodine

      Si renommer moins d’une vingtaine de lieux peut sembler bien peu - et largement insuffisant pour atteindre la parité - ce n’est en réalité pas une mince affaire pour les équipes.

      « Je travaille en collaboration avec le vice-président patrimoine, Nicolas Matt, car la partie pratique est la plus difficile, souligne Isabelle Kraus. La direction des affaires logistiques intérieures a dû recenser les noms et le département du patrimoine et de l’immobilier se penche sur l’aspect logistique. Car renommer un amphi ce n’est pas juste poser une plaque : tous les documents, avec les arrivées d’eau et d’électricités, doivent être modifiés ainsi que le logiciel de planning pour l’occupation des salles. Sans l’adhésion du personnel, cela n’aurait pas été possible. »

      Après la consultation, continuer à faire vivre les noms

      Après la fin de la consultation, les premiers baptêmes à l’Unistra sont prévus pour la rentrée 2023-2024 avec l’organisation d’un événement collectif pour dévoiler les huit noms et présenter ces profils. Une plaque avec un résumé de chaque parcours sera également apposée.

      « Les propositions soumises lors de la consultation pourront servir de banque de données pour les années futures. Nous allons reconduire la consultation l’année prochaine, c’est loin d’être fini ! », ajoute Isabelle Kraus.

      Du côté de la Communauté des terres de l’Est, après la période creuse de l’été, la campagne sera relancée à la rentrée. « Le but est ensuite de faire les inaugurations progressivement, pour que chaque inauguration soit accompagnée d’une campagne expliquant le choix du nom », précise Axel Renard.

      À l’Université de Lille, pourtant pionnière avec une inauguration au nom de Laurence Bloch, journaliste à France Inter, dès 5 mars 2020, les événements ont pris du retard et après de nombreux reports, liés à la crise sanitaire, les changements de présidence et plus récemment les grèves ou encore des problématiques en interne, aucune date n’est fixée.

      « Nous devons encore nous accorder sur des détails techniques comme le choix des plaques, de l’affichage : faut-il percer le mur ? Il faut désormais que les différents campus s’emparent de la question », espère Hermeline Pernoud.

      https://www.campusmatin.com/vie-campus/rse-developpement-durable/pratiques/des-amphis-aux-noms-de-femmes-ces-universites-s-emparent-de-la-question