• Prison N°5

    À travers le récit de son #emprisonnement en #Turquie, #Zehra_Dogan, journaliste et artiste, parle de l’histoire et de l’oppression du peuple kurde, mais aussi de solidarité et de résistance de toutes ces femmes enfermées.
    Ce livre est le fruit d’une détermination, transformant un emprisonnement en une résistance. Zehra Dogan, artiste kurde condamnée pour un dessin et une information qu’elle a relayés, fut jetée dans la prison n°5 de Diyarbakir, en Turquie. Elle nous immerge dans son quotidien carcéral. Découvrir le passé de ce haut lieu de persécutions et de résistances, c’est connaître la lutte du peuple kurde.

    https://www.editions-delcourt.fr/bd/series/serie-prison-n-5/album-prison-n-5
    #BD #bande_dessinée #livre

    #Kurdes #résistance #auto-gestion #syndrome_de_Nusaybin #Kurdistan_turc #guerre #violence #armée_turque #couvre-feu #destruction #Sur #massacres #Cizre #Silopi #villes #PKK #Öcalan #révolte_de_Dersim #révolte_de_Kocgiri #révolte_de_Koçgiri #Cheikh_Saïd #torture #terrorisme #Kenan_Evren #Esat_Oktay_Yildray #assimilation #quartier_35 #Osman_Aydin #résistance #uniforme #tenue_unique #Sakine_Causiz #impunité #discriminations #exil_forcé #IDPs #déplacées_internes #identité #langue #exploitation #enlèvements #enlèvements #Hasan_Ocak #Mères_du_Samedi #montagne #guérilla #Kurdistan #Mères_de_la_paix #paix #violences_policières #ring_bleu #prison_de_Tarse #enfants #femmes

    (BD très très dure, mais un document historique incroyable)

  • Lettre à Piero… d’ici et d’ailleurs

    Jacques Philipponneau

    https://lavoiedujaguar.net/Lettre-a-Piero-d-ici-et-d-ailleurs

    Mon cher Piero, je reprends cette lettre abandonnée depuis plus de deux mois car le naufrage a pris une tournure grandiose après ce torpillage viral inattendu, loin de la légèreté de mes derniers propos. On s’abstiendra du « je vous l’avais bien dit » si courant, puisque tant de voix l’avaient clamé de diverses manières et depuis si longtemps. Et l’on s’évitera ainsi l’odieux de la vanité prémonitoire devant les immenses souffrances qui ne font que commencer.

    Laissons aussi de côté ce que tout le monde croit savoir maintenant sur la responsabilité systémique d’un mode de production invasif dans l’origine et la diffusion fulgurante de ce virus ou sur l’incapacité générale des États à faire face à leurs Frankenstein, échappés d’une forêt ou d’un laboratoire : si vous avez aimé les virus tropicaux, vous adorerez ceux de la fonte du permafrost.

    Et c’est désormais tout un chacun sur cette planète qui vit ou meurt au croisement d’insondables mystères. Les insinuations simultanées des États-Unis, de la Grande-Bretagne et de la France au début avril sur la dissimulation chinoise quant à l’origine du virus peuvent très bien être un leurre servant à les dédouaner de leur propre gestion catastrophique de l’épidémie. (...)

    #Syrie #Rojava #PKK #Öcalan #Bachar_el-Assad #Italie #terrorisme #Gilets_jaunes #Macron #Warren_Buffet #aliénation #Australie #effondrement #Alexandre_Grothendieck #collapsologie #État #catastrophe #pandémie #capitalisme #bureaucratie #surveillance_numérique #police #Agamben #économie #Byung-Chul_Han

  • Aux côtés du peuple kurde

    Pierre Bance

    https://lavoiedujaguar.net/Aux-cotes-du-peuple-kurde

    André Métayer
    Vingt-cinq années aux côtés du peuple kurde
    Histoire des Amitiés kurdes de Bretagne (1994-2019)

    Pourquoi s’intéresser aux Kurdes ? Pour le présent, ce ne sont pas les Kurdes par eux-mêmes qui intéressent, mais leur révolution au Rojava. Ainsi depuis sept ou huit ans, la cause kurde suscite de la curiosité en France. Encore ne faut-il pas exagérer, cet intérêt n’est souvent que compassionnel, quand il ne s’égare pas dans une exaltation qui risque fort d’être refroidie par la réalité.

    Il en est dont l’engagement est plus ancien et dont la durée assure de sa solidité. En des temps où nul ne connaissait le Rojava, où le Parti des travailleurs du Kurdistan (PKK) était suspecté de stalinisme, bien avant son abandon du marxisme-léninisme et du nationalisme dans les années 2000. Des temps, où Abdullah Öcalan, son leader, était encore libre, avant d’être kidnappé par les services secrets américains et turcs en 1999, puis emprisonné à vie dans une île de la mer de Marmara. C’était en 1994. Un petit groupe venu de Bretagne visite le Kurdistan de Turquie. Parmi eux, André Métayer. Ce qui n’aurait pu être que du tourisme militant va se muer en un engagement sous le coup de l’émotion. De ses yeux, voir un village détruit par l’armée turque comme le furent quelque quatre mille autres dans ces années de plomb, voir un peuple entier terrorisé dans ses villes et ses campagnes par la violence militaire et policière, bouleversa ces voyageurs qui prirent la résolution de se solidariser avec ces Kurdes qui paraissaient d’éternels vaincus alors qu’ils étaient d’éternels résistants. (...)

    #Kurdes #Bretagne #Turquie #résistance #amitié #solidarité #PKK #Öcalan #Erdoğan #Rojava #Moyen-Orient

  • « 7 giorni con i curdi » : il mio diario dal campo profughi di #Makhmour

    Una settimana nell’Iraq settentrionale per toccare con mano un modello di democrazia partecipata messo in piedi da 13mila profughi. Che sperano in un futuro diverso.

    Questi non sono appunti di viaggio, ma di un’esperienza in un campo profughi che in questi mesi è diventato un campo di prigionia. Il campo di Makhmour è sorto nel 1998, su un terreno arido assegnato dall’Iraq all’ONU per ospitare i profughi di un viaggio infinito attraverso sette esodi, dopo l’incendio dei villaggi curdi sulle alture del Botan nel 1994 da parte della Turchia.

    Niente di nuovo sotto il sole, con Erdogan.

    Quei profughi hanno trasformato quel fazzoletto di terra senza un filo d’erba in un’esperienza di vita comune che è diventata un modello di democrazia partecipata del confederalismo democratico, l’idea di un nuovo socialismo elaborata da Apo Ocalan nelle prigioni turche, attorno al pensiero del giovane Marx e di Murray Bookchin.

    Il campo di Makhmour non è un laboratorio, è una storia intensa di vita.

    Da vent’anni questi tredicimila profughi stanno provando a realizzare un sogno, dopo aver pagato un prezzo molto, troppo elevato, in termini di vite umane. Nel campo vi sono tremilacinquecento bambini e il 70% della popolazione ha meno di 32 anni. La loro determinazione a vivere una vita migliore e condivisa ha superato finora tutti gli ostacoli. Anche l’assalto da parte dell’ISIS, respinto in pochi giorni con la riconquista del campo. Il loro campo.

    Da alcuni mesi sono sottoposti a un’altra dura prova. Il governo regionale del Kurdistan iracheno ha imposto, su istigazione del regime turco, un embargo sempre più restrittivo nei loro confronti. Nessuno può più uscire, né per lavoro né per altri motivi.

    Siamo stati con loro alcuni giorni, in un gruppo di compagni e compagne dell’Associazione Verso il Kurdistan, condividendo la loro situazione: dalla scarsità di cibo, che si basa ormai solo sull’autoproduzione, alla difficoltà di muoversi al di fuori del perimetro delimitato e dimenticato anche dall’ONU, sotto la cui tutela il campo dovrebbe ancora trovarsi.

    Le scritte dell’UNHCR sono sempre più sbiadite. In compenso, le scritte e gli stampi sui muri del volto e dello sguardo di Apo Ocalan sono diffusi ovunque.

    Anche nella Casa del Popolo in cui siamo stati ospiti, dormendo per terra e condividendo lo scarso cibo preparato con cura dagli uomini e dalle donne che ci ospitavano.

    Ma per noi ovviamente questo non è nulla, vista la breve temporaneità della nostra presenza. Per loro è tutto.

    In questi anni hanno provato a trasformare il campo nella loro scelta di vita, passando dalle tende alla costruzione di piccole unità in mattoni grigi, quasi tutte con un piccolo orto strappato al deserto. E, in ogni quartiere, con l’orto e il frutteto comune.

    Ci sono le scuole fino alle superiori, con un un indirizzo tecnico e uno umanistico, suddivise in due turni per l’alto numero degli alunni. Fino a tre mesi fa, terminate le superiori, potevano andare all’università a Erbil, il capoluogo del Kurdistan iracheno.

    Al mattino li vedi andare a scuola, a partire dalle elementari, con la camicia bianca sempre pulita e i pantaloni neri. E uno zaino, quando c’è, con pochi libri essenziali. Ragazzi e ragazze insieme: non è per niente scontato, in Medio Oriente.

    Durante le lezioni non si sente volare una mosca: non per disciplina, ma per attenzione. Non vanno a scuola, per decisione dell’assemblea del popolo, per più di quattro ore al giorno, proprio per evitare che il livello di attenzione scenda fino a sparire. Dovrebbe essere una cosa logica ovunque, ma sappiamo bene che non è così, dove si pensa che l’unico obiettivo sia accumulare nozioni. Le altre ore della giornata sono impegnate in diverse attività di gruppo: dalla cultura al teatro, dalla musica allo sport, autoorganizzate o seguite, in base all’età, da giovani adulti che hanno studiato e che non possono vedere riconosciuto il loro titolo. Perché sono persone senza alcun documento, da quando sono state cacciate dalla loro terra.

    Tenacemente, soprattutto le donne svolgono queste attività, lavorando alla formazione continua per ogni età, dai bambini agli anziani.

    Difficile è capire, se non si tocca con mano, il livello di protagonismo delle donne nell’Accademia, nella Fondazione, nell’Assemblea del popolo, nella municipalità e nelle altre associazioni.

    Si sono liberate dai matrimoni combinati e hanno eliminato il fenomeno delle spose bambine: non ci si può sposare prima dei 18 anni.

    Tutto viene deciso assemblearmente, tutto viene diviso equamente.

    Uno slancio di vitalità comune, in un dramma che dura da vent’anni e in un sogno di futuro che richiede anche di essere difeso, quando necessario, con le armi.

    I giovani armati vegliano sul campo dalle montagne.

    Questo esperimento di democrazia partecipata negli ultimi anni è stato adottato in Rojava, la parte di Siria abitata prevalentemente dal popolo curdo e liberata con il contributo determinante delle donne: un’esperienza da seguire e da aiutare a rimanere in vita, soprattutto in questo momento in cui la Turchia vuole distruggerla.

    Lì abitano tre milioni di persone, le etnie e le religioni sono diverse. Eppure il modello del confederalismo democratico sta funzionando: per questo rappresenta un esempio pericoloso di lotta al capitalismo per i regimi autoritari ma anche per le cosiddette democrazie senza contenuto.

    Nel caos e nel cuore del Medio Oriente è fiorito di nuovo un sogno di socialismo. Attuale, praticato e condiviso.

    Dobbiamo aiutarlo tutti non solo a sopravvivere e a resistere all’invasione da parte della Turchia, ma a radicarsi come forma di partecipazione attiva ai beni comuni dell’uguaglianza e dell’ecologia sociale e ambientale.

    L’obiettivo della missione era l’acquisto a Erbil e la consegna di un’ambulanza per il campo. Non è stato facile, vista la situazione di prigionia in cui vivono gli abitanti, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Il giorno dopo la nostra partenza è stato impedito dal governo regionale l’ingresso a un gruppo di tedeschi, con alcuni parlamentari, che doveva sostituirci.

    Di seguito trovate gli appunti sugli incontri, dal mio punto di vista, più significativi.

    Mercoledì 2 ottobre: il protagonismo delle donne

    Al mattino partecipiamo all’incontro delle madri al Sacrario dei caduti. Sala piena, chiamata a convalidare i risultati dell’assemblea di sabato scorso. Interviene Feliz, una giovane donna copresidente dell’assemblea del popolo, che ci sta accompagnando negli incontri in questi giorni. Il suo è un intervento forte, da leader politico. Questa ragazza è sempre in movimento, instancabile. Attorno, sulle pareti, spiccano le fotografie di almeno millecinquecento uomini e donne, spesso giovani, morti nelle varie lotte di difesa del campo. Millecinquecento su dodicimila abitanti: praticamente non esiste una famiglia che non sia stata coinvolta nella difesa drammatica dei valori comuni. Anche da qui si capisce l’identità forte dei sentimenti condivisi di una comunità.

    Le donne elette per rappresentare l’Associazione si impegnano a rispettarne i principi, tra cui difendere i valori della memoria e non portare avanti interessi personali o familiari.

    Sempre in mattinata, andiamo alla sede della Fondazione delle donne. Gestiscono cinque asili, una sartoria e l’atelier di pittura. La loro sede è stata rimessa a nuovo dopo la distruzione avvenuta nei giorni di occupazione dell’ISIS. Sulla parte bianca, spicca una frase di Apo Ocalan: “Con le nostre speranze e il nostro impegno, coltiviamo i nostri sogni”. L’impegno principale della Fondazione è per il lavoro e la dignità di donne e bambini. Nei loro laboratori sono impegnate sessanta persone. Seguono poi duecento giovani, bambini e ragazzi, dai sei ai diciassette anni, al di fuori dell’orario scolastico, che si autoorganizzano autonomamente: decidono insieme giochi, regole, organizzano teatri e feste.

    La Fondazione è gestita collettivamente, da un coordinamento, che si trova una volta alla settimana; una volta all’anno l’assemblea generale fa il punto sui risultati, i problemi, le prospettive.

    Vengono seguite anche le famiglie con problemi e si affrontano anche le situazioni di violenza domestica, ricomponibili anche con il loro intervento. Per le situazioni più drammatiche e complesse si porta il problema all’assemblea delle donne, che decide in merito. Ma il loro lavoro sul riconoscimento, il rispetto e il protagonismo delle donne avviene con tutti, anche con gli uomini, e si svolge ovunque, anche con l’educativa di strada.

    La promotrice della Fondazione, Sentin Garzan, è morta combattendo in Rojava. A mezzogiorno siamo ospiti di un pranzo preparato da chi lavora al presidio ospedaliero.

    Nel tardo pomeriggio, in un clima dolce e ventilato con vista sulla pianura e la cittadina di Makhmour, incontriamo l’Accademia delle donne. Tutto, o quasi, al campo di Makhmour, parla al femminile. Bambini e bambine giocano insieme. Le ragazze e le donne giovani non portano nessun velo, se non, a volte, durante le ore più calde della giornata. Ma è un fatto di clima, non di costume o di storia o di costrizione. Le donne più anziane portano semplici foulards.

    All’Accademia le ragazze molto giovani, in particolare psicologhe, sociologhe, insegnanti. Ma soprattutto militanti.

    Per comprendere una storia così intensa, bisogna partire dalle origini del campo, costituito, dopo sette peregrinazioni imposte a partire dal 1995, nel 1998 da rifugiati politici della stessa regione montuosa del Kurdistan in Turchia, il Botan.

    Dopo, si sono aggiunti altri rifugiati. La loro è la storia intensa dell’esodo, con i suoi passaggi drammatici. Ma anche con l’orgoglio dell’autoorganizzazione.

    Le donne dell’Accademia ci parlano del lungo e faticoso percorso svolto dall’inizio dell’esodo fino a oggi. Una delle figure di riferimento più importanti rimane Yiyan Sîvas, una ragazza volontaria uccisa nel 1995 nel campo di Atrux, uno dei passaggi verso Makhmour.

    Era molto attiva nella lotta per i diritti civili e sociali. Soprattutto delle donne. E nella difesa della natura: anticipava i tempi.

    Yiyan Sîvas è stata uccisa, colpita al cuore in una manifestazione contro un embargo simile a quello attuale. Il vestito che indossava, con il buco del proiettile e la macchia di sangue rappreso, è custodito gelosamente nella sede dell’Accademia, aperta nel 2003.

    All’Accademia si occupano di formazione: dall’alfabetizzazione delle persone anziane che non sanno leggere e scrivere, all’aiuto nei confronti di chi incontra difficoltà a scuola, lavorando direttamente nei quartieri.

    Ma il loro scopo principale è la formazione attraverso i corsi di gineologia (jin in curdo significa donna), sulla storia e i diritti di genere; e sulla geografia, che parla da sola delle loro origini. Si confrontano con le differenze, per far scaturire il cambiamento. Che consiste in decisioni concrete, prese dall’assemblea del popolo, come l’abolizione dei matrimoni combinati, il rifiuto del pagamento per gli stessi, il divieto del matrimonio prima dei diciotto anni.

    Per una vita libera, l’autodifesa delle donne è dal maschio, ma anche dallo Stato. Sono passaggi epocali nel cuore del Medio Oriente.

    «Se c’è il problema della fame», dice una di loro, «cerchi il pane. Il pane, per le donne in Medio Oriente, si chiama educazione, protagonismo, formazione. Che è politica, culturale, ideologica. Con tutti, donne e uomini».

    L’Accademia forma, l’Assemblea decide: è un organismo politico. Che si muove secondo i principi del confederalismo democratico, il modello di partecipazione ideato da Apo Ocalan, con riferimento al giovane Marx da una parte e a Murray Bookchin, da “L’Ecologia della Libertà”, a “Democrazia diretta” e a “Per una società ecologica. Tesi sul municipalismo libertario”.

    Ma il confederalismo democratico conosce una storia millenaria. Appartiene alla tradizione presumerica, che si caratterizzava come società aperta: con la costruzione sociale sumerica è iniziata invece la struttura piramidale, con la relativa suddivisione in caste.

    Si parla di Mesopotamia, non di momenti raggrinziti in tempi senza storia.
    Giovedì 3 ottobre: il confederalismo democratico

    Questa mattina incontriamo i rappresentanti dell’Assemblea del popolo. Ci sono la copresidente, Feliz, e alcuni consiglieri. Verso la fine della riunione arriva anche l’altro copresidente, reduce dal suo lavoro di pastore. Di capre e, adesso, anche di popolo.

    Feliz spiega i nove punti cardine del confederalismo democratico:

    La cultura. Si può dire che nel campo di Makhmour da mattina fino a notte si respira cultura in tutte le sue espressioni e a tutte le età;
    La stampa, per diffondere le idee, i progetti e le iniziative che il campo esprime;
    La salute: da qui l’importanza del presidio ospedaliero e dell’attività di informazione e prevenzione;
    La formazione, considerata fondamentale per condividere principi, valori e stili di vita comuni;
    La sicurezza della popolazione: la sicurezza collettiva garantisce quella individuale, non viceversa;
    I comitati sociali ed economici per un’economia comune e anticapitalista;
    La giustizia sociale;
    La municipalità, quindi il Comune, con sindaca, cosindaco o viceversa, con il compito di rendere esecutivi i progetti decisi dall’Assemblea; e, insieme, alla municipalità, l’ecologia sociale, considerata come un carattere essenziale della municipalità.
    L’ecologia sociale va oltre l’ecologia ambientale: è condizione essenziale per il benessere collettivo;
    La politica.

    Ognuno di questi punti viene declinato nelle cinque zone del campo, ognuna composta da quattro quartieri. Il confederalismo democratico parte da lì, dai comitati di quartiere, che si riuniscono una volta alla settimana e ogni due mesi scrivono un rapporto su problemi e proposte, scegliendo alcune persone come portavoce per l’Assemblea del popolo.

    L’Assemblea del popolo è composta dalla presidente, dal copresidente e da 131 consiglieri. Presidente e copresidente sono presenti tutti i giorni, a tempo pieno.

    Le cariche durano due anni, rinnovabili per un mandato. La municipalità viene eletta dal popolo. Non sempre è facile arrivare alle decisioni, perché tutto deve essere condiviso.

    L’incontro non è formale: si discute infatti di come utilizzare il luogo individuato per l’ospedale, a partire dall’ampliamento del poliambulatorio. Si tratta di coprire la struttura e, allo stesso tempo, di decidere come utilizzare gli spazi, visto che sono troppo grandi per un ospedale di comunità. Viene esclusa l’ipotesi della scuola per la dimensione dei locali; vengono prese in considerazione altre ipotesi, come la nuova sede per le attività dell’Associazione che si prende cura dei bambini down, che ha elaborato un proprio progetto, e il laboratorio di fisioterapia. Ma il primo passo, concreto, è l’avvio dei lavori per la copertura della struttura.

    Il confederalismo democratico ritiene che le comunità, per poter coinvolgere tutti, debbano avere una dimensione ottimale di diecimila persone. Il campo è abitato da tredicimila persone e il modello, con le sue fatiche, funziona.

    Il modello in questi anni è stato adottato in Rojava, dove vi sono oltre tre milioni di persone di etnie diverse e lì il banco di prova è decisivo. Se la Turchia non riuscirà a distruggerlo.

    Ma chi lo ha proposto e lo vive non solo ci crede, lo pratica con la grande convinzione che sia il modo per cambiare dalla base la struttura sociale del Medio Oriente.

    Venerdì 4 ottobre: Incontro con “M”

    Incontriamo una rappresentante che ci parla delle donne che hanno combattuto a Kobane. Nel suo racconto, nell’analisi della situazione e nella valutazione delle prospettive, alterna passaggi piani a momenti di forte impatto emotivo.

    Si parla del protagonismo delle donne nella liberazione del Rojava. «La guerra non è mai una bella cosa», racconta, «ma la nostra è stata, è una guerra per l’umanità. Per la difesa della dignità umana. Le donne sono partite in poche: quattro o cinque di nazionalità diverse, ma unite dall’idea che fosse necessario armarsi, addestrarsi e combattere l’oppressione e il fondamentalismo per affermare la possibilità di una vita migliore. Per le donne, ma anche per gli uomini». Per tutti.

    «A Kobane la popolazione aveva bisogno di essere difesa dall’attacco dell’ISIS: da un problema di sicurezza è scaturita una rivoluzione vera. Una rivoluzione che non è solo curda, o araba, ma è una rivoluzione popolare, che sta costruendo un nuovo modello di democrazia partecipata».

    In Medio Oriente, cuore della Terza Guerra Mondiale scatenata dai conflitti interni e orchestrata dalle potenze mondiali.

    «Quando ci si crede, si può arrivare a risultati impensabili. Non importava essere in poche. All’inizio non è stato facile, nel rapporto con le altre donne: per la prima volta si trovavano davanti alla scelta della lotta armata in prima persona, dal punto di vista femminile. Poi hanno compreso, quando hanno visto le loro figlie venire con noi, crescere nella consapevolezza e nella determinazione per organizzare la resistenza popolare. L’organizzazione popolare è diventata determinante, non solo a Kobane, ma in tutto il Rojava.

    Le donne, quando vogliono raggiungere un obiettivo, sono molto determinate. E sono molto più creative degli uomini.

    Così hanno trasformato una guerra di difesa in una possibilità di cambiamento rivoluzionario, in cui tutti possono partecipare alla costruzione di un destino comune, provando a superare anche le divisioni imposte nei secoli dalle diverse religioni». Nel caos del Medio Oriente, dove in questo momento l’Iraq è di nuovo in fiamme.

    «Oggi il nemico per noi rimane l’ISIS: l’YPG (la nostra formazione guerrigliera maschile) e l’YPJ (la nostra formazione guerrigliera femminile) lo hanno sconfitto, ma rimangono sacche sparse dell’ISIS e cellule dormienti all’interno dei territori liberati. Il nemico però è soprattutto la Turchia, la cui strategia sullo scacchiere del Medio Oriente, dove tutte le potenze mondiali vogliono dare scacco al re, è l’occupazione della striscia di terra che corre sotto il confine con la Siria e che collega storicamente l’Occidente e l’Oriente.

    Questo territorio è il Rojava: per questo il regime di Erdogan vuole distruggerci. Sostiene, come ad Afrin, di volersi presentare con il ramoscello d’ulivo: in realtà, ad Afrin ha portato forme di repressione sempre più aspre, nuove forme di violenza etnica, una nuova diffusione dei sequestri di persona. Per arrivare al suo obiettivo, la Turchia sta costruendo un altro ISIS, come ha fatto con l’originale. Solo una parte delle tre milioni di persone presenti in Turchia è costituita da profughi: sono quelli che il regime vuole cacciare e spinge a viaggi disperati e rischiosi verso l’Europa. Gli altri sono integralisti, diretti o potenziali, che il regime di Erdogan intende tenere, avviandoli a scuole di formazione religiosa e militare, fino a quando li manderà di nuovo in giro a seminare il terrore.

    La Turchia utilizza i miliardi di dollari forniti dall’Europa per ricostituire un nuovo ISIS da utilizzare nello scenario della Terza Guerra mondiale». La vecchia strategia di destabilizzare per stabilizzare con il terrore.

    «La Turchia utilizza la Russia, la Russia la Turchia, la Turchia gli Europei. L’Europa, aiutando la Turchia, sta diffondendo dei nuovi veicoli di infezione.

    La vittima designata è il popolo curdo, ma il popolo curdo ha la testa dura.

    La minaccia principale incombe sul territorio libero del Rojava, dove è in corso un esperimento concreto di confederalismo democratico, con la partecipazione di tutte le etnie. Lo stiamo facendo con un forte impegno e una grande fatica, ma questa è la via per portare una vita migliore in una regione devastata dai conflitti etnici e religiosi, interni e scatenati dall’esterno».

    Particolarmente importante, in questa situazione, è la condizione della donna. «Quando le condizioni della donna migliorano, migliora la situazione per tutti, perché vincono i principi e l’ideologia della vita contro i nazionalismi e le strumentalizzazioni del capitalismo internazionale.

    Prima tutti dicevano di volerci dare una mano. Ma la memoria di molti è troppo corta. Le organizzazioni umanitarie ufficiali si schierano sempre con gli Stati, non con i movimenti di liberazione.

    Il nostro obiettivo è mantenere il Rojava libero di fronte alla minaccia dell’occupazione. Dobbiamo sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale attorno a questa nuova speranza per il Medio Oriente e costruire un ponte tra il Kurdistan e l’Europa.

    Il potere della società è come un fiume che, scorrendo, cresce in maniera sempre più ampia. Noi vogliamo resistere per creare una vita migliore.

    Voi, delle associazioni non legate al potere degli Stati, potete aiutarci contribuendo a diffondere le nostre idee, la nostra esperienza, la nostra storia».

    Sabato 5 ottobre: incontro con i giovani che difendono il campo

    Nel tardo pomeriggio incontriamo la Guardia Armata del Campo. Ci raccontano che dopo il bombardamento con i droni dell’aprile scorso, non ci sono state altre incursioni da parte dei turchi. La tensione però rimane alta anche perché nelle vicinanze ci sono ancora gruppi sparsi dell’Isis. Facciamo qualche domanda a proposito della loro vita. Ci dicono che chi si dedica alla causa curda può arruolarsi dai 18 anni in poi, anche per sempre. Se si vuol lasciare un impegno così pieno si può farlo senza problemi, anche se i casi sono rari.

    Li vediamo al tramonto. Appartengono alla formazione che ha liberato Makhmour e soprattutto Kirkuk, dove i peshmerga, l’organizzazione armata del governo regionale del Kurdistan iracheno, si trovavano in difficoltà e stavano per essere sopraffatti dall’avanzata dell’ISIS.

    A Makhmour hanno liberato sia il campo che la città, sede del più grande deposito di grano dell’Iraq. Poi sono tornati sulle montagne.

    Con noi parla con grande convinzione uno dei ragazzi, il portavoce: gli altri condividono con gesti misurati le sue parole. Nessuno di loro ha più di venticinque anni, ma tutti e tre ne dimostrano meno.

    Il ragazzo dice che la loro scelta è stata spontanea, e che li guida l’idea della difesa del popolo dall’oppressione degli Stati: non solo quelli che incombono sul popolo curdo (Turchia, Siria, Iraq, Iran), ma sul popolo in generale. In questi giorni stanno dalla parte delle proteste popolari contro il governo che sono in atto a Bagdad: la loro lotta è contro il capitalismo e durerà fino all’affermazione del socialismo che, nella loro visione, oggi si esprime attraverso il confederalismo democratico.

    L’atmosfera è coinvolgente. Sotto, nella pianura, le prime luci si diffondono sul campo. Sopra, sulla montagna, loro proteggono e tutelano la serenità di bambini, donne e uomini.

    I bambini del campo sono tanti e cantano insieme con un’allegria contagiosa, a ripetere giochi antichi e sempre attuali: insieme, bambini e bambine.

    Loro si alzano alle quattro, poi dedicano il mattino alla formazione politica e all’addestramento fisico per chiudere la giornata con l’addestramento militare. Militanti a tempo pieno.

    Sono convinti che o il futuro del mondo è il socialismo come forma di democrazia diretta e partecipata, o sarà solo morte e distruzione, come da troppi anni è in Medio Oriente, in mano alle oligarchie di potere manovrate dagli interessi del capitalismo internazionale.

    Alla domanda se non li ferisce il fatto che la propaganda turca e di altri Paesi occidentali li chiama terroristi, la loro risposta è: «A noi interessa quello che pensa il popolo, non quello che dicono questi signori».

    Nella quotidianità questi ragazzi non conoscono giorni di riposo o di vacanza, hanno sporadici rapporti con le famiglie per motivi di sicurezza, non sono sposati.

    Proprio adesso, nel momento dell’incontro, dalla pianura salgono le musiche popolari di un matrimonio, alla cui festa vanno tutti quelli che vogliono partecipare, con le danze tradizionali e i costumi rivisitati in chiave attuale.

    Ieri, a un altro matrimonio, ci siamo stati anche noi. Si respirava un’aria autentica, come erano queste feste anche in Occidente prima di diventare un’espressione inautentica di lusso ostentato e volgare.

    I giovani guerriglieri intendono continuare fino a quando momenti come questo, di partecipazione popolare, saranno la regola di pace e non l’eccezione in un clima di guerra.

    Nelle parole e nei gesti sono sobri e austeri, quasi oltre la loro età.

    Dopo un’ora si alzano dalle rocce su cui ci siamo trovati e, dopo averci salutato con un abbraccio intenso, si avviano verso la montagna, veloci e leggeri.

    Non esibiscono le armi; appartengono loro come uno strumento di difesa e di protezione. Come il bastone del pastore, che vigila sul suo gregge.

    Non sono ombre, ma appaiono solari nel tramonto che scende lentamente verso la Siria.
    Domenica 6 ottobre: l’uscita dal campo

    Oggi tocchiamo con mano che cosa vuol dire l’embargo per il campo di Makhmour imposto dal governo regionale del Kurdistan iracheno, in accordo con la Turchia. Il popolo del campo da tre mesi non può uscire, né per lavoro, né per altri motivi. Il rappresentante delle relazioni esterne ha chiesto il permesso per poterci accompagnare fino a Erbil, ma il permesso è stato negato. Potranno accompagnarci solo fino al primo check point, dove ci aspettano dei tassisti della città di Makhmour. Da lì in avanti è una sequenza di controlli: sbrigativi quelli ai due posti di controllo iracheni, sempre più lunghi e insistenti ai tre posti di controllo del governo regionale.

    Tra il campo e l’esterno è stata posta una serie di barriere a ostacoli.

    Ci vogliono oltre due ore per arrivare ad Erbil, dove arriviamo in un normale albergo dopo dieci notti sul pavimento della casa del popolo. Non mi piace per nulla questo passaggio: ho già nostalgia di quei giorni, con il poco cibo curato con grande attenzione, e di quelle notti in sette per stanza, su dei tappeti stesi a terra.

    Lucia e altri compagni del gruppo vanno a chiudere la pratica di acquisto dell’autoambulanza. Finalmente, dopo giorni estenuanti per la difficoltà di comunicare con l’esterno dal campo. La pratica viene risolta subito e inaspettatamente, anche con l’aiuto di alcuni compagni dell’HDP, il partito di sinistra nel Kurdistan iracheno. L’ambulanza, nuovissima, viene portata dallo stesso concessionario, una persona sensibile alla questione curda, al campo (lui, essendo un cittadino di Erbil, può muoversi), dove un video registra l’ingresso al presidio ospedaliero. Missione compiuta.

    Con gli altri del gruppo andiamo a fare un giro in città, verso la cittadella. Ma Erbil mi ricorda troppo il nostro mondo, tra l’inquinamento dei pozzi petroliferi alla periferia, le centinaia di autocisterne in fila per il rifornimento, un traffico caotico. Unica differenza con le città occidentali, il suk mischiato alle firme della moda che hanno infettato le città di tutti i continenti. Torno in albergo e guardo lo scorrere delle code dalle vetrate: ho bisogno ancora di una barriera per affrontare questo mondo. Se è ancora un mondo.
    Lunedì 7 ottobre: la differenza

    Saliamo in gruppo alla cittadella di Erbil, patrimonio mondiale dell’Unesco. La più antica cittadella fortificata del mondo, costruita su undici strati successivi. Incontriamo il direttore del sito, che ci accoglie come dei vecchi amici e ci porta a visitare i luoghi ancora chiusi al pubblico per i lavori di scavo.

    Parla fluentemente tedesco e inglese, ha abitato in Germania; poi, in piena guerra, nel 2002 è stato chiamato a ricoprire il ruolo di sindaco della città.

    Lo ha fatto fino al 2016. Erbil ha più di un milione di abitanti, il Kurdistan iracheno non supera i quattro milioni di abitanti. Eppure negli anni scorsi sono stati accolti oltre due milioni di profughi fuggiti di fronte all’avanzata dell’ISIS. E loro li hanno ospitati senza alcun problema. E chi ha voluto rimanere, è rimasto. Mi viene in mente che da noi, noi?, si parla indecentemente di invasione di fronte a poche migliaia di migranti che rischiano la vita attraversando il mare. C’è chi guarda avanti, e forse ha un futuro; e c’ è chi non sa guardare da nessuna parte, e non ha passato, presente e futuro.

    Nella notte tra il 7 e l’8 ottobre si parte. Verso la notte dell’Occidente.

    https://valori.it/curdi-diario-viaggio-campo-profughi
    #camp_de_réfugiés #camps_de_réfugiés #Kurdes #Irak #réfugiés_kurdes #asile #migrations #réfugiés #Öcalan #Apo_Ocalan #Ocalan #Confédéralisme_démocratique #utopie #rêve #jardins_partagés #agriculture #éducation #écoles #jardins_potagers #formation_continue #femmes #démocratie_participative #égalité #écologie_sociale #Assemblée_du_peuple #Rojava #Kurdistan_irakien

  • « Au sein de la révolution kurde »
    Entretien avec deux anarchistes

    http://lavoiedujaguar.net/Au-sein-de-la-revolution-kurde

    Entretien mené en 2015 en Allemagne avec deux membres d’un réseau anarchiste international qui ont passé du temps au Bakur (Kurdistan du Nord), leur permettant ainsi d’en apprendre plus sur les luttes se déroulant là-bas.

    (...) En plus des unités militaires autonomes, les femmes kurdes ont également formé des comités sociaux et politiques pour discuter du problème de l’oppression patriarcale. Aujourd’hui, la tête dirigeante du mouvement des femmes est le Komalen Jinen Kurdistan (KJK), la Confédération des femmes au Kurdistan, qui fait partie du KCK, la confédération générale, mais prend des décisions de manière autonome. En outre, le mouvement des femmes maintient un droit de veto sur les décisions prises par des groupes d’hommes ou des assemblées générales. Sous leur influence, le mouvement kurde a contesté les schémas patriarcaux et hiérarchiques enchâssés depuis longtemps dans leurs modèles d’organisation. (...)

    #Kurdistan #PKK #Öcalan #Turquie #Rojava #Syrie #femmes_kurdes #anarchisme #internationalisme

  • [O-S] Brigades internationales à Rojava

    L’émission « Offensive Sonore » est diffusée un vendredi sur deux sur Radio Libertaire de 21h à 22h30 (89,4 Mhz) en alternance avec « Les amis d’Orwel ».

    Émission du 9 décembre 2006, nous avons interviewer Sébastien qui est en lien avec les brigades internationales se battant sur le terrain contre trois ennemies le dictateur Bachar El assad, Daech et l’Etat Turc. Ils nous explique ce qu’il ce passe et pourquoi il faut soutenir cette terre.

    #Radio_Libertaire #offensive_sonore #audio #radio #rojava #Kurdistan #pkk #turquie #rojava #Syrie #daech #Abdullah_Öcalan #Öcalan #répression #municipalisme #brigades #internationales #guerre #Bachar_El_assad #YPG #Irak

    https://www.mixcloud.com/offensive_sonore/rojava

  • http://www.b-a-m.org/2016/10/o-s-le-kurdistan-en-lutte

    Émission du 28 octobre 2016, on a appelé un animateur du site Kedistan . Nous allons parcourir un panorama du Kurdistan, de Syrie et de Turquie. En pleine actualité, tant pour la répression qui sévit en Turquie que pour l’agression caractérisée contre le Rojava de la part des troupes d’Erdoğan.

    #audio #radio #offensive_sonore #radio_libertaire #audio #Kurdistan #pkk #turquie #rojava #Syrie #daech #Erdoğan #Recep_Tayyip_Erdoğan #Abdullah_Öcalan #Öcalan #répression #municipalisme

  • Le discours démocratique et féministe d’Abdullah Öcalan.
    http://orientxxi.info/magazine/le-discours-democratique-et-feministe-d-abdullah-ocalan,1285,1285

    C’est une longue évolution politique et idéologique qu’a connue Abdullah Öcalan, fondateur et dirigeant du Parti des travailleurs du Kurdistan (PKK). À l’heure où s’intensifient les combats dans le Kurdistan turc et où le Rojava (Kurdistan syrien) proclame son autonomie, retour sur la pensée d’un homme qui garde une extraordinaire aura parmi les Kurdes.

    #Ocalan #Kurdistan #PKK

  • Une épistémologie de la liberté
    Entretien avec un jeune révolutionnaire kurde

    http://lavoiedujaguar.net/Une-epistemologie-de-la-liberte

    Kobané, août 2015. Interview de Sherhad Naaima, jeune révolutionnaire qui livre un bref récit de ses expériences et réflexions sur la révolution du Rojava.

    « En 2012, les Kurdes ont réussi à expulser les forces de sécurité syriennes hors des régions kurdes. Afin de combler le vide consécutif à ce retrait, le PYD a proposé de créer un nouveau modèle d’auto-administration. C’est le modèle qui fonctionne dans tout le Kurdistan occidental (Rojava), dans les trois cantons de Cizîrê, Kobané et Afrin. Ce type d’administration peut être qualifié d’administration politique non étatique, parce qu’il ne gouverne pas, il administre. La prise de décision part d’en bas (le peuple) vers le haut. Tous les gens peuvent s’exprimer directement dans les assemblées locales qui sont ouvertes à tous les partis politiques et à toutes les ethnies. L’écologie et le féminisme sont aussi des piliers importants. » (...)

    #Kurdistan #auto-administration #Syrie #PYD #Kobané #Öcalan #Bookchin #anarchisme #féminisme #Turquie #Erdogan

  • La transformation du PKK et ses liens avec Murray Bookchin et son écologie sociale.

    Le PKK, du stalinisme à l’écologie sociale
    http://www.enbata.info/articles/le-pkk-du-stalinisme-a-lecologie-sociale

    Ocalan reconnaît également dans ces pages son propre dogmatisme “nourri par des vérités abstraites”. “Dès que l’on articule ces vérités générales” explique-t-il, “on se sent comme un grand prêtre au service de son dieu. C’est l’erreur que j’ai commise”.

    De manière assez improbable, c’est vers une sorte de socialisme libertaire et d’internationalisme anarchiste qu’Ocalan s’est tourné pour proposer une nouvelle direction à son mouvement. En 2004, il s’est ainsi déclaré
    “étudiant de Murray Bookchin”, connu comme l’un des fondateurs de l’écologie sociale et père du “municipalisme libertaire”.

    Ancien staliniste comme Ocalan dans les années 30, Bookchin fut ensuite trotskiste avant d’abandonner le marxisme dans les années 40. Il restait convaincu que le capitalisme était un système voué à s’effondrer, mais ne croyait plus que ce serait grâce à l’organisation du prolétariat. Pour lui, le point faible du capitalisme était son caractère destructeur pour l’environnement et par extension pour l’humanité. Il proposa donc un “municipalisme libertaire” prônant la décentralisation, les circuits courts, et une gestion des cités par des assemblées démocratiques.

    Selon Bookchin, cette organisation de la société devrait à terme éliminer les Etats-nations au profit de confédérations rassemblant des cités décentralisées.

    La conversion d’Ocalan à une telle théorie était improbable et, comme on peut s’en douter, elle fut raillée par la presse turque.

    #PKK #Kurdes #Turquie #Murray_Bookchin #écologie #socialisme #Ocalan

  • Syrie. La ville d’Amoud a été fin mars le théâtre d’affrontements violents entre des manifestants venus protester contre l’indigence des services municipaux et les milices du Parti de l’Union démocratique kurde (PYD, une branche du PKK) qui contrôlent une partie des zones kurdes du nord de la Syrie. Ces affrontements entre Kurdes sont récurrents. Cette fois-ci, ils ont conduit les partisans d’Öcalan (PKK) et ceux de Massoud Barzani, président de la région du Kurdistan en Iraq (KDP), à s’opposer. Il est douteux que ces affrontements conduisent à une guerre civile entre Kurdes, mais il est certain qu’ils affaiblissent leurs positions au sein de la coalition syrienne. Il n’est pas impossible qu’Ankara se soit résolu à prendre langue avec le PKK d’Öcalan par crainte de voir le Parti de l’Union démocratique kurde (PYD) renforcer son contrôle dans les zones syriennes frontalières de la Turquie.

    http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2013/04/kurdish-clashes-syria-pyd-kdp-pkk-ocalan-barzani.html#ixzz2Ps9AirNm

    Clashes Break Out Between Kurdish Groups In Syria

    By : Wladimir van Wilgenburg for Al-Monitor Iraq Pulse, Posted on April 4 (2013)

    Kurdish protesters clashed with the militia of the Kurdish Democratic Union Party (PYD) in the rebellious town of Amude on March 27 over the lack of services which resulted in several wounded and led to fears of more fights between Kurds in Syria
    The clash lead again to tensions between the supporters of the imprisoned PKK-leader Öcalan and supporters of Massoud Barzani, the president of the Kurdistan region in neighboring Iraq and head of the Kurdistan Democratic Party (KDP) in Syria. The Syrian Kurds have been heavily influenced by Kurdish parties from outside, although they have their local parties.

    #Syria #Kurdish_Democratic_Union_Party #Öcalan_PKK #Massoud_Barzani #Kurdistan_Democratic_Party #Syrian_Kurds #Turkey #Supreme_Kurdish_Council Kurdistan_Worker_ Party_PKK #Arbil_agreement

  • #Öcalan Abdullah annonce la fin des #hostilités
    http://www.argotheme.com/organecyberpresse/spip.php?article1690

    Le #PKK et la #Turquie s’adaptent aux #changements de la #région

    Le #leader du PKK Abdullah Öcalan devait lancer ce jour, 1er du #printemps et du nouvel an kurde « #Newroz » , un appel au cessez-le-feu à partir de sa #cellule selon une #dépêche de #Reuters , datant du lundi. De la prison de l’île d’ #Imrali , en plein mer, de #Marmara où il est le seul détenu depuis 1999, il prendra parole pour une #trêve conclue entre les autorités turques et son organisation.