À l’occasion du 35e anniversaire du web : lettre ouverte - Un blog furtif
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Ce texte est une traduction d’un article intitulé « Marking the Web’s 35th Birthday : An Open Letter » publié par Tim Berners Lee, inventeur du Web, sur Medium.
]]>RACISME D’ÉTAT : POURQUOI IL FAUT REGARDER LA VÉRITÉ EN FACE | OLIVIER LE COUR GRANDMAISON
Le Media - 1 mars 2024
▻https://www.youtube.com/watch?v=XZRfMV6vp70&t=1129s
Malgré cela, les idées de « racisme systémique » et de « racisme d’État » restent hautement polémiques. Toute la droite les rejette bien sûr, mais aussi une partie de la gauche (ou supposée gauche). La négation de l’existence même d’un racisme structurel va naturellement de pair aujourd’hui avec la respectabilisation accélérée du Rassemblement national et de ses obsessions sur l’immigration.
Pour faire le point là-dessus, le politiste #OlivierLeCourGrandmaison, historien et politiste à l’Université d’Évry, qui vient de publier un livre intitulé « Racismes d’État, États racistes » : une brève histoire (éd. Amsterdam) est l’invité de #JulienThéry dans ce numéro d’OSAP « On s’autorise à penser ».
]]>Gli utili record dei padroni del cibo a scapito della sicurezza alimentare
I cinque principali #trader di prodotti agricoli a livello mondiale hanno fatto registrare utili e profitti record tra il 2021 e il 2023. Mentre il numero di persone che soffrono la fame ha toccato i 783 milioni. Il report “Hungry for profits” della Ong SOMO individua le cause principali di questa situazione. E propone una tassa sui loro extra-profitti
Tra il 2021 e il 2022 -anni in cui il numero di persone che soffrono la fame nel mondo è tornato ad aumentare, così come i prezzi dei beni agricoli spinti verso l’alto da inflazione e speculazione finanziaria- i profitti dei primi cinque trader di materie prime agricole a livello globale sono schizzati verso l’alto.
Nel 2022 le multinazionali riunite sotto l’acronimo Abccd (Archer-Daniels-Midland company, Cargill, Cofco e Louis Dreyfus Company) hanno comunicato ai propri stakeholder un aumento degli utili per il 2021 compreso tra il 75% e il 260% rispetto al 2016-2020. “Mentre nel 2022 i profitti netti sono raddoppiati o addirittura triplicati rispetto allo stesso periodo. In base ai rapporti finanziari trimestrali disponibili al pubblico, i profitti netti dei commercianti di materie prime agricole sono rimasti eccessivamente alti nei primi nove mesi del 2023”, si legge nel rapporto “Hungry for profits” curato dalla Ong olandese Somo. Dati che fanno comprendere meglio quali sono i fattori che influenzano l’andamento del costo dei prodotti agricoli e -soprattutto- chi sono i reali vincitori dell’attuale sistema agroindustriale.
La statunitense Cargill è la prima tra i Big five in termini di ricavi (165 miliardi di dollari nel 2022) e utili (6,6 miliardi), seguita dalla cinese Cofco (che nello stesso anno ha superato i 108 miliardi di dollari e i 3,3 miliardi di utili) e da Archer-Daniels-Midland company (Adm, con 101 miliardi di ricavi e 4,3 miliardi di utili). Nello stesso anno il numero di persone che soffrono la fame ha raggiunto i 783 milioni (122 milioni in più rispetto al 2019) e i prezzi dei prodotti alimentari hanno continuato a crescere, spinti dall’inflazione.
Complessivamente questi cinque colossi detengono una posizione di oligopolio sul mercato globale dei prodotti di base come i cereali (di cui controllano una quota che va dal 70-90%), soia e zucchero. “Questo alto grado di concentrazione e il conseguente controllo sulle più importanti materie prime agricole del mondo, conferisce loro un enorme potere contrattuale per plasmare il panorama alimentare globale”, spiega Vincent Kiezebrink, ricercatore di Somo e autore della ricerca.
La posizione dominante che di fatto ricoprono sul mercato globale rappresenta uno dei fattori che ha permesso agli Abccd di registrare profitti e utili da record negli ultimi tre anni. “La sola Cargill è responsabile della movimentazione del 25% di tutti i cereali e i semi di soia prodotti dagli agricoltori statunitensi -si legge nel report-. Anche il principale mercato agricolo per l’approvvigionamento di soia, l’America Latina, è dominato dagli Abccd: oltre la metà di tutte le esportazioni di questo prodotto passano da loro”.
La situazione non cambia se si guarda a quello che succede in Europa: l’olandese Bunge e la statunitense Cargill da sole sono responsabili di oltre il 30% delle esportazioni di soia dal Brasile verso l’Unione europea. Bunge, in particolare, è il principale fornitore di soia per l’industria della carne dell’Ue con una chiara posizione di monopolio in alcuni mercati come il Portogallo, dove controlla il 90-100% delle vendite di olio di soia grezzo.
Questa concentrazione è stata costruita nel tempo attraverso fusioni e acquisizioni che non sono state limitate dalle autorità per la concorrenza: quelle europee, ad esempio, hanno valutato un totale di 60 fusioni relative alle società Abccd dal 1990 a oggi. “Tutte le operazioni, tranne una, sono state autorizzate incondizionatamente -si legge nel report-. La prossima grande fusione in arrivo è quella tra la canadese Viterra (specializzata nella produzione e nel commercio di cereali, ndr) e Bunge. Un’operazione senza precedenti nel settore agricolo globale e che avvicinerà la nuova società alle dimensioni di Adm e Cargill”.
Un secondo elemento che ha permesso a queste Big five di accumulare ricavi senza precedenti in questi anni è poi la loro capacità di influenzare la disponibilità dei beni alimentari attraverso un’enorme potenzialità di stoccaggio. “Il rapporto speciale 2022 del Gruppo internazionale di esperti sui sistemi alimentari sostenibili (Ipes) ha evidenziato che i trader conservano notevoli riserve di cereali -si legge nel report-. E sono incentivati ‘a trattenere le scorte fino a quando i prezzi vengono percepiti come massimi’”. Per avere un’idea delle quantità di materie prime in ballo, basti pensare che la capacità di stoccaggio combinata di Adm, Bunge e Cofco, è pari a circa 68 milioni di tonnellate, è simile al consumo annuo di grano di Stati Uniti, Turchia e Regno Unito messi assieme.
Terzo e ultimo elemento individuato nel report è il fatto che queste società sono integrate verticalmente e hanno il pieno controllo della filiera produttiva dal campo alla tavola: forniscono cioè agli agricoltori prestiti, sementi, fertilizzanti e pesticidi; immagazzinano, trasformano e trasportano i prodotti alimentari.
A fronte di questa situazione, Somo ha invitato la Commissione europea a intervenire per porre un freno alla crescente monopolizzazione del comparto: “L’indagine dovrebbe concentrarsi sul potere che può essere esercitato nei confronti dei fornitori per comprimere i loro margini di profitto -concludono i ricercatori-. È preoccupante che alle multinazionali sia stato permesso di triplicare i loro profitti facendo salire i prezzi degli alimenti, mentre le persone in tutto il mondo soffrono di una crisi del costo della vita e i più poveri sono alla fame”. Per questo motivo l’organizzazione suggerisce di applicare un’imposta sugli extra-profitti delle società Abccd che, con un’ipotetica aliquota fiscale del 33%. A fronte di utili che hanno toccato i 5,7 miliardi di dollari nel 2021 e i 6,4 miliardi nel 2022, permetterebbe di generare un gettito fiscale pari rispettivamente a 1,8 e 2 miliardi di dollari.
▻https://altreconomia.it/gli-utili-record-dei-padroni-del-cibo-a-scapito-della-sicurezza-aliment
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AJ+ français sur X : « Manifestation, boycott, collage d’affiches... Il ne se passe pas une semaine sans qu’#Olivia_Zemor ne mène une action en soutien au peuple palestinien. La militante de 75 ans a expliqué à AJ+ sa vision de l’engagement : »
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]]>#Macron, le #pantin qui veut jouer le #marteau sans #maître... #guignol #tartuffe
« Dans une #oligarchie, on ne demande pas de comptes aux #intouchables de la #caste » #Europe #Union_Européenne
#politique #France #en_même_temps #langue_de_pute #société #monde #opportuniste #lèche_couilles #président #seenthis #vangauguin
« Dans une oligarchie, on ne demande pas de comptes aux intouchables de la caste »
▻https://www.marianne.net/agora/les-signatures-de-marianne/dans-une-oligarchie-on-ne-demande-pas-de-comptes-aux-intouchables-de-la-ca
]]>La ligne Nord-Sud, permanence d’un #clivage ancien et durable
Très utilisée en classe pendant plus de deux décennies par commodité pédagogique, la limite Nord-Sud a été aussi beaucoup critiquée. Simpliste, réductrice, caricaturale ? En fait, retracer l’histoire de la notion permet de lui redonner une épaisseur et un intérêt épistémologique. Encore puissante aujourd’hui dans les mécanismes de négociation internationale, elle s’incarne toujours dans la notion de "Sud global".
La limite Nord-Sud a été omniprésente sur les cartes des manuels scolaires de géographie jusqu’à encore récemment. Simple, elle répondait à certaines attentes didactiques du secondaire : un repère visible, traçable, mémorisable ; et résumait bien les inégalités dans le Monde.
Son tracé reprenait la ligne qui avait été esquissée sur une carte publiée en 1980 en couverture des éditions étatsunienne et française du rapport rédigé sous la direction de l’ancien chancelier allemand Willy Brandt, Nord-Sud : un programme de survie. La carte avait été conçue selon une projection inhabituelle, justifiée dès le verso de la page de titre :
«
« Elle montre exactement la proportion de la surface des terres immergées [1]. […] Cette projection marque un progrès important par rapport à la conception qui attribuait un rôle mondial prépondérant à l’Europe sur le plan géographique comme sur le plan culturel. »
Willy Brandt (dir.), 1980, Nord-Sud : un programme de survie : Rapport de la Commission indépendante sur les problèmes de développement international, Paris, Gallimard, p. 6.
»
La carte présentée par Arno Peters en 1973 était une critique de la projection de Mercator, très utile en son temps pour les navigateurs européens, mais obsolète, voire inacceptable, au XXe siècle car non équivalente, trop « inégale » notamment à l’encontre des pays de la zone intertropicale. La projection de Peters, qui avait été décrite auparavant par James Gall en 1855, était plus juste dans la représentation de la surface des différentes régions du monde. Elle était donc en accord avec la perspective tiers-mondiste adoptée dans le rapport Brandt.
Quant à la ligne elle-même, les auteurs du rapport soulignaient la simplification peut-être excessive qu’elle opérait :
«
« Il y a des objections évidentes à une image simplifiée montrant le monde divisé en deux camps. Le “Nord” comprend deux pays riches et industrialisés, au sud de l’équateur, l’Australie et la Nouvelle-Zélande. Dans le “Sud”, la gamme va d’une nation à demi industrialisée, en pleine expansion, comme le Brésil, à des pays pauvres enserrés par les terres, comme le Tchad, ou insulaires, comme les Maldives. Quelques pays du Sud, généralement exportateurs de pétrole, disposent d’un revenu plus élevé par habitant que certains pays du Nord. Mais d’une manière générale et bien qu’il n’y ait pas de classification uniforme ou permanente, “Nord” et “Sud” sont synonymes grosso modo de “riche” et de “pauvre”, de pays “développés” et de pays “en voie de développement”. »
Willy Brandt (dir.), 1980, Nord-Sud : un programme de survie : Rapport de la Commission indépendante sur les problèmes de développement international, Paris, Gallimard, p. 55.
»
Cela revient à dire qu’aucune des appellations relevées dans la citation n’était totalement synonyme d’une autre ni complètement satisfaisante. Dans un bref ouvrage de synthèse sur le Tiers-Monde, le politologue Edmond Jouve (1955, p. 11 et suiv.) rappelait le succès, un temps, de la formule « nations prolétaires », empruntée à Arnold J. Toynbee et popularisée par Pierre Moussa, et parlait, à propos de toutes ces appellations, d’une « crise terminologique ». Quant au fait que Nord et Sud ne correspondaient pas strictement au découpage du globe selon la ligne équatoriale, les auteurs du rapport publié en 1980 le savaient bien, et il faudrait être d’assez mauvaise foi aujourd’hui pour ne pas voir dans ces appellations des catégories spatiales économiques et politiques qui n’ont qu’un rapport métonymique avec la division hémisphérique du globe en deux. Sur un plan strictement géographique, le découpage Nord-Sud n’est pas plus valide que le découpage Est-Ouest qui a dominé la guerre froide, l’ouest et l’est étant des positions relatives et non absolues. Cela n’invalide pas pour autant le sens dont ils sont porteurs. En revanche, « la ligne Nord-Sud est-elle encore pertinente aujourd’hui ? » est une autre question, qui mérite effectivement d’être posée.
Pour y répondre, il est nécessaire de rouvrir le dossier géohistorique (Capdepuy, 2007) et de s’interroger : comment la ligne Nord-Sud est-elle devenue un objet cartographique ? Dans quelle mesure a-t-elle marqué de son emprunte la cartographie scolaire des inégalités mondiales ? Marque-t-elle un seuil de développement, comme on le pense assez communément, ou bien un clivage géopolitique ?
1. La genèse d’une ligne
La plus ancienne occurrence explicite d’une division Nord-Sud du Monde est attribuable à Oliver Franks, alors président de la Lloyds Bank, dans un discours prononcé le 19 novembre 1959 lors d’une conférence organisée par le Committee for Economic Development, groupe de réflexion états-unien fondé en 1942 et composé de cadres supérieurs de différentes entreprises. Le thème portait sur « L’économie du monde occidental est-elle en train de se séparer ? ». D’après le New York Times (Reston, 1959), le texte du discours d’Oliver Franks aurait été remis au secrétaire d’État Christian A. Herter, et attentivement étudié par le gouvernement, avant d’être publié dans la Saturday Review en janvier 1960.
«
« Nous sommes entrés dans un monde différent. C’est pourquoi il est important de se demander quels sont aujourd’hui nos objectifs communs en matière de politique économique de part et d’autre de l’Atlantique. Je dirais qu’aujourd’hui nous en avons deux, et qu’ils sont liés à un changement dans la position politique et stratégique générale de notre monde occidental. Auparavant, les problèmes de tension entre l’Est et l’Ouest étaient dominants ; maintenant, nous avons un problème Nord-Sud d’égale importance. Il est lié au premier, mais a sa propre existence, indépendante et égale. Je voulais parler des problèmes des relations entre les pays industrialisés du Nord et les pays sous-développés et en développement qui se trouvent au sud de ceux-ci, que ce soit en Amérique centrale ou du Sud, en Afrique ou au Moyen-Orient, en Asie du Sud ou dans les grands archipels du Pacifique. S’il y a douze ans, l’équilibre du monde tournait autour de la reconquête de l’Europe occidentale, maintenant il tourne autour de relations justes du Nord industriel du globe avec le Sud en développement. »
Oliver Franks, « The New International Balance : Challenge of the Western World », Saturday Review, vol. 43 16 janvier 1960, p. 20.
»
Un « problème Nord-Sud » – on peut s’étonner, soixante ans après, de la rapidité à laquelle l’expression employée par Oliver Franks en novembre 1959 a été reprise dans les mois qui suivirent. Dès 1960, Tadao Kato, étudiant japonais au Center of International Affairs de l’université de Harvard, rédigea un mémoire sur la double dichotomie Est-Ouest et Nord-Sud (Tadao, 1960). L’opuscule n’a pas été diffusé, mais révèle l’intérêt immédiat porté à ces concepts spatiaux. Notons que Tadao Kato a été, dix ans plus tard, ambassadeur du Japon au Mexique. En France, en 1960 également, dans la revue Politique étrangère, René Servoise, conseiller au ministère des Affaires étrangères, publia un article sur la transformation des relations entre les pays industrialisés et les anciens pays colonisés au moment où l’Europe occidentale et le Japon réapparaissaient sur la scène économique mondiale grâce à l’aide états-unienne dont ils avaient bénéficié.
«
« Les succès même des Européens et les réussites économiques de la Grande-Bretagne, de l’Allemagne et de la France à la veille des années 1960 permettent désormais aux peuples occidentaux de regarder au-delà de l’horizon immédiat de leurs frontières. Les problèmes intérieurs économiques et financiers sont en grande partie réglés, la convertibilité monétaire est partiellement revenue, l’or et les devises se sont redistribués d’une façon plus équilibrée. Dans ces conditions les peuples européens peuvent se pencher avec une plus grande liberté d’esprit et des moyens plus considérables vers les problèmes du tiers-monde. »
René Servoise, « De l’assistance au commerce international », Politique étrangère, n° 4, 1960, p. 318.
»
C’était le problème des « relations Nord-Sud » selon la formulation que René Servoise empruntait explicitement à Oliver Franks, mais avec une autre référence que celle précédemment citée : Oliver Franks aurait fait un autre discours, en des termes semblables, lors de la réunion annuelle de la Lloyds Bank en février 1960 [2].
En 1962, Walt W. Rostow, théoricien économiste du développement et conseiller au département d’État, fit une conférence sur « la stratégie américaine sur la scène mondiale » en partant de l’interrogation : « Comment se fait-il que nous semblions vivre dans un océan de problèmes ? »
«
« Abstraction faite des intrusions directes de la puissance militaire communiste dans les années d’après-guerre – symbolisées, par exemple, par le blocus de Berlin en 1948-49, l’invasion de la Corée du Sud en 1950 et les attaques périodiques contre les îles au large des côtes – les crises d’après-guerre ont été de trois sortes, généralement combinées d’une manière ou d’une autre : les crises internationales résultant de luttes internes pour le pouvoir, reflétant les tensions politiques et sociales inévitables de la modernisation en cours dans les régions sous-développées ; les conflits coloniaux ou postcoloniaux impliquant les nations européennes d’un côté et les nations et territoires des continents méridionaux de l’autre ; et les efforts des communistes pour exploiter systématiquement les occasions offertes par ces deux types de problèmes inhérents. Pensez-y et vous serez, je pense, d’accord. L’Indochine, Suez, l’Irak, Cuba, l’Algérie, le Congo, Bizerte, Goa, la Nouvelle-Guinée occidentale, la République dominicaine – tous ces événements sont le fruit d’une combinaison de ces trois éléments, et ils sont tous apparus dans ce que nous appelons les régions sous-développées.
À l’époque de Staline, la politique communiste était plutôt directe et militaire, mais au cours de la dernière décennie, les communistes se sont systématiquement efforcés de tirer le meilleur parti des turbulences inévitables du processus de modernisation, d’une part, et des conflits nord-sud, d’autre part (en utilisant cette désignation géographique abrégée pour représenter le fait approximatif que la révolution industrielle est arrivée en premier dans les parties septentrionales du monde et qu’elle se poursuit aujourd’hui dans les parties occidentales du monde). »
Walt W. Rostow, « American Strategy on the World Scene », The Department of State Bulletin, vol. 46, n° 1188, 2 avril 1962, p. 26.
»
Tout en soulignant la dimension simplificatrice de cette dichotomie Nord-Sud, Walt W. Rostow la reprenait pour dépeindre à grands traits un tableau du Monde. Soulignons au passage – on y reviendra – la dimension conflictuelle, anticoloniale, donnée aux relations Nord-Sud.
En 1962, lors d’une conférence donnée à l’université de Harvard, Willy Brandt, alors bourgmestre-gouverneur de Berlin, considérait que l’accélération de la décolonisation amènerait sans doute un retournement de la géopolitique mondiale :
«
« Depuis quelques années, le problème Est-Ouest est accompagné et influencé par un problème Nord-Sud. Ce dernier sera peut-être un jour le plus important des deux. »
Willy Brandt, 1963, The Ordeal Of Coexistence, Cambridge, Harvard University Press, p. 74.
»
Cependant, comme il le reconnut dans ses Mémoires (Brandt, 1992, p. 341), « pendant de nombreuses années, [il avait] été bouleversé par l’extrême pauvreté qui était un phénomène particulièrement flagrant dans des régions comme l’Afrique au sud du Sahara, le sous-continent indien et les barrios en marge des villes latino-américaines » :
«
« Il n’y a pas de honte à admettre que ce problème n’était pas au premier plan de mes préoccupations pendant les années où j’ai exercé des responsabilités gouvernementales. En politique étrangère, je devais me concentrer sur des préoccupations immédiates et urgentes, faute de quoi je n’aurais rien pu faire dans le domaine de l’Ostpolitik. »
Willy Brandt, My Life in Politics, trad. de l’allemand, New York, Viking, 1992, p. 341.
»
De fait, alors que la guerre froide polarisait les relations internationales entre Est et Ouest, l’accès à l’indépendance de nombreux pays modifiaient la géopolitique mondiale selon une dynamique transverse. Alors qu’on comptait officiellement 51 États membres de l’Organisation des Nations Unies en 1945, ils étaient 115 en 1964, issus pour la plupart de la décolonisation. Le 16 juillet 1964, à Genève, devant le Conseil économique et social, le Secrétaire général de l’ONU, Maha Thray Sithu U Thant, par ailleurs homme politique birman, ne pouvait que faire le constat de la montée en puissance du Sud :
«
« J’ai souvent dit, et je pense que cela mérite d’être répété, que les tensions Nord-Sud sont fondamentalement aussi graves que celles Est-Ouest et que l’ONU a une contribution unique à apporter à la diminution des deux. Avant la Conférence, le parallèle entre les relations Nord-Sud d’une part et les relations Est-Ouest d’autre part aurait pu sembler un peu tiré par les cheveux, puisque le Nord et le Sud ne pouvaient pas être distingués l’un de l’autre dans nos forums économiques aussi distinctement que l’Est et l’Ouest pouvaient l’être sur certaines questions politiques majeures. Maintenant, on sait que le Sud peut être identifié à un grand groupe de plus de 75 voix, lorsqu’il choisit de s’affirmer. En démontrant une telle possibilité, la Conférence a peut-être marqué un tournant dans l’histoire des relations économiques internationales. »
Portfolio for Peace : Excerpts from the writings and speeches of U Thant, Secretary-General of the United Nations, on major world issues 1961-1970, New York, United Nations, 1970, p. 111.
»
La conférence à laquelle il faisait référence était la Conférence des Nations unies sur le commerce et le développement (CNUCED), qui s’était tenue à Genève de mars à juin 1964 et qui s’était achevée par la « Déclaration commune des Soixante-dix-sept » [3]. L’objectif était de promouvoir « un ordre international nouveau et juste ». La déclaration se terminait sur ces mots :
«
« L’injustice et la négligence des siècles doivent être réparées. Les pays en développement sont unis dans leur détermination à poursuivre leur quête d’une telle réparation et se tournent vers l’ensemble de la communauté internationale pour qu’elle comprenne et soutienne cette entreprise. »
« Joint declaration of the seventy-seven developing countries made at the conclusion of the United Nations Conference on Trade and Development », Geneva, 15 June 1964.
»
Les pays développés ne sont pas explicitement mentionnés, mais l’idée d’une injustice à réparer les désigne. Cette revendication était portée par ce qu’on allait appeler le Groupe des 77, indépendamment du nombre croissant de ses États-membres. Le 10 avril 1974, le président algérien Houari Boumediene s’en fit le héraut à la tribune de l’Assemblée générale des Nations unies :
«
« Posé depuis un quart de siècle par l’ensemble des nations comme l’une des priorités du monde, le problème du développement devient aujourd’hui la priorité des priorités à laquelle nous tous devons faire face, et sans plus attendre, si nous voulons éviter l’éventualité tragique que ce problème ne se transforme un jour en une source de conflagration incontrôlable.
Toute volonté politique réelle d’attaquer de front le problème du développement devrait, en premier lieu, reconnaître comme une question centrale, le sort des ressources mondiales. En d’autres termes, toute démarche entreprise vers une solution concrète et définitive à ce problème impliquerait, au préalable, une prise de position appropriée sur la reconnaissance des priorités humaines. Elle devrait conduire, en définitive, à un réaménagement profond des relations économiques entre pays riches et pays pauvres, dans le sens d’une répartition des avantages, de la croissance et du progrès, répartition qui, pour être équitable, devrait être conforme aux besoins, aux priorités et aux intérêts légitimes des parties concernées.
Or, force nous est de constater, en premier lieu, que dans le monde où nous vivons, tous les leviers de commande de l’économie mondiale sont entre les mains d’une minorité constituée par des pays hautement développés. Cette minorité, par sa position dominante, détermine à elle seule la répartition des ressources mondiales en fonction d’une hiérarchie des besoins qui lui est propre. »
Assemblée générale des Nations unies, 2208e séance plénière, 10 avril 1974, A/PV.2008 [en ligne].
»
La résolution 3201 votée au mois de mai 1974 validait cette demande d’un « nouvel ordre économique international ». L’article 4 en détaillait les principes : l’égalité souveraine des États, l’autodétermination des peuples, les coopération entre tous les États de la communauté internationale, la participation de tous, à égalité, au règlement des problèmes économiques mondiaux, le droit de chaque pays de choisir son modèle économique et social, la souveraineté de chaque État sur ses ressources naturelles, le droit pour tous les États de se voir restituer ses territoires occupés, la réglementation et la supervision des activités des multinationales, la lutte contre la discrimination raciale et l’apartheid, des rapports équitables entre les prix des matières premières et les produits manufacturés, une aide aux pays en développement… [4]
En 1974, après l’abandon de la convertibilité du dollar en or et le premier choc pétrolier, le président français Valéry Giscard d’Estaing lança l’idée d’une conférence internationale consacrée aux problèmes de l’énergie. Le 16 décembre 1975, à Paris, s’ouvrait la Conférence pour la coopération économique internationale. Elle réunissait 27 pays : 19 États du Tiers monde et 8 pays industrialisés, dont la CEE (document 1). La conférence dura jusqu’en juin 1977. Tout le monde ne parlait que de « dialogue Nord-Sud ».
Document 1. Les participants à la Conférence pour la coopération économique internationale (1975–1977)
C’est dans ce contexte qu’en 1977, Willy Brandt, sollicité par Robert S. McNamara, alors président de la Banque mondiale, constitua une « commission indépendante sur les problèmes de développement international », la « Commission Nord-Sud ». Le 9 décembre 1977, dans son discours d’accueil de ladite commission, Willy Brandt eut un mot d’explication sur la carte offerte aux invités :
«
« Il est de coutume, en de telles occasions, d’offrir aux participants un souvenir de la réunion. Il se trouve qu’un de mes compatriotes a produit une nouvelle carte, une projection de la planète Terre sur laquelle, nous tous, riches et pauvres, nous devons vivre.
Au lieu de la carte conventionnelle avec l’Europe au centre, qui donne deux tiers de l’espace à l’hémisphère Nord, cette carte prête attention à l’espace où vivent les deux tiers de la population mondiale. Ce sont les problèmes de ce Tiers Monde (ou devrais-je dire des Deux Tiers du Monde ?) qui nous préoccupent dans cette Commission et qui domineront les événements politiques et économiques au moins jusqu’à la fin de ce siècle. »
Willy Brandt, “Opening address by Willy Brandt”, Gymnich Castle, 9 décembre 1977, in : Brandt Commission - Correspondence 11, 1771352, WB IBRD/IDA 03 EXC-10-4539S, Records of President Robert S. McNamara, World Bank Group Archives, Washington, D.C., United States.
»
C’est cette carte, présentée par l’historien Arno Peters lors d’une conférence de presse à Bonn en 1973 puis devant la Société cartographique de Berlin en 1974, qui fut reprise en 1980 sur la couverture du rapport final de la Commission et sur laquelle fut tracée une ligne illustrant la division Nord-Sud. Notons cependant que le choix d’accentuer cette division par deux couleurs différentes pour représenter le Nord et le Sud n’apparaît que dans l’édition française (document 2a). Sur la couverture de plusieurs autres éditions, notamment anglaise, la ligne serpente en noir sur un planisphère où les pays sont tous coloriés en rouge (2b). L’effet visuel est bien moindre. Par ailleurs, toutes les éditions n’ont pas fait le choix d’une carte en couverture : l’édition colombienne montre le clivage Nord-Sud par le contraste de deux photos (2c) et l’édition mexicaine montre deux mains qui se tiennent selon un axe vertical (2d).
Document 2. La couverture du rapport Brandt dans les éditions française, anglaise, colombienne et mexicaine
https://geoconfluences.ens-lyon.fr/images/img-inegalites/img-capdepuy-nord-sud/doc2a-rapport-brandt-1980.jpg https://geoconfluences.ens-lyon.fr/images/img-inegalites/img-capdepuy-nord-sud/doc2b-couverture-north-south.jpg https://geoconfluences.ens-lyon.fr/images/img-inegalites/img-capdepuy-nord-sud/doc2c-norte-sur-1980.jpg https://geoconfluences.ens-lyon.fr/images/img-inegalites/img-capdepuy-nord-sud/doc2d-norte-sur-mexico-ed-1981.jpg En août 1978, dans une discussion avec le directeur de la Banque mondiale, Rainer Steckhan, Willy Brandt avait évoqué le projet d’Arno Peters de réaliser « un nouveau type d’atlas dans lequel chaque pays de la communauté mondiale serait présenté sur une double page avec des données et des tableaux relatifs à son histoire et à sa situation économique et sociale actuelle » (Fischer, 1978), les proportions individuelles de chaque pays étant déduites de la carte du monde déjà présentée. Ainsi, « l’ancienne présentation du monde, centrée sur l’Europe, est abandonnée au profit d’une image géographiquement plus équilibrée des pays en développement qui, sur cette carte, occupe désormais environ les deux tiers de la carte et inverse ainsi l’ancienne présentation où le “Nord” occupait cet espace » (ibid.). Un soutien de la Banque mondiale en vue de la publication de cet atlas est évoqué, ainsi que celui de l’UNESCO. Malgré cela, l’atlas n’a pas été publié et le rapport édité par la Commission en 1980 ne comportait aucune carte sinon celle publiée en couverture.
Elle résumait à elle seule la vision du Monde portée par la Commission. De fait, une dizaine d’années plus tard, on commençait à parler en anglais de la « ligne Brandt » (document 3).
Document 3. La « ligne Brandt » entre le « Nord riche » et le « Sud pauvre », sur un atlas britannique de 1990
2. Une zone en filigrane
La ligne Nord-Sud a été inventée, cartographiquement, par le rapport Brandt de 1980. Pour autant, on peut se demander dans quelle mesure ce rapport a vraiment influencé la géographie scolaire française [5]
Document 4. Le Tiers-Monde dans un manuel de terminale de 1983
La chose peut paraître étonnante au regard des rythmes actuels, mais le programme de géographie de classe de terminale n’a pas été modifié entre 1963 et 1982. On manque donc de référents pour les années 1970. Le programme de 1982 a été conçu en trois volets : les quatre grandes puissances / la mondialisation des échanges / les inégalités de développement. La troisième partie a donné lieu dans les manuels de 1983 à une cartographie du sous-développement et notamment du Tiers monde. Ainsi, dans le manuel édité chez Armand Colin sous la direction de Marcel Baleste, on peut trouver une carte problématisée avec pour titre une question : « Où arrêter le Tiers-Monde ? » (document 4). Il s’agit d’une carte choroplèthe avec une typologie distinguant « pays moins avancés », « autres pays à faible revenu », « pays à revenu intermédiaire » et « pays exportateurs de pétrole à excédent de capitaux ». Elle pose le problème récurrent du manque d’unité de cet ensemble qu’on a pris l’habitude depuis les années 1960 d’appeler le Tiers-Monde – avec ou sans majuscules, avec ou sans trait d’union. Sur la carte, on trouve également deux lignes clairement tracées qui indiquent, d’après la légende, la « limite du Tiers monde », en l’occurrence les limites. Le cartographe ne reprenait pas la ligne Nord-Sud du rapport Brandt (document 5).
Document 5. Deux modèles de limite Nord-Sud : zonal et hémisphérique
Le fait que la ligne méridionale qui inclut l’Australie et la Nouvelle-Zélande soit prolongée sur tout l’hémisphère Sud, sous l’Afrique et sous l’Amérique du Sud, alors qu’il n’y a évidemment aucun pays développé plus au sud, ni même la potentialité qu’il s’en trouve, apparaît en effet comme la trace persistante de l’idée que le sous-développement serait liée à la tropicalité. Le cours en vis-à-vis amène à prendre un peu de distance avec « un vocabulaire ambigu » et « des limites incertaines ». Par rapport aux termes de « pays sous-développés » ou de « pays en voie de développement » qui renvoient à l’idée discutable de développement, les auteurs semblent préférer des expressions plus vagues et par là-même moins contestables, notamment « Nord » et « Sud » (p. 264 du même manuel).
Document 6. Les pays en voie de développement d’après un manuel de terminale de 1983
Dans un autre manuel de 1983, édité par Hachette, une double page présente une grande carte des pays en voie de développement (document 5). Deux grandes lignes rouges traversent le planisphère de gauche à droite, l’une dans l’hémisphère nord, l’autre dans l’hémisphère sud. L’Australie, la Nouvelle-Zélande, mais aussi l’Afrique du Sud et l’Argentine ne font pas partie des pays en question. On voit bien se dessiner une large zone, au sens étymologique de « ceinture ». Sa source d’inspiration est référencée : la Géographie du sous-développement, d’Yves Lacoste, éditée en 1981. Il s’agissait de la troisième édition d’un ouvrage publié pour la première fois en 1965.
Document 7. Carte schématique des limites du Tiers Monde et des principales zones thermiques du globe
https://geoconfluences.ens-lyon.fr/images/img-inegalites/img-capdepuy-nord-sud/doc7-lacoste-1965.jpg Document 8. Esquisse provisoire des limites du Tiers-Monde
https://geoconfluences.ens-lyon.fr/images/img-inegalites/img-capdepuy-nord-sud/doc8-lacoste-1981.jpg On retrouve le même dispositif sur une carte publiée dans un autre livre d’Yves Lacoste : Unité et diversité du tiers monde, paru en 1980. L’ouvrage était présentée comme une étude détaillée et méthodique de cette question difficile :
«
« Il n’est pas inutile – mais il n’est pas suffisant – de distinguer à la surface du globe quelques grands ensembles de pays (il vaudrait mieux dire grands ensembles d’États et de formations sociales), parce que l’on peut leur reconnaître, à un degré poussé d’abstraction, un certain nombre de caractéristiques communes, celles-ci n’excluant absolument pas les antagonismes au sein d’un même ensemble.
[…]
Pourtant s’il est utile de dégager ce qui permet de considérer le tiers monde comme un ensemble, malgré les affrontements qui s’y produisent, il ne faut plus négliger l’analyse de sa diversité. Trop longtemps, c’est seulement l’unité du tiers monde qui a été évoquée, célébrée, alors qu’il était pourtant évident que les États que l’on regroupait dans cet ensemble sont d’une extrême diversité, aussi bien en raison des héritages historiques, des contrastes de culture, des conditions naturelles, des structures économiques et sociales, des régimes politiques, etc. Mais les facteurs de cette diversité sont si nombreux, tellement hétéroclites qu’on renonçait à rendre compte méthodiquement de ce fouillis inextricable. L’évocation de l’unité du tiers monde permettait de laisser de côté cet embrouillamini, d’avoir une représentation du monde beaucoup plus simple, fondée sur un dualisme économique manichéen (pays développés/pays sous-développés) et de tenir des raisonnements relativement simples sur les mécanismes historiques de 1’“échange inégal” entre un “centre” dominant et une “périphérie” dominée. »
Yves Lacoste, Unité et diversité du tiers monde, Paris, François Maspero, 1980, vol. 1, Des représentations planétaires aux stratégies sur le terrain, p. 10.
»
Yves Lacoste rejetait à nouveau toute zonalité climatique, considérant que « la rapidité de la croissance démographique constitue désormais, compte tenu des changements récents, la principale caractéristique commune des États que les médias envisagent communément comme faisant partie du tiers monde » (Lacoste, 1980, p. 96).
Document 9. La diversité des situations des pays en développement dans un manuel de 1989
Dans un manuel publié chez Hatier en 1989, sur la carte présentant la « diversité des situations des pays en développement », la ligne est discontinue au niveau des océans (document 9). Là aussi, les deux traits situés sous l’Amérique du Sud et l’Afrique peuvent apparaître a posteriori absurdes. Des années plus tard, dans un billet du blog, Philipe Rekacewicz est revenu sur la construction de cette carte. Lors d’un entretien, il explique que ces traits ont été ajoutés après discussion avec l’éditeur parce qu’il y avait un « besoin de sémiologiquement cadrer » ces pays en développement, pour « montrer qu’on avait un ensemble », « une zone » [6]. Philippe Rekacewicz reconnaît que ces traits n’avaient pas lieu d’être sur le plan géographique, mais, très influencé par la réflexion de Jacques Bertin, il avait fait le choix de les ajouter, dans un deuxième temps, parce que l’absence de traits avait été jugée déroutante.
Document 10. « Nord » et « Sud » dans un manuel de terminale de 1989
Document 11. La limite entre le « Nord » et le « Sud » en 1950 et en 1995 dans un manuel de 1995
La même année, en 1989, le manuel publié chez Belin, sous la direction de Rémy Knafou, offre une carte qui, pour la première fois peut-être, révèle l’influence du rapport Brandt, avec une ligne unique qui traverse l’ensemble du planisphère et qui englobe l’Australie en un même mouvement (document 10). Les guillemets employés autour des termes « Nord » et « Sud » appelaient les élèves à comprendre que ces mots n’étaient évidemment pas à comprendre au sens strict, d’autant que l’équateur était clairement tracé. Quelques années plus tard, dans le manuel de terminale édité par Belin en 1995, deux cartes apparaissent a posteriori comme très novatrices (document 11). Tout d’abord, par le titre : elles représentent « la limite entre le “Nord” et le “Sud” ». Cela ne pourrait être qu’un détail, mais il est significatif. Ce n’est pas la limite du Tiers-Monde ou des pays en développement, mais bien une ligne distinguant deux ensembles. Ensuite, par le tracé : au lieu d’une ligne unique, on en trouve plusieurs, autour de différents espaces, dessinant ainsi une sorte d’archipel du Nord. Enfin, par l’approche historique : la première carte représente la limite Nord-Sud en 1950, la seconde en 1995. Entre 1950 et 1995, certains ne font plus partie du Nord (Argentine, URSS), tandis que d’autres l’ont intégré (Corée du Sud, Taïwan, Singapour, Espagne, Portugal). Le Nord et le Sud n’apparaissent pas ici comme des entités figées. On ne trouve rien d’équivalent dans les manuels qui ont été publiés depuis.
En 1998, les auteurs du manuel d’histoire-géographie de Terminale STT publié par Magnard font le choix, en couverture, pour illustrer la géographie, de reprendre un planisphère où seule la ligne Nord-Sud est tracée (document 12). Celle-ci serait-elle en passe de devenir iconique ? La même année, dans le manuel de géographie de chez Hachette, sur un planisphère introductif représentant « le monde géopolitique aujourd’hui », la ligne est bien mise en valeur dans sa continuité grâce la projection polaire, mais la légende peut étonner : « ancienne limite Nord-Sud (pays industrialisés / tiers-monde » [7]. Au moment où en fait cette limite se diffuse et s’impose, elle apparaîtrait déjà obsolète – ce qui en fait se comprend si on la perçoit comme l’héritière d’une tradition cartographique qui est, en réalité, bien antérieure à 1980.
Document 13. La Limite Nord-Sud sur une carte parue dans la Documentation photographique sur la mondialisation (2004)
Pourtant, rien, alors, ne vint la remettre en question. Au contraire, la « limite Nord-Sud » est validée par une publication qui a une influence notable dans le milieu scolaire : la Documentation photographique et son numéro sur « La mondialisation en débat », dirigé par Laurent Carroué et publié en 2004 (document 13). On pourrait juste faire remarque le choix, rare, de ne pas représenter ladite limite par une ligne unique, mais par deux lignes. L’article que j’ai moi-même publié en 2007 dans M@ppemonde posait la question de l’origine de « la limite Nord/Sud » mais n’interrogeait absolument pas l’expression, employée dans le titre, alors que tout au long du texte, il n’était question que de « ligne ». Pourtant, cela appelait sans doute un commentaire.
En effet, le terme de « limite » reste jusqu’à aujourd’hui le témoin de cette zonalité passée et un peu oubliée. Mais ce n’est pas forcément le cas partout. Ainsi est-il intéressant de comparer sur l’encyclopédie en ligne Wikipédia les différences de titres donnés à l’article consacré au sujet : « Limite Nord/Sud » en français, mais « División Norte-Sur » en espagnol, « Divisão norte-sul » en portugais, « Divisione Nord-Sud » en italien, « Nánběi fēnqí » en chinois… Tous renvoient à l’expression anglaise : « North-South divide », titre remplacé fin 2020 par « North-South divide in the World » puis en 2021, par celui de « Global North and Global South ». À l’exception de l’arabe « Had chamāl-janūb », qui, comme en français, met l’accent sur la frontière, ou la limite, dans les autres langues, c’est la division du monde en deux ensembles opposés qui est privilégiée.
En 2015, Christian Gratalaloup, lors d’un café géographique, s’interrogeait : « Nord/Sud, une représentation dépassée de la mondialisation ? » Selon lui, cette vision du monde, outre son européocentrisme, a été rendue obsolète par la montée en puissance des BRICS, ce groupe de pays qui se réunissent lors de sommets annuels depuis 2009 [8]. En 2018, dans Vision(s) du Monde, il considère qu’on pouvait observer une « érosion de la zonalité mondiale » (p. 77). La formule en elle-même révèle une certaine interprétation de la dichotomie Nord-Sud. De fait, la tropicalité a été longtemps sous-jacente à la question du sous-développement. En 1990, dans Mondes nouveaux, le premier volume de la Nouvelle géographie universelle, réalisé sous la direction de Roger Brunet et d’Oliver Dollfus, les auteurs posaient encore la question : « Nord et Sud : un retour au “déterminisme géographique” ? » (p. 472). La réponse était négative, mais la lecture zonale demeurait prégnante.
3. Un seuil de développement
La question des critères pour délimiter le Tiers-Monde puis le Sud a été posée depuis longtemps. Yves Lacoste, en 1965, en proposait une liste assez longue :
1. Insuffisance alimentaire.
2. Graves déficiences des populations, forte proportion d’analphabètes, maladies de masse, forte mortalité infantile.
3. Ressources négligées ou gaspillées.
4. Forte proportion d’agriculteurs à basse productivité.
5. Faible proportion de citadins ; faiblesse des classes moyennes.
6. Industrialisation restreinte et incomplète.
7. Hypertrophie et parasitisme du secteur tertiaire.
8. Faiblesse du produit national par habitant.
9. Ampleur du chômage et du sous-emploi ; travail des enfants.
10. Situation de subordination économique.
11. Très violentes inégalités sociales.
12. Structures traditionnelles disloquées.
13. Ampleur de la croissance démographique.
14. Prise de conscience de la misère.
Quinze ans plus tard, il considérait que prendre chaque critère l’un après l’autre aurait été fastidieux, pas toujours exact en termes de comparaison ou faussement précis :
«
« Une démarche géographique aurait consisté, alors, à envisager l’extension spatiale de ces différentes caractéristiques, à examiner leurs coïncidences, leurs inclusions ou leurs intersections. Cette tâche de cartographie n’aurait d’ailleurs pas été facile à mener à bien, car bon nombre de ces “critères” sont relatifs ; ils procèdent d’une comparaison implicite ou explicite avec les caractéristiques des pays “développés”, et pour chacun d’eux l’établissement d’une carte aurait nécessité le choix d’un seuil quantitatif ; on se contente de tracer des ensembles spatiaux aux limites relativement floues. »
Yves Lacoste, Unité et diversité du tiers monde, Paris, François Maspero, 1980, vol. 1, Des représentations planétaires aux stratégies sur le terrain, p. 40.
»
En 1981, cela ne lui paraissait plus possible de déterminer ainsi l’unité du Tiers monde. Nonobstant, la méthode est toujours plus ou moins celle-ci. Ainsi, Marcin Wojciech Solarz, professeur à l’université de Varsovie, a repris la question au début du XXIe siècle afin de proposer une cartographie plus juste, fondée sur le croisement de deux critères (Wojciech Solarz, 2009). D’un côté, il inscrit son travail dans la continuité de la réflexion initiée par l’économiste pakistanais Mahbub ul Haq, qui est l’inventeur de l’IDH, l’indice de développement humain utilisé dans le Rapport mondial sur le développement humain publié en 1990. Celui-ci, rappelons-le, agrège plusieurs données sur la santé (espérance de vie à la naissance), le niveau d’instruction (part de la population adulte alphabétisée + effectif scolarisé dans les trois cycles) et le niveau de vie (revenu brut par habitant en parité de pouvoir d’achat). D’un autre côté, Marcin Wojciech Solarz considère qu’il est nécessaire de compléter ces informations par un indicateur du développement politique, permettant de tenir compte du respect des droits politiques et des libertés civiles. Pour cela, il reprend le classement « Freedom in the World » publié tous les ans par l’ONG états-unienne Freedom House. Le croisement de ces deux classements lui permet de proposer deux cartes du Nord global et du Sud global, avec une définition plus ou moins large du Nord. Dans les deux cas, il ne représente pas de ligne qui diviserait le Monde en deux blocs et il conclut ainsi :
«
« Une démarcation contemporaine de la ligne de partage Nord-Sud crée une image sur laquelle les îles et les archipels des pays caractérisés par un niveau de développement élevé sont dispersés dans un océan de pays caractérisés par l’absence de développement. »
Marcin Wojciech Solarz, « North–South, Commemorating the First Brandt Report : searching for the contemporary spatial picture of the global rift », Third World Quarterly, vol. 33, n° 3, 2012, p. 569.
»
À partir des derniers rapports publiés, on peut en proposer une cartographie mise à jour et un peu différente qui dépasse la vision binaire habituelle (document 14). Mais sur la question de l’actualité de la limite Nord-Sud, les travaux récents arrivent à des conclusions parfois différentes.
Document 14. Le Sud global en 2023 d’après les travaux de Marcin Wojciech Solarz
En 2021, Nicholas Lee, dans une étude en termes de niveaux de développement économique, d’inégalités relatives, de pouvoir économique et de satisfaction politique, arrive à la conclusion que malgré une diversité économique accrue entre les pays du Sud, la hiérarchie mondiale reste la même qu’il y a quatre décennies (Lee, 2021, p. 85–106).
Document 15. Dépasser la limite Nord Sud… et la voir ressurgir
Plus récemment, en 2022, la question a été reprise sur le site Géoconfluences par Jean-Benoît Bouron, Laurent Carroué et Hélène Mathian. Ils proposent une nouvelle typologie des pays du monde sur la base d’une analyse multifactorielle combinant sept indicateurs : le taux de fécondité des femmes, la mortalité infantile, le PIB/hab., l’évolution du PIB/hab. entre 2000 et 2020, la consommation des ménages, la formation brute de capital fixe et les inégalités internes aux États (document 15). La ligne Nord-Sud telle qu’on l’enseignait apparaît dépassée, notamment en un point : la Russie est classée comme un pays émergent consolidé, à l’égal du Brésil et de la Chine, et non comme un pays favorisé.
Le paradoxe de cet article, cependant, est peut-être que les pays qui constituent ce groupe de pays privilégiés sont peu ou prou les mêmes qu’il y a quarante ans. Ils correspondant finalement à ceux que Kenichi Ohmae, en 1985, avait inclus dans ce qu’il avait appelé « la Triade ». Terme souvent mal compris, il ne désignait pas alors une structure tripolaire, mais au contraire l’homogénéité d’un certain nombre de pays aux caractéristiques communes, et intéressantes pour des entreprises de plus en plus mondialisées.
«
« On assiste à l’émergence d’un groupe homogènes de consommateurs formé des ressortissants du Japon, d’Amérique du Nord et de la Communauté européenne que nous pouvons appeler les Triadiens. Il s’agit de gens ayant des éducations très similaires de même que des niveaux de revenus, des styles de vie, des loisirs et des aspirations semblables. Dans ces pays démocratiques, l’infrastructure nationale – réseau routier, télécommunications, eau, électricité et services publics – est également très comparable. Les principales caractéristiques de la demande dans ces pays permettent à une entreprise d’aborder ce groupe de quelque 600 millions de personnes comme appartenant pratiquement à la même espèce. »
Kenichi Ohmae, 1985, La Triade. Émergence d’une stratégie mondiale de l’entreprise, trad. de l’américain par C. Pommier, Paris, Flammarion, p. 21.
»
Leur conclusion n’est donc pas si éloignée de celle de Nicholas Lee dans le sens où on distingue toujours des inégalités mondiales et un « groupe de tête » composé des mêmes pays. Mais il est vrai que cela ne correspond pas à ce que montre la carte de la limite Nord-Sud telle qu’on la trace habituellement.
4. Un clivage géopolitique
Pour beaucoup, la ligne Nord-Sud représenterait autant un écart de développement qu’un seuil mal défini, une sorte de ligne de flottaison au-dessus de laquelle émergeraient les pays les plus développés. Marcin Wojciech Solarz souligne combien cette croyance ne tient pas, car le tracé de la ligne Nord-Sud, reprise depuis 1980 sans changement majeur d’une publication à l’autre, ne prend pas en compte le développement des pays (Solarz, 2020, p. 6–7). En un sens, c’est ce qu’ont voulu montrer Jean-Benoît Bouron, Laurent Carroué et Hélène Mathian : si on veut faire une typologie plus exacte, moins simpliste, des pays en fonction de critères socio-économiques, il faut abandonner la « limite Nord-Sud ». Et pourtant ! L’omniprésence, aujourd’hui dans les discours, du « Sud global » (davantage que du « Nord global »), montre bien que cette dichotomie fait sens à une expérience du Monde (Capdepuy, 2023). L’opposition Nord-Sud, qu’on a constamment voulu ramener à un écart de développement mesurable au niveau de richesse, a une dimension géopolitique qui a été gommée.
On semble ainsi complètement oublier que cette vision du Monde a été inventée en 1959, en pleine guerre froide, et qu’elle prend sens par rapport à une autre division, Est-Ouest. Il faut réécouter ce que dit Willy Brandt le 9 décembre 1977, au château de Gymnich, lors de l’ouverture de la Commission Indépendante sur le Développement International :
«
« L’exemple de ce que l’on a appelé l’Ostpolitik a montré qu’il est possible de changer le caractère d’un conflit et de trouver en son sein les éléments d’intérêt mutuel qui peuvent produire des solutions communes acceptables. Des différences fondamentales subsistent, mais de nouveaux domaines de coopération, s’ils sont correctement exploités, influencent même la scène idéologique.
En tout état de cause, je suis prêt à m’engager dans une “Südpolitik” afin de réconcilier au moins certaines parties de la confrontation économique Nord-Sud. »
Willy Brandt, “Opening address by Willy Brandt”, Gymnich Castle, 9 décembre 1977.
»
L’expression de Südpolitik n’a pas eu le succès de celle d’Ostpolitik, mais elle est révélatrice de l’esprit avec lequel cette commission était mise en place : une politique du Nord en direction du Sud dans l’espoir d’apaiser des relations perçues alors comme conflictuelles. L’équivalent de la « limite Nord-Sud » en allemand est « Nord-Süd-Konflikt ».
Document 16. Le dialogue Nord-Sud en 1975–1977
Ainsi est-il plus intéressant de cartographier la division Nord-Sud à partir de l’appartenance à deux ensembles géopolitiques dont l’origine remonte précisément au début des années 1960 lorsque l’expression a été imaginée : d’un côté, l’OCDE, l’Organisation de coopération et de développement économiques, créée en 1961 ; de l’autre, le G77, dont on a déjà dit qu’il avait été fondée en 1964, et qui comporte bien plus de membres aujourd’hui (document 16). La ligne Nord-Sud ne colle pas complètement. Le Mexique est membre de l’OCDE alors que la frontière mexicano-états-unienne est probablement un des lieux où la limite Nord-Sud est le plus tangible. L’ancien bloc communiste apparaît aussi encore en partie en blanc alors que l’URSS était considérée comme un pays du Nord. Il y a là une ambiguïté qui est intéressante, car révélatrice aussi de la posture ancienne de l’URSS et de la Russie d’aujourd’hui à se présenter non comme un pays du Sud, au sens où il serait sous-développé, mais comme un représentant des pays du Sud. Il y aurait une même logique de la conférence anti-impérialiste de Bruxelles en 1927 à la participation aux BRICS au XXIe siècle.
Document 17. Pays développés au sens de l’Annexe B du Protocole de Kyoto
Aujourd’hui, on a généralement tendance à considérer que la ligne Nord-Sud n’est qu’une abstraction, un artefact cartographique. Pourtant, il est un domaine où si la ligne n’est pas tracée, elle n’en divise pas moins les pays en deux catégories, c’est celui de la diplomatie climatique. Cette dichotomie a été actée lors du protocole de Kyoto en 1997 (Demaze, 2009) dont l’Annexe B a distingué deux groupes : d’une part, les pays développés et les ex-pays communistes d’Europe de l’Est, considérés comme « en transition vers une économie de marché » ; d’autre part, tous les autres pays du monde, qui ne sont pas listés, et qui correspondent aux pays en développement (document 17). Seuls les premiers devaient avoir baissé leurs émissions de gaz à effet de serre avant 2005. Le principe d’un tel clivage avait été ratifié à Rio de Janeiro lors de l’adoption de la Convention-cadre des Nations unies sur les changements climatiques, dont l’article 3 évoquait l’inégale responsabilité des pays dans le réchauffement du climat :
«
« Il incombe aux Parties de préserver le système climatique dans l’intérêt des générations présentes et futures, sur la base de l’équité et en fonction de leurs responsabilités communes mais différenciées et de leurs capacités respectives. Il appartient, en conséquence, aux pays développés parties d’être à l’avant-garde de la lutte contre les changements climatiques et leurs effets néfastes. »
Convention-cadre des Nations unies sur les changements climatiques, Nations unies, 1992, article 3, p. 5.
Document 18. Les pays de l’Annexe I de la Convention-cadre des Nations Unies sur les changements climatiques (1992)
Ce sont les mêmes pays développés listés dans l’Annexe I de la Convention-cadre de 1992 qu’on retrouve dans l’Annexe B du protocole de Kyoto, à deux exceptions près : la Biélorussie et la Turquie (document 18). Or cette liste de pays développés, qui implique une liste invisible, celle des pays non nommés, des pays non développés, n’a pas la neutralité de l’annexe à laquelle elle est remisée.
Comme l’affirma le président ougandais Yoweri Museveni lors du sommet de l’Union africaine qui s’était tenue à Addis Abeba en janvier 2007, « le changement climatique est un acte d’agression des riches contre les pauvres ». Propos qui fut rapporté par la ministre des Affaires étrangères britannique Margaret Beckett, alors qu’elle présidait au nom du Royaume-Uni le premier Conseil de sécurité portant sur cette question le 17 avril 2007 (p. 19). Lors de cette même réunion, Nassir Abdulaziz Al-Nasser, représentant du Qatar, insista bien sur cette dichotomie :
«
« Pour parvenir à une compréhension commune qui permette de résoudre le problème du changement climatique, nous ne devons pas oublier le principe, convenu lors de tous les sommets et conférences des Nations unies, des responsabilités communes et différenciées de tous les États. En conséquence, les pays riches, développés et industrialisés se voient attribuer des responsabilités différentes de celles des pays pauvres en développement. »
Nations Unies, Conseil de sécurité, 17 avril 2007, PV 5663, p. 10
»
Cette question de la justice climatique est la pierre d’achoppement des négociations actuelles, comme on a encore pu le voir lors de la COP27 qui s’est tenu à Charm el-Cheikh en novembre 2022. « The Global South Is Done Playing Mr. Nice Guy » titrait le Foreign Policy : « Le Sud global a fini de jouer Monsieur Gentil » (Hockenos, 2022).
En 2009, lors de de la COP15 de Copenhague, avait été émise l’idée d’un Fonds vert pour le climat. Celui-ci devait servir à financer « l’adaptation » des pays en développement les plus vulnérables aux conséquences du réchauffement climatique, en priorité les pays les moins avancés, les États insulaires en développement, les pays d’Afrique (UNFCC, 2010). Ce fonds a été créé l’année suivante lors de la COP16 : « les pays développés parties adhèrent, dans l’optique de mesures concrètes d’atténuation et d’une mise en œuvre transparente, à l’objectif consistant à mobiliser ensemble 100 milliards de dollars par an d’ici à 2020 pour répondre aux besoins des pays en développement » (UNFCC, 2011) – les pays en développement, c’est-à-dire ceux qui ne sont pas sur la liste de l’Annexe I de la Convention-cadre des Nations unies sur les changements climatiques de 1992. Le 29 novembre 2023, lors de l’ouverture de la COP 28 à Doubaï, le ministre des Affaires étrangères égyptien, Sameh Shoukry, qui avait présidé la COP 27, a rappelé que « nous ne pourrons pas atteindre nos objectifs communs sans l’adhésion de tous, et en premier lieu des pays du Sud », ajoutant :
«
« Nous devons commencer à agir en faveur de la justice climatique et fournir les outils nécessaires dont nous avons déjà convenu à Charm el-Cheikh pour financer les pertes et les dommages, y compris la création d’un fonds. L’un des principaux résultats de la COP 28 est que le fonds soit pleinement opérationnel et financé. »
United Nations Climate Change, « La COP 28 s’ouvre à Dubaï appelant à l’accélération de l’actio climatique et à une plus grande ambition face à l’escalade de la crise climatique », décembre 2023.
»
Plus de trente ans après, le clivage que cette catégorisation a acté perdure, quelle qu’ait été l’évolution économique des pays en question, et continue de diviser le Monde en deux : les pays développés et les pays en développement, le Nord et le Sud. Les problèmes sont communs, mais les responsabilités apparaissent différentes.
Conclusion
La dichotomie mondiale entre « Nord » et « Sud » ne date pas de 1980 (Capdepuy, 2018, p. 393). Il serait même possible de trouver les prémices d’une ligne Nord / Sud dans les décisions prises par différents papes au cours de la deuxième moitié du XVe siècle. On pense souvent à la ligne globale tracée « de pôle à pôle » par le traité de Tordesillas en 1494, mais on oublie la bulle Romanus Pontifex de 1454 qui donnait au roi du Portugal Alphonse V et à ses successeurs le droit de coloniser les territoires situés « à partir des caps Bojador et Nam jusqu’à toute la Guinée, c’est-à-dire en direction du Sud » [9]. Cette déclaration du pape dessinait une sorte de ligne distinguant deux mondes. Au sud d’une ligne qui correspondrait à peu près au 26e parallèle, on pouvait s’approprier tous les territoires et réduire en esclavage « Sarrasins et païens » ; au nord, c’était interdit. Les différents traités et bulles papales représentent à la fois la prétention absolue de puissances européennes, avec la bénédiction de l’Église catholique, à régenter un espace global dont elles n’avaient même pas encore fait le tour, et la dichotomie juridique instaurée entre l’Europe et le reste, qui était accaparable et exploitable, en un mot, colonisable.
On pourrait considérer cela avec un certain scepticisme en arguant que tout cela est de l’histoire ancienne, sans rapport direct avec le Monde du XXIe siècle. On aurait tort. Pour preuve de l’actualité de ce rappel, le 30 mars 2023 a été publiée une Note commune sur la « Doctrine de la découverte » par le Dicastère pour la Culture et l’Éducation et le Dicastère pour le Service du Développement Humain Intégral. Rappelant la bulle Sublimis Deus prise par le pape Paul III en 1537 et condamnant déjà l’esclavagisation des populations indiennes, le Vatican a exprimé son rejet de ces bulles pontificales qui « n’ont pas reflété de manière adéquate l’égale dignité et les droits des peuples autochtones » et dont le contenu « a été manipulé à des fins politiques par des puissances coloniales concurrentes afin de justifier des actes immoraux à l’encontre des peuples autochtones qui ont été réalisés parfois sans que les autorités ecclésiastiques ne s’y opposent » :
«
« L’Église est également consciente que le contenu de ces documents a été manipulé à des fins politiques par des puissances coloniales concurrentes afin de justifier des actes immoraux à l’encontre des peuples autochtones qui ont été réalisés parfois sans que les autorités ecclésiastiques ne s’y opposent. Il est juste de reconnaître ces erreurs, de reconnaître les terribles effets des politiques d’assimilation et la douleur éprouvée par les peuples autochtones, et de demander pardon. »
« Joint Statement of the Dicasteries for Culture and Education and for Promoting Integral Human Development on the “Doctrine of Discovery” », Bollettino della Sala stampa della Santa Sede, 30 mars 2023.
»
Il reste que ce qui est visé ici ne concerne pas uniquement le Sud, mais aussi toute l’Amérique autochtone. De ce point de vue, la ligne Nord-Sud telle que dessinée sur la couverture du rapport de 1980 n’a aucune pertinence. Mais il n’est pas forcément besoin de tracer une ligne pour que le clivage entre ce qu’on appelle aujourd’hui le Nord global et le Sud global soit présent à l’esprit.
Bibliographie
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UNFCC, Rapport de la Conférence des Parties sur sa seizième session tenue à Cancun du 29 novembre au 10 décembre 2010, Additif, Deuxième partie : Mesures prises par la Conférence des Parties à sa seizième session, 15 mars 2011.
▻http://geoconfluences.ens-lyon.fr/informations-scientifiques/dossiers-thematiques/inegalites/articles/limite-nord-sud
#Nord #Sud #Sud_global #ligne_Nord-Sud #cartographie #visualisation #manuels_scolaires #histoire #ressources_pédagogiques #Oliver_Franks #Walt_Rostow #Rostow #Willy_Brandt #ligne_Brandt #rapport_Brandt #Tiers-Monde #développement
]]>La #nouvelle du jeudi 20:42
▻https://framablog.org/2024/01/25/la-nouvelle-du-jeudi-2042
Chaque jour de cette semaine, à 20:42, une nouvelle de 2042 concoctée avec amour par les participant⋅es des ateliers #solarpunk #UPLOAD de l’Université Technologique de #Compiègne (UTC). Aujourd’hui, sous le regard étonné des enfants de 2042, une exposition sur Compiègne … Lire la suite
#Communs_culturels #Enjeux_du_numérique #UPLOAD #atelier #Democratie #écriture #indices #LowTech #oligarchie #PIB #Politique #représentation #RIP #Sante #soin #Solarpunk #UTC #Voitures
]]>Gmail And Yahoo Inbox Updates & What They Mean For Senders | Mailgun
▻https://www.mailgun.com/blog/deliverability/gmail-and-yahoo-inbox-updates-2024
The requirement from both Gmail and Yahoo is to set up strong authentication with “SPF, DKIM, and DMARC for your domain.” Previously not a requirement, this move towards implementing DMARC is something Sinch Mailgun’s Jonathan Torres had already predicted in our guide on email security and compliance.
(...) For DMARC you will need to set at minimum a p=none policy. (...)
Il ne suffit plus d’avoir SPF et DKIM, il va aussi falloir implémenter l’enregistrement DMARC, en mode « none » au minimum.
]]>La technocritique devant ses calomniateurs
Quelques observations
Suite à la publication du texte "Le naufrage réactionnaire du mouvement anti-industriel • Histoire de dix ans"
►https://seenthis.net/messages/1029340
▻https://seenthis.net/messages/1029970
Voici les réponses qui ont été publiées :
1. Anaïs G.
▻https://www.infolibertaire.net/reponse-naufrage-reactionnaire-du-mouvement-anti-indus
2. « Naufrage réactionnaire » : la plaidoirie de la défense
▻https://lille.indymedia.org/spip.php?article36165
3. Qui a peur de la critique anti-industrielle ?
▻https://collectifruptures.wordpress.com/2024/01/06/qui-a-peur-de-la-critique-anti-industrielle
4. #Annie_Gouilleux, La nébuleuse (soi-disant) anti-autoritaire…
▻https://lesamisdebartleby.wordpress.com/2024/01/07/annie-gouilleux-la-nebuleuse-soi-disant-anti-autoritair
Laquelle prépare une sorte de biographie de #Paul_Kingsnorth pour montrer à quel point il est "fasciste" et "pro-Trump"...
5. Une lettre du "fasciste" #Olivier_Rey à Vincent Cheynet
▻https://lesamisdebartleby.wordpress.com/2024/01/16/une-lettre-dolivier-rey-a-vincent-cheynet
6. Édouard Schaelchli, « À chacun son fascisme ? »
▻https://lesamisdebartleby.wordpress.com/2024/01/24/edouard-schaelchli-a-chacun-son-fascisme
Franchement, on se serait bien passé des petites obsessions de ce monsieur.
7. Sébastien Navarro, Avant de tous y passer
▻http://acontretemps.org/spip.php?article1033
Recension d’un livre de #Derrick_Jensen qui commence par qqs commentaires sur le torchon.
Je mettrait à jour ce fil à mesure que de nouvelles réponses vont arriver...
#technocritique #critique_techno #postmodernisme #calomnie #Naufrage_réactionnaire
]]>Pour l’#agriculture_palestinienne, ce qui se passe depuis le 7 octobre est « un #désastre »
À #Gaza sous les bombes comme en #Cisjordanie occupée, l’#eau est devenue un enjeu crucial, et le conflit met en évidence une #injustice majeure dans l’accès à cette ressource vitale. Entretien avec l’hydrologue Julie Trottier, chercheuse au CNRS.
Des cultures gâchées, une population gazaouie sans eau potable… Et en toile de fond de la guerre à Gaza, une extrême dépendance des territoires palestiniens à l’eau fournie par #Israël. L’inégal accès à la ressource hydrique au Proche-Orient est aussi une histoire d’emprise sur les #ressources_naturelles.
Entretien avec l’hydrologue Julie Trottier, chercheuse au CNRS, qui a fait sa thèse sur les enjeux politiques de l’eau dans les territoires palestiniens et a contribué à l’initiative de Genève, plan de paix alternatif pour le conflit israélo-palestinien signé en 2003, pour laquelle elle avait fait, avec son collègue David Brooks, une proposition de gestion de l’eau entre Israéliens et Palestiniens.
Mediapart : L’#accès_à_l’eau est-il un enjeu dans le conflit qui oppose Israël au Hamas depuis le 7 octobre ?
Julie Trottier : Oui, l’accès à l’eau est complètement entravé à Gaza aujourd’hui. En Cisjordanie, la problématique est différente, mais le secteur agricole y est important et se trouve mal en point.
Il faut savoir que l’eau utilisée en Israël vient principalement du #dessalement d’eau de mer. C’est la société israélienne #Mekorot qui l’achemine, et elle alimente en principe la bande de Gaza en #eau_potable à travers trois points d’accès. Mais depuis le 7 octobre, deux d’entre eux ont été fermés, il n’y a plus qu’un point de livraison, au sud de la frontière est, à #Bani_Suhaila.
Cependant, 90 % de l’eau consommée à Gaza était prélevée dans des #puits. Il y a des milliers de puits à Gaza, c’est une #eau_souterraine saumâtre et polluée, car elle est contaminée côté est par les composés chimiques issus des produits utilisés en agriculture, et infiltrée côté ouest par l’eau de mer.
Comme l’#électricité a été coupée, cette eau ne peut plus être pompée ni désalinisée. En coupant l’électricité, Israël a supprimé l’accès à l’eau à une population civile. C’est d’une #violence extrême. On empêche 2,3 millions de personnes de boire et de cuisiner normalement, et de se laver.
Les #stations_d’épuration ne fonctionnent plus non plus, et les #eaux_usées non traitées se répandent ; le risque d’épidémie est considérable.
On parle moins de l’accès aux ressources vitales en Cisjordanie… Pourtant la situation s’aggrave également dans ces territoires.
En effet. Le conflit a éclaté peu avant la saison de cueillette des #olives en Cisjordanie. Pour des raisons de sécurité, craignant de supposés mouvements de terroristes, de nombreux colons ont empêché des agriculteurs palestiniens d’aller récolter leurs fruits.
La majorité des villages palestiniens se trouvent non loin d’une colonie. En raison des blocages sur les routes, les temps de trajet sont devenus extrêmement longs. Mais si l’on ne circule plus c’est aussi parce que la #peur domine. Des colons sont équipés de fusils automatiques, des témoignages ont fait état de menaces et de destruction d’arbres, de pillages de récoltes.
Résultat : aujourd’hui, de nombreux agriculteurs palestiniens n’ont plus accès à leurs terres. Pour eux, c’est un désastre. Quand on ne peut pas aller sur sa terre, on ne peut plus récolter, on ne peut pas non plus faire fonctionner son système d’#irrigation.
L’accès à l’eau n’est malheureusement pas un problème nouveau pour la Palestine.
C’est vrai. En Cisjordanie, où l’eau utilisée en agriculture vient principalement des sources et des puits, des #colonies ont confisqué de nombreux accès depuis des années. Pour comprendre, il faut revenir un peu en arrière...
Avant la création d’Israël, sur ces terres, l’accès à chaque source, à chaque puits, reposait sur des règles héritées de l’histoire locale et du droit musulman. Il y avait des « #tours_d’eau » : on distribuait l’abondance en temps d’abondance, la pénurie en temps de pénurie, chaque famille avait un moment dans la journée pendant lequel elle pouvait se servir. Il y avait certes des inégalités, la famille descendant de celui qui avait aménagé le premier conduit d’eau avait en général plus de droits, mais ce système avait localement sa légitimité.
À l’issue de la guerre de 1948-1949, plus de 700 000 Palestiniens ont été expulsés de leurs terres. Celles et ceux qui sont arrivés à ce qui correspond aujourd’hui à la Cisjordanie n’avaient plus que le « #droit_de_la_soif » : ils pouvaient se servir en cruches d’eau, mais pas pour irriguer les champs. Les #droits_d’irrigation appartenaient aux familles palestiniennes qui étaient déjà là, et ce fut accepté comme tel. Plus tard, les autorités jordaniennes ont progressivement enregistré les différents droits d’accès à l’eau. Mais ce ne sera fait que pour la partie nord de la Cisjordanie.
À l’intérieur du nouvel État d’#Israël, en revanche, la population palestinienne partie, c’est l’État qui s’est mis à gérer l’ensemble de l’eau sur le territoire. Dans les années 1950 et 1960, il aménage la dérivation du #lac_de_Tibériade, ce qui contribuera à l’#assèchement de la #mer_Morte.
En 1967, après la guerre des Six Jours, l’État hébreu impose que tout nouveau forage de puits en Cisjordanie soit soumis à un permis accordé par l’administration israélienne. Les permis seront dès lors attribués au compte-gouttes.
Après la première Intifida, en 1987, les difficultés augmentent. Comme cela devient de plus en plus difficile pour la population palestinienne d’aller travailler en Israël, de nombreux travailleurs reviennent vers l’activité agricole, et les quotas associés aux puits ne correspondent plus à la demande.
Par la suite, les #accords_d’Oslo, en 1995, découpent la Cisjordanie, qui est un massif montagneux, en trois zones de ruissellement selon un partage quantitatif correspondant aux quantités prélevées en 1992 – lesquelles n’ont plus rien à voir avec aujourd’hui. La répartition est faite comme si l’eau ne coulait pas, comme si cette ressource était un simple gâteau à découper. 80 % des eaux souterraines sont alors attribuées aux Israéliens, et seulement 20 % aux Palestiniens.
L’accaparement des ressources s’est donc exacerbé à la faveur de la #colonisation. Au-delà de l’injustice causée aux populations paysannes, l’impact du changement climatique au Proche-Orient ne devrait-il pas imposer de fonctionner autrement, d’aller vers un meilleur partage de l’eau ?
Si, tout à fait. Avec le #changement_climatique, on va droit dans le mur dans cette région du monde où la pluviométrie va probablement continuer à baisser dans les prochaines années.
C’est d’ailleurs pour cette raison qu’Israël a lancé le dessalement de l’eau de mer. Six stations de dessalement ont été construites. C’est le choix du #techno-solutionnisme, une perspective coûteuse en énergie. L’État hébreu a même créé une surcapacité de dessalement pour accompagner une politique démographique nataliste. Et pour rentabiliser, il cherche à vendre cette eau aux Palestiniens. De fait, l’Autorité palestinienne achète chaque année 59 % de l’eau distribuée par Mekorot. Elle a refusé toutefois une proposition d’exploitation d’une de ces usines de dessalement.
Il faut le souligner : il y a dans les territoires palestiniens une #dépendance complète à l’égard d’Israël pour la ressource en eau.
Quant à l’irrigation au goutte à goutte, telle qu’elle est pratiquée dans l’agriculture palestinienne, ce n’est pas non plus une solution d’avenir. Cela achemine toute l’eau vers les plantes cultivées, et transforme de ce fait le reste du sol en désert, alors qu’il faudrait un maximum de biodiversité sous nos pieds pour mieux entretenir la terre. Le secteur agricole est extrêmement consommateur d’eau : 70 à 80 % des #ressources_hydriques palestiniennes sont utilisées pour l’agriculture.
Tout cela ne date pas du 7 octobre. Mais les événements font qu’on va vers le contraire de ce que l’on devrait faire pour préserver les écosystèmes et l’accès aux ressources. L’offensive à Gaza, outre qu’elle empêche l’accès aux #terres_agricoles le long du mur, va laisser des traces de #pollution très graves dans le sol… En plus de la tragédie humaine, il y a là une #catastrophe_environnementale.
Cependant, c’est précisément la question de l’eau qui pourrait avoir un effet boomerang sur le pouvoir israélien et pousser à une sortie du conflit. Le reversement actuel des eaux usées, non traitées, dans la mer, va avoir un impact direct sur les plages israéliennes, car le courant marin va vers le nord. Cela ne pourra pas durer bien longtemps.
▻https://www.mediapart.fr/journal/international/040124/pour-l-agriculture-palestinienne-ce-qui-se-passe-depuis-le-7-octobre-est-u
]]>#Loi_immigration : après l’arrestation de livreurs en situation irrégulière, la colère d’#Éric_Piolle et d’élus de gauche
Le maire de Grenoble et des représentants EELV et PS critiquent l’#opération_de_police de ce mercredi en Isère, et au passage la loi immigration.
Le gouvernement voudrait passer à autre chose, la gauche s’y refuse. La loi immigration est revenue à toute vitesse dans les débats en cette fin décembre, conséquence de l’#arrestation d’une dizaine de #livreurs de repas en situation irrégulière mercredi 27 en #Isère, une information rapportée par Le Dauphiné Libéré. Le maire de #Grenoble, Éric Piolle, suivi par d’autres élus de gauche, a dénoncé « une #indignité » pendant que la CGT parlait de « #rafle ».
L’édile écologiste a directement interpellé le ministre de l’Intérieur #Gérald_Darmanin, déplorant que « ces personnes seraient donc suffisamment ’régulières’ pour attendre dans le froid de vous livrer vos repas, mais pas pour vivre dignement avec nous ».
« Voici le vrai visage de ce gouvernement »
Éric Piolle veut ainsi relancer les discussions autour de la #régularisation des #travailleurs_sans_papiers dans les secteurs en tension. Une mesure ardemment défendue par la gauche pendant les débats sur la loi immigration, mais qui a finalement été écartée de la version du texte adoptée par le Parlement.
▻https://twitter.com/EricPiolle/status/1740413156227182760
Dans le sillage du maire, le secrétaire général du PS, #Olivier_Faure, s’est également exprimé les réseaux sociaux : « Si tous les étrangers en situation régulière ou irrégulière se mettaient en grève une journée, chacun se rendrait compte qu’ils sont dans tous les métiers de la seconde ligne, livreurs, auxiliaires de vie, caristes, assistantes maternelles… loués pendant la crise Covid et puis… ».
Autre élue EELV, la présidente du groupe écologiste à l’Assemblée #Cyrielle_Chatelain a elle aussi dénoncé l’opération de police, et entre les lignes la loi immigration adoptée définitivement le 19 décembre dernier. « Voici le vrai visage de ce gouvernement : être méchant avec tous les étrangers, même s’ils travaillent, même s’ils s’intègrent », a-t-elle fustigé, là encore sur X (anciennement Twitter).
Et pour cause : l’opération baptisée « #Uber_Eats », menée simultanément dans plusieurs localités iséroises (Grenoble, #Voiron, #Vienne…), a conduit à l’#interpellation de nombreux livreurs. Des ressortissants algériens, burkinabés, guinéens ou tunisiens qui ont été placés en #garde_à_vue à Lyon et Grenoble après la saisie de leur vélo, et qui ont été libérés après s’être vu notifier des #obligations_de_quitter_le_territoire_français (#OQTF) et des #interdictions_de_retour_sur_le_territoire (#IRTF), comme l’a expliqué #Mohamed_Fofana, responsable CGT des livreurs du département lors d’un point presse organisé ce vendredi.
Piolle invité à « aimer les policiers »
« Nous dénonçons cette opération de police (...) dans une période de fêtes où les associations de défense des migrants et beaucoup d’avocats sont en congé et les recours compliqués », a insisté ce responsable. « Nous sommes des travailleurs, pas des délinquants », a-t-il ajouté, rappelant que beaucoup de livreurs travaillent dans des conditions précaires et pour des « rémunérations scandaleusement basses ». « La place Victor Hugo (à Grenoble) a été complètement fermée par des camions de police. C’était une #nasse. Cela s’appelle une rafle quand cela vise une catégorie particulière de personnes », s’est indigné de son côté un responsable de l’Union locale de la CGT, Alain Lavi.
Le procureur de la République de Grenoble, #Éric_Vaillant, a répondu à Éric Piolle et aux critiques ayant ciblé l’opération : « Ces #contrôles ont été opérés à ma demande. Ils ont aussi permis de constater que les livreurs en situation irrégulière étaient gravement exploités par ceux qui leur sous-louaient leur #licence. Des enquêtes sont engagées », a-t-il indiqué. La préfecture de l’Isère a pour sa part souligné être garante « de l’application des lois de la République ».
Le ministre de l’Intérieur Gérald #Darmanin, interrogé à ce propos alors qu’il présentait le dispositif de sécurité pour la Saint-Sylvestre, s’est pour sa part contenté de lancer à Éric Piolle : « J’invite le maire de Grenoble à aimer les policiers et à soutenir la loi de la République ».
▻https://twitter.com/BFMTV/status/1740687346364739605
Quelques heures plus heures, l’élu EELV a répondu au ministre dans un tweet, en énumérant « les cinq actes » de la « #tragédie_macroniste : « laisser les #plateformes créer des situations d’#esclavage, voter la loi immigration avec le RN, imposer la politique du chiffre à la police, arrêter des personnes sans défense, inviter à aimer la police ».
▻https://www.huffingtonpost.fr/politique/article/loi-immigration-apres-l-arrestation-de-livreurs-en-situation-irreguli
#Eric_Piolle #résistance #migrations #sans-papiers #Eric_Vaillant
La bulle de filtres : comment les réseaux sociaux nous confortent dans « nos propres croyances et opinions »
▻https://www.francetvinfo.fr/replay-radio/le-fil-des-reseaux/la-bulle-de-filtres-les-reseaux-sociaux-nous-confortent-dans-nos-propre
Pour inciter les internautes à rester sur les plateformes, les algorithmes repèrent les intérêts de chacun et proposent un contenu personnalisé. Au point de limiter la diversité d’opinion.
Article rédigé par France Info - Audrey Abraham
Radio France
Publié le 25/12/2023 07:49 Mis à jour le 26/12/2023 10:09
Temps de lecture : 2 min
Vous vous êtes probablement déjà demandé pourquoi vous tombez toujours sur les mêmes vidéos de cuisine, de déco, de chatons sur Instagram, Tiktok ou encore Facebook. Cela n’a rien d’un hasard, ça a même un nom ! C’est ce qu’on appelle la bulle de filtres et les algorithmes en sont responsables. Concrètement, le moindre click, le moindre like est mémorisé et indique vos préférences à la plateforme pour personnaliser le contenu qui vous est proposé.
à lire aussi Les algorithmes d’Instagram facilitent la vente de pédopornographie, selon des chercheurs
Olivier Ertzscheid est maître de conférences à l’université de Nantes : « Les propriétaires de ces plateformes se disent ’Pour garder les gens attentifs pour que les gens restent sur nos plateformes il faut qu’on leur serve des choses dont on sait déjà qu’elles les intéressent et donc plutôt que de leur présenter des opinions, des avis différents, on va leur présenter des choses qui vont dans le sens de ce qu’on appelle leur propre biais de croyances.’ Si ce sont des gens qui ont une passion pour la gastronomie on va leur afficher toujours plus de sites en lien avec la gastronomie. »
Voilà comment chacun à notre niveau, en sélectionnant les comptes que nous avons envie de suivre, les contenus que nous avons envie de partager, nous alimentons sans nous en rendre compte cette bulle de filtre, « alors que la promesse initiale des réseaux sociaux, c’est de vous exposer à plein de gens différents, de diversités de culture, d’opinions, de points de vue, d’avis, reprend Olivier Ertzscheid. Finalement, on s’aperçoit qu’on nous expose de plus en plus à de l’identique, à des choses qui nous confortent pour nos propres croyances et opinions. » Les vidéos de cuisine, de musique, de paysages sont donc concernées. Ce que l’on peut considérer comme du contenu léger mais pas uniquement. Le contenu politique est aussi soumis au mécanisme des algorithmes.
Un usage politique
C’est dans ce cas de figure que la bulle de filtres est moins anodine et mérite d’être davantage questionnée. On le sait sur les réseaux sociaux tout est mélangé. Il n’y a pas d’un côté le contenu divertissant, de l’autre les sujets politiques. Le flux est constant, continu... Les discours sont plus ou moins explicites.
Alors notre faculté de discernement s’altère : « De toute éternité, l’être humain, a toujours des biais et il adore se conforter, se vautrer dans ses propres biais culturels, sociologiques, politiques, etc. Là où ça devient problématique c’est à partir du moment où tout ça est brassé sans qu’on ait de ligne éditoriale claire. Les gens qui en général vont acheter le journal ou lire le journal ’Libération’. Il est assez rare que ce soit aussi des gens qui vont lire le journal ’Valeurs Actuelles’. Parce qu’ils savent ce qu’ils vont chercher. Ils savent que ’Libération’ est à gauche et que ’Valeurs Actuelles’ est très à droite. À l’échelle des médias sociaux, ce qui est compliqué c’est quand on n’a pas les codes pour décrypter les intentions, sachant qu’il y a toujours des intentions qui peuvent être basiquement commerciales et de plus en plus souvent aussi politiques. »
Impossible d’y échapper, les algorithmes sont l’essence même des réseaux sociaux. L’important c’est d’en être conscient. Les autorités de régulation imposent d’ailleurs aux plateformes d’être plus transparentes avec les utilisateurs, qui on le rappelle sont parfois mineurs, en expliquant notamment autant que possible la manière dont fonctionnent leurs algorithmes.
]]>« Crime dans les #Alpilles »... (hier, FR3)
Si ça peut permettre à certains/es de (re)découvrir les Alpilles (redif), qui ne sont pas qu’une #montagnette, surtout en #été #canicule... :-D :-D :-D
#Provence #Arles #Camargue #oliviers #vignes #Maussane #bambouseraies #vangauguin #soleil #lumière #vent #cigales
]]>Transhumanisme et science fiction. Germinata, roman d’Olivier Fournout, sociologue à Télécom-Paris - YouTube
▻https://www.youtube.com/watch?v=laDmSDTgZQE
Olivier Fournout, sociologue à Télécom-Paris présente son dernier roman Germinata. Il revient sur ses recherches et ce que son travail apporte à ce roman de science fiction.
]]>MÉDIAS, MÉRITOCRATIE, DÉRIVE AUTORITAIRE : combattre les gardiens de l’ordre - François Bégaudeau
▻https://www.youtube.com/watch?v=AC47dCXQo3o
Le #village_sous_la_forêt, de #Heidi_GRUNEBAUM et #Mark_KAPLAN
En #1948, #Lubya a été violemment détruit et vidé de ses habitants par les forces militaires israéliennes. 343 villages palestiniens ont subi le même sort. Aujourd’hui, de #Lubya, il ne reste plus que des vestiges, à peine visibles, recouverts d’une #forêt majestueuse nommée « Afrique du Sud ». Les vestiges ne restent pas silencieux pour autant.
La chercheuse juive sud-africaine, #Heidi_Grunebaum se souvient qu’étant enfant elle versait de l’argent destiné officiellement à planter des arbres pour « reverdir le désert ».
Elle interroge les acteurs et les victimes de cette tragédie, et révèle une politique d’effacement délibérée du #Fonds_national_Juif.
« Le Fonds National Juif a planté 86 parcs et forêts de pins par-dessus les décombres des villages détruits. Beaucoup de ces forêts portent le nom des pays, ou des personnalités célèbres qui les ont financés. Ainsi il y a par exemple la Forêt Suisse, le Parc Canada, le Parc britannique, la Forêt d’Afrique du Sud et la Forêt Correta King ».
►https://www.villageunderforest.com
Trailer :
►https://www.youtube.com/watch?v=ISmj31rJkGQ
#israel #palestine #carte #Israël #afrique_du_sud #forêt #documentaire
#film #documentaire #film_documentaire
(copier-coller de ce post de 2014 : ►https://seenthis.net/messages/317236)
]]>Le naufrage réactionnaire du mouvement anti-industriel · Histoire de dix ans - Le Numéro Zéro
▻https://lenumerozero.info/Le-naufrage-reactionnaire-du-mouvement-anti-industriel-Histoire-de-di
« En temps de crise l’extrême droite a pour stratégie de tenter des rapprochements avec l’autre bord de l’échiquier politique. Nous en appelons donc à la vigilance, afin qu’aucune passerelle ne soit établie entre nos mouvements et des courants antisémites, racistes, antiféministes, nationalistes, conspirationnistes, etc., etc., et les personnes qui pourraient être complaisantes à leur égard. » [1]
C’est par ces mots qu’il y a dix ans les animateurs des éditions #L’Échappée - Cédric Biagini, Guillaume Carnino et Patrick Marcolini - répondaient aux critiques qui leur avaient été faites quant à la présence d’un proche d’Alain Soral, Charles Robin, parmi les auteur·ices de leur recueil intitulé Radicalité, 20 penseurs vraiment critiques. Cet ‘appel à la vigilance’ sonnait alors comme une résolution sérieuse, et ferme.
De 2008 à 2013, le groupe anti-industriel Pièces et Main d’Oeuvre (#PMO) a dirigé au sein des éditions L’Échappée la collection Négatif. Ce groupe, qui s’était fait connaître pour son opposition aux nanotechnologies, va, autour des années 2013-2014, intensifier ses prises de positions ouvertement antiféministes et transphobes. Celles-ci seront suivies de déclarations islamophobes et de collaborations régulières avec des publications proches de l’extrême-droite telles RageMag, Le Comptoir, ou Limite.
Le développement violemment antiféministe et raciste de PMO, qui dès 2004 attaquait le « popullulationnisme » des « techno-lesbiennes » [2], devint emblématique des glissements réactionnaires potentiels du #courant_anti-industriel, qui trouvent un terrain propice dans ses tendances à l’essentialisation positive de la « Nature » et sa négation de la pluralité des rapports de domination au profit d’une seule critique, celle du « techno-totalitarisme » des « technocrates » qui menacerait une humanité indifférenciée.
Il aurait été concevable que le courant anti-industriel (qui a émergé au cours des années 1980 avec la revue post-situationniste l’Encyclopédie des Nuisances devenue ensuite maison d’édition), dont de nombreu·ses membres se revendiquent de l’anarchisme, se distingue de ces offensives réactionnaires en leur sein et en produise une critique émancipatrice. Ni l’un ni l’autre n’est arrivé.
PMO a continué à évoluer sans encombre au sein du mouvement anti-industriel [3]. Et PMO a essaimé. Des initiatives sont nées, se revendiquant de leur héritage réactionnaire, comme le podcast Floraisons, ainsi que les Éditions Libre et la branche française de Deep Green Resistance (DGR), toutes deux co-fondées par Nicolas Casaux et Kevin Haddock, qui revendiquent une transphobie assumée.
]]>Fermes, coopératives... « En #Palestine, une nouvelle forme de #résistance »
Jardins communautaires, coopératives... En Cisjordanie et à Gaza, les Palestiniens ont développé une « #écologie_de_la_subsistance qui n’est pas séparée de la résistance », raconte l’historienne #Stéphanie_Latte_Abdallah.
Alors qu’une trêve vient de commencer au Proche-Orient entre Israël et le Hamas, la chercheuse Stéphanie Latte Abdallah souligne les enjeux écologiques qui se profilent derrière le #conflit_armé. Elle rappelle le lien entre #colonisation et #destruction de l’#environnement, et « la relation symbiotique » qu’entretiennent les Palestiniens avec leur #terre et les êtres qui la peuplent. Ils partagent un même destin, une même #lutte contre l’#effacement et la #disparition.
Stéphanie Latte Abdallah est historienne et anthropologue du politique, directrice de recherche au CNRS (CéSor-EHESS). Elle a récemment publié La toile carcérale, une histoire de l’enfermement en Palestine (Bayard, 2021).
Reporterre — Comment analysez-vous à la situation à #Gaza et en #Cisjordanie ?
Stéphanie Latte Abdallah — L’attaque du #Hamas et ses répercussions prolongent des dynamiques déjà à l’œuvre mais c’est une rupture historique dans le déchaînement de #violence que cela a provoqué. Depuis le 7 octobre, le processus d’#encerclement de la population palestinienne s’est intensifié. #Israël les prive de tout #moyens_de_subsistance, à court terme comme à moyen terme, avec une offensive massive sur leurs conditions matérielles d’existence. À Gaza, il n’y a plus d’accès à l’#eau, à l’#électricité ou à la #nourriture. Des boulangeries et des marchés sont bombardés. Les pêcheurs ne peuvent plus accéder à la mer. Les infrastructures agricoles, les lieux de stockage, les élevages de volailles sont méthodiquement démolis.
En Cisjordanie, les Palestiniens subissent — depuis quelques années déjà mais de manière accrue maintenant — une forme d’#assiègement. Des #cultures_vivrières sont détruites, des oliviers abattus, des terres volées. Les #raids de colons ont été multipliés par deux, de manière totalement décomplexée, pour pousser la population à partir, notamment la population bédouine qui vit dans des zones plus isolées. On assiste à un approfondissement du phénomène colonial. Certains parlent de nouvelle #Nakba [littéralement « catastrophe » en Arabe. Cette expression fait référence à l’exode forcé de la population palestinienne en 1948]. On compte plus d’1,7 million de #déplacés à Gaza. Où iront-ils demain ?
« Israël mène une #guerre_totale à une population civile »
Gaza a connu six guerres en dix-sept ans mais il y a quelque chose d’inédit aujourd’hui, par l’ampleur des #destructions, le nombre de #morts et l’#effet_de_sidération. À défaut d’arriver à véritablement éliminer le Hamas – ce qui est, selon moi, impossible — Israël mène une guerre totale à une population civile. Il pratique la politique de la #terre_brûlée, rase Gaza ville, pilonne des hôpitaux, humilie et terrorise tout un peuple. Cette stratégie a été théorisée dès 2006 par #Gadi_Eizenkot, aujourd’hui ministre et membre du cabinet de guerre, et baptisée « la #doctrine_Dahiya », en référence à la banlieue sud de Beyrouth. Cette doctrine ne fait pas de distinction entre #cibles_civiles et #cibles_militaires et ignore délibérément le #principe_de_proportionnalité_de_la_force. L’objectif est de détruire toutes les infrastructures, de créer un #choc_psychologique suffisamment fort, et de retourner la population contre le Hamas. Cette situation nous enferme dans un #cycle_de_violence.
Vos travaux les plus récents portent sur les initiatives écologiques palestiniennes. Face à la fureur des armes, on en entend évidemment peu parler. Vous expliquez pourtant qu’elles sont essentielles. Quelles sont-elles ?
La Palestine est un vivier d’#innovations politiques et écologiques, un lieu de #créativité_sociale. Ces dernières années, suite au constat d’échec des négociations liées aux accords d’Oslo [1] mais aussi de l’échec de la lutte armée, s’est dessinée une #troisième_voie.
Depuis le début des années 2000, la #société_civile a repris l’initiative. Dans de nombreux villages, des #marches et des #manifestations hebdomadaires sont organisées contre la prédation des colons ou pour l’#accès_aux_ressources. Plus récemment, s’est développée une #économie_alternative, dite de résistance, avec la création de #fermes, parfois communautaires, et un renouveau des #coopératives.
L’objectif est de reconstruire une autre société libérée du #néolibéralisme, de l’occupation et de la #dépendance à l’#aide_internationale. Des agronomes, des intellectuels, des agriculteurs, des agricultrices, des associations et des syndicats de gauche se sont retrouvés dans cette nouvelle forme de résistance en dehors de la politique institutionnelle. Une jeune génération a rejoint des pionniers. Plutôt qu’une solution nationale et étatique à la colonisation israélienne — un objectif trop abstrait sur lequel personne n’a aujourd’hui de prise — il s’agit de promouvoir des actions à l’échelle citoyenne et locale. L’idée est de retrouver de l’#autonomie et de parvenir à des formes de #souveraineté par le bas. Des terres ont été remises en culture, des #fermes_agroécologiques ont été installées — dont le nombre a explosé ces cinq dernières années — des #banques_de_semences locales créées, des modes d’#échange directs entre producteurs et consommateurs mis en place. On a parlé d’« #intifada_verte ».
Une « intifada verte » pour retrouver de l’autonomie
Tout est né d’une #prise_de_conscience. Les #territoires_palestiniens sont un marché captif pour l’#économie israélienne. Il y a très peu de #production. Entre 1975 et 2014, la part des secteurs de l’agriculture et de l’#industrie dans le PIB a diminué de moitié. 65 % des produits consommés en Cisjordanie viennent d’Israël, et plus encore à Gaza. Depuis les accords d’Oslo en 1995, la #production_agricole est passée de 13 % à 6 % du PIB.
Ces nouvelles actions s’inscrivent aussi dans l’histoire de la résistance : au cours de la première Intifada (1987-1993), le #boycott des taxes et des produits israéliens, les #grèves massives et la mise en place d’une économie alternative autogérée, notamment autour de l’agriculture, avaient été centraux. À l’époque, des #jardins_communautaires, appelés « les #jardins_de_la_victoire » avait été créés. Ce #soulèvement, d’abord conçu comme une #guerre_économique, entendait alors se réapproprier les #ressources captées par l’occupation totale de la Cisjordanie et de la #bande_de_Gaza.
Comment définiriez-vous l’#écologie palestinienne ?
C’est une écologie de la subsistance qui n’est pas séparée de la résistance, et même au-delà, une #écologie_existentielle. Le #retour_à_la_terre participe de la lutte. C’est le seul moyen de la conserver, et donc d’empêcher la disparition totale, de continuer à exister. En Cisjordanie, si les terres ne sont pas cultivées pendant 3 ou 10 ans selon les modes de propriété, elles peuvent tomber dans l’escarcelle de l’État d’Israël, en vertu d’une ancienne loi ottomane réactualisée par les autorités israéliennes en 1976. Donc, il y a une nécessité de maintenir et augmenter les cultures, de redevenir paysans, pour limiter l’expansion de la #colonisation. Il y a aussi une nécessité d’aller vers des modes de production plus écologiques pour des raisons autant climatiques que politiques. Les #engrais et les #produits_chimiques proviennent des #multinationales via Israël, ces produits sont coûteux et rendent les sols peu à peu stériles. Il faut donc inventer autre chose.
Les Palestiniens renouent avec une forme d’#agriculture_économe, ancrée dans des #savoir-faire_ancestraux, une agriculture locale et paysanne (#baladi) et #baaliya, c’est-à-dire basée sur la pluviométrie, tout en s’appuyant sur des savoirs nouveaux. Le manque d’#eau pousse à développer cette méthode sans #irrigation et avec des #semences anciennes résistantes. L’idée est de revenir à des formes d’#agriculture_vivrière.
La #révolution_verte productiviste avec ses #monocultures de tabac, de fraises et d’avocats destinée à l’export a fragilisé l’#économie_palestinienne. Elle n’est pas compatible avec l’occupation et le contrôle de toutes les frontières extérieures par les autorités israéliennes qui les ferment quand elles le souhaitent. Par ailleurs, en Cisjordanie, il existe environ 600 formes de check-points internes, eux aussi actionnés en fonction de la situation, qui permettent de créer ce que l’armée a nommé des « #cellules_territoriales ». Le #territoire est morcelé. Il faut donc apprendre à survivre dans des zones encerclées, être prêt à affronter des #blocus et développer l’#autosuffisance dans des espaces restreints. Il n’y a quasiment plus de profondeur de #paysage palestinien.
« Il faut apprendre à survivre dans des zones encerclées »
À Gaza, on voit poindre une #économie_circulaire, même si elle n’est pas nommée ainsi. C’est un mélange de #débrouille et d’#inventivité. Il faut, en effet, recycler les matériaux des immeubles détruits pour pouvoir faire de nouvelles constructions, parce qu’il y a très peu de matériaux qui peuvent entrer sur le territoire. Un entrepreneur a mis au point un moyen d’utiliser les ordures comme #matériaux. Les modes de construction anciens, en terre ou en sable, apparaissent aussi mieux adaptés au territoire et au climat. On utilise des modes de production agricole innovants, en #hydroponie ou bien à la #verticale, parce que la terre manque, et les sols sont pollués. De nouvelles pratiques énergétiques ont été mises en place, surtout à Gaza, où, outre les #générateurs qui remplacent le peu d’électricité fournie, des #panneaux_solaires ont été installés en nombre pour permettre de maintenir certaines activités, notamment celles des hôpitaux.
Est-ce qu’on peut parler d’#écocide en ce moment ?
Tout à fait. Nombre de Palestiniens emploient maintenant le terme, de même qu’ils mettent en avant la notion d’#inégalités_environnementales avec la captation des #ressources_naturelles par Israël (terre, ressources en eau…). Cela permet de comprendre dans leur ensemble les dégradations faites à l’#environnement, et leur sens politique. Cela permet aussi d’interpeller le mouvement écologiste israélien, peu concerné jusque-là, et de dénoncer le #greenwashing des autorités. À Gaza, des #pesticides sont épandus par avion sur les zones frontalières, des #oliveraies et des #orangeraies ont été arrachées. Partout, les #sols sont pollués par la toxicité de la guerre et la pluie de #bombes, dont certaines au #phosphore. En Cisjordanie, les autorités israéliennes et des acteurs privés externalisent certaines #nuisances_environnementales. À Hébron, une décharge de déchets électroniques a ainsi été créée. Les eaux usées ne sont pas également réparties. À Tulkarem, une usine chimique considérée trop toxique a été également déplacée de l’autre côté du Mur et pollue massivement les habitants, les terres et les fermes palestiniennes alentour.
« Il existe une relation intime entre les Palestiniens et leur environnement »
Les habitants des territoires occupés, et leur environnement — les plantes, les arbres, le paysage et les espèces qui le composent — sont attaqués et visés de manière similaire. Ils sont placés dans une même #vulnérabilité. Pour certains, il apparaît clair que leur destin est commun, et qu’ils doivent donc d’une certaine manière résister ensemble. C’est ce que j’appelle des « #résistances_multispécifiques », en écho à la pensée de la [philosophe féministe étasunienne] #Donna_Haraway. [2] Il existe une relation intime entre les Palestiniens et leur environnement. Une même crainte pour l’existence. La même menace d’#effacement. C’est très palpable dans le discours de certaines personnes. Il y a une lutte commune pour la #survie, qui concerne autant les humains que le reste du vivant, une nécessité écologique encore plus aigüe. C’est pour cette raison que je parle d’#écologisme_existentiel en Palestine.
Aujourd’hui, ces initiatives écologistes ne sont-elles pas cependant menacées ? Cet élan écologiste ne risque-t-il pas d’être brisé par la guerre ?
Il est évidemment difficile d’exister dans une guerre totale mais on ne sait pas encore comment cela va finir. D’un côté, on assiste à un réarmement des esprits, les attaques de colons s’accélèrent et les populations palestiniennes en Cisjordanie réfléchissent à comment se défendre. De l’autre côté, ces initiatives restent une nécessité pour les Palestiniens. J’ai pu le constater lors de mon dernier voyage en juin, l’engouement est réel, la dynamique importante. Ce sont des #utopies qui tentent de vivre en pleine #dystopie.
▻https://reporterre.net/En-Palestine-l-ecologie-n-est-pas-separee-de-la-resistance
#agriculture #humiliation #pollution #recyclage #réusage #utopie
« Après le dieselgate, nous nous dirigeons tout droit vers un “#electric_gate” »
Pour l’ingénieur et essayiste #Laurent_Castaignède, le développement actuel de la #voiture_électrique est un désastre annoncé. Il provoquera des #pollutions supplémentaires sans réduire la consommation d’énergies fossiles.
Avec la fin de la vente des #voitures_thermiques neuves prévue pour #2035, l’Union européenne a fait du développement de la voiture électrique un pilier de sa stratégie de #transition vers la #neutralité_carbone. Le reste du monde suit la même voie : la flotte de #véhicules_électriques pourrait être multipliée par 8 d’ici 2030, et compter 250 millions d’unités, selon l’Agence internationale de l’énergie.
Mais la #conversion du #parc_automobile à l’électricité pourrait nous conduire droit dans une #impasse désastreuse. Toujours plus grosse, surconsommatrice de ressources et moins décarbonée qu’il n’y parait, « la voiture électrique a manifestement mis la charrue avant les bœufs », écrit Laurent Castaignède dans son nouvel ouvrage, La ruée vers la voiture électrique. Entre miracle et désastre (éditions Écosociété, 2023).
Nous avons échangé avec l’auteur, ingénieur de formation et fondateur du bureau d’étude BCO2 Ingénierie, spécialisé dans l’empreinte carbone de projets industriels. Démystifiant les promesses d’horizons radieux des constructeurs de #SUV et des décideurs technosolutionnistes, il pronostique un crash dans la route vers l’#électrification, un « #electrigate », bien avant 2035.
Reporterre — Vous écrivez dans votre livre que, si l’on suit les hypothèses tendancielles émises par l’Agence internationale de l’énergie, la production de batteries devrait être multipliée par 40 entre 2020 et 2040, et que la voiture électrique accaparerait à cet horizon la moitié des métaux extraits pour le secteur « énergies propres ». Ces besoins en métaux constituent-ils la première barrière au déploiement de la voiture électrique ?
Laurent Castaignède — La disponibilité de certains #métaux constitue une limite physique importante. Les voitures électriques ont surtout besoin de métaux dits « critiques », relativement abondants mais peu concentrés dans le sous-sol. L’excavation demandera d’ailleurs beaucoup de dépenses énergétiques.
Pour le #lithium, le #cobalt, le #nickel, le #manganèse et le #cuivre notamment, ainsi que le #graphite, la voiture électrique deviendra d’ici une quinzaine d’années la première demandeuse de flux, avec des besoins en investissements, en capacités d’#extraction, de #raffinage, de main d’œuvre, qui devront suivre cette hausse exponentielle, ce qui n’a rien d’évident.
L’autre problème, c’est la mauvaise répartition géographique de ces #ressources. On est en train de vouloir remplacer le pétrole par une série de ressources encore plus mal réparties… Cela crée de forts risques de constitution d’#oligopoles. Un « Opep du cuivre » ou du lithium serait catastrophique d’un point de vue géostratégique.
Une autre limite concerne notre capacité à produire suffisamment d’électricité décarbonée. Vous soulignez que se répandent dans ce domaine un certain nombre « d’amalgames complaisants » qui tendent à embellir la réalité…
Même lorsqu’on produit beaucoup d’électricité « bas carbone » sur un territoire, cela ne signifie pas que l’on pourra y recharger automatiquement les voitures avec. Le meilleur exemple pour comprendre cela est celui du Québec, où 100 % de l’électricité produite est renouvelable — hydroélectrique et éolienne. Mais une partie de cette électricité est exportée. Si le Québec développe des voitures électriques sans construire de nouvelles capacités d’énergies renouvelables dédiées, leur recharge entraînera une baisse de l’exportation d’électricité vers des régions qui compenseront ce déficit par une suractivation de centrales au charbon. Ces voitures électriques « vertes » entraîneraient alors indirectement une hausse d’émissions de #gaz_à_effet_de_serre…
De même, en France, on se vante souvent d’avoir une électricité décarbonée grâce au #nucléaire. Mais RTE, le gestionnaire du réseau de transport d’électricité, précise que la disponibilité actuelle de l’électricité décarbonée n’est effective que 30 % du temps, et que cette proportion va diminuer. On risque donc fort de recharger nos voitures, surtout l’hiver, avec de l’électricité au gaz naturel ou au charbon allemand, à moins de déployer davantage de moyens de production d’énergies renouvelables en quantité équivalente et en parallèle du développement des voitures électriques, ce qui est rarement ce que l’on fait.
En d’autres termes, ce n’est pas parce que le « #kWh_moyen » produit en France est relativement décarboné que le « kWh marginal », celui qui vient s’y ajouter, le sera aussi. Dans mon métier de conseil en #impact_environnemental, j’ai vu le discours glisser insidieusement ces dernières années : on parlait encore des enjeux de la décarbonation du #kWh_marginal il y a dix ans, mais les messages se veulent aujourd’hui exagérément rassurants en se cachant derrière un kWh moyen « déjà vert » qui assurerait n’importe quelle voiture électrique de rouler proprement…
Vous alertez aussi sur un autre problème : même si ce kWh marginal produit pour alimenter les voitures électriques devient renouvelable, cela ne garantit aucunement que le bilan global des émissions de carbone des transports ne soit à la baisse.
Il y a un problème fondamental dans l’équation. On n’arrive déjà pas à respecter nos objectifs antérieurs de développement des énergies renouvelables, il parait compliqué d’imaginer en produire suffisamment pour recharger massivement les nouveaux véhicules électriques, en plus des autres usages. Et beaucoup d’usages devront être électrifiés pour la transition énergétique. De nombreux secteurs, des bâtiments à l’industrie, augmentent déjà leurs besoins électriques pour se décarboner.
De plus, rien ne garantit que le déploiement de voitures électriques ne réduise réellement les émissions globales de gaz à effet de serre. En ne consommant plus d’essence, les voitures électriques baissent la pression sur la quantité de pétrole disponible. La conséquence vicieuse pourrait alors être que les voitures thermiques restantes deviennent moins économes en se partageant le même flux pétrolier.
Imaginons par exemple que l’on ait 2 milliards de voitures dans le monde en 2040 ou 2050 comme l’indiquent les projections courantes. Soyons optimistes en imaginant qu’un milliard de voitures seront électriques et que l’on consommera à cet horizon 50 millions de barils de pétrole par jour. Le milliard de voitures thermiques restant pourrait très bien se partager ces mêmes 50 millions de barils de pétrole, en étant juste deux fois moins économe par véhicule. Résultat, ce milliard de voitures électriques ne permettrait d’éviter aucune émission de CO₂ : rouler en électrique de manière favorable nécessite de laisser volontairement encore plus de pétrole sous terre…
L’électrification, seule, n’est donc pas une réponse suffisante. Cela signifie qu’une planification contraignant à la sobriété est nécessaire ?
La #sobriété est indispensable mais il faut être vigilant sur la manière de la mettre en place. Il serait inaudible, et immoral, de demander à des gens de faire des efforts de sobriété si c’est pour permettre à leur voisin de rouler à foison en gros SUV électrique.
La sobriété, ce serait d’abord mettre un terme à « l’#autobésité ». L’électrification accentue la prise de #poids des véhicules, ce qui constitue un #gaspillage de ressources. Au lieu de faire des voitures plus sobres et légères, les progrès techniques et les gains de #productivité n’ont servi qu’à proposer aux consommateurs des véhicules toujours plus gros pour le même prix. On n’en sortira pas en appelant les constructeurs à changer de direction par eux-mêmes, ce qu’on fait dans le vide depuis 30 ans. Il faut réguler les caractéristiques clivantes des véhicules, en bridant les voitures de plus d’1,5 tonne à vide à 90 km/h par exemple, comme on le fait pour les poids lourds, et à 130 km/h toutes les autres.
Un autre effet pervers pour la gestion des ressources est l’#obsolescence des véhicules. Pourquoi écrivez-vous que l’électrification risque de l’accélérer ?
La voiture électrique porte dans ses gènes une #obsolescence_technique liée à la jeunesse des dernières générations de #batteries. Les caractéristiques évoluent très vite, notamment l’#autonomie des véhicules, ce qui rend leur renouvellement plus attractif et le marché de l’occasion moins intéressant.
Paradoxalement, alors que les moteurs électriques sont beaucoup plus simples que les moteurs thermiques, l’électronification des voitures les rend plus difficiles à réparer. Cela demande plus d’appareillage et coûte plus cher. Il devient souvent plus intéressant de racheter une voiture électrique neuve que de réparer une batterie endommagée.
Les constructeurs poussent en outre les gouvernements à favoriser les #primes_à_la casse plutôt que le #rétrofit [transformer une voiture thermique usagée en électrique]. Ce dernier reste artisanal et donc trop cher pour se développer significativement.
Vous écrivez qu’une véritable transition écologique passera par des voitures certes électriques mais surtout plus légères, moins nombreuses, par une #démobilité, une réduction organisée des distances du quotidien… Nous n’en prenons pas vraiment le chemin, non ?
Il faudra peut-être attendre de se prendre un mur pour changer de trajectoire. Après le dieselgate, nous nous dirigeons tout droit vers un « electric gate ». Je pronostique qu’avant 2035 nous nous rendrons compte de l’#échec désastreux de l’électrification en réalisant que l’empreinte carbone des transports ne baisse pas, que leur pollution baisse peu, et que le gaspillage des ressources métalliques est intenable.
La première pollution de la voiture électrique, c’est de créer un écran de fumée qui occulte une inévitable démobilité motorisée. Le #technosolutionnisme joue à plein, via des batteries révolutionnaires qui entretiennent le #messianisme_technologique, comme pour esquiver la question politique du changement nécessaire des modes de vie.
On continue avec le même logiciel à artificialiser les terres pour construire des routes, à l’instar de l’A69, sous prétexte que les voitures seront bientôt « propres ». Il faut sortir du monopole radical, tel que décrit par Ivan Illich, constitué par la #voiture_individuelle multi-usages. La première liberté automobile retrouvée sera celle de pouvoir s’en passer avant de devoir monter dedans.
►https://reporterre.net/Apres-le-dieselgate-nous-nous-dirigeons-tout-droit-vers-un-electric-gate
#réparation #terres_rares #réparabilité #extractivisme
Histoire de l’idée de l’art - .
▻https://www.librairie-tropiques.fr/2023/11/histoire-de-l-idee-de-l-art.html
On a parfois reproché au philosophe sa méconnaissance de l’art et de son histoire. On peut également reprocher à l’histoire de l’art de ne pas avoir mesuré que l’art n’est pas seulement constitué d’œuvres mais aussi de mots pour les dire, de concepts pour les catégoriser, de théories pour les penser. Car si la philosophie de l’art sans histoire de l’art est vide, l’histoire de l’art sans philosophie de l’art est aveugle.
C’est à partir de ce double constat qu’est né le projet d’une histoire philosophique de l’art occidental, depuis l’Antiquité grecque jusqu’à nos jours : autrement dit d’étudier le développement des arts et la succession des styles en relation avec l’atmosphère théorique où ils se sont produits, et de dessiner les contours des grands paradigmes artistiques qui se sont succédé. Aussi est-il question dans cet ouvrage de concepts (mimesis, catharsis, contemplation, beaux-arts, goût, génie, expérience esthétique, engagement…) et de visions du monde, d’artistes et de théoriciens, d’œuvres et d’idées relatives à leur nature, leurs fonctions et leurs valeurs. Tous les arts sont traités ici à l’unisson : beaux-arts (peinture, sculpture, architecture…), belles-lettres (poésie, théâtre), musique, ce qui fait toute l’originalité de cette entreprise.
#Carole_talon-Hugon, #Oliver_Brax, #Julien_Audebert, #Histoire, #Philosophie, #esthétique
]]>Rosa Luxembourg face au procès de l’Histoire - .
RENCONTRE, DÉBAT, DÉDICACE AVEC Oliver Brax, Jean-Numa Ducange
AUTOUR DE SON NOUVEAU LIVRE
▻https://www.librairie-tropiques.fr/2023/11/rosa-luxembourg-face-au-proces-de-l-histoire.html
Neue Ausstellung: Berlinische Galerie zeigt Jeanne Mammens „Café Reimann“
▻https://www.tagesspiegel.de/berlin/berlinische-galerie-zeigt-jeanne-mammens-cafe-reimann-3889012.html
Der Taxihalteplatz Kudamm-Leibnitz, auch als Leiku bekannt, hieß in der Nachkriegszeit „Reimann“ nach dem nahegelegen Cafe am Kurfürstendamm. Überliefert ist die Adresse Kurfürstendamm 62 Ecke Giesenrechtstraße.
▻https://www.openstreetmap.org/node/3455613474#map=17/52.50053/13.31240
Ebenfalls belegt ist die Lage in Fahrtrichtung rechts hinter der Einmündung der Konstanzer Straße beziehungsweise des Olivaer Platz im Eckhaus mit der Nummer 182, welches einem Neubau Platz.machen musste.
25.10.2017 Andreas Conrad - Man darf wohl annehmen, dass die Zahl derer, denen das Geräusch eines Diesel-Motors wie Musik in den Ohren klingt, stark im Sinken begriffen ist. Aber an dem Haus in der Charlottenburger Kantstraße 153 hängt nun mal nur eine Gedenktafel, nach der dort der Ingenieur Rudolf Diesel 1893/94 gewohnt und gearbeitet habe.
Kein Hinweis hingegen auf den von diesem Haus inspirierten Beitrag zur leichten Muse, dem unsere Großväter und Großmütter einen noch immer nachklingenden Ohrwurm verdankten: „In einer kleinen Konditorei / da saßen wir zwei bei Kuchen und Tee / Du sprachst kein Wort, kein einziges Wort / und wusstest sofort, dass ich Dich versteh!“
Natürlich kam die Inspiration nicht vom Haus an sich, vielmehr von dem in Berlin einst wohlbekannten Café Reimann, das dort 1919 von dem aus Ostpreußen nach Berlin gezogenen Walter Reimann eröffnet worden war, Keimzelle einer hier bald florierenden Konditorei-Kette. Heute befindet sich dort das österreichische Restaurant Ottenthal, in den zwanziger Jahren aber verkehrte in dem Café neben Prominenten wie Kurt Tucholsky und Carl von Ossietzky auch der Schriftsteller und Liedtexter Ernst Neubach.
„In einer kleinen Konditorei“
Dem muss die anheimelnde Atmosphäre so gefallen haben, dass er zu den von Vico Torriani, Max Raabe und vielen anderen nach einer Melodie von Fred Raymond gesungenen Zeilen angeregt wurde. In den Erinnerungsstücken, die Walter Christian Reimann, in Schöneberg lebender Sohn des Konditors, zur Firmen- und Familiengeschichte besitzt, befindet sich auch eine Widmung Neubachs, des „Verfassers der ,Kleinen Konditorei’“, wie er schreibt – ein nachträgliches Dankeschön für die anregenden Mußestunden im Kaffeehaus.
Man fand die Cafés Walter Reimanns in den zwanziger Jahren auch am Kurfürstendamm 35 und 182 sowie am Hausvogteiplatz 1, und 1931 wurde eine Filiale im Kaufhaus Nathan Israel eröffnet, das war ein imposanter Komplex gleich rechts neben dem Roten Rathaus, das älteste und zeitweise größte Kaufhaus Berlins. Nach dem Krieg gelang ein Neubeginn am Kurfürstendamm 62, nach Reimanns Tod 1957 wurde das zwischen Leibniz- und Giesebrechtstraße gelegene Café noch zehn Jahre von seiner Witwe weitergeführt.
Lange versunkene Stadtgeschichte, nun aber durch die kürzlich eröffnete Ausstellung zur Malerin Jeanne Mammen wieder ein wenig dem Vergessen entrissen. Denn zu den in der Berlinischen Galerie gezeigten Werken gehört auch das um 1931 entstandene, in Berlin nie zuvor öffentlich gezeigte Aquarell „Café Reimann“. Es war 1931 in Curt Morecks „Führer durch das ,lasterhafte’ Berlin“ erschienen und befindet sich im Besitz der Morgan Library & Museum in New York. Wie berichtet, hatte das Museum zur Finanzierung des Transports einen erfolgreichen Spendenaufruf veröffentlicht.
Kurfürstendamm 35 ?Koksöfen im Vorgarten
Man sieht auf dem Aquarell ein etwas trist dreinblickendes Paar an einem Tisch vor dem Café Walter Reimann am Kurfürstendamm 35, wo sich heute das Hotel California befindet. Das Café ist auf dem Bild leicht identifizierbar an dem angeschnittenen Namenszug und einem der Koksöfen, Vorgängern der modernen Heizstrahler, die Reimann vor seinem damaligen Haupthaus aufgestellt hatte.
Besonders diese Öfen, wie man sie von Pariser Cafés kannte, haben dem Publikum damals imponiert. Sie inspirierten sogar den Bühnenbildner des vom Komponisten Rudolf Nelson geleiteten Theaters am Kurfürstendamm 217 zu einer Kulisse für die Revue „Tombola“. In dem ehemaligen Astor-Kino, wo sich heute eine Tommy-Hilfiger-Filiale befindet, wärmte sich 1929 Hans Albers mit seinen Kollegen Otto Wallburg und Willi Schaeffers am Koksofen.
Das erste Reimann-Kaffeehaus, an das das Lied „In einer kleinen Konditorei“ erinnert, befand sich aber in der Kantstraße 153( heute / 2023 ▻https://www.ottenthal.com )
Auch Albers verkehrte bei Reimann, vom Theater zum Café hatte er es ja nicht weit: einmal quer über den Kurfürstendamm. Weiter zählten Prominente wie Alfred Kerr, Friedrich Hollaender, die noch unbekannte Marlene Dietrich und Camilla Spira zu den Gästen. Auch viele Juden waren darunter, was das Café am 12. September 1931, als der Boulevard zum Schauplatz massiver Krawalle der Nazis unter Gauleiter Joseph Goebbels wurde, zu einem heftig attackierten Angriffsziel machte. Das Mobiliar im Vorgarten wurde demoliert, die große Schaufensterscheibe zertrümmert, innen sollen sogar zwei Schüsse gefallen sein.
„Onkel Emil“ leistet Widerstand
Walter Reimann selbst war kein Jude. Den Nazis stand er ablehnend gegenüber, verweigerte sich der Ausgrenzung der Juden, solange es irgendwie ging, leistete später mit seiner Frau Charlotte aktiven Widerstand. Als Ullstein-Bildredakteurin hatte sie die Journalistin Ruth Andreas-Friedrich kennengelernt, bekam dadurch Kontakt zu der von dieser und dem Dirigenten Leo Borchard 1938 gegründeten Widerstandsgruppe „Onkel Emil“. Dieses nie aufgeflogene Netzwerk unterstützte die zunehmend verfolgten Juden mit Verstecken, Papieren und Essen.
Gerade Walter und Charlotte Reimann hatten als Betreiber von Kaffeehäusern einige Möglichkeiten, Lebensmittel zu organisieren, halfen zudem Hilde Waldo, der späteren Sekretärin des emigrierten Schriftstellers Lion Feuchtwanger, bei ihrer Ausreise in die USA. Die Gruppe „Onkel Emil“ wurde auch in der Gedenkstätte „Stille Helden – Widerstand gegen die Judenverfolgung 1933 – 1945“ gewürdigt, die unlängst in der Rosenthaler Straße 39 in Mitte geschlossen wurde und im Januar in der Gedenkstätte Deutscher Widerstand in der Tiergartener Stauffenbergstraße 13/14 in erweiterter Form wiedereröffnet werden soll.
Die Erinnerung an Walter und Charlotte Reimann wird also fortleben, wenn Jeanne Mammens „Café Reimann“ längst wieder nach New York zurückgekehrt ist. Und irgendwann dürfte sicher auch mal wieder das aus den späten Zwanzigern herüberwehende Lied von der kleinen Konditorei im Radio erklingen, melancholische Verse „von Liebesleid und Weh“.
„Jeanne Mammen. Die Beobachterin. Retrospektive 1910 – 1975“, Berlinische Galerie, Alte Jakobstraße 124 – 128 in Kreuzberg, bis 15. Januar, mittwochs bis montags, 10 – 18 Uhr
Berlin-Charlottenburg, Kurfürstendamm, 1953
▻https://www.flickr.com/photos/lautenschlag/8277548761
"[...] Die vier Cafés, die W.alter Reimann vor dem Krieg betrieben hatte, waren alle zerstört worden. Doch noch im Jahre 1945 eröffnete er am Olivaer Platz, Kurfürstendamm 62, ein neues „Café Reimann“. Mit seiner guten Küche wurde es in den einfach eingerichteten aber großzügigen und freundlichen Räumen schnell wieder zu einem renommierten Haus. In den siebziger Jahren zogen die „Mozart-Terrassen“ in diese Räume, ein Café, das sich jedoch am recht unattraktiven Olivaer Platz nicht lange halten konnte. Eine unkonventionelle Gaststätte unternahm in den achtziger Jahren den Versuch, sich an dieser Stelle zu etablieren, konnte sich aber auch nicht lange halten. Seit einigen Jahren hat in dem renovierten, hellgelb gestrichenen Haus das Nobel-Schuhgeschäft „Magli“ eine Filiale. [...]"
aus:
Der Kurfürstendamm : Gesichter einer Straße / Regina Stürickow. - Berlin: Arani-Verl., 1995
In dieser Version von In einer kleinen Konditorei (Georg Kober - 1929) geht es um den Boulevard des Capucines in Paris nicht um Kurfürstendamm oder Kantstraße. Die hat wohl eher Vico Toriani durch Weglassen der ersten Strophe in den Fünfzigern ins Spiel gebtacht.
▻https://www.youtube.com/watch?v=BVw_7u29uA4
Auch diese akkordeonlastige Version des Saxophonorchesters Dobbri von 1928 klingt eher nach Pariser musette als nach einem Berliner Gassenhauer .
▻https://www.youtube.com/watch?v=uj7eQFfN8V4&pp=ygUgaW4gZWluZXIga2xlaW5lbiBrb25kaXRvcmVpIDE5Mjg%3D
▻https://www.openstreetmap.org/way/68915107#map=17/48.87045/2.33105
#Berlin #Charlottenburg #Kurfürstendamm #Konstanzer_Straße #Olivaer_Platz #Kantstraße #Geschichte #Gastronomie #Konditorei #Nazis #Widerstand #Taxihalteplatz
]]>C’est toujours à tort qu’on croit avoir touché le fond...
▻https://www.leparisien.fr/faits-divers/paris-une-femme-profere-des-menaces-dattentat-la-police-ouvre-le-feu-31-1
]]>L’#agriculture n’est pas une carte postale
Dans les #Alpes_Maritimes, pour nos élus, l’agriculture n’a pour seule fonction que de servir de carte postale pour le #tourisme. Je suis devenu agriculteur à 25 ans. Et depuis, à part des bâtons dans les roues, je/nous n’avons jamais reçu aucune aide. Donc ce que je propose, c’est qu’on devienne tous intermittents du spectacle. Par #Cédric_Herrou.
La question de l’agriculture dans la vallée de la Roya, et plus largement dans les Alpes-Maritimes, c’est une question qui comporte quelque chose de très surprenant : nous avons des politiques qui nous parlent de « #culture_identitaire ». Il s’agit du seul département, à ma connaissance, où l’on parle de « culture identitaire » à propos des #olives. Alors même que c’est un arbre du bassin méditerranéen, cultivé par des Marseillais, des Niçois, des Italiens, des Égyptiens… C’est une « #identité » de la Méditerranée dans son ensemble.
C’est un détail, mais il est porteur de quelque chose : les Alpes-Maritimes, pour nos élus, l’agriculture n’a pour seule fonction que de servir de #carte_postale pour le tourisme.
Nous l’avons vu lors de la #tempête_Alex, en octobre 2020 (1). J’étais alors agriculteur depuis 2006, donc depuis une quinzaine d’années. J’ai depuis cédé mon exploitation agricole à #Emmaüs-Roya, première #communauté_Emmaüs entièrement agricole. Cette exploitation faisait, auparavant, moyennement vivre une seule personne (moi) ; il nous a fallu à partir de là faire vivre quinze personnes, et dans des conditions matérielles beaucoup plus confortables que quand je vivais seul. Nous avons donc dû transformer ces 5 hectares en quelque chose de plus gros, de plus productif, -de plus professionnalisé.
Nous voulions donc nous agrandir, et faire du #maraîchage sur des terrains où il était plus facile de le faire -donc, sur un terrain plat, ce qui est très rare ici.
Ainsi, suite à la tempête, dans un contexte où ils voulaient relancer l’agriculture dans la vallée de la Roya -patin-couffin et blablabla-, il y a eu une réunion avec les associations, et nous avons eu rendez-vous avec Sébastien Olharan, maire de Breil-sur-Roya, avec la CARF (communauté d’agglomération de la Riviera française), et aussi, très important, avec la #SAFER (Sociétés d’aménagement foncier et d’établissement rural, supposément voué au soutien tout projet viable d’installation en milieu rural).
Ils nous ont tous dit qu’ils adoraient ce que ce nous faisions. Que c’était super, que c’était génial. « Bien évidemment, nous préférons vous voir planter des tomates qu’héberger des noirs, mais en tous les cas, la partie agriculture, c’est très bien ! » Par contre, ils n’avaient pas de terrain à nous proposer. Rien. Car les terrains plats étaient déjà « réservés », qui pour un terrain de basket, qui pour un parking…
J’étais donc bien saoulé. Et j’ai décidé de faire moi-même mes recherches, sur Le Bon Coin. Et je peux donc le dire : le Bon Coin est beaucoup plus efficace que la mairie de Breil, la CARF et la SAFER - dont c’est pourtant la fonction. Car sur ce site, je trouve un terrain qui est à vendre depuis des mois sur la commune de Saorge, non loin. Nous l’avons acheté, et nous y développons donc aujourd’hui une partie de nos activités.
En temps normal, la SAFER surveille les ventes. Elle est supposée être LA référence pour savoir où des terrains potentiellement exploitables sont à acheter. Et là, nous avions un terrain en bord de route, avec de l’eau car à côté de la Roya, de l’eau potable également, l’accès à l’électricité, et un hectare de terrain plat. Ce qui, dans notre vallée, n’est vraiment pas rien. D’autant plus qu’une maison présente sur ce lieu a été rasée car trop proche de l’eau, ce qui en a fait du même coup des terres agricoles.
La mairie, la #CARF et la SAFER étaient donc forcément au courant.
La même chose s’est produite, 10 ans auparavant, avec un terrain situé à 100 mètres d’une zone que nous exploitons déjà, à Veil, chez mes parents. Il s’est vendu 2 fois plus cher que ce qu’avaient vu des amis à moi venu y jeter un œil : dans mes souvenirs, quelque chose comme 80 000 euros, au lieu des 40 000 annoncés. C’est la CARF qui l’avait acheté, et revendu à la mairie de Breil-sur-Roya, avec la promesse d’un projet agricole - qui n’a jamais eu lieu. Quand nous avons questionné la mairie sur ce point, car nous voulions récupérer ces terres, ils nous ont dit non, et prétexté vouloir y développer des activités... touristiques - dans un lieu sans eau potable, sans évacuation des eaux usées, et surtout qui est une zone agricole, donc non destinée à quoi que ce soit lié au tourisme. Et on en revient à ce que je disais au début. Ce même maire avait par ailleurs soutenu le voisin qui avait voulu (indûment, et la justice lui a donné tort) bloquer l’accès à mon terrain, rendant très complexe voire impossible nos activités agricoles.
On pourrait penser que c’est le « militant » en faveur des droits des personnes en situation d’exil qui est attaqué, et pas le paysan. Mais j’ai commencé à être médiatisé sur ces sujets en 2016. Et je suis arrivé dans la vallée de la Roya en 2002. J’avais 23 ans.
Je suis devenu agriculteur à 25 ans, et c’est rare de le devenir aussi jeune. Et à part des bâtons dans les roues (sans jeu de mot, NDLR), je, nous n’avons jamais reçu aucune aide.
Au-delà des grands mots, agriculture, ici, cela semble donc faire chier tout le monde. Cela bloque 5 hectares, des terres qui, l’État le sait, ne deviendront jamais constructible. Sur les terrains limitrophes à l’exploitation, l’agriculteur sera prioritaire sur l’achat. Cela bloque le foncier, qui est la seule chose qui leur importe.
On veut de l’agriculture, mais que comme carte postale.
Donc ce que je propose, c’est qu’on sorte de la #mutuelle_sociale_agricole (#MSA), et qu’on devienne tous intermittents du spectacle.
Un article paru dans le Mouais n°42 (octobre 2023), consacré à l’alimentation, nous le mettons en accès libre mais soutenez-nous, abonnez-vous ! ►https://www.helloasso.com/associations/association-pour-la-reconnaissance-des-medias-alternatifs-arma/boutiques/abonnement-a-mouais
(1) Épisode méditerranéen extrêmement violent ayant ravagé en une nuit les vallées de la Tinée, de la Vésubie et de la Roya, occasionnant des morts et de nombreux dégâts matériels, NDLR.
▻https://blogs.mediapart.fr/mouais-le-journal-dubitatif/blog/291023/l-agriculture-n-est-pas-une-carte-postale
#Vallée_de_la_Roya #montagne #agriculture_de_montagne #paysannerie
ping @isskein
Réseaux sociaux : le passage au payant aurait-il des avantages ?
▻https://www.la-croix.com/debat/Reseaux-sociaux-passage-payant-aurait-avantages-2023-10-10-1201286307
Débat
Olivier Ertzscheid Enseignant-chercheur en sciences de l’information à l’université de Nantes, auteur du Monde selon Zuckerberg
Le Wall Street Journal a révélé début octobre que Meta, la maison mère de Facebook et Instagram, préparait le lancement d’un abonnement payant pour profiter de ces réseaux sociaux sans pub. Une manière de se conformer aux nouvelles règles européennes, qui imposent de donner aux utilisateurs la possibilité de refuser la publicité ciblée, sans y laisser son chiffre d’affaires.
Recueilli par Mélinée Le Priol, le 10/10/2023 à 19:06
]]>Les cagnottes en ligne, miroirs de nos émotions collectives
▻https://www.lemonde.fr/m-perso/article/2023/09/23/soutien-aux-sinistres-marocains-depart-a-la-retraite-chirurgie-mammaire-la-f
« Aux Etats-Unis, lancer une cagnotte, c’est devenu un réflexe quasi automatique, quand une famille a des frais médicaux importants à payer. La régulation ne se fait pas entre l’Etat et des acteurs privés, mais entre les individus et les plates-formes, loin des politiques publiques », commente Olivier Ertzscheid, chercheur en sciences de l’information et de la communication à l’université de Nantes. Pour le maître de conférences, « cela contribue à installer un “mercy market”, ou marché de la pitié. Les malades sont dans l’obligation d’apprendre à attiser la pitié en ligne ».
Pour toutes les cagnottes, des anniversaires de mariage au soutien aux policiers en colère, les hébergeurs retiennent toujours une commission, entre 1,5 % et 6 %, selon les plates-formes et les montants récoltés. Quelle que soit la cause soutenue, Olivier Ertzscheid y voit d’abord « une politique d’acteurs du numérique qui ont intérêt à monétiser l’ensemble de nos activités sociales, en captant une marge au passage ». La générosité des uns peut rapporter gros à d’autres.
]]>Immigration et travail : la grande #hypocrisie française ?
C’est une tribune parue mardi dans Libération et qui a relancé un éternel débat : “Travailleurs sans papiers, l’appel à régulariser”. Une tribune transpartisane pour dénoncer notre “#hypocrisie_collective” sur la question migratoire.
Une initiative qui intervient à quelques semaines de la future loi immigration, qui prévoit d’introduire un titre de séjour “#métiers_en_tension”, et qui divise aussi bien à gauche qu’à droite. Les uns craignent un #appel_d’air, la mise en danger de l’#identité française… Les autres dénoncent une vision utilitariste et immorale de l’immigration. Alors comment sortir de la politisation permanente de la question migratoire ? L’immigration est-elle un risque, une opportunité, voire une nécessité pour l’économie française ? Une approche à la fois pragmatique et humaniste est-elle possible ? on en débat avec :
- Marie-Pierre De La Gontrie, Sénatrice PS de Paris, vice-présidente de la commission des lois constitutionnelles, de législation, du suffrage universel, du règlement et d’administration générale, co-signataire de la tribune "Nous demandons des mesures urgentes, humanistes et concrètes pour la régularisation des travailleurs sans papiers" dans Libération (11.09.23)
- #Constance_Rivière, Directrice générale du Palais de la Porte Dorée, autrice de "La vie des ombres" aux éditions Stock (06.09.23)
- #Olivier_Babeau, Essayiste, président de l’Institut Sapiens, professeur en sciences de gestion à l’université de Bordeaux
- #Sami_Biasoni, Docteur en philosophie de l’École normale supérieure, professeur chargé de cours à l’ESSEC, auteur de "Le statistiquement correct" aux éditions du Cerf (21.09.23)
- #François_Héran, Démographe, sociologue, professeur au Collège de France, titulaire de la chaire "Migrations et sociétés", auteur de "Immigration : le grand déni" aux éditions du Seuil (03/03/2023)
▻https://www.france.tv/france-5/c-ce-soir/saison-4/5204787-immigration-et-travail-la-grande-hypocrisie-francaise.html
#France #travail #migrations #immigration #sans-papiers #travailleurs_sans-papiers #régularisation #utilitarisme
L’élite oligarchique américaine et son impact sur le monde - Chris Hedges
Elucid (Les crises) : L’élite oligarchique américaine et son impact sur le monde Chris Hedges - Olivier Berruyer
Chris Hedges est un journaliste américain, lauréat d’un prix Pulitzer. Il a été correspondant de guerre pour le New York Times pendant quinze ans. Reconnu pour ses articles d’analyse sociale et politique de la situation américaine, il a également enseigné aux universités Columbia et Princeton. Dans cette interview par Olivier Berruyer pour Elucid, il propose une critique de ce qu’il appelle « l’élite progressiste » américaine, l’hypocrisie de ses valeurs et son accointance avec les puissances d’argent ("les entreprises"). Il décortique le rôle de cette oligarchie, comment elle a pris le pouvoir et comment elle impacte dorénavant le monde entier.
La vidéo => : ▻https://elucid.media/politique/lelite-oligarchique-americaine-et-son-impact-sur-le-monde-chris-hedges/?mc_ts=crises
#usa #néolibéralisme #capitalisme #médias #journalisme #universités #censure #chris_hedges #inégalités #guerre #oligarchie
]]>NovFut #19 Raconter des histoires de Science-Fiction pour réinventer la société
►https://nouvellesdufutur.substack.com/p/novfut-19-raconter-des-histoires
Ce mois-ci en SF
Dans les récits pour construire la société, notons la sortie de Germinata d’Olivier Fournout (sociologue et sémiologue, écrivain et metteur en scène) aux Editions C&F. J’aime beaucoup ces éditions habituellement plutôt branchées numériques (l’indispensable Aux sources de l’utopie numérique de Fred Turner) qui maintenant avec la collection Fiction se lancent dans la SF. On leur doit également les fabuleuses Mikrodystopies de l’ami François Houste.
]]>La valle che accoglie
Viaggio nella più antica chiesa protestante italiana, minoranza un tempo perseguitata, che oggi è in prima linea nell’accoglienza dei migranti e nelle battaglie per i diritti delle donne e delle coppie omosessuali.
Un corteo composto esce da un edificio giallo e bianco in stile inglese: religiosi e delegati marciano in silenzio. Davanti al gruppo, alcuni indossano delle toghe nere, gli abiti lunghi dei pastori; al collo le facciole, dei fiocchi bianchi, nonostante le temperature proibitive che stanno colpendo le Alpi e le prealpi italiane alla fine di agosto. Il corteo attraversa il giardino, poi la strada, quindi svolta per entrare in un altro edificio che ricorda una chiesa anglicana: il tempio di Torre Pellice, dove si svolgerà il rito che aprirà il sinodo annuale della più antica chiesa protestante italiana, la chiesa valdese, che è anche la più progressista del paese.
Non è possibile sapere di cosa esattamente discuterà il sinodo prima che cominci, perché perfino l’ordine del giorno è deciso dai 180 delegati che da tutta Italia sono arrivati a Torre Pellice, una cittadina a 55 chilometri da Torino. “Abbiamo una maniera di decidere le cose molto democratica”, spiega la pastora e teologa Daniela Di Carlo, che si definisce “femminista, antispecista, ecologista” e cita più volte la femminista statunitense Donna Haraway e il filosofo spagnolo Paul B. Preciado.
Un ruolo centrale
È arrivata nella val Pellice da Milano, la città di cui è la guida spirituale per le chiese protestanti e responsabile dei rapporti con le altre religioni. “Al sinodo dei valdesi non partecipa solo il clero: dei 180 delegati solo novanta sono pastori, gli altri novanta sono fedeli, che sono eletti localmente dalle diverse chiese. Questo significa che l’assemblea può ribaltare i pronostici e non si può mai davvero prevedere quello che succederà durante la riunione. Se non si è d’accordo su qualcosa, si va avanti a discutere a oltranza”, assicura la pastora, seduta nella stanza rossa della Casa valdese, la sede della chiesa valdese e della sala del sinodo, circondata dai quadri che rappresentano i benefattori della chiesa.
I valdesi hanno consacrato la prima pastora nel 1967 in un paese in cui la chiesa cattolica, che è maggioritaria, non riconosce il sacerdozio femminile. Di Carlo studiava architettura all’università, ma poi ha deciso di dedicare la sua vita alla chiesa negli anni ottanta, dopo un’esperienza di volontariato durante il terremoto in Irpinia. “Mi interessavano più le persone delle case”, scherza. “Nel Vangelo Gesù ha affidato alle donne l’annuncio della sua resurrezione, voleva per le donne un ruolo centrale”, continua.
“Quando Gesù incontra le sorelle di Lazzaro, Marta e Maria, è molto chiaro. Marta si lamenta perché la sorella Maria si è messa ad ascoltare le sue parole, invece di aiutarla nelle faccende domestiche, ma Gesù le risponde di lasciarla stare, perché Maria si è seduta ‘nella parte buona, che non le sarà tolta’”, continua Di Carlo, secondo cui la possibilità di diventare pastore per le donne era presente già agli albori della chiesa valdese, addirittura prima che questa aderisse alla riforma protestante nel cinquecento, per essere prima abolita, quindi ripristinata nella seconda metà del novecento. Come guida spirituale della sua comunità non si sente discriminata in quanto donna. “Tranne nei casi in cui partecipo alle cerimonie ecumeniche, specialmente nel rito ortodosso ci sono molti limiti che ancora escludono le donne dalla liturgia”, spiega.
I valdesi sono stati i primi a benedire le unioni tra persone dello stesso sesso e nel sinodo di quest’anno potrebbero discutere della gestazione per altri (gpa), una pratica riproduttiva che divide anche le femministe e per cui il governo italiano guidato da Giorgia Meloni ha proposto addirittura l’istituzione del “reato universale”. “Abbiamo affidato a una commissione l’indagine sul tema e ne dovremmo discutere. Potrebbero esserci delle divisioni, come avvenne al tempo del riconoscimento delle unioni civili, ma si troverà un accordo”, assicura Di Carlo. Nel sinodo di quest’anno si discuterà anche della mancata presa di distanza dal fascismo nel sinodo del 1943, che si svolse dal 6 al 10 settembre durante i giorni dell’armistizio dell’8 settembre. Nel sinodo, ancora oggi, alcuni vorrebbero che si chiedesse perdono per non aver preso una decisione netta in quell’occasione.
“Noi siamo una chiesa che include: siamo impegnati contro l’omotransfobia, contro il razzismo, contro la violenza sulle donne”, continua. “Per noi Gesù è inclusione, è accoglienza. Crediamo in un Dio che è diventato uomo per amare e accogliere e la nostra missione è provare a essere come lui”, sottolinea. Proprio per questo motivo, racconta, le capita di incontrare nella chiesa di Milano persone che si convertono al protestantesimo, perché non si sentono accolte in altre chiese: “Arrivano da noi perché sono divorziati, oppure sono omosessuali e non si sentono accettati in altri contesti, ma sono religiosi e vogliono trovare un posto in cui possano esserlo insieme con gli altri”, conclude.
L’Europa dei valdesi
I valdesi prendono il loro nome da un mercante di tessuti del dodicesimo secolo chiamato Valdo, che viveva a Lione ed era diventato estremamente ricco con l’usura. “La sua storia è simile a quella di Francesco di Assisi”, assicura Davide Rosso, direttore della fondazione Centro culturale valdese, mentre fa strada, camminando su un sentiero nel villaggio di Angrogna, un paese di montagna a pochi chilometri da Torre Pellice, che nel cinquecento era diventato il centro più esteso nelle valli valdesi.
Ad Angrogna è conservata una grotta, che è possibile visitare, in cui i valdesi delle origini si riunivano per celebrare il rito domenicale o si nascondevano quando erano perseguitati, la Gheisa d’la tana (la chiesta della tana). “Oggi è possibile visitare questi luoghi a piedi, perché sono stati riconosciuti come percorso turistico dal Consiglio europeo, che li considera costitutivi della storia europea”, spiega Rosso. Nel 2015 papa Francesco ha visitato per la prima volta un tempio valdese a Torino e ha chiesto perdono per le persecuzioni contro i valdesi, condotte dai cattolici nel corso dei secoli. In quell’occasione è stata Alessandra Trotta, moderatrice della Tavola valdese originaria di Palermo, a dare la benedizione finale a cui ha partecipato anche Bergoglio.
All’inizio i valdesi, chiamati i “poveri di Lione”, furono tollerati dalle gerarchie ecclesiastiche romane: nel 1180 Valdo rinunciò a tutte le sue ricchezze, distribuì i beni ai poveri e cominciò a predicare e a mendicare. Quando gli chiedevano perché lo avesse fatto, rispondeva: “Se vi fosse dato di vedere e credere i tormenti futuri che ho visto e in cui credo, forse anche voi vi comportereste in modo simile”. Da subito ebbe dei seguaci che, come lui, abbandonavano le ricchezze e la vita mondana, per farsi poveri. Inizialmente erano appoggiati dal vescovo di Lione, ma poi furono scomunicati nel 1184 dal papa Lucio III, perché avevano la “presunzione” di predicare in pubblico pur non essendo consacrati e furono considerati eretici dalla chiesa di Roma.
Molti valdesi dovettero fuggire dalle persecuzioni e si rifugiarono nelle valli delle alpi Cozie, tra l’Italia e la Francia. Quel territorio diventò una base del movimento religioso, durante secoli di pericoli. Nel sinodo valdese del 1532 proprio ad Angrogna la chiesa aderì alla riforma protestante. “Questo diede ai valdesi un appoggio importante dal punto di vista internazionale e anche una maggiore solidità dal punto di vista teologico”, spiega Rosso, mentre mostra il monumento di Chanforan, un obelisco eretto nei campi di Angrogna, che ricorda il luogo in cui si svolse quel sinodo.
“In quel momento si decise di tradurre la Bibbia in francese e la traduzione fu affidata a Olivetano, con un grande sforzo economico da parte dei valdesi”, racconta Rosso. Con l’adesione alla riforma, i valdesi vennero allo scoperto e cominciarono a costruire anche dei templi, ma questo favorì le persecuzioni nei loro confronti da parte dei Savoia, spesso per ragioni meramente economiche e politiche.
“Il seicento è stato un secolo particolarmente difficile: nel 1655 il duca di Savoia condusse una campagna, che aveva come obiettivo lo sterminio dei valdesi”, spiega Davide Rosso, mentre cammina tra le stradine di montagna in una giornata caldissima di agosto. “Le loro case furono distrutte, le persone massacrate o imprigionate e i loro beni confiscati. Molti furono costretti a fuggire in Svizzera o in Francia”. Della questione si occuparono anche i britannici Oliver Cromwell, lord protettore del Commonwealth, e il ministro degli affari esteri, il poeta John Milton, che inviò una serie di lettere ai sovrani e ai governi europei per chiedere che si interessassero della causa valdese.
Cromwell scrisse addirittura al re di Francia, Luigi XIV, minacciando di interrompere le trattative di amicizia in corso con il Regno Unito, se il re francese non avesse fatto pressione sui Savoia per far ottenere ai valdesi la libertà di culto. Ma solo nel 1848 il re Carlo Alberto di Savoia concesse i diritti civili e politici al gruppo. “Tuttavia la libertà di culto vera e propria è arrivata solo nel 1984, con la firma delle intese con lo stato italiano, anche se era già prevista in teoria dall’articolo 8 della costituzione”, spiega Rosso. Fu la prima intesa di questo tipo firmata in Italia con una minoranza religiosa.
Per lo storico valdese è importante comprendere i legami dei valdesi con le altre chiese protestanti e i loro rapporti internazionali che gli hanno permesso di sopravvivere pur essendo una minoranza perseguitata. Non è un caso, dice Rosso, che “Altiero Spinelli abbia pronunciato a Torre Pellice il suo primo discorso europeista, dopo la scrittura del manifesto di Ventotene”. Il teorico del federalismo europeo era sfollato a Torre Pellice, a casa di una famiglia valdese di Milano, e Rosso sostiene che in parte sia stato influenzato dall’atmosfera cosmopolita di queste valli.
“Per decenni i valdesi non hanno potuto studiare, frequentare le scuole pubbliche, perché non avevano diritti civili, quindi era normale per loro trasferirsi in altri paesi europei per studiare. Parlavano almeno tre lingue. Per sopravvivere hanno dovuto emigrare, spostarsi. Ma questo li ha resi poliglotti e gli ha permesso di sviluppare uno spirito europeo. Poi l’idea della federazione è tipica del protestantesimo: le chiese protestanti sono sorelle”, continua Rosso, che accompagnerà il presidente della repubblica italiana Sergio Mattarella nel suo viaggio a Torre Pellice, il 31 agosto. In quell’occasione sarà commemorato il discorso di Spinelli sull’Europa. “È interessante guardare alle elezioni europee del prossimo anno e a quel che rimane del progetto europeo da queste valli”, conclude Rosso.
Dall’Afghanistan alla val Pellice
Parwana Kebrit apre la porta di un appartamento luminoso al primo piano di un palazzo che ha le porte di ferro battuto. C’è molto caldo, ma l’interno della casa di Kebrit è fresco e in ombra. La donna è arrivata nella val Pellice cinque mesi fa dal Pakistan, insieme al marito Jawan, con un corridoio umanitario. Originaria di un piccolo paese dell’Afghanistan si è rifugiata in Pakistan per la prima volta nel 2001, insieme alla sua famiglia di origine.
“È lì che io e le mie sorelle siamo andate a scuola per la prima volta, in Afghanistan la maggior parte delle ragazze non poteva studiare. E al di là dei taliban, il 90 per cento degli afgani pensa che per le donne non sia giusto studiare”, racconta. Poi con la famiglia è tornata a Kabul, dove ha frequentato l’università ed è diventata un’attivista per i diritti delle donne. Ma con il ritorno dei taliban nella capitale afgana nell’agosto del 2021, Kebrit e il marito sono stati costretti a scappare di nuovo. “Per noi non era sicuro rimanere nel paese”, racconta.
Dal Pakistan è arrivata in Piemonte, accolta dalla Diaconia valdese, che la sta aiutando a riprendere gli studi e a imparare l’italiano, oltre che a farsi riconoscere i titoli di studio del paese di origine. Ha una grande passione per il disegno e la pittura e mostra orgogliosa i suoi quadri, esposti uno vicino all’altro. Uno di questi, l’unico dipinto con i colori a olio, l’ha portato con sé nel viaggio dal Pakistan. Mostra delle donne afgane con i pugni alzati che marciano tenendo una bandiera e schiacciano degli uomini. “Sono le donne che combattono per i loro diritti”, spiega. In un disegno che ha realizzato in Italia, invece, si vedono sei gabbie con dentro degli uccelli, una delle gabbie è rossa ed è aperta, l’uccello è volato via. Nel quadro successivo l’uccello rosso vola dopo essersi liberato. Parwana Kebrit si sente così, finalmente libera. La sua intenzione ora è quella di continuare a studiare. Il suo inglese è fluente e i suoi occhi brillano di fiducia.
“Amo l’Italia, sono stati tutti gentili e disponibili con noi. Voglio rimanere qui”, assicura. Dal 2016 i valdesi sono promotori, insieme alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia e alla comunità di sant’Egidio dei cosiddetti corridoi umanitari, dei ponti aerei che hanno permesso di portare legalmente in Italia 4.244 rifugiati dall’Afghanistan, dal Libano e dalla Libia, in accordo con lo stato italiano. Nove persone arrivate in Italia con i corridoi umanitari sono al momento ospitati nella val Pellice, grazie alla Diaconia valdese. “Si tratta di due famiglie afgane”, spiega Alice Squillace, responsabile dell’accoglienza per la Diaconia. La famiglia di Kebrit e quella di Abdul Mutaleb Hamed, un medico afgano che lavorava con un’ong italiana, il Cospe. “Lavoriamo molto sulla loro inclusione e il rapporto con la comunità ospitante”, assicura. E negli anni non ci sono mai stati grandi problemi.
“In questo momento in cui si torna a parlare di emergenza migranti in Italia (sono stati superati i centomila arrivi nel 2023, ndr), ci sembra che tutto sia strumentale. Guardare per esempio all’esperienza dei corridoi umanitari mostra che lavorare in maniera umana con piccoli gruppi di persone non produce mai situazioni difficili o ingestibili”, conclude. “Siamo stati rifugiati come valdesi in Svizzera e in Germania e sappiamo quali siano le sofferenze del viaggio e della cattiva accoglienza”, assicura Francesco Sciotto, pastore della chiesa valdese di Messina e presidente della Diaconia valdese, seduto ai tavolini del bar, allestito dalla chiesa valdese durante il sinodo, nel giardino del quartier generale di Torre Pellice. “Per questo i valdesi sono particolarmente impegnati nell’accoglienza e per questo vogliono evitare che altri subiscano le conseguenze di una cattiva accoglienza”.
Oggi in Italia vivono circa ventimila valdesi e la maggioranza è concentrata nelle tre valli del Piemonte: la val Chisone, la valle Germanasca e la val Pellice. “Come tutte le chiese, anche i valdesi hanno una crisi di fedeli e di vocazioni. Sono sempre di meno i ragazzi e le ragazze che decidono di diventare pastori”, racconta Michel Charbonnier, pastore di Torre Pellice.
“È una crisi che in larga parte dipende dalla secolarizzazione e che noi vediamo di più in queste valli che nelle chiese delle città in giro per l’Italia”. Secondo Charbonnier, in val Pellice molte persone di famiglia valdese hanno smesso di frequentare la chiesa, ma è un processo che va avanti da decenni.
“Ne parleremo anche nel sinodo. Ma per certi versi per i valdesi questo è un problema meno urgente che per altre chiese: per noi infatti tutti possono predicare e siamo abituati a essere in pochi”. La chiesa è molto più impegnata nelle questioni di tipo sociale che nelle questioni meramente religiose. “Fermo restando la separazione netta tra lo stato e la chiesa in cui crediamo”, conclude Charbonnier. “Sappiamo che si può incidere, anche se siamo in pochi”.
▻https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/annalisa-camilli/2023/08/24/valdesi-sinodo-torre-pellice
#vaudois #église_vaudoise #Italie #protestantisme #sinodo #Val_Pellice #religion #accueil #réfugiés #histoire #Angrogna #réforme_protestante #Olivetano #persécution #extermination #Savoie #minorité_religieuse #minorités #corridor_humanitaire #diaconia_valdese #val_Chisone #valle_Germanasca
]]>Police et justice, quand les piliers du macronisme se bouffent le nez Régis de Castelnau - Vu du droit
L’opération concoctée par la haute fonction publique d’État, approuvée et financée par l’oligarchie pour être finalisée par la magistrature a installé à la tête de l’État en 2017, un inconnu sans réelles compétences politiques. Sorti de nulle part émmanuel macron affichait un cursus désespérément vide. Il a démontré dans sa pratique non seulement son absence de sens de l’État, mais également un rapport à la France réellement inexistant. L’intérêt national lui est étranger, en bon néolibéral, gouverner pour lui consiste mettre en place les conditions permettant aux grands intérêts nationaux et internationaux dont il est le mandataire, de poursuivre leur accumulation. Son système présente deux caractéristiques : tout d’abord il repose sur une corruption massive au sein du bloc élitaire qui le soutient, ensuite il provoque une opposition rageuse dans le pays. Celle-ci ne trouvant pas de débouchés politiques s’exprime par une agitation quasi permanente.
Les uns lisent Libération et écoutent France Info, les autres Valeurs actuelles et Cnews La crise des rapports police justice à l’occasion de l’incarcération de policiers auteurs présumés de violences en est la manifestation.
Festival d’hypocrisie
jolie festival d’hypocrisie autour des déclarations intempestives et juridiquement stupides du DGPN Frédéric Veaux, approuvées par le préfet de police de Paris, déclarant à propos de l’incarcération d’un policier à Marseille « Je considère qu’avant un éventuel procès, un policier n’a pas sa place en prison même s’il a pu commettre des fautes ou des erreurs graves dans le cadre de son travail » . Dans chaque camp, la main sur le cœur, l’indignation en bandoulière, on prend la pose, brandit les grands principes, et traite les autres d’apprentis fascistes. Mention spéciale, à Jean-Luc Mélenchon qui n’a pas pu se retenir et nous a gratifié sans surprise d’une de ses incantations vitupérante, sommant « les policiers entrés en sécession factieuse de respecter les institutions républicaines » . Le tout dans la confusion juridique et judiciaire, hélas habituelle dans notre pays. Alors avant de formuler quelques observations sur la pantomime et le jeu de rôles déclenché par cette affaire il faut revenir sur la dimension juridique du problème et sur les principes qui le gouvernent.
Retour aux principes
Premier principe : la présomption d’innocence. L’État dispose de la violence légitime et peut punir ceux qui ont transgressé la règle sociale après une procédure ou un juge indépendant et impartial prend la décision. Celle-ci doit être définitive, toutes les voies de recours étant épuisées. Jusqu’à ce moment-là, la personne poursuivie dispose de toutes les prérogatives d’un citoyen de plein exercice.
Deuxième principe : si la liberté est la règle et l’incarcération l’exception, l’intérêt de la procédure destinée à établir une « vérité judiciaire » utilisable par le juge peut justifier des mesures de restriction de la liberté. Mesures qui peuvent aller jusqu’à la privation de cette liberté et l’incarcération. C’est l’article 144 du code de procédure pénale ▻https://www.legifrance.gouv.fr/codes/article_lc/LEGIARTI000021332920 prévoit qui définit les critères d’une telle décision provisoire et ne peut être ordonnée que si elle constitue l’unique moyen :
1° Conserver les preuves ou les indices matériels qui sont nécessaires à la manifestation de la vérité ;
2° Empêcher une pression sur les témoins ou les victimes ainsi que sur leur famille ;
3° Empêcher une concertation frauduleuse entre la personne mise en examen et ses coauteurs ou complices ;
4° Protéger la personne mise en examen ;
5° Garantir le maintien de la personne mise en examen à la disposition de la justice ;
6° Mettre fin à l’infraction ou prévenir son renouvellement ;
7° Mettre fin au trouble exceptionnel et persistant à l’ordre public provoqué par la gravité de l’infraction, les circonstances de sa commission ou l’importance du préjudice qu’elle a causé. Ce trouble ne peut résulter du seul retentissement médiatique de l’affaire. Toutefois, le présent alinéa n’est pas applicable en matière correctionnelle.
La décision d’incarcération est donc fonction de critères objectifs et pas de la qualité de la personne poursuivie, qu’il soit policier ou simple citoyen. Cependant, s’agissant des 6 premiers alinéas de l’article 144, on voit bien que la qualité de policier permet de prendre les mesures de contrôle judiciaire qui mettront instruction à l’abri. À cet égard, la déclaration du DGPN aurait pu être recevable, à condition de ne pas revendiquer l’application d’une règle générale. Toute décision de privation de liberté doit être prise en fonction de l’analyse des circonstances par le Juge des libertés.
Psychodrame politique, comme d’habitude
Ces précisions étant apportées, que nous raconte ce nouveau psychodrame. Avec le rappel préalable que l’auteur de ces lignes ne connaît pas le fond des dossiers en cause, mais que son analyse repose sur la connaissance qu’il a du fonctionnement de la machine.
Comme d’habitude, les magistrats sont montés au créneau par l’intermédiaire de leurs organisations syndicales dont chacun sait qu’elles n’agissent que comme des officines politiques. Alors comme à l’habitude toujours on entend les mêmes glapissements, les mêmes accusations sur les atteintes à leur indépendance. En oubliant encore une fois que celle-ci n’est pas mise en cause, mais que c’est leur partialité qui est questionnée. Partialité politique dont souvent ils ne se gardent même plus. En restant discret également sur le précédent déshonorant de la répression judiciaire massive du mouvement des gilets jaunes. Répression directe avec des milliers de peines de prison ferme à des primo-délinquants mais également indirects avec la couverture d’une violence policière débridée. Malgré les éborgnés et les amputés guère de poursuites, et bien sûr aucun mandat de dépôt.
La décision d’incarcération du policier auteur du tir mortel sur Nael était judiciairement injustifiée au regard des 6 premiers alinéas de l’article 144, mais reposait probablement sur le 7e. Il s’agissait de prendre une décision spectaculaire destinée à tenter de désamorcer la colère. Il est donc difficile de contester l’utilisation du critère du « trouble à l’ordre public ». Et ce d’autant que la mise en examen pour la qualification criminelle « d’homicide volontaire » le permettait. Mais cela établit une chose difficilement contestable : nous sommes en présence d’une décision politique. Réclamée par le parquet et donc voulue par le pouvoir. L’incarcération dans l’affaire de Marseille, obéit aux mêmes considérations. L’infraction a été qualifiée en application de l’article 222-8 du Code pénal ▻https://www.legifrance.gouv.fr/codes/section_lc/LEGITEXT000006070719/LEGISCTA000006181751 qui considère comme criminels « les coups et blessures volontaires en réunion » commis par des agents publics. Juridiquement possible, le mandat de dépôt d’un des protagonistes poursuit elle aussi des objectifs politiques. Mais qui ne sont pas les mêmes, cette affaire n’ayant pas eu les mêmes conséquences que celle de Nanterre en matière de trouble à l’ordre public. Il s’agit probablement d’envoyer un message à la police en forme de rappel à l’ordre après la « licence » dont elle aurait bénéficié pour juguler émeutes et pillages après Nanterre. Policiers à qui on confirme que frapper les couches populaires avec des gilets jaunes, ça passe.
Mais le lumpenprolétariat, présentée par les belles âmes comme une belle jeunesse en révolte, pas touche. C’est pourtant condamnable dans les deux cas.
Et tout le poulailler politique de s’offusquer et de caqueter en prenant la pose pour affirmer ses exigences républicaines et son saint respect des grands principes.
émmanuel macron est bien embêté, car adepte proverbial de son « en même temps », il sait l’importance décisive de la complaisance judiciaire apportée à son système mais également le nécessaire soutien policier à son régime vermoulu. Alors il a quand même fini par prendre la parole en ménageant une fois encore la chèvre et le chou, c’est-à-dire les deux institutions qui lui sont indispensables pour tenir. Pour finir par conclure par cette solennelle sentence : « Nul en République n’est au-dessus de la loi ».
Eh bien si Monsieur le président il y a plein de gens dans votre système qui sont au-dessus de la loi. À commencer par vous-même, ce qui est fort normal en raison de votre immunité constitutionnelle. Mais également par l’indulgence judiciaire dont vous bénéficiez pour vos activités antérieures à votre entrée à l’Élysée, indulgence étendue à vos amis. Jusqu’à présent François Bayrou, Richard Ferrand, Alexis Kholer, Thierry Solère, Olivier Dussopt, François de Rugy, Jean-Paul Delevoye, Muriel Pénicaud, Agnes Buzyn, Bruno Lemaire, les dirigeants de McKinsey France, les protagonistes de l’affaire Alstom, ceux de l’affaire du fonds Marianne, de l’affaire BPI France, etc. etc. tout ceux-là et bien d’autres encore sont au-dessus de la loi.
Il paraît qu’émmanuel macron lors d’un dîner du 18 juillet dernier aurait félicité ses ministres avec ces mots : « on peut collectivement être très fier de ce qui a été fait ces derniers mois ». Au vu de l’année qui a suivi sa réélection, à croire que l’effondrement de l’État français est bien la réalité son projet. Il est probable qu’il sache très bien ce qu’il fait.
Alors finalement, le spectacle de cet affrontement police-justice ne raconte rien d’autre que la crise d’un régime corrompu, qui ne maîtrise plus rien et s’en remet à une aggravation de sa dérive autoritaire. Mais pour cela, il faut qu’il puisse toujours compter sur le soutien conjoint de ses outils de répression. Le fait qu’ils soient en train de se bouffer le nez est une mauvaise nouvelle pour Macron.
Régis de Castelnau
#judiciaire #police #justice #oligarchie #magistrats #répression de l’ #opposition #Nael #émmanuel_macron #macron #macronisme
Source : ▻https://www.vududroit.com/2023/07/police-et-justice-quand-les-piliers-du-macronisme-se-bouffent-le-nez
]]> Justin Trudeau remet le Prix mondial de la paix et de la liberté à Madame ursula von der leyen présidente de la Commission européenne
Le World Peace and Freedom Award, . . . . Vous connaissiez ?
NEW YORK — Vendredi, le premier ministre Justin Trudeau a fait l’éloge de la Commission européenne et de sa première femme présidente en remettant à Ursula von der Leyen l’équivalent judiciaire du prix Nobel de la paix.
M. Trudeau a effectué un voyage spécial d’une journée aux Nations Unies pour le dernier jour du Congrès mondial du droit, où des juristes du monde entier se réunissent tous les deux ans pour vanter les vertus démocratiques de la primauté du droit.
Mme Von der Leyen, élue à la tête de la commission en 2019, n’aurait pas pu arriver à un meilleur moment, a déclaré M. Trudeau, alors que l’aile exécutive de l’Union européenne est confrontée à une nouvelle période d’instabilité.
« Le Brexit a laissé beaucoup de gens se demander si l’alliance continuerait à tenir bon. L’euroscepticisme était en hausse. Et le protectionnisme et l’autoritarisme devenaient plus répandus », a déclaré le premier ministre.
. . . . .
Rappelons que Madame ursula von der leyen s’est opposé aux appels à un cessez-le-feu en Ukraine.
#oligarchie #entre_soi #hypocrisie #guerre #commission européenne #ursula_von_der_leyen #Justin_Trudeau #propagande #néo_libéralisme #fumisterie
Source : ▻https://lactualite.com/actualites/justin-trudeau-remet-un-prix-a-la-presidente-de-la-commission-europeenne
]]>Des #températures dépassant la #limite_génétique de toutes les espèces méditerranéennes sont prévues dans le sud de l’Europe dès mardi :
➡️ 40 à 44°C en #Italie (jusqu’à 45-47+°C en Sardaigne et Sicile)
➡️ 40 à 45°C en #Espagne
➡️ 40 à 42°C en #France
Conséquences agricoles :
➡️la floraison des légumes « maraîchage » risque d’être fortement perturbée (brulures et pertes de fleurs).
➡️l’#olivier risque de voir une partie de ses fruits se dessécher.
➡️des brûlures peuvent concerner la #vigne (voire un dessèchement de grappe) dans le cas où la canicule dure plusieurs jours.
➡️souffrance extrême des animaux d’élevage.
L’Italie est le pays qui sera le plus concerné par ses conséquences agricoles. Je tiens à préciser qu’il s’agit ici d’un #stress_thermique. Il ne peut pas être entièrement résolu par l’irrigation (#stress_hydrique).
Voici un énième exemple des conséquences du changement climatique.
]]>Thierry Breton, le néo-fascisme tranquille - Vu du Droit vududroit.com - Régis de Castelnau
La France traverse une crise politique majeure. L’État n’est plus en mesure de contrôler son territoire. Et que dire de l’économie. Les deux tiers des Français haïssent Emmanuel Macron. Qui piétine les #libertés_publiques et met en place un #régime_néofasciste. Et pour faire bon poids il fournit à un régime en panique des missiles de croisière pour frapper le territoire de la Russie. C’est-à-dire que tranquillement il déclare la guerre à la première puissance nucléaire du monde. Le gouvernement est muet, l’ensemble de la classe politique représentée au Parlement fait de même. Pas un élu à l’exception de Dupont Aignan aucune autorité intellectuelle ou morale n’élève la voix pour s’inquiéter de l’#abîme vers lequel cet homme emmène le pays.crise-la-solidarit%C3%A9
Breton s’est récemment signalé par des vitupérations contre les réseaux sociaux, qu’il accuse à demi-mot de véhiculer une parole d’opposition politique aux oligarchies en place. Sous prétexte de lutter « contre la haine en ligne », il décrit un dispositif destiné en fait à bâillonner toute parole dissidente. Il n’a d’ailleurs pas hésité à citer comme devant être interdits les « appels à la révolte » ! La tentation néofasciste du personnage saute aux yeux, tant dans l’attitude que dans le choix des mots. Breton, donc, a fait adopter par le Parlement européen un texte qui reprend toutes les mesures proposées naguère par Emmanuel Macron, par l’intermédiaire de l’ex-députée #laetitia_avia et de la loi dite « Avia », votée par le Parlement-Playmobil du premier mandat – et quasi intégralement censurée par le Conseil constitutionnel puisque jugée attentatoire à la Constitution et notamment à la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen. Notre cour suprême, pourtant fort indulgente en général avec Macron, avait fait sortir l’horreur liberticide qu’était la loi Avia par la porte ; Thierry Breton la fait rentrer par la fenêtre. On en veut pour preuve cet hallucinant entretien passé à décrire tous les moyens administratifs qui permettraient d’instaurer une censure administrative a priori en piétinant tous nos principes.
° La censure, nouvelle passion de la « gauche »
En France, une « gauche » minoritaire et paniquée nourrit une nouvelle passion pour la #censure. Ces jours derniers plusieurs exemples de ce tropsime ont d’ailleurs fait réagir : citons la campagne contre le pluralisme avec l’affaire Geoffroy Lejeune au JDD, les déclarations de Pape Ndiaye sur Europe1 et CNews, médias « clairement d’extrême droite », ou encore les provocations du « philosophe » Geoffroy de Lagasnerie, qui affirme que la pensée de droite n’existe pas.
Il est malheureusement nécessaire une fois de plus de rappeler que la conflictualité est inhérente au politique et qu’elle s’exprime et se résout dans l’espace public. Le propre d’un cadre normatif dans un système démocratique est justement de permettre le #débat et l’affrontement des #opinions, le juge de paix étant l’élection. L’application de ces principes est de plus en plus problématique pour les blocs oligarchiques au pouvoir dans les pays occidentaux. On y revendique et brandit les « valeurs démocratiques » comme étant universelles, mais on s’efforce par tous les moyens de faire taire les paroles dissidentes. Une tâche rendue plus compliquée par l’existence des réseaux sociaux, plateformes qui ont réalisé une véritable révolution en donnant une parole en temps réel au plus grand nombre, ce qui est quand même, qu’on le veuille ou non, un progrès démocratique. Cette parole charrie comme toujours le pire et le meilleur, et il est quand même inquiétant de voir qu’en France, le pouvoir d’État réagisse comme il le fait avec une succession de lois liberticides. La loi Avia, à juste titre censurée, n’avait été qu’un avatar d’une entreprise d’encadrement mise en œuvre depuis l’arrivée d’Emmanuel Macron, dont l’absence de culture démocratique impose de rappeler que la démocratie est fondée sur l’égalité de n’importe qui avec n’importe qui. Et que l’accès à l’expression et au débat du plus grand nombre ne devrait pas être considéré comme un danger.
À la fin du XIXe siècle, lorsque la IIIe République fut suffisamment bien établie, et afin de garantir le respect de la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, fut adoptée une loi de protection de la liberté d’expression. Parmi ses principes figurait celui que cette liberté fondamentale pouvait être limitée si nécessaire par la loi, mais dès lors que les restrictions étaient strictement proportionnées à l’objectif d’intérêt général poursuivi et que le contrôle de ce nécessaire équilibre n’appartenait qu’au Juge. La loi sur la presse de 1881 fonctionne depuis presque 140 ans, et jusqu’à présent, on pouvait considérer que la liberté d’expression existait dans notre pays. Malheureusement, depuis le mandat de François Hollande et maintenant d’Emmanuel Macron, la France a dégringolé dans les classements internationaux de la liberté de la presse, « la patrie des droits de l’homme » se trouvant aujourd’hui à la 34e place sur 180…
Thierry Breton, autocrate assumé
Après la Deuxième Guerre mondiale, un encadrement juridique destiné à garantir l’indépendance, le pluralisme et la transparence de la presse nationale avait été adopté. Il a été soigneusement détruit, et aujourd’hui la presse audiovisuelle et écrite est entièrement entre les mains de l’#oligarchie. L’îlot du service public n’y échappe pas, puisqu’il est au service du pouvoir politique mis en place par cette même oligarchie avec le coup d’État judiciaire de 2017. L’existence d’une expression dissidente via les réseaux sociaux est donc considérée comme insupportable, et les agents du pouvoir multiplient les tentatives pour la faire taire.
Le texte présenté par Thierry Breton contient un certain nombre d’horreurs et la première d’entre elles est relative au fait que c’est l’autorité administrative qui désormais décidera de ce que l’on peut dire ou ne pas dire sur les réseaux. Une équipe de flics de la pensée aux ordres de ce nouveau ministre de la Vérité pourra sommer n’importe quel site, quelle que soit sa taille, de supprimer dans les 24 heures des textes qu’elle juge contraire à la loi. La défaillance dans la suppression immédiate pourra être sanctionnée, par l’interdiction dans le pays considéré et pour ce qui nous concerne la France. Il est clair que les grandes plates-formes comme Facebook, YouTube ou Twitter vont non seulement poursuivre leur censure a priori qui existe déjà, mais pourraient aussi, par précaution, déférer à toutes les demandes de suppression émanant des officines européennes opaques. Elon Musk souhaite faire de Twitter, qu’il a racheté, un espace de libre expression ; Thierry Breton, tout à sa pulsion #néofasciste, en a fait une de ses cibles principales. Le système d’intimidation ainsi adopté n’est pas destiné à « lutter contre la haine », mais bien à réprimer la liberté d’expression en ligne. Le commissaire européen a tranquillement assimilé à des messages de haine les appels à la révolte. Rappelons encore une fois qu’il s’agit là des mesures contenues dans la loi Avia, démantibulée par la décision du Conseil constitutionnel, dont le projet de Breton est un décalque.
Toute cette entreprise n’est que le prétexte pour mettre les réseaux au pas. ° Et n’oublions pas que le pouvoir d’Emmanuel Macron est dès le départ un pouvoir minoritaire. Cette minorité est parfaitement assumée, mais a pour conséquence – indispensable à son propre maintien – d’avoir conduit à une dérive autoritaire qui a pris des proportions plus qu’inquiétantes. L’usage de la police et de la justice contre les Gilets jaunes et les autres #mouvements_sociaux, les grands médias complètement enrégimentés et la destruction méthodique de la liberté d’expression sont les armes utilisées par Emmanuel Macron pour mettre en œuvre sa feuille de route. Et cette fois-ci, face aux principes fondamentaux de la République française qui s’y opposent, on utilise l’#union_européenne et la violation de notre souveraineté pour les contourner et mettre en place un système autocratique dont Thierry Breton est l’un des gardes-chiourme. *
S’y opposer est un devoir. Avant qu’il ne soit trop tard .
Source : ▻https://www.vududroit.com/2023/07/thierry-breton-le-neo-fascisme-tranquille
]]>NovFut #19 Raconter des histoires de Science-Fiction pour réinventer la société
►https://nouvellesdufutur.substack.com/p/novfut-19-raconter-des-histoires
Ce mois-ci en SF
Dans les récits pour construire la société, notons la sortie de Germinata d’Olivier Fournout (sociologue et sémiologue, écrivain et metteur en scène) aux Editions C&F. J’aime beaucoup ces éditions habituellement plutôt branchées numériques (l’indispensable Aux sources de l’utopie numérique de Fred Turner) qui maintenant avec la collection Fiction se lancent dans la SF. On leur doit également les fabuleuses Mikrodystopies de l’ami François Houste.
]]>Mort de Nahel : vidéodrame. – affordance.info
▻https://affordance.framasoft.org/2023/06/mort-de-nahel-videodrame
Par Olivier Ertzscheid
La mort de Nahel a été filmée par un smartphone et diffusée quasi instantanément sur différents réseaux sociaux, obligeant le ministère de l’intérieur à acter une bavure policière déjà documentée en tant qu’élément de preuve.
Ensuite la concurrence des médias.
Médias sociaux et médias soucieux d’en être ou d’y trouver une place. Une concurrence tripartite entre, d’une part, les médias télévisuels d’info en continu et leurs incessants “plateaux de débats”, d’autre part les plateformes précédentes – sachant que les premiers se servent des secondes comme autant de mécanismes de renforcements attentionnels en découpant en “séquences” supposément virales tous les éléments de plateau permettant de rajouter des focales émotionnelles et spectaculaires – et enfin les médias “pure player” comme Brut ou des comptes de journalistes indépendants (Clément Lanot notamment) dont le succès en pareille circonstance s’explique par leur capacité à fournir à la fois le côté “brut” du reportage de terrain en temps réel et la continuité de l’action journalistique qui en fait le sous-texte spectaculaire autant qu’elle nourrit le commentaire de celui qui filme.
Dans le vidéo drame qui a vu la circulation des images de la mort de Nahel, on ne voit jamais Nahel mourir mais on comprend qu’il vient d’être tué. La force de démonstration de ces images vient de ce décalage. Leur viralité également car toute autre image donnant à voir sa mort aurait déclenché d’autres processus de circulation virale où il se serait agi tout à la fois d’éviter et de contourner le blocage des plateformes. Ici il n’y a rien à bloquer, il n’y a qu’à montrer la monstruosité d’un geste, d’une mise en joue qui met en jeu une vie.
En clôturant cet article on attire mon attention sur la déclaration d’Emmanuel Macron indiquant, je cite, chez “les jeunes” (sic), “une forme de mimétisme de la violence (…) on a le sentiment parfois que certains d’entre eux vivent dans la rue les jeux vidéos qui les ont intoxiqués.”
Le discours sur le mimétisme et la reproduction de scènes de violence des jeux vidéos dans la “vraie vie” c’est une thèse qui ne tient pas la route et qui n’a jamais été établie scientifiquement. S’il peut y avoir parfois des corrélations il n’y a en aucun cas de causalité. Le discours que tient Macron est un discours écran et un discours refuge, qui n’a pour seul but que de le mettre à l’abri de ses propres responsabilités. Ces émeutes et ces scènes de violence auraient existé même dans un monde totalement déconnecté, même chez les Amish. Parce que ce qui se passe actuellement est un fait sociologique (et politique) et non un fait technologique (et numérique).
Le président de la start-up nation est, une nouvelle fois, un vieux con comme les autres.
]]>Apple Vision Pro : le casque était un masque. – affordance.info
►https://affordance.framasoft.org/2023/06/apple-vision-pro-le-casque-etait-un-masque
par Olivier Ertzscheid
Après quelques années d’exploitation sans concurrence réelle de l’Oculus par Méta, après la hype autour du lancement du “Métavers”, après que toutes les Big Tech sont en quête perpétuelle du Next Big Thing dans le domaine de l’équipement comme seul Apple fut longtemps en mesure produire et d’en annoncer, c’est le Apple de Tim Cook qui vient donc de lancer le casque Apple Vision Pro, je cite “le premier ordinateur spatial”.
On avait “l’informatique ubiquitaire“, on avait “l’ordinateur quantique“, voici donc … “l’ordinateur spatial” !! Rien à voir avec la conquête de l’espace (même si dans un storytelling un peu bourrin on décline les usages du Apple Vision Pro avec des références permanentes à la série Fondation produite par … Apple TV), il s’agit ici de l’espace physique, de la spatialité de notre présence au monde qu’Apple nous promet de révolutionner.
Mais rien n’y fait car à bien y regarder (dans le casque), c’est l’impression d’un nouvel enfermement. Celui du casque de réalité virtuelle. L’appareillage de ce que certains voient comme un monde nouveau, qu’ils nomment Métavers, là où d’autres soulignent la vanité de ce désespérément plat Net B.
Le casque Apple Vision Pro m’intéresse non pas pour les fantasmes qu’il alimente ou pour les développements techniques qu’il met en oeuvre mais par la triangulation du regard qu’il installe de manière inédite et qui, par bien des points, permet de situer l’analyse et la prospective de ces équipements et des “réalités” qu’ils cristallisent. S’il s’agit du “premier ordinateur spatial“, c’est bien parce qu’il n’est pas de situation dans l’espace sans triangulation. Je m’explique.
]]>Des centaines de millions de francs de bonus cachés chez credit suisse ats/fgn - RTS
La SonntagsZeitung révèle que d’ex-membres de la direction et des cadres de haut niveau de la gestion d’actifs du credit suisse se sont versés pendant des années d’énormes salaires et de fortes participations aux bénéfices. Des sommes généralement pas mentionnées dans le rapport annuel.
Ces bonus spéciaux ont donné lieu à des versements exceptionnels de plusieurs centaines de millions de francs, révèle la SonntagsZeitung ▻https://epaper.sonntagszeitung.ch/read/10000/10000/2023-05-07/1 . Rien qu’en 2019, deux versements de 50 millions de francs ont été effectués.
Sommes pas mentionnées dans le rapport annuel
Les bénéficiaires sont d’anciens membres de la direction et quelques cadres de haut niveau de la gestion d’actifs du credit suisse. Alors que le Conseil fédéral a décidé de supprimer ou de réduire au minimum de 25% les bonus des cadres de credit suisse, le journal indique qu’ils se sont versés pendant des années d’énormes salaires et de fortes participations aux bénéfices. Ces sommes n’étaient généralement pas mentionnées dans le rapport annuel.
C’est surtout un groupe d’Américains au sein du conseil d’administration de credit suisse qui a été favorisé par ces versements. La participation aux bénéfices était valable pendant 15 ans.
Source : ▻https://www.rts.ch/info/economie/14003628-des-centaines-de-millions-de-francs-de-bonus-caches-chez-credit-suisse.
#bonus #banques #finance #en_vedette #oligarchie #incompétence #prévarication #vol #détournement #credit_suisse #cadres #participation
]]>Silence dans les champs
Depuis les années 1960, le « système » agro-industriel fait naître des empires transnationaux et des #baronnies_rurales. Il crée des #usines et des #emplois. Il entraîne la disparition progressive des #paysans, l’#asservissement de nombreux salariés de l’#agroalimentaire, l’altération des écosystèmes et la généralisation de la nourriture en boîte. Il s’impose au nom de la realpolitik économique et de la foi dans une certaine idée du « #progrès ». Il prospère grâce à la bienveillance, l’impuissance ou la lâcheté des autorités. Il engendre ses propres mythes, capables de façonner durablement les mentalités. Il enrichit considérablement une minorité, alors que certains se contentent de survivre grâce aux subventions ou doivent s’estimer heureux parce qu’ils ont un travail. Il fait taire des récalcitrants à coups de menaces, de pressions, d’intimidations, de calomnies ou de sabotages. La #violence est son corollaire. Le #silence, son assurance-vie. Comment le définir ? « #Féodalité », répondent les uns. « #Esclavage_moderne », disent les autres. « #Oligarchie » ou « #mafia », jurent certains...
Enquête au long cours jalonnée de témoignages saisissants, Silence dans les champs est une immersion glaçante dans le principal territoire agro-industriel de France : la #Bretagne.
▻https://www.arthaud.fr/silence-dans-les-champs/9782080280886
#livre #agriculture #industrie_agro-alimentaire
PCF : lutte des places à gauche
▻https://journal.lutte-ouvriere.org/2023/04/12/pcf-lutte-des-places-gauche_609594.html
Le #PCF a tenu son 39e congrès du 7 au 10 avril à Marseille. #Fabien_Roussel, réélu à sa tête, s’est fait remarquer en déclarant que « la #Nupes est dépassée » et qu’il faut rassembler la gauche jusqu’à #Bernard_Cazeneuve, l’ex-Premier ministre de Hollande.
Il n’y a pas à s’étonner de la main tendue à un politicien qui a refusé l’alignement du PS derrière la Nupes initiée par #Mélenchon et qui se démarque du spectacle radical joué par les députés #LFI au Parlement.
D’un côté, même si ce n’est guère que par son nom, le #Parti_communiste_français reste associé à la #lutte_des_classes et à la contestation du capitalisme. Malgré ses déboires électoraux successifs et la perte des municipalités qu’il a dirigées pendant des décennies, il conserve un réseau militant dans certains quartiers populaires et parmi les travailleurs, un réseau que n’ont pas les autres partis de la gauche gouvernementale. Il continue d’attirer à lui des femmes et des hommes, y compris des jeunes, pour qui « la lutte des classes est toujours une réalité » , pour reprendre les termes d’un sondage qu’il a commandé.
Mais, de l’autre côté, la politique des dirigeants du PCF, depuis des décennies – en fait depuis les années 1930, où il a cessé d’être un parti révolutionnaire pour devenir un gardien de l’ordre social –, a toujours consisté à apporter leur soutien à un politicien bourgeois présentable en vue d’obtenir des ministères . Blum, De Gaulle, Mitterrand, Jospin : la liste est longue et le spectre politique très large. Quand le PCF avait une influence presque hégémonique dans la classe ouvrière, sa capacité à encadrer les travailleurs était le principal argument de ses dirigeants pour monnayer des postes de ministres. Leur participation au pouvoir s’est accompagnée de leur complicité dans les coups portés aux travailleurs, comme sous Mitterrand qui a mis en œuvre le blocage des salaires et laissé supprimer des centaines de milliers d’emplois, puis sous Jospin qui a privatisé en masse. Cette politique a fait chuter les voix du PCF, partir ses militants et baisser son influence, sans que ses dirigeants changent vraiment de politique.
Quand l’ex-sénateur Mélenchon a rompu avec le PS, les dirigeants du PCF, sous l’égide de #Pierre_Laurent, l’ont aidé à créer le #Front_de_gauche, lancé lors des élections européennes de 2009. En 2017 après la création de La France insoumise (LFI), ils ont mis le dévouement de leurs militants au service de sa campagne présidentielle. Mais, à trop suivre Mélenchon, le PCF risquait de disparaître. En 2020, pour conserver des municipalités, il avait besoin d’alliances avec le PS. En 2022, pour sauvegarder l’existence indépendante de son appareil, Fabien Roussel a choisi de se présenter à la présidentielle. Puis, pour faire réélire ses députés, il a pris part à la Nupes, l’alliance électorale proposée par LFI pour les élections législatives de juin 2022. Aujourd’hui, pour ne pas tout parier sur l’alliance avec LFI, Fabien Roussel tend la main aux dissidents du PS, hostiles à #Olivier_Faure et à la Nupes.
Sur le fond, tous ces politiciens sont bonnet blanc et blanc bonnet, selon une vieille formule du PCF. Sur le terrain du nationalisme ou du protectionnisme, les différences entre Roussel, Mélenchon ou Ruffin sont indiscernables . Sur le terrain de la sécurité, Roussel, qui est allé manifester derrière la police, aux côtés de Darmanin et Bardella en mai 2021, doit apprécier Cazeneuve, ancien ministre de l’Intérieur.
Depuis des années, la politique du PCF se résume ainsi à ses tentatives de sauvegarder ses positions électorales face aux pressions de ses alliés , tout en se présentant toujours comme candidat à être un parti de gouvernement. Cela signifie en tout cas être « toujours prêt » à faire passer sous la table les revendications des travailleurs, comme on l’a vu quand le PCF a eu des ministres sous Mitterrand comme sous Jospin.
Ce n’est pas au PCF, pas plus dans sa version Roussel que dans les précédentes, que les militants ouvriers et les jeunes, attirés par le langage « lutte de classe », la référence au communisme et l’envie de combattre le capitalisme, trouveront une réponse à leurs aspirations.
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