• Deux pirates informatiques russes proches du Kremlin mis en examen aux Etats-Unis
    https://www.lemonde.fr/pixels/article/2019/12/05/deux-pirates-informatiques-russes-proches-du-kremlin-mis-en-examen-aux-etats

    Ils sont accusés d’avoir infecté des centaines d’ordinateurs dans le monde, accumulant plus de 100 millions de dollars en une décennie. Ils ont été localisés en Russie. Ils ont infecté des centaines d’ordinateurs dans le monde, accumulant plus de 100 millions de dollars en une décennie : deux pirates informatiques russes, accusés d’être à la tête d’un groupe de hackers lié aux services de renseignements du Kremlin, ont été inculpés aux Etats-Unis. Maxime Iakoubets et Igor Tourachev, à la tête d’un groupe (...)

    #FSB #malware #hacking #phishing #OTAN #FBI

  • Thales, champion des retards ?
    https://blog.challenges.fr/supersonique/aeronautique/thales-champion-des-retards

    C’est un paragraphe discret, au beau milieu de l’avis du député Jean-Charles Larsonneur sur le projet de loi de finances 2020. Quelques lignes qui vont pourtant faire jaser dans le Landerneau militaire. Qu’y lit-on ? Une charge en règle, bienveillante mais ferme, contre les retards et difficultés techniques rencontrés par Thales sur plusieurs grands programmes destinés aux forces françaises. « Même avec Thales, champion national reconnu pour ses hautes performances technologiques, la DGA a eu à faire (...)

    #Thalès #OTAN #drone #aérien #militarisation #surveillance

  • Jusqu’à quand l’#OTAN ?, par Serge Halimi (Le Monde diplomatique, novembre 2019)
    https://www.monde-diplomatique.fr/2019/11/HALIMI/60956

    Dorénavant, l’Union compte une majorité d’États qui ont participé aux aventures impériales des #États-Unis (seize de ses membres actuels ont contribué à la guerre d’#Irak) ; elle relaie l’ingérence de Washington en Amérique latine (d’où la reconnaissance absurde de l’opposition vénézuélienne comme gouvernement légal) ; elle feint de s’opposer aux caprices de l’administration Trump, mais rentre dans le rang sitôt que celle-ci menace de la punir (#sanctions économiques contre les entreprises qui commercent avec l’Iran). L’#Europe pesait davantage au #Proche-Orient avant son élargissement. Et si Charles de Gaulle s’opposait à l’adhésion du #Royaume-Uni au Marché commun parce qu’il pensait que ce pays deviendrait le cheval de Troie américain sur le Vieux Continent, les États-Unis n’ont rien à craindre du Brexit. Car, au fil des décennies, l’#Union_européenne est devenue leur écurie.

    #UE

  • La #Turquie s’apprête à recevoir les missiles S-400 russes controversés
    https://www.lemonde.fr/international/article/2019/07/09/la-turquie-s-apprete-a-recevoir-les-s-400-russes-controverses_5487217_3210.h

    Pilier oriental de l’Alliance atlantique depuis 1952, la Turquie a jeté un froid chez ses alliés en signant, en septembre 2017, un contrat de 2,5 milliards de dollars (2,2 milliards d’euros) avec la #Russie pour la fourniture de missiles russes antiaériens S-400, incompatibles avec le système de défense de l’#OTAN. Le Pentagone craint notamment que les S-400, dotés d’un puissant radar, ne parviennent à déchiffrer les secrets technologiques de ses avions militaires dernier cri.

  • Via polare della Seta. Le mosse della Cina

    Il tunnel da record sotto il baltico, i giacimenti minerari in groenlandia e il controllo dello spazio aereo NATO. Le strategie per sfruttare i mari artici liberati dai ghiacci.

    Le prime prenotazioni on line, 50 euro l’una, sono state vendute subito dopo l’annuncio ufficiale: il più lungo #tunnel sottomarino del mondo (100 km) sarà scavato dal 2020 sul fondo del Mar Baltico, fra la capitale estone #Tallinn e quella finlandese, #Helsinki. Lo scaveranno e pagheranno quasi tutto i cinesi: quindici miliardi di euro, più 100 milioni offerti da un’impresa saudita. L’investimento a oltre 6.300 chilometri da Pechino non è lontano dalla loro «Via della Seta marittimo-terrestre», che dovrebbe collegare circa sessanta Paesi di tre Continenti. Uno dei suoi tratti vitali sarà la «Via polare della Seta», che sfrutterà i mari artici sempre più liberi dai ghiacci grazie al riscaldamento del clima.

    La Via polare della Seta

    Oggi, da Shanghai a Rotterdam attraverso la rotta tradizionale del canale di Suez, bisogna navigare per 48-50 giorni. Con la Via polare si scende a 33. Accorcerà di una settimana anche il passaggio che unisce Atlantico e Pacifico costeggiando Groenlandia, Canada e Alaska, rispetto alla rotta attraverso il canale di Panama. Navi cinesi hanno già collaudato entrambe le rotte. A fine maggio, il vice primo ministro russo Maxim Akimov ha annunciato che anche Mosca potrebbe unirsi al progetto di Pechino. La Cina è pronta a fare il suo gioco: da una parte marcare la sua presenza commerciale, politica e militare nel mondo, dall’altra sfruttare il sottosuolo dell’Artico. Parliamo del 20% di tutte le riserve del pianeta: fra cui petrolio, gas, uranio, oro, platino, zinco. Pechino ha già commissionato i rompighiaccio, fra cui — gara appena chiusa — uno atomico da 152 metri, costo previsto 140 milioni di euro, con 90 persone di equipaggio. Il più grande al mondo di questo tipo, e potrà spaccare uno strato di ghiaccio spesso un metro e mezzo. La Cina ha iniziato anche i test per l’«Aquila delle nevi», un aereo progettato per i voli polari, e sta studiando che cosa può combinare un sommergibile che emerga dai ghiacci. Un articoletto pubblicato dal Giornale cinese di ricerca navale, e subito monitorato dagli analisti militari occidentali, spiega: «Sebbene il ghiaccio spesso dell’Artico provveda a una protezione naturale per i sottomarini, tuttavia costituisce anche un rischio per loro durante il processo di emersione». Segue uno studio dettagliato sulle manovre da eseguire . Tutte le superpotenze compiono queste ricerche. Però la Cina non è uno Stato artico come la Russia o gli Usa, ma nel 2018 si è autodefinita uno «Stato quasi-artico». Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha risposto qualche settimana fa: «Ci sono solo Stati artici e non artici. Una terza categoria non esiste».

    Le attività cinesi in Groenlandia

    Pechino tira dritto, sopratutto in Groenlandia, portaerei naturale di fronte agli Usa e al Canada, dove il riscaldamento del clima sta sciogliendo 280 miliardi di tonnellate di ghiaccio all’anno. Un dramma mondiale che però agevola l’estrazione di ciò che sta sotto. Perciò ha acquistato o gestisce con le sue compagnie di Stato i quattro più importanti giacimenti minerari. All’estremo Nord, nel fiordo di Cjtronen, c’è quello di zinco, gestito al 70% dalla cinese NFC, considerato il più ricco della terra. È strategico perché si trova di fronte all’ipotetica «Via polare della Seta», quella del passaggio verso Canada e Usa; e perché potrebbe placare la domanda di zinco della Cina, salita del 122% dal 2005 al 2015. Poi c’è il giacimento di rame di Carlsberg, proprietà della Jangxi Copper, colosso di Stato considerato il massimo produttore cinese di rame nel mondo. Il suo ex-presidente è stato appena condannato a 18 anni per corruzione.

    La Cina controlla le «terre rare»

    Poi ancora la miniera di ferro di Isua (della «General Nice» di Hong Kong); e infine Kvanefjeld, nell’estremo Sud: una riserva mai sfruttata di uranio e «terre rare», i metalli usati per la costruzione di missili, smartphone, batterie, hard-disk. Kvanefjeld , che è accessibile solo via mare, è proprietà della compagnia australiana Greenland Minerals Energy e al 12,5% della compagnia di Stato cinese Shenghe Resources, considerata la maggiore fornitrice di «terre rare» sui mercati internazionali. Con un investimento da 1,3 miliardi di dollari il giacimento potrà fornire una delle più alte produzioni al mondo di «terre rare». La quota azionaria della Shenghe è limitata, ma il suo ruolo nel progetto no, perché il prodotto estratto da Kvanefjeld sarà un concentrato di «terre rare» e uranio, i cui elementi dovranno essere processati e separati, e questo accadrà soprattutto a Xinfeng, in Cina, dove gli stabilimenti sono già in costruzione. Nel progetto anche un nuovo porto, nella baia accanto al giacimento. La Cina possiede già oltre il 90% di tutte le «terre rare» del mondo, dunque ne controlla i prezzi. Con quel che arriverà da Kvanefjeld, chiuderà quasi il cerchio. Nei lavori del porto, è coinvolto anche il colosso di Stato cinese CCCC, già messo sulla lista nera della Banca Mondiale per una presunta frode nelle Filippine. I dirigenti della Shenghe nel gennaio di quest’anno hanno formato una joint-venture con compagnie sussidiarie della China National Nuclear Corporation.

    Aereoporti: la CCCC non lascia

    La sigla del colosso edilizio CCCC è riemersa nella gara d’appalto lanciata dal governo groenlandese per l’allargamento e la costruzione di tre nuovi aeroporti intercontinentali — a Nuuk, Ilulissat e Qaqortoq — che dovrebbero assicurare all’isola collegamenti diretti con gli Usa e l’Europa. Nel 2018, sei imprese sono state ammesse: l’unica non europea era la CCCC. Ma la sua offerta ha preoccupato gli Usa (nell’isola c’è la base americana di Thule, che può intercettare i missili in arrivo su Washington) e la Danimarca (che ha un diritto di veto sulle questioni che toccano la sicurezza). Così i danesi hanno lanciato all’ultimo momento un’offerta d’oro rilevando un terzo della compagnia groenlandese che appaltava la gara, e la CCCC è stata esclusa. Ma lo scorso 5 aprile è stata annunciata una nuova gara per il «completamento» delle piste e dei terminal a Nuuk e Ilulissat: altro affare milionario, e i cinesi hanno tentato di rientrare grazie a joint-venture formate con imprese olandesi, canadesi e danesi. I lavori inizieranno a settembre.

    Le operazioni di controllo in Islanda

    Pechino ha messo a segno un altro successo nordico, questa volta a Karholl in Islanda: l’osservatorio meteo-astronomico battezzato «CIAO» («China-Iceland Joint Arctic Science Observatory»), tutto finanziato dai cinesi. Tre piani, 760 metri quadrati, controlla i cambiamenti climatici, le aurore boreali, i percorsi dei satelliti. E lo spazio aereo della Nato. Il vice responsabile dell’osservatorio è Halldor Johannson, che in Islanda è anche portavoce di Huang Nubo, il miliardario imprenditore ed ex dirigente del Partito comunista cinese che nel 2012 tentò di comprare per circa sette milioni di euro 300 chilometri di foreste islandesi, dichiarando di volerne fare un parco naturale e turistico. Anche su quelle foreste passavano e passano le rotte della Nato.

    https://www.corriere.it/digital-edition/CORRIEREFC_NAZIONALE_WEB/2019/06/24/12/pvia-polare-span-classrossodella-seta-span-classsezionele-mosse-della-cinas
    #arctique #Chine #Chinarctique #Groenland #espace_aérien #OTAN #mines #extractivisme #Baltique #route_de_la_soie #route_polaire #Estonie #Finlande

    ping @reka @simplicissimus

  • Déchets brûlés à ciel ouvert : des risques d’intoxication pour les militaires belges au Mali Patrick Michalle - 22 Juin 2019 - RTBF
    https://www.rtbf.be/info/societe/detail_dechets-brules-a-ciel-ouvert-des-risques-d-intoxication-pour-les-militai

    Des militaires rentrés de mission au Mali affirment avoir été intoxiqués par les fumées de deux décharges brûlant à ciel ouvert. Le camp « Bifrost » situé à Bamako se trouve à 300 mètres de deux décharges. C’est là que se retrouvent les détritus émanant de la population locale. Mais on y trouve aussi des batteries...

    Depuis avril, le syndicat ACMP-CGPM (centrale générale du personnel militaire) rassemble les témoignages de militaires qui ont des soucis de santé après avoir servi à l’étranger. La plupart de ces témoignages concerne l’Afghanistan entre 2008 et 2012, ou près de 2000 soldats belges ont été exposés aux fumées nocives des « burn-pits », ces zones de combustion à ciel ouvert. 

    Pour Philippe Sion, le permanent syndical qui gère ces données, l’Etat-major n’a jusqu’ici pas pris la mesure du risque sanitaire pour les militaires : « Il y a différents symptômes qui ressortent de notre enquête, des problèmes respiratoires, pulmonaires et aussi certaines allergies, on retrouve des similitudes entre des personnes qui étaient en Afghanistan ou à Bamako et qui ont été exposées à des fumées nocives ».

    A trois reprises des sonnettes d’alarme ont pourtant été tirées affirme Philippe Sion : "Une première fois par le commandant de détachement qui a constaté la pollution, ensuite c’est le conseiller en prévention sur place, il a aussi pu constater cette grave anomalie. Ensuite un médecin sur place a employé des termes très forts disant ’l’air nous empoisonne jour et nuit’, donc le signal était grave et le problème est remonté jusqu’à l’Etat-major "

    Pour faire face à la situation, les seules recommandations adressées par leurs chefs aux militaires ont été de ne plus faire de sport, de limiter les efforts, et dans les moments critiques, c’est-à-dire quand les fumées étaient dans la direction du camp, de porter un masque blanc semblable à celui qu’on peut acheter pour le bricolage en grande surface…

    Pour Philippe Sion, ces recommandations n’étaient pas à la hauteur de la situation et inadaptées à la mission sur place : « Dans des températures variant entre 30 et 40 degrés où il faut accomplir des missions de patrouilles ou de formations militaires et ou il faut accomplir des efforts physiques, comment voulez-vous que des militaires travaillent en toute sécurité… ? Les règles en matière de bien-être au travail, c’est d’abord d’éliminer la source à l’origine du problème. Or ici rien n’a été entrepris. On a proposé des moyens de protection plutôt que de discuter avec les responsables locaux... ». 

    L’enquête lancée par le syndicat se poursuit, de nouveaux témoignages arrivent. En avril dernier, 160 militaires belges se trouvaient toujours au Mali dans le camp « Bifrost ». Une concertation est prévue jeudi avec les syndicats. 

    #pollution #militaires #armée #otan en emporte la #fumée des #déchets durant les #guerres_coloniales

  • U.S. military stops tracking key metric on Afghan war as situation deteriorates - Reuters
    https://www.reuters.com/article/us-usa-afghanistan-military-idUSKCN1S734C

    Les #États-Unis ont cessé de mesurer le degré de contrôle du territoire du pays par le gouvernement de Kaboul soutenu par l’Occident.
    https://news-24.fr/les-etats-unis-etablissent-des-indicateurs-cles-pour-la-surveillance-des-gou
    https://news-24.fr/wp-content/uploads/2019/05/5cc96e37fc7e9367598b45c6.JPG

    La Mission de soutien à l’#OTAN Resolute, dirigée par les États-Unis, a cessé de mesurer le degré de contrôle du territoire du pays par le gouvernement de Kaboul soutenu par l’Occident, a écrit John Sopko, Inspecteur général pour la reconstruction en #Afghanistan (SIGAR) un rapport trimestriel.

    [...]

    Sopko, dont le rôle est de surveiller la manière dont les États-Unis dépensent de l’argent pour leur présence militaire en Afghanistan, a déclaré à Reuters que cette décision du commandement était un autre coup porté à la transparence déjà amoindrie de la politique de Washington dans le pays.

    #leadership

    • Experts said that the move to stop tracking the key data was worrying because Washington had publicly set a benchmark which would now be difficult to measure.

      In November 2017, the top U.S. general in Afghanistan at the time set a goal of driving back Taliban insurgents enough for the government to control at least 80 percent of the country within two years.

      “If the military is not going to be tracking that data anymore, that is going to make it a lot more difficult to get a sense as to how strong the Taliban is,” Michael Kugelman, with the Woodrow Wilson Center, said.

      “That may well be the military’s intention,” he said.

  • L’#Otan « ne veut pas d’une nouvelle Guerre froide » | Euronews
    https://fr.euronews.com/2019/04/04/l-otan-ne-veut-pas-d-une-nouvelle-guerre-froide

    L’ex-Premier ministre norvégien s’est attiré plusieurs standing ovations des parlementaires républicains et démocrates, en rappelant notamment la « promesse solennelle » faite par les fondateurs de l’Alliance : « un pour tous, tous pour un », un principe gravé dans le marbre de son traité (...)

  • NATO Is Not Dying. It’s a Zombie. | The National Interest
    https://nationalinterest.org/feature/nato-not-dying-it%E2%80%99s-zombie-49747

    Walter Russell Mead checked the pulse of the Atlantic Alliance in a recent op-ed [https://www.wsj.com/articles/nato-is-dying-but-dont-blame-trump-11553555665] and concluded that NATO is dying. But Mead is wrong. NATO is simply a zombie periodically reanimated through various methods, usually voodoo magic.

    #OTAN

  • #muos : les antennes qui tuent
    http://www.radiopanik.org/emissions/panik-sur-la-ville/muos

    Dans le sud-est de la #sicile, des hommes et des femmes courageu.x.ses résistent depuis des années contre le Mobile User Objective System, c’est-à-dire un système complexe qui permet les communications secrètes de la Marine des Etats-Unis.

    Nous en discuterons avec le mouvement NO MUOS et avec Agir pour la Paix.

    #otan #otan,muos,sicile
    http://www.radiopanik.org/media/sounds/panik-sur-la-ville/muos_06460__1.mp3

  • Record sans précédent du nombre de #civils tués en #Afghanistan en 2018
    https://www.france24.com/fr/20190224-afghanistan-onu-record-victimes-civiles-2018-taliban

    « C’est la première fois que les opérations aériennes se traduisent par la mort de plus de 500 civils », note le rapport, attribuant 393 décès à la coalition internationale de l’#Otan et 118 à l’armée de l’air afghane.

    Pour la seule année 2018, « à peu près le même nombre de civils sont morts des suites de bombardements que les années 2014, 2015 et 2016 combinées », note l’#ONU.

    L’aviation américaine, qui soutient l’armée de l’air afghane, a considérablement intensifié ses frappes aériennes en 2018. Selon le Centre de commandement de l’US Air force, 7 362 missiles et drones ont visé les positions ennemies, soit près du double de l’année précédente, déjà record.

    UN : American airstrikes contribute to record number of children, civilians killed in Afghanistan - News - Stripes
    https://www.stripes.com/news/un-american-airstrikes-contribute-to-record-number-of-children-civilians-ki

    [...] pro-government forces — which include the U.S. military — were shown to have killed more Afghan children last year than their adversaries, which UNAMA said was largely due to U.S. airstrikes.

    #victimes_civiles #enfants #crimes #états-unis

  • 06.03.2019: Geschichte einer Aggression (Tageszeitung junge Welt)
    https://www.jungewelt.de/artikel/350415.von-bismarck-bis-westerwelle-geschichte-einer-aggression.html

    Im Jahre 1878 reklamierte Reichskanzler Otto von Bismarck im Kontext des Berliner Kongresses zur Balkanfrage für sich den Ruf des »ehrlichen Maklers«, da er für Deutschland auf dem Balkan keine Interessen sehe, »welche auch nur die gesunden Knochen eines einzigen pommerschen Musketiers wert« seien. 36 Jahre später stand »Serbien muss sterbien« als Losung auf der Berliner Tagesordnung. Anlass war die Tötung des österreichischen Thronfolgers Franz Ferdinand 1914 in Sarajevo durch eine Gruppe junger Serben, die mit dem Attentat den kolonialistischen Anspruch Österreich-Ungarns auf Teile des Siedlungsgebietes der Südslawen zurückweisen wollten. Eigentlicher Hintergrund war aber, dass Serbien aufgrund seiner Intention, die südslawischen Siedlungsgebiete zu einem gemeinsamen souveränen Staat zusammenzuführen, zu einer ernsthaften Gefahr deutscher und österreichischer Imperialpolitik in Südosteuropa wurde. Dies sollte verhindert werden.

    So begann der Erste Weltkrieg als Einhegungskrieg der Donaumonarchie und Deutschlands gegen das allzu selbstständige Serbien, das allerdings als Sieger aus dem Krieg hervorging und einen südslawischen Staat (»Königreich der Serben, Kroaten und Slowenen«, später Königreich Jugoslawien) konstituieren konnte. Deutschland hingegen musste seinen imperialistischen Anspruch zunächst aufgeben.

    Auch im Zweiten Weltkrieg blieb Großdeutschland seiner imperialistischen Politik gegenüber dem Balkan treu: Es zerschlug den jugoslawischen Staat und konnte dabei auf die Unterstützung regionaler Nationalisten setzen. Insbesondere slowenische (Domobrancen), kroatische (Ustascha) und bosnisch-muslimische (13. Waffen-Gebirgs-Division der SS »Handschar«) Provinznationalisten sowie die albanische Minderheit bewiesen dabei große Kollaborationsfreude. Das Vorhaben Hitlerdeutschlands, Jugoslawien endgültig zu zerstören, scheiterte aber. Titos Partisanen befreiten nahezu selbstständig ihr Land, Jugoslawien wurde ein sozialistisch-föderativer Staat und genoss als blockfreies Land weltweit hohes Ansehen. Deutschland hingegen musste eine Zwangspause als imperialistische Macht einlegen.

    Die Veränderungen in Osteuropa in den Jahren 1989–91 berührten auch Jugoslawien. Während die BRD im Zuge des Anschlusses der DDR ihre volle Souveränität wiedererlangte, gewannen in Jugoslawien die Provinznationalisten zunehmend die Oberhand – mit Unterstützung der wiedererwachenden Hegemonialmacht Deutschland. Bonn setzte sich unter missbräuchlicher Verwendung des Selbstbestimmungsrechts an die Spitze der internationalen Sezessionsbefürworter.

    Die Normenhierarchie staatlicher Souveränität und territorialer Integrität wurde zugunsten eines reaktionär-sezessionistischen Selbstbestimmungsrechtsverständnisses verkehrt. Dieses hat aber nichts mit dem emanzipatorisch-antikolonialen Selbstbestimmungsrecht der UN-Charta zu tun. Während die UN-Charta das Selbstbestimmungsrecht als Grundlage staatlicher Souveränität, nämlich frei von äußerer Intervention, betrachtet, stellt die deutsche Interpretation einen Gegensatz zwischen staatlicher Souveränität und Selbstbestimmungsrecht dar, also ein primitives Sezessionsrecht.

    Deutschlands interventionistischer Vorstoß war damit die erste und gleichzeitig erfolgreiche außenpolitische Machtprobe. Dabei verwendete die neue deutsche Außenpolitik nicht einmal diplomatische Floskeln, um ihren imperialistischen Anspruch gegenüber Serbien zu formulieren. »Serbien muss in die Knie gezwungen werden«, polterte 1992 der damalige Bundesaußenminister Klaus Kinkel.

    Der Besuch von Außenminister Guido Westerwelle in Belgrad 2010 verdeutlichte nicht weniger, wer Herr und wer Knecht ist. In kolonialer Selbstgefälligkeit erklärte er: »Die Unabhängigkeit des Kosovo ist Realität.« Terroristen der »Kosovo-Befreiungsarmee« (UCK) war es mit militärischer Unterstützung der NATO gelungen, einen Teil serbischen Staatsgebietes gewaltsam herauszubrechen und weltweit den ersten Mafiastaat zu gründen.

    Als es Ende Juli/Anfang August 2010 an der »Verwaltungsgrenze« zwischen Zentralserbien und seiner Provinz Kosovo zum Widerstand aufgebrachter Serben kam, warnte Westerwelle Belgrad: »Hier geht es um den Frieden in Europa.« Zynisch ergänzte er: Die Zeit gewaltsamer Auseinandersetzungen, die Zeit von Kriegen und Konflikten entlang ethnischer Linien in Europa, müsse zu Ende sein. »Wir sind der Überzeugung, dass die Landkarte in dieser Region gezeichnet ist.«

    Nachdem Deutschland die Landkarte des Balkans nach eigenen Vorstellungen und in Absprache mit den USA verändert hatte, soll nun Ruhe herrschen, d. h. die Ergebnisse westlicher und regional-sezessionistischer Gewaltpolitik sollen akzeptiert werden. Wenn Serbien dies nicht will, bleibt es der Brandstifter auf dem Balkan. Als Belgrad und Pristina 2018 den Gedanken eines Gebietsaustauschs zwecks Befriedung des Konflikts ins Spiel brachten, senkte Berlin seinen Daumen.

    Für dieses das Völkerrecht negierende und selbstherrliche »ordnungspolitische Verständnis« steht die neue Wortkreation »regelbasierte internationale Ordnung«, die die Charta der Vereinten Nationen stillschweigend ersetzen soll. Gemeint ist damit die vom Westen gestaltete imperiale Ordnung.

    Deutschlands antiserbische und antijugoslawische Politik stellt eine Konstante deutscher Außenpolitik dar. Seit der Zerschlagung Jugoslawiens bestimmen Deutschland, Österreich und die USA das Schicksal der postjugoslawischen Staaten. Anstelle ihrer erhofften Unabhängigkeit steht eine nur formale Souveränität.

    Alexander S. Neu ist Obmann der Linksfraktion im Verteidigungsausschuss des Bundestages und war im Jahr 2000 als Mitarbeiter der OSZE im Kosovo.

    Uminterpretation der Ereignisse von 1999 auf internationalem Parkett

    Im Jahr 2008 proklamierten die Albaner der serbischen Provinz Kosovo die Unabhängigkeit von Serbien. Belgrad sieht sich außer Stande, diesem illegalen Schritt durch Ausübung seiner Hoheitsgewalt zwecks Verteidigung seiner territorialen Integrität und Souveränität entgegenzutreten, da die US-geführte NATO seit 1999 auf diesem Gebiet Serbiens präsent ist und die Unabhängigkeit des Kosovo de facto militärisch absichert. Zwar verfügt die NATO über ein Mandat des UN-Sicherheitsrates in Form der Resolution 1244 zur Stabilisierung der Sicherheitslage – jedoch nicht zur militärischen Absicherung einer illegalen Sezession.

    Die Sicherheitsratsresolution 1244 diente dazu, den völkerrechtswidrigen Angriffskrieg der NATO gegen die damalige Bundesrepublik Jugoslawien zu beenden. Hierzu wurde die NATO nach Beendigung ihres Luftkrieges zynischerweise durch den Sicherheitsrat vom Aggressor zur offiziellen und »unparteiischen Friedenskraft« KFOR in diesem Teil Serbiens geadelt, woraus die NATO wiederum eine Scheinlegalität für ihre vorangegangene Aggression ableitete.

    Die Alternative zu der Resolution, die ein UNO-­NATO-Protektorat etablierte, wäre indes ein reines NATO-Protektorat gewesen, so die damalige Befürchtung. Genau diese Entwicklung aber wollten Russland, China und Serbien verhindern, indem sie die UNO in der Rolle als internationalen Verantwortungsträger zur Lösung des Konflikts sehen wollten, um so eine von der NATO forcierte Sezession auszuschließen.

    Der deutsche KFOR-Anteil gehörte mit bis zu 6.400 Soldatinnen und Soldaten zu den größten Truppenstellern. Deutschland kontrollierte militärisch bis Ende 2018 den Südwesten des Kosovo. Dieses Kontingent ist nun aufgelöst. Die Bundeswehr ist noch mit etwa 70 Soldatinnen und Soldaten in Pristina präsent. (asn)

    #Allemagne #Yougoslavie #Serbie #Autriche #OTAN #guerre #histoire

  • A Munich, le fossé se creuse entre #Etats-Unis et #Europe
    https://www.lemonde.fr/international/article/2019/02/18/a-munich-le-fosse-se-creuse-entre-etats-unis-et-europe_5424724_3210.html

    A Varsovie, où les Etats-Unis avaient convoqué une réunion internationale, les 13 et 14 février, pour tenter de monter un front contre Téhéran, le vice-président américain, Mike Pence, a appelé les Européens à se retirer eux aussi du JCPOA, alors même que plusieurs pays de l’Union européenne, dont la France et l’Allemagne, avaient ostensiblement refusé d’envoyer leur ministre des affaires étrangères à cette réunion.

    M. Pence a ensuite fait le voyage à Munich, où, devant un parterre de hauts responsables européens, il a réitéré cette exigence, accompagnée de la demande aux trois grands pays membres de l’UE (Allemagne, France et Royaume-Uni) de « cesser d’affaiblir les sanctions américaines contre l’Iran » – allusion au mécanisme Instex récemment mis en place, devant permettre à certaines entreprises européennes de commercer avec l’Iran, en dépit des sanctions américaines qui paralysent les réseaux bancaires.

    Le discours moralisateur de M. Pence à Munich, samedi 16 février, mêlant admonestations et reproches, sans même s’encombrer des habituelles fioritures sur la solidité des engagements des Etats-Unis à l’égard de leurs alliés ou au sein de l’#OTAN, a reçu un accueil glacial.

    Le vice-président [...] a également mis en garde les Européens contre la société chinoise Huawei et les achats de gaz russe. « Sous Donald Trump, a-t-il conclu, les Etats-Unis sont de nouveau le leader du #monde_libre. »

    #sans_vergogne

  • Belgique 85 hélicoptères de l’armée américaine en transit par la base de Chièvres Belga - 2 Février 2019 - RTBF
    https://www.rtbf.be/info/regions/detail_85-helicopteres-de-l-armee-americaine-en-transit-par-la-base-de-chievres

    Quatre-vingt-cinq hélicoptères de l’armée de terre américaine vont transiter au cours des prochains jours par la base aérienne de Chièvres (entre Ath et Mons), avant d’aller renforcer le flanc oriental de l’Otan, ont indiqué vendredi plusieurs officiers.

    Ces hélicoptères de différents types – des AH-64E Apache d’attaque et des CH-47F Chinook, UH-60L et M Blackhawk de transport – appartiennent à la « 1 st Combat Aviation Brigade, 1 st Infantry Division » basée à Fort Riley, au Kansas.

    Ils sont arrivés par bateau à Zeebrugge le 29 janvier, où ils ont été rassemblés. Mais seuls six – deux Chinook, trois Blackhawk et un Apache – étaient arrivés vendredi à Chièvres. Ils doivent s’y rassembler avant de quitter la Belgique à destination de l’#Allemagne, la #Lettonie, la #Pologne et la #Roumanie pour un déploiement de neuf mois en Europe dans le cadre de l’opération américaine « #Atlantic_Resolve » (#AOR), visant à renforcer le flanc est de l’Otan face à une Russie considérée comme plus agressive.

    La météo hivernale a ralenti les transferts entre Zeebrugge et Chièvres, mais les militaires américains se refusent à parler de retard.

    « Nous avons pris nos précautions et tous les hélicoptères devraient avoir quitté Chièvres d’ici mercredi » prochain, a indiqué vendredi le colonel John Tiedeman, le commandant de l’une des unités transitant par la Belgique, à quelques journalistes.

    #OTAN #NATO

  • Bayern : « Heimatkapitalismus » | Telepolis
    https://www.heise.de/tp/features/Bayern-Heimatkapitalismus-4242647.html


    Panzerkampfwagen V Panther, der von MAN in Nürnberg entwickelt wurde. Bild : Stahlkocher/CC BY-SA-2.0

    A propos de la transformation de la pauvre #Bavière d’après-guerre en centre de l’industrie allemande y compris d’armement.

    En bref : c’est la guerre de Corée qui est à l’origine de la montée de la bavière dont l’industrie est largement restée intacte pendant la guerre et qui constitue la partie principale de l’Allemagne occupée par les troupes des #USA . C’est ici où des anciens #espions #nazis développent les nouveaux services secretes allemands sous contrôle de spécialistes américains. L’article nous fait découvrir les origines de l’alliance transatlantique dont le soutien demeure le gage et la conditio sine qua non pour avoir accès auc cercles de pouvoir allemands. On y apprend des choses remarquables sur le système de la repartition du pouvoir politique entre le parti chrétien régional CSU et les social-démocrates SPD. Ce décryptage permet de comprendre la persistence des structures de pouvoir et quelques raisons de la décomposition des structures politiques à laquelle on assiste actuellement.

    A lire, malheureusement l’article n’est disponible qu’ #auf_deutsch

    09. Dezember 2018 - Albrecht Goeschel und Markus Steinmetz

    Wie man am eigenen Erfolg scheitert (I)

    Die Große Koalition Bayern, der Sozialpakt zwischen christlichsozialer Landperipherie einerseits und sozialdemokratischen Großstadtzentren andererseits und auch zwischen einer autoritären Dauerregierung und einer vormals liberalen Medien- und Diskurskultur in Bayern ist in der Landtagswahlnacht vom 14. Oktober 2018 mit einem lauten Knall geplatzt.

    Die Christlich-Soziale Union hat in Gestalt der Freien Wähler die Quittung dafür bekommen, dass sie spätestens mit der Edmund-Stoiber-Politik den ländlichen Raum und seine Leute abgehängt hat. Die Sozialdemokratische Partei hat in Gestalt der Grünen gerade in München nicht nur eine Quittung, sondern die Kündigung dafür bekommen, dass sie schon mit ihrer Hans-Jochen-Vogel-Politik von einer Arbeiterpartei zu einer Möchtegern-Akademikerpartei geworden ist.

    Diese Wählermilieu-Analyse konnte man in unterschiedlicher Differenzierung und Qualität in den Tagen nach der Landtagswahl in den Medien verfolgen. Eine interessantere, fundamentalere Diagnose dafür, dass und warum es mit der absoluten Parlamentsmehrheit der bisherigen Regierungspartei aus ist, hat die Süddeutsche Zeitung zwei Tage vor der Wahl unter der Überschrift „Wer san mia?“ versucht.

    Richtig verweist sie darauf, dass sich die „traditionellen Milieus“ auflösen oder wandeln. Ein Hauptfaktor dafür sei die ausgeprägte Zuwanderung nach Bayern und der diese antreibende wirtschaftliche Erfolg Bayerns. Passend zur immer penetranteren neoliberalen Redaktionslinie der Süddeutschen Zeitung bleibt aber das ungeschrieben, was der informierte und kritische Leser gerne näher erläutert gehabt hätte: Warum das Kapitalismus-Erfolgsmodell Bayern über die Jahrzehnte hinweg eine zunehmende Delegitimierung in den Wahlergebnissen erlebt hat - zuletzt angetrieben durch die peinliche Amtskruzifixshow, die Heimatvortäuschung und den künstlichen Theaterdonner in Sachen Migration der letzten Monate.

    Immerhin deutet die „SZ“ aber mit dem Finger in die richtige Richtung: „Die CSU stand jahrzehntelang für den Fortschritt des Landes ebenso wie für die Wahrung der Tradition. Jetzt könnte sie zum Opfer ihres eigenen Erfolges werden.“

    Vor einem Jahrzehnt hat Albrecht Goeschel schon einmal diese Frage gestellt: "Bayern - Ein deutsches Erfolgsmodell am Ende?"1 In seiner damaligen Analyse hat er einige weniger angenehme Antworten gegeben, die sich jetzt freilich als richtig herausgestellt haben. So ist genau die Zweiteilung Bayerns in den Exportgewinner und Wachstumsschwerpunkt München und München-Umland einerseits und den Wachstumsverlierer Bayerische Nordostzone andererseits die Voraussetzung für Prosperität nach dem klassischen kapitalistischen „Zentren-Peripherie Modell“. Diese Zweiteilung ist aber auch die Ursache für die „Revanche der Peripherie“ dieser Landtagswahl. Eine Revanche, wie sie Bayern exemplarisch für andere Territorien in Europa und darüber hinaus erlebt hat.

    Wenn aber aus dem Platzen der alten Milieukoalitionen in Bayern etwas anderes entstehen soll als eine Fortsetzung des Gehabten in neuer Kostümierung, dann muss zunächst einmal gründlich analysiert werden, was es mit dem „Erfolgsmodell Bayern“ und seinem Auslaufen eigentlich auf sich gehabt hat.
    1. Bayern: Kriegsgewinnlerökonomie

    Der in den 1960er Jahren mit vorzüglichen Realanalysen des westdeutschen Wirtschaftslebens bekannt gewordene Fachautor Kurt Pritzkoleit hat einen der wichtigsten Gründe für den kontinuierlichen Wachstums-, sprich: Mehrwert- und Profitproduktionsprozess Bayerns treffend analysiert: Bayern habe als einziges Besatzungsgebiet der Westalliierten bis auf seine pfälzische Exklave die Kapitulation der Deutschen Wehrmacht und die Zerschlagung des Dritten Reiches territorial unbeschädigt überstanden.2 Ergänzend stellt Werner Abelshauser in seiner exzellenten "Deutschen Wirtschaftsgeschichte"3 auch noch dar, dass Bayern das „Glück“ hatte, das Hauptgebiet der US-Besatzungszone zu sein.

    Auch dort habe der angloamerikanische Luftkriegsterror zwar Lebensräume der Zivilbevölkerung brutal zerstört, aber mitnichten das süddeutsche Industriepotenzial nennenswert dezimiert. Selbst Rüstungszentren wie Schweinfurt seien trotz massivster Luftangriffe kaum beeinträchtigt worden. Insgesamt habe die Industrie in den Westzonen bei Kriegsende über ein Anlagekapital verfügt, das um 20 Prozent höher gelegen habe als vor dem Krieg. Dieses Potenzialwachstum galt insbesondere auch für Bayern. Der „NS-Rüstungs-Keynesianismus“ (Werner Abelshauser) trieb die Umwandlung Bayerns aus einem Agrarland in ein Industrieland massiv voran.

    Dies verwundert nicht, da sich die im Vorfeld und im Verlauf des Krieges ernorm gesteigerte Herstellung beispielsweise von Panzerfahrzeugen gerade auch in bayerischen Produktionsstätten vollzog: (Kraus-Maffei, MAN, Nibelungenwerke Passau etc.).4

    Gleiches galt für den Bau von Jagd-, Bomben- und Transportflugzeugen. Hier spielten BMW, Dornier und Messerschmitt mit ihren bayerischen Betrieben eine zentrale Rolle.

    Neben der enormen Steigerung des Produktionspotenzials in Bayern selbst kam es nach dem Ende der Kriegshandlungen und im Zusammenhang der Aufteilung des Reichsgebietes in Besatzungszonen außerdem zu einem massiven Zustrom von Fluchtkapital aus den kurzzeitig angloamerikanisch besetzten Regionen Mittel- und Ostdeutschlands. Mit der Räumung dieser Gebiete durch die Westalliierten verlagerten zahlreiche Industrieunternehmen, u.a. Siemens & Halske (Gera-Erfurt), ihre Produktionsanlagen und Verwaltungen nach Bayern.

    Außer dieser Anlagekapitalflucht nach Bayern bedeuteten die bis 1950 nach Bayern strömenden etwa 1,9 Millionen Flüchtlinge und Vertriebenen eine enorme Steigerung des Wirtschaftspotenzials Bayerns. Auch in offiziösen Darstellungen wird hervorgehoben, dass die im Zuge von Flucht und Vertreibung zuströmende Erwerbsbevölkerung teilweise deutlich besser qualifiziert war als die schon Ansässigen.5

    Für die gerne so genannte „Bayerische Wirtschaft“, d.h. für das Industriekapital mit Standort in Bayern, ergaben sich aus diesem kriegswirtschaftlichen Zusammenfluss von zusätzlichen Arbeitskräfteressourcen und zusätzlichem Anlagenkapital besonders günstige Möglichkeiten für die Produktion von Mehrwert und Profit.

    Insgesamt hatte Bayern im Laufe des Jahres 1946 bereits wieder 50 Prozent seiner Vorkriegsproduktion erreicht. Der bayerische „Heimatkapitalismus“ wurde nicht zuletzt dadurch gefördert, dass sich in Erlangen-Nürnberg eine spezifische Variante Nationalsozialistischer Wirtschaftsphilosophie etabliert hatte: die so genannte „Marktforschungsschule“ des späteren Protagonisten der „Sozialen Marktwirtschaft“ Ludwig Erhard. Er lieferte die passende Wirtschaftsideologie für den bayerischen Heimatkapitalismus und wurde bayerischer Wirtschaftsminister in dem vom US-Besatzungsregime installierten Kabinett Wilhelm Hoegner.

    Soweit es dann um die Ausgestaltung dieser „Sozialen Marktwirtschaft“, insbesondere die entscheidende Frage der Organisationsprinzipien einer Fortsetzung des traditionellen „Sozialversicherungsstaates“ ging, war es die bayerische SPD, die sich einer modernen Gesamtversicherung in den Weg stellte - zusammen mit den Angestelltenverbänden, der Unternehmerseite, dem Mittelstand und der Bauernschaft.6

    Vorteilhaft für das Wachstum der Wirtschaft in Bayern war auch dessen nach Kriegsende immer noch großer Landwirtschaftssektor. Durch den Wegfall der Agrargebiete im vormaligen Ostteil Deutschlands, die bis dahin als Agrarlieferanten des Reiches fungiert hatten und bei der gleichzeitigen flüchtlingsbedingten starken Bevölkerungszunahme in den Westgebieten, kam es dort in den ersten Nachkriegsjahren zu einer schweren Unterernährungskrise. Diese führte in einigen Ländern zu erheblichen Verlusten an Arbeits- und damit Produktionsvolumen.7 Der starke Landwirtschaftssektor dämpfte diese Negativeffekte in Bayern.

    Zuletzt zeigte die amerikanische Militärregierung kein besonderes Interesse an der direkten Demontage von Industrie- und Infrastrukturanlagen. Die viel nachhaltigere und langfristig wirksamere umfassende Enteignung von technologischem Expertenwissen, Betriebsgeheimnissen, Patenten etc. der Industrie durch die USA schlug sich weniger in aktuellen Produktionsausfällen als in einer Schwächung der prospektiven Konkurrenzfähigkeit der Industriewirtschaft Bayerns nieder.8

    Der eigentliche Wachstumsschub setzte in Bayern ein, als das während der Kriegswirtschaft im Rheinland und Ruhrgebiet akkumulierte Industriekapital nach Anlagemöglichkeiten, Arbeitskräften und Industrieflächen im westlich-kapitalistischen Teil Deutschlands suchte. Bayern wurde, auch weil es schon während des Krieges eine Art Schonraum gegenüber dem angloamerikanischen Bombenterror war, zu einem Vorranggebiet für das Überschusskapital aus dem rheinisch-westfälischen Wirtschaftsraum.

    Die Bezeichnung Bayerns als „Luftschutzkeller des Reiches“ (Katja Klee)9 trifft präzise den militärökonomischen und milieumentalen Gehalt des bayerischen „Heimatkapitalismus“ .

    2. München: Die Bayern-Lounge

    In den für das Erfolgsmodell Bayern so entscheidenden 1950er und 1960er Jahren wurden Investitionsentscheidungen noch nicht vom Finanzmarkt vorgegeben, sondern von Unternehmern mit ihrer Hausbank erörtert und entschieden. Aus dieser Phase stammt die mit der bayerischen Landtagswahl vom Oktober 2018 wohl auch endgültig geplatzte funktionale „Große Koalition“ zwischen SPD-München und CSU-Bayern. Diese hatte ihren Wirkmächtigkeitsgipfel in den Zeiten der angeblichen „Heimlichen Hauptstadt“ München des noch nicht vereinigten Deutschland mit seinem Schröder- und Merkel-Berlin.

    Schon im Adenauer-Deutschland gehörte es in den rheinisch-westfälischen Großbürgerfamilien dazu, dem Herrn Sohn oder dem Fräulein Tochter ein paar Semester an der Universität München, der Technischen Hochschule München oder gar der Kunstakademie München zu finanzieren. Papa und Mama hatten ja auch das Ski-Landhaus in Reit i. Winkl oder in Oberstdorf etc. und das Segelboot am Tegernsee - also warum nicht ein Zweigwerk im „Investitionsparadies Bayern“?

    Die Kunst- und Kulturstadt München, ihre Lebensart und ihr Freizeitwert waren ein entscheidender so genannter „weicher Standortfaktor“ für die Prosperität der Stadt München selbst und für das Erfolgsmodell Bayern.

    Das heute in München hegemoniale, hochgradig geschichtsvergessene Milieu der „Kulturlinken“, mittlerweile die Kinder- und Enkelgeneration der antiautoritären Protestbewegung, haben auf ihrem Display nicht mehr oder niemals gehabt, dass es eben nicht Berlin oder Frankfurt am Main oder Hamburg waren, in denen dann zuerst die Werte und Spielregeln des „Wirtschaftswunder-Westdeutschland“ fundamental in Frage gestellt wurden, sondern gerade die Bayern-Lounge München. Die „Gruppe Spur“ an der Akademie der Bildenden Künste München war die Erfinderin des „Antiautoritären“.

    Fussnoten

    1 Albrecht Goeschel: Bayern - Ein „Deutsches Erfolgsmodell“ am Ende? Ausarbeitung für das Diakonische Werk Bayern. Hrsg. Studiengruppe für Sozialforschung e.V., Marquartstein, 24.4.2009

    2 Kurt Pritzkoleit: Das gebändigte Chaos, Wien, München, Basel 1963

    3 Werner Abelshauser: Deutsche Wirtschaftsgeschichte seit 1945, München 2004

    4 Werner Oswald: Kraftfahrzeuge und Panzer der Reichswehr, Wehrmacht und Bundeswehr, Stuttgart 1973

    5 Walter Ziegler: Flüchtlinge und Vertriebene, in historisches-lexikon-bayerns.de

    6 Hans Günther Hockerts: Sozialpolitische Entscheidungen im Nachkriegsdeutschland, Stuttgart 1980

    7 Bruno Bandulet: Beute-Land, Rottenburg 2016
    8 ebd.

    9 Stefan Grüner: Geplantes Wirtschaftswunder: Industrie- und Strukturpolitik in Bayern, München 2009

    10 Albrecht Goeschel (Hrsg.) Richtlinien und Anschläge: Materialien zur Kritik der repressiven Gesellschaft, Hanser-Verlag München 1968

    Dans la deuxième partie l’article explique davantage de détails des mécanismes du pouvoir qui on menè à l’énorme influence de la Bavière et de sa droite populiste sur la politique de l’Allemagne entière. Cerise sur la gateau on apprend comment les élites se servent de l’état pour amasser leurs fortunes sur le dos des simples gens.

    Bayern : « Arbeiter- und Bäuerinnen-Staat zu Ende » | Telepolis
    https://www.heise.de/tp/features/Bayern-Arbeiter-und-Baeuerinnen-Staat-zu-Ende-4278123.html


    BMW-Werk München, 1968. Bild : Bundesarchiv, B 145 Bild-F027644-0004 / Storz / CC-BY-SA 3.0

    18. Januar 2019 Albrecht Goeschel, Markus Steinmetz

    Bayern-Saga: Wie man am eigenen Erfolg scheitert - Teil 2

    Nach 60 Jahren gefühlter Alleinherrschaft in Bayern muss die Christlich-Soziale Union seit der Landtagswahl 2018 in einer ungewünschten Koalition regieren. Wer hat ihr das eingebrockt oder wer hatte da genug von den älteren Herren, nachdrängenden Babypräsidenten oder bebrillten Parteibuben?

    Wenn man die Wahlanalysen liest, waren es wohl vor allem die Frauen, die diesmal ihre Stimmzettel anders als noch vor vier Jahren ausgefüllt haben. 2013 haben die bayerischen Frauen mit 50 Prozent noch deutlicher als die Männer „C“ gewählt. 2017 waren es dann auf einmal nur noch 38 Prozent. Dabei ist die CSU eigentlich traditionell eine Partei der Frauen und mittlerweile vor allem der Rentnerinnen. Die älteren Frauen stellen aber auch in Bayern, dank längerer Lebenserwartung, einen größeren Bevölkerungsanteil als die Männer. Wenn sie dann der herrschenden Altpartei die Zustimmung entziehen, schlägt das ordentlich ins Wahlkontor.

    Spannend wird das ganze, wenn man sich das Profil der Bayernbevölkerung in den Jahren ansieht, in denen die CSU ihre Dauerherrschaft begründet hat: Die Fünfziger Jahre. Diese waren der Wirtschaftszyklus mit dem höchsten Wirtschaftswachstum in ganz Westdeutschland.

    Wie der Ökonomiepublizist Kurt Pritzkoleit in seinem materialreichen Werk „Das gebändigte Chaos“ schreibt, war das auch die Zeit, in der Bayern im Vergleich zu den anderen Bundesländern eine überdurchschnittlich hohe Erwerbsquote hatte. Grund dafür wiederum war die damals auch überdurchschnittlich anteilsstarke Landwirtschaft in Bayern und deren Bäuerinnen - die so genannten „Mithelfenden Familienangehörigen“. Daneben spielten auch die anteilsstärkeren typischen Frauenindustrien wie die Elektrotechnik und die Textil- und Bekleidungsherstellung eine Rolle.


    CSU-Ergebnis bei Landtagswahlen seit 1950 und die jeweiligen Spitzenkandidaten. Grafik: TP

    In diesen Fünfziger Jahren überholte aber auch die infolge der Aufrüstungs- und Kriegswirtschaft des 3. Reiches stark gewordene Investitionsgüterindustrie Bayerns deren Anteil in den anderen Bundesländern. Maschinenbau und Fahrzeugherstellung spielten eine besondere Rolle bei diesem Industrieschub in Bayern. Zwischen 1950 und 1960 entstanden in Bayern etwa 573.000 neue Arbeitsplätze in der Industrie.

    Man kann dieses Bayern der Fünfziger Jahre mit seinen hunderttausenden neuen Industriearbeitern und seinen hunderttausenden mithelfenden Bauersfrauen als den christlich-kapitalistischen Arbeiter- und Bäuerinnenstaat auf der einen Seite der Demarkationslinie, der so genannten „Zonengrenze“, unmittelbar gegenüber dem atheistisch-sozialistischen Arbeiter- und Bauernstaat des ehemaligen Thüringen, Sachsen, Sachsen-Anhalt etc. auf der anderen Seite dieser Grenze betrachten.
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    Unvoreingenommene Ökonomen kommen in diesem Zusammenhang zu dem Ergebnis, dass die späteren beiden deutschen Staaten in ihren ersten Jahrzehnten einen durchaus ähnlichen wohlfahrtsstaatlich-keynesianischen „Fordismus“ (Werner Abelshauser, Ulrich Busch, Rainer Land) in der Wirtschaftspolitik verfolgt haben.6 Vor diesem Hintergrund wird erst die epochale Bedeutung des Aufstiegs der Alternative für Deutschland in den mitteldeutschen Bundesländern und der Absturz der Christlich-Sozialen Union in Bayern erkennbar.

    Korea-Krieg: Militärisch-industrieller Komplex auch in Bayern

    Der renommierte Wirtschaftshistoriker Werner Abelshauser hat in seiner „Deutschen Wirtschaftsgeschichte seit 1945“ deutlich gemacht, dass die Vereinigten Staaten wegen des von ihnen angeführten Vernichtungskrieges in Korea 1950 bis 1953 dringend auf die noch vom Rüstungsminister des 3. Reiches, Albert Speer, auf ein hohes Rationalisierungsniveau gebrachten Kapazitäten der (west-)deutschen Investitionsgüterindustrie angewiesen waren.

    Sie forderten von der bundesdeutschen Wirtschaftspolitik eine Abkehr von der konsumistischen Politik des „Wohlstand für alle“, gezielte Rüstungsanstrengungen und eine Wiederbewaffnung. Die Soziale Marktwirtschaft sollte „Rüstungstauglichkeit“ (Werner Abelshauser) entwickeln. In dieser ersten Hälfte der Fünfziger Jahre verortet der Historiker die Wiederauferstehung des rüstungswirtschaftlichen Korporatismus des nationalsozialistischen Staates nun in Gestalt eines auch europäischen „militärisch-industriellen Komplexes“.

    Durch die in den Jahren des Koreagemetzels begonnene Abwertung der D-Mark gegenüber dem US-Dollar konnten sich die USA günstig mit deutschen Investitionsgütern eindecken, aber ebenso konnten die deutschen Exportproduzenten fette Gewinne erwirtschaften. Dies galt auch und gerade für die Investitionsgüterbranche und die gesamte Exportbranche Bayerns.

    Dreh- und Angelpunkt des westdeutschen und vor allem bayerischen militärisch-industriellen Komplexes war der nachmalige CSU-Parteivorsitzende Franz Josef Strauß: Ab 1953 Bundesminister für besondere Aufgaben, ab 1955 Bundesminister für Atomfragen, ab 1956 bis 1962 Bundesminister für Verteidigung, war er in mehrere Mega-Rüstungsskandale des damaligen Adenauer-Deutschland verwickelt.
    CSU-Wahlerfolg: Im Kielwasser von Wiederbewaffnung und Rentenreform

    Die Indienstnahme von Teilen der westdeutschen Industrie für die Korea-Kriegs- und spätere Kalte-Kriegswirtschaft des US-Imperialismus bescherte dem Exportsektor zwar hohe Gewinne, ging aber auch zu Lasten der dortigen Beschäftigten.

    In Bayern kam es daher im August 1954 zum brutalsten Streik in Westdeutschland bislang. 100.000 der etwa 240.000 Beschäftigten der bayerischen Metallindustrie traten unter Führung der Gewerkschaft IG-Metall in einen drei Wochen dauernden Streik. Gefordert wurde eine Erhöhung des Ecklohnes von 1.44 DM um 12 Pfennige (!). Am Ende kamen 3 bis 5 Pfennige heraus. Dabei war es die damalige SPD-Regierung Bayerns, die u. a. die mit Stahlhelmen und Karabinern ausgerüstete, militärisch organisierte und geführte kasernierte „Bereitschaftspolizei“ gegen die Streikenden einsetzte.

    Etwas mehr als ein Jahr zuvor, eine Woche um den 17. Juni 1953, hatte es in der späteren Deutschen Demokratischen Republik ebenfalls einen mehrtägigen Arbeiteraufstand gegen verschlechterte Arbeitsbedingungen gegeben. Paramilitärische Volkspolizei und sowjetrussische Militärkräfte schlugen den Aufstand nieder.

    Betrachtet man die Ergebnisse der bayerischen Landtagswahlen der Fünfziger Jahre, erlebte die Christlich-Soziale Union damals einen eindrucksvollen Aufstieg. Sie steigerte ihr Wahlergebnis von 27,4 Prozent im Jahr 1950 auf 38,0 Prozent bei den Wahlen 1954 und erreichte dann bei den Landtagswahlen 1958 satte 45,6 Prozent.

    Politisch-ökonomisch bedeutete dies, dass das rüstungswirtschaftlich getriebene Wachstum Bayerns von einem Großteil der Wahlbevölkerung akzeptiert wurde, wiewohl Sozialdemokratie und Gewerkschaften gegen die westdeutsche Remilitarisierung massiv opponiert hatten.

    Es war wieder der Wirtschaftspublizist Kurt Pritzkoleit, der einen wichtigen Hinweis auf einen entscheidenden Faktor für die mit dieser Wahl begründete CSU-Hegemonie in Bayern gab: In seiner schon zitierten Bayern-Analyse betont Pritzkoleit, dass der Rentner- und Rentnerinnenanteil an der Bevölkerung in Bayern in den Fünfziger Jahren deutlich höher als in Westdeutschland insgesamt gelegen hat.

    Gerade auf diese Bevölkerungsgruppe zielte aber die Wahlstrategie des fuchsschlauen damaligen Bundeskanzlers Konrad Adenauer bei den Wahlen zum Deutschen Bundestag des Jahres 1957: Adenauer hatte ganz offen die Rentenreform von 1956/57 mit ihrer Erhöhung und Lohnankoppelung in seinem politischen Lager als Strategie propagiert, um den Popularitätsverlust der christlichen Parteien infolge Bundeswehrgründung, Wehrpflichteinführung und NATO-Beitritt in den Jahren 1955 und 1956 zu kompensieren.


    Bundesverteidigungsminister Franz Josef Strauß zu Besuch in der Kaserne der Heeresflugabwehrschule Rendsburg (1957). Bild: Friedrich Magnussen / Gesellschaft für Kieler Stadtgeschichte / CC-BY-SA 3.0

    Im Kielwasser des rentenpolitisch erreichten CDU-Wahlsieges von 1957 erreichte die CSU in den Landtagswahlen von 1958 im Rentnerland Bayern dann sogar ein Spitzenergebnis. Der in den Fünfziger Jahren führende deutsche und bayerische Rüstungspolitiker Franz-Josef Strauß wusste sehr genau, dass erfolgreiche störungsfreie Aufrüstungspolitik vor allem mit eingängiger Sozialpolitik legitimiert werden muss. Er war Mitglied im Sozialverband VdK Bayern. Dieser Verband, nach Kriegsende als Kriegsopferorganisation in den süd- und westdeutschen Bundesländern entstanden, hatte sich auch in Bayern zu einer zahlenstarken sozialpolitischen Interessenorganisation entwickelt. Seit Jahrzehnten wird in diesem Verband eine Großkoalition von CSU- und SPD-Sozialfunktionären praktiziert. Präsident des VdK Bayern war zeitweilig auch Horst Seehofer.

    Mit „Wirtschaftslenkung“ in Westdeutschland zur absoluten Mehrheit in Bayern

    Nach den langen Fünfziger Jahren stürmischen Wirtschaftswachstums, sprich: rasanter Kapitalakkumulation, kam mit der Rezession von 1966/1967 der in kapitalistischen Wirtschaftssystemen unvermeidliche Krisenabsturz, verbunden mit hoher Arbeitslosigkeit, Betriebsschließungen etc.. Verschärft wurde diese Rezession durch die sich ausbreitende Strukturkrise im Ruhrbergbau.

    Die vor diesem Hintergrund gebildete Große Koalition unter Bundeskanzler Kurt Georg Kiesinger verließ eiligst den marktliberalen Wirtschaftskurs des gescheiterten Bundeskanzlers Ludwig Erhard und ging entschieden zu einer keynesianischen Globalsteuerung der Wirtschaft über. Das seinerzeitige „Gesetz zur Förderung der Stabilität und des Wachstums der Wirtschaft (StabG)“ vom 8. 6.1967 ist als Juwel keynesianischer Wirtschaftslenkung im kapitalistischen West-Deutschland noch heute in Kraft - wenn auch ohne Wirkung.

    Die beiden Leitfiguren dieser Politik, die durch massive öffentliche Investitionsprogramme Krisenbekämpfung verfolgte, waren der neue SPD-Wirtschaftsminister Karl Schiller und der nunmehrige CSU-Finanzminister Franz Josef Strauß. Mit seiner bundespolitischen Investitionspolitik konnte Strauß zugleich die Situation in Bayern fördern, dessen strukturschwache Gebiete durch die Rezession schwer getroffen waren. Es war allerdings weniger die 1966/1967er-Krise, die für das Wachstum in Bayern Gefahren beinhaltete. Viel größer war das Risiko, dass die Bergbaukrise im Ruhrgebiet in hohem Maße Industrieflächen und Arbeitskräfte freisetzte und damit den Standortvorteil Bayerns, verfügbare Industrieflächen und verfügbare Arbeitskräfte im ländlichen Raum, zunichte machen könnte.

    Aus heutiger Sicht frappierend, insbesondere seit dem neoliberalen Fundamentalismus der Regierung Edmund Stoiber, entschied sich die CSU-Regierung in Bayern für eine geschickte Doppelstrategie: Der sich erfolgreich als Landesvater inszenierende Ministerpräsident Alfons Goppel griff die damals in der Öffentlichkeit herrschende Planungsfreundlichkeit auf und startete in Kooperation mit der bayerischen SPD Entwicklungsplanungen für drei Problemregionen in Bayern: Bayerischer Wald, Oberpfälzer Wald und Bayerische Rhön.


    Alfons Goppel beim CSU-Parteitag 1975 in München. Bild: Bundesarchiv, B 145 Bild-F046472-0004 / Storz / CC-BY-SA 3.0

    Durch diesen Vorstoß gelang es der Bayerischen Staatsregierung, die mit dem 1965 erlassenen Bundesraumordnungsgesetz und mit Karl Schillers „Regionalen Aktionsprogrammen“ ausgelöste Förderwelle überwiegend nach Bayern zu lenken. Sie erreichte durch ihre Planungsoffensive, dass allein 6 der insgesamt 16 bundesweit als so genannte „Zentrale Orte“ geförderten Klein- und Mittelstädte in Bayern ausgewählt wurden. Wer in diesen Jahren bayerische Kommunen in Fragen der Regionalentwicklung beraten hat, erinnert sich mühelos an die enorme legitimatorische Wirkung von positiven Förderbescheiden der Staatsregierung auf der Kommunalebene und auch an die regelrechte Mystifizierung von Hilfsgesuchen an den „Hochverehrten Herrn Bundesfinanzminister“.

    Die Bayerische Staatsregierung praktizierte die vom Bundesfinanzminister in Bonn forcierte langfristig antizyklische Strukturförderungspolitik in Westdeutschland im Gegensatz dazu im eigenen Bundesland Bayern betont prozyklisch. Sie förderte, statt zu bremsen, auch im nach der Rezession folgenden erneuten Aufschwung, um die erreichten Erfolge nicht zu gefährden. Der Wirtschaftshistoriker Stefan Grüner hat diesen weitgehend unbekannten Föderal-Keynesianismus Bayerns in seiner vorzüglichen Untersuchung „Geplantes Wirtschaftswunder“ aus dem Jahre 2009 präzise nachgezeichnet.

    Der Erfolg dieser Doppelstrategie stellte sich prompt auch ein: Mit der in der Bayerischen Landtagswahl von 1970 erreichten absoluten Mehrheit der CSU wurde eine Serie von weiteren acht Landtagswahlen mit absoluten Mehrheiten der CSU gestartet. Noch 1970 wurde dann für Bayern ein „Staatsministerium für Landesentwicklung und Umweltfragen“ eingerichtet. An dessen Spitze stand der vormalige CSU-Generalsekretär Max Streibl.
    Exportslalom durch Kalten Krieg und Europäische Einigung in die Welt-Währungskrise

    Bayerns Kapitalismus war auch in den 1960er Jahren vor allem Exportkapitalismus. Er schwamm im Strom der enormen Exportsteigerung West-Deutschlands, die zwischen 1950 und 1968 bei 1000 Prozent lag und vor allem vom Fahrzeugbau, vom Maschinenbau, von der Chemie etc. getragen wurde.

    Schon der EWG-Vertrag von 1957 hatte den Außenhandel mit den Nachbarn massiv gesteigert. Vor allem aber verstärkten der Berliner Mauerbau von 1961, die Kubakrise von 1962 und die Ausweitung des US-Angriffskrieges in Vietnam den Rüstungsaufwand des Konflikts der Systeme und damit die Exportposition des bayerischen Kapitalismus.

    Diese Exporttreiber bargen aber auch erhebliche Risiken: So befürchtete das bayerische Establishment, dass die europäische Agrarpolitik die klein- und mittelbetriebliche, noch immer anteilsstarke und politisch einflussreiche bayerische Agrarwirtschaft beeinträchtigten könnte. Ebenso wurde befürchtet, dass die EWG-Regionalförderung Bayerns Randlage verstärken könnte und West- und Südwestfrankreich sowie Süditalien bevorzugen würde.

    Auch hier reagierte die Bayerische Staatsregierung mit einem strategischen Schachzug: Sie konterte den verhassten EWG-Mansholtplan des Jahres 1962 mit seiner Tendenz zur Konzentration und Dezimierung der Landwirtschaftsbetriebe in Europa mit ihrem „Bayerischen Weg“. Dezentrale Industrieansiedlungen sollten dazu beitragen, dass Bauernwirtschaften unterschiedlicher Hofgrößen nicht nur als Vollerwerbs-, sondern auch als Zu- und Nebenerwerbsbetriebe geführt werden konnten. Die bayerische Landesentwicklungsplanung integrierte Agrarpolitik und Industriepolitik, um eine „soziale Erosion“ des ländlichen Raumes zu verhindern.

    Der Bau der Berliner Mauer und die Abriegelung der Grenze der Deutschen Demokratischen Republik gegen die Abwanderung von tatsächlichen Fachkräften vor allem nach Bayern schwächte in den sechziger Jahren einen wesentlichen Standortvorteil Bayerns: Reserven an qualifizierten und gleichkulturellen Arbeitskräften. Später, in der Phase der Entspannungspolitik, sollte dann „der andere Teil Deutschlands“ als eine Art Niedriglohnkolonie für westdeutsche und gerade auch bayerische Unternehmen produzieren.

    Das eigentliche Risiko am Ende der 1960er Jahre waren aber die Nebenwirkungen der seit den Nachkriegsjahren anhaltenden Export-, Leistungs- und Zahlungsbilanzüberschüsse der westdeutschen Wirtschaft gegenüber den übrigen großen Volkswirtschaften Europas, insbesondere Frankreich und Großbritannien, aber auch gegenüber den Vereinigten Staaten.

    Die enormen Exportüberschüsse der westdeutschen Konzerne einerseits und die enormen Kriegskosten des amerikanischen Imperialismus führten zu einem dramatischen Kursverfall des US-Dollar und einer gewaltigen Dollarflutwelle nach Europa. Ende dieser 1960er Jahre hatte sich das Problem einer mit dem Exportboom „Importierten Inflation“ (Gerard Bökenkamp) und einer dadurch ausgelösten Preis-Lohnspirale in der deutschen und bayerischen Wirtschaftspolitik in den Vordergrund geschoben.

    Der geschickte Exportslalom der bayerischen Wirtschaftspolitik zu Gunsten ihrer Exportkonzerne hatte in die Sackgasse der dadurch mitforcierten Weltwährungskrise geführt. Gerade Exportökonomien sind aber auf ein funktionierendes Weltwährungssystem zwingend angewiesen.

    Bayern: Konzernefestung und Finanzhilfenhütte

    US-Präsident Richard Nixon hat durch die Aufhebung der Einlösbarkeit von Dollarguthaben anderer Staaten in US-Gold im Jahre 1971 das damalige Weltwährungssystem von „Bretton-Woods“ erledigt. Die US-Verschuldung im Ausland war weit über die US-Goldreserven angestiegen.

    Der angesehene Ökonom Elmar Altvater stellte in seiner 1969 erschienen Untersuchung „Die Weltwährungskrise“ fest, dass die enormen Exportüberschüsse Westdeutschlands seit den Fünfziger Jahren schon in den sechziger Jahren eine der Hauptursachen für die damaligen „fundamentalen Ungleichgewichte“ im Weltwährungssystem waren.14 Daran scheint sich bis heute nichts wesentliches geändert zu haben. Der Missbrauch und die Zersetzung des Euro-Systems durch Merkel-Schäuble sind längst offenbar und noch im vollen Gange.

    Angesichts der Weltwährungskrise der späten sechziger Jahre erhöhte sich der Druck der internationalen Handels- und Währungspartnerländer auf eine deutliche Aufwertung der DM, um den anderen Ländern bessere Handelsbilanzen und Zahlungsbilanzerleichterungen zu ermöglichen. In der damaligen Großen Koalition führte dies zu heftigen Konflikten zwischen dem vom CSU-Finanzminister Franz Josef Strauß angeführten Lager der Aufwertungsgegner und dem vom SPD-Wirtschaftsminister angeführten Lager der Aufwertungsbefürworter. Es war dann die Sozialliberale Koalition unter Bundeskanzler Willy Brandt, die eine DM-Aufwertung um 8,5 Prozent beschloss.

    Die vor allem auch bayerischen Aufwertungsgegner vertraten, politisch durch die Industriespitzen unterstützt, die Außenhandelsinteressen der westdeutschen und vor allem auch bayerischen Exportkonzerne. Sie plädierten für eine Devisenkontrolle an Stelle einer Wechselkursliberalisierung. Die Aufwertungsbefürworter, politisch durch die Gewerkschaften unterstützt, vertraten die Preisstabilitätsinteressen der Arbeitnehmer und eine quasi monetaristische Währungssystemstabilisierung durch „Floaten“ der Wechselkurse.

    In der wirtschaftspolitischen Bearbeitung der Welt-Währungskrise zeigte sich die Doppelgesichtigkeit Bayerns als verzögert industrialisiertes und kapitalisiertes Agrarland: Einerseits wurden in scharfer Ablehnung der DM-Aufwertung die unmittelbaren Profitinteressen auch der bayerischen Exportkonzerne vertreten. Die „importierte Inflation“ und Welt-Währungskrise sollten durch Devisenkontrollen, einen Ausgabenstopp des Staates und natürlich Lohnzurückhaltung der Arbeitnehmer bekämpft werden. Gleichzeitig war aber Bayern auch das Bundesland, das unbeeindruckt durch die Jahre der Welt-Währungskrise zwischen 1951 und 1974 die höchsten Regionalhilfsmittel von allen Bundesländern angefordert und Erhalten hatte. Bis in die Achtziger Jahre war Bayern zudem Empfängerland(!) Im Länderfinanzausgleich16 - eben Konzernefestung und Finanzhilfenhütte.

    Fussnoten

    1 Kahrs, Horst: Die Wahl zum 18. Bayerischen Landtag vom 14. Oktober 2018. Hrsg. R. Luxemburg-Stiftung, Berlin 15.10.2018

    2 Busch, Ulrich; Land, Rainer: Teilhabekapitalismus - Fordistische Wirtschaftsentwicklung in Deutschland 1950-2009. In: Forschungsverbund Sozioökonomische Berichterstattung (Hrsg.): Berichterstattung zur sozioökonomischen Entwicklung in Deutschland, 2.Bericht, Wiesbaden 2012.

    3 Pritzkoleit, Kurt: Das gebändigte Chaos, Wien, München, Basel 1965

    4 Götschmann, Dirk: www.historisches-lexikon-bayerns.de. Wirtschaft nach 1945

    5 Abelshauser, Werner: Deutsche Wirtschaftsgeschichte seit 1945 München 2004; Busch, Ulrich; Land, Rainer: Ostdeutschland. In: Forschungsverbund Sozioökonomische Berichterstattung (Hrsg.): A.a.O. (4) Zwischen 1950 und 1960 entstanden in Bayern etwa 573.000 neue Arbeitsplätze in der Industrie.

    6 Abelshauser, Werner: Deutsche Wirtschaftsgeschichte seit 1945; München 2004; Busch, Ulrich; Land, Rainer: Ostdeutschland. In: Forschungsverbund Sozioökonomische Berichterstattung (Hrsg.): A.a.O.

    7 Hockerts, Hans Günter: Sozialpolitische Entscheidungen im Nachkriegsdeutschland, Stuttgart 1980

    8 Grüner, Stefan: Geplantes „Wirtschaftswunder“: Industrie- und Strukturpolitik in Bayern 1945 bis 1973 München 2009.
    9 Grüner, Stefan: Geplantes „Wirtschaftswunder“: Industrie- und Strukturpolitik in Bayern 1945 bis 1973 München 2009.

    10 Kroh, Ferdinand: Wendemanöver: Die geheimen Wege zur Wioedervereinigung, München 2005

    11 Bonner, Bill; Wiggin, Addison: Das Schuldenimperium, München 2006

    12 Bökenkamp, Gerard: Das Ende des Wirtschaftswunders, Stuttgart 2010

    13 Altvater, Elmar: Die Weltwährungskrise, Frankfurt 1969.
    14 Altvater, Elmar: Die Weltwährungskrise, Frankfurt 1969.
    15 Altvater, Elmar: Die Weltwährungskrise, Frankfurt 1969.

    16 Grüner, Stefan: Geplantes „Wirtschaftswunder“: Industrie- und Strukturpolitik in Bayern 1945 bis 1973 München 2009.

    #impérialisme #CIA #Allemagne #États-Unis #OTAN #économie

  • Trump Discussed Pulling U.S. From NATO, Aides Say Amid New Concerns Over Russia - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2019/01/14/us/politics/nato-president-trump.html

    There are few things that President Vladimir V. Putin of Russia desires more than the weakening of NATO, the military alliance among the United States, Europe and Canada that has deterred Soviet and Russian aggression for 70 years.

    Last year, President Trump suggested a move tantamount to destroying NATO: the withdrawal of the United States.

    Senior administration officials told The New York Times that several times over the course of 2018, Mr. Trump privately said he wanted to withdraw from the North Atlantic Treaty Organization. Current and former officials who support the alliance said they feared Mr. Trump could return to his threat as allied military spending continued to lag behind the goals the president had set.

    In the days around a tumultuous NATO summit meeting last summer, they said, Mr. Trump told his top national security officials that he did not see the point of the military alliance, which he presented as a drain on the United States.

    At the time, Mr. Trump’s national security team, including Jim Mattis, then the defense secretary, and John R. Bolton, the national security adviser, scrambled to keep American strategy on track without mention of a withdrawal that would drastically reduce Washington’s influence in Europe and could embolden Russia for decades.

    Now, the president’s repeatedly stated desire to withdraw from NATO is raising new worries among national security officials amid growing concern about Mr. Trump’s efforts to keep his meetings with Mr. Putin secret from even his own aides, and an F.B.I. investigation into the administration’s Russia ties.

    A move to withdraw from the alliance, in place since 1949, “would be one of the most damaging things that any president could do to U.S. interests,” said Michèle A. Flournoy, an under secretary of defense under President Barack Obama.

    “It would destroy 70-plus years of painstaking work across multiple administrations, Republican and Democratic, to create perhaps the most powerful and advantageous alliance in history,” Ms. Flournoy said in an interview. “And it would be the wildest success that Vladimir Putin could dream of.”

    Retired Adm. James G. Stavridis, the former supreme allied commander of NATO, said an American withdrawal from the alliance would be “a geopolitical mistake of epic proportion.”

    “Even discussing the idea of leaving NATO — let alone actually doing so — would be the gift of the century for Putin,” Admiral Stavridis said.

    Senior Trump administration officials discussed the internal and highly sensitive efforts to preserve the military alliance on condition of anonymity.

    After the White House was asked for comment on Monday, a senior administration official pointed to Mr. Trump’s remarks in July when he called the United States’ commitment to NATO “very strong” and the alliance “very important.” The official declined to comment further.

    American national security officials believe that Russia has largely focused on undermining solidarity between the United States and Europe after it annexed Crimea in 2014. Its goal was to upend NATO, which Moscow views as a threat.

    Comme on le voit au début et à la fin de cet extrait, si les #USA quittent l’#Otan ce sera pas mal la faute de la #Russie de #"Poutine

  • Quoi qu’il en soit, Trump ne quittera pas la Syrie et l’Afghanistan Stephen Gowans - 2 Janvier 2019 - Investigaction
    https://www.investigaction.net/fr/117672

    Il ne fait que transférer le fardeau sur les alliés et compter davantage sur les mercenaires

    Le retrait annoncé des troupes américaines de #Syrie et la diminution des troupes d’occupation en #Afghanistan ne correspondent très probablement pas à l’abandon par les #États-Unis de leurs objectifs au #Moyen-Orient, mais bien plutôt à l’adoption de nouveaux moyens pour atteindre les buts que la politique étrangère américaine vise depuis longtemps. Plutôt que de renoncer à l’objectif américain de dominer les mondes arabe et musulman par un système colonialiste et une occupation militaire directe, le président #Donald_Trump ne fait que mettre en œuvre une nouvelle politique – une politique basée sur un transfert plus important du fardeau du maintien de l’#Empire sur ses alliés et sur des soldats privés financés par les monarchies pétrolières.

    Le modus operandi de Trump en matière de relations étrangères a été constamment guidé par l’argument que les alliés des États-Unis ne parviennent pas à peser leur poids et devraient contribuer davantage à l’architecture de la sécurité américaine. Recruter des alliés arabes pour remplacer les troupes américaines en Syrie et déployer des #mercenaires (appelés par euphémisme des fournisseurs de sécurité) sont deux options que la Maison-Blanche examine activement depuis l’année dernière. De plus, il existe déjà une importante présence alliée et mercenaire en Afghanistan et le retrait prévu de 7000 soldats américains de ce pays ne réduira que marginalement l’empreinte militaire occidentale.

    Le conflit entre le secrétaire américain à la Défense #Jim_Mattis et Trump quant à leurs visions du monde est perçu à tort comme l’expression d’opinions contradictoires sur les objectifs américains plutôt que sur la manière de les atteindre. Mattis privilégie la poursuite des buts impériaux des États-Unis par la participation significative de l’armée américaine tandis que Trump favorise la pression sur les alliés pour qu’ils assument une plus grande partie du fardeau que constitue l’entretien de l’empire américain, tout en embauchant des fournisseurs de sécurité pour combler les lacunes. Le but de Trump est de réduire la ponction de l’Empire sur les finances américaines et d’assurer sa base électorale, à qui il a promis, dans le cadre de son plan « #America_First », de ramener les soldats américains au pays.

    Fait significatif, le plan de Trump est de réduire les dépenses des activités militaires américaines à l’étranger, non pas comme fin en soi mais comme moyen de libérer des revenus pour l’investissement intérieur dans les infrastructures publiques. De son point de vue, les dépenses pour la république devraient avoir la priorité sur les dépenses pour l’#Empire. « Nous avons [dépensé] 7 mille milliards de dollars au Moyen-Orient », s’est plaint le président américain auprès des membres de son administration. « Nous ne pouvons même pas réunir mille milliards de dollars pour l’infrastructure domestique. »[1] Plus tôt, à la veille de l’élection de 2016, Trump se plaignait que Washington avait « gaspillé 6 trillions de dollars en guerres au Moyen-Orient – nous aurions pu reconstruire deux fois notre pays – qui n’ont produit que plus de terrorisme, plus de mort et plus de souffrance – imaginez si cet argent avait été dépensé dans le pays. […] Nous avons dépensé 6 trillions de dollars, perdu des milliers de vies. On pourrait dire des centaines de milliers de vies, parce qu’il faut aussi regarder l’autre côté. » [2]

    En avril de cette année, Trump « a exprimé son impatience croissante face au coût et à la durée de l’effort pour stabiliser la Syrie » et a parlé de l’urgence d’accélérer le retrait des troupes américaines. [3] Les membres de son administration se sont empressés « d’élaborer une stratégie de sortie qui transférerait le fardeau américain sur des partenaires régionaux ». [4]

    La conseiller à la Sécurité nationale, #John_Bolton, « a appelé Abbas Kamel, le chef par intérim des services de renseignement égyptiens pour voir si le Caire contribuerait à cet effort ». [5] Puis l’#Arabie_ saoudite, le #Qatar et les Émirats arabes unis ont été « approchés par rapport à leur soutien financier et, plus largement, pour qu’ils contribuent ». Bolton a également demandé « aux pays arabes d’envoyer des troupes ». [6] Les satellites arabes ont été mis sous pression pour « travailler avec les combattants locaux #kurdes et arabes que les Américains soutenaient » [7] – autrement dit de prendre le relais des États-Unis.

    Peu après, #Erik_Prince, le fondateur de #Blackwater USA, l’entreprise de mercenaires, a « été contactée de manière informelle par des responsables arabes sur la perspective de construire une force en Syrie ». [8] À l’été 2017, Prince – le frère de la secrétaire américaine à l’Éducation #Betsy_De_Vos – a approché la Maison Blanche sur la possibilité de retirer les forces étasuniennes d’Afghanistan et d’envoyer des mercenaires combattre à leur place. [9] Le plan serait que les monarchies pétrolières du golfe Persique paient Prince pour déployer une force mercenaire qui prendrait la relève des troupes américaines.

    En avril, Trump a annoncé : « Nous avons demandé à nos partenaires d’assumer une plus grande responsabilité dans la sécurisation de leur région d’origine. » [10] La rédaction en chef du Wall Street Journal a applaudi cette décision. Le plan de Trump, a-t-il dit, était « la meilleure stratégie » – elle mobiliserait « les opposants régionaux de l’Iran », c’est-à-dire les potentats arabes qui gouvernent à la satisfaction de Washington en vue du projet de transformer « la Syrie en un Vietnam pour l’Ayatollah ». [11]

    En ce moment, il y a 14 000 soldats américains reconnus en Afghanistan, dont la moitié, soit 7 000, seront bientôt retirés. Mais il y a aussi environ 47 000 soldats occidentaux dans le pays, y compris des troupes de l’#OTAN et des mercenaires (14 000 soldats américains, 7 000 de l’OTAN [12] et 26 000 soldats privés [13]). Diviser la contribution étasunienne de moitié laissera encore 40 000 hommes de troupes occidentales comme force d’occupation en Afghanistan. Et la réduction des forces américaines peut être réalisée facilement en engageant 7000 remplaçants mercenaires, payés par les monarques du golfe Persique. « Le retrait », a rapporté The Wall Street Journal, « pourrait ouvrir la voie à un plus grand nombre d’entrepreneurs privés pour assumer des rôles de soutien et de formation », comme le souligne « la campagne de longue date d’Erik Prince ». Le Journal a noté que le frère de la secrétaire à l’Éducation « a mené une campagne agressive pour convaincre M. Trump de privatiser la guerre ». [14]

    La démission de Mattis a été interprétée comme une protestation contre Trump, qui « cède un territoire essentiel à la Russie et à l’Iran » [15] plutôt que comme un reproche à Trump de se reposer sur des alliés pour porter le fardeau de la poursuite des objectifs étasuniens en Syrie. La lettre de démission du secrétaire à la Défense était muette sur la décision de Trump de rapatrier les troupes américaines de Syrie et d’Afghanistan et insistait plutôt sur « les alliances et les partenariats ». Elle soulignait les préoccupations de Mattis sur le fait que le changement de direction de Trump n’accordait pas suffisamment d’attention au « maintien d’alliances solides et de signes de respect » à l’égard des alliés. Alors que cela a été interprété comme un reproche d’avoir abandonné le fer de lance américain en Syrie, les Kurdes, Mattis faisait référence aux « alliances et aux partenariats » au pluriel, ce qui indique que ses griefs vont plus loin que les relations des États-Unis avec les Kurdes. Au contraire, Mattis a exprimé des préoccupations cohérentes avec une plainte durable dans le milieu de la politique étrangère américaine selon laquelle les efforts incessants de Trump pour faire pression sur ses alliés afin qu’ils supportent davantage le coût du maintien de l’Empire aliènent les alliés des Américains et affaiblissent le « système d’alliances et de partenariats » qui le composent. [16]

    L’idée, aussi, que la démission de Mattis est un reproche à Trump pour l’abandon des Kurdes, est sans fondement. Les Kurdes ne sont pas abandonnés. Des commandos britanniques et français sont également présents dans le pays et « on s’attend à ce qu’ils restent en Syrie après le départ des troupes américaines ». [17] Mattis semble avoir été préoccupé par le fait qu’en extrayant les forces américaines de Syrie, Trump fasse peser plus lourdement le poids de la sécurisation des objectifs étasuniens sur les Britanniques et les Français, dont on ne peut guère attendre qu’ils tolèrent longtemps un arrangement où ils agissent comme force expéditionnaire pour Washington tandis que les troupes américaines restent chez elles. À un moment donné, ils se rendront compte qu’ils seraient peut-être mieux en dehors de l’alliance américaine. Pour Mattis, soucieux depuis longtemps de préserver un « système global d’alliances et de partenariats » comme moyen de « faire progresser un ordre international le plus propice à la sécurité, à la prospérité et aux valeurs [des États-Unis], le transfert du fardeau par Trump ne parvient guère à « traiter les alliés avec respect » ou à « faire preuve d’un leadership efficace », comme Mattis a écrit que Washington devrait le faire dans sa lettre de démission.

    Le président russe #Vladimir_Poutine a accueilli l’annonce de Trump avec scepticisme. « Nous ne voyons pas encore de signes du retrait des troupes américaines », a-t-il déclaré. « Depuis combien de temps les États-Unis sont-ils en Afghanistan ? Dix-sept ans ? Et presque chaque année, ils disent qu’ils retirent leurs troupes. » [18] Le #Pentagone parle déjà de déplacer les troupes américaines « vers l’#Irak voisin, où environ 5000 soldats étasuniens sont déjà déployés », et qui ‘déferleront’ en Syrie pour des raids spécifiques ». [19] Cette force pourrait aussi « retourner en Syrie pour des missions spéciales si des menaces graves surgissent » [20] ce qui pourrait inclure les tentatives de l’armée syrienne de récupérer son territoire occupé par les forces #kurdes. De plus, le Pentagone conserve la capacité de continuer de mener des « frappes aériennes et de réapprovisionner les combattants kurdes alliés avec des armes et du matériel » depuis l’Irak. [21]

    Trump n’a jamais eu l’intention d’apporter à la présidence une redéfinition radicale des objectifs de la politique étrangère américaine, mais seulement une manière différente de les atteindre, une manière qui profiterait de ses prouesses autoproclamées de négociation. Les tactiques de négociation de Trump n’impliquent rien de plus que de faire pression sur d’autres pour qu’ils paient la note, et c’est ce qu’il a fait ici. Les Français, les Britanniques et d’autres alliés des Américains remplaceront les bottes étasuniennes sur le terrain, avec des mercenaires qui seront financés par les monarchies pétrolières arabes. C’est vrai, la politique étrangère des États-Unis, instrument pour la protection et la promotion des profits américains, a toujours reposé sur quelqu’un d’autre pour payer la note, notamment les Américains ordinaires qui paient au travers de leurs impôts et, dans certains cas, par leurs vies et leurs corps en tant que soldats. En tant que salariés, ils ne tirent aucun avantage d’une politique façonnée par « des #élites_économiques et des groupes organisés représentant les intérêts des entreprises », comme les politologues Martin Gilens et Benjamin I. Page l’ont montré dans leur enquête de 2014 portant sur plus de 1700 questions politiques américaines. Les grandes entreprises, concluaient les chercheurs, « ont une influence considérable sur la politique gouvernementale, tandis que les citoyens moyens et les groupes fondés sur les intérêts des masses n’ont que peu d’influence ou pas d’influence du tout ». [22] Autrement dit, les grandes entreprises conçoivent la politique étrangère à leur avantage et en font payer le coût aux Américains ordinaires. 

    C’est ainsi que les choses devraient être, selon Mattis et d’autres membres de l’élite de la politique étrangère américaine. Le problème avec Trump, de leur point de vue, est qu’il essaie de transférer une partie du fardeau qui pèse actuellement lourdement sur les épaules des Américains ordinaires sur les épaules des gens ordinaires dans les pays qui constituent les éléments subordonnés de l’Empire américain. Et alors qu’on s’attend à ce que les alliés portent une partie du fardeau, la part accrue que Trump veut leur infliger nuit est peu favorable au maintien des alliances dont dépend l’Empire américain. 

    Notes :
    1. Bob Woodward, Fear : Trump in the White House, (Simon & Shuster, 2018) 307.

    2. Jon Schwarz, “This Thanksgiving, I’m Grateful for Donald Trump, America’s Most Honest President,” The Intercept, November 21, 2018.

    3. Michael R. Gordon, “US seeks Arab force and funding for Syria,” The Wall Street Journal, April 16, 2018.

    4. Gordon, April 16, 2018.

    5. Gordon, April 16, 2018.

    6. Gordon, April 16, 2018.

    7. Gordon, April 16, 2018.

    8. Gordon, April 16, 2018.

    9. Michael R. Gordon, Eric Schmitt and Maggie Haberman, “Trump settles on Afghan strategy expected to raise troop levels,” The New York Times, August 20, 2017.

    10. Gordon, April 16, 2018.

    11. The Editorial Board, “Trump’s next Syria challenge,” The Wall Street Journal, April 15, 2018.

    12. Julian E. Barnes, “NATO announces deployment of more troops to Afghanistan,” The Wall Street Journal, June 29, 2017.

    13. Erik Prince, “Contractors, not troops, will save Afghanistan,” The New York Times, August 30, 2017.

    14. Craig Nelson, “Trump withdrawal plan alters calculus on ground in Afghanistan,” The Wall Street Journal, December 21, 2018.

    15. Helene Cooper, “Jim Mattis, defense secretary, resigns in rebuke of Trump’s worldview,” The New York Times, December 20, 2018.

    16. “Read Jim Mattis’s letter to Trump : Full text,” The New York Times, December 20, 2018.

    17. Thomas Gibbons-Neff and Eric Schmitt, “Pentagon considers using special operations forces to continue mission in Syria,” The New York Times, December 21, 2018.

    18. Neil MacFarquhar and Andrew E. Kramer, “Putin welcomes withdrawal from Syria as ‘correct’,” The New York Times, December 20, 2018.

    19. Thomas Gibbons-Neff and Eric Schmitt, “Pentagon considers using special operations forces to continue mission in Syria,” The New York Times, December 21, 2018.

    20. Gibbons-Neff and Schmitt, December 21, 2018.

    21. Gibbons-Neff and Schmitt, December 21, 2018.

    22. Martin Gilens and Benjamin I. Page, “Testing Theories of American Politics : Elites, Interest Groups, and Average Citizens,” Perspectives on Politics, Fall 2014.
    Traduit par Diane Gilliard
    Source : https://gowans.wordpress.com/2018/12/22/no-matter-how-it-appears-trump-isnt-getting-out-of-syria-and-afgha

  • Google aime beaucoup le #black (&)

    Nouvelle descente sur le chantier de Google à Baudour : 227 travailleurs illégaux découverts Florence Dussart - 7 Décembre 2018 - RTBF
    https://www.rtbf.be/info/regions/hainaut/detail_exclusif-nouvelle-descente-sur-le-chantier-de-google-a-baudour-227-trava

    La justice vient à nouveau de mettre la main sur des travailleurs illégaux sur le chantier de Google à Baudour (Hainaut). 227 travailleurs n’étaient pas en ordre sur ce chantier de construction du troisième data center du géant informatique. Un chantier de 250 millions d’euros, sur lequel on a découvert ce jeudi, pour la deuxième fois en 15 jours, des travailleurs illégaux : la justice a en effet mis la main sur 105 travailleurs illégaux il y a 15 jours (des Roumains et des Bulgares). 

    Elle vient d’en surprendre 227 de plus (de toutes nationalités, mais parmi lesquels des Anglais et beaucoup de Hongrois), soit au total 331 ouvriers qui ne sont pas en ordre. Tout comme la fois passée, leur badge d’accès au chantier a été bloqué.

    Fin novembre, fait rarissime, les sociétés (anglaises) qui emploient les clandestins avaient régularisé tout le monde, en une fois, sous la pression de Google sans doute. Mais la justice l’auditeur du travail Charles-Eric Clesse va demander le paiement des lois sociales et une amende record.

    & Black : Travail au noir en Belgique

    #google #fraude #esclavage #Belgique #travailleurs_détachés #travail #dumping_social #exploitation #UE #union_européenne
    Baudour, en Belgique c’est à quelques Km du Shape, #OTAN #NATO

  • « Affirmer que l’Europe c’est la paix est une fadaise doublée d’une mystification » Olivier Delorme
    - 27 Novembre 2018 - Le Comptoir

    https://comptoir.org/2018/11/27/olivier-delorme-affirmer-que-leurope-cest-la-paix-est-une-fadaise-doublee-

    Le Comptoir : Vous vous moquez du lieu commun européiste disant que l’Europe c’est la paix… La formation de l’Union européenne n’a-t-elle pas aidé à pacifier une Europe qui a connu deux guerres mondiales et bien d’autres encore ?


    Olivier Delorme : Nullement. En réalité, la guerre est impossible en Europe dès lors que les États-Unis d’Amérique en 1945, puis l’Union soviétique en août 1949, ont acquis l’arme atomique. En effet, au mois d’avril de cette même année 1949, dix États européens de l’Ouest se sont liés au Canada et aux États-Unis par le pacte d’assistance mutuelle qu’on appelle l’Alliance atlantique, tandis que des troupes soviétiques stationnent dans la plupart des États d’Europe de l’Est qui formeront le Pacte de Varsovie en 1955. Dès lors, les deux Grands peuvent, en Europe, se jauger, se gêner, mais pas provoquer une remise en cause de l’équilibre qui dégénérerait en conflit nucléaire, puisque chacun considère son “glacis européen” comme faisant partie de ses intérêts vitaux. C’est l’équilibre de la terreur, et rien d’autre, qui assure la paix en Europe après 1945.

    Quant à la possibilité d’une guerre franco-allemande dans ce contexte géopolitique, elle relève simplement du burlesque. Les États-Unis exerçant sur l’Europe de l’Ouest une hégémonie sans partage jusqu’en 1958, il est en effet extravagant d’imaginer que des États qui dépendent entièrement d’eux pour leur sécurité et beaucoup pour leur approvisionnement et leur reconstruction (plan Marshall), qui abritent en outre sur leur territoire des bases américaines, puissent entrer en guerre les uns contre les autres. Enfin, lorsque la France quitte l’organisation militaire intégrée de l’Alliance atlantique (1966), c’est que sa force de dissuasion nucléaire est devenue opérationnelle : aucune agression directe contre elle de la part d’une puissance non nucléaire n’est donc plus envisageable. Dans ces conditions, affirmer que “l’Europe c’est la paix” est une fadaise doublée d’une mystification.

    La réalité, c’est que ce qu’on appelle la “construction européenne” et c’est une construction américaine de guerre froide : il ne s’est jamais agi que d’organiser économiquement la partie de l’Europe sous hégémonie américaine. On sait aujourd’hui que les services spéciaux américains ont abondamment financé les mouvements paneuropéens, et que la plupart des “Pères de l’Europe” ont été ce que les archives de la CIA désignent comme des hired hands ou mains louées, ce que je propose, dans ces 30 bonnes raisons pour sortir de l’Europe, de traduire par mercenaires ou domestiques appointés. D’ailleurs, nombre de ces Pères ont aussi eu une carrière à l’OTAN et/ou une retraite dorée dans des multinationales américaines.

    Quant à la pacification des relations entre les deux blocs de la guerre froide, elle n’a elle non plus strictement rien eu à voir avec la “construction européenne”. Elle s’est faite d’abord à l’initiative du général de Gaulle, qui parlait volontiers d’Europe de l’Atlantique à l’Oural, c’est-à-dire sans aucun rapport avec l’Europe américaine de Monnet et de ses compères, et pour partie en réaction à l’échec du seul plan européen qui n’a pas été inspiré ou patronné par les Américains (Plan Fouchet, 1961-1962) et que, pour cette raison, les partenaires d’alors de la Communauté économique européenne (CEE) ont fait capoter. De même, l’autre politique de détente européenne a été initiée par un autre État-nation du continent, et de nouveau hors du cadre de la CEE. C’est l’Ostpolitik de l’Allemand Willy Brandt, qui répond d’abord à des impératifs nationaux allemands. Les États-nations ont donc joué, dans la pacification de l’Europe, un rôle bien plus actif que la “construction européenne”.

    Ajoutons encore que, à Chypre, l’Union européenne (UE) n’a fait qu’entériner l’occupation et la colonisation illégale (depuis 1974) de 37 % d’un État qui en est devenu membre en 2004 (la République de Chypre) par un État candidat à l’Union (la Turquie) : situation parfaitement ubuesque ! Et l’UE n’a jamais sérieusement tenté quoi que ce soit, ni exercé la moindre pression significative sur la Turquie, afin de dégager une solution politique à ce conflit. Elle n’a pas davantage manifesté la moindre solidarité aux Chypriotes qui, depuis plusieurs mois, doivent faire face à des intimidations de la marine de guerre turque destinées à empêcher la mise en valeur de gisements gaziers situés dans la zone économique exclusive de la République de Chypre.


    De même l’UE n’a-t-elle jamais rien tenté de sérieux pour obtenir de la Turquie – qu’elle finance pourtant largement au titre de la pré-adhésion et, plus récemment, à celui du chantage aux migrants – qu’elle mette fin à ses innombrables violations des espaces maritime et aérien grecs, c’est-à-dire à la violation des frontières de l’Union ! Et lorsque, en 1996, la Turquie occupe les îlots grecs d’Imia (de nouveau menacés le printemps dernier), conduisant les deux pays au bord du conflit (trois morts dans le crash d’un hélicoptère grec), la Commission et le Conseil se taisent. Seul le Parlement vote une résolution, sans la moindre conséquence pratique, réaffirmant les droits souverains de la Grèce et invitant le Conseil à « prendre les mesures qui s’imposent pour améliorer les relations entre la Grèce et la Turquie ». Ce qu’il ne fera pas. C’est finalement une médiation américaine qui rétablira le statu quo.

    Or, la permanence de la menace turque, qui a connu un regain ces derniers temps sans plus de réaction de l’UE, contraint la Grèce à soutenir un effort militaire disproportionné : elle est le pays de l’OTAN qui consacre, après les États-Unis, la part la plus importante de son PIB aux dépenses militaires. Et cet effort a largement contribué à la “construction” de la fameuse dette grecque, tout en enrichissant les industries de défense allemande et française, dont la Grèce figure régulièrement parmi les clients les plus importants.

    Enfin, ce qu’on appelait alors les “Communautés européennes” a joué un rôle singulièrement toxique dans le déclenchement des guerres de sécession yougoslaves, et fait la démonstration que la prétendue solidarité européenne ne pèse rien dès que des intérêts nationaux puissants sont en jeu. En effet, si le 16 décembre 1991 le Conseil européen fixait à l’unanimité les critères de reconnaissance des indépendances slovène et croate et chargeait une commission d’arbitrage de les apprécier, l’Allemagne puis l’Autriche, soucieuses de se reconstituer un espace d’influence plus ou moins exclusive sur d’anciennes terres austro-hongroises devenues yougoslaves en 1918, violaient la décision du Conseil dès le 23 décembre, mettant ainsi le feu aux poudres. De même, les décisions européennes, comme je l’explique dans le troisième tome de La Grèce et les Balkans (Gallimard, 2013) contribuèrent-elles largement au déclenchement des hostilités intercommunautaires en Bosnie-Herzégovine. Donc non seulement la “construction européenne” n’a pas créé les conditions de la paix en Europe, mais elle s’est montrée incapable de contribuer à la maintenir.

    On parle beaucoup de “faire l’Europe”, et les euro-libéraux mettent en avant qu’il s’agit de la seule façon de s’opposer aux grandes nations comme les USA, la Chine ou la Russie. Mais n’est-ce pas contradictoire avec l’implication grandissante de l’OTAN au sein de l’UE ? Quels sont d’ailleurs ces liens avec cette organisation issue de la Guerre froide ?
    OTAN et UE ont une même origine – la Guerre froide – et un même but : l’intégration entre les deux rives de l’Atlantique. Comme l’ont de nouveau montré la rage de la Commission européenne à négocier le TAFTA dans la plus totale opacité, de manière à cacher la réalité à des opinions européennes largement hostiles à cet accord, et sa volonté de contourner les parlements nationaux dans la ratification du CETA.

    Si l’on examine la chronologie, la création en 1952 de la première Communauté européenne, celle du charbon et de l’acier (CECA), conçue par Monnet, agent d’influence américain – stipendié ou non peu importe – est suivie de peu par la substitution1, dans les importations des pays de cette CECA, du charbon américain en surproduction au charbon polonais, de bien meilleure qualité mais se trouvant dans une Europe avec laquelle les États-Unis veulent que les échanges commerciaux cessent. Puis les États-Unis accordent à la CECA, dès 1953, un prêt dont la contrepartie est l’augmentation des achats de leur charbon au coût minoré par des subventions au fret. Au final, la CECA a permis aux États-Unis d’exporter en Europe leur surproduction, ce qui conduit, à terme, à la fermeture des mines des États membres de la CECA eux-mêmes.

    Ajoutons que le premier ambassadeur américain près la CECA, nommé à la demande pressante de Monnet, est David Bruce, qui fut chef de la branche européenne de l’OSS (l’ancêtre de la CIA) puis un très interventionniste ambassadeur en France (1949–1952) ; il le sera ensuite en Allemagne (1957-1959) et au Royaume-Uni (1961-1969). Bruce sera également chargé de pousser à la constitution de la Communauté européenne de défense (CED), destinée à répondre aux exigences américaines d’un réarmement allemand après le début de la guerre de Corée (juin 1950). Car les États-Unis devant envoyer des troupes en Corée, ils demandent aux Européens de participer davantage à leur propre défense (ça ne date pas de Trump !). La CED est imaginée de nouveau par Monnet (ou par ceux qui lui soufflent ses idées) pour neutraliser les oppositions en Europe à la renaissance d’une armée allemande cinq ans après la fin du second conflit mondial, et le gouvernement français de René Pleven la fait sienne (octobre 1950). Le traité est signé en mai 1952, mais l’opposition des gaullistes et des communistes fera échouer sa ratification au Parlement français en août 1954.
    Parallèlement, en février 1952, la conférence de Lisbonne des États membres de l’Alliance atlantique adopte le rapport d’un comité de sages – dont Monnet, l’indispensable bonne à tout faire des Américains, est bien sûr l’un des membres – qui crée une organisation militaire intégrée, l’OTAN, destinée à placer sous commandement américain l’armée dite européenne (CED) qui n’a d’autre fonction que d’être une troupe de supplétifs. Enfin, on confie aussi à Bruce la tâche de promouvoir la création d’un organe politique européen unique. Moins d’un an après la mort de la CED, se réunit la conférence de Messine (juin 1955) qui lance la négociation sur les traités de Rome signés le 25 mars 1957. Et le 16 mai suivant, le Belge Paul-Henri Spaak, qui a été le principal artisan de ces traités, devient le 2e secrétaire général de l’OTAN, poste dans lequel un autre des “pères-signataires” de Rome en 1957, le Néerlandais Joseph Luns, sera le recordman de durée (1971-1984). OTAN et “construction européenne” sont intimement liées : elles ont toujours été les deux faces d’une même monnaie !
    Et la “défense européenne”, aujourd’hui comme au temps de la CED, n’a jamais été qu’un leurre. Lors de la négociation du traité de Maastricht, il s’est rapidement avéré que la plupart des États ne pouvaient concevoir que le “pilier” de défense et de sécurité commune fût autre chose que l’OTAN. On y a mis les formes parce que la France n’avait pas encore liquidé l’héritage gaullien, mais la réintégration de celle-ci dans cette organisation militaire sous commandement américain, ébauchée par Chirac, conclue par Sarkozy et ratifiée (malgré des engagements contraires) par Hollande, rend inutiles les circonlocutions d’autrefois. Ce n’est pas tant qu’il y ait une “implication grandissante” de l’OTAN dans l’UE, c’est juste qu’on dissimule moins une réalité consubstantielle à la “construction européenne”.
    Par ailleurs, pour les États de l’Europe anciennement sous hégémonie soviétique, l’intégration à l’UE a été l’antichambre de l’intégration à l’OTAN (raison pour laquelle Moscou a réagi si vigoureusement lors de l’association de l’Ukraine à l’UE). Et j’oserais dire que, pour eux, l’appartenance à l’OTAN est beaucoup plus importante que leur appartenance à l’UE.


    Mais ce qui est aujourd’hui le plus drôle, c’est que les orientations de la nouvelle administration américaine viennent troubler ce très vieux jeu. Parce que la monnaie européenne, largement sous-évaluée pour les fondamentaux de l’économie allemande (et largement surévaluée pour la plupart des économies de la zone que cette monnaie étouffe), est devenue un redoutable instrument de dumping au service des exportations allemandes, Trump range désormais l’UE parmi les ennemis des États-Unis et remet en cause le libre-échange avec cet espace. Alors qu’on sait que, par le passé, les États-Unis ont été à la fois les moteurs du libre-échange (qui est toujours la loi du plus fort… mais les États-Unis n’étant plus aujourd’hui les plus forts, ils n’y ont plus intérêt) comme de la monnaie unique. L’ouverture des archives américaines a ainsi révélé un mémorandum de la section Europe du département d’État américain, en date du 11 juin 1965, dans lequel Robert Marjolin, l’ombre de Monnet et vice-président de la Commission (1958-1967), se voyait prescrire « de poursuivre l’union monétaire à la dérobée (ou en rusant), jusqu’au moment où ‘l’adoption de ces propositions serait devenue pratiquement inéluctable »²… Ceci est à mettre en parallèle avec la décision du sommet européen de La Haye, en décembre 1969, de confier à une commission présidée par le Luxembourgeois Pierre Werner l’élaboration du premier projet (rapport remis en octobre 1970) d’union économique et monétaire.

    Par ailleurs, le même Trump n’a plus de mots assez durs pour l’OTAN qui, à ses yeux, coûte trop cher aux Américains. D’autant que ses relations avec Poutine semblent indiquer qu’il souhaite sortir de l’actuel remake de Guerre froide. On oublie souvent, en Europe, que le principe fondamental de la diplomatie américaine, depuis l’indépendance jusqu’en 1948, a été le refus des alliances permanentes. Ce n’est que le contexte de la Guerre froide qui a justifié le vote au Congrès de la résolution Vandenberg autorisant le président des États-Unis à conclure des alliances en temps de paix. Trump entend-il refermer ce qui pourrait n’avoir été qu’une parenthèse de soixante-dix ans ?

    Hostilité à l’UE et désintérêt pour l’OTAN – deux créations états-uniennes –, c’est en tout cas ce qui cause aujourd’hui une forme d’affolement chez beaucoup de dirigeants européens et dans la nomenklatura de l’UE : comment des marionnettes pourront-elles vivre sans leur marionnettiste ?

    Vous plaidez pour l’indépendance de la France, mais la France n’est-elle pas trop petite pour s’imposer sur la scène internationale ?
    Non. Hier comme aujourd’hui, la question de la taille est une fausse question. Je ne vais pas vous faire la liste de tous les Empires, colosses aux pieds d’argile – jusqu’à l’URSS –, qui ont péri non en dépit mais, en tout ou partie, à cause de leur taille et de leur hétérogénéité. Ni la liste des petits États qui ont profondément marqué l’histoire de l’humanité – les cités grecques plus que l’immense Empire perse – ou le monde contemporain, quoi qu’on pense par ailleurs de leur action – Israël, par exemple. Le petit Uruguay est aujourd’hui un laboratoire politique, économique et social qui a engrangé bien plus de réussites que ses deux voisins géants, l’Argentine et le Brésil.

    Un État n’est pas fort parce que son territoire est étendu ou sa population nombreuse. Il est fort parce que s’y exprime une volonté d’exister et de se projeter dans l’avenir en tant que peuple, une conscience d’avoir des intérêts communs, de former une communauté qui se traduit en volonté politique.

    L’UE n’est pas une volonté – parce les Européens ne forment pas et ne formeront pas un peuple, en tout cas pas avant très longtemps. Elle n’est pas davantage une addition de volontés. Parce que ses États membres, et les peuples dont ils sont l’expression, n’ont ni les mêmes intérêts, ni la même vision du monde, ni la même conception de leur rôle dans ce monde, ni le même mode de vie, etc. L’UE n’est jamais que la soustraction de vingt-huit ou vingt-sept objections à chaque décision qu’elle doit prendre, et chaque décision n’est, au final, que le plus petit commun dénominateur entre vingt-sept ou vingt-huit intérêts divergents. Un plus petit commun dénominateur qu’il faut à chaque fois négocier âprement pendant que passent les trains de l’histoire. On ne joue aucun rôle, on ne pèse rien quand on est un plus petit commun dénominateur : on ne fait que subir la volonté de ceux qui ont le courage de l’exprimer.


    En réalité, l’UE n’est que l’expression de vingt-sept lâchetés, de vingt-sept renoncements à exister par soi-même ; l’UE ne peut-être qu’un monstre mou, un géant aboulique et privé d’agilité. Aujourd’hui comme hier, et peut-être plus qu’hier, mieux vaut être une puissance moyenne, agile, qui sait ce qu’elle veut et coopère tous azimuts avec d’autres, sur la base de l’égalité et des avantages mutuels, plutôt qu’une partie impuissante d’un Empire impotent – plutôt le roseau que le chêne, pour paraphraser La Fontaine.

    Par ailleurs, que dire d’un pays comme la Belgique, morcelée de l’intérieur et de faible envergure tant du point de vue géographique et militaire que du point de vue démographique ? Pablo Iglesias pour les mêmes raisons refuse d’envisager une sortie de l’UE. La sortie n’est-elle pas l’apanage des nations privilégiées ?
    Comme je l’ai dit plus haut, la question n’est pas la taille mais la volonté de faire communauté politique. Il y a, je crois, 193 États membres de l’ONU, c’est-à-dire qu’il n’y a jamais eu autant d’États sur notre planète, et des États de toutes tailles. Prétendre donc que le temps des États nationaux serait révolu est une baliverne : nous vivons précisément le triomphe des États nationaux, indépendamment de leur taille, du niveau de leur PIB ou de l’importance de leur population.

    En revanche, plus vous éloignez le citoyen des centres réels de décision, plus vous soustrayez le pouvoir réel à tout contrôle démocratique réel, plus vous décrédibilisez à la fois la démocratie et l’État national. Mais, contrairement au plan des eurolâtres, cette décrédibilisation ne se traduit pas par une demande de “plus d’Europe”, elle produit un repli vers l’infranational. Puisqu’on sait que l’État national ne protège plus et que l’Europe ne protège pas, on se replie vers des identités – réelles ou fantasmées – culturelles, linguistiques, religieuses… dont on attend une autre forme de protection. Et ce phénomène est particulièrement sensible dans certains États de formation récente ou fragiles du fait de régionalismes forts comme la Belgique, l’Espagne ou l’Italie.

    Quant aux responsables politiques de gauche dite radicale ou populiste, leur pusillanimité à l’égard de la question européenne tient à mon avis à deux méprises qui risquent d’être mortelles pour eux. Ils pensent qu’on ne peut pas gagner une élection en expliquant pourquoi la sortie de l’UE est indispensable à la reconstruction de la démocratie et de l’État social. Mais lors du référendum grec de 2015, on a pilonné les Grecs, du soir au matin et du matin au soir, avec une propagande extravagante professant que s’ils votaient “non”, la Grèce serait expulsée de l’euro et de l’Union. Et les Grecs ont pourtant voté “non” à 61,31 %, avec une participation de 62,5 %. Ils n’étaient certes pas tous pour la sortie, mais ils en ont tous pris le risque. Puis il y a eu le Brexit. De même, les calamiteux taux de participation aux élections européennes (on a atteint 13 % en Slovaquie en 2014, et péniblement 43 % dans l’ensemble des pays, seulement parce que certains pratiquent le vote obligatoire) sont un excellent indicateur de l’absence totale d’adhésion populaire à ce projet. Et on va probablement voir, au printemps prochain, un affaissement supplémentaire de la participation conjugué à des gains substantiels pour les partis plus ou moins hostiles à l’UE – avec à la clé un parlement probablement très différent de l’actuel et une Commission où siégeront sans doute un nombre non négligeable d’eurosceptiques plus ou moins déterminés.

    La deuxième raison, c’est qu’à gauche on continue à s’aveugler sur la nature intrinsèque, c’est-à-dire non réformable, de l’UE. Autrement dit à prendre les vessies ordolibérales et libre-échangistes de l’UE pour les lanternes de l’internationalisme.


    La France forme-t-elle vraiment un couple avec l’Allemagne ? De l’extérieur, on a plutôt l’impression d’un maître et son valet suivant à la lettre ses demandes…
    Cette histoire de “couple franco-allemand” relève de la mystification. Comme toute relation bilatérale, celle de la France et de l’Allemagne est fondée sur un rapport de force et connaît des hauts et des bas – plus de bas que de hauts si on fait le compte avec un minimum de bonne foi.
    La fable du couple commencerait avec le tant célébré traité franco-allemand de 1963. Initiative française prise en réponse à l’échec du Plan Fouchet dont j’ai parlé plus haut, ce traité est signé par le chancelier Adenauer. Mais il déchaîne, au sein de son gouvernement comme au Bundestag, une telle opposition haineuse qu’Adenauer fut obligé de s’engager à démissionner pour obtenir sa ratification et que le Bundestag lui ajouta – cas unique dans l’histoire diplomatique –, un préambule interprétatif unilatéral – en partie rédigé par l’inévitable Monnet ! – qui… vidait le texte de son contenu politique en précisant que les liens de la RFA avec les États-Unis primeraient toujours ses engagements envers la France. Là-dessus, Ludwig Erhard remplaça Adenauer à la chancellerie : il était l’homme des Anglo-Américains depuis 1947, et sans doute le politique allemand le plus francophobe de son temps. Sacré mariage !

    Le seul véritable couple fut celui d’Helmut Schmidt et Valéry Giscard d’Estaing (1974-1981). On sait combien Mitterrand vécut mal la réunification à marche forcée imposée par Kohl et sa politique yougoslave à l’opposé de ce que voulait la France. Puis vint le temps – bientôt un quart de siècle – où la France, prisonnière du piège mortel de l’euro, se trouve confrontée aux perpétuelles injonctions allemandes à faire les “réformes nécessaires” pour satisfaire à des règles toujours plus imbéciles et contraignantes d’une monnaie unique absurde. Vingt-cinq ans durant lesquels les gouvernements français – pour préserver le “couple” et par délire eurolâtre – ont renoncé à défendre les intérêts de la France face au gouvernement d’un pays, l’Allemagne, qui mène une politique économique et monétaire dictée par ses seuls intérêts : si couple il y a, il n’est plus que celui du patron et de son larbin.

    Vous parlez de l’influence ordolibérale sur la volonté de soustraire des décisions politiques (liées à des élections) les enjeux économiques. Antonin Cohen qui retrace les liens entre Vichy et la communauté européenne rappelle que la déclaration de Schuman de 1950 visait précisément à promouvoir l’avènement d’une technocratie économique – une déclaration qui rappelle les théories d’inspiration technocratique des années 1930. D’où vient cette méfiance profonde pour la politique et la démocratie sous toutes ses formes ?


    Si on lit Monnet, que de Gaulle définit comme l’inspirateur de toute cette “construction”, ce qui frappe c’est la méfiance qu’il a pour les peuples. En la résumant avec à peine d’exagération pédagogique, la doctrine Monnet c’est : les peuples sont bêtes et donc inclinés à faire des bêtises ; notre rôle, à nous gens raisonnables et sachants, est de les empêcher d’en faire. En conséquence et dès l’origine, le principe central de la “construction européenne” consiste à dessaisir les instances démocratiques des leviers essentiels pour remettre ceux-ci entre les mains de sages qui savent mieux que les peuples ce qui est bon pour eux.

    C’est aussi vieux que la politique ! Lorsque Hérodote, au Ve siècle avant notre ère, fait dialoguer trois hiérarques perses sur le meilleur régime politique, il met les mots suivants dans la bouche de celui qui défend l’oligarchie : « choisissons un groupe d’hommes parmi les meilleurs, et investissons-les du pouvoir ; car, certes, nous serons nous-mêmes de leur nombre, et il est dans l’ordre de la vraisemblance que les hommes les meilleurs prennent les meilleures décisions ». Monnet ET la “construction européenne” sont tout entiers là-dedans.

    Car en dépit de ce que serinent certains, l’Europe n’est pas une “belle idée” détournée de ses fins initiales. Le projet européen vise, dès l’origine et intrinsèquement, à placer en surplomb des démocraties nationales une oligarchie qui vide ces dernières de tout contenu, qui les réduit à des formes creuses, à un rite électoral sans signification puisque ce qui est en jeu n’est plus que de désigner celui qui conduira, dans son pays, la politique unique déterminée dans le sein de l’oligarchie européenne à partir des principes qu’elle a fait graver dans le marbre des traités.

    En outre, l’échec de la CED convainc Monnet que, pour parvenir au but, il faut que les peuples l’ignorent. Il convient donc, plutôt que de présenter un projet fédéral condamné à l’échec, d’empiler les faits accomplis d’apparence technique qui, à terme, rendront inéluctable la réalisation de l’objectif politique. La “méthode européenne” n’a jamais consisté qu’à accumuler les micro coups d’État technocratiques, invisibles sur le moment, qui dessèchent les démocraties nationales de l’intérieur, les privant d’efficacité et de crédibilité. Si l’on refuse de voir ces réalités, on se réduit à l’impuissance face au Moloch européen.


    Alors oui, l’illusion technocratique est au cœur de l’histoire du XXe siècle : les tyrannies totalitaires comme les démocraties nationales d’après-guerre qui ont cherché à concilier démocratie, efficacité et justice partagent ce goût des “experts”. Mais, dans le cas européen, la technocratie est un instrument au service d’un projet oligarchique.

    Ainsi voit-on en Grèce et en Italie, en novembre 2011, à moins d’une semaine d’intervalle, l’UE combiner, et en réalité imposer, le remplacement de deux chefs de gouvernement issus d’élections, un social-démocrate et un conservateur (Papandréou et Berlusconi), par deux technocrates sans la moindre légitimité démocratique : Papadimos, ex-banquier central grec et ex-vice-président de la Banque centrale européenne, et Monti, ex-professeur en économie et management et ex-commissaire européen, tous deux membres de haut niveau de la nomenklatura technocratique européenne. Et l’on voit aujourd’hui en France un gouvernement qui est à la fois le plus technocratique, le plus autoritaire et le plus méprisant pour les droits du Parlement qu’il entend réduire, en même temps qu’il est le plus européen. Exemple qui, pas plus que les deux autres, ne doit rien au hasard mais doit tout à la réalité du projet européen.

    Notes :
    1 Voir Régine Perron, Le Marché du charbon, en enjeu entre l’Europe et les États-Unis de 1945 à 1958 (Publications de la Sorbonne, 2014).
    2 « The State Department also played a role. A memo from the European section, dated June 11, 1965, advises the vice-president of the European Economic Community, Robert Marjolin, to pursue monetary union by stealth. It recommends suppressing debate until the point at which “adoption of such proposals would become virtually inescapable“. » Ambrose Evans-Pritchard, « Euro-federalists financed by US spy chiefs », The Telegraph (19 septembre 2000).

    #UE #Union_européenne #Communautés_européennes #nomenklatura #guerre #Paix #Allemagne #Belgique #Chypre #France #Italie #Turquie #Yougoslavie #construction_européenne #OTAN #TAFTA #CETA #CECA #BREXIT

  • Moscow & NATO Playing a ’Dangerous Tit-For-Tat Game’ in the Ukraine
    https://therealnews.com/stories/moscow-nato-playing-a-dangerous-tit-for-tat-game-in-the-ukraine

    I keep asking myself, if Americans really were asked to fulfill Article 5 of the NATO treaty for a place like Tbilisi, or even a place like Riga, or any of those countries we’ve now expanded NATO into or proposed expanding NATO into, like Ukraine, what would Americans say when they were told that full conscription was in process, full mobilization was in process, war taxes are going to be levied, and we’re going to war for a city you can’t even pronounce and couldn’t find on a map? That’s what we’re talking about. And oh, by the way, Russia is generally speaking cheek and jowl with that city, whereas we’re ten thousand miles away.

    #OTAN #Russie

  • Baudour : de nombreuses infractions en matière de dumping social à nouveau constatées sur le chantier Google
    https://www.rtbf.be/info/regions/detail_baudour-de-nombreuses-infractions-en-matiere-de-dumping-social-a-nouveau

    Lors d’une deuxième opération menée sur le chantier Google à Baudour, l’ Auditorat du travail du Hainaut a constaté de nombreuses infractions dans le domaine du dumping social . Des badges d’accès ont été bloqués.

    L’opération menée entre 7h30 et 22h30 sur le site Google a révélé plusieurs infractions sociales. L’action a mobilisé 23 inspecteurs spécialisés en dumping, venus de toute la Belgique, trois policiers et dix interprètes en langues bulgare et roumaine.

    Au terme de l’opération, l’Auditorat du travail a apposé des scellés virtuels, en bloquant des badges d’accès de 105 travailleurs qui ont donc été interdits de chantier. Vingt-neuf de ces travailleurs ont produit de faux documents de détachement « A1 » et ces faux ont été confirmés par la Bulgarie. Septante-six autres travailleurs roumains n’avaient pas de document de détachement « A1 » malgré un premier contrôle organisé précédemment qui avait déjà mis le même problème en évidence.

    Selon l’Auditorat, ces travailleurs seraient en outre de faux indépendants. « Ils ne savent pas tous sous quel statut ils travaillent », a expliqué Charles-Eric Clesse, auditeur du travail. « Certains disent qu’ils reçoivent des ordres, d’autres ne savent pas s’ils sont indépendants ou salariés. »

    Une première intervention de l’Auditorat du travail menée il y a trois semaines sur ce même chantier à Baudour avait notamment débouché sur plusieurs auditions d’employeurs roumains et bulgares.

    #google #fraude #esclavage #Belgique #travailleurs_détachés #travail #dumping_social

  • Les Grecs manifestent à Athènes pour l’anniversaire du soulèvement de 1973 afp/puga - 17 Novembre 2018 - RTS
    https://www.rts.ch/info/monde/10002507-les-grecs-manifestent-a-athenes-pour-l-anniversaire-du-soulevement-de-1

    Au moins 12’000 Grecs ont manifesté samedi à Athènes à l’occasion du 45e anniversaire de l’insurrection estudiantine de 1973, réprimée dans le sang par le régime des colonels soutenu par les Etats-Unis, selon les chiffres de la police.

    On pouvait voir des pancartes dénonçant l’impérialisme, l’Otan, les guerres menées par les Etats-Unis ainsi que l’austérité.

    La manifestation s’est déroulée sous haute surveillance policière, plus de 5000 agents ayant été déployés dans le centre d’Athènes.

    Incidents mineurs
    Après le défilé, des incidents mineurs ont éclaté lorsqu’un petit groupe d’anarchistes a lancé des bombes incendiaires sur le quartier général de la police.

    Celle-ci a riposté avec des grenades assourdissantes pour les disperser tandis que des dizaines de jeunes ont érigé des barricades dans le quartier d’Exarchia et lancé des bombes incendiaires depuis le bâtiment de l’Université polytechnique, d’où était parti en 1973 le soulèvement contre le régime des colonels.

    Le Premier ministre Alexis Tsipras a salué la commémoration et appelé à « de nouveaux combats » contre le fascisme, l’extrême droite et « l’absolutisme néo-libéral ».

    Répression violente
    Au moins 24 personnes avaient été tuées en 1973 lors de la répression par l’armée du soulèvement des étudiants, un évènement considéré comme un épisode ayant contribué à la fin du régime des colonels un an plus tard en 1974.

    #Grèce #USA #dictature #OTAN

  • Uranio impoverito, la storia infinita

    Il caso «Sindrome dei Balcani» scoppia dodici anni fa. Cominciano ad ammalarsi o a morire di cancro militari italiani di ritorno dalle missioni nei Balcani. Responsabili sarebbero i bombardamenti della Nato del 1995 e 1999 su Bosnia Erzegovina, Serbia e Kosovo, con proiettili all’uranio impoverito. Cosa sta accadendo oggi in Italia e oltre Adriatico?

    Nel 2001 scoppia il caso “Sindrome nei Balcani”, con l’emergere dei primi casi di militari italiani ammalatisi o deceduti al rientro dalle missioni in Bosnia Erzegovina e Kosovo. Due paesi che erano stati bombardati dalla Nato, nel 1995 e nel 1999, con proiettili all’uranio impoverito (DU). Da allora è una battaglia: tra chi nega l’esistenza di una correlazione tra esposizione al DU e malattia, e chi sostiene il contrario con numeri di morti e malati alla mano e sentenze di condanna a carico del ministero della Difesa.

    L’uranio impoverito (#Depleted_Uranium) deriva da materiale di scarto delle centrali nucleari e viene usato per fini bellici per il suo alto peso specifico e la sua capacità di perforazione. Quando un proiettile al DU colpisce un bunker o un carro armato, vi entra senza incontrare alcuna resistenza e alla sua esplosione ad altissima temperatura rilascia nell’ambiente nano-particelle di metalli pesanti. Ad oggi, viene confermato dalla ricerca scientifica che questi proiettili sono pericolosi sia per la radioattività emanata sia per la polvere tossica che rilasciano nell’ambiente. Una “neverending story” anche per i cittadini di Bosnia, Serbia e Kosovo: nonostante il grande battage mediatico, poco si è fatto per analizzare in maniera approfondita le conseguenze di quei bombardamenti.

    Battaglia giuridica e politica

    Una sentenza dello scorso 18 marzo, emessa dalla Corte dei Conti della Regione Lazio, accoglie il ricorso presentato da un militare ammalatosi di tumore, al quale il ministero della Difesa aveva rigettato la richiesta di pensione privilegiata. Il ministero della Difesa ha rifiutato la richiesta in base al parere negativo del Comitato di verifica per le cause di servizio che ha definito la malattia del militare di tipo ereditario e non dipendente dal servizio svolto nei Balcani. Dalla sentenza della Corte laziale emergono invece due fatti: la diagnosi del Comitato è errata e la malattia è correlata alle condizioni ambientali in cui è stato prestato il servizio in Kosovo.

    Il Caporal Maggiore dell’esercito italiano, recita il testo della sentenza, “(...) aveva soggiornato presso la base militare italiana vicino a Peć/Peja e aveva svolto attività di piantonamento (...), in ambiente esterno sottoposto a intemperie e devastato dai bombardamenti; (...), aveva svolto altri servizi tra cui quello di pulizia della zona antistante la caserma, sistemazione dei magazzini, scorta al personale civile, servizi di pattugliamento consistenti in perlustrazione del territorio con mezzi militari”. Al rientro dal Kosovo il militare viene ricoverato a Milano, poi messo in congedo illimitato e ricoverato in altro centro clinico: gli viene riscontrata una linfadenopatia in diverse parti del corpo e un adenocarcinoma intestinale.

    Diverse perizie medico legali nominate nella sentenza, attestano che nei tessuti neoplasici del militare sono state trovate molte nano-particelle “estranee al tessuto biologico, che quindi testimoniano un’esposizione a contaminazione ambientale”. Tra le numerose sentenze vinte dall’avvocato Tartaglia, legale dell’Osservatorio Militare, questa è la prima che mette in correlazione la malattia ai pasti consumati nelle cucine delle mense sottoufficiali.

    “Dagli atti risulta che tutti gli alimenti distribuiti alla mensa e allo spaccio della base ove prestava servizio il ricorrente, compresa l’acqua utilizzata sia per l’alimentazione sia per l’igiene personale, erano oggetto di approvvigionamento in loco, e che era stato consentito ai militari di acquistare autonomamente carne macellata e verdure coltivate in loco” e dunque “quei luoghi dichiaratamente inquinati da DU e dalle sue micro polveri sono da porsi in rapporto etiologico con l’insorgenza della neoplasia”. Un dato certo è che la zona del Kosovo posta sotto protezione del contingente italiano è quella che nel 1999 fu più bombardata (fonte Nato/Kfor): 50 siti per un totale di 17.237 proiettili.

    “Sono 307 i militari morti e oltre 3.700 i malati, per quanto riguarda i dati di cui siamo in possesso” ha dichiarato Domenico Leggiero - portavoce dell’Osservatorio Militare - a Osservatorio Balcani e Caucaso (Obc), raccontando di tutti i recenti sforzi per ottenere risposte dalle rappresentanze politiche ai diversi problemi irrisolti. Il 9 maggio, Leggiero ha incontrato un gruppo di deputati e senatori del Movimento 5 Stelle e il 3 giugno è stato il turno dell’incontro della delegazione formata da Leggiero, familiari di militari deceduti e militari ammalati con Domenico Rossi, indicato da Scelta Civica quale parlamentare di riferimento per la questione uranio impoverito. Incontri importanti, dice Leggiero: “Perché per la prima volta abbiamo avuto incontri ufficiali con forze politiche che hanno deciso di affrontare a fondo la questione e proposto una strategia per chiarire definitivamente il nesso tra le malattie e il DU, oltre a lavorare su normative apposite per sostenere i malati dal punto di vista dell’assistenza sanitaria ed economica”.

    L’intento degli incontri è anche risollevare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla «Sindrome dei Balcani» che, secondo i dati dell’Osservatorio, continua a mietere vittime. Per questo, lo scorso 5 giugno, davanti a Montecitorio, hanno manifestato quasi duecento persone tra militari ed ex-militari ammalati, familiari e rappresentanti di associazioni. Racconta Leggiero a Obc: “Un pomeriggio intenso. Abbiamo proiettato video del Pentagono, fatto conoscere al pubblico le sentenze e distribuito documenti sul tema DU, resi pubblici in tutto il mondo eccetto che in Italia". Aggiunge inoltre che non hanno ancora ottenuto l’incontro richiesto con la presidente della Camera, Laura Boldrini, e non hanno ottenuto risposta da PD, Pdl e Fratelli d’Italia. Ma Scelta Civica e Movimento 5 Stelle hanno assicurato che si terrà presto una seduta ad hoc in Commissione difesa. Presenti Il deputato Domenico Rossi che ha ribadito il forte impegno personale e di Scelta Civica «per sciogliere i nodi fondamentali di questa vicenda», ma anche il deputato Matteo Dell’Osso del M5S, membro della Commissione affari sociali che ha incontrato alcune vittime del DU o loro familiari.

    Concludeva in maniera netta il testo del comunicato stampa dell’iniziativa: “I loro diritti sono affidati alla magistratura e sono 17 le sentenze di condanna per l’amministrazione della Difesa in vari ordini di giudizio. Tar, tribunali civili, corte dei conti di varie zone d’Italia indicano l’uranio come colpevole delle malattie dei militari e condannano l’amministrazione perché sapeva ed aveva taciuto i pericoli”. I militari, ma anche civili che hanno operato nei Balcani, si sono rivolti agli avvocati per non aver ottenuto dallo stato il riconoscimento della causa di servizio e gli indennizzi per i quali era stato istituito un fondo di 30 milioni di euro con la legge finanziaria del 2008. Come emerge dalla relazione finale della terza Commissione d’inchiesta sul DU, approvata lo scorso 9 gennaio, ad oggi sono pochissime le domande prese in esame e accolte.
    DU che appare e scompare

    Hadžići, località a 27 km da Sarajevo, è uno dei siti bosniaci maggiormente bombardati dalla Nato con proiettili al DU nell’estate del 1995. Con la fine della guerra, circa 5.000 abitanti, tutti serbo-bosniaci, sfollano nella cittadina di Bratunac che gli accordi di pace di Dayton attribuiscono alla Republika Srpska, una delle due entità della Bosnia Erzegovina.

    Agli inizi degli anni duemila la primaria dell’ospedale di Bratunac, Slavica Jovanović, aveva rilevato un allarmante numero di morti per tumore tra i cittadini provenienti da Hadžići. “Era stata inascoltata, aveva denunciato che in città i morti per tumore tra gli sfollati di Hadžići erano quattro volte superiore al resto della popolazione” ha dichiarato lo scorso 31 marzo, all’agenzia tedesca Deutsche Welle, Jelina Đurković. La Đurković, che nel 2005 presiedeva la Commissione di indagine governativa della Bosnia Erzegovina sulle conseguenze dei proiettili al DU, sottolinea infine che nel rapporto della Commissione erano stati inseriti i dati sulle conseguenze del DU e il dettaglio delle azioni da perseguire per risolvere alla radice il problema, ma nulla è stato messo in atto.

    Riguardo agli sfollati di Hadžići è intervenuto sulla Deutsche Welle anche il vicesindaco di Bratunac: “Sono circa 800 i morti per tumore, in base ai dati che abbiamo ricevuto dalle autorità ospedaliere ed ecclesiastiche dove viene registrata la causa del decesso”. Di diverso avviso Irena Jokić, a capo del Servizio di medicina sociale dell’Istituto sanitario della Federazione della Bosnia Erzegovina, intervistata da Dnevni List lo scorso 19 aprile: “Nel 2008 abbiamo analizzato i dati sanitari degli abitanti di Hadžići per valutare se vi era un aumento di malattie neoplasiche. Non abbiamo rilevato un aumento significativo rispetto alla media nazionale”. La Jokić dichiara inoltre che l’analisi è stata ripetuta nel 2010 ed è emerso un aumento medio in linea con i due anni passati, che era stato dello 0.5% nel 2008 e 0.1% nel 2009. Conclude che non è possibile asserire con certezza il nesso tra affezioni tumorali ed esposizione all’inquinamento provocato dai proiettili al DU ma - aggiunge - che se con la fine della guerra si fossero avviate ricerche scientifiche ed epidemiologiche accurate, oggi avremmo la risposta alla domanda.

    Sempre rispetto a Hadžići, durante recenti operazioni di sminamento sono stati ritrovati proiettili al DU nei pressi di una delle fabbriche dell’area pesantemente bombardata nel 1995. La notizia è stata data dal quotidiano bosniaco Dnevni Avaz il 18 maggio. E’ stato richiesto l’immediato intervento dell’Agenzia nazionale per la sicurezza radioattiva e nucleare (DARNS - Državna regulatorna agencija za radijacijsku i nuklearnu sigurnost), il cui direttore Emir Dizdarević ha dichiarato: “I nostri ispettori sono intervenuti subito sul luogo e dopo aver verificato con le apparecchiature l’esistenza dei proiettili hanno dato agli sminatori tutte le istruzioni su come raccoglierli, poi li abbiamo stoccati”.

    Anche Bećo Pehlivanović, professore ordinario di Fisica dell’Università di Bihać, ha parlato del problema del territorio contaminato. Sulle pagine del Dnevni Avaz dello scorso 27 maggio ha dichiarato: “Purtroppo non è mai stata fatta un’analisi accurata, perché mancano i fondi e le necessarie attrezzature”. Pehlivanović ha inoltre aggiunto che sono stati ritrovati di recente resti al DU in territori non inclusi nelle liste Nato: “Abbiamo indizi che il territorio sia contaminato anche nella regione della Krajina bosniaca, vicino alla città di Ključ”. Un problema che oltretutto si trascinerà nel tempo: "I resti di queste munizioni al DU sono tossici e con un’emivita, cioè tempo di dimezzamento, di circa 4.5 miliardi di anni” ha concluso.
    Montagne di scorie e tumori in aumento

    Anche in Serbia il tema degli alti quantitativi di scorie raccolte negli interventi di bonifica dei terreni bombardati dalla Nato nel 1999, è stato al centro dell’attenzione dei media di quest’anno. Oltre a questo, sono emerse denunce delle associazioni di ex-militari dell’esercito serbo che si trovavano nei pressi dei siti bombardati, di alti numeri di mortalità tra i reduci. Mentre alcuni media, come il quotidiano Politika, continuano ad offrire notizie sull’andamento dei procedimenti giudiziari avviati dai militari italiani.

    Il 29 marzo sul media online Srbija Media viene pubblicata la lista delle località bombardate nel 1999 e poi bonificate, rese note dal generale in pensione e specialista in difesa da attacchi atomico-biologico-chimici, Slobodan Petković. “Erano zone pericolose per l’eco-sistema e per le persone, così nei primi cinque anni dopo il bombardamento è stata fatta la decontaminazione di cinque zone: a nord di Vranje, a sud e sudovest di Bujanovac, a Bratoselce e Reljan entrambi nella zona della città di Preševo”.

    La mappatura dei luoghi contaminati era stata fatta, subito dopo il conflitto, dall’esercito serbo in collaborazione con altre istituzioni del paese, come l’Istituto di scienze nucleari Vinča di Belgrado. Il direttore dell’ente nazionale di stoccaggio JP Nuklearni objekti, Jagoš Raičević, spiega i motivi: “Considerata la pericolosità, si doveva iniziare subito la bonifica. Ma all’inizio la Nato ci mandò delle mappe, non so se per volontà o meno, sbagliate. Alcuni dei siti da loro segnalati non erano stati toccati dai bombardamenti, mentre abbiamo trovato proiettili al DU in luoghi che non risultavano nella lista della Nato”.

    Il generale Slobodan Petković racconta che quei territori sono stati ripuliti, i resti di proiettili radioattivi sono stati stoccati e le decine di tonnellate di terra contaminata sotterrate in luoghi posti sotto sorveglianza. Un “cimitero” di DU che allarma: “I resti dei proiettili sono stati inseriti in sacchi di plastica e container appositi, poi messi nel deposito di materiale radioattivo dell’Istituto Vinča”. Esattamente nei sotterranei del palazzo numero 4 a soli 12 chilometri da Belgrado. Risale solo alla fine del 2011 lo spostamento delle scorie in luogo più sicuro, quando è stato aperto nelle vicinanze un deposito costruito in base a standard europei, definito dal media serbo Radio B92 il più grande deposito di materiale radioattivo d’Europa. Slobodan Čikarić - presidente dell’Associazione nazionale contro il cancro - conclude allarmato, sulle pagine di SMedia: “E’ materiale che ha bisogno di miliardi di anni per divenire inerte. In caso di terremoto, alluvione o incendio di grandi proporzioni... siamo a poca distanza dalla capitale, abitata da due milioni di abitanti!”.

    Ad aprile l’attenzione dei media viene attratta anche da altri due aspetti: il dato nazionale sui malati di tumore e l’alto numero di reduci dell’esercito che, secondo alcune associazioni, si sarebbero ammalati a causa dell’esposizione al DU. Il quotidiano serbo Blic del 14 aprile ha aperto con i dati dell’Istituto per la Salute pubblica Batut: nell’ultimo decennio i malati di leucemia e linfoma sono aumentati del 110 per cento, mentre il numero dei morti per le stesse affezioni è salito del 180%. Sullo stesso giornale è intervenuto Slobodan Čikarić, presidente dell’Associazione nazionale contro il cancro: “Abbiamo analizzato l’andamento dei tumori maligni nel paese tra il 2010 e il 2011. Oltre al dato denunciato dall’Istituto Batut, posso aggiungere che c’è stato un aumento di tumori solidi del 20%”. E prevede un aumento nel prossimo anno: “Perché il tempo di latenza delle affezioni cancerogene solide da uranio impoverito è di 15 anni, mentre è di 8 anni per le leucemie e i linfomi. Infatti, questi ultimi hanno avuto un picco nel 2006”.

    Il 2 maggio, il quotidiano Večernje Novosti apre con il titolo “L’uranio della Nato uccide i veterani”. La denuncia è di Dušan Nikolić, presidente dell’associazione degli ex-militari della città di Leskovac: ”Solo negli ultimi tre mesi, nella nostra municipalità sono morti più di cento reduci della guerra. Si tratta per lo più di militari che hanno operato in Kosovo, di un’età che va dai 37 ai 50 anni. Il 95% è morto di cancro”. Nikolić spiega che ha scoperto i dati grazie alle denunce dei familiari degli ex-militari deceduti, i quali si sono rivolti all’associazione per cercare di ottenere il riconoscimento della causa di servizio. Saša Grgov, primario di medicina interna del Servizio sanitario della città, aggiunge: “E’ possibile, considerato che il numero di tumori in città è in crescita. Sebbene il Servizio sanitario non stia facendo un monitoraggio specifico sulla categoria dei reduci che hanno operato in zone contaminate da DU”.

    Secondo Predrag Ivanović, presidente dell’Unione delle vittime militari di guerra, la situazione dei reduci di Leskovac è stata pompata per interessi interni all’associazione che li rappresenta. Sebbene dichiari, per il quotidiano Vesti del 4 maggio, che il problema esiste: “Anche le nostre informazioni indicano che è in crescita il numero dei malati di cancro tra coloro che hanno partecipato al conflitto. Ma purtroppo non abbiamo un numero nazionale esatto, perché ancora oggi nessuno sta facendo una specifica raccolta dei dati“.

    In sintesi, dall’Italia ai Balcani, un panorama di cui non si vede ancora l’orizzonte. Né per i militari italiani - e le centinaia di civili volontari delle organizzazioni umanitarie - né per i cittadini di Bosnia Erzegovina, Serbia e Kosovo.

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