La transizione verso le energie rinnovabili è una necessità globale, ma non per questo esente da scelte. In Sicilia i progetti di una multinazionale sono l’occasione per chiedersi se la direzione presa sia quella giusta.
Verde in primavera, dorato d’estate, l’entroterra della Sicilia offre panorami a perdita d’occhio. Agrumeti, campi di grano, colline lasciate a foraggio. Spostarsi da Catania a Trapani significa attraversare l’isola da una parte all’altra: la prima con le sue testimonianze greco-romane, la seconda che risuona ancora oggi delle influenze arabe. A collegarle c’è un’autostrada che sembra tutt’altro, tra cantieri infiniti, cambi di corsia e lunghi tratti in cui non ci si sente granché sicuri. L’andatura forzatamente lenta permette di accorgersi di come questi territori stiano a poco a poco cambiando. Bianche pale eoliche a incoronare le colline e scintillanti pannelli solari che costeggiano il guard rail sono una presenza a cui, con il passare dei chilometri, l’occhio si abitua.
D’altra parte non è un mistero che la Sicilia stia vivendo un nuovo boom legato alle energie rinnovabili: a inizio anni Duemila a farla da padrone furono gli investimenti nell’eolico, con tanto di tentativi di lucrarci sopra da parte di Cosa nostra; da qualche tempo, invece, è diventata terra d’elezione per i campi solari.
Le emergenze internazionali legate alla crisi climatica e i riflessi geopolitici del conflitto russo-ucraino costituiscono la cornice entro cui, oggi, le istituzioni sono chiamate a definire le strategie energetiche. L’impegno dell’Ue sul fronte delle rinnovabili è forte: il Pnrr prevede miliardi di euro di finanziamento per la produzione di energia verde. In quest’ottica – regioni come la Sicilia – diventano ricettori naturali degli investimenti: l’isola è terra di vento e, soprattutto, di sole.
Ma quali sono le conseguenze a livello territoriale dei crescenti interessi legati alle rinnovabili e ai fondi stanziati per la loro promozione?
IrpiMedia, con il supporto di Journalismfund Europe, ha deciso di andare sui territori, nel tentativo di capire meglio gli impatti sociali di un fenomeno destinato a segnare il futuro dei luoghi che viviamo. Per farlo abbiamo scelto di concentrare l’attenzione su due progetti – uno in fase di realizzazione a #Paternò, in provincia di Catania, e l’altro a #Mazara_del_Vallo (Trapani) – che nell’ultimo anno hanno attirato l’interesse dell’opinione pubblica.
A realizzarli è #Engie, multinazionale del settore che ha da poco chiuso un accordo con #Amazon. Il colosso dell’e-commerce da tempo è impegnato a portare avanti, a livello internazionale, un programma di finanziamento degli impianti di produzione di energia rinnovabile. «Questi con Engie rappresentano i nostri primi progetti su larga scala in Italia, ci daranno una mano nel percorso che ci porterà a usare il cento per cento di energia rinnovabile entro il 2030», ha detto, a fine 2020, il direttore di #Amazon_Energy #Nat_Sahlstrom. La dichiarazione, a una prima lettura, potrebbe far pensare che tra qualche anno le attività di Amazon in tutto il pianeta saranno alimentate direttamente da energia verde. In realtà tra la multinazionale che fa capo a #Jeff_Bezos e le aziende produttrici, come Engie, sono stati sottoscritti dei #power_purchase_agreement (#Ppa).
Un mare di silicio
Carcitella è il nome di una contrada che si trova al confine tra i comuni di Mazara del Vallo e Marsala. Immersa nelle campagne trapanesi, è solcata da un reticolo di piccole strade provinciali. È da queste parti che si trova uno degli impianti realizzati da Engie. Dietro una recinzione metallica, ci sono filari e filari di pannelli solari: 122 mila moduli fotovoltaici per una potenza complessiva di 66 megawatt.
«Sole, énergie». La voce – un italiano stentato che ripiega presto nel francese – arriva dalle nostre spalle. Un uomo ci viene incontro, pochi passi per distaccarsi dalle decine di pecore che lo attorniano. Si chiama Mohamed ed è arrivato in gommone dalla Tunisia, l’Africa da qui dista poche ore. Non ha ancora quarant’anni, ma ne dimostra molti di più: Mohamed è arrivato in Italia sperando di spostarsi in Francia e fare il cuoco, ma si è ritrovato a fare il pastore. «Neuf euros par jour. La casa? Petite», spiega, descrivendo il misero compenso ricevuto in cambio della disponibilità di portare al pascolo le pecore dall’alba al tramonto. Mohamed è uno dei tanti che hanno assistito al lento cambiamento di #contrada_Carcitella.
L’impianto di Mazara del Vallo è stato inaugurato a fine maggio da Engie alla presenza delle autorità. La notizia, che ha trovato spazio sui media nazionali, è di quelle che colpiscono: «Avviato il più grande impianto agrovoltaico d’Italia». Oltre alla partnership con Amazon e alle dimensioni – sommando i progetti su Mazara e Paternò si superano i 200 mila moduli solari su una superficie di 185 ettari – il principale motivo che ha attirato l’attenzione generale sta infatti nella tecnologia utilizzata da Engie. L’agrovoltaico (o agri-fotovoltaico) prevede l’installazione dei pannelli su terreni agricoli, con accorgimenti tali – a partire dalla loro altezza rispetto al suolo – da dare la possibilità di impiantare colture nella parte sottostante. Nel caso di Mazara e Paternò si parla di piante officinali e per fienagioni e l’uso di alberi di mandorlo e ulivo per delimitare i perimetri dell’impianto. «I nostri progetti – fa sapere Engie a IrpiMedia – puntano a valorizzare i terreni mediante l’attuazione del piano agronomico che ha accompagnato il progetto autorizzato dalla Regione».
L’obiettivo dichiarato è quello di salvaguardare il consumo di suolo e ottimizzare le aree utilizzate. «La Sicilia vanta le maggiori superfici coltivate a biologico in Italia e gli impianti con tecnologia agro-fotovoltaica soddisfano la strategia regionale per lo sviluppo sostenibile», ha dichiarato nella primavera del 2021 Nello Musumeci, oggi ministro del governo Meloni ma all’epoca presidente della Regione Siciliana.
Ma per quanto le parole di Musumeci potrebbero portare a pensare a un ruolo centrale delle istituzioni nella gestione della transizione verso le rinnovabili, la realtà è che mentre a livello sovranazionale l’Ue ha definito le risorse a disposizione per intraprendere il percorso, fino a oggi l’Italia ha rinunciato alla possibilità di governare il fenomeno. Legiferando, semmai, nella direzione opposta: verso una normativa che renda ancora più libera l’iniziativa imprenditoriale dei leader di settore, lasciando al mercato l’onere della pianificazione. Ma ciò, così come accaduto tante altre volte in passato e in molti altri campi, comporta il rischio di vedere affermarsi le logiche della massimizzazione del profitto, a discapito di aspetti fondamentali per il benessere collettivo a medio-lungo termine.
Tra maglie sempre più larghe e rinunce
Le richieste di autorizzazione che hanno portato alla costruzione degli impianti di Paternò e Mazara del Vallo sono state presentate alla Regione, nel 2018, dalla FW Turna, società successivamente acquisita da Engie. Entrambi i progetti sono stati sottoposti al vaglio della commissione chiamata a valutare l’impatto ambientale, ottenendo il via libera condizionato al rispetto di alcune modifiche da apportare.
A partire dal 2019, al vertice della commissione Via-Vas c’è stato #Aurelio_Angelini. Professore ordinario di Sociologia dell’ambiente e del territorio all’Università di Enna, Angelini è stato incaricato dal governatore Musumeci in seguito a uno scandalo che aveva travolto i precedenti vertici della commissione, accusati di avere piegato il proprio operato agli interessi di #Vito_Nicastri e #Paolo_Arata. Il primo è un trapanese accusato di essere uno dei principali volti imprenditoriali del boss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro, l’altro un ex parlamentare nazionale di Forza Italia e successivamente consulente della Lega. In coppia, Nicastri e Arata avrebbero pagato mazzette per corrompere funzionari regionali e ottenere vantaggi su progetti per la realizzazione di impianti per biometano, mini-eolico e fotovoltaico.
Angelini ha guidato la commissione fino a dicembre scorso, quando è stato rimosso dal nuovo governatore Renato Schifani. Una decisione arrivata dopo mesi di frizioni, con il docente che era stato accusato di fare da tappo agli investimenti sulle rinnovabili in Sicilia per i troppi no dati dalla commissione. «Sono stato vittima di una campagna diffamatoria partita con alcune dichiarazioni di Confindustria e divulgando numeri di fantasia», commenta Angelini.
«Hanno raccontato frottole a ripetizione. Uno studio indipendente di Public Affairs Advisors e Elemens ma anche il rapporto Fer di Terna – continua – hanno dimostrato che in questi anni la Sicilia è stata in vetta alle classifiche sull’efficienza delle pubbliche amministrazioni per il rilascio delle autorizzazioni ambientali».
Una cosa è certa: a essere interessati alla Sicilia per la realizzazione di parchi solari sono tanti. Per accorgersene basta navigare nel portale che raccoglie le richieste di autorizzazione. Sono centinaia i progetti finiti sui tavoli della Regione. Un flusso costante interrotto soltanto dalla modifica alla normativa che per gli impianti di una certa dimensione ha disposto che le valutazioni ambientali vengano fatte non più dalle Regioni, ma dal ministero.
Tra i proponenti si trovano società spagnole, tedesche, ma anche altre con sedi in Cina e nelle isole Cayman. L’obiettivo della Regione è quello di passare dalla potenza di 1,8 gigawatt del 2018 a 4 gigawatt entro il 2030. «Il percorso verso la decarbonizzazione è obbligatorio a meno di non voler pregiudicare definitivamente il futuro del pianeta, ma ciò non può prescindere dalla considerazione di altri fattori», mette in guardia Angelini. Il riferimento va in primo luogo alla localizzazione degli impianti, che il più delle volte interessano aree a destinazione agricola, e chiama in causa direttamente il ruolo delle istituzioni. «La terra serve innanzitutto a produrre cibo – commenta -. Viviamo in un’epoca in cui gli effetti dei cambiamenti climatici, come la siccità e la desertificazione, sono destinati a determinare una drastica riduzione delle produzioni. Per questo – sottolinea – bisognerebbe capire che non possiamo permetterci di ipotecare i terreni per la produzione di energia. E questo non significa rinunciare alla transizione ecologica. Le alternative esistono, serve la volontà di adottarle».
A inizio 2022, la Regione Siciliana ha approvato il nuovo piano energetico che delinea le strategie per lo sviluppo delle rinnovabili. In precedenza, la commissione guidata da Angelini, esaminando la bozza di piano, aveva dato una serie di prescrizioni rimaste però inattuate. Tra queste c’era la definizione delle aree non idonee all’installazione degli impianti. «L’indirizzo era quello di garantire maggiori tutele per le aree agricole di pregio, ma la politica ha deciso di non raccogliere le nostre indicazioni – commenta l’ex presidente della Cts – Questa non è l’unica stortura: il piano dice chiaramente che la localizzazione degli impianti debba avvenire privilegiando le discariche e le cave dismesse, i siti già compromessi dal punto di vista ambientale e le aree industriali e artigianali. Invece assistiamo alla continua presentazione di progetti fotovoltaici su zone agricole».
Parlando della grandezza dei progetti – quelli di Engie non sono neanche i più vasti – Angelini ne fa anche una questione socio-economica. «Dovremmo ragionare sul tipo di futuro che vogliamo. Parlare genericamente di rinnovabili non basta. La storia ci dice che l’energia, la sua produzione, è legata a doppio filo con la libertà. Si fanno le guerre per garantirsi l’autonomia energetica. Siamo certi che la scelta migliore sia quella di andare verso un futuro con nuovi monopolisti dell’energia, anziché favorire lo sviluppo delle comunità energetiche?»
Le comunità energetiche e l’autoconsumo collettivo sono pratiche che permettono a soggetti privati e pubblici di costruire e gestire impianti di produzione di energia rinnovabile pensati principalmente per uno “in loco”. In particolare l’autoconsumo collettivo è portato avanti dagli abitanti di un unico edificio mentre le comunità energetiche sono delle entità più ampie, solitamente un complesso di condomini, piccole e medie imprese ed enti pubblici, purché siano allacciati alla stessa cabina di trasformazione d’energia. In pratica la comunità energetica investe nella costruzione di un impianto, come ad esempio un fotovoltaico sui tetti dei condomini, così da iniziare l’autoproduzione e l’autoconsumo dell’energia rinnovabile.
«Queste collettività sono pensate per produrre e consumare energia da fonti rinnovabili in loco, così da ridurre le bollette, e non per scopi di lucro, ecco perché la legge dispone che per poter prendere parte alle comunità energetiche sia necessario dimostrare che la produzione e la commercializzazione di energia non sia la fonte principale di guadagno», puntualizza Gianni Girotto, che da parlamentare nazionale del Movimento 5 Stelle è stato il promotore delle comunità energetiche in Italia.
Il concetto alla base delle comunità energetiche è la produzione di energia diffusa e distribuita su un territorio molto più vasto ma allo stesso tempo molto meno impattante rispetto alle classiche centrali o ai campi eolici e fotovoltaici. I benefici principali, oltre ad una riduzione delle bollette, riguardano anche le spese nazionali del trasporto di energia. Produrre e condurre l’energia da un luogo a un altro ha dei costi ingenti per lo Stato e avere più comunità energetiche sparse in tutto il territorio alleggerirebbe la rete nazionale. Secondo i dati aggiornati a fine 2022, esistono solo 46 attività di autoconsumo collettivo e 21 comunità energetiche. «Un risultato ancora scarso – ammette Girotto – in parte dovuto al Covid che ha cancellato l’argomento dalle discussioni, in parte da una mancanza di reale volontà politica di promuovere le comunità».
Ad oggi infatti si aspettano ancora i decreti attuativi per definire alcuni che regolamentano, ad esempio, le comunità energetiche più grandi. Per ora sono possibili comunità energetiche basate sulle cabine di trasformazione secondarie, che sono circa 600 mila in tutta Italia, su cui si possono costituire comunità grandi quanto un piccolo isolato o una via per le città più grandi. «Ma se si regolamentassero le comunità energetiche che si allacciano alle cabine primarie, si potrebbero formare comunità grandi quanto diversi comuni così da contribuire significativamente alla riduzione delle necessità di importazioni energetiche che sono più costose ed estremamente più inquinanti», conclude Girotti.
Quale futuro spetterà alle comunità energetiche è un capitolo ancora tutto da scrivere. Quel che finora pare evidente è che a dettare legge sono ancora i colossi del settore. Aziende che, per loro natura, hanno come obiettivo primario quello di sfruttare economicamente al meglio le opportunità offerte dalle leggi.
Da questo punto di vista, uno dei primi effetti lo si è notato sul mercato immobiliare dei terreni. Le aziende, infatti, preferiscono trattare con i privati. «Rinunciando ad avere un ruolo centrale nella pianificazione dello sviluppo energetico dell’isola, la Regione sta perdendo l’opportunità di avere introiti da questi investimenti – spiega il professore Aurelio Angelini -. Se si lavorasse alla promozione della realizzazione degli impianti nelle discariche pubbliche o nelle cave dismesse, si potrebbero indire gare per l’affidamento di queste aree ai privati, ottenendo in cambio un canone annuale». Così, però, non sta avvenendo e ad accorgersene è innanzitutto chi con la compravendita degli immobili ci lavora.
«Fino a qualche anno fa, da queste parti un ettaro di terreno agricolo veniva venduto intorno ai 15 mila euro a ettaro. Oggi per meno di 35 mila non lo si trova», racconta un professionista del settore. Lo incontriamo nel suo studio di Mazara del Vallo, a meno di dieci chilometri dall’impianto di Engie. Ha accettato di parlarci soltanto a condizione di mantenere l’anonimato. «La domanda di terreni per installare pannelli solari è cresciuta in maniera spropositata e l’innalzamento dei prezzi è stata la naturale conseguenza – spiega – Per molti proprietari si tratta di cifre che difficilmente guadagnerebbero lavorando la terra».
Si potrebbe pensare che per gli immobiliaristi siano periodi di vacche grasse. «Ma non è così, io negli ultimi anni sono riuscito a vendere soltanto un terreno destinato a fotovoltaico. Chi ci guadagna davvero sono i sensali». La senseria è l’attività di mediazione portata avanti spesso in maniera informale da soggetti non qualificati. «Per le società che arrivano da fuori, magari dal Nord Italia o dall’estero, sono dei veri procacciatori di affari e non importa se non siano professionisti del settore, si sanno muovere». Quando gli chiediamo in cosa consista tale capacità, chiarisce: «Spesso sono allevatori, conoscono molto bene le campagne e chi sono i proprietari. Come guadagnano? Si dice che prendano una percentuale dal venditore».
Ancora oggi in Sicilia il legame con la terra è forte. Può capitare per esempio che un terreno, passando di generazione in generazione nelle mani di sempre più eredi, resti incolto ma comunque ben saldo all’interno del patrimonio di famiglia. La nuova propensione a cederli, e il coinvolgimento di intermediari di fortuna, è un fenomeno che non è passato inosservato anche negli ambienti investigativi. Inevitabile chiedersi se dietro l’attività dei procacciatori possa esserci anche il peso della criminalità: «A oggi non sono emerse evidenze che portino a sostenere un coinvolgimento delle famiglie mafiose nella fase di individuazione dei terreni da destinare alle rinnovabili, ma è chiaro – sottolinea – che quella del sensale è una figura ambigua. Si tratta spesso di soggetti che si muovono in zone grigie. D’altra parte storicamente la mafia siciliana ha avuto un legame forte con la terra, basti pensare al ruolo dei campieri, che si occupavano della guardiania».
Di chi sono le aree utilizzate da Engie
«I terreni sono stati acquisiti direttamente dai proprietari». A negare il coinvolgimento di intermediari di fortuna nelle trattative per l’acquisizione delle aree su cui realizzare gli impianti di Mazara del Vallo e Paternò è la stessa Engie. «Nel primo caso il terreno è stato in larga parte acquistato da una singola proprietà, mentre i terreni di Paternò erano frazionati su pochi proprietari terrieri locali», specificano dagli uffici della multinazionale.
Una versione che trova conferma anche nelle parole di Francesca Adragna, 54enne originaria di Trapani ma residente in Toscana che, insieme al fratello, era la proprietaria dei terreni scelti da Engie per installare i pannelli. «Non abbiamo avuto sensali che si sono interessati alla trattativa, so bene che in Sicilia girano molti sedicenti intermediatori, ma nel nostro caso non è accaduto». Dai documenti visionati da IrpiMedia risulta che a chiedere al Comune di Mazara del Vallo la certificazione di destinazione urbanistica da presentare alla Regione è stata una terza persona. «È stato incaricato da mio fratello, ritengo sia un tecnico», chiosa la donna. Per poi specificare di avere deciso «di vendere questi terreni perché si tratta di un’eredità e, vivendo io fuori dalla Sicilia, occuparsene era sempre più complicato».
Continuando a scorrere le centinaia di pagine di documenti che accompagnano il progetto presentato alla Regione, ci si imbatte anche su un’altra serie di proprietari. I loro terreni vengono tirati in ballo nella parte riguardante i lavori per la stazione elettrica e i relativi raccordi alla rete di trasmissione nazionale (Rtn) al servizio del campo fotovoltaico. Anche in questo caso sono nomi che per motivi diversi, in alcuni casi legati a passate vicende giudiziarie che nulla hanno a che vedere con l’iter che ha portato alla realizzazione dell’impianto di Engie, sono noti all’opinione pubblica.
Tra loro ci sono Maria e Pietro Maggio. I due sono discendenti della famiglia Poiatti, rinomati industriali della pasta. Maria attualmente è presidente del consiglio d’amministrazione della società. A loro sono intestate due vaste particelle indicate come vigneti e terreni seminativi utilizzate per la realizzazione della stazione elettrica e per i raccordi alla Rtn. Dai documenti emerge che quest’ultima parte ha interessato anche alcuni terreni di proprietà di Marina Scimemi. La donna, 47 anni, è figlia di Baldassarre Scimemi, l’ex presidente della Banca Agraria di Marsala e vicepresidente dell’Istituto Bancario Siciliano che a inizio anni Novanta venne accusato di essere a disposizione di Cosa nostra. Gli inquirenti accusavano l’uomo di avere elargito crediti a condizioni di favore e fornito una sponda per il riciclaggio del denaro. Per quelle vicende, Scimemi è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Nei documenti presentati da Engie compare anche il nome del 41enne Francesco Giammarinaro. Il padre, Pino, è stato deputato regionale della Democrazia Cristiana nella prima metà degli anni Novanta. Una carriera politica costruita all’ombra della corrente andreottiana e vicino a Nino e Ignazio Salvo, i cugini di Salemi – lo stesso paese di Giammarinaro – che per decenni hanno avuto in mano la riscossione dei tributi in Sicilia, grazie anche ai legami con Cosa nostra. Anche per Pino Giammarinaro i problemi con la giustizia non sono mancati: arrestato nel 1994, ha patteggiato i reati di concussione e corruzione, mentre è stato assolto dall’accusa di concorso esterno. A partire dagli anni Duemila, il suo patrimonio è stato sottoposto a misure di prevenzione che hanno portato alla confisca. Tra i beni su cui sono stati posti i sigilli c’è anche il terreno di contrada San Nicola di Corsone. Nel progetto presentato da Engie si menziona l’appezzamento quando si fa riferimento al tracciato dell’elettrodotto aereo; area che per questo sarebbe stata sottoposta a vincolo preordinato all’esproprio.
«Non ne so nulla, quel terreno ormai non è né di mio figlio né tantomeno mio. Rientra tra quelli sequestrati, da oltre dieci anni non ci appartiene», taglia corto Pino Giammarinaro, raggiunto telefonicamente da IrpiMedia. Sul punto, però, fa chiarezza Engie specificando che, per quanto nella documentazione presentata alla Regione si menzioni la particella 4, «il terreno confina con la nuova stazione elettrica ma non è interessato dalla nostra opera».
Uva pregiata a basso costo
Girare per la provincia di Trapani senza imbattersi in qualche vigneto è praticamente impossibile. Rosso, bianco o rosè, da queste parti si beve bene. Tuttavia, chi la terra la lavora praticamente da sempre si è accorto che qualcosa sta cambiando. Anzi, che forse è già cambiato. «Un tempo questa era una delle zone con più vigneti al mondo. Di questo passo, invece, continuare a coltivare viti non varrà più la pena». A parlare è il titolare di una delle tante aziende agricole che hanno sede nell’estremità occidentale della Sicilia. Ci accoglie in un ampio salone per parlare di come in meno di un decennio la redditività delle produzioni sia crollata. «Non è una sensazione, lo dicono i numeri e i bilanci – spiega l’uomo – Chi produce uva da vino da queste parti guadagna molto meno che altrove. Io non so se c’entri qualcosa, ma questo problema è coinciso con il periodo in cui hanno iniziato a costruire impianti per le rinnovabili. Prima c’è stato il boom dell’eolico, adesso sembra che tutti vogliano fare parchi fotovoltaici».
L’imprenditore suggerisce di confrontare i listini delle cantine sociali. In provincia di Trapani ce ne sono tante, c’è chi lavora con proprie etichette e chi vende il vino sfuso ad altre aziende. Una delle più affermate è Cantine Ermes, attiva non solo nell’isola. Guardando il bilancio del 2022, in cui sono contenuti i dati relativi agli acconti pagati ai soci per i conferimenti effettuati nel corso della vendemmia 2021, si legge che l’uva Chardonnay è stata pagata da 10 a 38 euro al quintale, mentre chi ha portato uva Frappato ha incassato come acconto un massimo di 40 euro al quintale. Per le stesse tipologie di vitigno, una cantina di Riesi, in provincia di Caltanissetta, nella stessa annata ha elargito ai propri soci 60 euro al quintale per lo Chardonnay e da 47 a 52 euro per il Frappato. Le differenze sono marcate anche se si confrontano altri vitigni.
Stabilire una diretta correlazione tra la bassa redditività dell’uva trapanese e il boom del fotovoltaico non è semplice, ma il calo dei profitti ha fatto crescere il numero di produttori che si chiedono se sia il caso andare avanti. A pensarla così è Giovanni Di Dia, segretario Flai Cgil in provincia di Trapani e a sua volta piccolo produttore. «La specificità del caso trapanese rende difficile pensare che sia determinata soltanto da logiche di mercato – afferma – La tentazione di pensare all’influenza di fattori esterni c’è, perché davvero non si capisce come in altre province si possano liquidare decine di euro in più a quintale. Non si tratta di fare confronti con l’altra parte del Paese, ma di spostarsi di un centinaio di chilometri».
Quella dei produttori di uva è solo una delle tante perplessità che accompagnano, non solo in Sicilia e non solo in Italia, la corsa al fotovoltaico. E come in tutte le occasioni in cui bisogna fare di fretta, i rischi di perdersi qualcosa per strada sono alti. Chiedersi cosa ne sarà di aree come contrada Carcitella da qui in avanti è fondamentale, perché ne va del modo in cui immaginiamo il futuro e il rapporto con i luoghi che viviamo. In questo senso, il caso Engie dimostra come a essere favoriti, anche sul fronte della remunerazione dei terreni ceduti alle multinazionali, siano spesso grossi proprietari terrieri. Famiglie che in qualche modo ancora oggi rappresentano il volto del latifondo. Per il professore Angelini il discorso, dunque, va oltre la scelta tra rinnovabili – in questo caso il fotovoltaico – e fonti fossili. «Vogliamo sostituire i padroni dell’energia con nuovi monopolisti o vogliamo una società di produttori più equa e democratica?»