• Storia. Colonialismo italiano, superare il mito della «brava gente»

    Le radici del razzismo di oggi affondano in un passato violento con cui si stenta a fare i conti. Un saggio di #Francesco_Filippi sfata luoghi comuni e apre una riflessione

    Le radici del razzismo in Italia sono profonde. Si alimentano con una spessa coltre di ignoranza rafforzata dalla rimozione del passato coloniale e dei suoi effetti. Secondo un calcolo di Angelo Del Boca – il giornalista e storico recentemente scomparso che per primo negli anni 60 avviò il revisionismo storico del periodo coloniale – almeno una famiglia italiana su cinque tra militari, coloni e impiegati pubblici ha avuto un componente nell’Oltremare italico. Eppure nel dopoguerra il tema venne espulso dalla pubblicistica e vennero oscurati i coloni rimpatriati. Anche a livello popolare c’è un vuoto. Chi ha mai visto film o fiction sulla guerra d’Etiopia, sulla Libia o sull’Oltremare italiano?

    La vulgata dominante è quella autoassolutoria da cui prende il titolo l’agile saggio di Francesco Filippi, Noi però gli abbiamo fatto le strade (Bollati Boringhieri, pagine 200, euro 12,00), luogo comune che da decenni imperversa in tanti discorsi pubblici e privati sulle colonie italiane d’Africa. Secondo questa versione, quella italiana sarebbe stata un’esperienza diversa, più umana rispetto a quelle francesi, britanniche e belghe perché gli italiani “brava gente” sapevano farsi voler bene dalle popolazioni locali. E il fatto che furono gli inglesi a sconfiggerci e a cacciarci dell’Africa nel 1941, sostiene Filippi, ha agevolato l’opera di rimozione e l’autoassoluzione di nostalgici o neocoloniali. Rimozione evidente nella toponomastica italiana ad esempio. La piazza dei Cinquecento a Roma, davanti alla stazione Termini è dedicata ai soldati italiani morti nella battaglia di Dogali nel 1887, combattuta durante una delle guerre di aggressione condotta contro l’Etiopia. O nei monumenti. Davanti alla stazione di Parma campeggia quello all’esploratore #Vittorio_Bottego, uomo con idee precise sulla superiorità dei bianchi, con due africani in posa sottomessa. La città ne ha discusso la rimozione recentemente.

    Senza spingersi agli eccessi della cancel culture, una riflessione su quella memoria perduta pare necessaria. Il libro di Filippi si fa carico di avviarla. Veniamo da una stagione che ha rivelato incrostazioni razziste mai ripulite dalla società italiana, oggi evidenziate quasi come un merito da discorsi di odio e da montagne di fake news su social e media premianti in termini elettorali. Filippi si è specializzato nella rivisitazione di luoghi comuni e della mitologia fascista dopo aver distrutto le bufale sui presunti progressi del regime e sulla figura del duce come buon governante (vedi il suo Mussolini ha fatto anche cose buone, Bollati Boringhieri). Qui ricostruisce con sintesi efficace e una buona compilazione storica cosa accadde veramente nelle colonie dove l’Italia è rimasta 60 anni, tre generazioni, passando dal tentativo di espansione in Etiopia al relativo disimpegno della Prima guerra mondiale e infine al nuovo impulso fascista che intendeva ricreare i fasti dell’Impero romano. Filippi illustra la definitiva rimozione politica del colonialismo italiano nell’Italia repubblicana dovuta all’imbarazzo per i crimini contro l’umanità commessi in Libia e poi durante l’invasione e l’occupazione dell’Etiopia con l’uso dei gas tossici. E i metodi repressivi spietati di cui poco sappiamo in Libia e in Etiopia per domare i ribelli con stragi, pubbliche esecuzioni, deportazioni e lager. Il 19 febbraio in Etiopia è il giorno del ricordo delle 19mila vittime delle rappresaglie italiane del 1937 sulla popolazione civile per l’attentato al viceré Rodolfo Graziani, che già in Libia si era costruito la solida fama di “macellaio del Fezzan” e al quale Affile, il comune natio, ha pensato bene di dedicare 10 anni fa un discutibile e assai discusso sacrario. Interessante l’analisi della propaganda coloniale.

    Filippi sottolinea che il radicato concetto razzista della missione italiana di andare in colonia a liberare i popoli abissini dalla schiavitù e a conquistare bellezze esotiche dai facili costumi (spesso poco più che bambine vendute per sfamarsi da famiglie in miseria) è prefascista. Fu ideato dai governi dell’Italia liberale per attirare le masse dei territori più depressi in Africa. Gli italiani crearono l’Eritrea che ancor oggi si rifà ai vecchi confini coloniali, ma vi perfezionarono un vero e proprio apartheid. Le leggi razziali del 1938 diedero il colpo di grazia vietando le unioni miste e creando una legione di figli di nessuno, i meticci. Altro tabù, il silenzio sulla voragine provocata nel bilancio statale dall’esperienza coloniale. L’Italia unita volle buttarsi per ultima nella corsa all’Africa spinta dai circoli di industriali e imprenditori nazionalisti per aprire nuovi mercati e dare terra da coltivare alla manodopera in esubero delle campagne creando consenso politico. Meglio il Corno dell’America Latina, recitavano la propaganda liberale e poi quella di regime. Ma non fu molto ascoltata, né le colonie raggiunsero la sostenibi-lità, come diremmo oggi. Anzi.

    Insomma le strade vennero costruite bene, ma per farle usare dagli italiani, conclude Filippi. Non tutto è da buttare, aggiungiamo. È rimasto in Africa un pezzo di cultura italiana, si parla ancora la lingua, esempi di architettura razionalista caratterizzano Asmara, Addis Abeba, scuole e comunità di italiani d’Africa con o senza passaporto resistono anche se non hanno più voce. Molti imprenditori e lavoratori che scelsero di rimanere in Etiopia ed Eritrea soprattutto portarono le loro competenze. La Libia ha una storia più complessa. Resta da indagare l’opera umanitaria in campo sanitario, scolastico e agricolo di missionari e Ong mentre la cooperazione pubblica come sappiamo ha luci e ombre. Ma questa è un’altra storia.

    https://www.avvenire.it/agora/pagine/italiani-in-africa-il-mito-della-bont

    #mythe #italiani_brava_gente #brava_gente #colonialisme #colonialisme_italien #Italie #Italie_coloniale #histoire #violence #racisme #ignorance #passé_colonial #déni #statue #Parme #Parma #mémoire

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
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    • Citation tirée de l’article ci-dessus autour de la statue en l’honneur de Vittorio Bottego à Parme:

      «O nei monumenti. Davanti alla stazione di Parma campeggia quello all’esploratore Vittorio Bottego, uomo con idee precise sulla superiorità dei bianchi, con due africani in posa sottomessa. La città ne ha discusso la rimozione recentemente.»

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      Il consigliere Massari: «La statua di Bottego esalta il colonialismo»

      Nel dibattito, Massari ha chiarito che non intendeva proporre la rimozione della statua.

      Una mozione presentata in Consiglio comunale dal consigliere Marco Maria Freddi a favore dell’istituzione di una giornata a ricordi delle stragi del colonialismo italiano e di una strada intitolata ha fatto emergere una clamorosa proposta del consigliere Giuseppe Massari (Parma protagonista).

      Nel suo intervento, a favore della mozione, Massari ha proposto una riflessione sull’opportunità di togliere dalla sua collocazione il monumento all’esploratore parmigiano Vittorio Bottego “in quanti rappresenta un’esaltazione del colonialismo italiano con la presenza di due guerrieri africani in posizione sottomessa. Personalmente - ha concluso Massari - provo un pugno nello stomaco ogni volta che passo di lì e una riflessione andrebbe aperta”.

      Il presidente Tassi Carboni ha sottolineato che “il monumento andrebbe contestualizzato con una spiegazione , ma non rimosso , perché viene vissuto ormai come parte del paesaggio urbano e non come esaltazione del colonialismo “. Sulla mozione si è diviso il gruppo di maggioranza di Effetto Parma, con il capogruppo Salzano e Bozzani che hanno dichiarato la propria contrarietà e Fornari e Quaranta favorevoli.

      In un successivo intervento di Vito a favore della mozione Massari ha chiarito che “la rimozione del monumento a Bottego capisco sarebbe difficoltosa ma lancia un messaggio di supremazia che andrebbe contestualizzato e quindi spiegato con un cartello il significato della statua”.

      Dopo un intervento di Laura Cavandoli che lo criticava per la proposta di rimuovere la statua di Bottego Massari ha chiarito che non intendeva proporre la rimozione della statua. La mozione è passata con 23 si e 5 no espressi da Lega e dai 2 consiglieri di Effetto Parma Salzano e Bozzani.

      https://www.gazzettadiparma.it/parma/2021/11/23/news/il-consigliere-massari-la-statua-di-bottego-esalta-il-colonialismo-3

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      #pétition:
      Giuseppe Verdi al posto di Vittorio Bottego

      Cari parmigiani

      E se rimuovessimo la statua di Vittorio Bottego dal piazzale della stazione?

      Prima di accusarci di iconoclastia, fermatevi un momento a pensare.

      Cosa rappresenta la statua nel piazzale di fronte alla stazione di Parma?
      La statua ci mostra un trionfante e fiero colonialista, Vittorio Bottego, un bianco, che si erge su due persone abbattute a terra, prostrate ai suoi piedi. Due neri.

      Questa statua celebra e racconta un’epoca del nostro passato relativamente recente, in cui anche noi abbiamo massacrato gli africani, la loro cultura, la loro identità per aumentare ed imporre il nostro potere politico ed economico e la nostra cultura. La nostra presunta supremazia.

      A Bristol, Inghilterra, le manifestazioni per il #blacklivesmatter hanno raggiunto l’apice della protesta simbolica con l’abbattimento della statua in bronzo dedicata ad Edward Colston, politico inglese e mercante di schiavi.

      E la nostra statua dedicata a Vittorio Bottego dove si trova?
      I parmigiani lo sanno: si trova esattamente davanti alla stazione, in piazzale Dalla Chiesa.
      Quella statua è quindi la prima cosa che Parma - città della musica e capitale europea del cibo - offre ai turisti e ai lavoratori che giungono in treno nella nostra città.

      La storia recente, i fatti di ieri e di oggi ci dicono che questo simbolo, questa narrazione che mostra una civiltà annientarne un’altra, non ha più ragione di esistere.

      La società sta cambiando, ed ogni epoca di cambiamento si lega necessariamente a nuovi simboli. I simboli infatti sono strumenti di traduzione di concetti complessi in strumenti di comunicazione e diffusione di tali concetti, semplificati.

      E se a questo momento di cambiamento associamo il fatto che Parma2020, l’evento che vedrà Parma nel ruolo di capitale italiana della cultura, siano state spostate di un anno a causa della pandemia, quale occasione migliore per Parma stessa per trasmettere a tutt’Italia e a tutt’Europa un messaggio dal forte contenuto simbolico?

      Lo proponiamo ufficialmente.

      Togliamo la statua di Vittorio Bottego dal piazzale della Stazione.
      Riponiamola in un museo. La storia non va distrutta.

      Ma la storia va verso il futuro.
      Ed il futuro sta accadendo ora. In tutto il mondo.
      Non perdiamo questo appuntamento con la storia.

      Installiamo una statua dedicata al Maestro Giuseppe Verdi.

      Pensateci.
      Il turista, il visitatore, il lavoratore che giunge a Parma e scende dal treno, appena esce dalla stazione si troverebbe davanti la statua della personalità forse più importante della storia della nostra città.

      Verdi è un simbolo mondiale di musica, cultura, di bellezza.
      Perché non dare il benvenuto a chi viene da fuori con una piazza ed una via a lui dedicata, che conduca i turisti nel cuore di Parma?

      Ci rivolgiamo in primis ai cittadini di Parma.
      Senza di voi, senza il vostro supporto, questa proposta non passerà mai.

      Se invece, come speriamo, dovesse raccogliere adesioni, a quel punto potremo rivolgerci anche al Consiglio Comunale, che crediamo potrebbe accogliere in larga maggioranza questa proposta.

      Quanto sarebbe bello togliere quella statua, simbolo di oppressione e di un passato che ha caratterizzato la sofferenza di milioni di persone, e ridare identità e quindi valore a quella Piazza e alla città stessa?

      «Benvenuti a Parma, città della Musica»
      Non ci sarebbe nemmeno più bisogno di dirlo.
      Qualsiasi turista, di qualsiasi nazionalità, lo capirebbe immediatamente, scendendo dal treno e ritrovandosi davanti non più un simbolo di oppressione, ma un simbolo di cultura universale.

      Si può fare?

      Ci proviamo?

      ParmaNonLoSa

      https://www.change.org/p/consiglio-comunale-di-parma-da-piazza-bottego-a-piazza-giuseppe-verdi?recrui

    • Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie


      Tra i molti temi che infiammano l’arena pubblica del nostro Paese ne manca uno, pesante come un macigno e gravido di conseguenze evidenti sulla nostra vita qui e ora. Quando in Italia si parla dell’eredità coloniale dell’Europa si punta spesso il dito sull’imperialismo della Gran Bretagna o su quello della Francia, ma si dimentica volentieri di citare il nostro, benché il colonialismo italiano sia stato probabilmente il fenomeno più di lunga durata della nostra storia nazionale. Ma è una storia che non amiamo ricordare.

      Iniziata nel 1882, con l’acquisto della baia di Assab, la presenza italiana d’oltremare è infatti formalmente terminata solo il primo luglio del 1960 con l’ultimo ammaina-bandiera a Mogadiscio. Si è trattato dunque di un fenomeno che ha interessato il nostro Paese per ottant’anni, coinvolgendo il regno d’Italia di epoca liberale, il ventennio fascista e un buon tratto della Repubblica nel dopoguerra, con chiare ricadute successive, fino a oggi. Eppure l’elaborazione collettiva del nostro passato coloniale stenta a decollare; quando il tema fa timidamente capolino nel discorso pubblico viene regolarmente edulcorato e ricompare subito l’eterno mito autoassolutorio degli italiani «brava gente», i colonizzatori «buoni», persino alieni al razzismo. Siamo quelli che in Africa hanno solo «costruito le strade».
      Se la ricerca storiografica ha bene indagato il fenomeno coloniale italiano, a livello di consapevolezza collettiva, invece, ben poco sappiamo delle nazioni che abbiamo conquistato con la forza e ancora meno delle atroci violenze che abbiamo usato nei loro confronti nell’arco di decenni.
      In questo libro Francesco Filippi ripercorre la nostra storia coloniale, concentrandosi anche sulle conseguenze che ha avuto nella coscienza civile della nazione attraverso la propaganda, la letteratura e la cultura popolare. L’intento è sempre quello dichiarato nei suoi libri precedenti: fare i conti col nostro passato per comprendere meglio il nostro presente e costruire meglio il futuro.

      https://www.bollatiboringhieri.it/libri/francesco-filippi-noi-pero-gli-abbiamo-fatto-le-strade-9788833937
      #mensonges #amnésie
      #livre

  • Etiopia, i conti col passato: la strage di Addis Abeba del 1937

    Sono passati 85 anni ma gli eccidi compiuti dagli invasori italiani - quello di Addis Abeba e quello successivo di Debre Libanòs, ai danni di centinaia di monaci cristiano-copti -, sembrano non avere lasciato traccia nella memoria comune italiana, come del resto tutto il nostro passato coloniale. In Etiopia, invece, il 19 febbraio rappresenta il momento del ricordo di una tragedia collettiva

    È il 19 febbraio del 1937, nel calendario etiopico il 12 Yekatit 1929. Addis Abeba è in festa per celebrare davanti al Ghebì imperiale la nascita di Vittorio Emanuele, il figlio del re, del nuovo imperatore d’Etiopia. Otto granate esplodono alle spalle del viceré, il temutissimo Rodolfo Graziani, e provocano la morte di sette persone e circa cinquanta feriti. Sino al 21 febbraio la capitale etiopica sarà messa a ferro e fuoco, causando la morte e il ferimento di migliaia di civili.

    Quella strage, “Il massacro di Addis Abeba” come è stata definita dallo storico Ian Campbell nel suo testo dedicato all’analisi degli eventi avvenuti nel febbraio 1937, rappresenta solo l’inizio di una carneficina che coinvolgerà anche il monastero cristiano-copto di Debre Libanòs. Luogo mistico situato nella regione Oromo, a nord di Addis Abeba, divenne teatro di una storica “vergogna italiana” (per riprendere il sottotitolo del testo di Campbell).

    Paolo Borruso, nel suo testo Debre Libanòs 1937: il più grave crimine di guerra dell’Italia (edito da Laterza nel 2020), ricostruisce le inquietanti vicende che hanno contraddistinto una delle pagine più buie del colonialismo italiano. Il convento di Debre Libanòs era considerato il luogo di ospitalità di alcuni degli attivisti della resistenza etiopica che avevano partecipato all’attentato contro il viceré, anche se dalle ricostruzioni di Borruso emerge che gli attentatori si fossero solo ritirati brevemente presso il monastero.

    La strage, compiuta dalle truppe italiane guidate dal generale Pietro Maletti ai danni dei monaci, si consumò tra il 21 e il 29 maggio 1937, causando la morte di circa 450 monaci. Le spedizioni punitive elaborate dalla mente del generale Graziani (passato alla storia come il “macellaio del Fezzan”, per i metodi feroci utilizzati nella riconquista dell’area libica tra il 1929 e il 1930), sembra facessero parte di un piano ben dettagliato di violenza su vasta scala che aveva lo scopo di esibire la forza delle truppe coloniali italiane e costringere alla resa l’élite etiopica.

    Sono passati 85 anni ma, sia la strage di Addis Abeba, sia il massacro di Debre Libanòs, sembrano non avere lasciato traccia nella memoria comune italiana, come del resto tutto il nostro passato coloniale. Tralasciando le meritorie ricostruzioni storiche di Angelo Del Boca, la storiografia italiana ha poco sottolineato la gravità dei crimini commessi durante l’occupazione italiana dell’Etiopia.

    Nel 2006 alla Camera dei deputati fu presentato un progetto di legge recante il seguente titolo: Istituzione del «Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana». Nel preambolo della proposta di legge si riconosce l’importanza della strage e la si definisce come “giornata simbolo in memoria delle migliaia di civili africani etiopici, eritrei, libici e somali, morti nel corso delle conquiste coloniali”.

    In Etiopia, invece, il 19 febbraio rappresenta il momento di condivisione di una tragedia collettiva. Nel 1955 un obelisco è stato eretto nella capitale per commemorare questa “inutile strage” e da allora, anche durante il governo socialista del Derg, ogni presidente ha reso omaggio alle vittime del colonialismo italiano. Se ancora parzialmente restano sul terreno le vestigia dell’architettura italiana in Etiopia (uno fra tanti il quartiere Incis, oggi Kazanchis), nella nostra memoria non vi sono neppure le macerie.

    https://www.nigrizia.it/notizia/etiopia-i-conti-col-passato-la-strage-di-addis-abeba-del-1937

    #fascisme #Italie #colonialisme #massacre #massacre_d'Addis_Abeba #19_février_1937 #Debre_Libanòs #Ethiopie #Italie #Italie_coloniale #colonialisme #histoire #passé_colonial #Rodolfo_Graziani #Graziani #Pietro_Maletti #Maletti #macellaio_del_Fezzan #violence #Incis #Kazanchis

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    ajouté à ce fil de discussion:
    #Addis_Ababa_massacre memorial service – in pictures
    https://seenthis.net/messages/671162
    et à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    • Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia

      Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858139639
      #crimes_de_guerre #livre

  • Rien de spécifiquement lié aux legs coloniaux mais un très riche entretien pour approcher les « textures du temps » et les rapports au passé que nous analysons en conférences de méthode.

    https://www.lorientlejour.com/article/1289138/-lhistoire-nest-pas-une-ecole-de-la-fatalite-.html
    Propos recueillis par Soulayma MARDAM BEY, le 29 janvier 2022

    Patrick Boucheron : « L’histoire n’est pas une école de la fatalité »

    Le Liban traverse aujourd’hui l’une des pires crises économiques du monde moderne dans un contexte international marqué par la pandémie de Covid-19. Alors que le soulèvement populaire d’octobre 2019 avait suscité l’espoir d’un autre monde, l’heure est désormais au désenchantement. Dans ces conditions, quelles ressources peut offrir l’étude du passé pour répondre aux défis d’un présent qui nous dépasse ? Historien médiéviste, professeur au Collège de France, spécialiste de la peste noire et de la Renaissance italienne, Patrick Boucheron revient pour « L’Orient-Le Jour », à l’occasion de son passage à Beyrouth pour la « Nuit des idées », sur sa conception de l’histoire, pensée comme un « possible qui s’ouvre ».

    Le monde traverse depuis deux ans maintenant une crise sanitaire. Cette pandémie se couple à des remises en question de nos modes de vie, de nos modèles économiques, de nos systèmes de santé, etc. Dans ces circonstances, nous sommes souvent tentés d’établir des parallèles historiques avec les grandes crises et pandémies du passé. Cette démarche vous paraît-elle pertinente  ?

    C’est une question que l’on pose souvent à un historien. On lui demande s’il y a eu des précédents en espérant pouvoir se rassurer avec ces précédents. Cela permet de se dire que comme cela a déjà eu lieu, alors on peut s’en sortir. Cela correspond exactement à ce que je crois que l’histoire est ou doit être, c’est-à-dire un trésor d’expériences. À celles et ceux qui sont dans le malheur – je pense évidemment à la société libanaise –, il faut rappeler ce que la philosophe allemande Hannah Arendt disait : l’histoire est l’art de se souvenir de ce dont les femmes et les hommes en société sont capables. Nous sommes toujours beaucoup plus capables que ce que l’on croit ou dit.

    Si l’on parle de la crise sanitaire, on va spontanément comparer le Covid aux autres épidémies, par exemple à la grippe espagnole – même si cela n’a rien à voir en termes de gravité et d’ampleur (la pandémie de grippe espagnole a causé entre 20 et 50 millions de décès entre 1918 et 1924, selon les estimations, contre environ 5,6 millions de morts à ce jour pour celle de Covid-19, selon l’Organisation mondiale de la santé, NDLR). On peut aussi chercher les précédents dans d’autres expériences, et notamment dans celle de la guerre. Au début de l’épidémie, en mars 2020, beaucoup de dirigeants, notamment occidentaux, ont adopté une posture martiale : « Nous sommes en guerre. » Cela pouvait paraître scandaleusement disproportionné, mais renvoyait sans doute à l’idée de guerre moderne contre des ennemis invisibles. Il fallait s’opposer à cette métaphore, à cette tentation martiale de gouvernement sanitaire, même si l’on comprend pourquoi beaucoup de dirigeants ont eu recours à ce vocabulaire pour appeler à « se mobiliser », voire à accepter de « suspendre » en partie nos libertés.

    Mais si cela n’est pas la guerre, ça reste très proche d’un temps de guerre, d’un moment en suspens, où nous ne nous appartenons plus vraiment, où nous sommes soumis à une chronologie qui n’est plus la nôtre. L’expérience du Covid est une expérience de la temporalité : nous sommes totalement écrasés par un présent omniprésent et envahissant. C’est une sorte de temps dédoublé où l’on se voit subir le temps.

    Ce ne sont donc pas tant des expériences historiques précises qui peuvent être comparées à ce que l’on vit, et encore moins sans doute des épidémies du passé. Il faut plutôt songer à des moments où, au fond, nous n’avons plus de prise sur notre temps intime, et où le rapport entre le dedans et le dehors s’effondre. C’est, je pense, très lié à l’expérience de la catastrophe, de la guerre.

    (...)

    #histoire #mémoire #passé #présent #révolutions #crises #pandémie

  • Immigration : la crise sanitaire pèse encore sur les flux
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2022/01/20/immigration-la-crise-sanitaire-pese-encore-sur-les-flux_6110245_3224.html

    Immigration : la crise sanitaire pèse encore sur les flux
    L’immigration et les éloignements sont freinés par la crise du Covid-19. La demande d’asile repart à la hausse mais reste significativement inférieure à 2019.
    Ce sont des chiffres sujets à controverse, a fortiori dans un contexte de campagne présidentielle. Le ministère de l’intérieur devait publier, jeudi 20 janvier, le nombre de premiers titres de séjour délivrés en 2021. Une mesure de l’immigration, partielle, qui traduit la teneur d’une politique migratoire et, encore aujourd’hui, les conséquences de la crise sanitaire sur les mouvements de population.D’après les estimations de la direction générale des étrangers en France, le pays a délivré en 2021 quelque 272 000 premiers titres de séjour, soit une hausse de 21,9 % par rapport à 2020. Cette augmentation est toutefois en trompe-l’œil, tant l’année 2020 a été marquée par une chute drastique des titres, dans un contexte de pandémie (mise à l’arrêt des transports et des administrations et fermeture des frontières). En réalité, le niveau de 2019 est en voie d’être rattrapé, à l’exception des titres humanitaires dont le nombre augmente à 43 000 (il s’agit essentiellement des réfugiés), contre 33 000 en 2020 et moins de 38 000 en 2019. Le ministère y voit l’effet d’un effort de traitement des stocks des demandes d’asile en instance par l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra) grâce notamment à des renforts d’effectifs (les délais globaux de traitement d’une demande s’établissent autour de quatorze mois).
    Ce faisant, la demande d’asile repart à la hausse, avec 103 011 demandes déposées à l’Ofpra en 2021, mais demeure significativement inférieure à 2019. Les Afghans représentent de loin la première nationalité des demandeurs (l’année a aussi été marquée par les opérations d’évacuation de quelque 3 000 ressortissants depuis Kaboul, dont les demandes d’asile sont traitées en priorité). Viennent ensuite les Ivoiriens, les Bangladais et les Guinéens. Le taux moyen de protection est stable à 39 %.
    Net recul des régularisations Au global, la répartition en volume des premiers titres délivrés reste inchangée. Plus de 88 000 ont été attribués pour motif familial, qui demeure la principale catégorie d’entrée régulière sur le territoire et qui est constituée majoritairement de conjoints de Français. Viennent ensuite les 85 000 visas étudiants (qui ont vocation à repartir dans leur pays d’origine au terme de leur cursus) et les 36 000 titres de séjour pour motif économique, portés notamment par le dispositif d’immigration très qualifiée du « passeport talent » (environ 11 000 premiers titres).
    Tous ces chiffres ne tiennent enfin pas compte des résidents britanniques qui, conséquence du Brexit, sont, depuis le 1er octobre 2021, dans l’obligation de détenir un titre de séjour pour résider en France. Ils étaient plus de 96 000 dans ce cas à la fin de 2021. Le ministère de l’intérieur a fait le choix de les isoler statistiquement.Fait notable : les régularisations sont en net recul, y compris par rapport à 2020. Que ce soit, par exemple, parce qu’elles sont présentes en France depuis au moins cinq ans et ont des enfants scolarisés depuis au moins trois ans, ou parce qu’elles travaillent et ont une promesse d’embauche en CDI, 23 700 personnes sans papiers ont été régularisées, contre 27 400 en 2020 et 30 600 en 2019. Le ministère de l’intérieur y voit « l’effet d’une volonté gouvernementale qui consiste à être rigoureux dans l’appréciation des demandes ». Cela peut en outre s’expliquer par le difficile accès des personnes sans papiers aux préfectures, qui priorisent les renouvellements de titres.
    La crise sanitaire se ressent aussi sur les visas (principalement touristiques). Quelque 733 000 ont été délivrés en 2021, à peine plus qu’en 2020 et toujours cinq fois moins qu’en 2019 (3,5 millions). Arrivent en tête les ressortissants marocains, algériens, saoudiens et tunisiens, alors que des baisses très importantes concernent les Russes et les Chinois – elles résultent notamment de la non-reconnaissance de leurs vaccins.
    Enfin, alors que le gouvernement s’est fixé pour objectif la lutte contre l’immigration irrégulière, la crise « a encore fortement contraint les éloignements », reconnaît le ministère de l’intérieur. Environ 16 800 personnes ont quitté la France en 2021 (qu’il s’agisse de départs forcés ou de retours volontaires), soit à peine plus qu’en 2020 (16 000) et encore beaucoup moins qu’en 2019 (31 400). « Des chiffres pas satisfaisants au regard des enjeux », regrette la Place Beauvau, qui évoque les conséquences de l’activité consulaire réduite, la difficulté d’obtention de laissez-passer consulaires, la baisse du trafic aérien ou encore le refus des personnes de se soumettre à un test Covid.

    #Covid-19#migrant#migration#france#sante#crisesanitaire#immigration#eloignement#visas#regroupementfamilial#regularisation#politiquemigratoire#passeporttalent#vaccination

  • L’impact des passes sanitaires sur le taux de vaccination, la Santé, et L’économie
    https://www.cae-eco.fr/limpact-des-pass-sanitaires-sur-le-taux-de-vaccination-la-sante-et-leconomie
    Avec un résumé en français !
    Le Conseil d’Analyse Économique est un organisme qui dépend du gouvernement.

    Résumé de l’arnaque intellectuelle du #CAE :

    1/2 - Ils supposent (et non pas prouvent) que la vaccination empêche de tomber malade et de mourir.
    - Ils constatent que le passe sanitaire force les gens à accepter la vaccination.
    - Ils concluent que le passe sanitaire sauve des vies.

    2/2 et préserve l’économie en empêchant de tomber malade.

    C’est donc le sophisme habituel : si je suppose que ça fonctionne, alors je conclue que ça fonctionne (mais j’ai fait des graphiques et des modèles mathématiques au milieu pour noyer le poisson)

    https://twitter.com/decoder_l/status/1484091837124169729?cxt=HHwWgsC-3bXqxpgpAAAA

    • mais c’est é-vi-dent que si on sait pas / veut pas faire de campagne vaccination publique sans faire un pass et que celui-ci entraîne des vaccinations, il sauve des vies. pas besoin du cae pour savoir ça. et moins besoin encore de le nier parce que donc c’est puisque c’est le cae. tu cavale après pas mal de leurres que tu te crée. arrête toi un moment, respire par le nez, médite, rêvasse, ça peut être - qui sait ? - l’occasion d’arriver à s’orienter.

    • Arrête toi un moment, respire par le nez, médite, rêvasse, ça peut être - qui sait ? ...

      C’est fait ! 17 km de ski fond seule sur les pistes ensoleillées ! Neige parfaite ! Super Glisse ! Le plein de vitamines D et C !
      Là je me détends en regardant la course individuelle masculine de Biathlon en savourant une tranche de Bescoing du coin tout en étant connectée à mes comptes préférés !

      J’ai pas l’impression d’être désorientée ! :)) @colporteur !

    • La vaccination n’empêche pas d’être malade, protège seulement des formes graves du Covid et de finir en réa. C’est peut-être déjà beaucoup mais ce n’est pas suffisant.
      Je suis consternée par tous les triples-dosés bientôt les quadruples injectées qui continuent de s’infecter en présentant pour la plupart certes de faibles symptômes.

      Pour évaluer l’impact du pass vaccinal dans chacun de ces pays, nous construisons des #contrefactuels c’est‐à‐dire que nous modélisons ce que la dynamique de #vaccination aurait été sans la mise en place du pass. Pour cela, nous utilisons une #estimation basée sur la théorie de diffusion des innovations qui permet de quantifier la manière dont une innovation – ici la vaccination – est graduellement adoptée par la population. En effet, une partie de l’augmentation du taux de vaccination dans les trois pays considérés aurait eu lieu même sans #pass-sanitaire.

      En utilisant les données disponibles sur l’impact de la vaccination (en distinguant entre première et seconde doses) sur les admissions à l’hôpital ainsi que sur le nombre de décès Covid, on peut aussi estimer l’impact du pass sur ces variables de santé. On estime ainsi le nombre de décès évités dans les trois pays : environ 4 000 en France, 1 100 en Allemagne et 1 300 en Italie.

      C’est surtout par rapport au procédé de faire accepter le #passe-vaccinal en utilisant la formule on suppose, on estime, ça fonctionne, que je réagis !

    • Je me demandais d’où venaient le chiffre wtf de 4000 vies épargnées par le pass sanitaire cité par Castex !
      Il vient d’une étude menée par des gens qui ont pris conseil auprès d’Arnaud Fontanet, #Philippe-Aghion, économiste,et #Patrick-Artus, économiste, directeur de la recherche et des études de Natixis et administrateur de Total, qui gravitent tous autour de Macron
      Voilà…

      https://twitter.com/realmarcel1/status/1484288645754499080?cxt=HHwWkMC9pZiqoJkpAAAA
      #Castex19


      ( Source Libé)

  • Musée d’art et d’histoire de #Neuchâtel
    –-> Recherches passé colonial

    Dans un souci d’intégrer les acquis de la recherche et de stimuler la réflexion face aux enjeux contemporains liés au #passé_colonial de la Suisse, le #MahN entend mettre à disposition du public des sources et des indications bibliographiques sur l’implication de Neuchâtelois dans la #traite_négrière et l’#esclavage.

    https://www.mahn.ch/fr/expositions/recherches-passe-colonial-1

    –-

    #Séminaire UNINE sur la statue de #David_de_Pury, 7 décembre 2020

    https://www.youtube.com/watch?v=JhSZz3pbIHU


    #de_Pury #monument #mémoire #statue


    –-

    #mémoire de bachelor :
    Déboulonner David de Pury. Une analyse des revendications et des résistances autour du retrait d’un #monument sur la #Place_Pury

    https://www.mahn.ch/fileadmin/mahn/EXPOSITIONS/EXPOSITIONS_ACTUELLES/Recherches_passe_colonial/TEXTES/MemoireMasterUNiNEDaviddePury2021.pdf

    #Suisse #histoire #histoire_coloniale #décolonial

    –-

    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_suisse :
    https://seenthis.net/messages/868109

    • En tête-à-tête avec David de Pury

      Inaugurées hier à Neuchâtel, des œuvres d’art contemporain sont censées porter ombrage à David de Pury. La Ville a choisi cette option plutôt que celle du déboulonnage.

      On dirait à première vue un nain de jardin coulé dans du béton par le collectif chaux-de-fonnier Plonk & Replonk. Mais à y regarder de plus près, c’est bien l’ancien bienfaiteur de Neuchâtel David de Pury, dont la fortune a été érigée au XVIIIe siècle grâce au commerce triangulaire, qui a été légèrement renversé de son piédestal. Du moins symboliquement.

      L’artiste genevois et afro-descendant #Mathias_Pfund a en effet irrévérencieusement bétonné un modèle miniature de cette statue, qu’il a ensuite renversée à 180 degrés pour les besoins d’un art critique et éclairant sur le passé. Choisie par le jury, son œuvre présentée hier à Neuchâtel est cependant nettement moins imposante que l’originale. Elle va pourtant tenter bientôt de dialoguer avec l’auguste statue qui trône sur la place du même nom depuis 1855. Baptisée A scratch on the nose (Une éraflure sur le nez), sa sculpture a été vernie hier par les autorités municipales sur le Péristyle de l’Hôtel de Ville dans le cadre de la semaine d’actions contre le racisme à Neuchâtel. Là aussi tout un symbole.

      Contenter les pétitionnaires

      Par ce type d’actions, l’exécutif veut entretenir son tête-à-tête avec David de Pury en livrant des contrepoids qu’il juge pertinents pour que l’histoire encombrante de la ville continue d’être questionnée. Un geste aussi à l’adresse d’une partie des pétitionnaires qui, au cours de l’été 2020, ont demandé que l’on déboulonne la statue du commerçant dans le sillage d’autres opérations de ce genre menées à travers le monde. Mais au lieu de céder au tabula rasa, la Ville de Neuchâtel a finalement choisi l’option des #marques_mémorielles.

      L’œuvre conçue par Mathias Pfund a été choisie par un jury cornaqué par Pap Ndiaye, lui-même à la tête du Palais de la Porte-Dorée à Paris, qui comprend le Musée d’histoire de l’immigration version française. Il a été secondé dans ses choix par Martin Jakob du Centre d’art de Neuchâtel (CAN), Faysal Mah du Collectif pour la mémoire, Noémie Michel, maître-assistante en science politique à l’université de Genève, Alina Mnatsakanian, coprésidente de Visarte Neuchâtel, et la photographe Namsa Leuba. Trois membres de l’art officiel ont également eu leur mot à dire : l’urbaniste municipal, Fabien Coquillat, le codirecteur du Musée d’ethnographie de Neuchâtel Grégoire Mayor et la conservatrice du département des arts plastiques au Musée d’art et d’histoire, Antonia Nessi.
      Coups de boutoir nécessaires

      Membre du mouvement Solidarités Neuchâtel, François Chédel voit dans cette mise en perspective « un premier pas ainsi qu’une solution pour l’heure satisfaisante ». Du moins en phase avec les réflexions qui entourent le sort de cette statue depuis près de deux ans. Une chose est sûre, l’exécutif n’entend ni rebaptiser la place ni déplacer l’icône du négociant.

      En revanche, l’espace sera revue de fond en comble. Ce qui devrait permettre sans doute aux œuvres sélectionnées, quatre au total, dont celle de Mathias Pfund et celle de l’artiste neuchâtelois #Nathan_Solioz (Ignis fatuus) qui fera appel cet hiver aux âmes des esclaves, de perdurer. « La durée de leur exposition devant la statue est étroitement liée à la question du réaménagement de la place Pury. On peut donc parler de plusieurs années d’exposition, sans être plus précis pour l’instant », ont indiqué au Courrier les autorités municipales.

      Pour François Chédel, les noms qui parsèment l’espace public continuent cependant de nous interroger, à Neuchâtel aussi, sur « nos réalités patriarcales, colonialistes, voire racistes ». Il relève aussi que les actions didactiques menées par la Ville n’auraient sans doute pas été possibles « sans les changements radicaux » exigés voici maintenant près de deux ans par son mouvement ainsi que par d’autres dans la foulée des manifestations Black Lives Matter. Il faut « questionner notre histoire et sa résonance dans l’espace public au travers de nouveaux #récits », a résumé pour sa part récemment le Service cantonal de la cohésion multiculturelle en présentant la Semaine contre le racisme.

      https://lecourrier.ch/2022/03/21/en-tete-a-tete-avec-david-de-pury

    • Place Pury : un hommage raté ?

      Suite à l’inauguration de l’œuvre autour de la statue de Pury, des voix dénoncent une « imposture » et pointent du doigt un hommage aux victimes de l’esclavage « au rabais ».

      La semaine dernière, Neuchâtel inaugurait une oeuvre Great in the Concrete (notre édition du 28 octobre) et une plaque explicative autour de la statue de David de Pury, un négociant qui avait fait fortune avec l’esclavage et légué sa fortune à la ville. Le monument a été au cœur de houleux débats lors du mouvement « Black Lives Matter ». Une pétition demandait en 2020 son retrait (notre édition du 26 juillet 2020).

      Suite à cette polémique, la Ville a lancé une série de mesures pour faire la lumière sur son passé colonial, dont la plaque et l’œuvre.

      Si ces deux initiatives sont présentées par les autorités comme un « #acte_de_mémoire » et un « #hommage » envers les personnes exploitées par le riche baron, le secrétaire général du Carrefour de réflexion et d’action contre le racisme anti-Noirs (CRAN), Kayana Mutombo, se dit très déçu. Il y voit même une #humiliation.

      « Le résultat de ce processus est tout simplement une #imposture », dénonce le politologue. Il déplore les #dimensions de #Great_in_the_Concrete. Il s’agit d’une version #miniature de la statue du bienfaiteur renversée, tête écrasée dans le sol. Le politologue n’était pourtant pas en faveur d’un déboulonnement.

      « J’ai participé aux rencontres initiales, nous avions proposé la création d’un monument bis qui établisse un dialogue entre le monument et les descendants des victimes de l’esclavage. Le résultat est au final une discussion entre de Pury et de Pury. Les voix des victimes et de leurs descendant·es n’y sont pas intégrées. »

      Nommer les victimes de l’esclavage

      Cet ancien chargé du Programme de lutte contre le racisme et la discrimination à l’UNESCO estime que la mémoire des victimes est ainsi minimisée. « Nous avions souligné l’importance de la #proportionnalité entre la statue originale et la nouvelle dans le cadre d’un devoir de mémoire. On rend hommage aux descendant·es aujourd’hui, comme on récompensait les esclaves avec une miche de pain ! »

      Il regrette également que les mots « Noir·es et Afrique » ne figurent pas sur la plaque explicative. « Il faut avoir étudié l’histoire pour comprendre les termes de #commerce_triangulaire et #colonisation. Ne pas nommer les #victimes est l’une des stratégies du racisme anti-Noir·es », déplore Kanyana Mutombo.

      Le collectif pour la mémoire à l’origine de la pétition est plus nuancé. Il estime que « ces mesures ne sont pas suffisantes ni satisfaisantes mais guident sur la voie à emprunter ». Il avance que la Ville de Neuchâtel a pris au sérieux sa demande constituant un groupe de réflexion et en produisant un contenu pédagogique, à défaut d’enlever la statue. Il regrette cependant que le Secrétaire général du CRAN n’ait pas été inclus dans la suite de la réflexion.

      Des moyens dérisoires ?

      D’autres voix déplorent le manque de moyens engagés pour la Ville. Ousmane Dia, artiste plasticien suisse et sénégalais, très enthousiasmé dans le projet a vu ses ardeurs freinées, lorsqu’il a appris que le budget alloué était de 20 000 à 25 000 francs.

      « En tant qu’artiste plasticien afro-descendant, je ne pouvais pas ne pas concourir. Mon projet s’appelle #Dialoguons, il s’agit d’une œuvre monumentale constituée de personnages en acier placés tout autour de de Pury pour l’interpeller. J’ai glissé une lettre dans mon dossier qui mentionne que rien que pour fabriquer l’objet coûte 63 000 francs et que leur budget n’était pas suffisant. »

      Au total, une enveloppe de 66 000 francs a été investie dans le cadre de cet appel à projets artistiques. Quatre projets ont été retenus mais seuls deux verront le jour. Les deux autres n’étaient techniquement pas réalisables. Le projet de #Nathan_Solioz_Ignis_Fatuus, (feu folet), une évocation en lumière des âmes des esclaves morts lors de la traversée forcée de l’Atlantique, sera réalisée au printemps prochain.

      Thomas Facchinetti, conseiller communal en charge de la culture, de l’intégration, de la cohésion sociale et responsable du dossier, précise que le vernissage des deux œuvres primées n’est pas l’unique réponse aux demandes des pétitionnaires.

      « La Ville a pris toute une liste de mesures. Un #parcours_pédagogique sur le passé colonial de la Ville est en cours d’élaboration, une exposition au Musée d’art et d’Histoire aborde ces sujets et des recherches historiques vont être réalisées. Il s’agit d’un engagement très conséquent. »

      Il rappelle que le monument réalisé par le sculpteur #David_d’Angers avait été financé à l’époque par de riches notables, alors que l’initiative actuelle se fait aux frais des contribuables.

      De Pury à Dakar

      Aujourd’hui, #Ousmane_Dia, le candidat déçu se dit surtout choqué par la #taille de l’oeuvre vernie. « J’ai beau retourner le sujet dans tous les sens je n’y vois qu’une interprétation : la statuette nous dit qu’on a tenté de renverser et d’enfoncer de Pury, mais la grande statue répond qu’il s’est relevé encore plus grand.

      Pour Martin Jakob, artiste et curateur au CAN Centre d’art Neuchâtel, membre du jury, le caractère non monumental de l’oeuvre retenue fait tout son sens. « Aucun travail artistique ne permet de panser toutes les plaies. Aujourd’hui, il n’est plus question de réaliser de statues comme à l’époque. D’ailleurs, quel que soit leur taille, ces œuvres d’art finissent par intégrer notre environnement quotidien et s’effacer de notre regard. l’important, c’est le débat qu’elles suscitent. »

      Le collectif pour la mémoire se dit « ravi » par la mise en place de Great in the concrete mais espère qu’un budget pourra être alloué pour concrétiser le projet de Ousmane Dia. « Malgré le fait que la statue soit toujours là et qu’il y aurait encore beaucoup à questionner sur l’acharnement à défendre ce personnage nous souhaitons plutôt se concentrer sur la mémoire de milliers de personnes réduites en esclavage. »

      La saga de Pury n’en est pas à son épilogue. A l’horizon 2028-2029, la place devrait être entièrement requalifiée, la statue pourrait être déplacée et son nom pourrait même être modifié. « Il s’agit d’un projet de plusieurs millions de francs.

      Avec l’enveloppe du pour-cent culturel, un concours artistique sera réalisé, son budget sera bien plus conséquent et permettra d’ériger une œuvre pérenne plus conséquente », précise Thomas Facchinetti. Quant à Ousmane Dia, il envisage de réaliser son projet à Dakar, en reproduisant une statue de David de Pury pour y intégrer son projet Dialoguons.

      https://lecourrier.ch/2022/10/30/place-pury-un-hommage-rate

    • La statue, l’esclavagiste et le #contre-monument contestés

      Fin décembre 2022, à Neuchâtel, une récente installation d’art contemporain, conçue comme réponse à la statue de l’esclavagiste David de Pury contestée en 2020 par des militants se revendiquant de « Black Lives Matter », a été à son tour maculée de peinture. Ce dispositif didactique et conceptuel déployé dans l’espace public, qui compte parmi les premiers adoptés en Europe pour réparer symboliquement les mémoires citoyennes blessées, est un contre-monument ironique, temporaire et anti-monumental.

      https://aoc.media/analyse/2023/02/07/la-statue-lesclavagiste-et-le-contre-monument-contestes

      et sur seenthis : https://seenthis.net/messages/989775

  • Le « passe » viole les principes fondamentaux de notre République

    Depuis quinze ans, j’enseigne l’éthique et la santé publique à des soignants qui viennent se former à l’université. Ensemble, nous essayons de comprendre pourquoi le « #consentement libre et éclairé » s’est imposé comme la clé de voûte de l’éthique biomédicale.

    Pourquoi il permet de compenser l’asymétrie, potentiellement dangereuse, entre les patients (ou les sujets sains d’une expérimentation) et le pouvoir médical. Pourquoi il ne peut être libre que s’il est recueilli sans chantage, ni menace, ni pression psychologique d’aucune sorte – condition indispensable pour qu’il ne soit pas « extorqué ». Pourquoi on ne peut dès lors jamais conditionner l’accès aux soins à l’acceptation du traitement proposé et pourquoi un patient qui refuserait de donner son consentement ne peut être, sous ce prétexte, exclu du système de soin. Pourquoi plus généralement, et contrairement aux dernières allégations d’Emmanuel Macron qui violent tous les principes de notre contrat social, les droits du citoyen ne peuvent, à aucun titre, être conditionnés par l’invocation de devoirs antécédents. Pourquoi enfin le recueil du consentement interdit tout recours à l’argument d’autorité du type : « Obéissez, car c’est moi, ou plutôt les autorités sanitaires, qui savons ce qui est bon pour vous ! »

    La liberté au sens où l’entendent les Lumières, mais aussi la loi dite « Kouchner » du 4 mars 2002 relative aux droits des patients et à la démocratie sanitaire (elle-même héritée d’une autre épidémie, celle du virus du sida), est fondée sur la capacité de raisonner par soi-même que l’on doit prêter à tous les citoyens majeurs (ou en voie de l’être), quelle que soit leur croyance ou leur niveau d’éducation. Tous les sujets appelés à consentir doivent être considérés par principe, et que cela nous plaise ou non, comme des sujets rationnels, aptes à délibérer ensemble et de manière contradictoire de la vérité et de la chose commune (respublica), sans qu’aucun tuteur de l’humanité ne puisse édicter à leur place le bien commun (1).

    Défense d’un système de soin collectif

    C’est très précisément cette liberté-là qui, dans les cortèges contre le #passe_sanitaire, a été invoquée par des milliers de soignants, vaccinés ou non, qui disaient leur refus de violer ces principes fondamentaux. Et c’est cet héritage de la pensée des Lumières que j’ai moi-même défendu en défilant à leurs côtés dans la rue. Contrairement à ce qu’ont insinué certains propos diffamants, cette liberté est l’exact opposé de celle des libertariens et des soutiens de Donald Trump, pour qui toute considération de la chose commune menace l’individu souverain dans l’illimitation de ses désirs. Réduire les immenses cortèges de cet été à des foules haineuses, irrationnelles et indifférentes au bien commun aura été l’une des opérations médiatico-politiques les plus malhonnêtes de cette crise sanitaire.

    Mais c’est aussi une certaine idée de la santé publique qui m’a déterminée à me mobiliser avec des parlementaires et des acteurs et chercheurs du domaine (2). Attachés à défense d’un système de soin collectif, nous savons que les autorités sanitaires doivent parfois imposer des mesures de prévention en les rendant obligatoires. Toutefois, dans le cas d’un produit de santé, cela n’est acceptable que si le bénéfice-risque est indiscutable et que s’il n’existe aucun autre moyen de protection.

    Or, dans la circonstance, on s’est mis à imposer la vaccination à tous sur la base d’un quadruple pari, celui d’une vaccination de masse censée :

    1) créer l’immunité collective et éradiquer les variants ;
    2) protéger la vie d’autrui en empêchant les contaminations ;
    3) ainsi que celle de tous individus vaccinés, comme s’ils étaient également vulnérables face au virus et identiquement protégés par le vaccin ;
    4) tout en n’ayant aucun effet indésirable grave pour leur santé.
    Nous pouvons comprendre qu’une communauté de citoyens épuisés et gouvernés par la peur du reconfinement aient eu envie de croire à cette rhétorique de la promesse, même si nous-mêmes étions dès le départ très sceptiques.

    Faire confiance au sens clinique des professionnels de santé

    Mais à l’heure où la communauté scientifique croit elle-même de moins en moins :

    1) à la possibilité d’éradiquer le virus et à la conquête d’une immunité collective par ces vaccins ;
    2) à l’argument « civique » de la protection de la vie d’autrui ;
    3) au fantasme de la toute-puissance des doses dites « de rappel » censées « booster » des jeunes en pleine santé (tandis que les publics à risque sont abandonnés à eux-mêmes face à Doctolib, avec une vaccination des plus de 60 ans parmi les plus faibles d’Europe de l’Ouest) (3), et alors même que les soignants sont bien obligés de constater la réalité de certains incidents post-vaccinaux (4), l’information censée éclairer le consentement n’a plus rien de « loyale » (comme le précise l’article 35 du code de déontologie médicale). L’imposition universelle d’un passe sanitaire puis vaccinal viole les principes fondamentaux de notre éthique, de notre santé publique et de notre droit tout en entravant la vie de communautés entières de patients, sommés de choisir entre la crainte d’effets secondaires graves et leur propre #liberté.

    Une gestion sanitaire de cette crise est pourtant possible. Elle implique de redonner le pouvoir de prescription aux professionnels de santé eux-mêmes et de faire confiance à leur sens clinique, qui passe par la relation directe entre soignants et patients, dans le respect de l’éthique et de la santé publique. Puisque le vaccin n’est pas la panacée, cette gestion sanitaire suppose aussi de déployer un arsenal de mesures complémentaires et variées : une vaccination orientée vers les publics à risque de forme grave combinée avec les traitements, la prise en charge précoce des symptômes, la distribution massive de masques FFP2 pour les personnes ou les événements à risque et l’équipement de tous les bâtiments publics en systèmes d’aération efficace. Pourquoi les nouveaux libéraux qui ont pris le pouvoir dans notre pays s’obstinent-ils alors dans cette gestion inefficace et autoritaire ? Parce que le nouveau libéralisme qu’ils défendent est au pied du mur. En apportant un démenti cinglant aux promesses du néolibéralisme d’une « mondialisation heureuse », la crise écologique et sanitaire l’oblige à se réinventer dans l’urgence.

    Mise au ban de la société

    Le passe sanitaire et désormais vaccinal permet à cette idéologie, jusque-là hégémonique et qui commence tout juste à entrer en crise, de retomber discrètement sur ses pieds, en conjuguant :

    1) la poursuite de la destruction des services publics de santé, d’éducation et de recherche par l’austérité et la gestion managériale de ses personnels ;
    2) le « solutionnisme technologique » avec son mantra de l’innovation, qui sert à la fois le capitalisme financiarisé du Big Pharma et celui du virage numérique universel, en créant les marchés faramineux de la e-santé, du e-learning et du e-commerce ;
    3) la remise en cause de notre contrat social, avec la mise au ban de la société de millions d’individus déchus de leur citoyenneté (aujourd’hui les #non-vacciné s, et bientôt tous les autres citoyens non observants ou jugés non méritants).

    En déclarant fièrement « avoir très envie d’emmerder » jusqu’à les faire plier tous ceux qu’il ne peut pas « [lui-même] mettre en prison », Emmanuel Macron défend une conception de la politique telle qu’on peut la trouver chez le juriste allemand Carl Schmitt : celle fondée sur la partition amis-ennemis, avec d’un côté le chef de guerre et sa meute (« nous ») et de l’autre les ennemis de l’intérieur (« eux ») qu’il s’agit de « réduire », c’est-à-dire de soumettre ou d’annihiler. Invoquer la santé et la protection de l’hôpital public pour imposer cette vision effarante de la politique aura été l’une des opérations les plus perverses de ce quinquennat.

    Espérons que cela aura la vertu de réveiller tous les citoyens de ce pays, qu’ils soient vaccinés ou non, inquiets ou confiants devant cette innovation, mais qui restent attachés à une conception républicaine et démocratique de notre communauté politique.

    #Barbara_Stiegler, professeure de philosophie politique à l’université Bordeaux Montaigne, vice-présidente du comité d’éthique du CHU de Bordeaux, membre du Parlement de l’Union populaire.

    Libération , le 8 janvier 2022

    Notes :
    (1) Voir Kant, Réponse à la question : qu’est-ce que les Lumières ? (1784)
    (2) Voir la tribune « Extension du pass sanitaire aux enfants et aux adolescents : des chercheurs et des professionnels de santé sonnent l’alerte », sur Mediapart, et la pétition « Sortons du pass et de l’impasse sanitaire », Libération, 6 août 2021, en ligne sur change.org.
    (3) Voir les dernières données de l’European Center for Disease Prevention and Control (https://qap.ecdc.europa.eu/public/extensions/COVID-19/vaccine-tracker....). Sur le retard français de la vaccination chez les personnes à risque, voir Florence Débarre et al. « The French domestic « sanitary pass » did not solve Covid-19 vaccination inequities in France ». https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2022.01.03.22268676v1.full.pdf
    (4) Sur les risques de contentieux liés à ces incidents, voir « Covid : les effets secondaires du vaccin vont coûter cher à l’Australie », dans les Echos.

  • L’infectiologue Éric Caumes a remis en cause la mesure du #pass-vaccinal qui doit entrer prochainement en vigueur en France. Invité dans « Europe Matin » vendredi, le professeur a pointé « une erreur d’un point de vue épidémiologiste, de santé publique et médical » avec l’apparition du variant Omicron.
    https://www.youtube.com/watch?v=5WCJWrXxHaw

    « Je pense qu’on a fait une erreur stratégique. Au lieu de jouer en population générale, on aurait dû se concentrer sur les personnes qui sont vraiment à risques »
    « Je pense que le pass vaccinal, c’est une erreur » à l’ère d’Omicron. « C’est un marqueur d’affichage et de clivage surtout »

    • Le choix de #LREM de mettre en échec la #CMP sur le #PasseSanitaire dévoile le stratagème politicien de la majorité : l’objectif n’est pas de gérer la crise sanitaire mais de faire un coup politique !

      Les entraves aux libertés individuelles ne sont qu’un emmerdement nécessaire.

      https://twitter.com/Ugobernalicis/status/1481748111533948937?cxt=HHwWkoCyqdGDnZApAAAA

      Un simple tweet provoque l’échec de la commission mixte paritaire
      https://www.youtube.com/watch?v=5y7xWXOcBV4

      Macron a sabordé le #PassVaccinal une 1ère fois en avouant vouloir emmerder les non-vaccinés au lieu de protéger les Français, LREM le saborde une 2ème fois à cause d’un tweet de Retailleau :

      La CMP sur le #passevaccinal a donné raison au #Sénat, c’est la victoire du bon sens. Les sénateurs ont obtenu de nombreuses clarifications et simplifications. Le passe est destiné à protéger les Français et à rien d’autre… n’en déplaise à Emmanuel Macron

    • Quand Gabriel Attal accuse les députés socialistes de relayer une thèse complotiste pour défendre le passe vaccinal montre que le gouvernement n’a plus aucun argument pour le défendre !

      Les débats se tendent à l’Assemblée nationale

      Le député Alain David (groupe socialistes et apparentés) a suggéré que le gouvernement ne voulait pas d’obligation vaccinale de crainte d’être tenu pour pénalement responsable en cas d’accident vaccinal. Cela lui a valu une réplique cinglante de Gabriel Attal, porte-parole de l’exécutif, estimant qu’il relayait une thèse « complotiste » et faisant valoir que le gouvernement avait bien su rendre la vaccination obligatoire pour les soignants.

      M. Attal a vu dans cette critique une « déchéance absolue » du camp socialiste. Ces mots ont braqué l’ensemble de la gauche, qui a demandé des excuses et que M. Attal retire ses propos, ce qu’il n’a pas fait, les reformulant seulement à la marge en se disant « choqué d’entendre relayer des thèses complotistes ». La bronca sur les bancs de l’Assemblée a conduit le président de séance à décider une courte suspension.

      https://www.lemonde.fr/politique/live/2022/01/14/les-debats-sur-le-passe-vaccinal-continuent-a-l-assemblee-a-athenes-valerie-

    • Yesterday Israeli 🇮🇱 Medical Association called for stopping mass testings and quarantines, and stopping Covid passports.

      Today the largest hospital in Israel attacked Ministry of Health for its “insane policies”.

      The tide is turning. The official narrative is falling apart.

      Dr. Eli David

  • Covid-19 : ces Français expatriés contraints à la survaccination
    https://www.france24.com/fr/france/20220111-covid-19-ces-fran%C3%A7ais-expatri%C3%A9s-contraints-%C3%A0-la-su

    Covid-19 : ces Français expatriés contraints à la survaccination
    De nombreux vaccins anti-Covid-19 administrés dans le monde sont reconnus par l’OMS, mais la France n’autorise que quatre d’entre eux dans son schéma vaccinal. Au moment où le projet de loi sur le passe vaccinale est examiné mardi au Sénat, les Français de l’étranger multiplient les doses de sérum pour décrocher le précieux laisser-passer. « On se sent un peu les oubliés de cette gestion de crise par notre gouvernement », se désole Frédéric, Français expatrié aux Émirats arabes unis, contacté par France 24. Il y a d’abord eu l’impossibilité de retourner en France pendant les confinements successifs liés à la pandémie, puis les problèmes de conversion des passes sanitaires étrangers en passe sanitaire français cet été. Aujourd’hui, le projet de loi transformant le passe sanitaire en passe vaccinal examiné le 11 janvier au Sénat, pour une mise en place autour du 17 janvier, rend à nouveau les Français de l’étranger fébriles. « On n’a pas de visibilité sur ce qui va se passer avec ce passe vaccinal », poursuit le résident d’Abou Dabi. Encouragés par les autorités françaises à se faire vacciner contre le Covid-19 dans leur pays de résidence, de nombreux Français de l’étranger ont reçu des vaccins administrés par leur pays d’accueil, sérums validés par l’Organisation mondiale de la santé (OMS). Problème, ces injections ne sont pas forcément reconnues par le schéma vaccinal mis en place par les autorités sanitaires françaises. Or, sans les quatre vaccins autorisés par la France – Pfizer, Moderna, Astra-Zeneca et Jansen –, pas de schéma vaccinal complet, donc pas de passe sanitaire. Et d’ici à mi-janvier, il n’y aura pas de passe-vaccinal non plus. « Ils ont laissé vacciner des Français avec du Sinopharm [le vaccin chinois] au lieu de prendre en charge avec des vaccins reconnus par l’UE, déplore Bruno*, journaliste français installé au Maroc. Du coup, obtenir son passe vaccinal français va encore relever du véritable défi ».
    Jusque-là, les expatriés qui revenaient sur le sol français vaccinés avec Sinopharm, Sinovac [deux vaccins chinois], Sputnik [russe] ou Covishield [indien] avaient encore la possibilité de présenter un test antigénique ou PCR négatif pour accéder aux lieux où le passe sanitaire était obligatoire. Mais avec l’arrivée dans quelques jours du passe vaccinal, il n’y aura plus d’échappatoire possible. Conséquences, ces Français multiplient les doses vaccinales pour rentrer dans les clous de l’État français. « Que ce soit deux ou trois doses, c’est toujours la galère pour les personnes vaccinées avec Sinopharm, constate Frédéric. Aux Émirats arabe unis, c’est pourtant un vaccin qui est très utilisé depuis décembre 2020 et qui est reconnu par l’OMS. Pour obtenir mon passe sanitaire, j’ai donc reçu deux doses de Pfizer en plus des deux doses de Sinopharm qu’on m’avait déjà injecté. Pour avoir mon passe, faudra-t-il encore une nouvelle dose de Pfizer ? »
    C’est le prix que certains expatriés acceptent de payer pour rentrer en France et disposer de leur passe vaccinal. De retour dans l’Hexagone à l’occasion des fêtes de fin d’année, Sophie, résidente au Maroc, a dû recevoir une dose de Pfizer s’ajoutant aux deux doses de sinopharm déjà reçues. Malgré les trois doses vaccinales reçues, les autorités sanitaires françaises lui ont signifié que cette dose de Pfizer n’était pas considérée comme un rappel. « Je dois encore recevoir une nouvelle dose de Pfizer pour avoir un schéma vaccinal complet, alors que j’ai déjà trois doses dans le corps. Je vais finir par voir des trucs étranges pousser sur mon corps avec tous ces vaccins », plaisante la jeune trentenaire. Quatre, cinq, certains expatriés ont même reçu jusqu’à six doses pour répondre au schéma vaccinal français dans les cas où le vaccin n’est ni reconnu par l’Agence européenne des médicaments (AEM) ni par l’OMS, comme le vaccin russe Spunik. Ces survaccinations font-elles courir un risque pour la santé ou l’immunité de ceux qui les reçoivent ? « Non, répond clairement à France 24 Nathan Pfeiffer-Smadja, infectiologue de l’Hôpital Bichat à Paris. Ces personnes sont juste inutilement surprotégées. Ces multiples vaccinations ne posent pas de problème pour la santé, et n’ont pas d’effet négatif sur le système immunitaire. Elles ont juste un système immunitaire qui est très stimulé, ce qui n’est jamais un problème en soi. »
    Pour beaucoup d’internautes, ces problèmes d’homologation de vaccins relèvent davantage de choix politiques et économiques que de la santé publique. « Nous publions les données sur les vaccins qui nous parviennent, et elles sont par nature limitées, évolutives, contradictoires, car il y a d’énormes enjeux d’ordre politique, idéologique, économique, sociétal (bien plus hélas que sanitaire et scientifique) derrière ce vaccin », relève sur son compte Twitter Monique Plaza, chercheuse au CNRS au Laboratoire de psychologie et neurosciences cognitives. « On voit que ce n’est pas le multilatéralisme à la mode OMS qui l’emporte, mais plutôt le chacun pour soi, analysait Pascal Boniface dans un article de France 24 du 29 janvier 2021. Il y a un aspect Nord-Sud tout à fait visible. Alors qu’il y avait un discours sur le vaccin ’bien commun’, les Occidentaux ont acheté 90 % des doses des deux vaccins américains. » Ces survaccinations sont d’autant plus dommageables que certains expatriés vivent dans des pays où les vaccins se font parfois rares. « Les ambassades devraient prendre en charge la campagne de vaccination pour ses ressortissants, estime Bruno qui vit au Maroc. Le pays offre le vaccin à tous ceux qui se trouvent sur son sol, qu’ils soient citoyens marocains, résidants étrangers ou simples étrangers de passage… Mais en tant qu’expatrié français, on a un sentiment de culpabilité à prendre des vaccins Pfizer aux Marocains. À l’heure où l’on sait qu’il est impératif de disposer d’une vaccination efficace et collective, l’Afrique devrait vacciner en priorité sa population et non une partie des étrangers. C’est à la France de vacciner ses ressortissants, pas à l’Afrique. »

    #Covid-19#migrant#migration#france#afrique#expatrie#sante#vaccination#survaccination#covax#passevaccinal

  • Dominique Costagliola : « Croire que cette vague sera la dernière, c’est de la pensée magique »
    https://www.lexpress.fr/actualite/sciences/omicron-croire-que-cette-vague-sera-la-derniere-c-est-de-la-pensee-magique_

    Cela ne peut être un objectif de santé publique que de vouloir « emmerder » les gens. Si l’on considère que la vaccination est un impératif de santé publique, on la rend donc obligatoire. Chez les non-vaccinés, il y a des personnes qui sont des antivax, mais d’autres ne sont juste pas vaccinées car elles ne sont pas informées ou n’ont pas accès aux soins. Il faut ne jamais avoir fait de terrain en santé publique pour ne pas comprendre que chez certaines personnes, la santé n’est pas une priorité. Quand on regarde les cartes de la couverture vaccinale en fonction du niveau de revenus, c’est très clair. Jusque-là, je n’étais pas en faveur de la vaccination obligatoire. Mais c’est la seule solution à ce stade. Ce qui veut dire que le passe vaccinal ne serait qu’un outil permettant de vérifier si l’on est vacciné ou pas. Y compris sur le lieu de travail.

  • "Emmanuel Macron à propos des non-vaccinés : « j’ai très envie de les emmerder. Suivi de : « Un irresponsable n’est plus un citoyen. »

    La politique de déchéance de citoyenneté est donc désormais pleinement assumée au plus haut sommet de l’Etat. Un tournant majeur."


    Le Conseil constitutionnel approuvera-t-il cette inégalité de traitement des citoyens français désormais clairement assumée ?

    Pyromane, définition en psychologie :
    « Le pyromane est soit un débile, soit un pervers. Ses mobiles sont variés, parfois inattendus : vengeance, calcul, vanité, affirmation virile, désir d’assister à un beau spectacle ou d’être au premier rang des sauveteurs. »

    Le plus grave n’est pas que Macron veuille emmerder les non-vaccinés au lieu de protéger les Français, c’est l’essence de sa politique !
    Leur dénier la citoyenneté, en revanche, c’est d’une gravité extrême !
    C’est une souillure indélébile qui abime la République 🔥
    #MacronDestitution

    Les parlementaires qui ce soir votent le pass vaccinal sont complices de cette déchéance démocratique.
    Et combien de députés vont faire le choix d’emmerder des millions de Français pour faire plaisir à un président qui ne respecte aucun de ses devoirs ?
    #PolitiqueDuPire #prototype-du-crédit-social à la chinoise ^ ^

    • Pas mieux pour invisibiliser les futurs grèves à venir !
      Partout droits de retrait et grèves des enseignants se multiplient car l’état refuse de protéger ses agents.
      https://www.liberation.fr/societe/education/profs-en-greve-a-saint-ouen-le-covid-aggrave-une-situation-qui-est-deja-s

      Profs en grève à Saint-Ouen : « Le Covid aggrave une situation qui est déjà scandaleuse »
      Une partie des enseignants du lycée Auguste-Blanqui observaient un deuxième jour de grève, ce mardi. lls réclament notamment un protocole sanitaire renforcé et des moyens supplémentaires pour assurer les remplacements de professeurs absents.

    • Tension dans l’hémicycle à la reprise des débats sur le PL Sanitaire les députés de gauche s’interrogent sur l’objectif de ce texte après l’ITW du président au Parisien : « veut-il protéger les Français ou emmerder les non vaccinés ? » la séance est suspendue… en direct sur LCP

      Jamais vu une telle unanimité dans l’opposition, à part LREM, même les groupes à priori favorables au pass vaccinal fustigent Macron.
      Ça devait passer crème et le pire Président de l’Histoire a réussi à se torpiller tout seul !

      Après avoir insulté avec son insupportable morgue la représentation nationale pendant des heures, Véran fait moins le malin maintenant que le patron a dévoilé le vrai plan.
      C’est toujours ça de pris 😂

      Première fois de ma vie que je suis sur LCP à 1h30 du mat pour suivre ce qu’il se passe à l’AN. C’est que c’est vraiment fascinant ce qui arrive. #DirectAN

      Jean Castex doit arriver à l’Assemblée nationale pour s’expliquer des propos du Président de la République qui insulte la population.
      Sans quoi, pas de poursuite des débats.

      Castex n’a pas daigné venir défendre l’indéfendable Président dément, donc la séance est suspendue jusqu’à demain 15h. (Les députés l’ont attendu en vain 1h 30.) C’est un aveu, pour une fois, Macron a dit la vérité !
      Cette loi n’a rien de sanitaire, c’est juste un #contre-feu gerbant pour détourner l’attention alors que l’épidémie flambe par leur faute, et si Castex est assez lâche pour bloquer son propre projet, c’est qu’il le sait bien.

      Les propos de Macron ne sont pas seulement une insulte, ils sont aussi un aveu. Le #PasseVaccinal n’est pas exigé au restaurant, dans les bars, etc. au motif d’un risque sanitaire particulier. Il est exigé pour "emmerder" les non-vaccinés. C’est une sanction sociale. Distopique !

    • La capacité de manipulation de Macron et de ses affidés atteint des hauteurs stratosphériques. Il est clairement établi que, lorsqu’on est dans l’incapacité de faire admettre une vision globale de l’avenir sous tendue par un programme et (aussi) des valeurs morales intangibles, la seule issue est de créer la polémique.

      https://www.20minutes.fr/politique/3211211-20220105-pass-vaccinal-fureur-opposition-apres-propos-macron-non-v

      #en_même_temps #macronisme #LREM

      https://pbs.twimg.com/media/DLYL922WsAAWiAP?format=jpg&name=medium

    • Voilà Tout est dit !
      https://www.youtube.com/watch?v=3QyESVrhqSY

      Choisir la politique du bouc émissaire et insulter les Français, avouer que le pass vaccinal est une extorsion de consentement : les masques tombent, Macron n’est plus président, il n’en respecte aucun devoir, il devient tyran et s’arroge tous les droits.
      Indéfendable !

      « Parler vrai, parler cash ? Non, ce sont des propos indignes dans la bouche d’un président de la République. Il parlait de droit et de devoir, Le devoir d’un Président de la République c’est d’assurer la concorde nationale, d’être le garant des institutions, d’assurer la sécurité de tous les Français. Or là, Emmanuel Macron choisit la politique du bouc émissaire. Et on sait très bien comment elle se termine cette politique : dans le sang, c’est terrible. Ce n’est pas défendable ».

      « Le 31 décembre 2019, l’apaisement, toujours, doit primer sur l’affrontement assurait Macron. Et voilà qu’il dit, ce mardi, qu’il a très envie d’emmerder les non vaccinés. C’est une très petite minorité qui est réfractaire et qu’on emmerde davantage. Et il l’assume. Le problème, c’est que nous avons 77% de vaccinés, 90% éligibles vaccinés et 300.000 cas en 24h. C’est un échec pendant 2 ans de cette politique sanitaire que Macron veut cacher derrière une petite phrase ».

      « Pendant toutes les épidémies, on a choisit la politique du bouc émissaire , la société a toujours voulu mettre au banc une partie de cette société. Mais ceux là ne sont pas responsables ».
      « Macron invente un délit de déchéance de citoyenneté »

      « Macron parle aussi de responsabilité en disant qu’un irresponsable n’est pas plus un citoyen. Mais un irresponsable de quoi ? Aujourd’hui, la vaccination n’est pas obligatoire. Donc un citoyen qui ne se vaccine pas ne viole aucune loi. Il choisit simplement de ne pas prendre un produit qui pourrait le protéger contre un virus dangereux. Là, Macron invente un délit de déchéance de citoyenneté sur une loi qui n’existe pas comme manger dans les trains ! Pour moi, il n’y a qu’un seul irresponsable, il est à l’Élysée ».

      « Il est temps de prendre conscience de cette politique dangereuse du pass vaccinal. Les débats vont changer de ton, les députés ont compris qu’il était un prototype de crédit social à la chinoise. Castaner en parle et fait la différence entre les bons et les mauvais citoyens. Sauf que la Constitution française ne fait pas de différence ».

      "Nous sommes des citoyens avec des droits et des devoirs, certes. Nous avons le droit de vote et nous avons un devoir hérité de la Constitution de 1793 : « S’il y a oppression contre le corps social, lorsqu’un seul de ses membres est opprimé, que le gouvernement viole les droits du peuple, l’insurrection est, pour le peuple et pour chaque portion du peuple, le plus sacré des droits et le plus indispensable des devoirs ».

    • Le pass vaccinal ne s’appliquera pas à l’Assemblée et au Sénat

      Le rapporteur a relevé que certains parlementaires ne sont pas vaccinés. Appliquer le passe vaccinal pour entrer dans l’hémicycle pourrait entraîner un risque constitutionnel.

      Assemblée, 5 h 26, les députés votent le #passevaccinal. Pas de purificateur d’air, pas de levée des brevets, pas de poste en réa, aucune stratégie sanitaire mais policière : « emmerder des Français » pour cacher la destruction de l’hôpital. François Ruffin

  • Dans la famille Covidiot, je voudrais, je voudrais… René Chiche et ses références pas du tout dégueulasses :
    https://twitter.com/rene_chiche/status/1478398308443897866

    L’extermination sociale de six millions de personnes qui ne sont pas vaccinées, ça s’appelle comment ?

    Les parlementaires qui vont voter une telle saloperie en prétendant agir pour la santé des Français, ça s’appelle comment ?
    #PasseVaccinal #DirectAN #AssembléeNationale

  • Mathieu Slama : « Un #état-d'exception qui dure depuis deux ans n’est plus un état d’exception »
    https://www.lefigaro.fr/vox/politique/mathieu-slama-un-etat-d-exception-qui-dure-depuis-deux-ans-n-est-plus-un-et

    FIGAROVOX/TRIBUNE - Face à la propagation du variant Omicron, le gouvernement a annoncé lundi de nouvelles restrictions et la mise en place du passe vaccinal. L’état d’exception est devenu la norme, fragilisant ainsi les principes démocratiques de la République, s’inquiète #Mathieu-Slama.

    Consultant et analyste politique, Mathieu Slama collabore à plusieurs médias, notamment Le Figaro et Le Huffington Post. Il a publié La guerre des mondes, réflexions sur la croisade de Poutine contre l’Occident, (éd. de Fallois, 2016).

    « Tout cela semble être un film qui ne finit pas ». Pour une fois, on ne peut qu’être d’accord avec cette formule du Premier ministre Jean Castex lors de son allocution lundi soir pour annoncer les nouvelles mesures de restriction pour faire face au rebond épidémique actuel. Un film qui ne finit pas, et qui, à mesure qu’il avance, devient de plus en plus oppressant et anxiogène.

    Il y aurait beaucoup à dire sur le retour des mesures absurdes et ubuesques comme le fait de ne plus pouvoir manger debout dans un restaurant ou encore d’interdire de consommer dans les trains, illustrations tragicomiques de la biopolitique intrusive et infantilisante que l’on subit depuis maintenant deux ans. Il y aurait également beaucoup à dire sur le retour du masque en extérieur, mesure à la fois inutile et aussi problématique du point de vue juridique, puisque la loi française indique que « la République se vit à visage découvert ». Il y aurait enfin beaucoup à dire sur la malheureuse formule de Jean Castex - « ne faire peser les restrictions que sur les non-vaccinés » - qui n’a pas sa place dans une démocratie normale.


    Mais l’essentiel n’est pas là. L’essentiel est dans le nouveau paradigme de gouvernement qui s’installe depuis deux ans et qui fait du régime démocratique l’exception et le #régime-d'exception la norme. Il est dans la banalisation d’une méthode de gouvernement non démocratique, autoritaire, verticale, et dans la normalisation d’un état d’exception devenu permanent.

    Les mesures annoncées par Jean Castex ne sont pas des propositions mais des décisions prises dans le cadre d’un #Conseil-de-défense, qui est l’organe de décision privilégié par le gouvernement depuis le début de la pandémie. C’est donc un #organe-opaque, centré sur la personne du chef de l’État, qui prend toutes les décisions, charge au reste des institutions démocratiques de les valider (nous y reviendrons). Le Conseil de défense ne consulte qu’un seul organisme avant de se réunir : le #Conseil-scientifique, organisme non élu réunissant des médecins et experts qui n’ont aucune #légitimité-démocratique – et, disons-le, aucun souci de la chose publique. Aucun compte-rendu n’est fait de ces réunions, évidemment.

    C’est donc dans l’#opacité la plus totale que sont prises les décisions les plus cruciales et les plus attentatoires à nos libertés depuis plus d’un demi-siècle. L’Assemblée nationale, dont la majorité est peuplée de #députés-dociles et totalement acquis à la cause du gouvernement, ne joue plus son rôle de co-fabricant de la loi : il se contente de parapher les décisions prises sans changer quoi que ce soit de substantiel aux textes discutés. Le Parlement (Assemblée et Sénat) n’est absolument pas associé à la prise de décision en amont. Quant au Sénat, dominé par Les Républicains, il ose parfois apporter quelques modifications mais celles-ci sont immanquablement rejetées par l’Assemblée, comme ce fut le cas lors de la discussion autour du dernier projet de #loi-sanitaire. Il en sera certainement de même pour le projet de loi qui sera discuté dans quelques jours. Ajoutons à cela que les discussions parlementaires sont menées dans le cadre d’une #procédure-accélérée qui contraint considérablement les oppositions et empêche, par la force des choses, la tenue de vraies discussions de fond...

    • Il est désormais possible, dans notre démocratie, d’enfermer les gens et d’installer une société de surveillance, de mettre en place des passes pour diriger le comportement des citoyens, de diriger par la contrainte et la menace plutôt que la conviction, de désigner des millions de citoyens comme les responsables d’une crise. On sous-estime grandement les dommages causés par cette crise sur notre démocratie et sur notre capacité à discerner ce qui est acceptable et ce qui ne l’est pas. Le virus a révélé combien nos principes démocratiques étaient fragiles, au point que la perspective d’un couvre-feu (finalement invalidée) est désormais accueillie comme une chose normale et envisageable, comme les aléas d’une crise qui n’en finit plus et qui, quand elle sera finie, risque de laisser des traces indélébiles sur notre démocratie.

    • Concernant le #passe-vaccinal :

      L’avis [du Conseil d’État ] comporte trois réserves et précisions en partie acceptées par le gouvernement. Voici ainsi revenir le concept de « motifs impérieux ». Alors qu’en 2020, il incarnait la limitation à l’interdiction d’aller et venir, qu’il protège désormais ce principe constitutionnel. Le Conseil d’État l’invoque pour suggérer au législateur « d’introduire la possibilité d’admettre la présentation du résultat d’un examen de dépistage virologique ne concluant pas à une contamination par la Covid-19 en cas de déplacement pour des motifs impérieux de nature familiale ou de santé, y compris lorsque ce déplacement ne présente pas un caractère d’urgence ».

      La « rigidité » du projet de loi

      Sourcilleux, le Conseil d’État demande aussi au législateur de « modifier la rédaction du projet pour admettre expressément le certificat de rétablissement, par dérogation et dans des conditions définies par décret, comme un substitut du justificatif de statut vaccinal ». Le projet de loi assujettissait en effet les récents malades du Covid au passe vaccinal alors que ces derniers doivent respecter un certain délai avant une vaccination. Autre réserve formulée du bout des lèvres par les sages du Palais Royal, le fait qu’il n’est pas prévu de voyage retour pour le passe vaccinal et que, pour revenir en arrière, c’est-à-dire au simple passe sanitaire, une loi sera nécessaire. Sans s’y opposer, le Conseil d’État estime tout de même qu’en la matière « le projet peut induire une forme de rigidité ».

      https://www.lefigaro.fr/actualite-france/projet-de-loi-sanitaire-le-conseil-d-etat-laisse-passer-des-mesures-restrei

  • « Le passeur est le symptôme de la fermeture des frontières, en aucun cas la cause des mouvements migratoires »

    Au cliché du passeur véreux profitant de la misère des gens, #Marie_Cosnay et #Raphaël_Krafft, auteurs sur les questions de la frontière et des migrations, opposent, dans une tribune au « Monde », l’éloge de figures héroïques capables de nécessaires transgressions et de professionnels indispensables exerçant un métier dangereux.

    Comment quitter Alep assiégée, traverser la Manche, franchir les murs toujours plus hauts de la forteresse Europe, sinon à l’aide d’un passeur ? C’est souvent l’échec, voire la mort pour qui voudrait s’en affranchir. Yaya Karamoko, le 22 mai 2021, Abdoulaye Koulibaly le 8 août ou encore Sohaïbo Billa se seraient-ils noyés dans la Bidassoa s’ils avaient pu dépenser les cinquante euros demandés par les passeurs pour franchir la frontière franco-espagnole ?

    Depuis la fermeture des frontières dans les années 1980 et la réduction drastique des attributions de visa, celles et ceux qui fuient leur pays n’ont d’autres possibilités que de louer les services de personnes pour entreprendre ces voyages longs et périlleux.

    Le passeur est le symptôme de la fermeture des frontières, en aucun cas la cause des mouvements migratoires. Malgré cette équation largement documentée, les dirigeants politiques européens continuent d’imputer les morts aux frontières aux passeurs, avec l’assentiment de tous.

    La figure du passeur véreux profitant de la misère des gens est communément admise jusque parmi les plus fervents tenants de l’accueil. Ne trouve grâce aux yeux de ces derniers que celui qui ferait ça gratuitement. C’est oublier que le métier est dangereux dans un environnement hostile, que les peines encourues peuvent être lourdes. Le passeur philanthrope ne suffirait à répondre à la demande de passage toujours plus grande à mesure que se multiplient les obstacles et se durcissent les contrôles.

    Le passeur connaît les lieux. Il est des deux mondes, il est entre les deux mondes. Etre des deux mondes signifie qu’on est capable de transgression. Au Pays basque, le contrebandier était aimé de sa communauté, il assurait le lien entre les vallées du pays divisé. Pourvoyeur de denrées et de nouvelles, il était une figure positive, quasi héroïque, capable de désobéissance aux règles commerciales du moment. « Poète en son genre » ; disait Dostoïevski. Capable aussi, au moment où il s’agit de faire des choix, d’en faire de courageux. C’est ce qu’ont fait des passeurs célèbres localement durant la seconde guerre mondiale, dont on honore aujourd’hui la mémoire, Charlot Blanchi d’Angeltou à Saint-Martin-Vésubie, Paul Barberan à l’Hospitalet-près-l’Andorre, Florentino Goikoetxea au Pays basque.
    Les contrebandiers

    Les services secrets britanniques, américains et de la France libre ne s’y sont pas trompés : c’est vers les contrebandiers qu’ils se sont tournés pour organiser les passages à travers les Pyrénées, de leurs agents. Alejandro Elizalde, par le rocher des Perdrix, conduit de France en Espagne les tout premiers aviateurs du réseau Comète, la nuit du 24 au 25 juillet 1941. Elizalde connaît la montagne, il prend des risques, il est payé pour ça. Ce sont des risques qu’il prend, d’ailleurs, jusqu’au bout : arrêté fin 1941, il mourra à son retour des camps, en 1945.

    Le passage est une activité concurrentielle, qui implique une obligation de résultat et l’entretien d’une réputation. Le prix varie selon la dangerosité de la route et la qualité de la prestation. Au plus fort de ladite récente « crise migratoire », l’université de Harvard s’est intéressée à la qualité de la prestation des passeurs sur la route des Balkans. Interrogée à ce sujet, la clientèle, majoritairement syrienne, s’était révélée satisfaite à plus de 75 %. « Guides, sauveurs, alliés » sont les termes le plus souvent utilisés par les migrants pour qualifier leurs passeurs.

    Le passeur basque expert des années 1940 doit satisfaire à la demande sans chercher d’autres moyens de subsistance. Si on lit, dans les hommages posthumes, que l’argent n’était pas sa motivation, personne ne dit que Florentino Goikoetxea, qui reçut la Légion d’honneur en 1962, vivait d’amour, d’idées et d’eau fraîche. C’est pour gagner de l’argent qu’il avait l’habitude de se tenir aux marges, avant la guerre. Ce que les commentaires signifient, c’est qu’il a su, dans ces marges, évoluer d’une manière raisonnable. Il y a une « raison de la marge », une morale de la transgression.
    Politiques de criminalisation

    Ce sont les politiques de criminalisation du passage imposées par l’Union européenne (UE) qui ont transformé une économie artisanale en une entreprise criminelle. Dans l’archipel tunisien des Kerkennah, les pêcheurs, connaisseurs de la mer et familiers du détroit de Sicile, ont laissé la place aux escrocs après que l’Etat tunisien, encouragé et financé par l’Union européenne, eut multiplié les mesures coercitives. Au Niger, les parlementaires ont été incités par l’UE à voter une loi criminalisant les transporteurs transsahariens, obligeant l’emprunt de pistes toujours plus dangereuses à un prix toujours plus élevé. Au large de la Libye, c’est lorsque l’opération de sauvetage Mare Nostrum se mue en dispositif de lutte contre les passeurs que les bateaux en dur sont retirés au profit des embarcations pneumatiques surchargées.

    Quand les frontières maritimes, extérieures, entre un monde et un autre, sont à ce point creusées qu’elles font de quelques centaines de milles dans l’océan Atlantique ou la mer Méditerranée de véritables charniers, il s’agit pour les passeurs de transgresser les interdits d’une façon radicale. La morale n’a alors plus rien à faire dans l’histoire. Plus les mondes sont divisés et interdits l’un à l’autre, plus il est compliqué d’être de l’entre-deux.

    Qui sont ces 1 500 passeurs que le ministre français de l’intérieur se targue d’avoir fait arrêter en 2020 dans le Calaisis ? Des migrants eux-mêmes, roturiers de leur propre traversée à l’image des héros d’Un sac de billes, Maurice et Joseph Joffo, qui organisent quelques passages à travers la ligne de démarcation pour financer la poursuite de leur voyage en zone libre. Aujourd’hui, ils ferment les portes des camions sur les parkings de l’autoroute, font le guet sur la plage ou appâtent les clients.

    Désigner le passeur comme mauvais objet absolu, comme cause de la mort de masse aux frontières européennes, extérieures et intérieures, sert aux gouvernements à se dédouaner de sa politique criminelle. La critique unanime témoigne d’un impensé commun : le passeur franchit l’infranchissable. On fait ainsi de la ligne frontière un enjeu considérable, un tabou. La sacraliser pèse sur tout le monde.

    Serait-ce que le passeur, celui qui veille, tant bien que mal, sur les espaces d’entre-deux, respecterait plus le rêve de circulation, à l’intérieur de l’Union européenne, que l’Union européenne elle-même ?

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/12/27/le-passeur-est-le-symptome-de-la-fermeture-des-frontieres-en-aucun-cas-la-ca
    #passeurs #migrations #smuggler #asile #réfugiés #passeur #frontières #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #décès #morts #fermeture_des_frontières #responsabilité

    ping @isskein @karine4

  • Covid-19 : un test négatif de moins de vingt-quatre heures nécessaire pour se rendre dans les outre-mer
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2021/12/24/covid-19-un-test-negatif-de-moins-de-vingt-quatre-heures-necessaire-pour-se-

    Covid-19 : un test négatif de moins de vingt-quatre heures nécessaire pour se rendre dans les outre-mer
    Toutes les personnes – vaccinées ou non – souhaitant se rendre dans les outre-mer devront présenter un résultat de test de dépistage au Covid-19 négatif, qu’il soit PCR ou antigénique, de moins de vingt-quatre heures à partir du mardi 28 décembre, a annoncé le gouvernement dans un communiqué diffusé vendredi 24 décembre. Jusqu’ici, un test négatif de moins de soixante-douze heures pour un PCR ou de moins de quarante-huit heures pour un antigénique était exigé avant le départ. Cette mesure plus restrictive s’appliquera aux passagers voyageant à partir de la France métropolitaine ou d’un pays étranger, fait savoir le texte. « Cette mesure est nécessaire afin de protéger les territoires ultramarins de la nouvelle vague épidémique sous l’effet du variant Omicron et de limiter la circulation du virus dans le contexte d’une forte reprise des contaminations dans l’Hexagone », précise le gouvernement dans son communiqué.
    Le projet de loi transformant le passe sanitaire en passe vaccinal, présenté lundi 27 décembre en conseil des ministres, prévoit par ailleurs de prolonger l’état d’urgence sanitaire jusqu’au 31 mars 2022 à la Martinique et de le déclarer jusqu’à la même date à La Réunion. Il est précisé dans le texte que, « en cas de déclaration de l’état d’urgence sanitaire dans une autre collectivité ultra-marine avant le 1er mars 2022, cet état d’urgence s’appliquera également jusqu’au 31 mars 2022 ».

    #Covid-19#migrant#migration#france#metropole#territoireultramarin#lareunion#martinique#passesanitaire#passevaccinal#test#variant#omicron

  • Le non-vacciné est le bouc émissaire de la crise sanitaire

    En Autriche, les autorités ont annoncé la mise en place d’un confinement pour les personnes non-vaccinées. Une telle mesure permet de désigner des coupables tout trouvés.

    Le chancelier autrichien Alexander Schallenberg a annoncé, dimanche 14 novembre, l’entrée en vigueur dès ce lundi d’un confinement pour les personnes non vaccinées ou qui n’ont pas guéri du #Covid-19. L’#Autriche devient le premier pays au monde à mettre en place une telle mesure, qui s’installe donc au cœur même de l’Europe démocratique et libérale. Avec ce confinement discriminatoire, nous franchissons une étape supplémentaire dans la politique autoritaire mise en place pour lutter contre le Covid, puisqu’il s’agit désormais d’aller au bout de la logique du #passe_sanitaire, c’est-à-dire exclure définitivement les non-vaccinés de toute vie sociale.
    S’il y a une leçon que nous pouvons retenir de cette pandémie, c’est que celle-ci agit comme un laboratoire géant où les mesures les plus liberticides sont testées, approuvées puis généralisées. Le confinement, le couvre-feu, le masque en extérieur, le passe sanitaire : toutes ces mesures insensées et attentatoires à l’État de droit se sont progressivement normalisées à mesure qu’elles duraient dans le temps et s’étendaient géographiquement. Le confinement a commencé en Chine, puis a contaminé l’Italie et la France ; le passe sanitaire a d’abord été mis en place en Israël avant de contaminer l’Europe entière.
    Pourquoi en irait-il différemment de ce confinement discriminatoire mis en place par l’Autriche ? On a entendu hier soir plusieurs candidats de droite à la présidentielle indiquer qu’ils n’étaient pas défavorables à l’idée de confiner les non-vaccinés seulement. Le Professeur Gilles Pialoux a déclaré ce matin que le confinement des non-vaccinés « avait du sens d’un point de vue médical ». Tous les tabous sautent un à un, et ce n’est qu’une question de temps avant que celui-ci ne soit brisé.
    Il est inutile de préciser qu’un tel monde qui enferme les citoyens selon qu’ils sont vaccinés ou non est un monde inacceptable et contraire à tout notre héritage démocratique. L’enjeu que nous voudrions soulever ici est ailleurs.
    La France n’a pas attendu l’Autriche pour mener une politique culpabilisatrice et discriminatoire vis-à-vis des non-vaccinés. La figure du non-vacciné est devenue au fil des mois, à mesure que la politique vaccinale devenait de plus en plus autoritaire, une sorte de citoyen à part, réduit à son statut sérologique et diabolisés en permanence par un pouvoir qui en a fait le bouc émissaire de la crise. Cela ne doit rien au hasard, et relève d’une stratégie méthodiquement pensée et mise en place.
    Le philosophe René Girard élabore, dans son ouvrage célèbre La Violence et le sacré, l’idée selon laquelle les sociétés sont, depuis les origines, troublées par un mal, le désir mimétique, source de rivalités et de conflits, et qu’elles ont résolu ce mal en désignant une victime sacrificielle, le bouc émissaire. Girard écrit :
    « À l’agitation et à la peur qui ont précédé le choix du bouc émissaire, puis à la violence exercée contre lui, succède, après sa mort, un climat nouveau d’harmonie et de paix. »
    Le bouc émissaire est à la fois celui qui concentre toute la responsabilité de la crise et celui qui garantit, par son sacrifice, le maintien de l’ordre social. Pour Girard :
    « Qu’elle soit physique ou psychologique, la violence infligée à la victime nous paraît justifiée par la responsabilité du bouc émissaire dans la survenue d’un mal dont il convient de se venger, d’un élément mauvais ou nuisible auquel il faut résister ou qu’il importe d’éliminer. »
    Chaque crise a donc son coupable désigné. Girard écrit :
    « Les persécuteurs finissent toujours par se convaincre qu’un petit nombre d’individus, ou même un seul peut se rendre extrêmement nuisible à la société tout entière, en dépit de sa faiblesse relative. »
    Les contextes changent, mais les mécanismes anthropologiques perdurent. La crise du Covid-19 n’y échappe pas. Face à une épidémie sans fin et un climat de peur savamment entretenu par les gouvernements pour favoriser l’acceptabilité de leurs mesures liberticides, les non-vaccinés sont devenus les boucs émissaires de la crise sanitaire, ceux par lesquels l’épidémie perdure et « rebondit » (selon le mot consacré).
    Emmanuel Macron et son gouvernement ont délibérément construit cette figure de bouc émissaire, qualifiant tour à tour les non-vaccinés d’égoïstes, d’irresponsables, leur faisant endosser la responsabilité d’un éventuel reconfinement, les ostracisant par le moyen du passe sanitaire. Le discours est clair : si l’épidémie repart, c’est de la faute des non-vaccinés ; si nous devons reconfiner ou fermer des commerces, ce sera de votre faute. Quant au passe, il agit comme une sorte de certificat de pureté et de vertu, séparant les purs (vaccinés) des impurs (non-vaccinés), les vertueux des immoraux, les responsables des irresponsables. Il matérialise la stratégie du bouc émissaire en marginalisant socialement, de manière concrète, ceux qui sont rendus responsables du malheur.
    En désignant à la foule un bouc émissaire, le gouvernement a agi de manière cynique et irresponsable, encourageant les divisions, le ressentiment et la violence verbale. En concentrant la colère des gens sur les non-vaccinés, il s’est exonéré de toute responsabilité dans la conduite de la crise, détournant le regard des gens sur ses propres insuffisances au détriment d’une partie de la population. Obnubilés par l’ « irresponsabilité » des non-vaccinés, nous avons fini par oublier que dans une crise, la responsabilité incombe d’abord aux gouvernants.
    Mais une telle manipulation n’est possible que s’il y a, déjà là, une société prête à accepter la désignation d’un bouc émissaire. René Girard évoque l’existence d’un « inconscient persécuteur » et rappelle que la stratégie du bouc émissaire n’est possible que parce qu’il y a des oreilles attentives qui l’écoutent et la reproduisent :
    « Que de telles choses puissent se produire, surtout à notre époque, c’est possible, mais elles ne se produiraient pas, même aujourd’hui, si les manipulateurs éventuels ne disposaient pas, pour organiser leurs mauvais coups, d’une masse éminemment manipulable, autrement dit de gens susceptibles de se laisser enfermer dans le système de la représentation persécutrice, de gens capables de croyance sous le rapport du bouc émissaire. »
    Si les peuples sont majoritairement en faveur de mesures restrictives accablant les non-vaccinés, c’est qu’ils ont besoin d’entendre ce discours et de diriger leur colère vers une victime sacrificielle. Le #non-vacciné est une figure indispensable à la crise, parce qu’elle répond à un besoin de désigner un coupable. Si le non-vacciné n’existe pas, alors il n’y a plus de coupable. Cette demande est d’autant plus forte chez un électorat âgé, partisan de l’ordre, qui plébiscite fortement les mesures restrictives prises par le gouvernement. Il y a aussi, dans toute cette histoire, des enjeux électoraux dont a parfaitement conscience Emmanuel Macron qui remobilise délibérément son électorat à la faveur de sa politique autoritaire et répressive.
    Emmanuel Macron n’en est pas à son premier coup d’essai. Cette même stratégie fut mise en place à l’encontre des Gilets jaunes, diabolisés à outrance par le pouvoir (et légitimant une doctrine de maintien de l’ordre beaucoup plus stricte lors des manifestations), ou encore à l’encontre des chômeurs, accusés de profiter du système et de l’ « assistanat ». La stratégie macronienne est une stratégie de division et d’hystérisation qui aboutit, à chaque crise, à la désignation d’un coupable et à la mise en place d’une politique répressive à l’encontre d’une partie de la population.
    La grave crise de l’État de droit que nous traversons est aussi une crise de la citoyenneté, où celle-ci n’est accordée pleinement qu’à la condition d’être un « citoyen responsable », c’est-à-dire soumis aux injonctions du pouvoir. Or les Gilets jaunes, anti-passe, non vaccinés, chômeurs etc. ne sont pas moins citoyens que les autres. Mais à force d’entendre le contraire dans la bouche de nos dirigeants, nous avons fini par nous laisser convaincre. La société sécuritaire et répressive est une société de la recherche permanente du coupable. C’est une société fragmentée, divisée, injuste et inégalitaire. D’une certaine manière, la crise sanitaire a rendu visible ce qui était jusqu’alors moins visible mais tout aussi prégnant.
    Rappelons-le : on ne saurait faire durablement société dans la recherche permanente d’un coupable. La stratégie du #bouc_émissaire est une solution de court terme, mais qui menace notre société libérale et démocratique dans ses fondements mêmes. Comme le rappelle René Girard, « on ne manquera pas de faire remarquer qu’un bouc émissaire, aussi puissamment rejeté puis adulé soit-il, ne saurait éliminer la peste ».
    #Mathieu_Slama

    https://www.lefigaro.fr/vox/societe/mathieu-slama-le-non-vaccine-est-le-bouc-emissaire-de-la-crise-sanitaire-20

    #vaccination #discrimination #liberté #démocratie

  • Stéphane Dedieu :
    https://twitter.com/dedieu_stephane/status/1474300901972189186

    1- On se laisse dépasser par la contamination car COMME D’HABITUDE l’exécutif n’a rien anticipé...et n’a rien fait pour protéger les enfants dans les écoles (merci #JeanMichelCovid et les 🤡 de la @sf_pediatrie).

    2- Donc les cas explosent (ce qui était prévu).

    3- Donc ...

    4- ... on va baisser les règles d’isolement...en oubliant pourquoi elles existent 🤦‍♂️... et que #Omicron est beaucoup plus transmissible que #Delta.

    5- ... on augmentera en conséquence les cas, les hospitalisations et la durée de cette vague.

    6- Pour justifier de cette incompétence de gestion, l’exécutif, bien appuyé par des médias perroquets 🦜, fait passer le message de la non-dangerosité de #Omicron 🤦‍♂️... et se calque sur la stratégie de « laisser diffuser le virus », chère à #Raoult, #Blablachier, #gkierzek, #BlanquerMent...

    ➡️ On ne dira jamais assez à quel point cette stratégie est « court-termiste », dangereuse, et un immense non-sens scientifique et médical

    ➡️ Pendant ce temps, toujours rien du côté du #teletravail, ni de l’amélioration de la qualité de l’air 💨🌬 ni de campagne sur le port CORRECT du masque 😷, ni sur les FFP2... on continue à ne rien contrôler, surtout pas les faux #PasseSanitaire, ni les restos qui laissent entrer sans vérification du pass, ni certains commerçants qui ne portent pas le masque depuis des mois...

    ... Mais tout cela valait bien le coup hein puisqu’il fallait sauver Noël 🤦‍♂️

    Donc... Joyeux Noël 🎅

  • Personne ne doit être oublié ni mis de côté - Anarchie, confinement et crypto-eugénisme
    https://archive.org/details/anarchisme_et_crypto-eugenisme

    Personne ne doit être oublié ni mis de côté - Anarchie, confinement et crypto-eugénisme
    Publié le 23 décembre 2021 sur paris-luttes.info
    Publication initiale en mars 2021 sur montreal contre-info [en]

    Alors que la #5emeVagueBlanquer submerge actuellement les enfants et qu’un nouveau variant à fort échappement immunitaire connait une croissance inédite, la ritournelle crypto-eugéniste du déni reprend de plus belle, du sommet de l’État aux plateaux télé du libéralisme autoritaire, et ce jusqu’à trouver des relais au sein des milieux militants. Dans ce texte, des anarchistes proposent une autocritique des tendances du mouvement qui assimilent toutes mesures de prévention à de la répression, et légitiment ainsi des positions ultralibérales et validistes. Il nous a semblé que les questions soulevées ici pouvaient résonner bien au-delà du seul mouvement anarchiste, car prendre au sérieux la gravité de l’épidémie est la seule voie pour sortir de notre impuissance politique.

    Un texte soumis anonymement à Montreal Counter-Info en mars 2021, critiquant les idées covidonégationnistes, conspirationnistes et "anti-confinement" au sein du mouvement anarchiste.

    Anarchie, confinement et crypto-eugénisme : Une réponse critique de quelques anarchistes du Pays de Galles et d’Angleterre

    "La crise du Covid19 a présenté un défi pour les anarchistes et les autres personnes qui croient en une vie pleinement autonome et libérée" – c’est ce que déclare une récente contribution à Montreal Counter-info. Ces mots résonnent assurément avec nos expériences. Le mouvement anarchiste au Royaume-Uni n’est pas seulement confronté à un défi, il est lui-même en crise. Flics infiltrés, interdiction de squatter, agresseurs, corbynisme, TERFs – la liste est longue, et le virus a déjà trouvé la "scène" dans un triste état. Mais le Covid-19 représente quelque chose de différent, et sur ce point nous sommes d’accord avec l’analyse de Montréal. C’est aussi là que notre accord s’arrête. Dans le texte qui suit, nous critiquons cette analyse – car ses arguments sont similaires à ceux que nous avons entendus parmi nos amis et même nos camarades au cours des derniers mois. Bien que l’épidémie au Royaume-Uni semble être en baisse, les tendances qui lui sont associées demeurent. Le texte appelle des critiques sérieuses, et nous offrons donc ce qui suit dans un esprit de lutte contre le présent.
    /.../

    Là où le texte appelle les anarchistes à s’interroger et à critiquer la gravité du Covid-19, nous appelons les anarchistes à réfléchir de manière critique à l’eugénisme en tant que logique du capital et de l’État. Nous devons également nous attaquer sérieusement à son histoire pénible dans la tradition anarchiste, des écrits d’Emma Goldman aux courants de pensée primitivistes et anti-civilisation. Alors que les pandémies deviennent de plus en plus présentes et que les écofascismes se banalisent, les anarchistes doivent se battre pour s’assurer que personne ne soit "mis de côté".

    /.../

    Nous devons définir nos cibles et reconnaître nos ennemis. Le business libre n’a rien à voir avec notre liberté. S’opposer simplement aux « décrets d’en haut » du confinement est aussi vide que de soutenir toutes les protestations. Au Royaume-Uni, nous avons vu de grandes manifestations tapageuses de conspirationniste dirigées par des célébrités antisémites, mais nous avons également vu des rassemblements non politiques combattre la police – ainsi que des manifestations organisées pour les vies noires. Les États-Unis présentent une dichotomie encore plus simple. Rien ne pourrait être plus clair que la différence entre les manifestations pro-business de la fin du printemps contre les gouverneurs démocrates, et le soulèvement noir de l’été contre la police. Le premier défendait les droits des petites entreprises et a fusionné avec le mouvement des milices de droite. Le second a fait exploser la colère contre les flics, exproprié des biens et créé des espaces autonomes temporaires. En tant qu’anarchistes, nous savons où nous nous situons.

    Lire le texte complet sur paris-luttes.info

    Pour aller plus loin, autres lectures audios :
    Interview de Valérie Gérard : Tracer des lignes : sur la mobilisation contre le pass sanitaire : archive.org/details/tracer-des-lignes
    Pandémie, vaccin, pass sanitaire : pour une position révolutionnaire : archive.org/details/pandemie-revolutionaire
    Vaccinée, troisième dose de solidarité offensive à la rentrée : archive.org/details/je-suis-vaccinee
    Interview de Olivier Tesquet : Épidémie de surveillance : archive.org/details/epidemie_de_surveillance
    Lecture du témoignage de Yasmina Kettal : "Probablement qu’on y est, l’hôpital s’effondre..." : archive.org/details/l-hopital_s-effondre
    Savoir et prévoir - Première chronologie de l’émergence du #Covid19 : archive.org/details/chronologiecovid19

    photo d’illustration : ValK.
    ☆ autres photos : https://vu.fr/valkphotos
    ☆ infos / audios : https://frama.link/karacole
    ☆ oripeaux : https://frama.link/kolavalk
    ☆ agenda militant namnète : https://44.demosphere.net
    ☆ m’aider à prouver que j’ai une activité : https://liberapay.com/ValK

    #audio/opensource_audio #covid #covid19 #anarchisme #autodefense-sanitaire #solidarité-populaire #santé-communautaire #confusionnisme #conspirationnisme

  • Appel à l’union des Français pour demander la #MotionDeCensure contre le #PasseVaccinal (UPR)
    https://www.crashdebug.fr/appel-a-l-union-des-francais-pour-demander-la-motiondecensure-contre-le-p

    On devais vous passer autre chose, mais cette vidéo est urgente, car Il y a un Conseil des ministres exceptionnel le lundi 27 décembre sur le passe vaccinal, puis le texte de la loi seras transféré à l’assemblée nationale pour une 1ere lecture, entre noël et le jour de l’an...,

    Un bonne façon de prendre les français(es) en traître et de passer le texte pour une promulgation début janvier.

    Aussi François Asselineau, propose de contraindre le gouvernement de façon jurique, en indiquant qu’il faut aller voir son député(e), téléphoner, écrire pour leur demander de déposer une mention de censure.

    Pour le reste, il parle de test RFID en suède, n’oubliez pas que ça, c’est leur GRAAL, un implant, et votre passe sanitaire, votre carte d’identité (pour accéder aussi à internet), votre... (...)

    #En_vedette #Divers

  • Covid-19 : les Vingt-Sept tentent de sauver le passe sanitaire européen
    https://www.lemonde.fr/international/article/2021/12/16/covid-19-les-vingt-sept-tentent-de-sauver-le-passe-sanitaire-europeen_610634

    Covid-19 : les Vingt-Sept tentent de sauver le passe sanitaire européen
    Réunis à Bruxelles, les chefs d’Etat et de gouvernement européens ont insisté sur une nécessaire accélération des programmes de vaccination.
    Le sujet n’avait pas disparu de leurs discussions, mais il était passé au second plan depuis cet été. Jeudi 16 décembre, la pandémie de Covid-19 a de nouveau été au cœur des échanges entre les chefs d’Etat et de gouvernement européens, qui se sont retrouvés à Bruxelles pour leur dernier rendez-vous de l’année. L’apparition du variant Omicron, qui, à en croire la Commission, pourrait devenir dominant en Europe dès la mi-janvier 2022, est venue bousculer le semblant de retour à la normale sur le Vieux Continent, permis par la montée en puissance de la vaccination.

    « Omicron a fait péter l’agenda », s’exclame un diplomate. Jeudi matin, les Vingt-Sept, qui étaient censés aborder trois sujets – la situation sanitaire, la résilience de l’Union européenne (UE) et la hausse des prix de l’énergie –, ont exclusivement parlé Covid-19. « C’est une course contre la montre », a commenté le premier ministre grec, Kyriakos Mitsotakis, alors que le nouveau variant se propage à grande vitesse et que la vaccination reste la principale arme pour le contenir. Aujourd’hui, 67 % de la population européenne a reçu deux injections, mais ce taux est inférieur à 50 % dans trois pays (Bulgarie, Roumanie, Slovaquie). Quant à l’administration de la dose de rappel, elle progresse mais ne concerne, à ce jour, que 18 % des Européens.
    Athènes n’est pas seul, ces derniers jours, à avoir mis à mal le certificat sanitaire européen et la libre circulation au sein de l’espace communautaire. Plus tôt en décembre, le Portugal et l’Irlande avaient déjà fait des annonces similaires. En début de semaine, Rome a décidé que les personnes vaccinées devront désormais effectuer un test PCR ou antigénique à leur arrivée ; les autres devront, en plus, effectuer un isolement de cinq jours. Le gouvernement de Mario Draghi n’a pas jugé utile de prévenir la Commission ni les pays voisins, ce qu’une coordination européenne minimale aurait pourtant exigé.« Si chaque pays commence à prendre des décisions dans son coin, les choses vont devenir beaucoup plus difficiles. Nous devons nous engager à avoir la même approche en Europe », a réagi Alexander De Croo, le premier ministre belge. M. Draghi a rappelé que depuis le début de la pandémie, 135 000 personnes étaient mortes en Italie et que le produit intérieur brut y avait reculé de 9 %. « Draghi a expliqué qu’il était favorable à la coordination européenne. Mais que, si la situation venait à dégénérer, il prendrait les mesures qu’il jugerait nécessaires », confie un diplomate.
    D’autant que, si la vaccination reste « clé » pour lutter contre la pandémie, elle « ne suffira pas » à empêcher les transmissions, a averti cette semaine l’Agence européenne de contrôle des épidémies (ECDC). « Le contrôle des frontières est absolument essentiel, nous allons maintenir l’obligation de présenter un test pour entrer au Portugal » au-delà de la date initiale du 9 janvier 2022, a pour sa part affirmé le premier ministre portugais, Antonio Costa.
    (...)Après les embardées solitaires de Rome, Athènes, Lisbonne et Dublin, les Vingt-Sept veulent sauver le passe sanitaire et ne pas démonétiser la vaccination. « L’extension de la vaccination à tous et l’administration des doses de rappel sont cruciales et urgentes », ont-ils indiqué dans des conclusions adoptées à l’issue de leurs échanges sur le Covid-19.
    Lire aussi : Article réservé à nos abonnés Le variant Omicron résiste davantage au vaccin mais se montrerait moins sévèreIls ont également souligné « l’importance d’une approche coordonnée sur la validité du certificat Covid de l’UE », et souhaité que les restrictions décidées ne « sapent pas le bon fonctionnement du marché intérieur ou n’entravent pas de façon disproportionnée la liberté de circulation ».La Commission doit, dans les prochains jours, amender la réglementation du passe sanitaire et proposer qu’un délai maximum soit exigé entre la vaccination complète et la dose de rappel pour qu’il reste activé. Elle parlait de neuf mois jusqu’ici, mais certains pays ont d’ores et déjà fait un autre choix, comme la France (sept mois). « Il n’y a pas encore d’accord sur ces neuf mois. Les dirigeants en ont discuté, on va continuer », commente l’Elysée.

    #Covid-19#migrant#migration#UE#sante#circulation#frontiere#passesanitaire#vaccination#restrictionsanitaire#omicron

  • Un marché européen des nationalités

    Progressivement est né en #Europe un véritable marché, par lequel les États procèdent à la vente du cœur même de leur souveraineté : leur nationalité. Difficiles à justifier au regard de la théorie générale de la nationalité, ces programmes posent des défis tout particuliers à l’Union européenne.

    Le développement d’une économie de la mobilité

    Les études sur les mobilités internationales se concentrent, pour la plupart, sur des mouvements de masse, concernant au premier chef les déshérités. À l’autre bout du spectre, pourtant, se développe une mobilité beaucoup moins spectaculaire : celle des plus riches. Toute une économie s’est en effet progressivement mise en place, très largement dépourvue de frontières, visant à attirer les individus à haut patrimoine sur le territoire accueillant de certains États.

    Tous les ressorts économiques sont susceptibles de jouer, privés comme publics. Les acteurs privés, par l’intermédiaire de family offices aussi discrets qu’efficaces, peuvent ainsi conseiller les plus aisés dans leurs stratégies internationales d’investissement et de résidence. Mais ces officines ne peuvent se multiplier que parce que les États, pour leur part, mettent d’importantes facilités à disposition de ces généreux investisseurs. Au-delà des règles compréhensives en matière de société ou de règlementation bancaire, les États ont la capacité essentielle de jouer sur trois registres souverains.

    Le premier est évidemment fiscal. Aujourd’hui, il n’est plus guère besoin d’établir combien les stratégies d’investissement individuelles sont largement déterminées par les règles fiscales des États. Le débat récurrent sur la frontière — ténue — entre fraude et optimisation fiscale, les efforts européens et internationaux pour lutter contre les paradis fiscaux, les scandales (Panama puis Pandora Papers, Lux Leaks...) sont suffisamment réguliers et connus pour qu’il soit inutile de s’y arrêter plus longuement.

    Le second est celui des titres de séjour. L’économie des titres de séjour est différente et étonnante, qui consiste à en proposer de plus ou moins longs ou plus ou moins généreux en fonction de l’apport des intéressés à l’économie locale. Certains États acceptent en effet de mettre à disposition des titres de séjour indépendants de la qualité de travailleur à de généreux investisseurs. Ce sont les programmes dits de « visas dorés » (« golden visas ») dont le mécanisme est à la fois simple et brutal : permettre l’obtention d’un titre de séjour en échange d’investissements plus ou moins importants dans le pays. Ces programmes sont répandus dans le monde entier et varient beaucoup d’un État à l’autre

    . Varient tout particulièrement le prix, bien entendu, mais aussi la réalité de l’intégration, notamment par le biais de la condition de résidence. Cette absence de connexion sérieuse entre le bénéficiaire et le pays est sans aucun doute l’aspect le plus problématique de ces programmes. L’OCDE souligne en particulier qu’elle peut servir d’outil à la fraude fiscale, en faisant faussement apparaître une résidence dans un État, et porter atteinte aux exigences de transparence et de coopération internationale. L’Europe ne fait pas exception. De nombreux États vendent l’accès des titres de séjour, facilitant ainsi, d’après Transparency international, corruption, blanchiment et fraude fiscale.

    Enfin, le troisième ressort est celui de la nationalité. Certains États, par le biais d’ensemble de règles qualifiés en général pudiquement de « passeports dorés » (« Golden passports ») ou de « citoyenneté par investissement » (« Citizenship by investment »), permettent en effet purement et simplement la vente de leur nationalité. Nées à St Christophe et Nievès (St Kitts and Nevis) et très développées dans les Caraïbes, ces politiques mercantiles se sont étendues jusqu’en Europe et tout particulièrement à Malte et Chypre, dont les programmes ont rapporté jusqu’à 4,8 milliards à Chypre et 718 millions d’euros à Malte

    .

    Portant atteinte au cœur même de la nationalité, elles posent de graves difficultés théoriques et pratiques

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    Une atteinte à la nationalité ?

    Les programmes de vente de la nationalité diffèrent d’un État à l’autre, notamment quant aux sommes à investir
    , mais restent dans leurs grandes lignes assez proches : ils permettent, par la grâce de l’argent, de contourner la plupart des conditions en matière de naturalisation, notamment les exigences de résidence, de compétence linguistique ou, plus largement, d’intégration. Alors même que ces vérifications sont au cœur de tous les droits étatiques de la nationalité, elles sont ici oubliées, au profit d’une simple évaluation monétaire. La théorie classique de la nationalité est incapable d’expliquer ces transformations.

    Faire de la nationalité un objet d’échange monétaire constitue, en effet, une flagrante rupture d’égalité entre les citoyens. Pour la plupart des individus, c’est la preuve de l’existence d’un lien entre eux-mêmes et un État qui leur permettra d’accéder à la communauté des citoyens. C’est parce qu’ils sont nés sur le territoire et y résident, parce qu’ils sont les enfants d’un national, parce qu’ils ont construit des liens étroits avec l’État attributaire qu’ils ont pu, peuvent ou doivent pouvoir accéder à la communauté nationale. Le constat est encore plus frappant en matière de naturalisation, qui est la voie d’accès dont il est ici question. Dans la quasi-totalité des cas, la naturalisation est subordonnée à un ensemble de contrôles liés à l’intégration (domicile, langue, intégration sociale ou familiale...). Ici, nul besoin de lien, ou en tout cas un contrôle très limité sur ces liens. L’inégalité de traitement saute aux yeux.

    Pour être diverses, les justifications de la nationalité n’en reposent pas moins sur un fondement commun : l’appartenance au groupe. Les conditions de cette appartenance peuvent bien sûr varier et, de fait, varient grandement et il est bien établi que la nationalité peut tout à la fois servir de facteur d’intégration au groupe et d’exclusion du groupe

    . Mais il n’en reste pas moins que le dénominateur commun à toute politique en matière de nationalité est précisément de définir les frontières du groupe en question.

    Permettre la vente de nationalité, c’est donc transformer radicalement au passage le fondement même de la nationalité, en rompant le lien qui existe entre communauté politique et sociale et nationalité

    .

    Il est à noter d’ailleurs que ces programmes n’entrent pas non plus dans le cadre conceptuel, désormais classique, de contestation de la nationalité, comme reflet d’un monde disparu ou qui devrait disparaître : celui des frontières et des États-Nations. Ces programmes, en effet reposent sur l’idée même de frontières et sur une évaluation à la fois brutale et utilitariste des avantages comparés de la nationalité.

    C’est bien parce qu’il est plus avantageux d’être Maltais qu’Afghan que la nationalité maltaise est à vendre

    . Elle permet d’accéder à un nombre important de pays, de profiter des libertés de circulation en Europe et fournit potentiellement un havre de protection à celui qui en bénéficie. C’est une évidence, mais une évidence qu’il faut rappeler : la vente de nationalité ne peut prospérer que si les nationalités sont distinctes les unes des autres.

    En d’autres termes, ces programmes ont pour objet de rendre disponible ce qui, en principe, repose sur l’existence d’un lien d’intégration soigneusement évalué et, partant, non marchand par excellence : l’appartenance à une communauté. On déplace les frontières du marché, en y faisant rentrer un bien qui, à première vue, en est très éloigné.

    Le passage au marché est parfois envisagé sous l’angle de l’économie libérale

    . Le marché pourrait-il être le meilleur des critères pour l’allocation optimale des intérêts individuels, loin de toute approche morale ou politique des États ? Cette approche, contestable dans son principe, se heurte en toute hypothèse à la réalité de ce marché, qui ne conduit nullement à une remise en cause générale de l’allocation des nationalités, mais bien à une allocation ponctuelle, fondée sur la richesse extrême d’une toute petite minorité. On est bien loin de l’idée d’un marché libre et généralisé. Et ne serait-il pas paradoxal de parler de marché libre, alors que ce qui a été construit est bien plutôt un système purement étatique permettant de renflouer les caisses des États qui s’y adonnent, ce qui est l’avantage le plus immédiat de ces programmes ?

    La nationalité est ce lien qui unit à la fois un individu et un État, et cet individu à la communauté sociale et politique de cet État. En faire un objet de commerce sans tenir aucun compte de la réalité de l’intégration sociale du bénéficiaire défie le fondement même de cette appartenance.

    Ces programmes de vente de la nationalité semblent donc avoir deux défauts flagrants : placer sur le marché quelque chose qui, par nature, n’y appartient pas et, ce faisant, remettre en cause les idées d’appartenance et de communauté au cœur de toute théorie de la nationalité. Transformer le lien en bien porte donc une atteinte très profonde à la raison d’être même de la nationalité.

    Plus spécifiquement, cette transformation pose des difficultés particulières en Europe, où elle a suscité une réaction violente.
    La vente de nationalités en Europe

    Au cours des dernières années, plusieurs États membres de l’Union européenne, et tout particulièrement Chypre et Malte, ont mis en place de tels programmes de vente de leur nationalité
    . Outre les objections théoriques auxquels s’exposent ces politiques, celles-ci soulèvent des difficultés particulières en Europe. Celles-ci tiennent à la relative fongibilité dans l’Union des nationalités des États membres.

    Posséder la nationalité d’un État membre, c’est appartenir à un ensemble plus vaste, celui des citoyens européens, auquel l’article 20 du Traité sur le fonctionnement de l’Union européenne garantit de nombreux droits, à commencer par la liberté de circulation. Dans cette mesure, ce que vendent les États membres qui ont mis en place de tels programmes, au-delà de leur propre nationalité, c’est bien l’accès à cet ensemble de droits, augmentant d’autant l’attractivité et, partant, la valeur marchande, de leur nationalité. En d’autres termes, les États qui s’y livrent font donc commerce non seulement de ce qui ne leur appartient pas, mais encore d’un bien commun à toute l’Union.

    Aussi la réaction des institutions européennes a-t-elle été à fois la vigoureuse et extrêmement critique, on va le voir.

    Ces réactions, toutefois, se heurtent à un obstacle presque infranchissable : la compétence étatique exclusive, qui est l’une des règles les mieux assurée du droit international en matière de nationalité. Chaque État décide librement, et avec ses propres critères, qui sont ses nationaux, à qui ils accordent (ou retirent, en ces temps de regain de la déchéance) leur nationalité. L’émergence de la citoyenneté européenne n’a rien changé à cette solution. Les traités l’affirment clairement et tout particulièrement l’article 20 du Traité sur le fonctionnement de l’Union européenne qui affirme :

    Il est institué une citoyenneté de l’Union. Est citoyen de l’Union toute personne ayant la nationalité d’un État membre. La citoyenneté de l’Union s’ajoute à la citoyenneté nationale et ne la remplace pas.

    En l’état actuel du droit de l’Union, ce sont donc les États et non l’Union, qui décident, en toute souveraineté, des règles applicables à leur nationalité.

    Les voies de droit sont de ce fait peu nombreuses et forcent les institutions soit à en appeler à la morale et aux valeurs, soit à s’appuyer sur quelques principes généraux du droit de l’Union.

    La première voie est celle choisie par le Parlement européen qui a, à plusieurs reprises, vigoureusement critiqué ces programmes comme portant atteinte aux valeurs de l’Union

    . Aussi, dans le 13e point de sa résolution de 2014, le Parlement :

    prie les États membres qui ont adopté des régimes nationaux autorisant la vente directe ou indirecte de la citoyenneté européenne aux ressortissants de pays tiers de mettre ces régimes en conformité avec les valeurs de l’Union.

    La formule montre bien les limites du pouvoir du Parlement et, plus largement, de l’Union européenne en la matière. En l’état actuel du droit de l’Union, en effet, l’invocation des valeurs de celle-ci ne peut aucunement fournir de clé d’analyse (ou de condamnation) de politiques nationales en matière de nationalité. Le Parlement en est d’ailleurs parfaitement conscient, qui, au 6e point de sa résolution « reconnaît que les questions de résidence et de citoyenneté relèvent de la compétence des États membres » et, de ce fait, « prie les États membres d’exercer leurs compétences en la matière avec vigilance et de tenir compte de tout effet préjudiciable ». L’incitation reste très vague et l’efficacité juridique à peu près nulle.

    Dès lors, en dehors de la pression exercée sur un pays en particulier envers une pratique dont la condamnation politique fait l’unanimité, l’invocation des valeurs n’est absolument d’aucune utilité, ni pour décrire l’éventuelle absence de conformité entre le droit des États tel qu’il est et le droit de l’Union, ni, prospectivement, pour déterminer la direction dans laquelle devrait s’orienter le droit européen.

    Aussi est-ce plutôt la seconde voie qu’explore la Commission européenne
    . Celle-ci s’est emparée du sujet au moyen tout d’abord d’un important rapport remis au Parlement européen, au Conseil, au Comité Économique et Social Européen et au Comité des Régions qui, loin de l’habituelle prudence diplomatique, est extrêmement vigoureux dans ses critiques sur ces programmes de vente de la nationalité et, plus largement, d’octroi d’un titre de séjour par investissement direct. De la façon la plus nette, la Commission décrit et condamne les « lacunes en matière de sécurité résultant de l’octroi de la citoyenneté sans condition de résidence préalable, ainsi que les risques de blanchiment d’argent, de corruption et de fraude fiscale liées à la citoyenneté ou à la résidence par investissement »

    . Est critiquée la possibilité d’obtenir la nationalité de ces États sans qu’aucun lien soit établi entre le demandeur et l’État membre, sans qu’aucune résidence autre qu’une adresse formelle, sans même parfois qu’une présence physique autre que le jour de la remise du titre, soit exigée. Plus largement, la Commission y décrit avec beaucoup de détail les différents délits susceptibles d’être commis à l’occasion de ces programmes (atteinte à la sécurité des États, blanchiment, corruption, fraude fiscale...).

    La Commission souligne avec vigueur la rupture de solidarité que constitue la vente par les États membres de leur nationalité, tant les avantages liés à la citoyenneté européenne sont au cœur de toutes ces politiques. À nouveau, ce qui est ici vendu n’est pas uniquement la nationalité étatique, mais bien la possibilité de bénéficier de toutes les prérogatives attachées à la qualité de citoyen européen.

    Aussi la Commission estime-t-elle que ces pratiques remettent en cause, plus théoriquement, le lien d’effectivité qui serait au cœur de la conception commune aux États membres du lien de nationalité.

    Comme elle l’affirme :

    Cette conception commune du lien de nationalité est également à la base de l’acceptation, par les États membres, du fait que la citoyenneté de l’Union et les droits qu’elle implique en vertu du traité sur le fonctionnement de l’Union européenne reviennent automatiquement à toute personne qui devient l’un de leurs citoyens. L’octroi de la naturalisation sur la seule base d’un paiement monétaire, sans autre condition attestant l’existence d’un lien réel avec l’État membre accordant la naturalisation et/ou ses citoyens, s’écarte des modes traditionnels d’octroi de la nationalité dans les États membres et affecte la citoyenneté de l’Union

    .

    La condamnation est donc là encore sans appel, mais fondée sur des arguments beaucoup plus juridiques, quoique généraux, que le Parlement européen.

    Les programmes de vente de la nationalité sont incontestablement un grave dévoiement de l’idée même de nationalité et de la raison d’être de l’Union européenne, à ce titre, la légitimité de la lutte contre ces règles ne fait pas de doute. Mais reste à déterminer les sanctions. Comment en effet s’opposer à ces programmes ? Qui sanctionner pour y avoir recours ?

    Deux possibilités bien distinctes semblent ici se présenter : s’opposer aux États d’un côté, refuser de reconnaître la nationalité accordée aux individus, de l’autre. La première solution est périlleuse, mais prometteuse, la seconde, en revanche, beaucoup plus contestable.
    Punir les États ; punir les individus

    Passant de la théorie à la pratique, la Commission a lancé deux procédures d’infraction contre les deux pays qui ont créé de tels programmes : Chypre et Malte

    .

    Juridiquement, la contestation se fonde sur deux violations particulières : celle de l’article 4§3 du Traité sur l’Union européenne (TUE) et celle de l’article 20 du Traité sur le fonctionnement de l’Union européenne (TFUE).

    Le premier texte institue un principe de coopération loyale entre les États :

    En vertu du principe de coopération loyale, l’Union et les États membres se respectent et s’assistent mutuellement dans l’accomplissement des missions découlant des traités. Les États membres prennent toute mesure générale ou particulière propre à assurer l’exécution des obligations découlant des traités ou résultant des actes des institutions de l’Union. Les États membres facilitent l’accomplissement par l’Union de sa mission et s’abstiennent de toute mesure susceptible de mettre en péril la réalisation des objectifs de l’Union.

    En vendant leur nationalité, ces États membres ont garanti aux bénéficiaires l’accès à un ensemble de droits garantis par les Traités et donc fait commerce d’un bien commun européen. L’absence complète de lien d’effectivité entre ces néo-nationaux et le pays qui les rattache à l’Union établirait donc cette violation de la solidarité entre États.

    Le second de ces textes, on l’a vu, institue la citoyenneté européenne. Permettre à des personnes qui n’ont aucun lien avec l’Union de bénéficier de celle-ci serait donc une violation de cette citoyenneté qui constitue, comme la Cour de justice le rappelle fréquemment depuis 20 ans, « le statut fondamental des ressortissants des États membres »

    .

    Le principe de coopération loyale et le statut du citoyen européen obligeraient donc les États à adopter des règles en matière de nationalité plus conformes aux exigences du droit de l’Union qui, en l’espèce, passeraient donc par l’adoption de règles relatives à l’effectivité de la nationalité.

    Les arguments sont forts. Il n’en reste pas moins que l’Union est incompétente pour déterminer directement qui sont les nationaux d’un État. Elle ne peut que prendre acte du fait qu’un État a accordé sa nationalité à une personne et en tirer les conséquences. Cette compétence exclusive rend périlleuse la voie juridique choisie par la Commission : comment, en effet, condamner des États pour avoir utilisé à leur avantage des règles dont ils sont les seuls maîtres ?

    L’obstacle, toutefois, n’est sans doute pas infranchissable. Les exemples abondent de situations où la Cour de justice a pu remettre en cause non pas le principe, mais bien l’exercice par des États membres de leur compétence exclusive, lorsque celle-ci portait atteint à une politique de l’Union

    . C’est le cas en l’espèce, dans la mesure où ce qui est recherché au premier chef par les bénéficiaires, c’est bien la citoyenneté européenne.

    Dès lors, si une éventuelle condamnation ne peut conduire à une modification directe du droit interne de la nationalité des pays concernés, elle n’en pourrait pas moins conduire à une ingérence, plus ou moins forte, de l’Union dans l’exercice par les États membres de leur compétence exclusive.

    Il est permis, donc, de s’attendre à une intervention politique et diplomatique de l’Union, soutenue par les instruments juridiques qui sont à sa disposition ; et il n’est pas exclu que cette intervention entraîne effectivement des modifications, même de mauvaise grâce, des États impliqués. Partant, il n’est nullement impossible que pression diplomatique et action juridique conduisent à la suppression de ces programmes voire au retrait par ces États de certaines naturalisations trop complaisantes

    .

    Faut-il aller plus loin et sanctionner aussi les individus qui auraient acquis dans ces conditions la citoyenneté européenne ?

    La voie de droit serait, dans cette hypothèse, celle de l’inopposabilité. Si nul ne peut empêcher un État d’accorder sa nationalité à qui il le souhaite, il demeurerait possible de refuser de faire produire tout effet à une nationalité qui aurait été accordée alors même qu’elle ne reposerait sur aucun lien réel. La question, en effet, n’est pas tant celle de savoir ce que peut faire l’État attributaire, mais bien plutôt quelle peut être la réaction des autres États face à une nationalité qu’ils estimeraient injustement accordée ou refusée.

    L’idée repose sur un précédent fameux de la Cour Internationale de justice, l’arrêt Nottebohm

    .

    L’affaire concernait un ressortissant allemand installé depuis 1905 au Guatemala où il menait sa vie professionnelle. Les troubles venus d’Europe l’avaient conduit, au cours d’un voyage en Europe, à demander et obtenir la nationalité du Liechtenstein par naturalisation en 1939. Du fait de cette naturalisation, il fut déchu de sa nationalité allemande. L’opération, toutefois, ne put empêcher qu’il soit considéré au Guatemala comme un ressortissant allemand, donc ennemi, qu’il soit détenu puis expulsé vers les États-Unis où il fut incarcéré, pendant que ses biens étaient saisis. M. Nottebohm partit au terme de son incarcération pour le Liechtenstein où il s’installa et contesta les mesures dont il avait fait l’objet. À la fin de la guerre, le Liechtenstein exerça sa protection diplomatique pour se plaindre du traitement de M. Nottebohm. Le Guatemala contesta la compétence de la Cour internationale de justice en estimant que l’absence de lien entre M. Nottebohm et le Liechtenstein empêchait que la naturalisation produise des effets internationaux et, partant, que soit exercée la protection diplomatique.

    La Cour internationale de justice donna raison au Guatemala et, à cette occasion fournit une célèbre définition de la nationalité :

    Selon la pratique des États, les décisions arbitrales et judiciaires et les opinions doctrinales, la nationalité est un lien juridique ayant à sa base un fait social de rattachement, une solidarité effective d’existence, d’intérêts, de sentiments jointe à une réciprocité de droits et de devoirs. Elle est, peut-on dire, l’expression juridique du fait que l’individu auquel elle est conférée, soit directement par la loi, soit par un acte de l’autorité, est, en fait, plus étroitement rattaché à la population de l’État qui la lui confère qu’à celle de tout autre État. Conférée par un État, elle ne lui donne titre à l’exercice de la protection vis-à-vis d’un autre État que si elle est la traduction en termes juridiques de l’attachement de l’individu considéré à l’État qui en a fait son national

    .

    La sanction de l’inopposabilité permettrait ainsi de désactiver l’efficacité internationale de la nationalité accordée sans que soit vérifié le « fait social de rattachement » justifiant la nationalité.

    Cette solution, toutefois, est souvent discutée, critiquée et dans l’ensemble assez peu appliquée

    . Transposée à l’Europe, elle paraîtrait surtout totalement inappropriée et potentiellement dangereuse.

    Laisser un État apprécier les conditions dans lesquelles un autre État accorde sa nationalité, c’est en effet risquer d’ouvrir des débats d’une extrême sensibilité politique et gros de graves conflits entre États.

    Les exemples sont légion de règles qui ne s’embarrassent nullement d’effectivité. Le droit de la nationalité s’ancre profondément dans les histoires nationales. Les trajectoires migratoires, les conquêtes militaires ou l’expansionnisme impérial jouent toujours un rôle déterminant dans le droit étatique contemporain de la nationalité.

    Autoriser les États membres, par le biais du contrôle d’effectivité, à refuser de faire produire des effets à la nationalité accordée par l’un d’eux, c’est autoriser les États à juger de la pertinence et de la qualité des liens qui unissent un individu et un autre État. Précédent dangereux en Europe, où les histoires impériales et étatiques ont conduit à la présence de fortes minorités nationales, objets de fréquentes difficultés entre États membres. De nombreuses lois en matière de nationalité témoignent de ce passé

    et ouvrir la possibilité de l’inopposabilité, c’est se donner de nouvelles armes pour attiser ces conflits.

    En outre, à titre individuel, les citoyens ainsi gratifiés de leur nationalité restent des citoyens européens et qu’en tant que tels, ils bénéficient et doivent continuer à bénéficier des droits qui sont attachés à cette qualité. En l’état actuel du droit de l’Union, il paraît tout à fait hors de portée de refuser à des ressortissants d’États membres, au prétexte d’un lien trop peu assuré avec leur État de nationalité, de jouir des prérogatives attachées à leur citoyenneté européenne. Que les États accordent trop libéralement leur nationalité est une chose ; que les individus qui ont bénéficié de ces largesses soient pour cela sanctionnés en est une autre, d’une tout autre dimension. À partir du moment où les intéressés ont rempli les conditions légales qui s’imposaient à eux, dans une matière qui ne laisse presque aucune place à l’autonomie de la volonté mais qui, bien au contraire, est entièrement entre les mains des États et de leur administration, aucune raison ne justifie qu’on puisse faire le départ entre les nationaux qui mériteraient d’avoir accès aux droits garantis par les traités et les autres.

    Les autres États, bien entendu, ne sont pas totalement impuissants pour contester l’exercice de leurs droits par ces citoyens. Ainsi tout particulièrement en matière d’entrée et de séjour, la directive 2004/38, applicable aux citoyens et à leur famille, ne manque pas de dispositions permettant d’éloigner des ressortissants d’autres États membres, notamment en cas d’atteinte à l’ordre public. De même, à supposer d’éventuelles infractions commises par ces néo-européens, les ressources du droit pénal pourront être mobilisées pour sanctionner ces agissements. Mais le principe même de l’accès des citoyens à leurs droits doit rester garanti.

    Dans cette situation, le contrôle d’effectivité et la sanction de l’inopposabilité constitueraient donc une double ingérence, dans la compétence exclusive d’un autre État membre et dans la jouissance de ses droits par le citoyen européen, qui ne paraît ni juridiquement correcte, ni politiquement souhaitable.

    Que les États s’accordent sur des critères communs en matière de nationalité, on ne pourrait que s’en féliciter ; qu’un État se fasse juge des conditions dans lesquels les ressortissants des autres États jouissent de leurs prérogatives attachées à leur citoyenneté porterait une atteinte fatale au principe même de la citoyenneté européenne. Même s’ils en ont été abusivement gratifiés, les individus doivent continuer à jouir de leur nationalité européenne dans les autres États membres, sous peine de recourir à des remèdes pires que le mal qu’ils prétendent guérir.

    Dans l’ordre international, les programmes de vente de la nationalité portent donc atteinte à la raison d’être de celle-ci : constituer une communauté soudée entre elle et reliée à l’État par des liens réels et effectifs. En Europe, ils permettent en outre à certains États de vendre ce qu’ils ne possèdent pas en propre, la citoyenneté européenne, et aux bénéficiaires de jouir indûment d’avantages qui n’auraient pas dû leur être conférés. Dans les deux cas, ils permettent ou favorisent l’évasion fiscale, le blanchiment d’argent ou la protection contre des poursuites pénales. Difficile de trouver des exemples de politiques étatiques plus dévoyées et plus opposées aux exigences de la solidarité internationale en général et européenne en particulier.

    #nationalité #passeport #marché #vente #citoyenneté
    –—

    ajouté à la métaliste sur la #vente de #passeports et de la #citoyenneté de la part de pays européens/occidentaux à des riches citoyen·nes non-EU :
    https://seenthis.net/messages/1024213

    ping @karine4 @isskein

  • L’opportunisme pandémique du néolibéralisme

    https://www.lamuledupape.com/2021/12/06/lopportunisme-pandemique-du-neoliberalisme-vu-par-celia-izoard

    Lors de la dernière Fête du Vent organisée par l’Amassada à la fin du mois d’août 2021, #Celia_Izoard a donné une conférence consacrée à la gestion sanitaire de la pandémie de #Covid-19 en France, et plus largement, à l’impact des intérêts capitalistes sur les politiques de #santé_publique.

    Celia Izoard introduit son propos en remontant à l’époque de l’incendie de l’usine #Lubrizol à Rouen, le 26 septembre 2019. 10 000 tonnes de produits chimiques partent en fumée : reprotoxiques, mutagènes, cancérigènes… La population locale constate des effets directs sur la santé : crises d’asthme violentes, vomissements et diarrhée, pertes de capacité respiratoire qui perdurent…
    « Ce qui est frappant, dès le départ dans cette catastrophe, c’est que très rapidement la préfecture a déclaré qu’il n’y avait pas de toxicité aiguë, en jouant délibérément sur les mots : pas de toxicité aiguë, ça veut juste dire qu’on ne va pas mourir tout de suite en respirant cet air. »
    Les angles morts de la santé publique
    Celia Izoard se lance dans une série d’enquêtes, et constate qu’il y a toute une catégorie de la population qu’on a obligé à travailler ce jour-là, malgré les nuages de fumée très dense. Les services de communication de la préfecture opposent toujours la même réponse à la journaliste : « Mais voyez-vous, l’air était complètement respirable ce jour-là. » La situation, mise en parallèle avec la crise sanitaire dans lequel le monde est plongé depuis début 2020, interroge lourdement sur la vocation de l’État à protéger la santé des citoyen•nes.
    « À ce moment-là, j’ai commencé à m’intéresser au cancer, pour plusieurs raisons. La première, c’est que je me demandais si on pourrait montrer un jour que l’incendie de Lubrizol a eu un impact. Pour l’instant, la version officielle c’est que non, on ne peut rien prouver, rien montrer. La seconde, c’est que comme dans d’autres endroits en France, près de Rouen, il y a des parents et plus particulièrement des mères de familles dont les enfant sont atteints de cancer et qui constatent des taux anormaux de cancers de l’enfant dans leur entourage – ce qu’on appelle un cluster. Elles alertent Santé Publique France, qui vient faire une enquête. Le plus souvent, l’agence de santé constate la surincidence de cancers, mais ne conclut pas sur une cause quelconque, alors que les parents suspectent les pollutions des usines ou des exploitations agricoles environnantes. »
    Dans ce cadre d’enquête, Celia Izoard travaille sur l’épidémiologie et sur le #cancer, son lien avec l’environnement, et sur la manière dont on produit les chiffres officiels. La journaliste est très étonnée de s’apercevoir que les pouvoirs publics, notamment l’agence Santé Publique France, n’a pas du tout les moyens de savoir combien il y a de cas de cancers en région parisienne ou autour de Rouen, là où se trouve une grande partie de l’industrie pétrolière et chimique française. Les registres du cancer ne sont en effet établis que dans 22 départements en France et ne concernent que 22 % de la population. Ils sont faits de manière assez arbitraire en fonction des registres préexistants, parmi lesquels figurent par exemple le Tarn ou d’autres zones pas forcément connues pour leurs forts risques environnementaux.
    « C’est très étonnant quand on se souvient du fait que le cancer fait 150 000 morts par an, qu’il y a 350 000 nouveaux cas chaque année, et que pour certaines catégories de cancers, l’augmentation est très importante et devrait constituer un signal. »
    Pour exemple avec les cancers de la thyroïde, en augmentation de 4,4% par an, ce qui est très important.
    « Il y a vraiment ce qu’on appelle une science « non produite » autour de ces questions. Et je suis très étonnée du discours officiel de ces institutions, à la fois Santé Publique France et le Circa (Centre International de Recherche sur le Cancer), qui ont une politique de santé publique fondée sur les comportements individuels : alerter la population sur le fait qu’il faut avoir une bonne alimentation, faire du sport, ne pas fumer, ne pas boire, etc. »
    Selon Celia Izoard, certains textes tendent même à dissuader les gens de penser que le cancer pourrait être lié à des facteurs environnementaux.
    Dans un article consacré à la pétrochimie et à l’incendie de Lubrizol pour la Revue Z, la journaliste reproduit un tableau du Circa dans lequel sont découpés les facteurs de risque pour le cancer : tabac, alcool, alimentation, expositions professionnelles, pollution de l’air extérieur… Les substances chimiques de l’environnement y sont classées comme dernier facteur de risques, avec seulement 0,1% des cas. Pour Celia Izoard, on a là un découpage d’une incroyable mauvaise foi, car on pourrait très bien considérer que les substances chimiques de l’environnement peuvent être liées à des expositions personnelles comme l’alimentation.
    « Ce découpage n’est pas honnête intellectuellement. J’en arrive à la conclusion qu’il y a une volonté délibérée de la part des pouvoirs publics de ne pas incriminer l’industrie et de ne pas produire de données là-dessus. »
    Lors de son enquête, Celia Izoard essaie de téléphoner à Santé Publique France afin d’obtenir un entretien, dans le but de confronter l’institution à ses conclusions. Mais l’agence oppose une fin de non-recevoir :
    « On est désolé, c’est pas contre vous, mais il n’y a personne pour vous répondre parce qu’il y a un nouveau virus, et tout le monde est là dessus. »
    On est en janvier 2020, et l’État ne peut répondre à une journaliste à propos des cancers en France, en raison d’un nouveau virus. Une non-réponse qui en dit long sur les moyens mis en place pour la santé publique.
    L’État et la pandémie
    Le cancer fait plus de 150 000 morts en France chaque année. Celia Izoard compare la différence de traitement du cancer par les autorités publiques avec le cas des infections de rougeole, pour laquelle existe un vaccin, mais non obligatoire jusqu’à récemment. Elle constate que l’État opère un pilotage très serré du contrôle de cette maladie.
    « Quand il y a des cas de rougeole, on peut être appelé, on demande quels sont les cas contacts, etc. La rougeole faisant à peu près huit morts par an, je m’interroge alors sur ce décalage avec la manière dont le cancer est pris au sérieux dans la recherche de ses causes. »
    Entre Lubrizol et l’épidémie de Covid, à ce moment la journaliste fait partie du camp des perplexes, à cause de la différence de réaction des pouvoirs publics, de l’État, face à ces deux événements catastrophiques.
    « D’un côté, une forme de déni caractéristique des catastrophes industrielles : « non ce n’est rien, il ne se passe pas grand chose », Emmanuel Macron fait un scandale car on a osé comparer Lubrizol à AZF, deux catastrophes chimiques pourtant comparable. »
    Avec le Covid, très rapidement des mesures d’exception sont prises, et semblent à beaucoup de personnes assez disproportionnées par rapport au danger. Après une première phase de déni, les médias se montrent très alarmistes, suivant les impulsions du gouvernement.
    Celia Izoard s’interroge. Et émet une première hypothèse, « très faible », pour comprendre la réaction des États qui sont désormais prêts, pour protéger la population, à bouleverser fondamentalement le système social et modifier radicalement les modes de vie en inversant les règles du droit.
    « C’est l’idée qu’il y a une sorte de peur atavique vis à vis des maladies infectieuses et contagieuses, qui serait un reste historique lié à la peste et aux grandes épidémies. »
    Par ailleurs, on accepterait certaines maladies, le cancer notamment, comme étant la rançon du progrès, bien qu’on ne présente pas celui-ci de manière objective et qu’on occulte les pollutions diverses qu’il engendre. On n’accepterait pas le retour des maladies infectieuses car elles représentent une dimension rétrograde : « l’âge moderne n’est pas censé tolérer ce genre d’événements. »
    En deuxième idée, la journaliste émet la pensée suivante : il ne faut pas confondre santé publique et santé de l’ordre public.
    « C’est à dire que la principale menace dans cette situation de pandémie, c’est la menace pour l’État lui-même. »
    Le degré de contrainte exercé par le gouvernement français sur la population serait ainsi lié à la fragilité de ses infrastructures de base. Au cours des trente dernières années, 160 000 lits d’hôpitaux ont été supprimés. On a un risque de débordement réel.
    « On ne peut pas entasser des cadavres comme on compte les décès de mort lente du cancer, ce n’est pas du tout le même phénomène visuel d’un point de vue de ce que l’on appelle une crise . »
    En mettant en place des mesures draconiennes, l’État se protègerait ainsi lui-même. C’est moins la préservation de la santé publique qui serait recherchée que celle de la continuité du pouvoir.
    « La différence de l’enjeu entre l’incendie de Lubrizol à Rouen et la pandémie de Covid, même si les phénomènes ne sont pas comparables dans leurs proportions, c’est la distinction entre la santé publique et la santé de l’ordre public. »
    Pour Celia Izoard, l’illustration la plus frappante en est le fait que des centaines de postes de vigiles ont été créés pour contrôler les passes sanitaires à l’entrée des hôpitaux, alors même qu’on est en déficit de soignant•es depuis des années.
    « La santé ne paraît pas être la priorité, ou d’une manière extrêmement spécifique et discutable, dans les mesures qui sont prises. »
    Dans sa réaction primitive, l’État cherche donc rapidement à se protéger d’un procès en imprévoyance, qui romprait le pacte qui le lie aux citoyen•nes qu’il est censé protéger. Il faut éviter de subir de plein fouet l’effet de la baisse drastique des moyens de la santé publique et de l’inaction face aux maladies chroniques, qui forment des comorbidités très importantes dans le cadre du Covid. Les discours politiques prennent soin de retourner l’accusation contre la population (on se souviendra par exemple de la déclaration du préfet de Paris Didier Lallement :
    « Ceux qui sont aujourd’hui hospitalisés, ceux qu’on trouve dans les réanimations, ce sont ceux qui au départ du confinement ne l’ont pas respecté. »
    En somme, si la situation est dramatique, c’est parce que les citoyen•nes ne se plient pas aux mesures sanitaires ou ne se font pas vacciner.
    L’opportunisme néolibéral piloté par le gouvernement
    Le troisième axe de réflexion suivi par Celia Izoard intègre les enjeux du capitalisme moderne.
    « L’État protège les empires industriels, et son rôle depuis la révolution industrielle est de piloter la modernisation. C’est à dire, développer les forces productives et, depuis un certain temps, mettre en place l’orthodoxie néolibérale. »
    L’État va donc développer des politiques de santé publique convergentes avec cet objectif. Dans le cas de Lubrizol et des accidents industriels, on comprend donc que les politiques menées ne peuvent viser à démanteler l’industrie pétrochimique, pourtant l’un des principaux vecteurs de ce type de pollution. Le rôle de l’État est donc de répondre à tout événement en plaçant avantageusement ses alliés, typiquement les grands groupes industriels ou les entreprises prometteuses.
    Pour Celia Izoard, les politiques de santé publique menées face à l’épidémie de Covid19 répondent très clairement à ces critères : « on a un soutien très fort à la télémédecine et à l’e-santé, le déploiement d’un gouvernement algorithmique et d’un vaccin biotechnologique. » On nage en plein NBIC (Nano Bio Info Cogno), cette convergence des technosciences très en vue qui tire la croissance économique.
    « D’une certaine manière, la pandémie est une opportunité dont s’est saisie l’État pour accélérer la société du Big Data et ouvrir de gigantesques marchés par la contrainte légale sur les individus. Le passe sanitaire est un formidable couteau suisse dont vont pouvoir émerger tout un tas de nouvelles start-ups et de nouveaux usages, qui ont tous pour point commun d’être liés à l’intelligence artificielle, à la donnée et à la numérisation des activités. »
    La journaliste en veut pour preuve le Ségur de la Santé à l’automne dernier, lequel a débloqué une enveloppe de 8 milliards d’investissements pour le secteur. On y trouve une augmentation de 180€ de salaire pour certaines catégories de soignant•es, mais le quart de l’enveloppe est dévolu au développement de la télémédecine, à la numérisation et à la collecte de données.
    « Entre la clinique et la télémédecine, nous avons deux visions du soin diamétralement opposées. D’un côté une médecine liée aux pratiques incarnées par des humains, qui nécessite d’embaucher. Et de l’autre côté, une médecine des nouvelles technologies fondée sur l’automatisation : la e-Santé. »
    Ainsi, c’est dans ce sens là qu’il faudrait comprendre la négligence absolue de l’État en matière de soutien aux moyens humains pour faire face à la pandémie.
    « Il y a vraiment un passage d’un système à l’autre, avec l’idée d’un système de santé où les humains, les soignant•es ont beaucoup moins de place, et où on va pouvoir marchandiser la santé en faisant travailler des tas de boîtes pour collecter des données, piloter les appareils de télémédecine, déployer la 5G et mettre en place des systèmes de capture et de surveillance épidémiologique etc. »
    Cette nouvelle médecine, sa e-Santé, ses robots et ses capteurs, sont considérés comme prioritaires dans la course des nations autour de la révolution technologique que représente l’intelligence artificielle. La réaction de l’État est donc inscrite au coeur d’une guerre économique : « data is the new oil ».
    « Le but de notre gouvernement est de créer des géants nationaux dans ce domaine et d’ouvrir des marchés. Et ça, on ne peut le faire sans une collecte massive de données de santé. »
    « Cédric Villani, dans le rapport sur l’intelligence artificielle qu’il a dirigé, le précise : le rôle de l’État aujourd’hui, c’est de lancer des grands projets qui permettent une collecte massive de données de qualité, dans les domaines prioritaires, la santé et l’éducation notamment. »
    Dans les discours politiques tenus dès les premiers temps de la pandémie, on comprend à cette lumière la mise en avant d’un monde d’après auquel s’opposerait l’archaïsme de celui d’avant. Et ce monde d’après, c’est celui dont ont besoin un certain nombre d’États pour maintenir leurs intérêts industriels.
    La formule d’Emmanuel Macron : « Nous sommes en guerre », elle fait sens. Oui, nous sommes en guerre, c’est la guerre économique. Ce qui explique aussi la violence du débat intellectuel et la violence avec laquelle tous ceux qui sont considérés comme « covido-sceptiques » ou susceptibles de tenir des propos covido-sceptiques, ou qui pourraient, de manière épidémique, être cas contact avec d’autres personnes ayant produit de tels discours, sont évincés du débat de manière hystérique et inédite.
    Le Covid s’est ainsi présenté comme une opportunité extraordinaire pour accélérer drastiquement cette transformation #numérique de la santé et de la société en général. Dès la fin 2019, l’Agence européenne de la santé lance un appel d’offres pour créer une e-carte de vaccination, dédiée à limiter les risques pandémiques en Europe. Cet appel d’offres est remporté début 2020 par quatre entreprises françaises, dont le spécialiste de la transformation numérique, l’entreprise Jouve. C’est ce consortium qui met très rapidement en place le passeport sanitaire européen. Dans le domaine de la collecte massive de données de santé, et de manière plus générale, du Big Data et de l’intelligence artificielle, « la France a beaucoup de pions à placer. »
    La course mondialisée
    Un autre élément important vient étayer la réflexion de Celia Izoard :
    « Aujourd’hui le modèle en matière de monde d’après, de société pilotée par ce genre de technologies – de manière très antagoniste avec nos traditions politiques -, ce sont les pays asiatiques : la Chine, la Corée du Sud, Singapour, Taiwan… Ce n’est pas un hasard si très rapidement, il est dit dans les plus hautes instances, qu’il va falloir imiter ces pays. »
    Ainsi de l’Institut Montaigne, l’un des principaux responsables de la mise en place des doctrines néolibérales en France, qui publie un rapport dès avril 2020 sur la réponse des pays asiatiques à la pandémie, vantant les systèmes mis en place. Au moment de la publication de ce rapport, ce n’est pas l’efficacité de ces mesures qui est mise en avant : non seulement il est encore trop tôt pour mesurer leurs effets, mais une partie des pays cités sont aussi des îles et ne connaissent donc pas les mêmes enjeux de gestion de la pandémie. Sans parler de la Chine dont les chiffres ne sont pas fiables. On ne cesse depuis de vanter ces systèmes, voire de les appliquer. « C’est un enjeu industriel majeur, il faut donc pousser dans ce sens. »
    En juin 2021, trois sénateurs français rédigent le rapport Crise sanitaire et outils numériques , dans lequel ils se livrent au même exercice, passant en revue les réponses des pays asiatiques. Le discours, en substance, est le suivant : plein de verrous ont sauté, les gens sont plus prêts à accepter les mesures, le passe sanitaire se met en place, mais ça ne va pas assez loin du tout. Il faut faire sauter d’autres obstacles politiques rapidement. Les sénateurs mettent en cause le rôle de la CNIL, terrible obstacle par sa lecture beaucoup trop traditionaliste des droits et libertés. Le modèle chinois est porté aux nues : des caméras biométriques à reconnaissance faciale permettent de scruter les interactions sociales, de rattraper ceux devant être placés en quarantaine, des caméras thermiques mesurent leur température, et un équivalent du passe sanitaire est mis en place dès mars 2020, au moment où le confinement est décrété en France. Ce passe numérique est développé par de très grandes entreprises liées au gouvernement chinois. Alibaba et Tencent développent les fameuses applis et services de réseaux sociaux utilisés par la quasi-totalité de la population en Chine. Un contact tracing est inclus dans ces applis, tout le monde y est donc soumis de fait.
    En Corée du Sud, des quarantaines obligatoires sont décidées, avec un contact tracing très intrusif. On utilise toutes les données disponibles : relevés bancaires, factures téléphoniques, géolocalisation… Lorsqu’on est placé en quarantaine, une application de géolocalisation alerte les forces de l’ordre si celle-ci n’est pas respectée ou si le smartphone est éteint pendant plus de quinze minutes. À Singapour, on a aussi une quarantaine géolocalisée couplée à une vidéosurveillance analysant les interactions des individus dans l’espace public, ainsi qu’une application « Trace Together », qui permet à l’administration de surveiller nominativement toutes les interactions en fonction de la localisation du téléphone. Dès mars 2020, un passe sanitaire est mis en place, « Safe Entry », pour contrôler les accès aux espaces publics. C’est un passe nominatif, et les données sont directement transmises aux autorités. C’est ce genre de mesures qui est clairement visé par les sénateurs ou par l’institut Montaigne, et qui dessinent l’accélération de l’hypercapitalisme contemporain.

    #QR_code, #passe_sanitaire, #technocritique, #Etat, #sauver_des_vies, #obligation_vaccinale.

  • Im-passe sanitaire, le gouvernement est dans l’illusion !
    https://www.youtube.com/watch?v=bcPn5HVqCA0

    Le 7 décembre 2021, le député Ugo Bernalicis interpelle le Gouvernement dans le cadre de la séances des questions au gouvernement et lui reproche de s’obstiner à imposer le #Passe-Sanitaire, sans jamais faire la démonstration de son efficacité.
    #Cnil
    #Covid19 : « Le passe sanitaire ne nous protège pas, c’est une passoire sanitaire, c’est une impasse sanitaire », affirme #Ugo-Bernalicis.

  • Six thérapeutes transculturelles pour p(e)anser les plaies du trauma colonial
    https://desoriental.fr/therapie-transculturelle-decoloniale

    mis à jour le 01/12/2021

    "Comme nous le rappelle tristement l’actualité en Guadeloupe, le passé esclavagiste et colonial de la France a encore des conséquences aujourd’hui, économiques et politiques, mais aussi dans les âmes et dans les corps.

    Cette semaine, on t’emmène faire un tour du côté des thérapies transculturelles (car non, la psychologie et la psychiatrie ne sont pas universelles mais bien ancrées culturellement.), un champ d’étude et d’action en santé mentale encore peu connu, et qui pourtant pourrait nous aider, collectivement et individuellement, à penser et à panser les plaies du trauma colonial.

    On parle d’approches thérapeutiques transculturelles, décoloniales ou encore d’ethnopsychiatrie. L’occasion de rappeler que n’importe qui peut aller consulter un.e psychiatre. Il s’agit juste d’un.e professionnel.le qui allie psychologie et médecine et offre une modalité (remboursée par la sécu’) de prendre soin de sa santé mentale. Et comme dirait l’autre, les 20% qui vont en thérapie y vont à cause des 80% qui n’y vont pas. A bon entendeur !

    Cette semaine donc, on te présente six thérapeutes transculturelles et/ou décoloniales à suivre ou à consulter. Ces six femmes, de générations et de cultures différentes, ont toutes pour point commun d’avoir à un moment de leur vie, ressenti le besoin viscéral d’apporter une solution à cet angle mort de la santé mentale française. Elles offrent à leurs patient.e.s des espaces sécurisés qui prennent en compte leurs spécificités culturelles mais aussi l’impact des oppressions systémiques sur leurs vécus, sans jugement.
    En introduction, aux origines des approches thérapeutiques transculturelles

    Impossible de citer toutes les contributions majeures au champ des thérapies transculturelles, aussi nous te présentons très subjectivement deux personnalités dont la pensée est un repère toujours pertinent pour comprendre la réalité psychologique des Français.e.s transculturel.le.s post-coloniaux.ales :

    L’incontournable Frantz Fanon, psychanalyste français afro-caribéen fortement impliqué dans la lutte pour l’indépendance algérienne et enterré en Algérie, est l’un des premiers à envisager la part psychologique du processus et du système de colonisation et à décrire les séquelles et aliénations de la colonisation sur la psyché des sujets colonisés.

    Alice Cherki, psychanalyste judéo-algéroise indépendantiste et disciple de Fanon est, elle, toujours vivante et sa réflexion n’a fait que suivre l’évolution des générations de déraciné.e.s, comme en témoigne son livre de 2007 La Frontière invisible, violence de l’immigration. Le trauma n’est plus vécu mais hérité des générations précédentes, souvent dans le silence, souvent par le corps.
    Six praticiennes transculturelles et/ou décoloniales

    1. Marie-Ève Hoffet-Gachelin, pédopsychiatre franco-vietnamienne

    Elle exerce au centre médico-psycho-pédagogique de Colombes et a fait de la recherche sur la pédopsychiatrie post-coloniale en partant de sa connaissance des parcours post-coloniaux franco-vietnamiens.
    2. Hagere Mogaadi, psychanalyste inclusive à Paris

    Elle se présente comme décolonialiste, queer friendly, musulmane, féministe et transculturelle.

    Au-delà des consultations, elle propose du contenu autour des questions identitaires et de santé mentale sur son compte instagram : @la_psy_qui_cause.
    3. Selma Sardouk, coach décoloniale et féministe

    Selma n’est pas thérapeute mais coach formée en hypnose et en thérapies brèves, créatrice de contenu autour des questions décoloniales et féministes.

    Elle vulgarise des sujets très précis en formats très synthétiques. Mais on adore les Reels de son compte Instagram @selmasardouk qui mettent le doigt sur ces micro-moments où on peut se sentir incompris.e ou en colère face au racisme ordinaire voire bienveillant, en tant que Français.e transculturel.le. Rire libérateur assuré !
    4. Amalani Simon, psychologue clinicienne franco-indienne

    Elle exerce à l’hôpital Avicenne de Bobigny et est fortement impliquée dans la psychanalyse transculturelle et a notamment produit des travaux de recherche autour des liens entre psychologie et langage des enfants français d’ascendance tamoule.
    5. Soumaëla Boutant, psychologue interculturelle française afro-caribéenne

    L’intérêt de Soumaëla pour la psychologie interculturelle naît pendant ses études, où elle sent une sorte de dissonnance “entre [son] vécu de jeune femme française et afrocaribéenne et certaines théories qui [lui] étaient enseignées à l’université”.

    Basée en Guadeloupe, Soumaëla propose des consultations de psychologie interculturelle en visio spécifiquement pour les caribéen.ne.s francophones expatrié.e.s.
    6. Karima Lazali, psychologue franco-algérienne

    Elle exerce à Levallois-Perret en libéral et a écrit Le trauma colonial, une enquête sur les effets psychiques et politiques contemporains de l’oppression coloniale en Algérie.❞

    #colonial #France #psychologie #trauma

  • Migrants : « Ce sont bien les Etats qui tuent aux frontières de l’Europe »

    Face aux discours de dédouanement de nombreux responsables politiques après la mort d’au moins 27 personnes au large de Calais le 25 novembre, plus de 200 universitaires spécialistes des questions migratoires demandent, dans une tribune au « Monde », que les Etats européens, y compris le Royaume-Uni, reconnaissent leurs responsabilités.

    Tribune. Mercredi 24 novembre, au moins 27 personnes sont mortes dans la Manche après avoir tenté une traversée en bateau vers les côtes britanniques. C’est le bilan le plus meurtrier de ces dernières années à Calais et ses environs. Pourtant, quiconque connaît la région ne peut s’étonner d’une telle nouvelle. D’abord parce que les frontières – mais surtout les politiques visant à empêcher leur passage – ont tué plus de 300 personnes sur ce seul littoral depuis 1999.

    Ensuite parce que, depuis le début des passages en small boats, en 2018, on ne pouvait que craindre un tel drame : la Manche est l’une des voies maritimes les plus empruntées au monde, les personnes qui traversent le font dans des embarcations de fortune et avec un équipement minimum, et la température de l’eau ne laisse que peu de chance de survie aux personnes qui passent par-dessus bord. Enfin, parce qu’avec l’approche de l’hiver et la politique de non-accueil des pouvoirs publics français, les personnes en transit sont prêtes à tout pour passer coûte que coûte.

    Dans les heures qui ont suivi le repêchage de plusieurs corps sans vie au large de Calais, on a assisté à un véritable déferlement de déclarations émanant d’élus et de représentants d’institutions publiques, se défaussant de toute responsabilité dans les conséquences dramatiques d’une politique migratoire meurtrière, qu’ils ont pourtant choisie et rendent opérationnelle tous les jours. A les entendre, les « passeurs » seraient les seuls et uniques criminels dans cette « tragédie humaine », épaulés, selon certains, par les associations non mandatées par l’Etat, qui auraient « du sang sur les mains », selon les propos tenus par Pierre-Henri Dumont, député [LR] du Pas-de-Calais, sur Franceinfo, le soir du drame. Ce retournement des responsabilités est odieux et inacceptable.

    Rhétorique éculée

    Le dédouanement des politiques en France et au Royaume-Uni fait tristement écho à la situation dramatique dans le canal de Sicile, où, depuis maintenant plus de vingt ans, des bateaux chavirent et des exilés se noient dans l’indifférence. Il fait écho aussi au traitement de la situation en cours à la frontière entre la Biélorussie et la Pologne, où quelques milliers de migrants sont pris au piège entre les forces armées biélorusses et polonaises, poussés en avant par les premières et repoussés par les secondes. N’y voir que le machiavélisme de la Biélorussie épaulée par la Russie, c’est occulter la responsabilité de l’Union européenne (UE) dans ce refus obstiné d’accueillir celles et ceux qui fuient leur détresse.

    C’est bien avec l’assentiment de tous les Etats membres que les gardes-frontières polonais repoussent à coups de grenades lacrymogènes et de lances à incendie des familles afghanes, syriennes et d’autres nationalités, dont la vie est chaque jour mise en danger dans des forêts marécageuses, par des températures glaciales. Ce sont bien les Etats qui tuent aux frontières européennes.

    Face à la rhétorique éculée de l’appel d’air et de l’invasion, face à l’entier report de la responsabilité à des passeurs ou à des régimes dits hostiles à l’UE, face à la criminalisation toujours plus grande de la solidarité, nous, sociologues, politistes, géographes, anthropologues, historiens, juristes, philosophes et psychologues spécialistes des questions migratoires, souhaitons rétablir quelques vérités issues de nos longues années d’observation et d’analyse des situations créées par les politiques anti-immigration :

    – les migrations ne sont pas le fait de criminels, mais de personnes qui fuient des situations insoutenables et qui exercent un droit à la mobilité devenu, dans les faits, le privilège d’une minorité ;

    – les passeurs n’existent que parce que les frontières sont devenues difficiles, voire impossibles, à traverser légalement ;

    – l’augmentation des contrôles et des moyens policiers ne fait qu’accroître le prix des services proposés pour l’aide à la traversée ;

    – les frontières tuent ; dans les pays d’origine et de transit, en Méditerranée, dans la Manche, aux frontières terrestres, dans l’espace Schengen, dans les territoires d’outre-mer, des personnes en détresse sont confrontées à la multiplication des dispositifs de contrôle frontaliers financés en grande partie par l’UE, ses Etats membres, et le Royaume-Uni ; pour éviter d’être enfermées, expulsées, maltraitées, elles empruntent des itinéraires toujours plus dangereux et tentent malgré tout le voyage en prenant des risques immenses ;

    – le durcissement et la violence de ces contrôles augmentent la durée de l’attente, le nombre de tentatives de passage aux abords des frontières, les risques d’expulsion, conduisant à des parcours erratiques à travers la France et l’Europe, renforçant d’autant les souffrances endurées et les risques létaux ;

    – la politique de « non-accueil » mise en œuvre à Calais comme ailleurs, consistant à harceler sans relâche les personnes exilées, à leur dénier l’accès aux droits fondamentaux les plus élémentaires et à entraver le travail des associations qui leur viennent en aide ne fait que rendre l’horizon britannique plus désirable ;

    – à l’encontre des politiques dominantes, la solidarité des populations avec les personnes migrantes est de plus en plus patente à travers l’Europe ; des individus et des associations se mobilisent pour permettre à des milliers d’hommes, de femmes et d’enfants de survivre malgré des conditions toujours plus difficiles ; qu’ils et elles soient accusés de « favoriser l’appel d’air », quand ce n’est pas de complicité de meurtre, est tout simplement honteux.

    Face à ces drames, il est urgent que l’UE et les Etats européens, y compris le Royaume-Uni, reconnaissent leurs responsabilités et changent radicalement de cap : il n’est pour nous ni concevable ni acceptable que les institutions poursuivent dans leur entêtement à traiter les personnes migrantes comme des criminels, pour ensuite regretter hypocritement les morts que les mesures sécuritaires contribuent à produire.

    Premiers signataires : Annalisa Lendaro (CNRS, Certop) ; Karine Lamarche (CNRS, CENS) ; Swanie Potot (CNRS, Urmis) ; Marie Bassi (université Nice-Sophia-Antipolis, Ermes) ; Michel Agier (IRD-EHESS, IIAC) ; Didier Bigo (Sciences Po, CERI) ; Alain Morice (CNRS, Urmis) ; Léa Lemaire (ULB, Cofund Marie Curie) ; Morgane Dujmovic (AMU, Telemme) ; Mustapha El Miri (AMU, LEST) ; Etienne Balibar (université Paris-Nanterre, Sophiapol) ; Nicolas Fischer (CNRS, Cesdip) ; Marie-Laure Basilien-Gainche (université Lyon-III, Ediec) ; Yasmine Bouagga (CNRS, Triangle) ; Mathilde Pette (UPVD, ART-Dev) ; Sarah Sajn (Aix-Marseille Université, Mesopolhis) ; Nicolas Lambert (CNRS, RIATE)

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/12/01/ce-sont-bien-les-etats-qui-tuent-des-migrants-aux-frontieres-de-l-europe_610

    –-

    En contre-point :
    #Gérarld_Darmanin autour des morts dans #La_Manche (sans honte)
    https://seenthis.net/messages/938261

    #responsabilité #Etats #asile #migrations #réfugiés #morts #décès #morts_aux_frontières #passeurs

    • Morts et #refoulements pour cause de #non-assistance délibérée dans la Manche

      Lorsque la nouvelle a commencé à circuler qu’un bateau avait coulé au milieu de la Manche et que 27 personnes, hommes, femmes et enfants, avaient perdu la vie le mercredi 24 novembre, les gouvernements britanniques et français se sont empressés d’accuser les ” passeurs ” de cette perte de vie. Les informations qui ont émergé depuis montrent que c’est la décision des autorités de ne pas intervenir et de ne pas coopérer entre elles, alors qu’elles avaient été alertées que le bateau était en détresse, qui a conduit directement à leur mort.

      L’un des deux survivants, Mohammad Khaled, s’est entretenu avec le réseau d’information kurde Rudaw et a expliqué son histoire. Il raconte que les voyageurs sont montés sur le bateau et sont entrés dans l’eau près de Dunkerque vers 21 heures HEC dans la nuit de mardi à mercredi. Trois heures plus tard, ils pensaient être arrivés à la ligne de démarcation entre les eaux britanniques et françaises.

      Mohammad raconte que pendant leur traversée le flotteur droit perdait de l’air et des vagues entraient dans le bateau. Les passagers ont évacué l’eau de mer et utilisé une pompe manuelle pour regonfler le flotteur droit du mieux qu’ils pouvaient, mais lorsque la pompe a cessé de fonctionner, ils ont appelé les garde-côtes français à la rescousse. Ils ont partagé leur position GPS via un smartphone avec les autorités françaises, ce à quoi les Français ont répondu que le bateau se trouvait dans les eaux britanniques et qu’ils devaient appeler les Britanniques. Les voyageurs ont alors appelé les garde-côtes britanniques qui leur ont dit de rappeler les Français. Selon son témoignage, “deux personnes appelaient – l’une appelait la France et l’autre la Grande-Bretagne”. Mohammad a raconté que : “La police britannique ne nous a pas aidés et la police française a dit : “Vous êtes dans les eaux britanniques, nous ne pouvons pas venir”. Bien que les garde-côtes de Douvres et le centre français de coordination des secours maritimes de Gris-Nez connaissent l’emplacement et l’état du bateau, aucun des deux n’a lancé d’opération de recherche et de sauvetage.

      Un parent d’une des personnes à bord, également interrogé par Rudaw, explique que les problèmes avec le flotteur ont commencé vers 01h30 du matin GMT. Il a été en contact avec les personnes à bord jusqu’à 02h40 GMT et suivait également la position du bateau, partagée en direct sur Facebook. Il insiste sur le fait qu’à ce moment-là, le bateau se trouvait dans les eaux britanniques et que les garde-côtes de HM étaient au courant de la situation. Il déclare : “Je crois qu’ils étaient à cinq kilomètres à l’intérieur des eaux britanniques” et lorsqu’on lui demande si les Britanniques étaient au courant du bateau en détresse, il répond : “100 pour cent, 100 pour cent et ils [la police britannique] ont même dit qu’ils viendraient [à la rescousse]”.

      Interrogés par Rudaw, les Britanniques ont nié que le bateau se trouvait dans leurs eaux. Un communiqué du ministère de l’Intérieur indique : “Les responsables ici ont confirmé hier soir que l’incident s’est produit bien à l’intérieur des eaux territoriales françaises, ils ont donc dirigé les opérations de sauvetage, mais [nous] avons déployé un hélicoptère en soutien à la mission de recherche et de sauvetage dès que nous avons été alertés.” Cependant, Rudaw (au 29/11) n’a toujours pas reçu de réponse détaillée sur la question de savoir si oui ou non les garde-côtes de HM avaient reçu un appel de détresse du navire pendant la nuit ou tôt le matin.

      Une question se pose quant à la déclaration du ministère de l’Intérieur : quelle est la période qui, selon lui, constitue “l’incident” ? La déclaration mentionne le déploiement d’un hélicoptère “dès que nous avons été alertés”. Le suivi du vol de l’hélicoptère G-MCGU des garde-côtes de HM (nommé “Sar 111232535” sur MarineTraffic) par Sergio Scandura montre qu’il a effectué trois vols au-dessus de la zone le 24 novembre :

      Le premier entre 03h46 et 06h26 GMT, où il semble avoir effectué une recherche de type “carré en expansion”, et le second des cibles spécifiques qu’il a trouvées. S’il s’agit du lancement “dès que nous avons été alertés” dont parle le ministère de l’Intérieur, cet hélicoptère a-t-il repéré le bateau de Mohammad et d’autres navires ont-ils été lancés pour participer à la mission de recherche et de sauvetage ?

      La fois suivante, l’hélicoptère a été lancé dans l’après-midi, à 13 h 16 GMT. Il semble faire une “recherche de secteur” et encercle à nouveau certains endroits spécifiques. C’est à peu près l’heure à laquelle les Français ont lancé leur opération de recherche et de sauvetage, et il est plus probable qu’il s’agisse du lancement et de l’ “incident” dont il est question dans la déclaration du ministère de l’Intérieur. Ce n’est qu’à 15 h 47 que la préfecture maritime de la Manche et mer du Nord a indiqué pour la première fois sur Twitter qu’elle coordonnait une opération de recherche et de sauvetage concernant un naufrage dans la Manche. Les données de MarineTraffic montrent que les bateaux impliqués dans le sauvetage, par exemple le canot de sauvetage Notre Dame Du Risban de la SNSM, n’ont commencé à se diriger vers cet endroit que vers 14h00, soit environ 12 heures après que Mohammad et son parent aient déclaré avoir parlé pour la première fois avec les autorités. La majeure partie de l’activité des navires français chargés de l’opération de sauvetage en question se déroule autour de 51°12′ N, 1°12 E, une position située à environ 1 mile seulement à l’est de la ligne séparant les eaux françaises des eaux britanniques.

      Cela signifie que pendant environ 12 heures, entre 02h30 et 14h00 environ, plus de trente personnes ont été laissées à la dérive dans un bateau qui coulait et sans moteur dans l’une des voies maritimes les plus fréquentées et les plus surveillées du monde. Des informations supplémentaires sont encore nécessaires pour prouver définitivement que Mohammad et les autres personnes à bord de son bateau se trouvaient dans les eaux britanniques, pendant combien de temps, et que leur situation de détresse était connue des garde-côtes de HM. Toutefois, compte tenu du témoignage de Mohammad, des parents des autres passagers, du premier hélicoptère et du temps pendant lequel le bateau a dérivé en mer, il est extrêmement probable que les garde-côtes britanniques étaient au courant de la situation. Mais au lieu d’intervenir pour sauver des vies en mer, il semble qu’ils aient décidé de faire de la politique et d’espérer que les voyageurs reviennent à la dérive et se noient dans les eaux françaises.

      Mohammad a témoigné que, même si l’eau pénétrait dans le bateau pendant la nuit et que des personnes étaient submergées, “tout le monde pouvait supporter la situation jusqu’au lever du soleil, puis, lorsque la lumière a brillé, personne ne pouvait plus supporter la situation et ils ont abandonné la vie”. Au moment où le soleil s’est levé, ils avaient déjà perdu tout espoir de survie.

      20/11/21

      Le récit de Mohammad Khaled du 24 novembre n’est pas le premier de ce qui semble être une non-assistance délibérée aux bateaux de migrants en détresse dans la Manche. Moins d’une semaine auparavant, le 20 novembre, nous nous sommes entretenus avec une autre personne dont les appels à l’aide dans la Manche, près de la ligne frontalière, semblent avoir été délibérément ignorés par les Britanniques et qui nous a fourni le récit suivant de son voyage :

      ‘’ C’était aux environs de trois heures du matin le samedi 20 novembre, lorsque nous avons embarqué sur notre bateau. Nous étions 23 personnes sur le bateau. Trois heures après, je pense, nous avons atteint la frontière britannique puis nous nous sommes retrouvés à court d’essence, je pense à 7 heures et ensuite nous avons décidé d’appeler le 999.

      Lorsque nous les avons appelé, ils nous ont dit que nous étions dans les eaux françaises sans nous demander notre localisation. Ils nous ont dis d’appeler le 196. Dans un premier temps, nous n’étions pas d’accord pour appeler les français.

      Nous avons essayé de ramer, mais c’était très difficile à cause des vagues. Puis, nous avons décidé d’appeler les français. Quand nous avons appelé, ils nous ont demandé de leur envoyer notre localisation en direct, puis ils nous ont dit ʺ vous êtes dans les eaux britanniques ʺ. Ils nous ont dit d’appeler le 999.

      Ensuite, nous avons rappelé les anglais beaucoup de fois, mais ils ont continué à nous répéter que nous étions dans les eaux françaises et puis ils nous ont raccroché au nez. Les britanniques nous ont répondu de manière très impolie, et il nous a semblé qu’ils se moquaient de nous. Je leur ai dis deux fois qu’il y avait des gens qui mouraient à bord, mais ils n’en avaient rien à foutre.

      Nous avons envoyé notre localisation en direct une deuxième fois aux gardes côtes français. Nous avons également appelé, et nous avons essayé de les joindre avec deux téléphones mais ils ont continué à nous dire que nous étions dans les eaux anglaises.

      J’ai donc décidé aux alentours de 9h30 de téléphoner à Utopia. Puis, ils nous ont aidé et ont forcé les autorités françaises à nous envoyer un bateau pour nous sauver aux alentours de 10H-10H30.

      La raison pour laquelle je partage cela c’est parce que je ne veux pas que cela arrive encore parce que cela concerne la vie des gens. ‘’

      Utopia 56, après avoir été appelé par les personnes en détresse, a appelé le CROSS Gris-Nez, le centre français de coordination des secours maritimes responsable du détroit de Douvres.
      Utopia 56 a relayé les informations reçues et la position du bateau, puis le CROSS lui a répondu qu’il était certain que les Britanniques n’étaient délibérément pas intervenus et avaient laissé les personnes dériver vers les eaux françaises.

      Les conséquences mortelles d’un manque de coopération

      Ces deux cas indiquent que, bien que la Border Force n’ait pas encore mis en œuvre de refoulement forcé en retournant les bateaux de migrants avec des jet-skis ou en les ramenant dans les eaux françaises, des refoulements ont déjà lieu, sous la forme de refus délibéré des garde-côtes de HM de venir en aide aux migrants qui, selon eux, dériveront vers les eaux françaises. Cette non-assistance délibérée est une tactique mortelle qui laisse les gens en mer, dans des bateaux surpeuplés et en mauvais état, pendant de nombreuses heures après leur appel à l’aide, afin de traumatiser les voyageurs et de les dissuader de tenter à nouveau la traversée vers le Royaume-Uni en bateau.

      Les garde-côtes français et britanniques “ont le devoir de coopérer ensemble pour prévenir les pertes de vie en mer et assurer l’achèvement d’une mission de recherche et de sauvetage” en vertu de la Convention internationale pour la sauvegarde de la vie humaine en mer et de la Convention sur la recherche et le sauvetage. Les deux parties ont notamment la responsabilité de se contacter dès qu’elles reçoivent des informations sur des personnes en danger et de coopérer aux opérations de recherche et de sauvetage de toute personne en détresse en mer.

      Cependant, il semble que les politiques anti-migrants actuelles du Royaume-Uni signifient que cette coopération n’existe pas, dans les faits, pour les migrants en détresse dans la Manche. En particulier, le gouvernement britannique ne veut pas être vu en train de secourir les bateaux immédiatement après leur entrée dans ses eaux.

      En outre, leurs critiques à l’encontre des Français qui (à leurs yeux) n’en font pas assez pour intercepter les bateaux de migrants en mer ou les empêcher de quitter les côtes françaises, ont semblé empoisonner les relations diplomatiques et opérationnelles entre les pays. Par exemple, le Journal du Dimanche a récemment publié que, même dans les enquêtes sur les réseaux de passeurs, il y a eu une rupture dans la coopération française et britannique.

      Au lieu de coopérer pour sauver des vies en mer, la réponse franco-britannique a été de se disputer, d’introduire davantage de mesures de police aux frontières (y compris la surveillance aérienne de Frontex), de blâmer les victimes et de continuer à faire des passeurs des boucs émissaires. Cela a été utile pour détourner l’attention de leurs propres échecs de ces derniers jours, mais n’améliorera pas la situation des personnes qui doivent réellement entreprendre ces voyages. Une sécurisation accrue des plages et des mers ne fera que pousser les gens à emprunter des routes plus longues et plus dangereuses, où la couverture téléphonique n’est pas toujours bonne. Les petits bateaux en détresse se retrouveront plus loin du grand nombre de moyens de recherche et de sauvetage potentiels situés dans le détroit de Douvres.

      La mort de leurs amis et les heures passées en détresse à dériver en mer sans secours ne dissuaderont pas les gens d’essayer d’effectuer les mêmes trajets car ils n’ont pas d’autres options. Les solutions proposées, telles que les visas humanitaires, n’offriront pas à tous ceux qui en ont besoin une route sûre vers le Royaume-Uni. D’autres continueront à s’embarquer sur de petits bateaux qui ne sont pas en état de naviguer. Simultanément, des millions de personnes font ce même voyage chaque année à bord des ferries et des trains qui traversent la Manche plusieurs fois par jour sans incident. Ce n’est qu’en accordant le droit à la liberté de circulation à tous que nous mettrons fin à l’apartheid frontalier et que nous éviterons que d’autres vies soient perdues en mer.

      https://calaismigrantsolidarity.wordpress.com/2021/11/30/morts-et-refoulements-pour-cause-de-non-assistanc

    • Naufrages dans la Manche : de l’indécence à l’horreur

      Le drame qui s’est noué le 24 novembre 2021 dans la Manche est le pendant de ce qui se joue tous les jours en Méditerranée. Il était prévisible et donc évitable : la situation qui s’enlise depuis des années dans le nord de la France est la conséquence des politiques d’asile nationale et européenne.

      Face à ce drame, la réaction des autorités navre, mais ne surprend pas.

      – L’#indécence d’abord, lorsque les responsables politiques imputent aux seuls « passeurs » la responsabilité de ce drame collectif, en faisant abstraction de l’ensemble des autres causes et singulièrement de la politique de non-accueil qui offre maintenant prise à un chantage migratoire devenu outil de pression diplomatique dans toute l’Europe.

      – Le #déni, ensuite, quand le ministre de la justice assène impunément la post-vérité officielle sur les plateaux-télés : « Vous vous rendez compte de ce que l’on suggère ? Que l’on pourrait comme ça impunément lacérer des tentes, qu’on l’encouragerait et qu’on ne distribuerait pas des vivres à ces migrants ? », en se gardant bien de s’interroger sur les raisons pour lesquelles des exilé.es continuent de transiter par Calais depuis plus de vingt ans en dépit du harcèlement violent qu’ils y subissent.

      – L’#hypocrisie, quand après avoir constaté que les lacérations de tentes étaient documentées et qu’il n’était plus possible de continuer à mentir devant l’évidence, le ministre de l’intérieur rétropédale et renvoie la responsabilité ... sur les co-contractants de l’Etat qui auraient pris l’initiative, d’eux-mêmes, de décider la destruction de ces tentes.

      – L’#horreur, enfin, quand le ministre de l’intérieur affirme que « les migrants utilisaient des bébés et menaçaient de les jeter dans une eau à quelques degrés sur un moteur (sic) si [les policiers] venaient les interpeller » ou que les premiers témoignages de rescapés du naufrage du 24 novembre dénoncent l’inaction des secours français et britanniques.

      Il faut le marteler : le harcèlement policier et administratif, les démantèlements quotidiens, systématiques et violents de tous les campements sont inadmissibles. L’État doit en finir avec sa politique de déni : en cherchant à invisibiliser ou à faire fuir les personnes étrangères, il n’aboutit qu’à les mettre toujours plus en danger. Il doit cesser d’attenter à la dignité de ces femmes et ces hommes qui ont fui le danger dans leur pays et qui vivent désormais dans l’angoisse de perdre le peu qui leur reste.

      Il faut le réaffirmer : la solution à l’hécatombe migratoire ne passe pas par l’envoi d’un avion de Frontex, cette agence européenne soupçonnée d’être complice de violations des droits humains en Grèce ; ni par la seule dénonciation des accords du Touquet, qui délocalisent les frontières britanniques sur le sol français ; elle ne passe pas par l’intensification de la lutte contre le « trafic migratoire », dont les réseaux ne prospèrent que grâce au durcissement des contrôles aux frontières.

      Il faut le dénoncer : la rhétorique mensongère des pouvoirs publics français et européens ne peut tenir lieu de politique. En invoquant la faute des autres tout en poussant les exilé.es à prendre toujours plus de risques au péril de leur vie, ils sont les premiers responsables des drames qui endeuillent les frontières.

      La France doit prendre acte de la présence d’exilé.es depuis les années 1990 et leur offrir des conditions de vie dignes. Elle doit reconnaître que, quelles que soient ces conditions de vie, certains d’entre eux voudront se rendre au Royaume-Uni, quoi qu’il en coûte.

      L’Union européenne et les Etats membres doivent en finir avec une politique qui, des îles grecques au détroit de Gibraltar, de la Pologne aux côtes de la Manche, enferme, harcèle, bafoue les droits et va jusqu’à tuer, dans un renoncement fatal aux principes qui l’engagent.

      https://www.gisti.org/spip.php?article6703

    • Hécatombe aux frontières : identifier les responsables

      À la suite du dramatique accident qui a causé la mort de trois personnes exilées, fauchées par un train à proximité de Saint-Jean-de-Luz le 12 octobre dernier et au cours duquel une quatrième a été grièvement blessée, trois associations s’associent à la plainte contre X déposée ce 6 décembre par plusieurs victimes entre les mains du procureur de la République de Bayonne.

      Le 12 octobre dernier, un train en provenance d’Hendaye a percuté quatre personnes qui se trouvaient sur les voies ferrées non loin de la gare de Saint-Jean-de-Luz. Trois d’entre elles ont perdu la vie dans l’accident. Le seul survivant, très grièvement blessé, a déclaré aux enquêteurs que leur groupe, qui venait d’Espagne, s’était réfugié au niveau de cette voie, déserte et non éclairée, afin d’éviter les contrôles de police.

      De fait, depuis leur rétablissement en 2015, les contrôles aux frontières intérieures françaises sont sans cesse renforcés et la frontière franco-espagnole n’échappe pas au déploiement des moyens matériels, technologiques et humains toujours plus importants consacrés à cette surveillance.

      Pourtant, chacun sait que cette politique a un coût humain considérable : en rendant le franchissement des frontières toujours plus difficile et périlleux, elle accroît mécaniquement les risques d’accidents et de morts pour les personnes exilées auxquelles toute autre voie d’accès ou de circulation est interdite.

      C’est ainsi que le drame du 12 octobre est venu aggraver le bilan des morts à la frontière franco-espagnole pour 2021, après les décès par noyade de Yaya Karamamoko le 22 mai et d’Abdoulaye Koulibaly le 8 août – tous deux ayant tenté de traverser la Bidassoa pour rejoindre la France depuis la ville d’Irun – et celui, le 16 juillet, d’une personne également fauchée par un train entre Cerbère et Banyuls-sur-Mer. S’y ajoute désormais le décès d’une troisième personne, par noyade dans la Bidassoa, le 20 novembre dernier.

      A la frontière franco-italienne, ce sont plus de trente décès qui ont été recensés depuis 2015 : principalement des cas d’électrocution sur des trains ou de collisions avec des trains ou des véhicules sur la voie Nice-Vintimille, ainsi que des cas de chute ou d’hypothermie sur les chemins de montagne. Le 6 novembre dernier, le corps d’une personne exilée qui avait chuté du « sentier du pas de la mort » était ainsi retrouvé vers Menton, dans un état de décomposition avancée.

      Quant à la frontière avec l’Angleterre, au moins 336 personnes ont perdu la vie, depuis 1999, en tentant de la franchir : cachées dans la remorque d’un camion, électrocutées par un caténaire du site d’Eurotunnel, noyées dans la Manche, ou mortes par défaut de prise en charge médicale ou des suites d’une intervention des forces de l’ordre.

      Ces drames ne peuvent continuer de s’accumuler sans que soient questionnées des décisions et des pratiques de verrouillage des frontières toujours plus rigoureuses et sophistiquées, et ayant pour conséquence d’accroître les risques auxquels expose leur franchissement.

      C’est pourquoi l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé), le Groupe d’information et de soutien des immigré·es (Gisti) et la Cimade ont décidé de s’associer à la plainte contre X qui vient d’être déposée entre les mains du procureur de la République de Bayonne par plusieurs victimes afin que toute la lumière soit faite sur les circonstances et les causes du drame de Saint-Jean-de-Luz.

      L’hécatombe aux frontières doit cesser : en s’associant à cette plainte, nos associations manifestent l’exigence de transparence et de vérité qui doit contribuer à en identifier tous les responsables.
      Le 8 décembre 2021

      Anafé
      Gisti
      La Cimade

      Reçu via la mailing-list du Gisti, le 08.12.2021

    • Débat : Peut-on en finir avec la « #crise » des migrants dans les #médias ?

      Le 24 novembre 2021, 27 personnes meurent dans un naufrage au large de Calais alors qu’elles espéraient traverser la Manche pour rejoindre l’Angleterre.

      Dans les heures qui suivent, l’événement fait la une et les journalistes se mettent à la recherche d’« experts » à inviter à la radio et à la télévision. Rebelote quelques jours plus tard, cette fois pour commenter l’annonce du ministre de l’Intérieur d’appeler en renfort Frontex, l’agence européenne de contrôle des frontières.

      Il se trouve qu’à l’instar de nombre de mes collègues, je fais partie des chercheurs et universitaires considérés comme « spécialistes des migrations ». C’est à chaque fois pareil : les journalistes cherchent un invité pour parler durant quelques minutes ; il y a urgence car l’émission est prévue pour le soir même, ou le lendemain matin au plus tard ; et comme tout le monde prévoit de parler de Calais, les « spécialistes » sont sur-sollicités, renvoient à d’autres collègues, les journalistes enchaînent les coups de fil, l’agitation croît au fil de la journée – parfois jusqu’à l’absurde.
      Nous disons tous la même chose

      Les collègues qui finissent par passer à l’antenne disent tous la même chose. Non, les passeurs ne sont pas les seuls responsables de ces drames, ce sont les États qui condamnent les migrants à prendre des risques insensés. Non, le traitement inhumain infligé aux migrants, que ce soit à Calais, ailleurs en Europe ou encore en Libye, ne décourage personne, mais ne fait que perpétuer une impasse qui aboutit aux tentatives les plus désespérées. Oui, il est possible d’accueillir décemment ces exilés, en garantissant leur droit de demander l’asile ou en reconnaissant qu’ils occupent les emplois dont personne ne veut. Et non, une telle politique ne créerait pas l’appel d’air tant redouté, mais ne ferait que respecter les principes les plus élémentaires d’un continent qui se prétend un « espace de liberté, de sécurité et de justice ».

      De telles séquences ne sont malheureusement pas nouvelles. Depuis des décennies les migrants meurent aux frontières de l’Europe. Et depuis des décennies les États européens accusent les passeurs et renforcent le contrôle des frontières. Qui se souvient qu’au début des années 2000, l’Espagne réclamait déjà « bateaux et avions » pour empêcher les arrivées de migrants sur les îles Canaries ?

      Certains chercheurs font donc le tour des plateaux, pour l’adrénaline du direct et le narcissisme inhérent à l’exercice, bien sûr, mais aussi pour de très bonnes raisons : apporter un éclairage au débat public, valoriser l’utilité des sciences sociales, défendre des valeurs, et contrer les propos xénophobes qui saturent l’espace public, a fortiori en ce début de campagne présidentielle.

      D’autres chercheurs sont plus hésitants. Question de tempérament, d’expérience des médias, et aussi de rigueur car force est d’avouer qu’on ne connaît pas toujours grand-chose du sujet du jour, et qu’on a de toute manière pas le temps de se préparer. Pour ma part, bien que « spécialiste des migrations », je n’ai jamais étudié la situation à Calais et n’ai aucune connaissance particulière sur le sujet (de même que je connais pas grand-chose non plus sur la frontière entre la Pologne et la Biélorussie, sujet sur lequel mes collègues et moi-même sommes aussi sollicités).

      Ce n’est pas vraiment un problème car je maîtrise bien les quelques généralités qu’on me demande d’énoncer. Mais cette superficialité n’en est pas moins un peu insatisfaisante, voire parfois aliénante. Et puis il y a le problème de la disponibilité, avec des émissions de très bon matin ou vers 19-20 heures, quand ce n’est pas le dimanche à midi – autant dire des horaires défavorables à la vie de famille.
      Des questions de fond

      Au-delà de ces petits débats entre collègues, le traitement médiatique des migrations pose des questions de fond. Avec la crise des migrants et des réfugiés en Europe, la manière dont la presse couvre des événements comme les naufrages en Méditerranée a fait l’objet de beaucoup de réflexions. On s’accorde à considérer que les médias jouent un rôle clé et qu’ils ont une responsabilité particulière. L’Unesco, par exemple, travaille avec les médias pour qu’ils fournissent « des informations vérifiées, des opinions éclairées ainsi que des récits équilibrés ».

      De même, Amnesty International déconseille l’usage de termes qui « déshumanisent » les migrants comme : clandestins, illégaux, ou flux migratoires.

      On se souvient aussi qu’en 2015 la chaine Al Jazeera écartait le terme de migrant et ne parlait que de réfugiés, pour insister sur les raisons impérieuses et légitimes qui motivent leur départ (là où de nombreux médias européens faisaient le contraire).

      Il existe également un manuel destiné aux journalistes qui travaillent sur le sujet, tandis que l’association France Terre d’asile organise des séances de formation à leur intention.

      C’est là aussi le sens des invitations aux « spécialistes des migrations », lesquels fourniraient un éclairage aux journalistes (et, à travers eux, à leur public). Mais on peut s’interroger sur ce besoin d’instruire les médias. Les quelques journalistes que j’ai eu l’occasion de rencontrer connaissent tout aussi bien que moi les arguments sur les impasses des politiques migratoires actuelles. S’ils m’invitent, ce n’est donc pas pour mes connaissances. Ce n’est pas étonnant : à force d’inviter des chercheurs, les journalistes sont devenus familiers de leurs explications. Le « spécialiste » ne fait donc que redire ce que tout le monde sur le plateau sait déjà.
      Une médiatisation qui renforce le climat de crise

      Ce que je constate surtout, c’est que les interactions entre médias et « spécialistes » sont pernicieuses car elles renforcent paradoxalement le climat de « crise » qui caractérise la perception des migrations.

      En ce qui me concerne, j’expliquerais volontiers qu’un naufrage comme celui de Calais ne relève pas d’une « crise », mais d’une forme de routine – une routine certes tragique et inacceptable, mais une routine quand même. Cette routine est la conséquence directe de la manière dont les États gouvernent les migrations, et il ne faut donc pas s’en étonner. C’est là le travail des universitaires (et des sciences sociales) : prendre du recul par rapport à l’actualité brûlante, mettre l’événement en perspective, rappeler des précédents historiques, etc.

      Mais comment exposer de tels arguments si, précisément, on ne parle des migrations qu’à l’occasion de naufrages ? En matière de communication, la forme prend souvent le pas sur le fond. Et naturellement, plus on évoque les migrations sous l’angle d’une crise, plus les responsables politiques seront fondés à ne présenter les naufrages que comme des événements imprévus et tragiques, et à les traiter à grands coups de réunions d’urgence et de mesures ad hoc – perpétuant ainsi un cycle de crise et d’urgence qui dure depuis près de trente ans.

      On objectera que les lamentations sur les biais médiatiques sont aussi anciennes que les médias eux-mêmes, et que face à l’urgence il faut se lancer dans l’arène sans hésitation ni cynisme, et avec toute l’indignation qui sied aux circonstances. Éternel débat, auquel il n’existe probablement aucune réponse satisfaisante. Mais tout de même, comment se fait-il qu’en 2021, alors que la barre des 20 000 décès de migrants en Méditerranée a été franchie depuis 2020 déjà, on continue à solliciter en urgence des « spécialistes » à chaque naufrage, pour qu’ils interviennent le soir même et commentent un événement qui, hélas, n’en est pas un ?

      https://theconversation.com/debat-peut-on-en-finir-avec-la-crise-des-migrants-dans-les-medias-1