• Actualité de la justice transitionnelle

    L’expression « justice transitionnelle » fut forgée pour désigner l’ensemble des mesures à prendre pour s’assurer de la transition démocratique de pays qui sortaient d’un régime autoritaire ou qui avaient été en proie à des violences de masse.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/esprit-de-justice/actualite-de-la-justice-transitionnelle-8847082
    #justice_transitionnelle #justice #Belgique #commission_vérité_et_justice #colonisation #passé_colonial #Jean-Pierre_Massias #Valérie_Rosoux #violence #violence_de_masse
    #audio #podcast

  • Presentazione pubblica della mappa sull’odonomastica coloniale di Milano

    La ricerca storico archivistica commissionata dall’Area Museo delle Culture, Progetti Interculturali e Arte nello Spazio Pubblico e condotta dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri si è focalizzata sulle denominazioni e le intitolazioni con riferimenti alle campagne coloniali, di alcune strade e piazze della città: attraverso lo studio delle delibere del Consiglio comunale di Milano e delle delibere di Giunta è stato possibile ricostruire il periodo storico in cui queste sono state denominate dall’amministrazione cittadina. Con questa ricerca sono state individuate circa centocinquanta strade e piazze intitolate a militari, esploratori, battaglie, città e altre località o persone connesse alla storia coloniale italiana. L’elenco comprende anche quegli istituti culturali e monumenti che hanno avuto un ruolo centrale nel dibattito sul colonialismo italiano.

    La mappa che viene presentata è quindi uno strumento utile per avere una maggiore consapevolezza della storia coloniale italiana e sulla sua ricaduta sul tessuto urbano. Il lavoro svolto viene inquadrato all’interno di un panorama più ampio di riflessione sulle memorie coloniali. Il Mudec ha riattivato il dialogo con alcune personalità delle comunità Habesha presenti a Milano, già coinvolta nel progetto di museologia partecipata intrapreso per l’allestimento della sezione dedicata al colonialismo italiano all’interno di Milano Globale. Il mondo visto da qui, percorso permanente del museo. Nell’ottica di un processo di rilettura della nostra storia coloniale e di risignificazione del patrimonio ma anche dei luoghi della città marcati dalla presenza di odonimi coloniali, il Mudec ha aperto un confronto che si desidera costante e permanente sulle tematiche del colonialismo con cittadine e cittadini anche con origini diasporiche. Il lavoro realizzato fino ad oggi viene presentato a Palazzo Marino in una settimana fortemente simbolica che vuole ricordare Yekatit 12 (12 febbraio secondo il calendario etiopico, equivalente al 19 febbraio nel calendario gregoriano) data della strage di Addis Abeba del 19 febbraio 1937 a opera dell’esercito italiano.

    https://www.reteparri.it/eventi/pagine-rimosse-lesperienza-coloniale-nelle-vie-milano-nei-racconti-dalleti

    –-> j’espère pouvoir récupérer la carte...

    #toponymie #carte #Milan #Italie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #passé_colonial #colonialisme #cartographie #visualisation #noms_de_rue

    • Una settimana per indagare la memoria del colonialismo italiano

      La rete #Yekatit_12-19_febbraio -composta da associazioni, comunità di afrodiscendenti, collettivi e istituzioni- organizza una serie di eventi in diverse città italiane per riaccendere l’attenzione collettiva sul rimosso passato coloniale dell’Italia, fatto di violenze e crimini. Per riflettere sul passato ma soprattutto sul presente

      Per la quasi totalità degli italiani quella del 19 febbraio è una data senza particolari significati. Una data rimossa dalla memoria collettiva insieme a molti altri eventi dell’esperienza coloniale italiana ma che meriterebbe un uno spazio significativo sui libri di storia e non solo. Tra il 19 e il 21 febbraio 1937, infatti, le truppe italiane -con il supporto dei civili e delle squadre fasciste- massacrarono circa 20mila abitanti di Addis Abeba, una feroce repressione a seguito del fallito attentato contro il maresciallo Rodolfo Graziani -allora viceré d’Etiopia- a opera di due giovani resistenti eritrei. Le violenze degli italiani durarono per mesi e si estesero ad altre parti del Paese, fino all’eccidio di chierici e fedeli nella cittadina monastica di Debre Libanos a maggio dello stesso anno.

      Per riaccendere l’attenzione collettiva su questa vicenda, sulle violenze e i crimini del colonialismo italiano e sulle memorie rimosse della storia italiana, la rete Yekatit 12-19 febbraio -formata da associazioni, comunità di afrodiscendenti, collettivi e istituzioni- che prende il nome proprio dalla data del massacro indicata secondo il calendario etiope, sia secondo il calendario gregoriano, ha organizzato l’iniziativa “Memorie e (R)esistenze” con un ricco calendario di appuntamenti diffusi in numerose città (da Milano a Roma, da Bologna a Firenze passando per Modena, Padova, Napoli e Bari) che si concentra soprattutto nella settimana compresa tra il 12 e il 19 febbraio ma che in alcuni territori si prolungherà addirittura fino a maggio.

      “La rete vuole contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia, con l’obiettivo di proporre strumenti sempre più accurati per leggere la realtà in cui viviamo, i suoi legami con la storia recente dell’Italia e con la sua costruzione statuale, nazionale e identitaria”, spiegano i promotori di Yekatit 12-19 febbraio. Conferenze, dibattiti, presentazioni di libri e documentari “saranno occasione per condividere riflessioni sul passato e sul presente di un Paese che vogliamo aperto al mondo, transculturale e capace di riconoscere e combattere il razzismo, la violenza e le ingiustizie”.

      “Il nostro obiettivo è quello di arrivare al riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano”, spiega ad Altreconomia Silvano Falocco, uno dei coordinatori della rete e autore del saggio “Roma coloniale” (Le comari edizioni, 2022). Un primo passo in questo senso è stato fatto lo scorso ottobre quando è stata presentata alla Camera una proposta di legge per l’istituzione di un Giorno della memoria per commemorare gli eccidi, le campagne militari e la politica di occupazione a cui sono state sottoposte le popolazioni dei Paesi africani dominati dall’Italia: “La promozione di iniziative locali di sensibilizzazione e informazione dal basso su questo tema ha come obiettivo quello di farne comprendere all’opinione pubblica la necessità di questa giornata”.

      Tra gli eventi più significativi di “Memorie e (R)esistenze” c’è l’incontro “Memorie decoloniali” in programma martedì 20 febbraio alla Casa della memoria e della storia di Roma: un convegno che sarà anche occasione per iniziare costruire una raccolta “dal basso” delle fotografie e dei diari che raccontano la storia coloniale italiana. “Ogni volta che partecipo a un’iniziativa pubblica sul tema vengo avvicinato da persone del pubblico che mi raccontano di avere a casa foto d’epoca o altra documentazione, spesso appartenuta ai nonni -continua Falocco-. Ci rivolgeremo ai figli e ai nipoti dei colonizzatori invitandoli a condividere con noi questo materiale che spesso percepiscono come problematico. E ci piacerebbe molto anche riuscire a intercettare la documentazione che è stata portata in Italia dai discendenti dei colonizzati per conservare la memoria del proprio Paese d’origine”.

      La rete coinvolge diverse associazioni e realtà attive sui diversi territori, tra cui Resistenze in Cirenaica e il collettivo Arbegnouc Urbani che hanno organizzato due rappresentazioni dello spettacolo teatrale “Italiani brava gente”, ispirato all’opera dello storico Angelo Del Boca, a Bologna il 16 febbraio e a Reggio Emilia il 17 febbraio. A Modena, invece, gli eventi principali saranno il convegno “Altre resistenze. Etiopia e Liba”, la presentazione della graphic novel “Yekatit 12” che racconta la lotta degli etiopi contro l’occupazione fascista e lo spettacolo teatrale “Italiani bravissima gente. Quando eravamo colonialisti” di e con Carlo Lucarelli.

      La rassegna vuole essere anche un’occasione per riflettere sui luoghi delle nostre città che portano con sé un retaggio coloniale. A partire dalla toponomastica, dai nomi di strade e piazze in titolate a sanguinose battaglie o a militari che si sono resi responsabili di massacri ai danni della popolazione civile e che non vengono “interrogati”. “Il racconto di chi ha subito le mire espansionistiche dell’Italia liberale prima e dell’imperialismo fascista poi, non sembra trovare sufficiente spazio -continua la rete-. Così come non trova spazio il racconto di chi ha organizzato la resistenza all’occupazione italiana, di chi gli è sopravvissuto come figlio, figlia, compagna o concubina e di chi ha rielaborato quella storia pensando di poter trovare cittadinanza nel Belpaese a partire già dagli anni Venti”.

      Da qui la volontà di Rete Yekatit 12-19 febbraio di contribuire ad un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia, con l’obiettivo di proporre strumenti sempre più accurati per leggere la realtà in cui viviamo, i suoi legami con la storia recente dell’Italia e con la sua costruzione statuale, nazionale e identitaria. “Il colonialismo non è semplicemente un periodo storico, ma è anche una pratica economica che prevede occupazioni e stermini -conclude Falocco-. Tempo fa avevamo rivolto un questionario a un campione di cittadini e meno del 5% delle persone che hanno risposto conoscevano il passato coloniale dell’Italia. A dimostrazione che questa storia non fa ancora parte della nostra memoria collettiva”.

      https://altreconomia.it/una-settimana-per-indagare-la-memoria-del-colonialismo-italiano
      #19_février

  • « Beaucoup en France semblent ne pas mesurer ce qu’a été la colonisation au Niger » | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/international/060823/beaucoup-en-france-semblent-ne-pas-mesurer-ce-qu-ete-la-colonisation-au-ni


    https://justpaste.it/b6713

    « Beaucoup en France semblent ne pas mesurer ce qu’a été la colonisation au Niger »
    Pour l’historienne Camille Lefebvre, qui a étudié la période de l’occupation coloniale au Niger à la fin du XIXe siècle, ce moment est primordial pour comprendre le ressentiment des Nigériens à l’égard de la France, même si ce dernier est instrumentalisé par les militaires qui ont renversé le président Mohamed Bazoum.

    #Niger #France

  • L’#homme_mesuré

    « L’homme mesuré » sortira dans les prochaines semaines en Allemagne. Premier film à raconter l’histoire du massacre des #Hereros et de #Namas en #Namibie par l’armée coloniale allemande au début du XXe siècle.

    C’est un film très attendu outre-rhin. Ça s’appelle « L’homme mesuré », réalisé par #Lars_Kraume, et présenté il y a un mois au festival de Berlin.

    C’est la première fois que cette page de l’#histoire peu connue de l’#Allemagne sera portée à l’écran : le massacre de 60 000 hereros et de 10 000 namas, deux #peuples_indigènes de Namibie, internés en camp de concentration et tués par l’armée coloniale allemande entre 1884 et 1915.

    Un génocide que l’Allemagne n’a reconnu qu’en 2021. Une page très sombre éclipsée pendant des décennies par les crimes nazis.

    Le réalisateur de « L’homme mesuré », Lars Kraume, espère que « ce film permettra une #prise_de_conscience de cette #histoire_refoulée. » L’Allemagne ajoute t-il a nié son #passé_colonial pendant 120 ans, la plupart des gens ignorent cette partie de l’histoire, ce n’est même pas enseigné dans les écoles."

    Un génocide désormais reconnu par l’Etat allemand

    Ce génocide est donc désormais reconnu par l’Etat allemand, qui a passé un accord financier il y a deux ans avec la Namibie pour aider les descendants des familles Hereros et Namas. Un milliard d’euros de soutien financier.

    Pas question de parler de réparation ni même de prononcer d’excuses. Un accord remis en question à l’heure actuelle par la Namibie, qui l’estime insuffisant.

    Ces dernières semaines, le réalisateur s’est rendu en Namibie pour projeter son film grâce à un cinéma mobile alimenté par de l’énergie solaire. Il doit sortir au cinéma dans quelques semaines en Europe.

    https://www.radiofrance.fr/franceinter/podcasts/sous-les-radars/le-bruit-du-monde-sous-les-radars-du-mercredi-22-mars-2023-7410141
    #film #peuples_autochtones #massacre #génocide #histoire #camps_de_concentration

    ping @reka

  • Nos Statues Coloniales - Teaser officiel

    Depuis 2020, en #France, les #statues_coloniales sont aux cœur des débats. Certains veulent les déboulonner d’autres se mobilisent pour les protéger. Mais est-ce qu’on connaît réellement l’histoire de ces statues ? Qui étaient les grands généraux statufiés ? Bugeaud, Gallieni, Marchand, Lyautey, Mangin... Qui a décidé de leur ériger des statues ? Vous avez votre petite idée ?

    Dans ce documentaire nous retraçons l’histoire de 5 statues coloniales parisienne. Nous sommes accompagnés par Catherine Coquery-Vidrovitch, Françoise Vergès, Jacqueline Lalouette et Pascal Blanchard.

    https://www.youtube.com/watch?v=YUPa7WMteTY


    #statues #toponymie_politique (même si c’est pas vraiment de la toponymie, mais bon... ça m’est utile pour mes archives) #déboulonnage #histoire #film #documentaire #film_documentaire #colonialisme #toponymie_coloniale
    #passé_colonial #histoire_coloniale
    ping @cede @reka @isskein

  • Comment la #France verrouille son #passé_colonial

    La polémique en France sur la notion de #crime_contre_l'humanité du temps de la #colonisation rappelle les vifs débats causés dans ce même pays il y a plus de dix ans par l’adoption de la loi du 23 février 2005 qui ne retenait que le « rôle positif de la présence française outre-mer ». L’« #affaire_Macron » met en exergue le profond malaise lié au passé colonial de la France, souligne la professeure de droit Sévane Garibian.

    Quoi que l’on pense des propos récents d’#Emmanuel_Macron sur la #colonisation_française, il est utile d’observer leurs effets en recourant à une temporalité plus longue, dépassant le court terme médiatico-politique. La #polémique née il y a quelques jours en France rappelle, en symétrie inversée, les vifs débats causés dans ce même pays il y a plus de dix ans par l’adoption de la loi du 23 février 2005 qui ne retenait que le « #rôle_positif de la présence française outre-mer ». La disposition litigieuse (finalement abrogée par décret en 2006), tout comme les rebondissements et double discours dans ladite « affaire Macron », auront eu pour mérite de mettre en acte le profond #malaise lié au passé colonial de la France.

    Ce trouble s’est régulièrement nourri de résistances dont nous trouvons de multiples traces dans le champ du #droit, grand absent des commentaires de ces derniers jours. Abordons donc cette polémique de biais : par ce qu’elle ne dit pas, par ce qu’elle occulte. Rappelons ainsi que la Cour de cassation française eut l’occasion de produire une jurisprudence relative aux #crimes commis en #Algérie (#affaires_Lakhdar-Toumi_et_Yacoub, 1988) ainsi qu’en #Indochine (#affaire_Boudarel, 1993). Une #jurisprudence méconnue, ou tombée dans l’oubli, qui soulevait pourtant directement la question de la qualification ou non de crime contre l’humanité pour ces actes.

    Les précédents

    Plusieurs historiens ont pu souligner dernièrement la distinction entre les usages juridiques, historiques et moraux du concept de crime contre l’humanité, tout en rappelant que ce dernier ne peut se trouver, aujourd’hui en France, au cœur de #poursuites_pénales visant les #crimes_coloniaux. Quelle est donc l’histoire du droit menant à un tel constat ? Afin de mieux comprendre ce dont il s’agit, il est possible d’ajouter deux distinctions à la première.

    D’abord, une distinction entre le problème de la #qualification de crime contre l’humanité (qui renvoie à la question complexe de la #définition de ce crime en #droit_français), et celui de l’#amnistie prévue, pour les crimes visés, par des lois de 1966 et 1968. Ces deux points fondent les justifications discutables du refus de poursuivre par la #Cour_de_cassation dans les affaires précitées ; mais seul le premier constituait déjà le réel enjeu. En l’état du droit, et contrairement à ce qu’affirmaient alors les juges de cassation, la qualification de crime contre l’humanité aurait en effet pu permettre, au-delà du symbole, de constater une #imprescriptibilité (inexistante en France pour les crimes de guerre) défiant l’amnistie.

    Plus tard, la Cour de cassation admettra d’ailleurs en creux le caractère « inamnistiable » des crimes contre l’humanité, non reconnus en l’espèce, dans l’affaire de la manifestation du 17 octobre 1961, en 2000, puis dans l’#affaire_Aussaresses en 2003 – toutes deux en relation avec les « évènements d’Algérie ». Entre les deux, elle confirmera dans l’#affaire_Ely_Ould_Dah (2002) la poursuite, en France, d’un officier de l’armée mauritanienne pour des faits de #torture et des actes de #barbarie amnistiés dans son propre pays : il semble manifestement plus aisé d’adopter une attitude claire et exigeante à l’encontre de lois d’amnistie étrangères.

    Volonté de verrouillage

    En outre, et c’est là que se niche la seconde distinction, une analyse plus poussée du raisonnement de la Cour dans les affaires Lakhdar-Toumi, Yacoub et Boudarel met en lumière une volonté des juges de verrouiller toute possibilité de traitement des crimes coloniaux. Il importe donc de distinguer ici les questions de droit et les politiques juridiques qui sont à l’œuvre. L’historienne Sylvie Thénault écrivait récemment que « toute #définition_juridique est le résultat d’une construction par des juristes et d’une évolution de la jurisprudence » (Le Monde du 16 février). Or il n’existait à l’époque des affaires précitées que des définitions jurisprudentielles, plus (#affaire_Barbie) ou moins (#affaire_Touvier) larges du crime contre l’humanité en France, lequel ne fera son apparition dans le Code pénal qu’en 1994.

    A y regarder de plus près, on comprend que les juges de cassation rejettent la qualification de crime contre l’humanité pour les crimes coloniaux à plusieurs reprises, en choisissant de s’appuyer exclusivement sur la #jurisprudence_Touvier. Celle-ci limite, à l’inverse de la #jurisprudence_Barbie, la définition du crime contre l’humanité aux crimes nazis commis « pour le compte d’un pays européen de l’Axe ». Si la jurisprudence Touvier permit en son temps d’esquiver habilement le problème de la #responsabilité de la France de Vichy, elle bloquera aussi, par ricochet, toute possibilité de répression des crimes perpétrés par des Français pour le compte de la France, jusqu’en 1994.

    Le verrouillage est efficace. Et le #refoulement créé par cette configuration juridique, souvent ignorée, est à la mesure du trouble que suscitent encore aujourd’hui les faits historiques survenus dans le contexte de la #décolonisation. Plus généralement, l’ensemble illustre les multiples formes d’usages politiques de l’histoire, comme du droit.

    https://www.letemps.ch/opinions/france-verrouille-passe-colonial

    ping @cede @karine4

  • Une étude fine et détaillée des controverses autour de la statuaire associée à l’esclavagisme, au travers de l’exemple de la ville suisse de Neuchâtel. Analyses et vocabulaires un peu complexes pour des A1 mais l’essentiel demeure accessible.

    La statue, l’esclavagiste et le contre-monument contestés
    https://aoc.media/analyse/2023/02/07/la-statue-lesclavagiste-et-le-contre-monument-contestes

    La statue, l’esclavagiste et le contre-monument contestés

    Par Bertrand Tillier, Historien

    Fin décembre 2022, à Neuchâtel, une récente installation d’art contemporain, conçue comme réponse à la statue de l’esclavagiste David de Pury contestée en 2020 par des militants se revendiquant de « Black Lives Matter », a été à son tour maculée de peinture. Ce dispositif didactique et conceptuel déployé dans l’espace public, qui compte parmi les premiers adoptés en Europe pour réparer symboliquement les mémoires citoyennes blessées, est un contre-monument ironique, temporaire et anti-monumental (...).

    Lire la suite sur le site d’ AOC après vous être inscrits et identifiés.

    #esclavage #mémoire #réparations #statuaire

  • https://www.justiceinfo.net/fr/111342-passe-colonial-belge-pourquoi-commission-ravaler-excuses.html

    Passé colonial belge : pourquoi la commission a dû ravaler ses excuses

    19 janvier 2023 Par Gaëlle Ponselet, justiceinfo.net

    Deux ans et demi à interroger les mémoires, mais pas moyen de trouver un consensus politique pour des excuses aux victimes. Alors qu’elle faisait figure de pionnière en Europe, la commission sur le passé colonial belge s’est effondrée sur la ligne d’arrivée, fin décembre, dépossédée de toutes ses recommandations savamment formulées.

    L’affaire a fait couler beaucoup d’encre en Belgique. Fin décembre, le président de la commission parlementaire chargée de faire la lumière sur le passé colonial belge, l’écologiste flamand Wouter De Vriendt, annonce que les excuses officielles aux victimes du colonialisme ne sont pas approuvées. Il s’agissait pourtant de la recommandation la plus forte ressortant des travaux de cette commission parlementaire pionnière en Europe, installée en juin 2020, dont l’ambition était de faire face au passé colonial belge, de réparer et d’indemniser.

    Durant plus de deux ans, les parlementaires ont auditionné près de 300 personnes (principalement des experts en histoire, en droit et en socio-politique mais aussi des représentants des diasporas) et se sont rendus en République démocratique du Congo, au Rwanda et au Burundi. Ils ont tenté d’éclaircir les dernières zones d’ombre de la période coloniale, afin de parvenir, in fine, à formuler des recommandations destinées à réparer et à réconcilier.

    Difficile d’imaginer le début d’une réparation sans que soient formulées des excuses officielles. C’est pourtant là que la commission a buté, ne parvenant pas à réunir une majorité de votes, plusieurs commissaires ayant quitté la session. L’échec résonne au moins autant que l’annonce des grandes ambitions qui étaient visées par cette enquête éprouvante, dont les travaux ont permis d’arriver à la conclusion que, sans conteste, de nombreux crimes et d’importantes spoliations ont été commis durant la colonisation. La Belgique est apparue d’autant plus médiocre qu’au même moment le gouvernement des Pays-Bas reconnaissait sa responsabilité pour son passé esclavagiste, présentant des excuses et annonçant la création d’un fonds de réparation.

    (suite à consulter en ligne)

    #Belgique #colonisation #réparations #Congo

  • #Alana_Osbourne - “Decolonial Tours” - 30th June 2022 - Beyond Inhabitation Lab Spring Seminar Series

    I focus on tour guides who offer decolonial narratives and experiences of Brussels to an eclectic and changing audience. Drawing on the embodied temporalities of walking tours and by reviving urban memories, these guides give texture and shape to the city’s sensorium in a way that reaffirms black life against the resonances of colonialism in Belgium. Suturing past, present and future, this quilting of urban times fosters new relationships between people, landscapes and histories, and opens spaces of togetherness within a riven city.

    Dr. Alana Osbourne is a FNRS post-doctoral fellow at the Anthropological Laboratory for Contemporary Worlds (LAMC) at the Brussels Free University (ULB | Université Libre de Bruxelles). An anthropologist and filmmaker, her research interests include: sensorial anthropology and affect, the anthropology of violence, archival studies, Caribbean studies and film. She alternates her academic work with film and theatre projects.

    https://www.youtube.com/watch?v=03AOAlPxQV8


    #balade_décoloniale #Bruxelles #Belgique #décolonial #villes #urban_matter #temps #passé #présent #conférence #toponymie #toponymie_politique

    via @cede

    • #There_Are_Black_People_In_The_Future

      There are Black People in the Future is inspired by afro-futurist artists and writers who highlight the need for Black people to claim their place. Through the inscription and utterance of the words, ‘There are Black People in the Future,’ the project addresses systemic oppression of black communities through space and time by reassuring the presence of Black bodies. In 2017, Wormsley placed these words on a billboard in East Liberty, a neighborhood in Pittsburgh’s east end that has suffered gentrification. When the billboard was removed by the city, community members protested, in response to this community support, Wormsley has raised grant money to artists, activists, and community workers in Pittsburgh around their interpretation of the phrase “There Are Black People in the Future”. Since then, the billboard has been replicated in Detroit, Charlotte, New York City, Kansas City and Houston, internationally London, Accra and Qatar. Each site can pull from this precedence of supporting Black futures locally, whether through commissions, grants, project funding or programming. The text, which Wormsley encourages others to use freely, has since been used in protest, critical art theory, essays, song, testimony and collective dreaming.


      https://www.alishabwormsley.com/tabpitf

      #art #TABPITF #Alisha_Wormsley

    • La conférence de Alana Osbourne commence par introduire (et se construit à partir de) du rapport de la #commission_parlementaire (belge) chargée d’examiner le #passé_colonial :
      Le #rapport sur le passé colonial de la Belgique achoppe sur la question des #excuses

      Après deux ans et demi de travaux, des déplacements en République démocratique du Congo, au Rwanda, au Burundi, l’audition de près de 300 personnes, la commission parlementaire chargée d’examiner le passé colonial du pays devait remettre son rapport final. Mais les libéraux ont refusé d’adopter le texte lundi.

      L’écologiste Wouter de Vriendt, qui préside la commission parlementaire chargée d’examiner le passé colonial de la Belgique, avait demandé que la chambre des représentants présente des excuses aux peuples congolais, burundais et rwandais pour « la #domination et l’#exploitation_coloniale, les #violences et les #atrocités, les violations individuelles et collectives des droits humains durant cette période, ainsi que le #racisme et la #discrimination qui les ont accompagnées ».

      #Wouter_de_Vriendt invitait également « le pouvoir exécutif à faire des démarches analogues sur le plan des #réparations_symboliques ». Le président de la commission précisait bien que cette #reconnaissance du rôle de la Belgique, n’impliquerait aucune #responsabilité_juridique et ne pourrait donc donner lieu à une #réparation_financière.

      Des précautions qui n’ont pas suffi à convaincre les députés libéraux. Ces derniers ont claqué la porte de la commission lundi 19 décembre. Ils refusent que soient présentées des excuses, car celles-ci pourraient entraîner selon eux des réparations financières, ce dont ils ne veulent pas entendre parler. Ces députés préfèrent ainsi en rester aux regrets présentés par le roi.

      Faute d’accord sur cette question des excuses, la commission ne remettra donc pas son rapport final. C’est là un échec, d’autant plus douloureux que nombre de recommandations formulées par le président de cette commission semblaient faire consensus.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20221220-les-excuses-au-c%C5%93ur-des-dissensions-parlementaires-sur-le-pass%C3%

  • « Les statues, le nom des rues, ne sont pas innocents » : un guide pour décoloniser l’espace public - Basta !
    https://basta.media/les-statues-le-nom-des-rues-ne-sont-pas-innocents-un-guide-pour-decoloniser

    C’est une #rue discrète, perchée sur une colline résidentielle cossue du sud de #Marseille. Elle s’appelle impasse des Colonies. Au milieu de cette succession de maisons verdoyantes avec vue sur mer, une villa aux tuiles ocre porte un nom évocateur, L’oubli.

    L’oubli, c’est justement ce contre quoi s’élèvent les onze auteurs et autrices du #Guide_du_Marseille_colonial, paru le 1er septembre dernier aux éditions Syllepse [1]. Pendant deux ans, ces militants associatifs ont passé la #ville au peigne fin, arpenté les rues et fouillé les archives. Ils ont cherché les traces du #passé_colonial de ce port qui fut, entre le XIXe et le XXe siècle, la capitale maritime de l’#empire_français.

    https://www.syllepse.net/guide-du-marseille-colonial-_r_25_i_909.html

  • Mediterraneo nero. Archivio, memorie, corpi

    L’importanza di una riflessione sul Mediterraneo nero è legata alle profonde trasformazioni, in termini culturali, sociali ed economici, che avvengono non solo in Europa, ma nel mondo intero. Oggi è necessario leggere il Mediterraneo in una prospettiva globale e transnazionale, ma anche quale archivio di memorie, pratiche e immagini che stanno ridiscutendo le geografie culturali. Centro di questo sistema epistemologico è il corpo, il rapporto di prossimità e distanza non solo con l’Europa, ma anche con una parte specifica del suo passato: il colonialismo e lo schiavismo. Connettendo passato e presente, l’autore si sofferma sulle memorie orali delle migrazioni raccolte in Italia: voci di etiopi, eritrei, somali e di persone che potremmo definire ‘seconde generazioni’ a proposito delle traversate mediterranee. L’obiettivo è quello di contribuire a una nuova riflessione sul rapporto tra il Mediterraneo nero e la riscrittura/reinvenzione dell’Europa e dell’identità europea.

    http://www.manifestolibri.it/shopnew/product.php?id_product=801

    #Méditerranée_noire #Méditerranée #livre #mémoire #corps #proximité #distance #passé #colonialisme #esclavage #passé_colonial #mémoire_orale #deuxième_génération #identité #identité_européenne #Gabriele_Proglio

    Et plein d’autres ressources intéressantes de ce chercheur (historien) sur son CV :
    https://www.unisg.it/docenti/gabriele-proglio
    –---

    ajouté à la métaliste sur l’#Italie_coloniale / #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    ping @olivier_aubert @cede

    • The Horn of Africa Diasporas in Italy

      This book delves into the history of the Horn of Africa diaspora in Italy and Europe through the stories of those who fled to Italy from East African states. It draws on oral history research carried out by the BABE project (Bodies Across Borders: Oral and Visual Memories in Europe and Beyond) in a host of cities across Italy that explored topics including migration journeys, the memory of colonialism in the Horn of Africa, cultural identity in Italy and Europe, and Mediterranean crossings. This book shows how the cultural memory of interviewees is deeply linked to an intersubjective context that is changing Italian and European identities. The collected narratives reveal the existence of another Italy – and another Europe – through stories that cross national and European borders and unfold in transnational and global networks. They tell of the multiple identities of the diaspora and reconsider the geography of the continent, in terms of experiences, emotions, and close relationships, and help reinterpret the history and legacy of Italian colonialism.

      https://link.springer.com/book/10.1007/978-3-030-58326-2#toc

    • Libia 1911-1912. Immaginari coloniali e italianità

      L’Italia va alla guerra per conquistare il suo ’posto al sole’ senza realmente sapere cosa troverà sull’altra sponda del Mediterraneo. Il volume analizza la propaganda coloniale e, in particolare, la stretta relazione tra la costruzione narrativa della colonia libica e le trasformazioni dell’italianità. All’iniziale studio degli immaginari sulla Libia precedenti il 1911, segue una disamina di quelle voci che si mobilitarono a favore della guerra, partendo dai nazionalisti di Enrico Corradini con i riferimenti all’Impero romano, al Risorgimento, al mito della ’terra promessa’. L’archivio coloniale è indagato anche attraverso lo studio delle omelie funebri per i soldati caduti durante la guerra, con immagini che vanno dal buon soldato al figlio della patria. Un altro campo d’analisi è quello dell’infanzia: i discorsi dei docenti sul conflitto, del «Corriere dei Piccoli» e della letteratura per ragazzi lavorano per «costruire» i corpi dei piccoli italiani. Non manca, infine, lo studio della letteratura interventista: Gabriele D’Annunzio, Giovanni Pascoli, Filippo Tommaso Marinetti, Matilde Serao, Ezio Maria Gray, Umberto Saba, Ada Negri, Giovanni Bevione.

      https://www.mondadoristore.it/Libia-1911-1912-Immaginari-Gabriele-Proglio/eai978880074729
      #imaginaire_colonial #italianité #Libye

  • #David_Van_Reybrouck : « Il existe une forme de #colonisation de l’avenir »

    Dix ans après l’épais « Congo, une histoire », l’historien flamand déploie une histoire de la #décolonisation de l’#Indonésie. Entretien sur la #mémoire_coloniale, la #révolution et l’#héritage du #non-alignement forgé lors de la #conférence_de_Bandung en 1955.

    « Ce qui rend la Revolusi indonésienne passionnante, c’est l’énorme impact qu’elle a eu sur le reste de l’humanité : non seulement sur la décolonisation d’autres pays, mais plus encore sur la coopération entre tous ces nouveaux États. »

    David Van Reybrouck, écrivain et essayiste, auteur notamment de Congo, une histoire (prix Médicis Essai 2012), de Contre les élections ou de Zinc est un touche-à-tout obsédé par la volonté d’élargir sans cesse le spectre et le registre des expériences, qu’il s’agisse de promouvoir des innovations démocratiques ou des manières d’écrire l’histoire.

    Pour rédiger Revolusi. L’Indonésie et la naissance du monde moderne, que viennent de publier les éditions Actes Sud dans une traduction d’Isabelle Rosselin et Philippe Noble, David Van Reybrouck a mené près de deux cents entretiens dans près d’une dizaine de langues, et fait un usage inédit de Tinder, s’en servant non comme d’une application de rencontres mais comme un moyen de contacter les grands-parents de celles et ceux qui voulaient bien « matcher » avec lui dans tel ou tel espace du gigantesque archipel indonésien.

    Le résultat de cinq années de travail fait plus de 600 pages et remonte une histoire mal connue, d’autant que les Pays-Bas ont longtemps mis un écran entre leur monde et la violence du passé colonial de leur pays, mis en œuvre non pas par la Couronne ou le gouvernement lui-même mais par la VOC, la Compagnie Unie des Indes orientales, parce que « l’aventure coloniale néerlandaise n’a pas commencé par la soif de terres nouvelles, mais par la recherche de saveurs ».

    Cela l’a mené à la rencontre d’un géant démographique méconnu, et à une mosaïque politique et linguistique inédite, puisqu’un terrien sur 27 est indonésien, et que 300 groupes ethniques différents y parlent 700 langues. Entretien sur la mémoire coloniale, la révolution et l’héritage du non-alignement forgé lors de la conférence de Bandung en 1955.

    Mediapart : Zinc racontait le destin des plus petites entités territoriales et démographiques du monde. À l’inverse, votre dernier ouvrage déroule une copieuse histoire de l’Indonésie, fondée sur de très nombreux entretiens oraux. Pourquoi l’Indonésie demeure-t-elle pour nous un « géant silencieux », pour reprendre vos termes ?

    David Van Reybrouck : L’Indonésie est devenue un pays invisible, alors qu’il y a encore une soixantaine d’années, elle dominait la scène internationale, surtout après la conférence de Bandung de 1955 [qui réunissait pour la première fois les représentants de 29 pays africains et asiatiques - ndlr], qu’on peut qualifier de « 14-Juillet » à l’échelle mondiale.

    Sukarno, son président, était alors reçu à Washington, au Vatican, en Chine. Comment un pays aussi central dans les années 1940-1950 a-t-il pu devenir aussi invisible, alors qu’il demeure la quatrième puissance au monde, par sa démographie, et qu’il est devenu un acteur économique essentiel en Asie du Sud-Est ?

    J’ai l’impression que plus son économie devient importante, plus sa diplomatie devient discrète. C’est une grande démocratie qui, pour sa taille, se porte bien si on la compare à l’Inde ou même aux États-Unis, même s’il y a des tensions, notamment entre l’État laïc et l’État musulman, comme en Turquie.

    L’importance de l’Indonésie au sortir de la guerre était aussi liée à la figure de Sukarno, atypique dans le paysage politique indonésien : flamboyant, charismatique, charmeur, vaniteux, insupportable, brillant. Il me fait penser à Mohamed Ali en raison de la vitesse à laquelle il débitait ses mots. Il pouvait enthousiasmer l’audience.

    Le président actuel, Joko Widodo, surnommé Jokowi, est compétent, mais il a la particularité d’être un petit commerçant n’appartenant ni à l’élite traditionnelle ni à celle qui s’est forgée pendant et après l’indépendance.

    Pourquoi avoir choisi de raconter l’émancipation de l’Indonésie, dix ans après votre somme sur le « Congo » ?

    Pour des raisons à la fois subjectives et objectives. C’est un pays immense dont on ne parle jamais, le premier pays à avoir proclamé son indépendance, deux jours après la fin de la Seconde Guerre mondiale, mais cela demeure peu connu, même les Indonésiens ne s’en vantent pas.

    J’étais encore au Congo en train de faire mes recherches dans une petite ville proche de l’océan lorsque j’ai rencontré un bibliothécaire de l’époque coloniale qui n’avait plus que 300 livres en flamand. Parmi eux se trouvait Max Haavelar, le grand roman anticolonial hollandais du XIXe siècle – l’équivalent de Moby Dick ou de La Case de l’Oncle Tom –, écrit par Eduard Douwes Dekker, dit Multatuli, un pseudonyme emprunté au latin qui signifie « J’ai beaucoup supporté ». Le roman est écrit à partir de son expérience de fonctionnaire envoyé aux Indes néerlandaises, où il découvre l’exploitation coloniale dans la culture du café.

    À partir de ce point de départ, j’avais gardé en tête l’idée de m’intéresser à l’Indonésie, d’autant que le roi belge Léopold II s’est beaucoup inspiré de la colonisation hollandaise, notamment du principe d’utiliser l’aristocratie indigène pour mener une politique de domination indirecte. Max Havelaar dépeint d’ailleurs très bien la corruption de l’élite indigène qui exploite son propre peuple.

    Pourquoi insister sur l’idée de révolution plutôt que celle de « guerre d’indépendance » pour désigner ce qui s’est déroulé en Indonésie en 1945 ?

    Ce fut à la fois une révolution et une guerre d’indépendance. La proclamation d’indépendance, le 17 août 1945, n’a pas été jugée crédible par les Occidentaux, et les Britanniques ont cru pouvoir reprendre le contrôle du territoire et le redonner aux Hollandais. Mais cela a provoqué une colère immense de la jeunesse indonésienne, dont j’ai retrouvé des témoins qui racontent une expérience particulièrement humiliante et répressive de la colonisation britannique dans les années 1930.

    Lorsque les Japonais arrivent en Indonésie en 1942, ils commencent par donner à cette jeunesse une leçon de fierté. Ils politisent les jeunes générations à travers des slogans, des entraînements de gymnastique, des films, des affiches… À partir de 1943, cette politisation se militarise, et les jeunes apprennent à manier les armes, à faire d’une tige de bambou verte une arme blanche.

    Mais les nonagénaires que j’ai interviewés, qui avaient pu au départ accueillir les Japonais avec reconnaissance, virent ensuite leurs pères emmenés de force comme travailleurs, des millions de personnes mourir de la famine en 1944, leurs sœurs et leurs mères enlevées pour les troupes japonaises pour devenir « des femmes de réconfort ».

    La sympathie initiale pour les Japonais s’est retournée contre eux, et la guerre d’indépendance contre les colons a ainsi pris l’air d’une révolution comparable à la Révolution française, mais menée par des personnes beaucoup plus jeunes. La volonté de renverser le régime était présente d’emblée. Alors que Sukarno était encore en train de négocier avec les Japonais, ce sont les plus jeunes qui l’ont poussé à proclamer l’indépendance sans attendre, avec une certaine improvisation et un drapeau indonésien cousu par sa femme la veille…

    Très vite, on a établi les ébauches de ce nouvel État. Début septembre, les Britanniques arrivent. Les Hollandais sont toujours dans les camps d’internement du Japon, ou alors partis en Australie ou au Sri Lanka. Les Britanniques assurent préparer le retour, désarmer les Japonais. Un premier bateau arrive, puis un deuxième, avec quelques officiers hollandais à bord et des parachutistes pour aller dans les camps d’internement des Japonais.

    Comme souvent dans les révolutions, celle-ci a eu sa part de violence, avec des atrocités commises envers les Indo-Européens, les Chinois et les Hollandais détenus dans les camps par les Japonais, et un bilan total qu’on a longtemps estimé à 20 000 morts, mais que certains estiment aujourd’hui plutôt autour de 6 000.

    Vous avez rencontré des survivants des massacres commis par les Hollandais. Beaucoup vous ont dit : « Vous êtes le premier Blanc à venir nous interroger. » Est-ce que cela vous a questionné ?

    J’ai interviewé presque 200 personnes, la plupart avaient au-delà de 90 ans. J’ai passé un an sur le terrain, même si ça n’était pas d’un bloc. Pour mon livre Congo, j’avais onze cahiers d’entretiens. Là, j’en avais 28. Je me suis retrouvé avec une documentation extrêmement riche. Il fallait organiser tout cela avec des résumés des entretiens, des schémas pour les axes chronologiques, les protagonistes, les figurants…

    Personne n’a refusé de témoigner et j’étais assez étonné de ce qui s’est dévoilé. La plupart des témoins parlent plus facilement des moments où ils étaient victimes que bourreaux, mais j’ai retrouvé des Hollandais et des Indonésiens qui n’hésitaient pas à décrire en détail les tortures qu’ils avaient eux-mêmes commises.

    J’avais la crainte qu’on juge que ce n’était pas à un Blanc de raconter cette histoire, mais j’avais la facilité de pouvoir dire que j’étais belge. Beaucoup de mes témoins ne connaissaient pas la Belgique. La différence aussi est que le souvenir du passé colonial est peut-être moins vif en Indonésie qu’au Congo, qui demeure dans une situation économique pénible. Même si l’Indonésie est un pays pauvre, il se trouve dans une dynamique positive.

    Comment la mémoire du passé colonial est-elle organisée en Indonésie et aux Pays-Bas ?

    Je suis frappé par le talent de l’oubli de la mémoire coloniale indonésienne. Nous, nous sommes obsédés par le passé. C’est important de le travailler, d’avoir une introspection morale, mais il faut aussi le laisser cicatriser pour avancer. Le livre se termine avec l’idée que le rétroviseur n’est pas le seul champ de vision à explorer.

    Souvent les traumatismes sont trop grands, la souffrance est encore trop forte, mais il existe aussi un conditionnement culturel différent. Pour la jeune génération indonésienne, l’époque coloniale est révolue. On trouve des cafés à Djakarta décorés dans un style colonial. Il y a en quelque sorte une appropriation culturelle du passé colonial, qui se voit lors de la fête de l’Indépendance, où il existe un folklore inspiré de la Hollande mais où personne ne parle de ce pays.

    Un sondage de YouGov, commandé par les Britanniques, a récemment cherché à savoir quelle était la nation la plus fière de son passé colonial. Les Britanniques, qui ont encore des colonies, pensaient que ce serait eux. Et, à leur grande surprise et soulagement, ce sont les Hollandais qui remportent haut la main ce triste concours de mémoire coloniale ! Plus de 50 % des sondés hollandais sont fiers du passé colonial, et seulement 6 % expriment de la honte…

    Ces dernières années, il y a cependant eu une accélération aux Pays-Bas de la mise en mémoire du passé colonial avec des excuses du roi, du premier ministre, une exposition au Rijksmuseum d’Amsterdam…

    Mais cette histoire demeure largement ignorée. Ma compagne est hollandaise, mais s’étonnait chaque soir de ce que je lui racontais et qui ne lui avait pas été enseigné, comme l’existence d’un véritable « goulag » où étaient envoyés, dans les années 1920-1930, les indépendantistes et les communistes, ou le fait que la Hollande exigeait des milliards de florins pour reconnaître l’indépendance et payer le coût de la guerre qu’elle avait perdue…

    Le non-alignement, qu’on a vu ressurgir au moment de l’invasion de l’Ukraine par la Russie, a-t-il le même sens qu’en 1955 ? On voit comment il peut tendre à se confondre avec un refus de prendre la mesure de l’impérialisme russe. Vous semble-t-il malgré cela une position d’avenir ?

    Je trouve que nous assistons là à une perversion du mouvement du non-alignement. L’esprit de Bandung consiste à refuser l’impérialisme et constitue un mouvement moral fondé sur les idéaux de liberté, d’égalité et de fraternité. Si n’être pas aligné aujourd’hui, c’est ne pas s’exprimer sur la Russie, un Nehru, un Nasser ou un Mandela ont de quoi se retourner dans leur tombe. Le non-alignement est un idéalisme géopolitique, pas la somme de calculs économiques.

    Vous écrivez : « Même si nous parvenons un jour à apurer complètement le passif du colonialisme d’antan, nous n’aurons encore rien fait pour enrayer la colonisation dramatique à laquelle nous nous livrons aujourd’hui, celle de l’avenir. L’humanité confisque le siècle à venir avec la même rigueur impitoyable dont elle fit preuve aux temps anciens pour s’approprier des continents entiers. Le colonialisme est un fait non plus territorial, mais temporel. » Solder les comptes du colonialisme est-il une priorité si on veut faire face collectivement à un défi qui se situe à l’échelle planétaire ?

    Le passé est une plaie qu’on a très mal guérie, pas seulement dans le Sud. Elle continue à ternir ou à influencer les rapports entre Nord et Sud. Il faut s’occuper de cette plaie, d’autant plus qu’elle est toujours grande ouverte, comme le montre une carte des pays les plus vulnérables au changement climatique qui est superposable à celle des anciens pays colonisés. Ce qui se joue avec le changement climatique, ce n’est pas un ours polaire sur une banquise qui fond, c’est d’abord ce qui arrive aux peuples du Sud. Quand on parle de colonialisme, on pense en premier lieu au passé, mais il existe une forme de colonisation de l’avenir qui est menée par les mêmes pays qui ont été les acteurs du colonialisme du passé. Il est faux de dire que c’est l’humanité en général qui est responsable du changement climatique, les responsabilités ne sont pas égales.

    Pourquoi écrivez-vous alors que « le quatrième pays du monde n’aurait jamais vu le jour sans le soutien d’adolescents et de jeunes adultes – encore que j’ose espérer que les jeunes activistes de la “génération climat” recourent à des tactiques moins violentes ». Ne faut-il pas une « revolusi » pour le climat ?

    J’ai travaillé sur ce livre au moment où le mouvement de Greta Thunberg faisait parler de lui. Il y avait un regard condescendant sur ces adolescents, les considérant comme une forme politique non sérieuse. Regardez pourtant ce que la jeunesse a fait en Indonésie. Si le pays en est là, c’est grâce aux jeunes, même si j’espère que Greta Thunberg ne va pas se saisir de lances en bambou !

    Je participe à différentes conventions sur le climat qui se déroulent mieux qu’en France, où la transmission vers le politique a été mal faite. Je pense qu’il faut plutôt penser à une désobéissance civile, qui relève d’abord pour moi d’une désobéissance fiscale. Au milieu du XIXe siècle, David Thoreau refuse de payer l’impôt dans l’État du Massachusetts à cause de l’esclavagisme et de la guerre contre le Mexique. Il a été arrêté au bout de six ans.

    Regardons le budget de nos États, et calculons quel pourcentage des dépenses de l’État belge ou hollandais va vers le secteur fossile. Si c’est 18 %, on enlève 18 % de nos impôts et on le met au pot commun. Quand les lois ne sont pas justes, il est juste de leur désobéir.

    Dans la longue liste de vos remerciements, vous remerciez un tableau, « Composition en noir » de Nicolas de Staël, c’est étrange, non ?

    Je remercie deux peintures, celle que vous évoquez et une d’Affandi, un peintre indonésien. J’étais en train d’écrire, je cherchais encore le bon registre pour décrire les atrocités, sans esquiver les détails, mais sans perdre de vue l’ensemble. J’ai une passion pour la peinture et les arts plastiques, qui me vient de ma mère, elle-même peintre. Je me trouvais donc à Zurich, en pleine écriture de mon livre, et je vois cette toile qui m’a montré le chemin, fait de noirceur, d’humanisme, de précision et de lueur aussi. Celle d’Affandi aussi, parce qu’elle était faite de violence et de joie. Il aurait été considéré comme un peintre majeur s’il avait été américain ou français.

    La forme originale, très personnelle de cet ouvrage, comme celui sur le Congo, interpelle. Vous humanisez une histoire abstraite en ayant recours à la non-fiction littéraire. Pourquoi ? Pour la rendre plus accessible ?

    Le discours sur le Congo est trop souvent un monologue eurocentrique. Je voulais rédiger un dialogue en donnant la parole aux Congolais, mais aussi en écoutant des Belges. Dans ce livre sur l’Indonésie, je ne vais pas seulement du monologue vers le dialogue, mais je tends vers la polyphonie. Je suis parti aussi au Japon ou au Népal. Il était important de montrer la dimension internationale de cette histoire et de ne pas la réduire aux rapports verticaux et en silo entre les anciennes métropoles et les anciennes colonies, d’où le sous-titre de l’ouvrage : « et la naissance du monde moderne ».

    https://www.mediapart.fr/journal/international/011022/david-van-reybrouck-il-existe-une-forme-de-colonisation-de-l-avenir
    #Pays-Bas #violence #passé_colonial #livre #Sukarno #guerre_d'indépendance #politisation #fierté #Japon #torture #oubli #appropriation_culturelle #plaie #colonisation_de_l'avenir #désobéissance_civile #désobéissance_fiscale

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    • #Revolusi. L’Indonésie et la naissance du monde moderne

      Quelque dix ans après "Congo", David Van Reybrouck publie sa deuxième grande étude historique, consacrée cette fois à la saga de la décolonisation de l’Indonésie - premier pays colonisé à avoir proclamé son indépendance, le 17 août 1945. Il s’agit pour lui de comprendre l’histoire de l’émancipation des peuples non européens tout au long du siècle écoulé, et son incidence sur le monde contemporain.
      Fidèle à la méthode suivie dès son premier ouvrage, l’auteur se met lui-même en scène au cours de son enquête, alternant sans cesse, et avec bonheur, exposé de type scientifique et “reportage” à la première personne – ce qui rend la lecture de l’ouvrage à la fois aisée et passionnante.

      https://www.actes-sud.fr/catalogue/litterature/revolusi

  • Anti-colonialist #sculpture unveiled in London’s #Trafalgar_Square

    Samson Kambalu’s post-colonial sculpture “#Antelope” was unveiled on Wednesday as the new sculpture on the empty Fourth Plinth of London’s Trafalgar Square.

    The bronze resin sculpture features Baptist preacher and educator #John_Chilembwe, who led an uprising in 1915 against British colonial rule in #Nyasaland — now #Malawi.

    He was later killed by colonial police and is commemorated in Malawi on John Chilembwe Day, which marks the beginning of the Malawi independence struggle.

    The sculpture is the latest in a rolling programme overseen by the mayor of London that began in 1998 to showcase contemporary art on the empty plinth.

    Previous installations have included a giant ship in a bottle and a swirl of replica whipped cream, topped with a sculpted cherry, fly and drone.

    At Chilembwe’s side in Kambalu’s sculpture is his friend and supporter, the European missionary John Chorley.

    The artist said it was designed to shed light on Britain’s colonial legacy in southern Africa.

    “People present colonialism as a kind of conqueror and victim (story),” Kambalu told AFP at the unveiling.

    “But actually, it’s more complex than that. There are heroes on both sides. There is dignity on both sides.”

    Chorley is life-sized, while Chilembwe is “larger than life” — elevating the pastor’s story and Britain’s colonial past into the public eye.

    “There’s a lot to be addressed,” said Kambalu.

    Kambalu said that by highlighting what he said was Britain’s failure to address its colonial legacy in southern Africa, such as Malawi, he hoped his work would shed light on this “hidden history”.

    Both figures in the sculpture wear hats — a banal feature at a first glance but evoking the colonial prohibition which barred African men from wearing hats in front of a white person.

    “Antelope” is the 14th commission in the programme.

    “It sparks conversation with the general public. Everyone loves to have an opinion about the Fourth Plinth. It generates debate,” said Justine Simons, deputy mayor for culture and the creative industries.

    The sculpture will be succeeded in 2024 by Teresa Margolles’ “850 Improntas” (850 Imprints), which features casts of the faces of 850 transgender people from around the world.

    Recent calls by MPs and others have urged the Mayor of London to feature a statue of the late Queen Elizabeth II on the Fourth Plinth.

    “That will be a decision for His Majesty the King, at the appropriate moment,” said Simons.

    "It’s a programme that’s been going for 20 years, and we’ve got at least another four years of sculptures already commissioned.”

    https://www.rfi.fr/en/people-and-entertainment/20220928-anti-colonialist-sculpture-unveiled-in-london-s-trafalgar-square
    #monument #Londres #colonialisme #anti-colonialisme #UK #Angleterre #Samson_Kambalu #histoire #historicisation #mémoire #passé_colonial #villes

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  • Un leone, le stragi, la censura e uno schifezzario

    Quanto fu infame l’Italia in Libia. Stragista 100 anni fa e poi negli anni ’20-30. Ma infame anche nel nuovo secolo l’Italia di Berlusconi-Frattini con i profughi ma – sarà bene non scordarlo – l’accordo per il respingimento fu bipartisan (pochissimi a sinistra votarono contro).

    Il 16 settembre di 81 anni fa viene ammazzato «il leone del deserto»: è una storia che i nostri governanti (di vario colore) ritengono non dovremmo conoscere, dunque io la racconto ogni volta che posso.

    Omar Al Mukhtar ha 63 anni quando, nel 1923, diventa il capo della resistenza anti-italiana in Cirenaica, come allora veniva chiamata la Libia. Una vita da insegnante del Corano e poi gli ultimi anni da eroe e genio militare. Infinitamente superiori per numero (oltre 20 mila contro 2-3mila) e per armamento (aerei e gas tossici massicciamente usati) i fascisti ci misero un decennio per piegare la resistenza libica che dalla sua aveva solo l’appoggio della popolazione e la conoscenza del territorio.
    A vincere fu il generale Rodolfo Graziani, con massacri e campi di concentramento. Fascisti certo. Ma anche il colonialismo di Giolitti fu sanguinario quando nel 1911 (su fortissime pressioni del Banco di Roma, legato a interessi vaticani) aggredì la Libia: repressione scientifica, deportazioni (migliaia tra Favignana, Ustica e Ventotene ma anche tantissimi schiavizzati nelle grandi fabbriche del Nord Italia) e massacri come quello di Sciara Sciat su cui calò la censura. «Tripoli, bel suol d’amore» si cantava: in realtà suolo di orrore. Fra il 1911 e il ’15 la popolazione della Cirenaica passa da 300mila a 120 mila. Allora la sinistra italiana si opponeva al colonialismo. Forse perché una sinistra c’era.
    Un salto avanti nel tempo. Fu dunque Graziani, un criminale di guerra al pari delle Ss, a sconfiggere Omar al Mukhtar. A esempio deportando circa 100mila libici in 13 campi di concentramento: in 40mila vi moriranno. Non erano guerriglieri ma avrebbero potuto dar cibo o rifugio ai nemici dell’Italia.

    Nell’estate del ’31 «il leone del deserto» è con soli 700 uomini, pochi viveri e quasi zero munizioni. L’11 settembre è catturato e dopo un processo-farsa impiccato il 16 settembre. Ha 70 anni e sale al patibolo sereno. «Non ci arrenderemo, la prossima generazione combatterà e poi la successiva e la successiva ancora». Da uomo religioso aggiunge: «da Dio veniamo e a Dio torniamo».
    Di tutto questo sapremmo in Italia zero se non fosse per il coraggio di Angelo Del Boca e di pochi altri storici. Come si sa, il fascismo non ebbe la sua Norimberga. Una serie di amnistie (assai discutibili e comunque applicate in modo scandaloso) poi procedimenti archiviati, documenti nascosti per anni negli “armadi della vergogna” consentirono la libertà sia agli anelli minori di quella catena criminale che fu il fascismo che ai peggiori assassini e ai capi, compresi boia confessi come Rodolfo Graziani o Valerio Borghese.

    Quasi tutti in Italia, compreso Gianfranco Fini, hanno chiesto «scusa» – chi prima e chi molto dopo – agli ebrei per le persecuzioni ma le istituzioni non hanno ricordato e pianto quelli che siamo andati a massacrare in Africa. Anzi passano gli anni e i governi le imprese africane degli italiani – fascisti e non – restano nascoste.

    Nei libri e persino nelle sale cinematografiche.

    La censura – strisciante, mai dichiarata ma netta – colpisce dagli anni ‘80 sino a oggi Il leone del deserto di Moustapha Akkad, un campione d’incasso in molti Paesi. Un filmone tipico di Hollywood, con tutti i pregi e i difetti delle grandi produzioni, con ottimi attori (Anthony Quinn, Oliver Reed, Rod Steiger, Irene Papas, John Gielgud… ) e nessun falso storico anti-italiano; anzi, notò Del Boca, facciamo miglior figura che nella realtà: nel film alcuni italiani si ribellano a Graziani il che purtroppo non accadde (avvenne invece in Etiopia e in Somalia, pochi anni dopo). Quel film non lo si vide e tuttora non si può vedere. Questioni burocratiche pare; no anzi, è “vilipendio”; rettifica “manca il visto”; anzi no “è il distributore che preferisce non farlo girare”; in ogni modo qua e là arriva la Digos a sequestrarlo; passa solo in un paio di festival minori e in qualche cineclub coraggioso.

    Il vero, solo, indubitabile motivo della censura è che Akkad mostra, in modo documentato, gli orrori italiani in Libia. Il «leone» del titolo era appunto Omar Al Muktar, tuttora notissimo nell’Africa intera (in ogni grande città si trova una via a lui intitolata).

    Per riparare a tanta viltà si potrebbe chiedere adesso al nostro ministro della Pubblica istruzione di aprire il prossimo anno scolastico con questo film. Scusate, avevo dimenticato che non abbiamo più una scuola pubblica ma solo macerie dove resistono (questo sì) un po’ di professori, professoresse, studentesse e studenti non asserviti, non rincoglioniti, non domati da manganelli (molti) e carote (poche).

    Da questa estate all’ignoranza, alla rimozione, all’auto-assoluzione si aggiunge uno schifezzario: ad Affile (nel Lazio) c’è un sacrario dedicato al boia Graziani che lì era nato. Il cosiddetto sacrario è una doppia vergogna: per l’omaggio a un criminale ma anche per lo sperpero di soldi pubblici. Vi immaginate cosa succederebbe se in Germania si facesse un monumento a Himmler o a Eichmann? Naturalmente la classe politica italiana non si è accorta – prima, durante la costruzione e dopo – dell’omaggio al massacratore (in Africa ma anche altrove). Ben pochi – Zingaretti, Vincenzo Vita, Touadi, Vendola – hanno preso posizione e/o hanno chjesdyo spiegazioni o interventi del governo che “ovviamente” si è fatto di nebbia. La s-governatrice Polverini, prima di dimettersi, ha stanziato altri 20mila euro per il completamento e la video-sorveglianza dello schifezzario che lei chiama sacrario. Se in Italia quasi tutto tace “in alto” (“in basso no: manifestazioni di protesta ci sono state e, se vi interessa saperne di più, ne racconto sul mio blog) fuori dallo stagno italiano il monumento a Graziani è uno scandalo internazionale.

    Ovviamente il passato si lega sempre al presente e al futuro. Oggi nel Lazio i gruppi neofascisti vengono aiutati dalle istituzioni: Casa Pound ha avuto in regalo (di nuovo denaro pubblico) un bel palazzo dal sindaco Eia-Eia-Ale-danno. E voi credete che sui molti misfatti di Forza Nuova o sui senegalesi uccisi il 13 dicembre 2011 a Firenze si sia davvero indagato? E che qualche istituzione si sia davvero preoccupata dei feriti, uno dei quali rimarrà del tutto paralizzato? E’ pur vero che alcuni magistrati e poliziotti con coraggio indagano sul neo-nazifascismo e sui suoi complici. Ma che peso volete abbiano nei palazzi dell’Italia che non ha trovato i colpevoli di piazza Fontana e delle altre stragi, che censura un serio film anticolonialista e che non manda subito le ruspe ad Affile?

    NOTA CON QUASI SPOT

    Se già sapete cos’è il mensile «Pollicino gnus» (quel «gnus» sarebbe «news» all’emiliana) e conoscete la sovversiva Mag-6 (Mutua auto gestione) di Reggio Emilia mi congratulo. Se no… informatevi. Questo qui sopra è l’editoriale del numero di gennaio 2013 dedicato alla Libia. Visto che sono il direttore ir/responsabile della rivista mi hanno chiesto di introdurlo: ho ripreso discorsi perlopiù già fatti in blog, cercando di attualizzarli. Se andate su www.pollicinognus.ittrovate l’indice di questo numero e indicazioni utili (sugli arretrati, su come abbonarsi, sull’info-shop). Di abbonarvi e di capire come funziona la Mag – una piccola, lunga, vincente storia di un modo diverso per rapportarsi al denaro – lo consiglio davvero. (db)

    https://www.labottegadelbarbieri.org/un-leone-le-stragi-la-censura-e-uno-schifezzario
    #mémoire #fascisme #histoire #Italie #Rodolfo_Graziani #Graziani #colonisation #passé_colonial #Italie_coloniale #colonisation #leone_de_deserto #Omar_Al_Mukhtar #Omar_al-Mokhtar #résistance #Libye #Cyrénaïque #résistance_libyenne #camps_de_concentration #massacres #Giolitti #censure #Sciara_Sciat #déportations #amnistie #Valerio_Borghese #Affile #leone_del_deserto #cinéma

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  • Village’s Tribute Reignites a Debate About Italy’s Fascist Past

    This village in the rolling hills east of Rome is known for its fresh air, olive oil and wine — and its residual appreciation of Benito Mussolini, whose image adorns some wine bottles on prominent display in local bars.

    This month, the town’s fascist sympathies became the subject of intense debate when its mayor unveiled a publicly financed memorial to one of its most controversial former citizens: Rodolfo Graziani, a general under Mussolini who was accused of war crimes at the end of World War II and earned the title of “the Butcher” in two campaigns during Italy’s colonization of North Africa in the 1920s and ’30s.

    The monument, in a style reminiscent of fascist architecture, sits on the town’s highest hill, with the Italian flag flying from the top and inscriptions reading “Honor” and “Homeland.” Inside sits an austere marble bust of General Graziani, surrounded by original copies of the front pages of the newspapers from the day of his death in 1955, a plaque from a street once dedicated to him here and a list of his deeds and honors.

    The dedication elicited harsh criticism from left-wing politicians and commentators in the pages of some Italian newspapers, and has raised deeper questions about whether Italy, which began the war on the side of the Axis powers and ended it with the Allies, has ever fully come to terms with its wartime past.

    In an interview, Ettore Viri, the mayor of Affile, brushed off the criticism. “The head is a donation of a citizen,” he said, glancing proudly at the bust, before quickly acknowledging that he was the citizen. “Actually, I had it in my living room,” he said, adding that he had given large donations of his own money to maintain Mussolini’s grave in northern Italy.

    Yet the mayor’s political opponents are aghast at the town’s honoring General Graziani — and using $160,000 in public money to do so. In a statement released the day before the dedication ceremony, Esterino Montino, a regional leader of the Democratic Party, said, referring to the Nazi leader Hermann Goering: “It’s as if some little village in some German province built a monument to Goering. The fact that such a scandal is planned in a small village outside of Rome does not downgrade the episode to provincial folklore.”

    By and large, however, the memorial appears to have won acceptance in this mostly conservative town of 1,600. More than 100 people attended the dedication, some of them holding flags of far-right extremist groups and wearing black shirts in a nod to Mussolini’s Blackshirt squads, according to several people who attended.

    For some, General Graziani’s crimes from World War II pale in comparison to what he did in Africa earlier, killing hundreds of thousands of people — sometimes with chemical weapons — and wiping out entire communities, especially in Eritrea.

    In the 1930s, General Graziani commanded some of the Italian troops who invaded Ethiopia under the reported slogan “ ‘Il Duce’ will have Ethiopia, with or without the Ethiopians.” He later became the viceroy of Ethiopia, where he earned his second title as butcher — the first came in Libya — for a particularly brutal campaign in reprisal for an attempt on his life.

    After the fall of Mussolini’s government in 1943, General Graziani remained loyal to him and became the minister of war of the Italian Social Republic, a rump government led by Mussolini in the parts of Italy not controlled by the Allies. General Graziani was never prosecuted for any war crimes in Africa, but in 1948 the United Nations War Crimes Commission said there were plausible charges against him and other Italians.

    In 1948, an Italian court in Rome sentenced General Graziani to 19 years in prison for collaborating with the Nazis, but he received a suspended sentence that was later commuted.

    But it was the African campaigns, which went entirely unpunished, that critics say are the greatest stain on his record, and the strongest argument against a memorial. “A monument to somebody who committed crimes against humanity in his fierce repression using gas against young Ethiopians is serious and unacceptable, regardless of where it happens,” Mr. Montino, the left-wing lawmaker, wrote.

    Here in Affile, many regard General Graziani more as a local boy who made good than the perpetrator of some of the most heinous massacres in Mussolini’s bloody colonization campaigns.

    “To me it’s a recognition of our fellow citizen who was the youngest colonel of the Italian Army,” said Alberto Viri, a 65-year-old retiree who lives in Milan but was vacationing on a recent afternoon in his native Affile. “He defended the homeland until the end, as he was loyal to our first allies, the Germans, even after Sept. 8,” Mr. Viri added, referring to the armistice when Italy shifted from the Axis to the Allies.

    Some are more upset by the financing than by the monument itself. “I am not a fascist,” said Aldo Graziani, 72, a retiree (no relation) who joined in the conversation in a local bar. “I am not bothered by the monument to Graziani, per se. I am rather bothered by the fact that they should have built it with their own money, not with public money.”

    Mr. Viri, the retiree, has childhood memories of General Graziani riding around the village on his white horse with a white dog to get the paper at the Viri family’s news kiosk. He remembers how soldiers attending the general’s funeral in 1955 distributed food to hungry local children.

    Some scholars say that Italy’s failure to bring fascist officials to justice has caused a “selective memory” of the fascist era, where visions of the past fall along contemporary political lines.

    “Antifascist culture has remained the privilege of the left, some liberals and Christian Democrats,” said Luca Alessandrini, the director of the Parri Institute in Bologna, referring to the centrist Catholic party that dominated in the postwar era. “The big weakness of Italian history is that these forces have failed to produce an historical judgment on fascism,” he added.

    Much the same is true of the colonial era. Compared with Britain and France, Italy developed colonial aspirations rather late in the game, invading Libya in 1911 and Ethiopia, for the second time, in 1935. (The first Ethiopian invasion, in 1895, failed.) Even today, few Italians are particularly aware of the colonial episodes, which have not been central to national debate.

    “Italy was so poor and destroyed after World War II that nobody really worried about the colonies, and the loss thereof, let alone people’s education on this,” said the historian Giorgio Rochat.

    In Affile, many deny that General Graziani was a fascist tyrant, arguing that he just obeyed his superiors’ orders. But some are outraged by the monument.

    “This has always been a center-right village,” said Donatella Meschini, 52, a teacher who served on the City Council from 2003 to 2008 under the only center-left mayor in Affile in 50 years. “But after this memorial, what can we expect? That they call us up on Saturday to do gymnastics in the main square like the fascist youth used to do?”

    “April 25 has just never arrived here,” Ms. Meschini added, referring to the day of the Allied liberation of Italy in 1945.

    https://www.nytimes.com/2012/08/29/world/europe/village-reignites-debate-over-italys-fascist-past.html

    #Affile #mémoire #fascisme #histoire #Italie #Mussolini #Benito_Mussolini #Rodolfo_Graziani #Graziani #mémorial #colonisation #passé_colonial #Italie_coloniale #colonisation #monument #patria #onore #Ettore_Viri

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    • Flash mob dell’ANPI ad Affile, Pagliarulo: «Il monumento al boia Rodolfo Graziani è un’ ignominia!»

      In occasione dell’84esimo anniversario della strage di Debra Libanos (Etiopia) ordita dal criminale di guerra Rodolfo Graziani. L’intervento del Presidente nazionale ANPI Gianfranco Pagliarulo

      Oggi 28 maggio alle 18 si è svolto ad Affile (Roma) un flash mob promosso dall’ANPI - con la presenza del Presidente nazionale Gianfranco Pagliarulo e del Presidente dell’ANPI provinciale di Roma Fabrizio De Sanctis - in occasione dell’84esimo anniversario della strage di Debra Libanos (Etiopia).

      Dal 21 al 29 maggio 1937 nel monastero di Debra Libanos furono trucidati monaci, diaconi, pellegrini ortodossi, più di 2.000, per opera degli uomini del generale Pietro Maletti, dietro ordine di Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia. Ad Affile è situato un monumento dedicato proprio a Graziani.

      In un passaggio del suo intervento così si è espresso Pagliarulo: «Siamo qui per denunciare una grande ignominia: un monumento intitolato non al soldato affilano più rappresentativo, come incautamente affermato, ma all’uomo delle carneficine, delle impiccagioni, dei gas letali. Perché questo fu Rodolfo Graziani. E le due parole sulla pietra del monumento, Patria e Onore, suonano come il più grande oltraggio alla Patria e all’Onore. Onore è parola che significa dignità morale e sociale. Quale onore in un uomo che sottomette un altro popolo in un’orgia di sangue? Patria. La nostra patria è l’Italia. La parola Italia è nominata nella Costituzione due sole volte: L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, L’Italia ripudia la guerra. Tutto il contrario di un Paese fondato sul razzismo imperiale. Perché, vedete, le stragi di Graziani furono certo l’operato di un criminale di guerra, e non fu certo l’unico. Ma furono anche stragi dello Stato fascista, di una macchina di violenza e di costrizione verso l’altro».

      Era presenta anche una delegazione dell’Associazione della Comunità etiopica di Roma.

      https://www.anpi.it/articoli/2504/flash-mob-dellanpi-ad-affile-pagliarulo-il-monumento-al-boia-rodolfo-graziani-e
      #résistance #flash_mob

    • Nicola Zingaretti: no al monumento per ricordare un criminale di guerra fascista, stragista del colonialismo. #25aprile

      Caro Presidente Nicola Zingaretti,

      mi chiamo Igiaba Scego, sono una scrittrice, figlia di somali e nata in Italia. Sono una della cosiddetta seconda generazione. Una donna che si sente orgogliosamente somala, italiana, romana e mogadisciana.

      Le scrivo perchè l’11 Agosto 2012 ad Affile, un piccolo comune in provincia di Roma, è stato inaugurato un “sacrario” militare al gerarca fascista Rodolfo Graziani. Il monumento è stato costruito con un finanziamento di 130mila euro erogati della Regione Lazio ed originariamente diretti ad un fondo per il completamento del parco di Radimonte.

      Rodolfo Graziani, come sa, fu tra i più feroci gerarchi che il fascismo abbia mai avuto. Si macchiò di crimini di guerra inenarrabili in Cirenaica ed Etiopia; basta ricordare la strage di diaconi di Debra Libanos e l’uso indiscriminato durante la guerra coloniale del ’36 di gas proibiti dalle convenzioni internazionali.

      Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, l’imperatore d’Etiopia Hailè Selassié, chiese a gran voce che Rodolfo Graziani fosse inserito nella lista dei criminali di guerra. La Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra lo collocò naturalmente al primo posto.

      Il monumento a Rodolfo Graziani è quindi un paradosso tragico, una macchia per la nostra democrazia, un’offesa per la nostra Costituzione nata dalla lotta antifascista.

      In questi ultimi giorni, i neoparlamentari Kyenge, Ghizzoni e Beni hanno depositato un’interpellanza affinché il Governo si pronunci sulla questione di Affile.

      Io in qualche modo legandomi alla loro iniziativa chiedo a lei, Presidente Zingaretti un impegno concreto contro questo monumento della vergogna. Non solo parole, ma fatti (demolizione e/o riconversione del monumento) che possano far risplendere un sole di democrazia in questa Italia che si sta avviando a celebrare il 68° anniversario del 25 Aprile.

      Mio nonno è stato interprete di Rodolfo Graziani negli anni ’30. Ha dovuto tradurre quei crimini e io da nipote non ho mai vissuto bene questa eredità. Mio nonno era suddito coloniale, subalterno, costretto a tradurre, suo malgrado, l’orrore. Oggi nel 2013 io, sua nipote, ho un altro destino per fortuna. Per me e per tutt* le chiedo un impegno serio su questa questione cruciale di democrazia.

      _____________________________________________________________

      Dear President Nicola Zingaretti,

      My name is Igiaba Scego, I am a writer, born in Italy, daughter of Somali people.

      I am one of the so-called «second generation». A woman who proudly feel herself both Somali, Italian, Roman.

      I am writing to you because on the 11th of August 2012, in Affile, a small town in the province of Rome, it was inaugurated a monument in honour of the fascist Rodolfo Graziani. The monument was built with a loan of 130 thousand euro from the Lazio region, a fund originally intended to finance the Radimonte park.

      Rodolfo Graziani, as you know, was one of the most ferocious commander that fascism has ever had. He was found guilty of war crimes in Cyrenaica and Ethiopia; the massacre of deacons in Debra Libanos and the use of prohibited gas during the colonial war of ’36 are just two of those massacres that can be mentioned.

      After the end of World War II, the emperor of Ethiopia, Haile Selassie, firmly asked for Rodolfo Graziani to be included in the list of war criminals. The Commission of the United Nations War Crimes placed him at the first place in that list.

      The monument to Rodolfo Graziani is therefore a tragic paradox, a stain on our democracy, an insult to our constitution born from the struggle against fascism.

      In the recent days, the neoparlamentari Kyenge, Ghizzoni and Beni filed an interpellation to address this problem to the Government.

      I am somehow trying to be with them, by asking to you, Mr President Zingaretti, a real commitment against this monument of shame. I am not only asking for words but for a real commitment (demolition and / or conversion of the monument) that can let the sun of democracy to shine again in Italy, approaching the 68th anniversary of the April 25.

      My grandfather had to translate Graziani’s crimes, he was a colonial victim, and had to translate the horror, against his will. Today in 2013, his niece, has another destiny. For me and for all I am asking to you a serious commitment on this crucial issue of democracy.

      https://www.change.org/p/nicola-zingaretti-no-al-monumento-per-ricordare-un-criminale-di-guerra-fasci

      #pétition

  • #Marseille, le nom des rues en débat : quelle place accorder dans l’#espace_public au #passé_colonial et à ses suites ?

    Les personnages honorés dans l’espace public sont des repères pour les citoyens. A Marseille, des rues et des écoles portent les noms des colonisateurs Bugeaud ou Cavaignac. L’association Ancrages, qui travaille sur l’histoire de la ville et sa diversité, a élaboré une liste de 315 noms dont les parcours pourraient être rappelés dans l’espace public. L’écrivain Claude Mckay, originaire de la Jamaïque, et la militante de l’indépendance algérienne puis de l’antiracisme à Marseille, Baya Jurquet-Bouhoune, en font partie. Cette association a fait des proposition de cartels pour accompagner les statues à la gloire de la colonisation qui se trouvent à la Gare Saint-Charles. Le Collectif pour une mémoire apaisée appelle à débaptiser les lieux portant les noms de Bugeaud et de Cavaignac pour leur donner les noms de Gisèle Halimi et de Maurice Audin. Par ailleurs, après un quart de siècle de refus de l’ancienne municipalité, une avenue au nom d’Ibrahim Ali, tué en 1995, à 17 ans, par des colleurs d’affiches du FN, a été enfin officiellement inaugurée.

    Depuis plus de vingt ans, l’association Ancrages participe à éclairer le portrait d’habitants et de militants issus de la diversité à Marseille. Samia Chabani, directrice d’Ancrages, a participé au conseil scientifique composé d’historiens et de sociologues, présidé par l’historien Pascal Blanchard, qui a rendu le 12 février 2021 une liste de 315 noms issus de la diversité dont les parcours actuellement invisibilisés pourraient être inscrits par les élus dans l’espace public. Dans l’attente que ce recueil soit rendu public, Ancrages a mis en lumière deux figures emblématiques qui croisent l’histoire de Marseille ainsi que la manière dont certains acteurs associatifs se font aujourd’hui passeurs de mémoire : le collectif Claude McKay d’Armando Coxe pour Claude Mckay, le Maitron et le MRAP Marseille pour Baya Jurquet-Bouhoune. Une belle occasion de rebaptiser les rues de Marseille, dans le respect des demandes citoyennes des marseillais et en lien avec les propositions des acteurs associatifs locaux : Etats généraux de la culture, Comité Mam’Ega, Made in Bassens, Le Groupe Marat, Promemo.

    Claude McKay
    (Paroisse de Clarendon 1889 – Chicago 1948)

    « Né dans un petit village de montagne (Sunny Ville) de la province de Clarendon, en Jamaïque, Claude Mac Kay est le onzième et dernier enfant d’une famille de pauvres cultivateurs. Élevé dans une région profondément marquée par une tradition de résistance des Nègres marrons de l’époque esclavagiste, il s’enracine avec fierté dans une nature exaltante. Conseillé par un ami anglais, Walter Jekyll, à l’écoute de la tradition orale de l’île, il écrit très jeune des poèmes en créole jamaïcain. Il travaille dix mois à Kingston, la capitale, où il se heurte au colonialisme et au racisme. Fuyant la ville, il retourne dans ses montagnes de Clarendon et, en 1912, publie successivement Songs of Jamaica et Constab Ballads, ses deux premiers recueils de poésies. L’attribution d’une bourse lui permet la même année de se rendre aux États-Unis pour étudier l’agronomie à Tuskegee Institute (Alabama) puis au Kansas State College. Deux ans plus tard il abandonne ses études et se lance dans une existence vagabonde orientée vers la création poétique et une prise de conscience des problèmes politiques.

    Entre 1919 et 1934 il voyage en Europe, se rend aux Pays-Bas et en Belgique, séjourne à Londres pendant plus d’un an et publie des poèmes. Tandis qu’un troisième recueil de poésies, Spring in New Hampshire, est édité à Londres en 1920, c’est à New York que paraît Harlem Shadows. Claude Mac Kay assiste à Moscou au IVe congrès du Parti communiste de l’Union soviétique en 1922, il visite Petrograd et Kronstadt où ses poèmes sont lus avec succès. Il se rend en Allemagne et en France, où il résidera à Paris et dans le Midi pendant plusieurs années. Il termine son périple en Espagne et au Maroc, de 1929 à 1934.

    C’est en France qu’il écrit ses deux premiers romans, Home to Harlem (1928) et surtout Banjo (1929), qui influencera de manière décisive la génération des jeunes Nègres tels que Léopold Sédar Senghor, Aimé Césaire, Léon Gontran Damas, Joseph Zobel et Sembene Ousmane. De retour à Harlem (New York), il publie son autobiographie, en 1937, A Long Way from Home ainsi qu’un recueil d’essais politiques et spirituels, Harlem Negro Metropolis (1940). Un recueil de nouvelles, Gingertown (1932) et son troisième roman, Banana Bottom (1933), renouent avec son passé et son amour des traditions paysannes et de la terre jamaïcaines. Une anthologie de ses poèmes préparée en partie par lui-même jusqu’à sa mort, survenue en 1948, est parue en 1953 : Selected Poems. »

    Cette notice a été rédigée par Oruno D. Lara, professeur d’histoire, directeur du Centre de recherches Caraïbes-Amériques pour le site Universalis.

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    Baya Jurquet-Bouhoune
    (Alger 1920 – Marseille 2007)

    « À sa naissance, Baya Bouhoune reçoit la pleine citoyenneté française par filiation et sera donc électrice au premier collège après 1947 ; son père, Boudjema Bouhoune, originaire de la région de Sidi-Aïch en Kabylie, avait « bénéficié » de cette citoyenneté qui le met en dehors du statut de français musulman, comme blessé de guerre sur le front en France lors de la guerre de 1914-1918. Ce qui n’empêche pas l’ordre coutumier de régner dans la famille ; Baya est retirée de l’école française à onze ans et mariée à quatorze ans à un cousin devenant Baya Allaouchiche. Comme militante communiste, Baya sera connue en Algérie sous ce nom de femme mariée, devenue responsable de l’Union des femmes. C’est dans l’action militante que Baya Bouhoune s’est faite elle-même, parlant couramment et prenant la parole en français, en arabe ou en kabyle.

    Pour le PCA clandestin, elle sert en 1941-1942 d’agent de liaison avec les députés et responsables du PCF emprisonnés à Maison-Carrée (El Harrach) ; elle s’affirme ensuite dans les actions de soutien aux alliés dans la mobilisation finale antifasciste contre l’Italie et l’Allemagne, qui concourt à la libération de la France. Le patriotisme de la Résistance française est repris à son compte en Algérie par le Parti communiste algérien (PCA) qui élargit le mouvement de jeunes par les Jeunesses démocratiques, et s’emploie à constituer un mouvement de femmes « sans distinction d’origine » par l’Union des femmes en Algérie qui fait partie de la Fédération démocratique des femmes, d’obédience communiste internationale. Baya Allaouchiche appartient à la cellule communiste de La Redoute (El Mouradia), quartier du dessus d’Alger, qui est aussi celle de celui qui prend le nom d’Henri Alleg* qui se consacre au mouvement des Jeunesses et de sa femme Gilberte Salem*.

    Promue par le PCA parmi les responsables de l’Union des femmes, Baya Allaouchiche est déléguée en 1948 au Congrès de la Fédération internationale démocratique des femmes à Budapest ; elle devient en 1949, secrétaire générale de l’Union des femmes d’Algérie et entre au Comité central du PCA au Ve congrès tenu à Oran du 26 au 29 mai 1949. En décembre 1949, elle part en Chine en délégation et séjournera quelques mois, rencontrant Mao Ze Dong, Chou En Laï et le maréchal Chuh Teh ; elle assiste en effet au Congrès des femmes d’Asie à Pékin en tant qu’observatrice aux côtés de Jeannette Vermesch-Thorez et de Marie-Paule Vaillant-Couturier qui représentent l’Union des femmes françaises. En décembre 1952, elle est la porte-parole de la délégation algérienne au congrès international du Mouvement de la paix qui se tient à Vienne (Autriche).

    En septembre 1954, elle va au nom de l’Union des femmes, conduire la campagne de secours aux sinistrés du tremblement de terre d’Orléansville (Chlef). Nous sommes à la veille de l’insurrection du 1er novembre ; par de là les positions contraires ou précautionneuses du PCA, elle est sensible à l’entrée dans la lutte de libération nationale. Au nom de l’Union des femmes, mais par une initiative indépendante du PCA, elle organise des manifestations de protestation et de solidarité avec les détenus, devant la prison Barberousse (Serkadji) d’Alger en 1955 et au début de 1956.

    Pour la maintenir tête d’affiche de l’Union des femmes, le PCA la désigne toujours comme Baya Allaouchiche ; celle-ci demeure à la maison de son mari légal qui est son cousin bien que celui-ci ait pris une seconde épouse. Ce que tait le PCA ; plus encore, il impose le secret sur la liaison, depuis leur rencontre dans l’action des Jeunesses démocratiques dans les quartiers du haut d’Alger, entre Baya et le jeune militant Henri Maillot* qui va détourner le 4 avril 1956, un camion d’armes pour les mettre à la disposition des Combattants de la Libération, groupe armé que tente de constituer le PCA. Baya et Henri Maillot* sont partisans de l’engagement dans la lutte d’indépendance. Ce secret ne sera levé qu’après la mort de Baya en 2007, selon la promesse respectée par Jacques Jurquet* après leurs cinquante années de vie commune à Marseille.

    Contactée par le FLN dès 1955, Baya Allaouchiche devient plus que suspecte. Après deux perquisitions, elle est arrêtée dans la nuit du 31 mai au 1er juin 1956 ; elle fait partie de la première vague importante d’arrestations conduites au titre des « pouvoirs spéciaux » appliqués en Algérie après le vote d’approbation des députés du PCF. Deux femmes sont prises dans cette rafle nocturne : Lisette Vincent* et Baya Allaouchiche ; leur qualité de citoyennes françaises leur vaut d’échapper à l’internement et d’être expulsées.

    Remise en liberté à Marseille, Baya Allaouchiche peut faire venir ses deux enfants. Elle reprend contact avec le FLN et participe aux actions de lutte contre la guerre et pour l’indépendance de l’Algérie, ce qui lui vaut des rapports difficiles avec les dirigeants et militants communistes les plus suivistes du PCF qui s’en tiennent à parler de paix en Algérie et à privilégier le patronage du Mouvement de la paix. Elle est d’autant plus suspectée qu’elle vit à partir de 1959 avec Jacques Jurquet* (elle deviendra légalement Baya Jurquet en 1978), militant communiste réputé maoïste puisqu’il soutient les luttes de libération à commencer par la lutte algérienne.

    Après l’indépendance de l’Algérie, Baya Bouhoune milite au MRAP dans les Bouches-du-Rhône ; dans les années 1970, elle préside ce mouvement antiraciste dans le département et fait partie du Bureau national. C’est à ce titre de l’action contre le racisme, sous la pression amicale de ceux qui connaissent son itinéraire militant en Algérie et en France, qu’elle est faite chevalier de l’Ordre du mérite ; cette décoration lui est remise par Me Gisèle Halimi*, avocate de la cause des femmes algériennes dans la guerre de libération.

    En 1979 sous le nom d’auteur de Bediya Bachir, les Éditions du Centenaire contrôlées par le Parti communiste marxiste-léniniste de France (PCMLF « pro-chinois »), ont publié son roman composé en 1957-1958 à Marseille, L’Oued en crue, que les éditions dépendantes du PCF avaient écarté de publication à l’époque de la guerre ; Laurent Casanova*, secrétaire de Maurice Thorez et originaire d’Algérie, à qui l’ouvrage avait été adressé, avait répondu que ce n’était pas possible car le PCF soutenait alors la publication du livre de l’écrivain attitré du parti, André Stil, évoquant l’Algérie en guerre et intitulé Le dernier quart d’heure pour parodier la formule du socialiste français, le Ministre-résidant en Algérie, Robert Lacoste. Le roman a été réédité en 1994 par les Éditions Sakina Ballouz à Genève sous le vrai nom d’auteur : Baya Jurquet-Bouhoune. Celle-ci, après une opération difficile de fracture du fémur, est morte dans son sommeil le 7 juillet 2007. »

    Cette notice « Bouhoune Baya plus connue en Algérie sous le nom Allaouchiche Baya », [Dictionnaire Algérie], a été rédigée par René Gallissot, version mise en ligne le 30 décembre 2013, dernière modification le 26 novembre 2020. Le Maitron est le nom d’usage d’un ensemble de dictionnaires biographiques du mouvement ouvrier dirigé par l’historien Claude Pennetier.

    https://histoirecoloniale.net/Marseille-le-nom-des-rues-en-debat-quelle-place-accorder-dans-l-e

    #noms_de_rues #toponymie #toponymie_politique #colonial #colonialisme #décolonial #mémoire #histoire

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  • « #Lausanne doit reconnaître son passé colonialiste »

    En lutte contre une inscription problématique sur un immeuble du #Flon, au centre-ville de Lausanne, #Samson_Yemane va plus loin : le conseiller communal socialiste demande à la Municipalité de réaliser un #état_des_lieux du #passé_colonialiste de la cité olympique.

    Les questions relatives à la migration ne sont pas qu’un dossier politique pour Samson Yemane : c’est l’histoire de la vie du conseiller communal lausannois. Le socialiste n’avait que « 12 ou 13 ans » lorsqu’il a fui l’Érythrée en direction de la Libye puis de l’Europe. Sur un bateau.

    Aujourd’hui bientôt trentenaire et naturalisé, le Vaudois travaille à l’Organisation suisse d’aide aux réfugiés et s’est beaucoup engagé dans la votation sur Frontex, l’agence européenne de protection des frontières dont il a fait le sujet de son mémoire de master.

    Malheureux de l’issue de la votation sur le plan fédéral, Samson Yemane essaie d’agir à son échelle : celle de sa commune de Lausanne. Il vient de déposer un postulat pour rendre la capitale vaudoise « inclusive et non-discriminante ». Interview.

    Vous écrivez que Lausanne a directement participé, voire contribué à l’#esclavage et au #colonialisme. À quoi faites-vous référence ?
    C’est là tout l’enjeu : la population n’a pas du tout conscience qu’au début du XXe siècle encore et même jusqu’à la Seconde Guerre mondiale, il y avait des « #zoos_humains » au coeur de Lausanne. La Suisse a accueilli des dizaines de « #villages_nègres » et autres exhibitions exotiques, pour le plus grand plaisir des habitants. Il y a donc un immense devoir de mémoire et de #visibilisation.

    Votre #postulat a pour point de départ le travail d’une étudiante sur une devanture au Flon. Or, la régie voulait justement faire retrouver au bâtiment son visage d’origine. N’est-ce pas précisément un travail de mémoire ?
    Où est l’importance historique de cette inscription ? Elle avait été effacée et, là, on la fait renaître sans contexte, sans explication. Il s’agit purement de #racisme_ordinaire, et c’est pour cela que j’ai pris autant cette histoire à cœur : elle mérite que des mesures soient prises.

    Par exemple ?
    Tout dépend du contexte. Pour cette inscription, beaucoup de gens sont pour qu’elle soit effacée, car elle n’a pas vraiment d’utilité et elle heurte les personnes concernées. De manière générale, je milite pour qu’un état des lieux soit réalisé sur le passé colonial de Lausanne. Cela peut prendre plusieurs formes (conférence, discussion, etc.), mais devrait impérativement inclure des personnes compétentes dans ces sujets-là.

    Jusqu’où cela peut-il aller ? Le stade #Pierre_de_Coubertin (ndlr : notoirement raciste, persuadé de la supériorité des Blancs sur les Noirs) doit-il être rebaptisé, selon vous ?
    C’est un bon contre-exemple : dans ce cas, ce lieu a un important #héritage_historique. Le rebaptiser serait contre-productif et ne serait pas compris par la population. Je ne suis pas pour réécrire l’histoire, ni pour créer une polémique, mais pour sensibiliser les Lausannois : pourquoi ne pas mettre une mention sur place, ou réaliser quelque chose au Musée olympique par exemple ?

    N’est-ce pas un peu infantilisant, comme démarche ? Faut-il vraiment une intervention du monde politique ?
    Il y a toujours des combats plus importants que d’autres, mais celui-ci est très légitime à mes yeux. Cette inscription heurte beaucoup de monde, et le vivre-ensemble est primordial, surtout au niveau communal. Plusieurs études scientifiques prouvent que reconnaître notre passé colonial nous amène à consolider notre #cohésion_sociale. D’autres villes (Berne, Zurich, Genève...) ont d’ailleurs fait cet exercice.

    Lausanne dispose déjà pour cela d’un Bureau lausannois pour les immigrés (BLI), avec notamment une permanence contre le racisme. Vous voulez aller plus loin ?
    Mon postulat s’inscrit précisément dans ce contexte. Le travail du BLI est crucial et contribue intellectuellement à notre cohésion sociale. Je veux encourager la Municipalité à mettre l’accent sur l’histoire coloniale. Je l’ai vu avec les réactions après votre premier article : c’est un sujet tabou, très clivant et qui fait parler tout le monde. Un débat public éclairé n’en sera que plus bénéfique. « Décoloniser » l’espace public ne vise en aucun cas à falsifier l’histoire de notre commune — au contraire, le but est de reconnaître les faits historiques et de sensibiliser.

    #Mobimo « comprend la polémique »

    Informée par la Ville que l’#inscription « #Magasin_de_denrées_coloniales » du Flon faisait débat, la régie propriétaire du bâtiment assure à Blick qu’elle avait comme « unique perspective un rappel purement historique de la fonctionnalité du bâtiment ».

    C’est pour cette raison que Mobimo a voulu restituer le nom des enseignes présentes au Flon comme au début du XXe siècle. « Nous comprenons les sensibilités actuelles et sommes conscient des préoccupations de notre société face à des faits socio-historiques ainsi qu’à la portée sémantique des mots », assure Hélène Demont, porte-parole pour la Suisse romande.

    Mobimo estime qu’en tant qu’acteur économique, elle n’a « pas la légitimité de porter un jugement sur des faits historiques se rapportant à l’inscription ». Mais elle veut la replacer dans son contexte avec une notice explicative, et se conformera à la décision de la Ville si un effacement venait à être décidé.

    https://www.blick.ch/fr/news/suisse/le-combat-de-samson-yemane-lausanne-doit-reconna-tre-son-passe-colonialiste-id
    #histoire #Suisse #colonisation

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    • Public Spaces and the Material Presence of Empire’s Memory in Italy


      Tuesday, March 1, 2022
      Online Event
      9:10 pm – 11:00 pm CET/GMT+1

      Although Italy’s colonial empire had been small and short-lived, today numerous material traces - street names, monuments, buildings etc. - can be found in Italian public spaces. By marking physical locations on a digital map, the project Postcolonial Italy (https://postcolonialitaly.com) aims at making historical knowledge available to a large audience to stimulate a public debate on Italy’s silenced colonial past. Material traces are not only geographically captured, but also - and this is crucial - historically contextualized. The map intends to recall the manifold connections between Italian public spaces and the colonial and fascist past, which often remains absent from collective memory.

      This event is offered by Bard College, Annandale, as part of the Modernism and Fascism: Cultural Heritage and Memory course in cooperation with Bard College Berlin through Global Modernisms, an OSUN Network Collaborative Course.

      Affiliations: Daphné Budasz (European University Institute, Florence), Markus Wurzer (Max Planck Institute for Social Anthropology, Halle/Saale)

      https://www.bard.edu/dei/events/event/?eid=141160&date=1646187000

      #conférence #colonialisme #impérialisme #passé_colonial #mémoire

  • Storia. Colonialismo italiano, superare il mito della «brava gente»

    Le radici del razzismo di oggi affondano in un passato violento con cui si stenta a fare i conti. Un saggio di #Francesco_Filippi sfata luoghi comuni e apre una riflessione

    Le radici del razzismo in Italia sono profonde. Si alimentano con una spessa coltre di ignoranza rafforzata dalla rimozione del passato coloniale e dei suoi effetti. Secondo un calcolo di Angelo Del Boca – il giornalista e storico recentemente scomparso che per primo negli anni 60 avviò il revisionismo storico del periodo coloniale – almeno una famiglia italiana su cinque tra militari, coloni e impiegati pubblici ha avuto un componente nell’Oltremare italico. Eppure nel dopoguerra il tema venne espulso dalla pubblicistica e vennero oscurati i coloni rimpatriati. Anche a livello popolare c’è un vuoto. Chi ha mai visto film o fiction sulla guerra d’Etiopia, sulla Libia o sull’Oltremare italiano?

    La vulgata dominante è quella autoassolutoria da cui prende il titolo l’agile saggio di Francesco Filippi, Noi però gli abbiamo fatto le strade (Bollati Boringhieri, pagine 200, euro 12,00), luogo comune che da decenni imperversa in tanti discorsi pubblici e privati sulle colonie italiane d’Africa. Secondo questa versione, quella italiana sarebbe stata un’esperienza diversa, più umana rispetto a quelle francesi, britanniche e belghe perché gli italiani “brava gente” sapevano farsi voler bene dalle popolazioni locali. E il fatto che furono gli inglesi a sconfiggerci e a cacciarci dell’Africa nel 1941, sostiene Filippi, ha agevolato l’opera di rimozione e l’autoassoluzione di nostalgici o neocoloniali. Rimozione evidente nella toponomastica italiana ad esempio. La piazza dei Cinquecento a Roma, davanti alla stazione Termini è dedicata ai soldati italiani morti nella battaglia di Dogali nel 1887, combattuta durante una delle guerre di aggressione condotta contro l’Etiopia. O nei monumenti. Davanti alla stazione di Parma campeggia quello all’esploratore #Vittorio_Bottego, uomo con idee precise sulla superiorità dei bianchi, con due africani in posa sottomessa. La città ne ha discusso la rimozione recentemente.

    Senza spingersi agli eccessi della cancel culture, una riflessione su quella memoria perduta pare necessaria. Il libro di Filippi si fa carico di avviarla. Veniamo da una stagione che ha rivelato incrostazioni razziste mai ripulite dalla società italiana, oggi evidenziate quasi come un merito da discorsi di odio e da montagne di fake news su social e media premianti in termini elettorali. Filippi si è specializzato nella rivisitazione di luoghi comuni e della mitologia fascista dopo aver distrutto le bufale sui presunti progressi del regime e sulla figura del duce come buon governante (vedi il suo Mussolini ha fatto anche cose buone, Bollati Boringhieri). Qui ricostruisce con sintesi efficace e una buona compilazione storica cosa accadde veramente nelle colonie dove l’Italia è rimasta 60 anni, tre generazioni, passando dal tentativo di espansione in Etiopia al relativo disimpegno della Prima guerra mondiale e infine al nuovo impulso fascista che intendeva ricreare i fasti dell’Impero romano. Filippi illustra la definitiva rimozione politica del colonialismo italiano nell’Italia repubblicana dovuta all’imbarazzo per i crimini contro l’umanità commessi in Libia e poi durante l’invasione e l’occupazione dell’Etiopia con l’uso dei gas tossici. E i metodi repressivi spietati di cui poco sappiamo in Libia e in Etiopia per domare i ribelli con stragi, pubbliche esecuzioni, deportazioni e lager. Il 19 febbraio in Etiopia è il giorno del ricordo delle 19mila vittime delle rappresaglie italiane del 1937 sulla popolazione civile per l’attentato al viceré Rodolfo Graziani, che già in Libia si era costruito la solida fama di “macellaio del Fezzan” e al quale Affile, il comune natio, ha pensato bene di dedicare 10 anni fa un discutibile e assai discusso sacrario. Interessante l’analisi della propaganda coloniale.

    Filippi sottolinea che il radicato concetto razzista della missione italiana di andare in colonia a liberare i popoli abissini dalla schiavitù e a conquistare bellezze esotiche dai facili costumi (spesso poco più che bambine vendute per sfamarsi da famiglie in miseria) è prefascista. Fu ideato dai governi dell’Italia liberale per attirare le masse dei territori più depressi in Africa. Gli italiani crearono l’Eritrea che ancor oggi si rifà ai vecchi confini coloniali, ma vi perfezionarono un vero e proprio apartheid. Le leggi razziali del 1938 diedero il colpo di grazia vietando le unioni miste e creando una legione di figli di nessuno, i meticci. Altro tabù, il silenzio sulla voragine provocata nel bilancio statale dall’esperienza coloniale. L’Italia unita volle buttarsi per ultima nella corsa all’Africa spinta dai circoli di industriali e imprenditori nazionalisti per aprire nuovi mercati e dare terra da coltivare alla manodopera in esubero delle campagne creando consenso politico. Meglio il Corno dell’America Latina, recitavano la propaganda liberale e poi quella di regime. Ma non fu molto ascoltata, né le colonie raggiunsero la sostenibi-lità, come diremmo oggi. Anzi.

    Insomma le strade vennero costruite bene, ma per farle usare dagli italiani, conclude Filippi. Non tutto è da buttare, aggiungiamo. È rimasto in Africa un pezzo di cultura italiana, si parla ancora la lingua, esempi di architettura razionalista caratterizzano Asmara, Addis Abeba, scuole e comunità di italiani d’Africa con o senza passaporto resistono anche se non hanno più voce. Molti imprenditori e lavoratori che scelsero di rimanere in Etiopia ed Eritrea soprattutto portarono le loro competenze. La Libia ha una storia più complessa. Resta da indagare l’opera umanitaria in campo sanitario, scolastico e agricolo di missionari e Ong mentre la cooperazione pubblica come sappiamo ha luci e ombre. Ma questa è un’altra storia.

    https://www.avvenire.it/agora/pagine/italiani-in-africa-il-mito-della-bont

    #mythe #italiani_brava_gente #brava_gente #colonialisme #colonialisme_italien #Italie #Italie_coloniale #histoire #violence #racisme #ignorance #passé_colonial #déni #statue #Parme #Parma #mémoire

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    • Citation tirée de l’article ci-dessus autour de la statue en l’honneur de Vittorio Bottego à Parme:

      «O nei monumenti. Davanti alla stazione di Parma campeggia quello all’esploratore Vittorio Bottego, uomo con idee precise sulla superiorità dei bianchi, con due africani in posa sottomessa. La città ne ha discusso la rimozione recentemente.»

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      Il consigliere Massari: «La statua di Bottego esalta il colonialismo»

      Nel dibattito, Massari ha chiarito che non intendeva proporre la rimozione della statua.

      Una mozione presentata in Consiglio comunale dal consigliere Marco Maria Freddi a favore dell’istituzione di una giornata a ricordi delle stragi del colonialismo italiano e di una strada intitolata ha fatto emergere una clamorosa proposta del consigliere Giuseppe Massari (Parma protagonista).

      Nel suo intervento, a favore della mozione, Massari ha proposto una riflessione sull’opportunità di togliere dalla sua collocazione il monumento all’esploratore parmigiano Vittorio Bottego “in quanti rappresenta un’esaltazione del colonialismo italiano con la presenza di due guerrieri africani in posizione sottomessa. Personalmente - ha concluso Massari - provo un pugno nello stomaco ogni volta che passo di lì e una riflessione andrebbe aperta”.

      Il presidente Tassi Carboni ha sottolineato che “il monumento andrebbe contestualizzato con una spiegazione , ma non rimosso , perché viene vissuto ormai come parte del paesaggio urbano e non come esaltazione del colonialismo “. Sulla mozione si è diviso il gruppo di maggioranza di Effetto Parma, con il capogruppo Salzano e Bozzani che hanno dichiarato la propria contrarietà e Fornari e Quaranta favorevoli.

      In un successivo intervento di Vito a favore della mozione Massari ha chiarito che “la rimozione del monumento a Bottego capisco sarebbe difficoltosa ma lancia un messaggio di supremazia che andrebbe contestualizzato e quindi spiegato con un cartello il significato della statua”.

      Dopo un intervento di Laura Cavandoli che lo criticava per la proposta di rimuovere la statua di Bottego Massari ha chiarito che non intendeva proporre la rimozione della statua. La mozione è passata con 23 si e 5 no espressi da Lega e dai 2 consiglieri di Effetto Parma Salzano e Bozzani.

      https://www.gazzettadiparma.it/parma/2021/11/23/news/il-consigliere-massari-la-statua-di-bottego-esalta-il-colonialismo-3

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      #pétition:
      Giuseppe Verdi al posto di Vittorio Bottego

      Cari parmigiani

      E se rimuovessimo la statua di Vittorio Bottego dal piazzale della stazione?

      Prima di accusarci di iconoclastia, fermatevi un momento a pensare.

      Cosa rappresenta la statua nel piazzale di fronte alla stazione di Parma?
      La statua ci mostra un trionfante e fiero colonialista, Vittorio Bottego, un bianco, che si erge su due persone abbattute a terra, prostrate ai suoi piedi. Due neri.

      Questa statua celebra e racconta un’epoca del nostro passato relativamente recente, in cui anche noi abbiamo massacrato gli africani, la loro cultura, la loro identità per aumentare ed imporre il nostro potere politico ed economico e la nostra cultura. La nostra presunta supremazia.

      A Bristol, Inghilterra, le manifestazioni per il #blacklivesmatter hanno raggiunto l’apice della protesta simbolica con l’abbattimento della statua in bronzo dedicata ad Edward Colston, politico inglese e mercante di schiavi.

      E la nostra statua dedicata a Vittorio Bottego dove si trova?
      I parmigiani lo sanno: si trova esattamente davanti alla stazione, in piazzale Dalla Chiesa.
      Quella statua è quindi la prima cosa che Parma - città della musica e capitale europea del cibo - offre ai turisti e ai lavoratori che giungono in treno nella nostra città.

      La storia recente, i fatti di ieri e di oggi ci dicono che questo simbolo, questa narrazione che mostra una civiltà annientarne un’altra, non ha più ragione di esistere.

      La società sta cambiando, ed ogni epoca di cambiamento si lega necessariamente a nuovi simboli. I simboli infatti sono strumenti di traduzione di concetti complessi in strumenti di comunicazione e diffusione di tali concetti, semplificati.

      E se a questo momento di cambiamento associamo il fatto che Parma2020, l’evento che vedrà Parma nel ruolo di capitale italiana della cultura, siano state spostate di un anno a causa della pandemia, quale occasione migliore per Parma stessa per trasmettere a tutt’Italia e a tutt’Europa un messaggio dal forte contenuto simbolico?

      Lo proponiamo ufficialmente.

      Togliamo la statua di Vittorio Bottego dal piazzale della Stazione.
      Riponiamola in un museo. La storia non va distrutta.

      Ma la storia va verso il futuro.
      Ed il futuro sta accadendo ora. In tutto il mondo.
      Non perdiamo questo appuntamento con la storia.

      Installiamo una statua dedicata al Maestro Giuseppe Verdi.

      Pensateci.
      Il turista, il visitatore, il lavoratore che giunge a Parma e scende dal treno, appena esce dalla stazione si troverebbe davanti la statua della personalità forse più importante della storia della nostra città.

      Verdi è un simbolo mondiale di musica, cultura, di bellezza.
      Perché non dare il benvenuto a chi viene da fuori con una piazza ed una via a lui dedicata, che conduca i turisti nel cuore di Parma?

      Ci rivolgiamo in primis ai cittadini di Parma.
      Senza di voi, senza il vostro supporto, questa proposta non passerà mai.

      Se invece, come speriamo, dovesse raccogliere adesioni, a quel punto potremo rivolgerci anche al Consiglio Comunale, che crediamo potrebbe accogliere in larga maggioranza questa proposta.

      Quanto sarebbe bello togliere quella statua, simbolo di oppressione e di un passato che ha caratterizzato la sofferenza di milioni di persone, e ridare identità e quindi valore a quella Piazza e alla città stessa?

      «Benvenuti a Parma, città della Musica»
      Non ci sarebbe nemmeno più bisogno di dirlo.
      Qualsiasi turista, di qualsiasi nazionalità, lo capirebbe immediatamente, scendendo dal treno e ritrovandosi davanti non più un simbolo di oppressione, ma un simbolo di cultura universale.

      Si può fare?

      Ci proviamo?

      ParmaNonLoSa

      https://www.change.org/p/consiglio-comunale-di-parma-da-piazza-bottego-a-piazza-giuseppe-verdi?recrui

    • Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie


      Tra i molti temi che infiammano l’arena pubblica del nostro Paese ne manca uno, pesante come un macigno e gravido di conseguenze evidenti sulla nostra vita qui e ora. Quando in Italia si parla dell’eredità coloniale dell’Europa si punta spesso il dito sull’imperialismo della Gran Bretagna o su quello della Francia, ma si dimentica volentieri di citare il nostro, benché il colonialismo italiano sia stato probabilmente il fenomeno più di lunga durata della nostra storia nazionale. Ma è una storia che non amiamo ricordare.

      Iniziata nel 1882, con l’acquisto della baia di Assab, la presenza italiana d’oltremare è infatti formalmente terminata solo il primo luglio del 1960 con l’ultimo ammaina-bandiera a Mogadiscio. Si è trattato dunque di un fenomeno che ha interessato il nostro Paese per ottant’anni, coinvolgendo il regno d’Italia di epoca liberale, il ventennio fascista e un buon tratto della Repubblica nel dopoguerra, con chiare ricadute successive, fino a oggi. Eppure l’elaborazione collettiva del nostro passato coloniale stenta a decollare; quando il tema fa timidamente capolino nel discorso pubblico viene regolarmente edulcorato e ricompare subito l’eterno mito autoassolutorio degli italiani «brava gente», i colonizzatori «buoni», persino alieni al razzismo. Siamo quelli che in Africa hanno solo «costruito le strade».
      Se la ricerca storiografica ha bene indagato il fenomeno coloniale italiano, a livello di consapevolezza collettiva, invece, ben poco sappiamo delle nazioni che abbiamo conquistato con la forza e ancora meno delle atroci violenze che abbiamo usato nei loro confronti nell’arco di decenni.
      In questo libro Francesco Filippi ripercorre la nostra storia coloniale, concentrandosi anche sulle conseguenze che ha avuto nella coscienza civile della nazione attraverso la propaganda, la letteratura e la cultura popolare. L’intento è sempre quello dichiarato nei suoi libri precedenti: fare i conti col nostro passato per comprendere meglio il nostro presente e costruire meglio il futuro.

      https://www.bollatiboringhieri.it/libri/francesco-filippi-noi-pero-gli-abbiamo-fatto-le-strade-9788833937
      #mensonges #amnésie
      #livre

  • Etiopia, i conti col passato: la strage di Addis Abeba del 1937

    Sono passati 85 anni ma gli eccidi compiuti dagli invasori italiani - quello di Addis Abeba e quello successivo di Debre Libanòs, ai danni di centinaia di monaci cristiano-copti -, sembrano non avere lasciato traccia nella memoria comune italiana, come del resto tutto il nostro passato coloniale. In Etiopia, invece, il 19 febbraio rappresenta il momento del ricordo di una tragedia collettiva

    È il 19 febbraio del 1937, nel calendario etiopico il 12 Yekatit 1929. Addis Abeba è in festa per celebrare davanti al Ghebì imperiale la nascita di Vittorio Emanuele, il figlio del re, del nuovo imperatore d’Etiopia. Otto granate esplodono alle spalle del viceré, il temutissimo Rodolfo Graziani, e provocano la morte di sette persone e circa cinquanta feriti. Sino al 21 febbraio la capitale etiopica sarà messa a ferro e fuoco, causando la morte e il ferimento di migliaia di civili.

    Quella strage, “Il massacro di Addis Abeba” come è stata definita dallo storico Ian Campbell nel suo testo dedicato all’analisi degli eventi avvenuti nel febbraio 1937, rappresenta solo l’inizio di una carneficina che coinvolgerà anche il monastero cristiano-copto di Debre Libanòs. Luogo mistico situato nella regione Oromo, a nord di Addis Abeba, divenne teatro di una storica “vergogna italiana” (per riprendere il sottotitolo del testo di Campbell).

    Paolo Borruso, nel suo testo Debre Libanòs 1937: il più grave crimine di guerra dell’Italia (edito da Laterza nel 2020), ricostruisce le inquietanti vicende che hanno contraddistinto una delle pagine più buie del colonialismo italiano. Il convento di Debre Libanòs era considerato il luogo di ospitalità di alcuni degli attivisti della resistenza etiopica che avevano partecipato all’attentato contro il viceré, anche se dalle ricostruzioni di Borruso emerge che gli attentatori si fossero solo ritirati brevemente presso il monastero.

    La strage, compiuta dalle truppe italiane guidate dal generale Pietro Maletti ai danni dei monaci, si consumò tra il 21 e il 29 maggio 1937, causando la morte di circa 450 monaci. Le spedizioni punitive elaborate dalla mente del generale Graziani (passato alla storia come il “macellaio del Fezzan”, per i metodi feroci utilizzati nella riconquista dell’area libica tra il 1929 e il 1930), sembra facessero parte di un piano ben dettagliato di violenza su vasta scala che aveva lo scopo di esibire la forza delle truppe coloniali italiane e costringere alla resa l’élite etiopica.

    Sono passati 85 anni ma, sia la strage di Addis Abeba, sia il massacro di Debre Libanòs, sembrano non avere lasciato traccia nella memoria comune italiana, come del resto tutto il nostro passato coloniale. Tralasciando le meritorie ricostruzioni storiche di Angelo Del Boca, la storiografia italiana ha poco sottolineato la gravità dei crimini commessi durante l’occupazione italiana dell’Etiopia.

    Nel 2006 alla Camera dei deputati fu presentato un progetto di legge recante il seguente titolo: Istituzione del «Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana». Nel preambolo della proposta di legge si riconosce l’importanza della strage e la si definisce come “giornata simbolo in memoria delle migliaia di civili africani etiopici, eritrei, libici e somali, morti nel corso delle conquiste coloniali”.

    In Etiopia, invece, il 19 febbraio rappresenta il momento di condivisione di una tragedia collettiva. Nel 1955 un obelisco è stato eretto nella capitale per commemorare questa “inutile strage” e da allora, anche durante il governo socialista del Derg, ogni presidente ha reso omaggio alle vittime del colonialismo italiano. Se ancora parzialmente restano sul terreno le vestigia dell’architettura italiana in Etiopia (uno fra tanti il quartiere Incis, oggi Kazanchis), nella nostra memoria non vi sono neppure le macerie.

    https://www.nigrizia.it/notizia/etiopia-i-conti-col-passato-la-strage-di-addis-abeba-del-1937

    #fascisme #Italie #colonialisme #massacre #massacre_d'Addis_Abeba #19_février_1937 #Debre_Libanòs #Ethiopie #Italie #Italie_coloniale #colonialisme #histoire #passé_colonial #Rodolfo_Graziani #Graziani #Pietro_Maletti #Maletti #macellaio_del_Fezzan #violence #Incis #Kazanchis

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    ajouté à ce fil de discussion:
    #Addis_Ababa_massacre memorial service – in pictures
    https://seenthis.net/messages/671162
    et à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    • Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia

      Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858139639
      #crimes_de_guerre #livre

  • Musée d’art et d’histoire de #Neuchâtel
    –-> Recherches passé colonial

    Dans un souci d’intégrer les acquis de la recherche et de stimuler la réflexion face aux enjeux contemporains liés au #passé_colonial de la Suisse, le #MahN entend mettre à disposition du public des sources et des indications bibliographiques sur l’implication de Neuchâtelois dans la #traite_négrière et l’#esclavage.

    https://www.mahn.ch/fr/expositions/recherches-passe-colonial-1

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    #Séminaire UNINE sur la statue de #David_de_Pury, 7 décembre 2020

    https://www.youtube.com/watch?v=JhSZz3pbIHU


    #de_Pury #monument #mémoire #statue


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    #mémoire de bachelor :
    Déboulonner David de Pury. Une analyse des revendications et des résistances autour du retrait d’un #monument sur la #Place_Pury

    https://www.mahn.ch/fileadmin/mahn/EXPOSITIONS/EXPOSITIONS_ACTUELLES/Recherches_passe_colonial/TEXTES/MemoireMasterUNiNEDaviddePury2021.pdf

    #Suisse #histoire #histoire_coloniale #décolonial

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    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_suisse :
    https://seenthis.net/messages/868109

    • En tête-à-tête avec David de Pury

      Inaugurées hier à Neuchâtel, des œuvres d’art contemporain sont censées porter ombrage à David de Pury. La Ville a choisi cette option plutôt que celle du déboulonnage.

      On dirait à première vue un nain de jardin coulé dans du béton par le collectif chaux-de-fonnier Plonk & Replonk. Mais à y regarder de plus près, c’est bien l’ancien bienfaiteur de Neuchâtel David de Pury, dont la fortune a été érigée au XVIIIe siècle grâce au commerce triangulaire, qui a été légèrement renversé de son piédestal. Du moins symboliquement.

      L’artiste genevois et afro-descendant #Mathias_Pfund a en effet irrévérencieusement bétonné un modèle miniature de cette statue, qu’il a ensuite renversée à 180 degrés pour les besoins d’un art critique et éclairant sur le passé. Choisie par le jury, son œuvre présentée hier à Neuchâtel est cependant nettement moins imposante que l’originale. Elle va pourtant tenter bientôt de dialoguer avec l’auguste statue qui trône sur la place du même nom depuis 1855. Baptisée A scratch on the nose (Une éraflure sur le nez), sa sculpture a été vernie hier par les autorités municipales sur le Péristyle de l’Hôtel de Ville dans le cadre de la semaine d’actions contre le racisme à Neuchâtel. Là aussi tout un symbole.

      Contenter les pétitionnaires

      Par ce type d’actions, l’exécutif veut entretenir son tête-à-tête avec David de Pury en livrant des contrepoids qu’il juge pertinents pour que l’histoire encombrante de la ville continue d’être questionnée. Un geste aussi à l’adresse d’une partie des pétitionnaires qui, au cours de l’été 2020, ont demandé que l’on déboulonne la statue du commerçant dans le sillage d’autres opérations de ce genre menées à travers le monde. Mais au lieu de céder au tabula rasa, la Ville de Neuchâtel a finalement choisi l’option des #marques_mémorielles.

      L’œuvre conçue par Mathias Pfund a été choisie par un jury cornaqué par Pap Ndiaye, lui-même à la tête du Palais de la Porte-Dorée à Paris, qui comprend le Musée d’histoire de l’immigration version française. Il a été secondé dans ses choix par Martin Jakob du Centre d’art de Neuchâtel (CAN), Faysal Mah du Collectif pour la mémoire, Noémie Michel, maître-assistante en science politique à l’université de Genève, Alina Mnatsakanian, coprésidente de Visarte Neuchâtel, et la photographe Namsa Leuba. Trois membres de l’art officiel ont également eu leur mot à dire : l’urbaniste municipal, Fabien Coquillat, le codirecteur du Musée d’ethnographie de Neuchâtel Grégoire Mayor et la conservatrice du département des arts plastiques au Musée d’art et d’histoire, Antonia Nessi.
      Coups de boutoir nécessaires

      Membre du mouvement Solidarités Neuchâtel, François Chédel voit dans cette mise en perspective « un premier pas ainsi qu’une solution pour l’heure satisfaisante ». Du moins en phase avec les réflexions qui entourent le sort de cette statue depuis près de deux ans. Une chose est sûre, l’exécutif n’entend ni rebaptiser la place ni déplacer l’icône du négociant.

      En revanche, l’espace sera revue de fond en comble. Ce qui devrait permettre sans doute aux œuvres sélectionnées, quatre au total, dont celle de Mathias Pfund et celle de l’artiste neuchâtelois #Nathan_Solioz (Ignis fatuus) qui fera appel cet hiver aux âmes des esclaves, de perdurer. « La durée de leur exposition devant la statue est étroitement liée à la question du réaménagement de la place Pury. On peut donc parler de plusieurs années d’exposition, sans être plus précis pour l’instant », ont indiqué au Courrier les autorités municipales.

      Pour François Chédel, les noms qui parsèment l’espace public continuent cependant de nous interroger, à Neuchâtel aussi, sur « nos réalités patriarcales, colonialistes, voire racistes ». Il relève aussi que les actions didactiques menées par la Ville n’auraient sans doute pas été possibles « sans les changements radicaux » exigés voici maintenant près de deux ans par son mouvement ainsi que par d’autres dans la foulée des manifestations Black Lives Matter. Il faut « questionner notre histoire et sa résonance dans l’espace public au travers de nouveaux #récits », a résumé pour sa part récemment le Service cantonal de la cohésion multiculturelle en présentant la Semaine contre le racisme.

      https://lecourrier.ch/2022/03/21/en-tete-a-tete-avec-david-de-pury

    • Place Pury : un hommage raté ?

      Suite à l’inauguration de l’œuvre autour de la statue de Pury, des voix dénoncent une « imposture » et pointent du doigt un hommage aux victimes de l’esclavage « au rabais ».

      La semaine dernière, Neuchâtel inaugurait une oeuvre Great in the Concrete (notre édition du 28 octobre) et une plaque explicative autour de la statue de David de Pury, un négociant qui avait fait fortune avec l’esclavage et légué sa fortune à la ville. Le monument a été au cœur de houleux débats lors du mouvement « Black Lives Matter ». Une pétition demandait en 2020 son retrait (notre édition du 26 juillet 2020).

      Suite à cette polémique, la Ville a lancé une série de mesures pour faire la lumière sur son passé colonial, dont la plaque et l’œuvre.

      Si ces deux initiatives sont présentées par les autorités comme un « #acte_de_mémoire » et un « #hommage » envers les personnes exploitées par le riche baron, le secrétaire général du Carrefour de réflexion et d’action contre le racisme anti-Noirs (CRAN), Kayana Mutombo, se dit très déçu. Il y voit même une #humiliation.

      « Le résultat de ce processus est tout simplement une #imposture », dénonce le politologue. Il déplore les #dimensions de #Great_in_the_Concrete. Il s’agit d’une version #miniature de la statue du bienfaiteur renversée, tête écrasée dans le sol. Le politologue n’était pourtant pas en faveur d’un déboulonnement.

      « J’ai participé aux rencontres initiales, nous avions proposé la création d’un monument bis qui établisse un dialogue entre le monument et les descendants des victimes de l’esclavage. Le résultat est au final une discussion entre de Pury et de Pury. Les voix des victimes et de leurs descendant·es n’y sont pas intégrées. »

      Nommer les victimes de l’esclavage

      Cet ancien chargé du Programme de lutte contre le racisme et la discrimination à l’UNESCO estime que la mémoire des victimes est ainsi minimisée. « Nous avions souligné l’importance de la #proportionnalité entre la statue originale et la nouvelle dans le cadre d’un devoir de mémoire. On rend hommage aux descendant·es aujourd’hui, comme on récompensait les esclaves avec une miche de pain ! »

      Il regrette également que les mots « Noir·es et Afrique » ne figurent pas sur la plaque explicative. « Il faut avoir étudié l’histoire pour comprendre les termes de #commerce_triangulaire et #colonisation. Ne pas nommer les #victimes est l’une des stratégies du racisme anti-Noir·es », déplore Kanyana Mutombo.

      Le collectif pour la mémoire à l’origine de la pétition est plus nuancé. Il estime que « ces mesures ne sont pas suffisantes ni satisfaisantes mais guident sur la voie à emprunter ». Il avance que la Ville de Neuchâtel a pris au sérieux sa demande constituant un groupe de réflexion et en produisant un contenu pédagogique, à défaut d’enlever la statue. Il regrette cependant que le Secrétaire général du CRAN n’ait pas été inclus dans la suite de la réflexion.

      Des moyens dérisoires ?

      D’autres voix déplorent le manque de moyens engagés pour la Ville. Ousmane Dia, artiste plasticien suisse et sénégalais, très enthousiasmé dans le projet a vu ses ardeurs freinées, lorsqu’il a appris que le budget alloué était de 20 000 à 25 000 francs.

      « En tant qu’artiste plasticien afro-descendant, je ne pouvais pas ne pas concourir. Mon projet s’appelle #Dialoguons, il s’agit d’une œuvre monumentale constituée de personnages en acier placés tout autour de de Pury pour l’interpeller. J’ai glissé une lettre dans mon dossier qui mentionne que rien que pour fabriquer l’objet coûte 63 000 francs et que leur budget n’était pas suffisant. »

      Au total, une enveloppe de 66 000 francs a été investie dans le cadre de cet appel à projets artistiques. Quatre projets ont été retenus mais seuls deux verront le jour. Les deux autres n’étaient techniquement pas réalisables. Le projet de #Nathan_Solioz_Ignis_Fatuus, (feu folet), une évocation en lumière des âmes des esclaves morts lors de la traversée forcée de l’Atlantique, sera réalisée au printemps prochain.

      Thomas Facchinetti, conseiller communal en charge de la culture, de l’intégration, de la cohésion sociale et responsable du dossier, précise que le vernissage des deux œuvres primées n’est pas l’unique réponse aux demandes des pétitionnaires.

      « La Ville a pris toute une liste de mesures. Un #parcours_pédagogique sur le passé colonial de la Ville est en cours d’élaboration, une exposition au Musée d’art et d’Histoire aborde ces sujets et des recherches historiques vont être réalisées. Il s’agit d’un engagement très conséquent. »

      Il rappelle que le monument réalisé par le sculpteur #David_d’Angers avait été financé à l’époque par de riches notables, alors que l’initiative actuelle se fait aux frais des contribuables.

      De Pury à Dakar

      Aujourd’hui, #Ousmane_Dia, le candidat déçu se dit surtout choqué par la #taille de l’oeuvre vernie. « J’ai beau retourner le sujet dans tous les sens je n’y vois qu’une interprétation : la statuette nous dit qu’on a tenté de renverser et d’enfoncer de Pury, mais la grande statue répond qu’il s’est relevé encore plus grand.

      Pour Martin Jakob, artiste et curateur au CAN Centre d’art Neuchâtel, membre du jury, le caractère non monumental de l’oeuvre retenue fait tout son sens. « Aucun travail artistique ne permet de panser toutes les plaies. Aujourd’hui, il n’est plus question de réaliser de statues comme à l’époque. D’ailleurs, quel que soit leur taille, ces œuvres d’art finissent par intégrer notre environnement quotidien et s’effacer de notre regard. l’important, c’est le débat qu’elles suscitent. »

      Le collectif pour la mémoire se dit « ravi » par la mise en place de Great in the concrete mais espère qu’un budget pourra être alloué pour concrétiser le projet de Ousmane Dia. « Malgré le fait que la statue soit toujours là et qu’il y aurait encore beaucoup à questionner sur l’acharnement à défendre ce personnage nous souhaitons plutôt se concentrer sur la mémoire de milliers de personnes réduites en esclavage. »

      La saga de Pury n’en est pas à son épilogue. A l’horizon 2028-2029, la place devrait être entièrement requalifiée, la statue pourrait être déplacée et son nom pourrait même être modifié. « Il s’agit d’un projet de plusieurs millions de francs.

      Avec l’enveloppe du pour-cent culturel, un concours artistique sera réalisé, son budget sera bien plus conséquent et permettra d’ériger une œuvre pérenne plus conséquente », précise Thomas Facchinetti. Quant à Ousmane Dia, il envisage de réaliser son projet à Dakar, en reproduisant une statue de David de Pury pour y intégrer son projet Dialoguons.

      https://lecourrier.ch/2022/10/30/place-pury-un-hommage-rate

    • La statue, l’esclavagiste et le #contre-monument contestés

      Fin décembre 2022, à Neuchâtel, une récente installation d’art contemporain, conçue comme réponse à la statue de l’esclavagiste David de Pury contestée en 2020 par des militants se revendiquant de « Black Lives Matter », a été à son tour maculée de peinture. Ce dispositif didactique et conceptuel déployé dans l’espace public, qui compte parmi les premiers adoptés en Europe pour réparer symboliquement les mémoires citoyennes blessées, est un contre-monument ironique, temporaire et anti-monumental.

      https://aoc.media/analyse/2023/02/07/la-statue-lesclavagiste-et-le-contre-monument-contestes

      et sur seenthis : https://seenthis.net/messages/989775

  • Six thérapeutes transculturelles pour p(e)anser les plaies du trauma colonial
    https://desoriental.fr/therapie-transculturelle-decoloniale

    mis à jour le 01/12/2021

    "Comme nous le rappelle tristement l’actualité en Guadeloupe, le passé esclavagiste et colonial de la France a encore des conséquences aujourd’hui, économiques et politiques, mais aussi dans les âmes et dans les corps.

    Cette semaine, on t’emmène faire un tour du côté des thérapies transculturelles (car non, la psychologie et la psychiatrie ne sont pas universelles mais bien ancrées culturellement.), un champ d’étude et d’action en santé mentale encore peu connu, et qui pourtant pourrait nous aider, collectivement et individuellement, à penser et à panser les plaies du trauma colonial.

    On parle d’approches thérapeutiques transculturelles, décoloniales ou encore d’ethnopsychiatrie. L’occasion de rappeler que n’importe qui peut aller consulter un.e psychiatre. Il s’agit juste d’un.e professionnel.le qui allie psychologie et médecine et offre une modalité (remboursée par la sécu’) de prendre soin de sa santé mentale. Et comme dirait l’autre, les 20% qui vont en thérapie y vont à cause des 80% qui n’y vont pas. A bon entendeur !

    Cette semaine donc, on te présente six thérapeutes transculturelles et/ou décoloniales à suivre ou à consulter. Ces six femmes, de générations et de cultures différentes, ont toutes pour point commun d’avoir à un moment de leur vie, ressenti le besoin viscéral d’apporter une solution à cet angle mort de la santé mentale française. Elles offrent à leurs patient.e.s des espaces sécurisés qui prennent en compte leurs spécificités culturelles mais aussi l’impact des oppressions systémiques sur leurs vécus, sans jugement.
    En introduction, aux origines des approches thérapeutiques transculturelles

    Impossible de citer toutes les contributions majeures au champ des thérapies transculturelles, aussi nous te présentons très subjectivement deux personnalités dont la pensée est un repère toujours pertinent pour comprendre la réalité psychologique des Français.e.s transculturel.le.s post-coloniaux.ales :

    L’incontournable Frantz Fanon, psychanalyste français afro-caribéen fortement impliqué dans la lutte pour l’indépendance algérienne et enterré en Algérie, est l’un des premiers à envisager la part psychologique du processus et du système de colonisation et à décrire les séquelles et aliénations de la colonisation sur la psyché des sujets colonisés.

    Alice Cherki, psychanalyste judéo-algéroise indépendantiste et disciple de Fanon est, elle, toujours vivante et sa réflexion n’a fait que suivre l’évolution des générations de déraciné.e.s, comme en témoigne son livre de 2007 La Frontière invisible, violence de l’immigration. Le trauma n’est plus vécu mais hérité des générations précédentes, souvent dans le silence, souvent par le corps.
    Six praticiennes transculturelles et/ou décoloniales

    1. Marie-Ève Hoffet-Gachelin, pédopsychiatre franco-vietnamienne

    Elle exerce au centre médico-psycho-pédagogique de Colombes et a fait de la recherche sur la pédopsychiatrie post-coloniale en partant de sa connaissance des parcours post-coloniaux franco-vietnamiens.
    2. Hagere Mogaadi, psychanalyste inclusive à Paris

    Elle se présente comme décolonialiste, queer friendly, musulmane, féministe et transculturelle.

    Au-delà des consultations, elle propose du contenu autour des questions identitaires et de santé mentale sur son compte instagram : @la_psy_qui_cause.
    3. Selma Sardouk, coach décoloniale et féministe

    Selma n’est pas thérapeute mais coach formée en hypnose et en thérapies brèves, créatrice de contenu autour des questions décoloniales et féministes.

    Elle vulgarise des sujets très précis en formats très synthétiques. Mais on adore les Reels de son compte Instagram @selmasardouk qui mettent le doigt sur ces micro-moments où on peut se sentir incompris.e ou en colère face au racisme ordinaire voire bienveillant, en tant que Français.e transculturel.le. Rire libérateur assuré !
    4. Amalani Simon, psychologue clinicienne franco-indienne

    Elle exerce à l’hôpital Avicenne de Bobigny et est fortement impliquée dans la psychanalyse transculturelle et a notamment produit des travaux de recherche autour des liens entre psychologie et langage des enfants français d’ascendance tamoule.
    5. Soumaëla Boutant, psychologue interculturelle française afro-caribéenne

    L’intérêt de Soumaëla pour la psychologie interculturelle naît pendant ses études, où elle sent une sorte de dissonnance “entre [son] vécu de jeune femme française et afrocaribéenne et certaines théories qui [lui] étaient enseignées à l’université”.

    Basée en Guadeloupe, Soumaëla propose des consultations de psychologie interculturelle en visio spécifiquement pour les caribéen.ne.s francophones expatrié.e.s.
    6. Karima Lazali, psychologue franco-algérienne

    Elle exerce à Levallois-Perret en libéral et a écrit Le trauma colonial, une enquête sur les effets psychiques et politiques contemporains de l’oppression coloniale en Algérie.❞

    #colonial #France #psychologie #trauma

  • Héritages coloniaux. Les #Suisses_d'Algérie

    Quels rapports les pays européens entretiennent-ils avec leur #passé_colonial ? La manière dont ils traitent, relisent, reconstruisent, oublient ou dissimulent ce volet de leur histoire est déterminante pour comprendre la géopolitique mondiale d’aujourd’hui, et questionner nos sociétés actuelles.
    La Confédération, sous sa cape de #neutralité, a longtemps nié son implication dans des processus coloniaux. Pourtant, des Suisses ont participé du #peuplement de « l’#Algérie_française », où ils ont exercé des formes de #domination, notamment via des #investissements_privés. À la proclamation de l’indépendance algérienne, la Confédération s’est trouvée face à la délicate organisation du « #retour » des colons helvètes. Suite aux nationalisations et aux expropriations outre-mer, des biens ont dû être protégés, des pensions versées.
    Ce livre offre de précieux outils pour appréhender l’#histoire_coloniale dans un monde décolonisé. Étayée par des sources d’archives suisses, françaises, italiennes et anglaises – pour la plupart inédites –, cette étude reconstitue les jeux d’échelles et met en évidence le rôle déterminant de l’Association des Suisses spoliés d’Algérie ou d’outre-mer.

    https://www.seismoverlag.ch/fr/daten/heritages-coloniaux

    #colonialisme #colonisation #Suisse #Algérie #Association_des_Suisses_spoliés_d'Algérie_ou_d'outre-mer (#ASSAOM) #Marisa_Fois
    #livre

    –—

    Ajouté à la métaliste sur la Suisse coloniale :
    https://seenthis.net/messages/868109

    ping @cede

  • L’oublieuse mémoire coloniale italienne

    Commencée avant le fascisme, galvanisée par Mussolini, la colonisation par l’Italie de la Libye, de la Somalie et de l’Ethiopie fut marquée par de nombreuses atrocités,loin du mythe d’une occupation douce. Longtemps refoulés, ces souvenirs commencent à ressurgir

    Tout commence dans le centre de Rome, sur l’Esquilin, la plus haute des sept collines antiques. Plus précisément dans la cage d’escalier d’un immeuble sans ascenseur, situé à deux pas de la piazza Vittorio. Dans ce quartier à deux pas de la gare Termini, les prix de l’immobilier sont beaucoup plus modestes que dans le reste du centre, si bien que l’Esquilin est devenu, depuis une vingtaine d’années, un lieu de concentration de l’immigration africaine et asiatique, ce qui n’est pas sans provoquer des tensions le squat, occupé depuis 2003 par les militants néofascistes de CasaPound, est juste à côté.

    C’est donc là, en rentrant chez elle, épuisée, dans la touffeur d’une après-midi de fin d’été 2010, qu’Ilaria Profeti se retrouve nez à nez avec un jeune homme arrivé d’Ethiopie par la route des migrants. Dans un italien presque sans accent, celui-ci lui assure, documents à l’appui, qu’il est le petit-fils de son père, Attilio, un homme de 95 ans qui est resté, sa longue vie durant, plus que discret sur ses jeunes années de « chemise noire » fasciste, en Abyssinie.

    Levons toute ambiguïté : la scène qui vient d’être décrite est tout à fait vraisemblable, mais elle est issue d’une oeuvre de fiction. Il s’agit en réalité des premières pages d’un roman, le superbe Tous, sauf moi (Sangue giusto), de Francesca Melandri (Gallimard, 2019), qui dépeint avec une infinie subtilité les angles morts de la mémoire coloniale italienne. Le fil conducteur de la narration est le parcours sinueux d’un vieil homme dont le destin finalement assez ordinaire a valeur d’archétype.

    Issu d’un milieu plutôt modeste, Attilio Profeti a su construire à sa famille une position plutôt enviable, en traversant le mieux possible les différents mouvements du XXe siècle. Fasciste durant sa jeunesse, comme l’immense majorité des Italiens de son âge, il est parti pour l’Ethiopie, au nom de la grandeur impériale. Après la chute de Mussolini et la fin de la guerre, il parviendra aisément à se faire une place au soleil dans l’Italie du miracle économique, jouant de son physique avantageux et de ses amitiés haut placées, et enfouissant au plus profond de sa mémoire le moindre souvenir de ses années africaines, les viols, les massacres, les attaques chimiques. C’est ce passé, refoulé avec une certaine désinvolture, qui revient hanter ses enfants, trois quarts de siècle plus tard, sous les traits d’un jeune homme d’une vingtaine d’années, arrivé à Rome après une interminable traversée.

    Comme l’héroïne de Tous, sauf moi, Francesca Melandri vit sur l’Esquilin, au dernier étage d’un immeuble à la population mélangée. Et à l’image d’Ilaria, c’est sur le tard qu’elle a découvert ce pan escamoté de l’histoire italienne. « Quand j’étais à l’école, on ne parlait pas du tout de ce sujet-là, confie-t-elle depuis sa terrasse dominant les toits de la ville. Aujourd’hui ça a changé, il y a eu une prise de conscience, et de nombreux travaux universitaires. Pourtant cette histoire n’est jamais rappelée par les médias. Lorsqu’on parle du dernier attentat à la bombe à Mogadiscio, qui se souvient des liens entre Italie et Somalie ? Quand des bateaux remplis de migrants érythréens sont secourus ou coulent avant d’être sauvés, qui rappelle que l’Erythrée, nous l’appelions "l’aînée des colonies" ? »

    Le plus étrange est qu’à Rome, les traces du passé colonial sont légion, sans que personne n’ait jamais pensé à les effacer. Des stèles près desquelles personne ne s’arrête, des bâtiments anonymes, des noms de rue... rien de tout cela n’est explicité, mais tout est à portée de main.

    Comprendre les raisons de cette occultation impose de revenir sur les conditions dans lesquelles l’ « Empire » italien s’est formé. Création récente et n’ayant achevé son unité qu’en 1870, alors que la plus grande partie du monde était déjà partagée en zones d’influence, le royaume d’Italie s’est lancé avec du retard dans la « course » coloniale. De plus, il ne disposait pas, comme l’Allemagne qui s’engage dans le mouvement à la même époque, d’une puissance industrielle et militaire susceptible d’appuyer ses prétentions.

    Visées impérialistes

    Malgré ces obstacles, l’entreprise coloniale est considérée par de nombreux responsables politiques comme une nécessité absolue, à même d’assurer une fois pour toutes à l’Italie un statut de grande puissance, tout en achevant le processus d’unification du pays nombre des principaux avocats de la colonisation viennent de la partie méridionale du pays. Les visées impérialistes se dirigent vers deux espaces différents, où la carte n’est pas encore tout à fait figée : la Méditerranée, qui faisait figure de champ naturel d’épanouissement de l’italianité, et la Corne de l’Afrique, plus lointaine et plus exotique.

    En Afrique du Nord, elle se heurta vite à l’influence française, déjà solidement établie en Algérie. Ses prétentions sur la Tunisie, fondées sur la proximité de la Sicile et la présence sur place d’une importante communauté italienne, n’empêcheront pas l’établissement d’un protectorat français, en 1881. Placé devant le fait accompli, le jeune royaume d’Italie considérera l’initiative française comme un véritable acte de guerre, et la décennie suivante sera marquée par une profonde hostilité entre Paris et Rome, qui poussera le royaume d’Italie à s’allier avec les grands empires centraux d’Allemagne et d’Autriche-Hongrie plutôt qu’avec sa « soeur latine .

    Sur les bords de la mer Rouge, en revanche, la concurrence est plus faible. La première tête de pont remonte à 1869, avec l’acquisition de la baie d’Assab (dans l’actuelle Erythrée) par un armateur privé, pour le compte de la couronne d’Italie. Cette présence s’accentue au cours des années 1880, à mesure du recul de l’influence égyptienne dans la zone. En 1889, est fondée la colonie d’Erythrée, tandis que se structure au même moment la Somalie italienne. Mais l’objectif ultime des Italiens est la conquête du my thique royaume d’Abyssinie, qui s’avère plus difficile que prévu.

    En 1887, à Dogali, plusieurs centaines de soldats italiens meurent dans une embuscade menée par un chef abyssin, le ras Alula Engida. Cette défaite marque les esprits, mais ce n’est rien à côté de la déconfiture des forces italiennes lors de la bataille d’Adoua, le 1er mars 1896, qui porte un coup d’arrêt durable aux tentatives italiennes de conquête.

    Seul pays africain indépendant (avec le Liberia), l’Ethiopie peut désormais se targuer de devoir sa liberté à une victoire militaire. Le négus Menelik II y gagne un prestige considérable. Côté italien, en revanche, cette défaite est un électrochoc. Ressentie comme une honte nationale, la déroute des troupes italiennes entraîne la chute du gouvernement Crispi et freine durablement l’im périalisme italien.

    Adoua est un tournant. L’historien et ancien sénateur de gauche Miguel Gotor est l’auteur d’une remarquable synthèse sur le XXe siècle italien, L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon (« L’Italie du XIXe siècle. De la défaite d’Adoua à la victoire d’Amazon » Einaudi, 2019, non traduit). Pour lui, c’est là-bas, sur les hauteurs de la région du Tigré, par cette humiliation retentissante, que le XXe siècle italien a commencé.

    L’aventure coloniale italienne s’est ouverte de façon peu concluante, mais l’aspiration à l’empire n’a pas disparu. La décomposition de l’Empire ottoman offrira à Rome une occasion en or, en lui permettant, en 1911-1912, de s’implanter solidement en Cyrénaïque et en Tripolitaine. « Souvent la conquête de ce qui allait devenir la Libye est évacuée un peu vite, mais c’est un moment très important. Pour l’armée italienne, c’est une répétition, un peu comme a pu l’être la guerre d’Espagne, juste avant la seconde guerre mondiale », souligne Miguel Gotor. Ainsi, le 1er novembre 1911, un aviateur italien lâche quatre grenades sur des soldats ottomans, réalisant ainsi le premier bombardement aérien de l’histoire mondiale.

    « La conquête des côtes d’Afrique du Nord est importante, certes, mais la Libye est juste en face de la Sicile, au fond c’est du "colonialisme frontalier". La colonie au sens le plus "pur", celle qui symboliserait le mieux l’idée d’empire, ça reste l’Abyssinie », souligne Miguel Gotor. Aussi les milieux nationalistes italiens, frustrés de ne pas avoir obtenu l’ensemble de leurs revendications territoriales au sortir de la première guerre mondiale, continueront à nourrir le rêve de venger l’humiliation d’Adoua.

    Le fascisme naissant ne se privera pas d’y faire référence, et d’entretenir le souvenir : les responsables locaux du parti se feront appeler « ras », comme les chefs éthiopiens. A partir de la fin des années 1920, une fois le pouvoir de Mussolini solidement établi, les prétentions coloniales deviendront un leitmotiv des discours officiels.

    Aussi la guerre de conquête déclenchée contre l’Ethiopie en 1935 est-elle massi vement soutenue. L’effort est considérable : plus de 500 000 hommes sont mobilisés. Face à un tel adversaire, le négus Haïlé Sélassié ne peut résister frontalement. Le 5 mai 1936, les soldats italiens entrent dans la capitale, Addis-Abeba, et hissent le drapeau tricolore. Quatre jours plus tard, à la nuit tombée, depuis le balcon du Palazzo Venezia, en plein coeur de Rome, Mussolini proclame « la réapparition de l’Empire sur les collines fatales de Rome » devant une foule de plusieurs centaines de milliers de personnes.

    « C’est bien simple, à ce moment-là, en Italie, il est à peu près impossible d’être anti fasciste », résume Miguel Gotor. Dans la foulée de ce succès, le roi Victor-Emmanuel III est proclamé empereur d’Ethiopie ; Benito Mussolini peut désormais se targuer d’avoir bâti un empire. La faillite d’Adoua avait été causée par un régime parle mentaire inefficace et désorganisé ? La victoire de 1936 est due, elle, aux vertus d’une Italie rajeunie et revigorée par le fascisme. La machine de propagande tourne à plein régime, l’assentiment populaire est à son sommet. « Ce moment-là est une sorte d’apogée, et à partir de là, la situation du pays se dégrade, analyse Miguel Gotor. Ar rivent les lois raciales, l’entrée en guerre... tout est réuni pour nourrir une certaine nostalgie de l’épopée éthiopienne. »

    Mécanisme de refoulement

    Le rêve impérial sera bref : il ne survivra pas à la défaite militaire et à la chute du fascisme. L’Ethiopie est perdue en 1941, la Libye quelques mois plus tard... Le traité de Paris, conclu en 1947, met officiellement un terme à une colonisation qui, dans les faits, avait déjà cessé d’exister depuis plusieurs années. Tandis que l’Ethiopie indépendante récupère l’Erythrée, la Libye est placée sous la tutelle de la France et du Royaume-Uni. Rome gardera seulement une vague tutelle sur la Somalie, de 1949 à 1960.

    Le projet d’empire colonial en Méditerranée et en Afrique, qui fut un des ciments de l’assentiment des Italiens à Mussolini, devient associé pour la plupart des Italiens au régime fasciste. L’un et l’autre feront l’objet du même mécanisme de refoulement dans l’Italie de l’après-guerre. Les dirigeants de l’Italie républicaine font rapidement le choix de tourner la page, et ce choix est l’objet d’un profond consensus qui couvre tout le spectre politique (le premier décret d’amnistie des condamnations de l’après-guerre remonte à 1946, et il porte le nom du dirigeant historique du Parti communiste italien Palmiro Togliatti). Les scènes de liesse de la Piazza Venezia ne seront plus évoquées, et avec elles les faces les plus sombres de l’aventure coloniale. Même la gauche transalpine, qui prendra fait et cause pour les mouvements anticoloniaux africains (notamment le FLN algérien) n’insistera jamais sur le versant italien de cette histoire.

    « Cela n’est pas étonnant, la mémoire est un phénomène sélectif, et on choisit toujours, consciemment ou non, ce qu’on va dire à ses enfants ou ses petits-enfants », remarque le jeune historien Olindo De Napoli (université de Naples-Frédéric-II), spécialiste de la période coloniale. « Durant l’immédiat après-guerre, ce sont les témoins qui parlent, ce sont eux qui publient », remarque l’his torien. Ainsi de la collection d’ouvrages L’Italia in Africa éditée sous l’égide du ministère des affaires étrangères, emblématique de la période. « Ces volumes sont passionnants, mais il y a certains oublis, qui vont vite poser des problèmes. »

    Parmi ces « oublis », la question la plus centrale, qui fera le plus couler d’encre, est celle des massacres de civils et de l’usage de gaz de combat, malgré leur interdiction par les conventions de Genève, lors de la guerre d’Ethiopie. Dans les années 1960, les études pionnières d’Angelo Del Boca et Giorgio Rochat mettront en lumière, documents officiels à la clé, ce pan occulté de la guerre de 1935-1936. Ils se heurteront à l’hostilité générale des milieux conservateurs.

    Un homme prendra la tête du mouvement de contestation des travaux de Del Bocaet Rochat : c’est Indro Montanelli (1909-2001), considéré dans les années 1960 comme le journaliste le plus important de sa géné ration. Plume du Corriere della Sera (qu’il quittera pour fonder Il Giornale en 1974), écrivain d’essais historiques à l’immense succès, Montanelli était une figure tutélaire pour toute la droite libérale.

    Comme tant d’autres, il avait été un fasciste convaincu, qui s’était porté volontaire pour l’Ethiopie, et il n’a pris ses distances avec Mussolini qu’en 1943, alors que la défaite était apparue comme certaine. Ra contant « sa » guerre à la tête d’une troupe de soldats indigènes, Montanelli la décrit comme « de longues et belles vacances », et qualifie à plusieurs reprises d’ « anti-Italiens » ceux qui font état de massacres de civils et d’usage de gaz de combat. La polémique durera des années, et le journaliste sera bien obligé d’admettre, à la fin de sa vie, que les atrocités décrites par Rochat et Del Bocaavaient bien eu lieu, et avaient même été expressément ordonnées par le Duce.

    A sa manière, Montanelli incarne parfaitement la rhétorique du « bon Italien » (« Italia brava gente »), qui sera, pour toute une génération, une façon de disculper l’homme de la rue de toute forme de culpabilité collective face au fascisme. Selon ce schéma, contrairement à son allié allemand, le soldat italien ne perd pas son humanité en endossant l’uniforme, et il est incapable d’actes de barbarie. Ce discours atténuant la dureté du régime s’étend jusqu’à la personne de Mussolini, dépeint sous les traits d’un chef un peu rude mais bienveillant, dont le principal tort aura été de s’allier avec les nazis.

    Ce discours trouve dans l’aventure coloniale un terrain particulièrement favorable. « Au fond, on a laissé s’installer l’idée d’une sorte de colonisation débonnaire, analyse Olindo De Napoli, et ce genre de représentation laisse des traces. Pourtant la colonisation italienne a été extrêmement brutale, avant même le fascisme. En Ethiopie, l’armée italienne a utilisé des soldats libyens chargés des basses oeuvres, on a dressé des Africains contre d’autres Africains. Et il ne faut pas oublier non plus que les premières lois raciales, préfigurant celles qui seront appliquées en 1938 en Italie, ont été écrites pour l’Ethiopie... Il ne s’agit pas de faire en sorte que des enfants de 16 ans se sentent coupables de ce qu’ont fait leurs arrière-grands-pères, il est seulement question de vérité historique. »

    Désinvolture déconcertante

    Malgré les acquis de la recherche, pour le grand public, la colonisation italienne reste souvent vue comme une occupation « douce », par un peuple de jeunes travailleurs prolétaires, moins racistes que les Anglais, qui se mélangeaient volontiers avec les populations locales, jusqu’à fonder des familles. L’archétype du colon italien tombant amoureux de la belle Abyssine, entretenu par les mémoires familiales, a lui aussi mal vieilli. Là encore, le parcours d’Indro Montanelli est plus qu’éclairant. Car aujourd’hui, si sa défense de l’armée italienne apparaît comme parfaitement discréditée, ce n’est plus, le concernant, cet aspect de sa vie qui fait scandale.

    En effet, on peut facilement trouver, sur Internet, plusieurs extraits d’entretiens télévisés remontant aux années 1970 et 1980, dans lesquelles le journaliste raconte avec une désinvolture déconcertante comment, en Ethiopie, il a « acheté régulièrement » à son père, pour 350 lires, une jeune fille de 12 ans pour en faire sa femme à plusieurs reprises, il la qualifie même de « petit animal docile », devant un auditoire silencieux et appliqué.

    Célébré comme une gloire nationale de son vivant, Indro Montanelli a eu l’honneur, à sa mort et malgré ces déclarations sulfureuses, de se voir dédié à Milan un jardin public, au milieu duquel trône une statue de lui. Au printemps 2019, cette statue a été recouverte d’un vernis de couleur rose par un collectif féministe, pour rappeler cet épisode, et en juin 2020, la statue a de nouveau été recouverte de peinture rouge, en lointain écho au mouvement Black Lives Matter (« les vies noires comptent ») venu des Etats-Unis.

    Indro Montanelli mérite-t-il une statue dans l’Italie de 2021 ? La question a agité les journaux italiens plusieurs jours, au début de l’été, avant que la polémique ne s’éteigne d’elle-même. Pour fondée qu’elle soit, la question semble presque dérisoire eu égard au nombre de témoignages du passé colonial, rarement explicités, qui subsistent un peu partout dans le pays.

    Cette situation n’est nulle part plus visible qu’à Rome, que Mussolini rêvait en capitale d’un empire africain. L’écrivaine italienne Igiaba Scego, née en 1974 de parents réfugiés somaliens, y a dédié un passionnant ouvrage, illustré par les photographies de Rino Bianchi (Roma negata, Ediesse, réédition 2020, non traduit).

    Passant par la stèle laissée à l’abandon de la piazza dei Cinquecento, face à la gare Termini, dont la plupart des Romains ignorent qu’elle a été baptisée ainsi en mémoire des 500 victimes italiennes de l’embuscade de Dogali, ou l’ancien cinéma Impero, aujourd’hui désaffecté, afin d’y évoquer l’architecture Art déco qui valut à la capitale érythréenne, Asmara, d’être classée au patrimoine de l’Unesco, la romancière fait une station prolongée devant le siège romain de la FAO (l’Organisation des Nations unies pour l’alimentation et l’agriculture), construit pour abriter le siège du puissant ministère de l’Afrique italienne.

    Devant ce bâtiment tout entier dédié à l’entreprise coloniale, Benito Mussolini avait fait ériger en 1937 un obélisque haut de 24 mètres et vieux d’environ seize siècles, ramassé sur site d’Axoum, en Ethiopie. Il s’agissait, rappelle Igiaba Scego, de faire de ce lieu « le centre de la liturgie impériale .

    La république née sur les ruines du fascisme s’était engagée à restituer cette prise de guerre à la suite des traités de 1947, mais après d’innombrables vicissitudes, le monument est resté en place jusqu’en 2003, où le gouvernement Berlusconi choisit de le démonter en trois morceaux avant de le renvoyer à Axoum, à ses frais.

    En 2009, la mairie de Rome a fait installer sur la même place, à deux pas de cet espace vide, une stèle commémorative afin « de ne pas oublier le passé . Mais curieusement, celle-ci a été dédiée... à la mémoire des attentats du 11-Septembre. Comme s’il fallait enfouir le plus profondément possible ce souvenir du rêve impérial et de la défaite, la ville a choisi de faire de ce lieu le symbole d’une autre tragédie. « Pourquoi remuer ces his toires horribles ? Pensons plutôt aux tragédies des autres. Le 11-Septembre était parfait », note, sarcastique, Igiaba Scego.

    A une quinzaine de kilomètres de là, dans le décor grandiose et écrasant du Musée de la civilisation romaine, en plein centre de ce quartier de l’EUR où la mémoire du fascisme est omniprésente, l’ethno-anthropologue Gaia Delpino est confrontée à un autre chantier sensible, où s’entrechoquent les mémoires. Depuis 2017, elle travaille à fusionner en un même lieu les collections du vieux musée ethnologique de Rome (Musée Pigorini) et du sulfureux Musée colonial inauguré en 1923, dont les collections dormaient dans des caisses depuis un demi-siècle.

    D’une fascinante complexité

    Lorsqu’on lui parle de l’odyssée de l’obélisque d’Axoum, elle nous arrête tout de suite : « C’est bien simple : ce qui a été réalisé là-bas, c’est exactement l’inverse de ce qu’on veut faire. » Restituer ces collections dans leur contexte historique tout en articulant un message pour l’Italie d’aujourd’hui, permettre à toutes les narrations et à toutes les représentations de s’exprimer dans leur diversité... L’entreprise est d’une fascinante complexité.

    « Les collections du MuséePigorini ont vieilli bien sûr, comme tous ces musées ethnographiques du XIXe siècle qui véhiculaient l’idée d’une supériorité de la civilisation occidentale. Le Musée colonial, lui, pose d’autres problèmes, plus singuliers. Il n’a jamais été pensé comme autre chose qu’un moyen de propagande, montrant à la fois les ressources coloniales et tout ce qu’on pourrait en tirer. Les objets qui constituent les collections n’ont pas vu leur origine enregistrée, et on a mis l’accent sur la quantité plus que sur la qualité des pièces », expliqueGaia Delpino.

    Sur des centaines de mètres de rayonnages, on croise pêle-mêle des maquettes de navires, des chaussures, des outils et des objets liturgiques... L’accumulation donne le vertige. « Et ce n’est pas fini, nous recevons tous les jours des appels de personnes qui veulent offrir des objets ayant appartenu à leur père ou à leur grand-père, qu’ils veulent nous confier comme une réparation ou pour faire un peu de place », admet l’anthropologue dans un sourire.

    Alors que le travail des historiens peine à se diffuser dans le grand public, où les représentations caricaturales du système colonial, parfois instrumentalisées par la politique, n’ont pas disparu, le futur musée, dont la date d’ouverture reste incertaine pour cause de pandémie, risque d’être investi d’un rôle crucial, d’autant qu’il s’adressera en premier lieu à un public scolaire. « Ce qu’il ne faut pas oublier, c’est que parallèlement à ce difficile travail de mémoire, la population change. Aujourd’hui, dans nos écoles, il y a aussi des descendants de victimes de la colonisation, italienne ou autre. Nous devons aussi penser à eux », précise Gaia Delpino.

    Retournons maintenant au centre de Rome. En 2022, à mi-chemin du Colisée et de la basilique Saint-Jean-de-Latran, une nouvelle station de métro doit ouvrir, dans le cadre du prolongement de la ligne C. Depuis le début du projet, il était prévu que celle-ci soit baptisée « Amba Aradam », du nom de la large artère qui en accueillera l’entrée, appelée ainsi en souvenir de la plus éclatante des victoires italiennes en Ethiopie.

    Ce nom était-il opportun, alors que les historiens ont établi que cette victoire écrasante de l’armée fasciste avait été obtenue au prix de 10 000 à 20 000 morts, dont de nombreux civils, et que les troupes italiennes avaient obtenu la victoire en faisant usage d’ypérite (gaz moutarde), interdit par les conventions de Genève ? Le 1er août 2020, la mairie a finalement fait savoir que la station serait dédiée à la mémoire de Giorgio Marincola.

    Pour le journaliste Massimiliano Coccia, qui a lancé cette proposition avec le soutien de collectifs se réclamant du mouvement Black Lives Matter, « revenir sur notre passé, ce n’est pas détruire ou incendier, mais enrichir historiquement notre cité . Et on peut choisir de célébrer la mémoire d’un résistant italo-somalien tué par les nazis plutôt que celle d’une des pages les plus sombres de l’histoire coloniale italienne.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/02/05/libye-somalie-ethiopie-l-oublieuse-memoire-coloniale-italienne_6068846_3232.

    #Italie #colonialisme #colonisation #Mussolini #fascisme #Libye #Somalie #Ethiopie #atrocités #occupation_douce #mémoire #mémoire_coloniale #occultation #impérialisme #Corne_de_l'Afrique #baie_d'Assab #royaume_d'Abyssinie #Alula_Engida #bataille_d'Adoua #Menelik_II #Crispi #Adoua #Tigré #Cyrénaïque #Tripolitaine #colonialisme_frontalier #Abyssinie #Haïlé_Sélassié #propagande #traité_de_Paris #refoulement #mémoire #massacres #gaz #Indro_Montanelli #gaz_de_combat #bon_Italien #Italia_brava_gente #barbarie #humanité #lois_raciales #vérité_historique #culpabilité #viol #culture_du_viol #passé_colonial #Igiaba_Scego #monuments #toponymie #toponymie_politique #Axoum #stèle #Musée_Pigorini #musée #Musée_colonial #Amba_Aradam #ypérite #gaz_moutarde #armes_chimiques #Giorgio_Marincola #Black_Lives_Matter

    L’article parle notamment du #livre de #Francesca_Melandri, « #sangue_giusto » (traduit en français par « Tous, sauf moi »
    https://seenthis.net/messages/883118

    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

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  • Qui est complice de qui ? Les #libertés_académiques en péril

    Professeur, me voici aujourd’hui menacé de décapitation. L’offensive contre les musulmans se prolonge par des attaques contre la #pensée_critique, taxée d’islamo-gauchisme. Celles-ci se répandent, des réseaux sociaux au ministre de l’Éducation, des magazines au Président de la République, pour déboucher aujourd’hui sur une remise en cause des libertés académiques… au nom de la #liberté_d’expression !

    Je suis professeur. Le 16 octobre, un professeur est décapité. Le lendemain, je reçois cette menace sur Twitter : « Je vous ai mis sur ma liste des connards à décapiter pour le jour où ça pétera. Cette liste est longue mais patience : vous y passerez. »

    C’est en réponse à mon tweet (https://twitter.com/EricFassin/status/1317246862093680640) reprenant un billet de blog publié après les attentats de novembre 2015 (https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/161115/nous-ne-saurions-vouloir-ce-que-veulent-nos-ennemis) : « Pour combattre le #terrorisme, il ne suffit pas (même s’il est nécessaire) de lutter contre les terroristes. Il faut surtout démontrer que leurs actes sont inefficaces, et donc qu’ils ne parviennent pas à nous imposer une politique en réaction. » Bref, « nous ne saurions vouloir ce que veulent nos ennemis » : si les terroristes cherchent à provoquer un « conflit des civilisations », nous devons à tout prix éviter de tomber dans leur piège.

    Ce n’est pas la première fois que je reçois des #menaces_de_mort. Sur les réseaux sociaux, depuis des années, des trolls me harcèlent : les #insultes sont quotidiennes ; les menaces, occasionnelles. En 2013, pour Noël, j’ai reçu chez moi une #lettre_anonyme. Elle recopiait des articles islamophobes accusant la gauche de « trahison » et reproduisaient un tract de la Résistance ; sous une potence, ces mots : « où qu’ils soient, quoi qu’ils fassent, les traîtres seront châtiés. » Je l’analysais dans Libération (https://www.liberation.fr/societe/2014/01/17/le-nom-et-l-adresse_973667) : « Voilà ce que me signifie le courrier reçu à la maison : on sait où tu habites et, le moment venu, on saura te trouver. » J’ajoutais toutefois : « l’#extrême_droite continue d’avancer masquée, elle n’ose pas encore dire son nom. » Or ce n’est plus le cas. Aujourd’hui, les menaces sont signées d’une figure connue de la mouvance néonazie. J’ai donc porté #plainte. C’est en tant qu’#universitaire que je suis visé ; mon #université m’accorde d’ailleurs la #protection_fonctionnelle.

    Ainsi, les extrêmes droites s’enhardissent. Le 29 octobre, l’#Action_française déploie impunément une banderole place de la Concorde : « Décapitons la République ! »

    C’est quelques heures après un nouvel attentat islamiste à Nice, mais aussi après une tentative néofasciste avortée en Avignon. Avant d’être abattu, l’homme a menacé d’une arme de poing un commerçant maghrébin. Il se réclamait de #Génération_identitaire, dont il portait la veste avec le logo « #Defend_Europe », justifiant les actions du groupe en Méditerranée ou à la frontière franco-italienne ; un témoin a même parlé de #salut_nazi (https://france3-regions.francetvinfo.fr/provence-alpes-cote-d-azur/vaucluse/avignon/avignon-homme-arme-couteau-abattu-policiers-1889172.htm). Le procureur de la République se veut pourtant rassurant : « c’est un Français, né en France, qui n’a rien à voir avec la religion musulmane ». Et de conclure : « nous avons plus affaire à un #déséquilibré, qui semble proche de l’extrême droite et a fait des séjours en psychiatrie. Il n’y a pas de revendication ». « Comme dans le cas de l’attentat de la mosquée de Bayonne perpétré par un ancien candidat FN en octobre 2019 » (https://www.mediapart.fr/journal/france/281019/attentat-bayonne-l-ex-candidat-fn-en-garde-vue?onglet=full), note Mediapart, « le parquet national antiterroriste n’a pas voulu se saisir de l’affaire ». Ce fasciste était un fou, nous dit-on, pas un terroriste islamiste : l’attaque d’Avignon est donc passée presque inaperçue.

    Si les #Identitaires se pensent aux portes du pouvoir, c’est aussi que certains médias ont préparé le terrain. En une, l’#islamophobie y alterne avec la dénonciation des universitaires antiracistes (j’y suis régulièrement pointé du doigt) (https://www.lepoint.fr/politique/ces-ideologues-qui-poussent-a-la-guerre-civile-29-11-2018-2275275_20.php). Plus grave encore, l’extrême droite se sent encouragée par nos gouvernants. Le président de la République lui-même, qui a choisi il y a un an de parler #communautarisme, #islam et #immigration dans #Valeurs_actuelles, s’inspire des réseaux sociaux et des magazines. « Le monde universitaire a été coupable. Il a encouragé l’#ethnicisation de la question sociale en pensant que c’était un bon filon. Or, le débouché ne peut être que sécessionniste. » Selon Le Monde du 10 juin 2020, Emmanuel Macron vise ici les « discours racisés (sic) ou sur l’intersectionnalité. » Dans Les Inrocks (https://www.lesinrocks.com/2020/06/12/idees/idees/eric-fassin-le-president-de-la-republique-attise-lanti-intellectualisme), je m’inquiétais alors de cet #anti-intellectualisme : « Des sophistes qui corrompent la jeunesse : à quand la ciguë ? » Nous y sommes peut-être.

    Car du #séparatisme, on passe aujourd’hui au #terrorisme. En effet, c’est au tour du ministre de l’Éducation nationale de s’attaquer le 22 octobre, sur Europe 1, à « l’islamo-gauchisme » qui « fait des ravages à l’Université » : il dénonce « les #complices_intellectuels du terrorisme. » « Qui visez-vous ? », l’interroge Le JDD (https://www.lejdd.fr/Politique/hommage-a-samuel-paty-lutte-contre-lislamisme-blanquer-precise-au-jdd-ses-mesu). Pour le ministre, « il y a un combat à mener contre une matrice intellectuelle venue des universités américaines et des #thèses_intersectionnelles, qui veulent essentialiser les communautés et les identités, aux antipodes de notre #modèle_républicain ». Cette idéologie aurait « gangrené une partie non négligeable des #sciences_sociales françaises » : « certains font ça consciemment, d’autres sont les idiots utiles de cette cause. » En réalité, l’intersectionnalité permet d’analyser, dans leur pluralité, des logiques discriminatoires qui contredisent la rhétorique universaliste. La critique de cette assignation à des places racialisées est donc fondée sur un principe d’#égalité. Or, à en croire le ministre, il s’agirait « d’une vision du monde qui converge avec les intérêts des islamistes. » Ce qui produit le séparatisme, ce serait donc, non la #ségrégation, mais sa dénonciation…

    Si #Jean-Michel_Blanquer juge « complices » celles et ceux qui, avec le concept d’intersectionnalité, analysent la #racialisation de notre société pour mieux la combattre, les néofascistes parlent plutôt de « #collabos » ; mais les trolls qui me harcèlent commencent à emprunter son mot. En France, si le ministre de l’Intérieur prend systématiquement le parti des policiers, celui de l’Éducation nationale fait de la politique aux dépens des universitaires. #Marion_Maréchal peut s’en féliciter : ce dernier « reprend notre analyse sur le danger des idéologies “intersectionnelles” de gauche à l’Université. »


    https://twitter.com/MarionMarechal/status/1321008502291255300
    D’ailleurs, « l’islamo-gauchisme » n’est autre que la version actuelle du « #judéo-bolchévisme » agité par l’extrême droite entre les deux guerres. On ne connaît pourtant aucun lien entre #Abdelhakim_Sefrioui, mis en examen pour « complicité d’assassinat » dans l’enquête sur l’attentat de #Conflans, et la gauche. En revanche, le ministre ne dit pas un mot sur l’extrême droite, malgré les révélations de La Horde (https://lahorde.samizdat.net/2020/10/20/a-propos-dabdelhakim-sefrioui-et-du-collectif-cheikh-yassine) et de Mediapart (https://www.mediapart.fr/journal/france/221020/attentat-de-conflans-revelations-sur-l-imam-sefrioui?onglet=full) sur les liens de l’imam avec des proches de #Marine_Le_Pen. Dans le débat public, jamais il n’est question d’#islamo-lepénisme, alors même que l’extrême droite et les islamistes ont en commun une politique du « #conflit_des_civilisations ».

    Sans doute, pour nos gouvernants, attaquer des universitaires est-il le moyen de détourner l’attention de leurs propres manquements : un professeur est mort, et on en fait porter la #responsabilité à d’autres professeurs… De plus, c’est l’occasion d’affaiblir les résistances contre une Loi de programmation de la recherche qui précarise davantage l’Université. D’ailleurs, le 28 octobre, le Sénat vient d’adopter un amendement à son article premier (https://www.senat.fr/amendements/2020-2021/52/Amdt_234.html) : « Les libertés académiques s’exercent dans le respect des #valeurs_de_la_République », « au premier rang desquelles la #laïcité ». Autrement dit, ce n’est plus seulement le code pénal qui définirait les limites de la liberté d’expression des universitaires. Des collègues, désireux de régler ainsi des différends scientifiques et politiques, appuient cette offensive en réclamant dans Le Monde la création d’une « instance chargée de faire remonter directement les cas d’atteinte aux #principes _épublicains et à la liberté académique »… et c’est au nom de « la #liberté_de_parole » (https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/10/31/une-centaine-d-universitaires-alertent-sur-l-islamisme-ce-qui-nous-menace-c-) ! Bref, comme l’annonce sombrement le blog Academia (https://academia.hypotheses.org/27401), c’est « le début de la fin. » #Frédérique_Vidal, ministre de l’Enseignement supérieur et de la recherche, le confirme sans ambages : « Les #valeurs de la laïcité, de la République, ça ne se discute pas. »


    https://twitter.com/publicsenat/status/1322076232918487040
    Pourtant, en démocratie, débattre du sens qu’on veut donner à ces mots, n’est-ce pas l’enjeu politique par excellence ? Qui en imposera la définition ? Aura-t-on encore le droit de critiquer « les faux dévots de la laïcité » (https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/101217/les-faux-devots-de-la-laicite-islamophobie-et-racisme-anti-musulmans) ?

    Mais ce n’est pas tout. Pourquoi s’en prendre aux alliés blancs des minorités discriminées, sinon pour empêcher une solidarité qui dément les accusations de séparatisme ? C’est exactement ce que les terroristes recherchent : un monde binaire, en noir et blanc, sans « zone grise » (https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/260716/terrorisme-la-zone-grise-de-la-sexualite), où les musulmans feraient front avec les islamistes contre un bloc majoritaire islamophobe. Je l’écrivais dans ce texte qui m’a valu des menaces de décapitation : nos dirigeants « s’emploient à donner aux terroristes toutes les raisons de recommencer. » Le but de ces derniers, c’est en effet la #guerre_civile. Qui sont donc les « #complices_intellectuels » du terrorisme islamiste ? Et qui sont les « idiots utiles » du #néofascisme ?

    En France, aujourd’hui, les #droits_des_minorités, religieuses ou pas, des réfugiés et des manifestants sont régulièrement bafoués ; et quand des ministres s’attaquent, en même temps qu’à une association de lutte contre l’islamophobie, à des universitaires, mais aussi à l’Unef (après SUD Éducation), à La France Insoumise et à son leader, ou bien à Mediapart et à son directeur, tous coupables de s’engager « pour les musulmans », il faut bien se rendre à l’évidence : la #démocratie est amputée de ses #libertés_fondamentales. Paradoxalement, la France républicaine d’Emmanuel #Macron ressemble de plus en plus, en dépit des gesticulations, à la Turquie islamiste de Recep Tayyip Erdogan, qui persécute, en même temps que la minorité kurde, des universitaires, des syndicalistes, des médias libres et des partis d’opposition.

    Pour revendiquer la liberté d’expression, il ne suffit pas d’afficher des caricatures ; l’esprit critique doit pouvoir se faire entendre dans les médias et dans la rue, et partout dans la société. Sinon, l’hommage à #Samuel_Paty serait pure #hypocrisie. Il faut se battre pour la #liberté_de_la_pensée, de l’engagement et de la recherche. Il importe donc de défendre les libertés académiques, à la fois contre les menaces des réseaux sociaux et contre l’#intimidation_gouvernementale. À l’heure où nos dirigeants répondent à la terreur par une #politique_de_la_peur, il y a de quoi trembler pour la démocratie.

    https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/011120/qui-est-complice-de-qui-les-libertes-academiques-en-peril
    #Eric_Fassin #intersectionnalité #SHS #universalisme #Blanquer #complicité

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    Pour compléter le fil de discussion commencé par @gonzo autour de :
    Jean-François Bayart : « Que le terme plaise ou non, il y a bien une islamophobie d’Etat en France »
    https://seenthis.net/messages/883974

    ping @isskein @karine4 @cede

    • Une centaine d’universitaires alertent : « Sur l’islamisme, ce qui nous menace, c’est la persistance du déni »

      Dans une tribune au « Monde », des professeurs et des chercheurs de diverses sensibilités dénoncent les frilosités de nombre de leurs pairs sur l’islamisme et les « idéologies indigénistes, racialistes et décoloniales », soutenant les propos de Jean-Michel Blanquer sur « l’islamo-gauchisme ».

      Tribune. Quelques jours après l’assassinat de Samuel Paty, la principale réaction de l’institution qui est censée représenter les universités françaises, la Conférence des présidents d’université (CPU), est de « faire part de l’émotion suscitée » par des propos de Jean-Michel Blanquer sur Europe 1 et au Sénat le 22 octobre. Le ministre de l’éducation nationale avait constaté sur Europe 1 que « l’islamo-gauchisme fait des ravages à l’université », notamment « quand une organisation comme l’UNEF cède à ce type de choses ». Il dénonçait une « idéologie qui mène au pire », notant que l’assassin a été « conditionné par des gens qui encouragent cette #radicalité_intellectuelle ». Ce sont des « idées qui souvent viennent d’ailleurs », le #communautarisme, qui sont responsables : « Le poisson pourrit par la tête. » Et au Sénat, le même jour, Jean-Michel Blanquer confirmait qu’il y a « des courants islamo-gauchistes très puissants dans les secteurs de l’#enseignement_supérieur qui commettent des dégâts sur les esprits. Et cela conduit à certains problèmes, que vous êtes en train de constater ».

      Nous, universitaires et chercheurs, ne pouvons que nous accorder avec ce constat de Jean-Michel Blanquer. Qui pourrait nier la gravité de la situation aujourd’hui en France, surtout après le récent attentat de Nice – une situation qui, quoi que prétendent certains, n’épargne pas nos universités ? Les idéologies indigéniste, racialiste et « décoloniale » (transférées des campus nord-américains) y sont bien présentes, nourrissant une haine des « Blancs » et de la France ; et un #militantisme parfois violent s’en prend à ceux qui osent encore braver la #doxa_antioccidentale et le prêchi-prêcha multiculturaliste. #Houria_Bouteldja a ainsi pu se féliciter début octobre que son parti décolonial, le #Parti_des_indigènes_de_la_République [dont elle est la porte-parole], « rayonne dans toutes les universités ».

      La réticence de la plupart des universités et des associations de spécialistes universitaires à désigner l’islamisme comme responsable de l’assassinat de Samuel Paty en est une illustration : il n’est question dans leurs communiqués que d’« #obscurantisme » ou de « #fanatisme ». Alors que le port du #voile – parmi d’autres symptômes – se multiplie ces dernières années, il serait temps de nommer les choses et aussi de prendre conscience de la responsabilité, dans la situation actuelle, d’idéologies qui ont pris naissance et se diffusent dans l’université et au-delà. L’importation des idéologies communautaristes anglo-saxonnes, le #conformisme_intellectuel, la #peur et le #politiquement_correct sont une véritable menace pour nos universités. La liberté de parole tend à s’y restreindre de manière drastique, comme en ont témoigné récemment nombre d’affaires de #censure exercée par des groupes de pression.

      « Nous demandons à la ministre de prendre clairement position contre les idéologies qui sous-tendent les #dérives_islamistes »

      Ce qui nous menace, ce ne sont pas les propos de Jean-Michel Blanquer, qu’il faut au contraire féliciter d’avoir pris conscience de la gravité de la situation : c’est la persistance du #déni. La CPU affirme dans son communiqué que « la recherche n’est pas responsable des maux de la société, elle les analyse ». Nous n’en sommes pas d’accord : les idées ont des conséquences et les universités ont aussi un rôle essentiel à jouer dans la lutte pour la défense de la laïcité et de la liberté d’expression. Aussi nous étonnons-nous du long silence de Frédérique Vidal, la ministre de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation, qui n’est intervenue le 26 octobre que pour nous assurer que tout allait bien dans les universités. Mais nous ne sommes pas pour autant rassurés.

      Nous demandons donc à la ministre de mettre en place des mesures de #détection des #dérives_islamistes, de prendre clairement position contre les idéologies qui les sous-tendent, et d’engager nos universités dans ce combat pour la laïcité et la République en créant une instance chargée de faire remonter directement les cas d’atteinte aux principes républicains et à la liberté académique. Et d’élaborer un guide de réponses adaptées, comme cela a été fait pour l’éducation nationale.

      Premiers signataires : Laurent Bouvet, politiste, professeur des universités ; Jean-François Braunstein, philosophe, professeur des universités ; Jeanne Favret-Saada, anthropologue, directrice d’études honoraire à l’Ecole pratique des hautes études ; Luc Ferry, ancien ministre de l’éducation nationale (2002-2004) ; Renée Fregosi, politiste, maîtresse de conférences HDR en science politique ; Marcel Gauchet, philosophe, directeur d’études émérite à l’Ecole des hautes études en sciences sociales ; Nathalie Heinich, sociologue, directrice de recherche au CNRS ; Gilles Kepel, politiste, professeur des universités ; Catherine Kintzler, philosophe, professeure honoraire des universités ; Pierre Nora, historien, membre de l’Académie française ; Pascal Perrineau, politiste professeur des universités ; Pierre-André Taguieff, historien des idées, directeur de recherche au CNRS ; Pierre Vermeren, historien, professeur des universités

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      Liste complète des signataires :

      Signataires

      Daniel Aberdam, directeur de recherches à l’INSERM – Francis Affergan, professeur émérite des Universités – Alya Aglan, professeur des Universités – Jean-François Agnèse, directeur de recherches IRD – Joëlle Allouche-Benayoun, chargée de recherche au CNRS – Éric Anceau, maître de conférences HDR – Julie d’Andurain, professeur des Universités – Sophie Archambault de Beaune, professeur des Universités – Mathieu Arnold, professeur des Universités – Roland Assaraf, chargé de recherche au CNRS – Philippe Avril, professeur émérite des Universités – Isabelle Barbéris, maître de conférences HDR – Clarisse Bardiot, maître de conférences HDR – Patrick Barrau, maître de conférences honoraire – Christian Bassac, professeur honoraire des Universités – Myriam Benarroch, maître de conférences – Martine Benoit, professeur des Universités – Wladimir Berelowitsch, directeur d’études à l’EHESS – Florence Bergeaud-Blackler, chargée de recherche au CNRS – Maurice Berger, ancien professeur associé des Universités – Marc Bied-Charrenton, professeur émérite des Universités – Andreas Bikfalvi, professeur des Universités – Jacques Billard, maître de conférences honoraire – Jean-Cassien Billier, maître de conférences – Alain Blanchet, professeur émérite des Universités – Guillaume Bonnet, professeur des Universités – ​Laurent Bouvet, professeur des Universités – Rémi Brague, professeur des Universités – Joaquim Brandão de Carvalho, professeur des Universités – Jean-François Braunstein, professeur des Universités – Christian Brechot, professeur émérite des Universités – Stéphane Breton, directeur d’études à l’EHESS – Jean-Marie Brohm, professeur émérite des Universités – Michelle-Irène Brudny, professeur honoraire des Universités – Patrick Cabanel, directeur d’études, École pratique des hautes études – Christian Cambillau, directeur de recherches émérite au CNRS – Belinda Cannone, maître de conférences – Dominique Casajus, directeur de recherches émérite au CNRS – Sylvie Catellin, maître de conférences – Brigitte Chapelain, maître de conférences – Jean-François Chappuit, maître de conférences – Patrick Charaudeau, professeur émérite des Universités – Blandine Chelini-Pon, professeur des Universités – François Cochet, professeur émérite des Universités – Geneviève Cohen-Cheminet, professeur des Universités – Jacqueline Costa-Lascoux, directrice de recherche au CNRS – Cécile Cottenceau, PRAG Université – Philippe Crignon, maître de conférences – David Cumin, maître de conférences HDR – Jean-Claude Daumas, professeur émérite des Universités – Daniel Dayan, directeur de recherches au CNRS – Chantal Delsol, membre de l’Académie des sciences morales et politiques – Gilles Denis, maître de conférences HDR – Geneviève Dermenjian, maître de conférences HDR – Albert Doja, professeur des Universités – Michel Dreyfus, directeur de recherche au CNRS – Philippe Dupichot, professeur des Universités – Alain Ehrenberg, directeur émérite de recherche au CNRS – Marie-Claude Esposito, professeur émérite des Universités – Jean-Louis Fabiani, directeur d’études à l’EHES – Jeanne Favret-Saada, directrice d’études honoraire à l’EPHE – Laurent Fedi, maître de conférences – Rémi Ferrand, maître de conférences – Luc Ferry, ancien ministre de l’Éducation nationale – Michel Fichant, professeur émérite des Universités – Dominique Folscheid, professeur émérite des Universités – Nicole Fouché, chercheuse CNRS-EHESS - Annie Fourcaut, professeur des Universités – Renée Fregosi, maître de conférences HDR retraitée – Pierre Fresnault-Deruelle, professeur émérite des Universités – Marc Fryd, maître de conférences HDR – Alexandre Gady, professeur des Universités – Jean-Claude Galey, directeur d’études à l’EHESS – Marcel Gauchet, directeur d’études à l’EHESS – Christian Gilain, professeur émérite des Universités – Jacques-Alain Gilbert, professeur des Universités – Gabriel Gras, chargé de recherche au CEA – Yana Grinshpun, maître de conférences – Patrice Gueniffey, directeur d’études à l’EHESS – Éric Guichard, maître de conférences HDR – Jean-Marc Guislin, professeur émérite des Universités – Charles Guittard, professeur des Universités – Philippe Gumplowicz, professeur des Universités – Claude Habib, professeur émérite des Universités – François Heilbronn, professeur des Universités associé à Sciences-Po – Nathalie Heinich, directrice de recherche au CNRS – Marc Hersant, professeur des Universités – Philippe d’Iribarne, directeur de recherche au CNRS – François Jost, professeur émérite des Universités – Olivier Jouanjan, professeur des Universités – Pierre Jourde, professeur émérite des Universités – Gilles Kepel, professeur des Universités – Catherine Kintzler, professeur honoraire des Universités – Marcel Kuntz, directeur de recherche au CNRS – Bernard Labatut, maître de conférence HDR – Monique Lambert, professeur des Universités – Frédérique de La Morena, maître de conférences – Philippe de Lara, maître de conférences HDR – Philippe Larralde, PRAG Université – Dominique Legallois, professeur des Universités – Anne Lemonde, maître de conférences – Anne-Marie Le Pourhiet, professeur des Universités – Andrée Lerousseau, maître de conférences – Franck Lessay, professeur émérite des Universités – Marc Levilly, maître de conférences associé – Carlos Levy, professeur émérite des Universités – Roger Lewandowski, professeur des Universités – Philippe Liger-Belair, maître de conférences – Laurent Loty, chargé de recherche au CNRS – Catherine Louveau, professeur émérite des Universités – Danièle Manesse, professeur émérite des Universités – Jean-Louis Margolin, maître de conférences – Joseph Martinetti, maître de conférences – Céline Masson, professeur des Universités – Jean-Yves Masson, professeur des Universités – Eric Maulin, professeur des Universités – Samuel Mayol, maître de conférences – Isabelle de Mecquenem, PRAG Université – Ferdinand Mélin-Soucramanien, professeur des Universités – Marc Michel, professeur émérite des Universités –​ Jean-Baptiste Minnaert, professeur des Universités – Nathalie Mourgues, professeur émérite des Universités – Lion Murard, chercheur associé au CERMES – Franck Neveu, professeur des Universités – Jean-Pierre Nioche, professeur émérite à HEC – Pierre Nora, membre de l’Académie française – Jean-Max Noyer, professeur émérite des Universités – Dominique Ottavi, professeur émérite des Universités – Bruno Ollivier, professeur des Universités, chercheur associé au CNRS – Gilles Pages, directeur de recherche à l’INSERM – Marc Perelman, professeur des Universités – Pascal Perrineau, professeur des Universités – Laetitia Petit, maître de conférences des Universités – Jean Petitot, directeur d’études à l’EHESS – Béatrice Picon-Vallin, directrice de recherches au CNRS – René Pommier, maître de conférences – Dominique Pradelle, professeur des Universités – André Quaderi, professeur des Universités – Gérard Rabinovitch, chercheur associé au CNRS-CRPMS – Charles Ramond, professeur des Universités – Jean-Jacques Rassial, professeur émérite des Universités – François Rastier, directeur de recherche au CNRS – Philippe Raynaud, professeur émérite des Universités – Dominique Reynié, professeur des Universités – Isabelle Rivoal, directrice de recherches au CNRS – Jean-Jacques Roche, professeur des Universités – Pierre Rochette, professeur des Universités – Marc Rolland, professeur des Universités – Danièle Rosenfeld-Katz, maître de conférences – Bernard Rougier, professeur des Universités – Andrée Rousseau, maîtresse de conférences – Jean-Michel Roy, professeur des Universités – François de Saint-Chéron, maître de conférences HDR – Jacques de Saint-Victor, professeur des Universités – Xavier-Laurent Salvador, maître de conférences HDR – Jean-Baptiste Santamaria, maître de conférences – Yves Santamaria, maître de conférences – Georges-Elia Sarfati, professeur des Universités – Jean-Pierre Schandeler, chargé de recherche au CNRS – Pierre Schapira, professeur émérite des Universités – Martine Segalen, professeur émérite des Universités – Perrine Simon-Nahum, directrice de recherche au CNRS – Antoine Spire, professeur associé à l’Université – Claire Squires, maître de conférences – Marcel Staroswiecki, professeur honoraire des Universités – Wiktor Stoczkowski, directeur d’études à l’EHESS – Jean Szlamowicz, professeur des Universités – Pierre-André Taguieff, directeur de recherche au CNRS – Jean-Christophe Tainturier, PRAG Université – Jacques Tarnero, chercheur à la Cité des sciences et de l’industrie – Michèle Tauber, maître de conférences HDR – Pierre-Henri Tavoillot, maître de conférences HDR – Alain Tedgui, directeur de recherches émérite à l’INSERM – ​Thibault Tellier, professeur des Universités – Françoise Thom, maître de conférences HDR – André Tiran, professeur émérite des Universités – Antoine Triller, directeur de recherches émérite à l’INSERM – Frédéric Tristram, maître de conférences HDR – Sylvie Toscer-Angot, maître de conférences – Vincent Tournier, maître de conférences – Christophe Tournu, professeur des Universités – Serge Valdinoci, maître de conférences – Raymonde Vatinet, professeur des Universités – Gisèle Venet, professeur émérite des Universités – François Vergne, maître de conférences – Gilles Vergnon, maître de conférences HDR – Pierre Vermeren, professeur des Universités – Nicolas Weill-Parot, directeur d’études à l’EPHE – Yves Charles Zarka, professeur émérite des Universités – Paul Zawadzki, maître de conférences HDR – Françoise Zonabend, directrice d’études à l’EHESS

      https://manifestedes90.wixsite.com/monsite

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/10/31/une-centaine-d-universitaires-alertent-sur-l-islamisme-ce-qui-nous-menace-c-
      #manifeste_des_cents #manifeste_des_100 #décolonial #ESR #enseignement_supérieur

    • De la liberté d’expression des « voix musulmanes » en France

      Le traumatisme né de l’assassinat de l’enseignant Samuel Paty à Conflans-Sainte-Honorine le 16 octobre 2020 impose une réflexion collective profonde, aussi sereine que possible. L’enjeu est fondamental pour la société française qui, d’attentat revendiqué par une organisation constituée en attentat mené par un « loup solitaire », de débat sur le voile en débat sur Charlie, et de loi antiterroriste en loi contre le « séparatisme » s’enferre depuis plusieurs décennies dans une polarisation extrêmement inquiétante autour des questions liées à l’islam.

      Le constat de la diffusion, au sein des composantes se déclarant musulmanes en France, de lectures « radicales » et qui survalorisent la violence est incontestable. L’idéologie dite « djihadiste » demeure certes marginale, mais possède une capacité d’adaptation manifeste, liant les enjeux propres au monde musulman avec des problématiques françaises. Internet lui offre une caisse de résonance particulière auprès des plus jeunes, générant du ressentiment, mais aussi des frustrations. La #prison et la #délinquance, sans doute autant que certaines mosquées et associations cultuelles, constituent d’autres espaces de #socialisation à cette vision mortifère du monde.

      En revanche, les interprétations des racines de cette diffusion divergent, donnant lieu à des #controverses_scientifiques et médiatiques qui n’honorent pas toujours les personnes concernées. Il est manifeste que face à un problème complexe, l’analyse ne saurait être monocausale et ne se pencher que sur une seule variable. L’obsession pour la part purement religieuse du phénomène que légitiment certains chercheurs et qui est au cœur des récentes politiques du gouvernement français fonctionne comme un #écran_de_fumée.

      S’attaquer par des politiques publiques aux « #prêcheurs_de_haine » ou exiger la réforme d’un Islam « malade » sans autre forme de réflexion ou d’action ignore la dimension relationnelle de la #violence et des tensions qui déchirent la France.

      Quand les « islamo-gauchistes » doivent rendre des comptes

      Cette perspective revient à négliger l’importance de la #contextualisation, oubliant d’expliquer pourquoi une interprétation particulière de l’islam a pu acquérir, via sa déclinaison politique la plus fermée, une capacité à incarner un rejet de la société dominante. En somme cette lecture méconnaît comment et pourquoi une interprétation radicale du #référent_islamique trouve depuis quelques années une pertinence particulière aux yeux de certains, et pourquoi ce serait davantage le cas en #France qu’ailleurs en Europe. Elle revient surtout à oublier la nature circulaire des dynamiques qui permet à un contexte et à une idéologie de s’alimenter mutuellement, désignant alors de façon simpliste celui qui « aurait commencé » ainsi que — et c’est là une funeste nouveauté des derniers mois — ses « collabos » affublés du label « islamo-gauchiste » et qui devraient rendre des comptes.

      Beaucoup a ainsi été écrit et dit, parfois trop rapidement. En tant que chercheur et citoyen, je ressens autant de la lassitude que de la tristesse, mesurant combien mon champ professionnel développe de façon croissante une sorte d’incommunicabilité, entrainant des haines tenaces et donnant de plus en plus souvent lieu à de la diffamation entre ses membres. Il m’apparait que la perspective faisant toute sa place à la #complexité des phénomènes politiques et sociaux a, d’une certaine manière, perdu la partie. Marginalisée dans les médias, elle devient manifestement de plus en plus inaudible auprès d’institutions publiques en quête de solutions rapides et brutales, faisant souvent fi du droit. L’approche nuancée des sciences sociales se trouve reléguée dans des espaces d’expression caractérisés par l’entre-soi politique, scientifique ou, il faut le reconnaitre, communautaire (ce dernier parfois prompt à tordre le discours et à le simplifier pour se rassurer).

      « Liberté d’expression », mais pas pour tout le monde

      Cette mécanique de parole complexe reléguée ne concerne pas uniquement les chercheurs. Ma frustration de « perdant » n’a au fond que peu d’importance. Elle renvoie toutefois à un enjeu beaucoup plus fondamental qui concerne l’espace de représentation et d’expression des musulmans français. Dans un contexte de fortes tensions autour de la question musulmane, il s’agit là d’un blocage récurrent dont les pouvoirs publics et une grande partie des médias se refusent à percevoir la centralité. La faiblesse des espaces offerts aux voix qui se revendiquent musulmanes et sont reconnues comme légitimes par leurs coreligionnaires constitue un angle mort que les tenants de la « liberté d’expression » auraient tout intérêt à aborder. Autant que le contrôle policier et la surveillance des appels à la haine sur Internet et dans les mosquées, c’est là un levier nécessaire pour contenir la violence et lutter contre elle.

      La liberté d’expression n’a jamais été totale, et certains tabous légitimes demeurent ou évoluent avec le temps. Pensons à la pédocriminalité dans les années 1970, ou aux caricatures sur les juifs et l’argent dans les années 1930. Parmi les tenants d’une laïcité intégrale, qui a déjà discuté avec une femme voilée ? Partons tout d’abord du principe que l’ignorance de l’Autre et de sa propre histoire constitue une racine de la #polarisation grave de la société française. Admettons ensuite qu’il est important pour chacun d’avoir une perception juste de ses concitoyens et aussi, en démocratie, de se sentir correctement et dignement représenté à une variété d’échelons.

      La figure de #Hassen_Chalghoumi, imam d’origine tunisienne d’une mosquée en Seine–Saint-Denis très fréquemment mobilisé dans les grands médias, symbolise un dysfonctionnement patent de ce mécanisme de #représentation. Sa propension à soutenir des positions politiques à rebours de ses « ouailles » supposées, en particulier sur la Palestine, mais surtout son incapacité à s’exprimer correctement en français ou même à avoir un fond de culture générale partagée ne constitue aucunement des caractéristiques rédhibitoires pour faire appel à lui quand un sujet en lien avec l’islam émerge. Pire, il semblerait même parfois que ce soit exactement le contraire comme quand Valeurs actuelles, alors accusé d’avoir caricaturé la députée Danièle Obono en esclave, a fait appel à lui pour défendre la liberté d’expression et l’a placé, détail sans doute potache, mais tellement symptomatique de mépris affiché, devant une plaque émaillée « Licence IV » (autrefois utilisée pour désigner les débits de boissons alcoolisées).

      Pour les millions de Français d’origine musulmane dont l’élocution française est parfaite et qui partagent les mêmes références culturelles populaires que la majorité des Français, reconnaissons qu’il est parfaitement humiliant d’avoir l’impression que les médias n’ont pas d’autre « modèle » à mobiliser ou à valoriser pour entendre une voix décrite comme musulmane. Comment dès lors ne pas comprendre la défiance envers les médias ou la société dans son ensemble ?

      L’ère du #soupçon

      Certes, il revient aux musulmans au premier chef de s’organiser et de faire émerger des figures représentatives, dépassant ainsi la fragmentation qui est celle de leur culte, ainsi que la mainmise exercée par les États d’origine, Maroc, Algérie et Turquie en tête. Les luttes internes sont elles-mêmes d’une grande violence, souvent fondées sur le « narcissisme des petites différences » de Sigmund Freud. Toutefois, reconnaissons que l’expérience démontre que les restrictions ne sont pas seulement internes à la « communauté ». Il y a plus de vingt ans déjà, le sociologue #Michel_Wieviorka avait pointé du doigt l’incapacité de la société française à accueillir les voix se revendiquant comme musulmanes :

      "Plutôt que d’être perçus comme des acteurs qui inventent et renouvellent la #vie_collective — avec ses tensions, ses conflits, ses négociations —, les associations susceptibles de passer pour « ethniques » ou religieuses […] sont couramment ignorées, soupçonnées de couvrir les pires horreurs ou traitées avec hostilité par les pouvoirs publics. […] À force de rejeter une association sous prétexte qu’elle serait intégriste et fermée sur elle-même, à force de lui refuser toute écoute et tout soutien, on finit par la constituer comme telle."

      De la chanteuse #Mennel (candidate d’origine syrienne à une émission sur TF1 et qui alors portait le foulard) à #Tariq_Ramadan (certes de nationalité suisse) en passant par l’humoriste #Yassine_Belattar et le #Comité_contre_l’islamophobie_en_France (CCIF), les occasions d’exclure les voix endogènes qui revendiquent une part d’#islamité dans leur discours et sont à même de servir de référence tant cultuelle que politique et culturelle ont été nombreuses. Parfois pleinement légitimes lorsque des accusations de viols ont été proférées, des dispositifs de contrôle imposent de « montrer patte blanche » au-delà de ce qui devrait légitimement être attendu. Non limités à l’évaluation de la probité, ils rendent en plus toute critique adressée à la société française et ses failles (en politique étrangère par exemple) extrêmement périlleuses, donnant le sentiment d’un traitement différencié pour les voix dites musulmanes, promptes à se voir si facilement criminalisées. Dès lors, certaines positions, pourtant parfaitement raisonnables, deviennent indicibles.

      Revendiquer la nécessité de la #lutte_contre_l’islamophobie, dont l’existence ne devrait pas faire débat par exemple quand une femme portant le foulard se fait cracher dessus par des passants fait ainsi de manière totalement absurde partie de cette liste de tabous, établie sans doute de manière inconsciente par des années d’#injonctions et de #stigmatisations, héritées de la période coloniale.

      Une telle mécanique vient enfin légitimer les logiques d’#exclusion propres au processus de #radicalisation. Elle s’avère dès lors contreproductive et donc dangereuse. Par exemple, dissoudre le CCIF dont l’action principale est d’engager des médiations et de se tourner vers les institutions publiques est à même de constituer, en acte aux yeux de certains, la démonstration de l’inutilité des #associations et donc l’impossibilité de s’appuyer sur les institutions légales. C’est une fois encore renvoyer vers les fonds invisibles de l’Internet les #espaces_d’expression et de représentation, c’est ainsi creuser des fossés qui génèrent l’#incompréhension et la violence.

      Il devient impérieux d’apprendre à s’écouter les uns les autres. Il demeure aussi nécessaire de reconnaitre que, comme l’entreprise a besoin de syndicats attentifs et représentatifs, la société dans son ensemble, diverse comme elle est, a tout à gagner à offrir des cadres d’expression sereins et ouverts à ses minorités, permettant aussi à celles-ci de revendiquer, quitte à ne pas faire plaisir à moi-même, à la majorité, ou au patron.

      https://orientxxi.info/magazine/de-la-liberte-d-expression-des-voix-musulmanes-en-france,4227
      #religion

    • « La pensée “décoloniale” renforce le narcissisme des #petites_différences »

      80 psychanalystes s’insurgent contre l’assaut des « #identitaristes » dans le champ du savoir et du social

      « Les intellectuels ont une mentalité plus totalitaire que les gens du commun » écrivait Georges Orwell (1903-1950), dans Essais, Articles et Lettres.

      Des militants, obsédés par l’#identité, réduite à l’#identitarisme, et sous couvert d’antiracisme et de défense du bien, imposent des #idéologies_racistes par des #procédés_rhétoriques qui consistent à pervertir l’usage de la langue et le sens des mots, en détournant la pensée de certains auteurs engagés dans la lutte contre le racisme qu’ils citent abondamment comme #Fanon ou #Glissant qui, au contraire, reconnaissent l’#altérité et prônent un nouvel #universalisme.

      Parmi ces militants, le Parti des indigènes de la République -dit le #PIR- qui s’inscrit dans la mouvance « décoloniale ».

      La pensée dite « décoloniale » s’insinue à l’Université et menace les sciences humaines et sociales sans épargner la psychanalyse. Ce phénomène se répand de manière inquiétante et nous n’hésitons pas à parler d’un #phénomène_d’emprise qui distille subrepticement des idées propagandistes. Ils véhiculent une idéologie aux relents totalitaires.

      Réintroduire la « #race » et stigmatiser des populations dites « blanches » ou de couleur comme coupables ou victimes, c’est dénier la #complexité_psychique, ce n’est pas reconnaître l’histoire trop souvent méconnue des peuples colonisés et les traumatismes qui empêchent la transmission.

      Une idéologie qui nie ce qui fait la singularité de l’individu, nie les processus toujours singuliers de #subjectivation pour rabattre la question de l’identité sur une affaire de #déterminisme culturel et social.

      Une idéologie qui secondarise, voire ignore la primauté du vécu personnel, qui sacrifie les logiques de l’#identification à celle de l’identité unique ou radicalisée, dénie ce qui fait la spécificité de l’humain.

      Le livre de Houria Bouteldja, porte-parole du PIR, intitulé Les Blancs, les Juifs et nous. Vers une politique de l’amour révolutionnaire (La Fabrique, 2016), soutenu par des universitaires et des chercheurs du CNRS, prétend défendre les #victimes - les « indigènes » - alors qu’il nous paraît en réalité raciste, antisémite, sexiste et homophobe et soutient un islamisme politique. L’ensemble du livre tourne autour de l’idée que les descendants d’immigrés maghrébins en France, du fait de leurs origines, seraient victimes d’un “#racisme_institutionnel” - voire un #racisme_d’Etat-, lequel aboutirait à véritablement constituer des “#rapports_sociaux_racistes”.

      L’auteure s’adresse aux « Juifs » : « Vous, les Juifs » : des gens qui pour une part seraient étrangers à la « blanchité », étrangers à la « race » qui, depuis 1492, dominerait le monde (raison pour laquelle elle distingue les « Juifs » des « Blancs »), mais qui pour une autre part sont pires que les « Blancs », parce qu’ils en seraient les valets criminels.

      Fanon, auquel les décoloniaux se réfèrent, ne disait-il pas : « Quand vous entendez dire du mal des Juifs, dressez l’oreille, on parle de vous ».

      Le #racialisme pousse à la #position_victimaire, au #sectarisme, à l’#exclusion, et finalement au #mépris ou à la #détestation du différent, et à son exclusion de fait. Il s’appuie sur une réécriture fallacieuse de l’histoire qui nie les notions de #progrès de #civilisation mais aussi des racismes et des rivalités tout aussi ancrés que le #racisme_colonialiste.

      C’est par le « #retournement_du_stigmate » que s’opère la transformation d’une #identité_subie en une #identité_revendiquée et valorisée qui ne permet pas de dépasser la « race.

      Il s’agit là, « d’#identités_meurtrières » (#Amin_Maalouf) qui prétendent se bâtir sur le meurtre de l’autre.

      Ne nous leurrons pas, ces revendications identitaires sont des revendications totalitaires, et ces #dérives_sectaires, communautaristes menacent nos #valeurs_démocratiques et républicaines en essentialisant les individus, en valorisant de manière obsessionnelle les #particularités_culturelles et en remettant à l’affiche une imagerie exotique méprisante que les puissances coloniales se sont évertuées à célébrer.

      Cette idéologie s’appuie sur ce courant multiculturaliste états-unien qu’est l’#intersectionnalité en vogue actuellement dans les départements des sciences humaines et sociales. Ce terme a été proposé par l’universitaire féministe américaine #Kimberlé_Crenshaw en 1989 afin de spécifier l’intersection entre le #sexisme et le #racisme subi par les femmes afro-américaines. La mouvance décoloniale peut s’associer aux « #postcolonial_studies » afin d’obtenir une légitimité académique et propager leur idéologie. Là où l’on croit lutter contre le racisme et l’oppression socio-économique, on favorise le #populisme et les #haines_identitaires. Ainsi, la #lutte_des_classes est devenue une #lutte_des_races.

      Des universitaires, des chercheurs, des intellectuels, des psychanalystes s’y sont ralliés en pensant ainsi lutter contre les #discriminations. C’est au contraire les exacerber.

      #Isabelle_de_Mecquenem, professeure agrégée de philosophie, a raison de rappeler que « emprise » a l’avantage de faire écho à l’article L. 141-6 du #code_de_l'éducation. Cet article dispose que « le service public de l’enseignement supérieur est laïque et indépendant de toute emprise politique, économique, religieuse ou idéologique (…) ». Rappelons que l’affaire Dorin à l’Université de Limoges relève d’une action sectaire (propagande envers les étudiants avec exclusion de toute critique).

      Il est impérieux que tout citoyen démocrate soit informé de la dangerosité de telles thèses afin de ne pas perdre de vue la tension irréductible entre le singulier et l’universel pour le sujet parlant. La #constitution_psychique pour Freud n’est en aucun cas un particularisme ou un communautarisme.

      Nous appelons à un effort de mémoire et de pensée critique tous ceux qui ne supportent plus ces logiques communautaristes et discriminatoires, ces processus d’#assignation_identitaire qui rattachent des individus à des catégories ethno-raciales ou de religion.

      La psychanalyse s’oppose aux idéologies qui homogénéisent et massifient.

      La psychanalyse est un universalisme, un humanisme. Elle ne saurait supporter d’enrichir tout « narcissisme des petites différences ». Au contraire, elle vise une parole vraie au profit de la singularité du sujet et de son émancipation.
      Signataires
      Céline Masson, Patrick Chemla, Rhadija Lamrani Tissot, Laurence Croix, Patricia Cotti, Laurent Le Vaguerèse, Claude Maillard, Alain Vanier, Judith Cohen-Solal, Régine Waintrater, Jean-Jacques Moscovitz, Patrick Landman, Jean-Jacques Rassial, Anne Brun, Fabienne Ankaoua, Olivier Douville, Thierry Delcourt, Patrick Belamich, Pascale Hassoun , Frédéric Rousseau, Eric Ghozlan, Danièle Rosenfeld-Katz, Catherine Saladin, Alain Abelhauser, Guy Sapriel, Silke Schauder, Kathy Saada, Marie-José Del Volgo, Angélique Gozlan, Patrick Martin-Mattera, Suzanne Ferrières-Pestureau, Patricia Attigui, Paolo Lollo, Robert Lévy, Benjamin Lévy, Houria Abdelouahed, Mohammed Ham, Patrick Guyomard, Monique Zerbib, Françoise Nielsen, Claude Guy, Simone Molina, Rachel Frouard-Guy, Françoise Neau, Yacine Amhis, Délia Kohen, Jean-Pierre Winter, Liliane Irzenski, Jean Michel Delaroche , Sarah Colin, Béatrice Chemama-Steiner, Francis Drossart, Cristina Lindenmeyer, Eric Bidaud, Eric Drouet, Marie-Frédérique Bacqué, Roland Gori, Bernard Ferry, Marie-Christine Pheulpin, Jacques Barbier, Robert Samacher, Faika Medjahed, Pierre Daviot, Laetitia Petit, David Frank Allen, Daniel Oppenheim, Marie-Claude Fourment-Aptekman, Michel Hessel, Marthe Moudiki Dubreuil, Isabelle Floch, Pierre Marie, Okba Natahi, Hélène Oppenheim-Gluckman, Daniel Sibony, Jean-Luc Gaspard, Eva Talineau, Paul Alerini, Eliane Baumfelder-Bloch, Jean-Luc Houbron, Emile Rafowicz, Louis Sciara , Fethi Benslama, Marielle David, Michelle Moreau Ricaud, Jean Baptiste Legouis, Anna Angelopoulos, Jean-François Chiantaretto , Françoise Hermon, Thierry Lamote, Sylvette Gendre-Dusuzeau, Xavier Gassmann, Guy Dana, Wladi Mamane, Graciela Prieto, Olivier Goujat, Jacques JEDWAB, Brigitte FROSIO-SIMON , Catherine Guillaume, Esther Joly , Jeanne Claire ADIDA , Christian Pierre, Jean Mirguet, Jean-Baptiste BEAUFILS, Stéphanie Gagné, Manuel Perianez, Alain Amar, Olivier Querouil, Jennifer Biget, Emmanuelle Boetsch, Michèle Péchabrier, Isabel Szpacenkopf, Madeleine Lewensztain Gagna, Michèle Péchabrier, Maria Landau, Dominique Méloni, Sylvie Quesemand Zucca

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2019/09/25/la-pensee-decoloniale-renforce-le-narcissisme-des-petites-differences_601292

      #pensée_décoloniale #psychanalyse #totalitarisme

    • Les sciences sociales contre la République ?

      Un collectif de revues de sciences humaines et sociales (SHS) met au défi le ministre de l’éducation nationale de trouver dans ses publications des textes permettant de dire que l’intersectionnalité inspire le terrorisme islamiste.

      Dans le JDD du 25 octobre, le ministre de l’éducation nationale déclarait qu’il y avait, dans les universités, un combat à mener. Contre l’appauvrissement de l’enseignement supérieur ? Contre la précarité étudiante ? Contre les difficultés croissantes que rencontrent tous les personnels, précaires et titulaires, enseignants et administratifs, à remplir leurs missions ? Contre la loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), qui va amplifier ces difficultés ? Non : contre « une partie non négligeable des sciences sociales françaises ». Et le ministre, téméraire : face à cette « #gangrène », il faut cesser la « #lâcheté ».

      On reste abasourdi qu’un ministre de l’#éducation_nationale s’en prenne ainsi à celles et ceux qui font fonctionner les universités. Mais pour aberrants qu’ils soient, ces propos n’étonnent pas tout à fait : déjà tenus, sur Europe 1 et au Sénat, ils prolongent ceux d’Emmanuel Macron, en juin 2020, dans Le Monde, qui accusait les universitaires d’ethniciser la question sociale et de « casser la République en deux ». Plutôt que de se porter garant des libertés académiques, attaquées de toutes parts, notamment dans le cadre du débat parlementaire actuel, Jean-Michel Blanquer se saisit de l’assassinat d’un professeur d’histoire et géographie pour déclarer la guerre aux sciences sociales, qui défendraient des thèses autorisant les violences islamistes ! Sa conviction est faite : ce qui pourrit les universités françaises, ce sont les « thèses intersectionnelles », venues des « universités américaines » et qui « veulent essentialiser » les communautés.

      Ignorance ministérielle

      Le ministre « défie quiconque » de le contredire. Puisque les revues scientifiques sont, avec les laboratoires et les universités, les lieux d’élaboration des sciences sociales, de leurs controverses, de la diffusion de leurs résultats, c’est à ce titre que nous souhaitons mener cette contradiction, ses propos révélant son ignorance de nos disciplines, de leurs débats et de leurs méthodes.

      La démarche scientifique vise à décrire, analyser, comprendre la société et non à décréter ce qu’elle doit être. Les méthodes des sciences sociales, depuis leur émergence avec Emile Durkheim dans le contexte républicain français, s’accordent à expliquer les faits sociaux par le social, précisément contre les explications par la nature ou l’essence des choses. A ce titre, elles amènent aussi à rendre visibles des divisions, des discriminations, des inégalités, même si elles contrarient. Les approches intersectionnelles ne sont pas hégémoniques dans les sciences sociales : avec d’autres approches, que, dans leur précieuse liberté, les revues font dialoguer, elles sont précisément l’un des outils critiques de la #désessentialisation du monde social. Néologisme proposé par la juriste états-unienne Kimberlé Crenshaw à la fin des années 1980, le terme « intersectionnalité » désigne en outre, dans le langage actuel des sciences sociales, un ensemble de démarches qui en réalité remontent au XIXe siècle : il s’agit d’analyser la réalité sociale en observant que les #identités_sociales se chevauchent et que les logiques de #domination sont plurielles.

      Dès 1866, Julie-Victoire Daubié, dans La Femme pauvre au XIXe siècle, montre la particularité de la situation des ouvrières, domestiques et prostituées obligées de travailler pour survivre, faisant des femmes pauvres une catégorie d’analyse pour le champ de la connaissance et de la politique, alors que lorsqu’on parlait des pauvres, on pensait surtout aux hommes ; et que lorsqu’on parlait des femmes, on pensait avant tout aux bourgeoises.

      Une politique répressive de la pensée

      Plus près de nous, l’équipe EpiCov (pour « Epidémiologie et conditions de vie »), coordonnée par la sociologue Nathalie Bajos et le démographe François Héran, vient de publier des données concernant l’exposition au Covid-19 à partir de critères multiples parmi lesquels la classe sociale, le sexe, le lieu de naissance. Une première lecture de ces données indique que les classes populaires travaillant dans la maintenance (plutôt des hommes) et dans le soin (plutôt des femmes) ont été surexposées, et que, parmi elles, on compte une surreprésentation de personnes nées hors d’Europe. Une analyse intersectionnelle cherchera à corréler ces données, entre elles et avec d’autres disponibles, pour mieux comprendre comment les #discriminations s’entrelacent dans la vie des personnes. Où sont l’essentialisation, l’encouragement au communautarisme ? Pour les chercheurs et chercheuses en sciences sociales, il s’agit simplement, à partir de données vérifiées par des méthodes scientifiques, validées entre pairs et ouvertes à la discussion, de faire leur travail.

      L’anathème que le ministre lance traduit une politique répressive de la pensée. Nous mettons M. Blanquer au défi de trouver un seul texte publié dans la bibliothèque ouverte et vivante de nos revues qui permette de dire que l’intersectionnalité inspire le #terrorisme_islamiste. Se saisir d’un mot, « intersectionnalité », pour partir en guerre contre les sciences sociales et, plus généralement, contre la liberté de penser et de comprendre la société, est une manœuvre grossière. Si elle prend, nos universités devront troquer la liberté de chercher (qui est aussi la liberté de se tromper) pour rien moins qu’une science aux ordres, un obscurantisme ministériel. On voit mal comment la République pourrait en sortir grandie.

      Le collectif des revues en lutte, constitué en janvier 2020 autour de l’opposition aux projets de LPPR et de réforme des retraites, rassemble aujourd’hui 157 revues francophones, pour l’essentiel issues des sciences humaines et sociales.

      https://www.lemonde.fr/sciences/article/2020/11/02/les-sciences-sociales-contre-la-republique_6058195_1650684.html

    • Academic freedom in the context of France’s new approach to ’separatism’

      From now on, academic freedom will be exercised within the limits of the values ​​of the Republic. Or not.

      For months, France has been severely weakened by a deepening economic crisis, violent social tensions, and a health crisis out of control. The barbaric assassination of history professor Samuel Paty on October 16 in a Paris suburb and the murder of Vincent Loquès, Simone Barreto Silva, Nadine Devillers in the Notre-Dame basilica in Nice on October 29 have now plunged the country into terror.

      Anger, bewilderment, fear and a need for protection took over French society. French people should have the right to remain united, to understand, to stay sharp, do everything possible not to fall into the trap set by terrorists who have only one objective: to divide them. It is up to politics to lead the effort of collective elaboration of the mourning, to ensure the unity of the country. But that’s not what is happening. Politics instead tries to silence any attempt at reflection tying itself in knots to point the finger at the culprit, or, better yet, the culprits.

      In the narrative of the French government, there are two direct or indirect sources responsible for the resurgence of terrorism: abroad, the foreign powers which finance mosques and organizations promoting the separatism of Islamic communities, and consequently - as is only logical on the perpetually slippery slope of Macronist propaganda - terrorism; at home, it is the academics.

      It is true that the October attacks coincided with tensions which have been increasing for months between France and Turkey on different fronts: Syria, Libya, Nagorno-Karabakh, and above all the Eastern Mediterranean. And it is also true that the relationship between international tensions and the resurgence of terrorism needs to be explored. However, the allusion to the relationship between the role of academics and these attacks is simply outrageous and instrumental, aimed only at discrediting the category of academics engaged in recent weeks in a desperate struggle to prevent the passing of a Research programming law, which violently redefines the methods of funding and management of research projects, the status, the prerogatives as well as the academic freedom of university professors.
      Regaining control?

      “A teacher died and other teachers are being blamed for it" wrote the sociologist Eric Fassin, alluding to a long series of attacks that have been reiterated in recent months on the French university community – a community guilty, according to Macron and his collaborators, of excessive indulgence in the face of “immigration, Islam and integration”.

      “I must regain control of these subjects”, said Emmanuel Macron a year ago to the extreme right-wing magazine Valeurs Actuelles. A few months later, in the midst of a worldwide struggle against racism and police violence, Macron, scandalized by the winds of revolt – rather than by racism and police violence in themselves – explained to Le Monde that "The academic world has been guilty. It has encouraged the ethnicization of social issues, thinking that this was a good path to go down. But the outcome can only be secessionist.” The Minister of National Education Jean-Michel Blanquer, presenting in June 2020 to the Senate’s commission of inquiry on Islamist radicalization, had evoked for his part, “the permeability of the academic world with theories that are at the antipodes of the values of the Republic and secularism”, citing specifically “the indigenist theories”.

      A few days after the homicide of Samuel Paty, in an interview with Europe 1, the minister accused academics of “intellectual complicity with terrorism”, adding that “Islamo-leftism wreaks havoc in the University”… “favoring an ideology that only spells trouble”. Explaining himself further in Le Journal Du Dimanche, on October 24, Blanquer reiterated these accusations, specifying: "There is a fight to be waged against an intellectual matrix coming from American universities and intersectional theses that want to essentialize communities and identities, at the antipodes of the Republican model, which postulates the equality between human beings, independently of their characteristics of origin, sex, religion. It is the breeding ground for a fragmentation of societies that converges with the Islamic model”.
      A Darwinian law

      Such accusations and interferences have provoked many reactions of indignation, including that of the Conférence of University Presidents. However, nothing was sufficient to see the attack off. On Friday evening, after the launch of a fast-track procedure that effectively muzzled the debate, the Senate approved the research programming law. In many respects, this is the umpteenth banal neo-liberal, or, more exactly, admittedly Darwinian, reform of the French university: precarisation of the work of teachers, concentration of the funds on a limited number of “excellent” poles and individuals, promotion of competition between individuals, institutions and countries, strengthening of the managerial management of research, weakening of national guarantee structures and, more generally, weakening of self-governance bodies.

      But this law also contains a clear and astounding plan to redefine the respective roles of science and politics. The article of the law currently in force, which very effectively and elegantly defined the meaning of academic freedom:

      “Teacher and researchers enjoy full independence and complete freedom of expression in the exercise of their teaching functions and their research activities, subject to the reservations imposed on them, in accordance with university traditions and the provisions of this code, the principles of tolerance and objectivity”, has been amended by the addition of this sentence:

      “Academic freedoms are exercised with respect for the values ​​of the Republic”

      This addition which is in itself an outrage against the principles of the separation of powers and academic freedom has been joined by an explicit reference to the events of these days:

      “The terrible tragedy in Conflans-Sainte-Honorine shows more than ever the need to preserve, within the Republic, the freedom to teach freely and to educate the citizens of tomorrow”, states the explanatory memorandum. "The purpose of this provision is to enshrine this in law so that these values, foremost among which is secularism, constitute the foundation on which academic freedoms are based and the framework in which they are expressed.”

      The emotion engendered by the murder of innocent people was therefore well and truly exploited in an ignoble manner to serve the anti-democratic objective of limiting academic freedoms and setting the choices of the subjects to be studied, as well as the “intellettual matrix” to be adopted under the surveillance today of the presidential majority and tomorrow, who knows?

      To confirm this reading of the priorities of the majority and the fears it arouses, on Sunday November 1, Thierry Coulhon, adviser to the President of the Republic was appointed, through a “Blitzkrieg”, head of the Haut Council for the Evaluation of Research and Higher Education (Hceres), the national body responsible for the evaluation of research.

      A few details of this law, including the amendment on the limits of research freedom, may still change in the joint committee to be held on November 9. But the support of academics, individuals, organizations, scholarly journals, for the Solemn appeal for the protection of academic freedom and the right to study is now more urgent and necessary than ever.

      https://www.opendemocracy.net/en/can-europe-make-it/academic-freedom-in-the-context-of-frances-new-approach-to-separatism

    • Les sciences sociales contre la République ?

      Le 2 novembre 2020, l’AG des Revues en Lutte a répondu dans Le Monde au ministre J.-M. Blanquer qui entend combattre « une partie non négligeable des sciences sociales françaises », au prétexte de la lutte anti-terroriste.

      Cette tribune, que nous reproduisons ci-dessous, rejoint de très nombreuses prises de position récentes, contre l’intervention de J.-M. Blanquer, mais aussi contre E. Macron qui accuse les universitaires de « casser la République en deux » et contre deux amendements ajoutés à la LPPR (déjà parfaitement délétère) au Sénat : « les libertés académiques s’exercent dans le respect des valeurs de la République » et « les trouble-fête iront en prison ».

      Voici quelques-unes de ces prises de position :

      - Appel solennel pour la protection des libertés académiques et du droit d’étudier, sur Academia : https://academia.hypotheses.org/27287
      - Libertés académiques : des amendements à la loi sur la recherche rejetés par des sociétés savantes, dans Le Monde : https://www.lemonde.fr/societe/article/2020/11/02/libertes-academiques-des-amendements-a-la-loi-sur-la-recherche-rejetes-par-d
      – Lettre ouverte aux Parlementaires, par Facs et labos en lutte, RogueESR, Sauvons l’Université et Université Ouverte : rogueesr.fr/lettre-ouverte-lpr/
      - Communiqué de presse : retrait de 3 amendements sénatoriaux à la LPR, par le collectif des sociétés savantes académiques : https://societes-savantes.fr/communique-de-presse-retrait-de-3-amendements-senatoriaux-a-la-lpr
      – « Cette attaque contre la liberté académique est une attaque contre l’État de droit démocratique », dans Le Monde : https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/11/02/cette-attaque-contre-la-liberte-academique-est-une-attaque-contre-l-etat-de-
      - Communique de presse national, par Facs et labos en lutte, RogueESR, Sauvons l’Université et Université Ouverte : rogueesr.fr/communique_suspendre_lpr/
      - Intersectionnalité : Blanquer joue avec le feu, par Rose-Marie Lagrave : https://www.liberation.fr/debats/2020/11/03/intersectionnalite-blanquer-joue-avec-le-feu_1804309
      - Qui est complice de qui ? Les libertés académiques en péril, par Eric Fassin : https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/011120/qui-est-complice-de-qui-les-libertes-academiques-en-peril
      - Les miliciens de la pensée et la causalité diabolique, par Seloua Luste Boulbina : https://blogs.mediapart.fr/seloua-luste-boulbina/blog/021120/les-miliciens-de-la-pensee-et-la-causalite-diabolique
      - L’islamo-gauchisme : comment (ne) naît (pas) une idéologie, par Samuel Hayat : https://www.nouvelobs.com/idees/20201027.OBS35262/l-islamo-gauchisme-comment-ne-nait-pas-une-ideologie.html
      – Après Conflans : gare aux mots de la démocratie, par Olivier Compagnon : https://universiteouverte.org/2020/10/27/apres-conflans-gare-aux-mots-de-la-democratie
      – Toi qui m’appelles islamo-gauchiste, laisse-moi te dire pourquoi le lâche, c’est toi, par Alexis Dayon : https://blogs.mediapart.fr/alexis-dayon/blog/221020/toi-qui-mappelles-islamo-gauchiste-laisse-moi-te-dire-pourquoi-le-la
      - « Que le terme plaise ou non, il y a bien une islamophobie d’État en France », par Jean-François Bayart : https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/10/31/jean-francois-bayart-que-le-terme-plaise-ou-non-il-y-a-bien-une-islamophobie

      On peut également mentionner les nombreux numéros de revues académiques, récents ou à venir, portant sur l’intersectionnalité, cœur de l’attaque du gouvernement. Les Revues en Lutte en citent plusieurs dans un superbe fil Twitter (https://twitter.com/RevuesEnLutte/status/1321861736165711874?s=20).

      Un collectif de revues de sciences humaines et sociales (SHS) met au défi le ministre de l’éducation nationale de trouver dans ses publications des textes permettant de dire que l’intersectionnalité inspire le terrorisme islamiste.

      Tribune

      Dans le JDD du 25 octobre, le ministre de l’éducation nationale déclarait qu’il y avait, dans les universités, un combat à mener. Contre l’appauvrissement de l’enseignement supérieur ? Contre la précarité étudiante ? Contre les difficultés croissantes que rencontrent tous les personnels, précaires et titulaires, enseignants et administratifs, à remplir leurs missions ? Contre la loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), qui va amplifier ces difficultés ? Non : contre « une partie non négligeable des sciences sociales françaises ». Et le ministre, téméraire : face à cette « gangrène », il faut cesser la « lâcheté ».

      On reste abasourdi qu’un ministre de l’éducation nationale s’en prenne ainsi à celles et ceux qui font fonctionner les universités. Mais pour aberrants qu’ils soient, ces propos n’étonnent pas tout à fait : déjà tenus, sur Europe 1 et au Sénat, ils prolongent ceux d’Emmanuel Macron, en juin 2020, dans Le Monde, qui accusait les universitaires d’ethniciser la question sociale et de « casser la République en deux ». Plutôt que de se porter garant des libertés académiques, attaquées de toutes parts, notamment dans le cadre du débat parlementaire actuel, Jean-Michel Blanquer se saisit de l’assassinat d’un professeur d’histoire et géographie pour déclarer la guerre aux sciences sociales, qui défendraient des thèses autorisant les violences islamistes ! Sa conviction est faite : ce qui pourrit les universités françaises, ce sont les « thèses intersectionnelles », venues des « universités américaines » et qui « veulent essentialiser » les communautés.
      Ignorance ministérielle

      Le ministre « défie quiconque » de le contredire. Puisque les revues scientifiques sont, avec les laboratoires et les universités, les lieux d’élaboration des sciences sociales, de leurs controverses, de la diffusion de leurs résultats, c’est à ce titre que nous souhaitons mener cette contradiction, ses propos révélant son ignorance de nos disciplines, de leurs débats et de leurs méthodes.

      La démarche scientifique vise à décrire, analyser, comprendre la société et non à décréter ce qu’elle doit être. Les méthodes des sciences sociales, depuis leur émergence avec Emile Durkheim dans le contexte républicain français, s’accordent à expliquer les faits sociaux par le social, précisément contre les explications par la nature ou l’essence des choses. A ce titre, elles amènent aussi à rendre visibles des divisions, des discriminations, des inégalités, même si elles contrarient. Les approches intersectionnelles ne sont pas hégémoniques dans les sciences sociales : avec d’autres approches, que, dans leur précieuse liberté, les revues font dialoguer, elles sont précisément l’un des outils critiques de la désessentialisation du monde social. Néologisme proposé par la juriste états-unienne Kimberlé Crenshaw à la fin des années 1980, le terme « intersectionnalité » désigne en outre, dans le langage actuel des sciences sociales, un ensemble de démarches qui en réalité remontent au XIXe siècle : il s’agit d’analyser la réalité sociale en observant que les identités sociales se chevauchent et que les logiques de domination sont plurielles.

      Dès 1866, Julie-Victoire Daubié, dans La Femme pauvre au XIXe siècle, montre la particularité de la situation des ouvrières, domestiques et prostituées obligées de travailler pour survivre, faisant des femmes pauvres une catégorie d’analyse pour le champ de la connaissance et de la politique, alors que lorsqu’on parlait des pauvres, on pensait surtout aux hommes ; et que lorsqu’on parlait des femmes, on pensait avant tout aux bourgeoises.
      Une politique répressive de la pensée

      Plus près de nous, l’équipe EpiCov (pour « Epidémiologie et conditions de vie »), coordonnée par la sociologue Nathalie Bajos et l’épidémiologiste Josiane Warszawski, vient de publier des données concernant l’exposition au Covid-19 à partir de critères multiples parmi lesquels la classe sociale, le sexe, le lieu de naissance. Une première lecture de ces données indique que les classes populaires travaillant dans la maintenance (plutôt des hommes) et dans le soin (plutôt des femmes) ont été surexposées, et que, parmi elles, on compte une surreprésentation de personnes nées hors d’Europe. Une analyse intersectionnelle cherchera à corréler ces données, entre elles et avec d’autres disponibles, pour mieux comprendre comment les discriminations s’entrelacent dans la vie des personnes. Où sont l’essentialisation, l’encouragement au communautarisme ? Pour les chercheurs et chercheuses en sciences sociales, il s’agit simplement, à partir de données vérifiées par des méthodes scientifiques, validées entre pairs et ouvertes à la discussion, de faire leur travail.

      L’anathème que le ministre lance traduit une politique répressive de la pensée. Nous mettons M. Blanquer au défi de trouver un seul texte publié dans la bibliothèque ouverte et vivante de nos revues qui permette de dire que l’intersectionnalité inspire le terrorisme islamiste. Se saisir d’un mot, « intersectionnalité », pour partir en guerre contre les sciences sociales et, plus généralement, contre la liberté de penser et de comprendre la société, est une manœuvre grossière. Si elle prend, nos universités devront troquer la liberté de chercher (qui est aussi la liberté de se tromper) pour rien moins qu’une science aux ordres, un obscurantisme ministériel. On voit mal comment la République pourrait en sortir grandie.

      https://universiteouverte.org/2020/11/03/les-sciences-sociales-contre-la-republique

    • Islamisme : où est le déni des universitaires   ?

      Dans une tribune publiée par « le Monde », une centaine de professeurs et de chercheurs dénoncent les « idéologies indigénistes, racialistes et décoloniales » de leurs pairs, lesquelles mèneraient au terrorisme. Les auteurs rejouent ainsi la rengaine du choc des cultures qui ne peut servir que l’extrême droite identitaire.

      Comment peut-on prétendre alerter sur les dangers, réels, cela va sans dire, de l’islamisme en se référant aux propos confus et injurieux de Jean-Michel Blanquer ? Or, une récente tribune du Monde (https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/10/31/une-centaine-d-universitaires-alertent-sur-l-islamisme-ce-qui-nous-menace-c-), au lieu de contribuer à une nécessaire clarification, n’a pas d’autre fonction que de soutenir un ministre qui, loin de pouvoir se prévaloir d’une quelconque expertise sur les radicalités contemporaines, mène en outre une politique régressive pour l’école, c’est-à-dire indifférente à la reproduction des inégalités socio-culturelles dont s’accommode l’idéologie méritocratique. Faire oublier cette politique en détournant l’attention, d’autres que lui l’ont fait. Il convient seulement de ne pas être dupe.

      Car que disent les auteurs (certains d’entre eux, fort estimables, ont probablement oublié de relire) ? Que « l’islamo-gauchisme », ni défini ni corrélé au moindre auteur, est l’idéologie « qui mène au pire », soit au terrorisme. Ceux qui la propagent dans nos universités, « très puissants dans l’enseignement supérieur », commettraient d’irréparables dégâts. Et l’on invoque pêle-mêle l’indigénisme, le racialisme et le décolonialisme, sans le moindre souci de complexification, ni même de définition, souci non utile tant le symptôme de la supposée gangrène serait aisément repérable : le port du voile.

      Plus de trente ans après l’affaire de Creil, et quantité de travaux sociologiques, on n’hésite donc toujours pas à nier l’équivocité de ce signe d’appartenance pour le réduire à un outil de propagande. Chercher à comprendre, au lieu de condamner, serait une manifestation de l’esprit munichois. Que la Conférence des présidents d’université (CPU) proteste contre les déclarations du ministre, en rappelant utilement la fonction des chercheurs, passe par pertes et profits, l’instance que l’on ne peut soupçonner d’un quelconque gauchisme étant probablement noyautée par des islamistes dissimulés !

      Cette tribune rejoue, une fois encore, une vieille rengaine, celle du #choc_des_civilisations : « haine des Blancs », « doxa antioccidentale », « #multiculturalisme » (!), voilà les ennemis dont les universitaires se réclameraient, ou qu’ils laisseraient prospérer, jusqu’à saper ce qui fait le prix de notre mode de vie. Au demeurant, les signataires de la présente tribune sont profondément attachés aux principes de la République et, en l’espèce, à la liberté de conscience et d’expression. C’est au nom de celle-ci qu’ils se proposent de dénoncer les approximations de leurs collègues.

      Choisir le #débat plutôt que l’#invective

      Concernant l’#indigénisme, sa principale incarnation, le Parti des indigènes de la République (PIR) a totalement échoué dans sa volonté d’être audible dans nos enceintes universitaires. Chacun sait bien que l’écho des thèses racistes, antisémites et homophobes d’#Houria_Bouteldja est voisin de zéro. Quant au #décolonialisme, auquel l’indigénisme se rattache mais qui recouvre quantités d’autres thématiques, il représente bien un corpus structuré. Néanmoins, les études sur son influence dans nos campus concluent le plus souvent à un rôle marginal. Et, quoi qu’il en soit, ses propositions méritent débat parce qu’elles se fondent sur une réalité indiscutable : celle de l’existence d’injustices « épistémiques », c’est-à-dire d’#injustices qui se caractérisent par les #inégalités d’accès, selon l’appartenance raciale ou de genre, aux positions académiques d’autorité.

      D’une façon générale, il ne fait aucun doute que la communauté scientifique a, dans le passé, largement légitimé l’idée de la supériorité des hommes sur les femmes, des Blancs sur les Noirs, des « Occidentaux » sur les autochtones, etc. Mais, à partir de ce constat, les décoloniaux refusent la possibilité d’un point de vue universaliste et objectif au profit d’une épistémologie qui aurait « une couleur et une sexualité ». Ce faisant, ils oublient #Fanon dont pourtant ils revendiquent l’héritage : « Chaque fois qu’un homme a fait triompher la dignité de l’esprit, chaque fois qu’un homme a dit non à une tentative d’asservissement de son semblable, je me suis senti solidaire de son acte. En aucune façon je ne dois tirer du passé des peuples de couleur ma vocation originelle. […] Ce n’est pas le monde noir qui me dicte ma conduite. Ma peau noire n’est pas dépositaire de valeurs spécifiques. » Nous devons choisir le débat plutôt que l’invective.

      L’obsession antimulticulturaliste

      Quant à l’obsession antimulticulturaliste (« #prêchi-prêcha », écrivent-ils), elle est ignorante de ce qu’est vraiment ce courant intellectuel. A de nombreux égards, ce dernier propose une conception de l’#intégration différente de celle cherchant à assimiler pour égaliser. Il est donc infondé de le confondre avec une vision ethno-culturelle du lien politique. Restituer à l’égal sa différence, tel est le projet du multiculturalisme, destiné en définitive à aller plus loin dans l’instauration de l’#égalité que n’était parvenue à le faire la solution républicaine classique. Le meilleur de ce projet, mais non nécessairement sa pente naturelle, est sa contribution à ce que l’un de nous nomme la « #décolonisation_des_identités » (Alain Renaut), conciliation que les crimes de la #colonisation avaient rendue extrêmement difficile. Bref, nous sommes très éloignés du « prêchi-prêcha ».

      Enfin, un mot sur la « #haine_des_Blancs ». Cette accusation est non seulement stupéfiante si elle veut rendre compte des travaux universitaires, mais elle contribue à l’#essentialisation « racialiste » qu’elle dénonce. En effet, elle donne une consistance théorique à l’apparition d’un nouveau groupe, les Blancs, qui auparavant n’était pas reconnu, et ne se reconnaissait pas, comme tel. Dès lors, en présupposant l’existence d’une idéologie racialiste anti-française, anti-blanche, on inverse les termes victimaires en faisant de la culture dominante une culture assiégée. Ce tour de passe-passe idéologique ne peut servir que l’extrême droite identitaire.

      Toutes nos remarques critiques montrent qu’au lieu d’amorcer un nécessaire débat, la tribune ici analysée témoigne du déni dont pourtant des intellectuels non clairement identifiés sont accusés. Comment interpréter ce « manifeste » autrement que comme un appel à censurer ?

      https://www.liberation.fr/debats/2020/11/04/islamisme-ou-est-le-deni-des-universitaires_1804439

    • « Les libertés sont précisément foulées aux pieds lorsqu’on en appelle à la dénonciation d’études et de pensée »

      Environ deux mille chercheurs et chercheuses dénoncent, dans une tribune au « Monde », l’appel à la police de la pensée dans les universités signé par une centaine d’universitaires en soutien aux propos de Jean-Michel Blanquer sur « l’islamo-gauchisme ».

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/11/04/les-libertes-sont-precisement-foulees-aux-pieds-lorsqu-on-en-appelle-a-la-de

    • Open Letter: the threat of academic authoritarianism – international solidarity with antiracist academics in France

      A critical response to the Manifesto signed by over 100 French academics and published in the newspaper Le Monde on 2 November 2020, after the assassination of the school teacher, Samuel Paty.

      At a time of mounting racism, white supremacism, antisemitism and violent far-right extremism, academic freedom has come under attack. The freedom to teach and research the roots and trajectories of race and racism are being perversely blamed for the very phenomena they seek to better understand. Such is the contention of a manifesto signed by over 100 French academics and published in the newspaper Le Monde on 2 November 2020. Its signatories state their agreement with French Minister of Education, Jean-Michel Blanquer, that ‘indigenist, racialist, and “decolonial” ideologies,’ imported from North America, were responsible for ‘conditioning’ the violent extremist who assassinated school teacher, Samuel Paty, on 16 October 2020.

      This claim is deeply disingenuous, and in a context where academics associated with critical race and decolonial research have recently received death threats, it is also profoundly dangerous. The scholars involved in this manifesto have readily sacrificed their credibility in order to further a manifestly false conflation between the study of racism in France and a politics of ‘Islamism’ and ‘anti-white hate’. They have launched it in a context where academic freedom in France is subject to open political interference, following a Senate amendment that redefines and limits it to being ‘exercised with respect for the values of the Republic’.

      The manifesto proposes nothing short of a McCarthyist process to be led by the French Ministry for Higher Education, Research and Innovation to weed out ‘Islamist currents’ within universities, to take a clear position on the ‘ideologies that underpin them’, and to ‘engage universities in a struggle for secularism and the Republic’ by establishing a body responsible for dealing with cases that oppose ‘Republican principles and academic freedom’. The ‘Islamogauchiste’ tag (which conflates the words ‘Islam’ and ‘leftists’) is now widely used by members of the government, large sections of the media and hostile academics. It is reminiscent of the antisemitic ‘Judeo-Bolshevism’ accusation in the 1930s which blamed the spread of communism on Jews. The ‘Islamogauchiste’ notion is particularly pernicious as it voluntarily confuses Islam (and Muslims) with Jihadist Islamists. In other words, academics who point out racism against the Muslim minority in France are branded allies of Islamist terrorists and enemies of the nation.

      This is not the only contradiction that shapes this manifesto. Its signatories appear oblivious to how its feverish tone is redolent of the antisemitic witch-hunts against so-called ‘Cultural Marxists’ that portrayed Jewish intellectuals as enemies of the state. Today’s enemies are Muslims, political antiracists, and decolonial thinkers, as well as anyone who stands with them against rampant state racism and Islamophobia.

      Further, when seen in a global context, the question of who is in fact ‘importing’ ideas from North America is worth considering. The manifesto comes on the back of the Trump administration’s executive order ‘on Combating Race and Sex Stereotyping’ which effectively bans federal government contractors or subcontractors from engaging what are characterised as ideologies that portray the United States as ‘fundamentally racist or sexist’. Quick on Trump’s heels, the British Conservative Party moved to malign Critical Race Theory as a separatist ideology that, if taught in schools, would be ‘breaking the law’.

      We are concerned about the clear double standards regarding academic freedom in the attack on critical race and decolonial scholarship mounted by the manifesto. In opposition to the actual tenets of academic freedom, the demands it makes portray any teaching and research into the history or sociology of French colonialism and institutionalised racism as an attack on academic freedom. In contrast, falsely and dangerously linking these scholarly endeavours to Islamic extremism and holding scholars responsible for brutal acts of murder, as do the signatories of the Manifesto, is presented as consistent with academic freedom.

      This is part of a global trend in which racism is protected as freedom of speech, while to express antiracist views is regarded as a violation of it. For the signatories of the manifesto – as for Donald Trump – only sanitised accounts of national histories that omit the truth about colonialism, slavery, and genocide can be antiracist. In this perverse and ahistorical vision, to engage in critical research and teaching in the interests of learning from past injustices is to engage in ‘anti-white racism’, a view that reduces racism to the thoughts of individuals, disconnecting it from the actions, laws and policies of states and institutions in societies in which racial socioeconomic inequality remains rife.

      In such an atmosphere, intellectual debate is made impossible, as any critical questioning of the role played by France in colonialism or in the current geopolitics of the Middle East or Africa, not to mention domestic state racism, is dismissed as a legitimation of Islamist violence and ‘separatism’. Under these terms, the role of political and economic elites in perpetuating racism both locally and on a global scale remains unquestioned, while those who suffer are teachers and activists attempting to improve conditions for ordinary people on the ground.

      In the interests of a real freedom, of speech and of conscience, we stand with French educators under threat from this ideologically-driven attack by politicians, commentators and select academics. It is grounded in the whitewashing of the history of race and colonialism and an Islamophobic worldview that conflates all Muslims with violence and all their defenders with so-called ‘leftist Islamism’. True academic freedom must include the right to critique the national past in the interests of securing a common future. At a time of deep polarization, spurred by elites in thrall to white supremacism, defending this freedom is more vital than ever.

      https://www.opendemocracy.net/en/can-europe-make-it/open-letter-the-threat-of-academic-authoritarianism-international-sol

    • Qui pour soutenir les « coupables de dérives intellectuelles idéologiques dans les universités » ?

      Mercredi 25 novembre 2020 : deux députés demandent la « création d’une mission d’information sur les dérives intellectuelles idéologiques dans les milieux universitaires », et le font publiquement savoir par un communiqué de presse.

      Ni la ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation, ni la Conférence des présidents d’université, ni l’Udice, l’association autoproclamée des dix plus grandes « universités de recherche » françaises, ne bougent le petit doigt.

      Jeudi 26 novembre 2020 : l’un des deux députés précédents, un certain Julien Aubert, se sentant pousser des ailes, décide d’aller plus loin, et dresse une liste de sept universitaires, dont un président d’université, qui ont en commun d’avoir dit sur les réseaux sociaux le dégoût que leur inspire l’idée même de « dérives intellectuelles idéologiques ». Publiant leurs photos de profils et leurs comptes Twitter personnels, le député jubile, avec le message suivant :

      « Les coupables s’autodésignent. Alors que la privation du débat, l’ostracisation et la censure est constatée par nombre de professeurs, étudiants ou intellectuels, certains se drapent dans des accusations de fascisme et de maccarthysme. »

      La ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation, la Conférence des présidents d’université et l’Udice ne bougent pas davantage le petit doigt.

      Vendredi 27 novembre 2020 : L’Auref, l’Alliance des universités de recherche et de formation, qui regroupe rien de moins que 35 universités, décide de sortir du bois, et il faut la saluer. Il faut dire, aussi, que l’un de ses membres, le président de l’université de Bordeaux Montaigne, figure par les « coupables » désigné par le député Aubert. Le communiqué choisit de rester tout en rondeur : il « appelle à plus de calme et de retenue dans les propos, de dignité et de respect de l’autre dans le légitime débat public, de mobilisation sur les vrais enjeux de la France et de son université ». Mais il a le mérite, lui, d’exister.

      L’université de Rennes 2, de son côté, annonce se réserver « le droit de donner une suite juridique à cette dérive grave ». C’est en effet une vraie question, à tout le moins sur le terrain de la diffamation.

      Du côté de la ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation, de la Conférence des présidents d’université et de l’Udice, en revanche, rien. Toujours rien. Désespérément rien.

      Ils bougeront un jour, c’est sûr, il le faudra bien, comme ils avaient bougé après les propos de Jean-Michel Blanquer sur l’islamo-gauchisme. Mais bouger comme ils le font, à la vitesse d’escargots réticents, ce n’est pas un soutien résolu et indéfectible dans la défense des libertés académiques. Ces gens ne sont tout simplement pas à la hauteur de l’Université.

      https://academia.hypotheses.org/29081

    • Chasse aux sorcières. Un député contre-attaque

      Loi recherche, libertés académiques et furie parlementaire..
      Comme elles venaient cette fois de députés, j’ai demandé au Président de l’@AssembleeNat de se saisir des attaques personnelles contre des personnels de l’enseignement supérieur et de la recherche.
      Rien ne va plus.

      https://twitter.com/Sebastien_Nadot/status/1332350483437150209


      https://academia.hypotheses.org/29133

      #Sébastien_Nadot

    • La liste des coupables s’allonge. Au tour des universités ?

      Au Journal officiel de ce 3 décembre 2020, on trouve le décret portant dissolution d’un « #groupement_de_fait », l’« Association de défense des droits de l’homme – #Collectif_contre_l’islamophobie_en_France » (https://www.legifrance.gouv.fr/download/pdf?id=-nWvo0jS6QqmBjWn9EPe_u_AvWkqbw3aGTWSBldcbDg=). Cette association était plus connue sous le nom de « #CCIF ».

      Ce décret de #dissolution inhabituellement long – trois pages – a déjà largement été commenté et dénoncé1. Academia se permet néanmoins d’insister sur un point : il est important de lire avec attention l’argumentation de ce décret — ce qu’en droit, on nomme les motifs — et d’observer par quels sautillements logiques le gouvernement en arrive aux pires conclusions. C’est même crucial pour la communauté de l’ESR, dans un contexte bien particulier d’attaques contre les libertés académiques. Certes, ce n’est pas la même artillerie qui est déployée contre le CCIF, d’un côté, et contre les universités et les scientifiques, de l’autre ; mais les petits bonds logiques qui y conduisent présentent de très fortes ressemblances.

      Prenons le premier des motifs du décret :

      « En qualifiant d’islamophobes des mesures prises dans le but de prévenir des actions terroristes et de prévenir ou combattre des actes punis par la loi, [le CCIF] doit être regardé comme partageant, cautionnant et contribuant à propager de telles idées, au risque de susciter, en retour, des actes de haine, de violence ou de discrimination ou de créer le terrain d’actions violentes chez certains de ses sympathisants ».

      Et voyons à quelle conclusion ce motif conduit :

      « Considérant que par suite, [le CCIF] doit être regardé comme provoquant à la haine, à la discrimination et à la violence en raison de l’origine, de l’appartenance à une ethnie, à une race ou à une religion déterminée et comme propageant des idées ou théories tendant à justifier ou encourager cette discrimination, cette haine ou cette violence ».

      Voilà donc un raisonnement qui se déploie de manière très décomplexée. Voir de l’islamophobie dans certaines évolutions arbitraires et discriminatoires de l’action anti-terroriste, c’est, première conséquence, prendre le « risque » de susciter du terrorisme ; et dans tous les cas, cela doit, seconde conséquence, être regardé comme une provocation à la haine, à la discrimination et à la violence en raison de l’origine, de l’appartenance à une ethnie, à une race ou à une religion déterminée et comme une propagation des idées ou théories tendant à justifier ou encourager cette discrimination, cette haine ou cette violence.

      Ce mode bien particulier de raisonnement appelle deux remarques.

      La première remarque a trait au choix bien précis des mots qui sont employés dans le décret de dissolution du 2 décembre 2020. Ce décret fait référence, en réalité, à deux infractions pénales :

      - Il suggère d’abord l’infraction de provocation directe à des actes de terrorisme. Au terme de l’article 421-2-5 du code pénal, en effet, « le fait de provoquer directement à des actes de terrorisme ou de faire publiquement l’apologie de ces actes est puni de cinq ans d’emprisonnement et de 75 000€ d’amende ».
      - Il suggère ensuite l’infraction d’incitation à la haine, à la violence ou à la discrimination raciale. Au terme de l’article 24 de la loi du 29 juillet 1881 sur la liberté de la presse, en effet, « ceux qui auront provoqué à la discrimination, à la haine ou à la violence à l’égard d’une personne ou d’un groupe de personnes à raison de leur origine ou de leur appartenance ou de leur non-appartenance à une ethnie, une nation, une race ou une religion déterminée, seront punis d’un an d’emprisonnement et de 45 000 euros d’amende ou de l’une de ces deux peines seulement ».

      Mais le décret ne fait que suggérer ces infractions : il en reprend des formules, mais il ne dit pas qu’elles ont été commises par le CCIF. Il ne le dit pas parce que ces infractions n’ont pas été commises. Si elles l’avaient été, des poursuites pénales auraient immédiatement été engagées. Les outils de la police administrative — ici la dissolution d’une association — viennent donc suppléer les outils de la répression pénale, en singeant ces derniers : puisque le CCIF n’était pas sérieusement attaquable devant le juge pénal, le pouvoir exécutif choisit de l’attaquer par la voie administrative, et pour cela, il mime le vocabulaire pénal, tout en s’affranchissant, évidemment, de toutes les garanties qui caractérisent le procès pénal.

      La seconde remarque est, pour les universités, la plus importante. La dissolution du CCIF est largement justifiée par des propos tenus par l’association et ses dirigeants, au titre de leur liberté d’expression et sans qu’aucune infraction pénale n’ait été commise. La Ligue des droits de l’homme l’a bien identifié dans son communiqué : avec ce décret « le gouvernement s’engage sur la voie du délit d’opinion », un délit qui, précisément, n’existe pas. Un des motifs retenus dans le décret est, de ce point de vue, significatif :

      « sous couvert de dénoncer les actes de discriminations commis contre les musulmans, [le CCIF] défend et promeut une notion d’islamophobie particulièrement large, n’hésitant pas à comptabiliser au titre des ‘actes islamophobes‘ des mesures de police administrative, voire des décisions judiciaires, prises dans le cadre de la lutte contre le terrorisme ».

      Ainsi donc, qualifier des pans de la lutte contre le terrorisme d’actes « islamophobes » est désormais interdit. Ce n’est pas interdit sur le plan pénal ; mais c’est sanctionné par le pouvoir exécutif, qui use pour cela de ses outils de police administrative.
      Quels enseignements pour l’enseignement supérieur et la recherche ?

      Ces petits bonds logiques grâce auxquels Emmanuel Macron, Jean Castex et Gérald Darmanin, les trois signataires du décret, justifient des atteintes à la libre expression sont évidemment inquiétants quant à l’état général des droits et libertés en France. Or, on observe quelques tressaillements du même ordre du côté de l’enseignement supérieur et de la recherche, et c’est sur ce point que nous aimerions insister à présent. Bien sûr, la situation du CCIF et celle de l’ESR restent incomparables, dans la mesure où, du côté de l’ESR, la grande machinerie de la police administrative n’a pas été mise en branle comme elle l’a été pour le CCIF. En revanche, des petits bonds logiques du même ordre que ceux dont le CCIF a été victime se multiplient jusqu’au sein des plus prestigieux établissements d’enseignement supérieur et de recherche. Plus inquiétant encore, ils se diffusent dans des cercles de plus en plus officiels au parlement et au gouvernement.

      L’établissement de relations entre des recherches scientifiques, d’un côté, et des qualifications pénales, de l’autre, sans pour autant que le moindre début de délit ne puisse être établi, se retrouve désormais couramment sous la plume de certain·es universitaires. Nathalie Heinich, directrice de recherche CNRS (classe exceptionnelle), membre du Centre de recherches sur les arts et le langage (CNRS/ EHESS), s’y prête allègrement par exemple : comme elle l’a récemment déclaré au Times Higher Education2, « les affirmations des universitaires sur le ‘racisme systématique’ et le ‘racisme d’État’ sont un encouragement direct au terrorisme ». Un encouragement direct au terrorisme, dit-elle : la référence à l’article 421-2-5 du code pénal, évoqué plus haut, est à nouveau explicite. À l’instar de ce que fait le pouvoir exécutif dans le décret de dissolution du CCIF, le vocabulaire du droit pénal est appelé à la rescousse pour attaquer certaines formes d’expression, sans, pour autant, qu’aucun début d’infraction pénale ne puisse être mobilisé.

      Ces références mal contrôlées au droit pénal auxquelles se livrent certain·es universitaires ne sont pas sans effets. Elles sont désormais reprises non sans opportunisme par certaines des plus hautes autorités de l’État. C’est le cas du député Julien Aubert qui, après avoir appelé avec le président du groupe des Républicains de l’Assemblée nationale à la mise en place d’une « mission d’information sur les dérives intellectuelles idéologiques dans les milieux universitaires », dresse des listes d’universitaires qu’il désigne comme « coupables ». C’est le cas, aussi, du ministre de l’Éducation nationale Jean-Michel Blanquer lorsqu’il parle, à propos des universités, de « complicité intellectuelle du terrrorisme ».

      Quand un parlementaire et un ministre, l’un et l’autre de premier plan, décident de mobiliser du vocabulaire pénal et de parler de « culpabilité » et de « complicité » à propos d’universitaires, il y a lieu d’être inquiet·es. Pour Jean-Michel Blanquer, agrégé de droit public, ces références pénales se font en toute connaissance de cause, d’ailleurs, si l’on veut bien se souvenir que, dans son autre vie, il a publié des travaux très sérieux au sujet des relations entre responsabilité pénale et responsabilité politique. Notons que l’un de ses ouvrages s’appelait La responsabilité des gouvernants, ce qui, c’est le moins qu’on puisse dire, est un titre qui résonne aujourd’hui étrangement concernant le ministre Blanquer.

      Dans un tel contexte, le décret de dissolution du CCIF est riche d’enseignements et justifie ce long billet d’Academia. Résumons les choses : si le CCIF a été dissout, ce n’est pas sur la base d’infractions pénales, puisqu’il n’était pas sérieusement possible d’actionner ces infractions, alors même qu’on n’a cessé d’en étendre le champ depuis vingt ans. Si le CCIF a été dissout, c’est par des références abusives à des infractions pénales, sur la base de quoi des mesures de police administrative ont été actionnées par le pouvoir exécutif, dont les motifs, nous l’avons vu, se situent d’abord et avant tout sur le terrain de la liberté d’expression.

      Que peut-on dans ces conditions craindre pour l’enseignement supérieur et la recherche ? Dès lors que l’on observe, aujourd’hui, que des collègues et du personnel politique de premier plan singent eux aussi des infractions pénales pour critiquer des recherches scientifiques, on peut légitimement craindre qu’un mouvement de terrain du même ordre que celui dont le CCIF a été la victime se réalise s’agissant des universités. Tout y mène.

      L’exclusion du champ académique

      Ce risque ne viendra sans doute pas du droit pénal lui-même, en tout cas pas dans un premier temps. Certes, on se souvient que la loi de programmation de la recherche a déjà étendu brusquement le champ du droit pénal universitaire, avec le nouveau délit d’atteinte au bon ordre et à la tranquillité des établissements. Mais on peut espérer que ce délit ne sorte pas sans dommage du contrôle du Conseil constitutionnel ; surtout, il ne suffira pas pour attaquer les recherches qui représentent « un encouragement direct au terrorisme », pas plus que la législation pénale anti-terroriste n’a suffi pour s’attaquer aux propos du CCIF. C’est donc vers de nouvelles formes juridiques de contraintes, autres que celles que propose le droit pénal, que le débat est en train de se déplacer plus ou moins consciemment, comme il s’est déplacé pour le CCIF. La voie la plus simple, pour cela, consiste à inventer de nouvelles limites à la libre expression des enseignant·es et des chercheur·ses, afin d’exclure du champ académique, et donc du champ des libertés académiques, certains propos et certain·es collègues.

      Cette démarche d’exclusion hors du champ des libertés académiques, dont les fondements épistémologiques ne sont pas neufs3, a pris une dimension professionnelle particulière depuis quelques années. Épistémologiquement, il s’agit de « faire coupure » entre ce qui est bonne science et mauvaise science, selon un principe médical de l’amputation pour éviter la propagation de la gangrène au corps entier : certain·es rappellent ainsi régulièrement que les sciences sociales critiques ne sont pas des sciences militantes, l’invocation du « militantisme » disqualifiant la légitimité épistémologique des travaux menés par des hommes et des femmes engagé∙es. Olivier Beaud, voix écoutée et reconnue de l’association Qualité de la science française, s’exprimait ainsi dans Le Monde du 2 décembre :

      « Je refuse l’inquisition politique mais je refuse aussi le silence qui serait de la lâcheté intellectuelle et reviendrait à cautionner des universitaires dont la pratique serait de surdéterminer leurs recherches censément scientifiques (donc objectives) par des considérations lourdement idéologiques, fût-ce au motif de défendre telle ou telle minorité ».

      L’article du Monde précise ensuite les propos d’Olivier Beaud : selon lui, des universitaires « radicaux » auraient délaissé la distinction opérée par Max Weber entre le « jugement de fait », qui fonde leurs recherches, et le « jugement de valeur », qui fonde leurs opinions.

      En se référant ainsi à la « neutralité axiologique » de Max Weber, Olivier Beaud tord la pensée d’un homme profondément engagé dans la construction de l’État prussien par les sciences économiques et sociales. Par chance pour notre démonstration, la traduction commandée à Julien Freund par Raymond Aron et parue en 1963 dans un contexte de guerre froide, a fait récemment l’objet de plusieurs éditions critiques qui retraduisent en français le texte original Du métier de savant (Wissenschaft als Beruf, 1917)4. Pour celles et ceux qui ont eu accès au texte de Weber par la seule traduction française, la lecture de cette traduction révisée est très éclairante : l’universitaire, pour faire science, a besoin d’une « inspiration », qui donne un sens à son travail, notamment ses tâches calculatoires ; cette inspiration a partie liée avec une question éthique, intime et indispensable : « quelle est la vocation de la science pour l’ensemble de la vie de l’humanité ? Quelle en est la valeur ? ».

      De nos jours, il est fréquent que l’on parle d’une « sciences sans présupposés, écrit Max Weber. Une telle science existe-t-elle ? Tout dépend ce que l’on entend par là. Tout travail scientifique présuppose la validité des règles de la logique et de la méthode, ces fondements universels de notre orientation dans le monde. Ces présupposés-là sont les moins problématiques du moins pour la question particulière qui nous occupe. Mais on présuppose aussi que le résultat du travail scientifique est important au sens où il mérite d’être connu. Et c’est de là que découlent, à l’évidence, tous nos problèmes. Car ce présupposé, à son tour, ne peut être démontré par les moyens de la science. On ne peut qu’en interpréter le sens ultime, et il faut le refuser ou l’accepter selon les positions ultimes que l’on adopte à l’égard de la vie
      — Weber, 1917 [2005], p. 36

      Les problèmes que Max Weber5 repérait hier sont les nôtres aujourd’hui : certains ou certaines disqualifient le travail scientifique de leurs collègues, non à l’aune de leur qualité scientifique intrinsèque, reposant sur la qualité de la réflexion, de la documentation, de l’analyse, mais par les présupposés qui ont initié la recherche.

      Ces derniers mois, les choses sont devenues très claires de ce point de vue : il y a des recherches dont certain·es ne veulent plus.

      C’est leur scientificité même qui est déniée : ces recherches sont renvoyées à de la pure « idéologie », sans qu’aucune explication précise ne soit jamais donnée, si ce n’est la référence à une autre idéologie, qu’il s’agisse des « valeurs de la République » ou de « l’unité de la nation ». « L’unité de la nation », c’est ce à quoi renvoyait l’association Qualité de la science française dans un récent communiqué : « il fait peu de doute que se développent dans certains secteurs de l’université des mouvances différentialistes plus ou moins agressives, qui mettent en cause l’unité de la nation, et dont l’attitude envers les fondamentalismes est ambiguë ». La comparaison sémantique avec les textes académiques prônant le maccarthysme est à ce titre très éclairante, même si leur rédaction doit être replacée dans le contexte de la guerre froide6 : le caractère scandaleux de toute opération de « chasse aux sorcières » se mesure, considère-t-on alors, à l’aune des risques encourus par la nation.

      Quelle va être la suite ? Va-t-on exclure ces savant∙es contemporain∙es de l’université, qui repose pourtant sur le principe de la pluralité et du dissensus ? Va-t-on les exclure en leur déniant tout travail de production et de transmission des connaissances scientifiques, pour les rejeter du côté de la simple expression des opinions ? Le risque, derrière ce feu qu’allument certain∙es universitaires, est connu : c’est évidemment que le pouvoir politique s’en saisisse, pour en tirer des conséquences juridiques.

      Nous nous trouvons très précisément au seuil d’un mouvement de ce type aujourd’hui en France. On y a échappé de peu lors des débats sur la loi de programmation de la recherche, avec l’amendement subordonnant les libertés académiques au respect des valeurs de la République auquel la ministre Vidal avait donné, on ne le rappellera jamais assez, un « avis extrêmement favorable ».

      Dans un contexte aussi pesant, c’est avec beaucoup d’appréhension, désormais, que l’on attend, du côté de la rédaction d’Academia, l’examen du « projet de loi renforçant les principes républicains » (plus connu sous le nom de « projet de loi Séparatismes »). Plusieurs collègues ont en particulier alerté Academia sur le fait qu’un collectif dénommé Vigilance Universités échange à propos de ce projet de loi avec la ministre déléguée auprès du ministre de l’Intérieur, chargée de la Citoyenneté, pour introduire les universités dans le champ de celui-ci. Nous craignons le pire. Cela fait plusieurs années maintenant que ces mêmes collègues propagent le sentiment d’une immense insécurité physique et de grands dangers intellectuels dans les universités, sans vouloir reconnaître qu’en conséquence de leurs propos, des personnalités politiques de premier rang, à droite et à l’extrême droite, appellent désormais à combattre les « dérives intellectuelles idéologiques » et dresse des listes de « coupables ».

      Peut-être est-il temps maintenant, pour elles et eux, de prendre conscience de leur responsabilité historique dans le mouvement de rétraction des libertés académiques en cours, à défaut d’avoir accepté de prendre la moindre position critique, lors des débats sur la loi de programmation de la recherche, sur la pénalisation des universités à laquelle ils et elles ont directement contribué par leurs propos et leurs actions.

      Il est surtout temps que l’ensemble des collègues prennent la juste mesure du danger. Il est temps que nous prenions, collectivement et clairement, position sur ce que défendre l’université veut dire.

      https://academia.hypotheses.org/29291

    • Antiracisme : la guerre des facs n’aura pas lieu

      Depuis la fin de l’automne 2018, par poussées de fièvre belliqueuse, surgissent périodiquement les tribunes, appels, articles qui mettent en garde contre un nouvel ennemi de la République : les « décoloniaux », qui « mènent la guerre des facs », écrit par exemple Étienne Girard dans Marianne, le 12 avril 2019. Des dizaines d’autres intellectuels, journalistes, personnalités publiques, ont pris la plume pour dénoncer « les obsédés de la race à la Sorbonne » (Charlie Hebdo 23 janvier 2019), les « énervés de la race » qui « martèlent leurs fameuses théories sur la race » (Le Canard Enchaîné, 24 juin 2020). Ils mettent en accusation la « stratégie hégémonique » du « décolonialisme » (Le Point, 28 novembre 2018) qui se lance « à l’assaut de l’université » (Le Nouvel Obs, 30 novembre 2018), qui « menace la liberté académique » (Le Monde, 12 avril 2019) et qui, « nouveau terrorisme intellectuel », « infiltre les universités » (La Revue des deux Mondes, 18 avril 2019) par une « grande offensive médiatique et institutionnelle » (L’Express, 26 décembre 2019), traduisant « une stratégie décoloniale de radicalité » (Le Monde, blog, 06 juillet 2020) en même temps qu’une « quête de respectabilité académique » (L’Express, 26 décembre 2019).

      La rhétorique est guerrière – et l’ennemi, puissant, organisé, déterminé, mobilisant des méthodes de guérilla, voire de « terrorisme », est déjà en passe de l’emporter, au point qu’il faut « appeler les autorités publiques, les responsables d’institutions culturelles, universitaires, scientifiques et de recherche, mais aussi la magistrature, au ressaisissement » (Le Point, 28 novembre 2018) et « sanctionner la promotion de l’idéologie coloniale » (Marianne, 26 juin 2020).

      Mais de quoi parle-t-on exactement ? Comme cela a déjà été souligné, si stratégie hégémonique il y a, elle est remarquablement peu efficace : aucun poste ni aucune chaire, dans aucun domaine de sciences humaines et sociales, n’a jamais été profilé « études postcoloniales ou décoloniales » à l’université ; pas de revue spécialisée, pas de maison d’édition ni même de collection de presses universitaires dans le domaine. Une analyse sociologique fine menée en termes de « correspondances multiples » sur plusieurs années et croisant plusieurs variables (publications, visibilité, lieux institutionnels, etc.) démontre que

      « les travaux sur la question minoritaire, la racialisation ou le postcolonial demeurent des domaines de niche […] bénéficiant d’une faible audience dans le champ académique comme dans l’espace public »
      — Inès Bouzelmat, « Le sous-champ de la question raciale dans les sciences sociales », Mouvements, 12 février 2019.

      Si guerre il y a, les deux camps en présence témoignent d’un « rapport de forces inégal » où la puissance, sinon l’hégémonie, est bien du côté du savoir contesté par « la mouvance post ou décoloniale » (L’Obs, 11 janvier 2020), qui fait figure de David contre le Goliath de l’universalisme républicain.

      De plus, il est remarquable que les combats de l’université, comme récemment contre la Loi de Programmation Pluriannuelle de la Recherche, dont le projet a été rendu public le 7 juin et qui est sur le point d’être adoptée en dépit de l’opposition explicite, massive et continue de la communauté universitaire, troublent généralement bien peu les penseurs institutionnels et les personnalités publiques. On compte sur les doigts d’une main les journalistes qui ont relayé les inquiétudes des universitaires : la vraie guerre est ailleurs. Pour les gardiens du temple, les « décoloniaux » menacent bien davantage l’université que la remise en cause des statuts des enseignants-chercheurs, la précarisation des personnels, la diminution accrue de financement récurrent et la mise en concurrence généralisée des institutions, des laboratoires et des individus. Ce n’est pas la disparition programmée du service public qui doit appeler « à la plus grande mobilisation » de la communauté universitaire (Marianne, 26 juin 2020), c’est la diffusion de « l’idéologie décoloniale ».

      C’est que cette guerre-là ne touche pas seulement l’université – sinon, qui s’en soucierait ? Comme l’a affirmé Emmanuel Macron dans des propos rapportés le 10 juin 2020 dans Le Monde, « le monde universitaire a été coupable », « il a encouragé l’ethnicisation de la question sociale en pensant que c’était un bon filon » et une telle stratégie « revient à casser la République en deux ». Voilà le véritable enjeu : les décoloniaux, par opportunisme et sens du « postcolonial business » (L’Express, 26 dec. 2019) ou par désir de promouvoir la haine et la division de la communauté politique, ou peut-être enfin par incompréhension et ignorance des vraies fractures sociales – par cynisme, par gauchisme ou par bêtise -, sont accusés de chercher à provoquer une « guerre des races » qui brisera la République. Ils sont ceux qui guident « les jeunes » dans les manifestations contre le racisme et les violences policières, ceux qui suscitent le déboulonnage des statues et les changements de noms des rues et places qui rendent hommage aux héros du colonialisme, ceux qui plaident pour l’introduction de statistiques ethniques afin de visibiliser les phénomènes de discrimination… C’est pourquoi, dans ces lignes de front qui se tracent, c’est bien eux qu’on prend à partie via ce « vous » populaire qu’ils incarnent comme une avant-garde : « J’exige de vous le respect. Sinon ce sera la guerre » (Marianne, 9 juillet 2020).
      Cette déclaration de guerre repose sur une confusion, un renversement et un double mensonge.

      La confusion est évidente : sont rassemblés sous une étiquette mal taillée des chercheurs et chercheuses aux positions épistémologiques précises et parfois en désaccord, qui travaillent depuis des années sur des objets dont l’importance n’est pas encore vraiment reconnue. Leur recherche, selon les règles d’usage de la discussion académique, exige de se confronter lors de séminaires, colloques et conférences où entrent en conversation les tenants de positions différentes avec les outils académiques de l’argumentation logique, de la distinction conceptuelle et de l’érudition textuelle. La « mouvance post ou décoloniale » n’existe pas. Et pour cause : les études décoloniales sont d’abord menées par des chercheuses et chercheurs latino-américains, parfois caribéens, qui diffèrent des courants postcoloniaux indiens ou, surtout, étasuniens, selon trois critères désormais bien établis : géopolitique, disciplinaire et généalogique1. Décoloniaux et postcoloniaux ne partagent ni les mêmes influences intellectuelles ni les mêmes contextes socio-économiques et culturels ; ils et elles mobilisent des outils méthodologiques différents pour poser des problèmes théoriques ou normatifs différents. Les désaccords scientifiques traversent aussi les disciplines, y compris entre celles et ceux qui sont persuadés de l’importance de s’intéresser au passé colonial pour comprendre le présent : historiens de l’esclavage et de la colonisation s’affrontent sur les aires géographiques pertinentes, sur les méthodologies de l’histoire globale ou locale, sur les sources archivistiques ou leur absence, etc. Bien loin de mettre en place des stratégies hégémoniques de domination académique, les universitaires échangent du savoir, de la connaissance, du raisonnement, avec humilité, rigueur et ténacité. Ils et elles travaillent et soumettent leurs hypothèses au test de l’évaluation par les pairs : ils font leur métier.

      Le renversement de perspective est tout aussi massif. Tout se passe comme si s’efforcer de mettre au jour les effets de domination historiquement fondés sur des rapports de race traduits dans l’organisation coloniale du monde, puis hérités de cet ordre sans être réellement déconstruits, revenait à créer ces effets de domination. Lorsque les chercheuses et chercheurs parlent de racialisation ou racisation, on leur oppose que le mot est « épouvantable » (Jean-Michel Blanquer, dans Libération, 21 novembre 2017). C’est un néologisme qui, selon la critique, ne permet pas de révéler une réalité sociale, mais qui produit, dans un geste performatif, la réalité qu’il prétend désigner.

      Or parler de groupe racisé consiste bien à nommer une réalité sociale : la catégorisation et la hiérarchisation de groupes sociaux, dans des contextes précis, en raison de facteurs visuels ou généalogiques réels ou fantasmés2. Il s’agit de chercher à expliquer, et non pas excuser, la construction, les mécanismes, les processus de reproduction de cette réalité. Parler de racialisation permet précisément de souligner que la race n’existe pas en tant que réalité biologique, de l’historiciser, la désessentialiser et la dénaturaliser. Il s’agit de produire de nouvelles ressources épistémiques pour dénoncer la hiérarchisation et l’inégalité raciales tout en évitant de reproduire les interprétations obsolètes et racistes du monde social.

      Sous la plume de ceux qui veulent « sanctionner » « l’idéologie coloniale », « supprimer les références racialistes », effacer la « nuée de concepts » qui traitent de la question raciale — non seulement dans la législation et la Constitution, mais aussi à l’université — une telle mise sous silence permettrait de supprimer le mal. Ces mots « réactivent l’idée de race » et « détournent des valeurs de liberté, égalité, fraternité qui fondent notre démocratie », affirment-ils (Le Point, 28 novembre 2018) : cessons d’utiliser ces mots abominables, et la « question sociale » sera enfin désethnicisée, la République réparée. Ils estiment sans doute qu’en France régnait l’égalité réelle jusqu’à ce que certains se mettent à dénoncer la domination raciale dont ils font l’expérience, et d’autres parviennent à admettre le privilège racial dont ils bénéficient.

      C’est là nier le travail des chercheuses et chercheurs qui, décrivant et évaluant les dominations raciales, s’efforçant de poser un diagnostic clair sur la nature et l’ampleur des inégalités qui traversent notre société, non seulement ne les créent pas, mais espèrent même contribuer à les faire disparaître. Vouloir les faire taire, c’est contribuer au racisme ordinaire en lui permettant d’avancer sous la « cape d’invisibilité » que procure l’étendard du républicanisme bafoué.

      Enfin le mensonge est double : d’une part, il consiste à faire semblant de croire qu’une poignée d’universitaires peut entraîner à elle seule les mouvements sociaux d’ampleur inédite qui ont vu le jour après le confinement pour dénoncer le racisme institutionnel et réclamer justice. C’est trop d’honneur. Trop de mépris, aussi, pour le travail de terrain des mouvements antiracistes et les associations de défense des droits qui mènent la lutte au quotidien auprès des victimes de stigmatisation et discrimination raciales. C’est enfin, surtout, être aveugle à la lame de fond qui nous emporte, à la transformation sociale massive que vit notre vieux modèle. Car d’autre part, le mensonge réside dans l’accusation selon laquelle les manifestant·es qui protestent contre le racisme et les discriminations, et réclament une participation égale et un statut paritaire dans le récit national, veulent « casse[r] la République en deux ». Or cela a été amplement souligné : les hommes et femmes, jeunes et moins jeunes, racisé·es ou non, qui défilaient pour condamner les violences policières racistes en juin dernier3 chantaient ensemble La Marseillaise ; celles et ceux qui proposent de déplacer les statues des héros de la colonisation pour les muséifier le font au nom d’un hommage que la république pourrait rendre, sur ses places publiques, à d’autres héroïnes et d’autres héros français oubliés ou trop longtemps traités en objets et non en sujets politiques. La république peut être inclusive et réparée ; l’universel peut être visé — un universel concret, construit à partir des particularités et non pas en négation de celles-ci. Ce sont les fondations d’un nouvel universalisme possible qui sont en train d’être posées. Le mensonge consiste à prétendre que Cassandre veut la guerre.
      Et si ce n’était pas une guerre, mais une révolution ?

      Ce à quoi on assiste, et qui provoque la panique morale des puissants, peut se comprendre, c’est l’hypothèse faite ici, à la fois comme une révolution scientifique et comme une révolution politique, parce que les deux sont indissociables dans les sciences humaines et sociales. C’est à la fois un tournant copernicien ou changement de paradigme4, une nouvelle manière de façonner les problèmes et les solutions dans un processus discontinu de production du savoir, et le mouvement du « passage de l’idée dans l’expérience historique », la « tentative pour modeler l’acte sur une idée, pour façonner le monde dans un cadre théorique »5.

      L’ancien modèle théorique s’essouffle : les énigmes se multiplient, les exceptions ou anomalies ne confirment plus la règle mais s’accumulent pour miner l’autorité du vieux cadre interprétatif colorblind de notre monde social. Trop d’injustices sociales débordent le modèle de la lutte des classes, les inégalités socio-économiques à elles seules n’expliquent pas toutes les différences de trajectoire collective ou individuelle, les différences culturelles se naturalisent, l’écart se creuse et se visibilise entre les idéaux de la république et la réalité sociologique de leur mise en œuvre – y compris institutionnelle. L’épaisseur de l’histoire esclavagiste et coloniale pèse sur le mythe du contrat social républicain établi entre des partenaires égaux consentant librement à « faire peuple », ensemble. Ce qui est requis, ce n’est donc pas simplement une nouvelle grille de lecture à appliquer sur des données par ailleurs bien connues : c’est la manière même de voir le monde qui change, ce sont de nouveaux positionnements, de nouvelles perspectives, de nouvelles perceptions, la mise au jour de nouvelles archives, les témoignages de nouvelles voix, qui produisent des données jusque là méconnues ou ignorées, et qui entraînent l’exigence de renouveler le paradigme.

      La résistance de la vieille garde est d’autant plus désespérée que les sujets producteurs de ces nouvelles connaissances sont aussi des agents usuellement dominés et discrédités dans les circonstances « normales » du discours public. Ce sont des agents dont les idées, les ressources théoriques, les productions cognitives, souffrent d’un déficit de crédibilité dû soit à des biais ou stéréotypes négatifs qui conduisent à mettre en doute leur capacité à produire un discours valide, rationnel et raisonnable, sur leurs expériences singulières, soit à un excès de crédibilité accordé à d’autres agents dissonants, au témoignage ou à l’analyse desquels on a tendance à accorder une confiance supérieure. Racialisation, discrimination systémique, privilège blanc, stigmatisation raciale, parmi d’autres, sont des concepts et des ressources épistémiques précieuses pour décrire des expériences sociales, les partager, les interpréter, les évaluer, et peut-être transformer le monde où elles ont cours. Le monde universitaire n’est pas une armée de terroristes qui infiltre les lieux de savoir et casse la République en deux : le monde universitaire est l’espace institutionnel inclusif où ces agents producteurs de connaissance inédits et inaudibles peuvent participer à la production de savoirs qui nous concernent tous parce que tous, nous sommes la république. La guerre des facs n’aura pas lieu, parce que le monde d’après est déjà là : les monstres, et leurs derniers gémissements, disparaissent avec le clair-obscur.

      https://academia.hypotheses.org/29341

    • Academic Freedom Under Attack in France

      For many years, in what now seems the distant past, France was known as the nation that welcomed refugees from authoritarian countries; revolutionary activists, artists, exiled politicians, dissident students, could find sustenance and support in the land of liberty, equality, and fraternity. It is also the country whose philosophers gave us many of the tools of critical thinking, including perhaps the very word critique. In recent years—at least since the bicentennial of the French Revolution in 1989—that image has been replaced by a more disturbing one: a nation unable to decently cope (and increasingly at war) with people of color from its former colonies (black, Arab, Muslim) as well as Roma; a nation whose leaders are condemning critical studies of racial discrimination and charges of “Islamophobia” in the name of “the values of the Republic.”

      The years since the bicentennial have seen a dramatic increase in discrimination against a number of groups, but Arab/Muslims, many of them citizens (according to the settlement that ended the Algerian War) have been singled out. The charge against them has been that they practice their religion publicly, in violation of laïcité, the French version of secularism, the separation of church and state. Enshrined in a 1905 law, laïcité calls for state neutrality in matters of religion and protects individual rights of private religious conscience. Although the state is extremely supportive of Catholic religious practices (state funds support churches as a matter of preserving the national heritage, and religious schools, the majority of them Catholic, in the name of freedom of educational choice; the former president, Nicolas Sarkozy has insisted that Catholicism is an integral aspect of laïcité), Islam has been deemed a threat to the “values” upon which national unity is based.

      National unity is a peculiar concept in France, at least from an American perspective. The nation “one and indivisible” is imagined as culturally homogeneous. Anything that suggests division is scrupulously avoided. Thus there is no exact calculation of the numbers of Muslims in the French population because no official statistics are kept on racial, ethnic, or religious difference. To make those very real differences visible is thought to introduce unacceptable divisions in the representation of the unity of the national body.

      The presence of an estimated 6 to 10 million Muslims (in a country of some 67 million) has become a potent political weapon. Initially claimed by the far Right National Front party (now renamed the Rally for the Republic), the “Muslim problem” has become a concern of parties across the spectrum (in differing degrees from Right to Left). In 2003, in the face of increasing electoral success on the far Right, the conservative government of Jacques Chirac commissioned a report that redefined laïcité for the twenty-first century’s “clash of civilizations.” Titled “The New Laïcité, “ it extended the demand for neutrality from the state to its individual citizens, forbidding any display of religious affiliation in public space. Although said to be universally applicable, everyone understood this to be a policy aimed at Muslims. Thus the hijab (the Islamic headscarf) is prohibited in public schools; women are fined for wearing the niqab (the full face covering) on the streets of their towns; veiled women are prevented from serving as witnesses at weddings conducted in city halls; burkini clad women were forced to undress on some beaches in the summer of 2016….the list goes on. Women were the target of these rules and regulations (for reasons I have analyzed in my The Politics of the Veil (2007), but men, too, experience economic and social discrimination, as well as violent police surveillance in their homes and on the streets.

      In the wake of a number of horrific terrorist attacks in the name of Islam in French cities—the assassinations of the Charlie Hebdo journalists and the murders at the Bataclan theater in 2015, and most recently, in 2020, the beheading of a school teacher, Samuel Paty—all Muslims are increasingly defined as a threat to the security of the nation. The Interior Minister, Gérald Darmanin, has effectively declared war, defining not religion but Islamist ideology as “an enemy within.” Despite this careful distinction, a wartime, ethno-nationalist mentality has identified Muslims as a dangerous class. Antipathy to Muslims has become evidence of patriotism; those who argue that not all Muslims are terrorists and that discrimination against them might contribute to their radicalization, have been met with denunciations and vehement attacks. University professors are among these groups, and they have faced particularly nasty accusations of treason. The campaigns being mounted against them don’t just target individuals; in their insistence that teaching cannot deviate from “the values of the Republic,” the charges amount to a sustained attack on academic freedom.

      The call to rally around the Republic has come not only from the expected quarters—politicians and publicists on the Right—but also from the current (neo-) liberal administration and from within the academy itself. Historians, sociologists, and anthropologists who work on the history of colonialism, on issues of ethnic and racial discrimination, and who seek to account, within the problematics of their disciplines, for the inequalities evident in French society, have been labelled “islamo-gauchistes” for their presumed support for or identification with Muslims. The term is used as an insult, and it is employed regularly by intellectuals such as the philosopher Elisabeth Badinter and the feminist writer Caroline Fourest, neither of whom are considered to be on the Right. In 2018, following a conference at the University of Paris, 7, on “Racism and racial discrimination in the university,” some 80 intellectuals signed a letter condemning as “ideological” the increasing number of “racialist” university events and they called upon “the authorities” to put an end to their “use against the Republic.”

      The “authorities” have responded. In 2020, the Minister of Education, Jean-Michel Blanquer declared that anti-racist intellectuals were “complicit” in Samuel Paty’s murder. He accused “islamo-gauchistes” of “wreaking havoc” in the university. Those employing ideas of “intersectionality,” he denounced as “intellectual accomplices of terrorism.” He deemed intersectionality a pernicious import from multicultural America that “essentializes communities and identities, the antithesis of our model of the Republic.” If Muslims were “separatists,” these intellectuals were too. President Emmanuel Macron charged that “The academy is guilty. It has encouraged the ethnicization of the social question, thinking it’s a good subject to study. But, the outcome can only be secessionist. It will rebound to split the Republic in two.” In October, a bill was proposed in the Senate stating that “academic freedom must respect the values of the Republic.” And Frédérique Vidal, the Minister of Higher Education and Research, whose portfolio most directly pertains to the academy, asserted that “the values of laïcité, of the Republic, are not open for debate.”

      Although no one has yet been fired from a university position, the warning signs are clear. If the nation is at war with Islam, those who struggle to find alternatives to this divisiveness are, ironically, accused of dividing the nation. When professor of sociology (University of Paris 8) Eric Fassin was threatened on Twitter with decapitation for his “islamo-gauchiste views” by a right-wing extremist, his university president offered support (as did academic collectives from Turkey to Brazil), but there was no comment from those higher up in the education ministries. [Fassin sued and won a ruling against the man, but the court treated him not as member of a domestic, neo-Nazi, terrorist network (which he is), but as a lone aberrant individual.] Calls to rein in teachers who address racism and discrimination are widespread, and the threats of disciplinary action are particularly severe against the still relatively rare academics of color, many of whom hold junior, therefore vulnerable positions. State surveillance of research can make it difficult for those studying discrimination, as well as aspects of Islamic culture, to get access to the archives and repositories of data that they need. And then there is the self-policing that inevitably accompanies state surveillance and disapproval.

      But the resistance is impressive. There is no national organization equivalent to the AAUP in France, yet faculty have nonetheless mobilized. Courses continue to be taught, books and articles published, and conferences held on race and discrimination, and these are rightly justified as realizing the values of the Republic—those that stand for liberty and equality above all. There is a site, Université Ouverte where information on protests and other activities can be found, as well as the blog Academia with in-depth critical analyses. In response to a denunciation of their work by 100 intellectuals as “racializing” (racialiste) because it allegedly taught students to “hate whites and France,” more than 2000 academics replied this way in Le Monde: “To call the approach that examines, among other things, the impact of social, sexist, and racist oppression, ‘racialist,’ is despicable. [Racialist] signifies racist thought and regimes based on a supposed hierarchy of race….[But our] sociological and critical approach to racial questions, as the intersectional approaches so often attacked, do the opposite by exposing oppression in order to combat it.” An international letter of support for these efforts was circulated in November, 2020. It makes the case very clear: an increasingly ethno-nationalist politics is posing a dire threat to French academic freedom.

      As I write this in early 2021, the old slogan from May ’68 in France sums up the state of things: La lutte continue (the struggle goes on).

      https://academeblog.org/2021/01/05/academic-freedom-under-attack-in-france
      #Joan_Scott

    • Comment les militants décoloniaux prennent le pouvoir dans les universités
      https://seenthis.net/messages/900839

      ... où on parle notamment de ce nouveau site web :
      L’#Observatoire_du_décolonialisme_et_des_idéologies_identitaires :

      Ce site propose un regard critique, tantôt profond et parfois humoristique, sur l’émergence d’une nouvelle tendance de l’Université et de la Recherche visant à « décoloniser » les sciences qui s’enseignent. Il dénonce la déconstruction revendiquée visant à présenter des Institutions (la langue, l’école, la République, la laïcité) comme les entraves des individus. Le lecteur trouvera outre une série d’analyses et de critiques, une base de données de textes décoloniaux interrogeable en ligne, un générateur de titre de thèses automatique à partir de formes de titres, des liens d’actualités et des données sur la question et un lexique humoristique des notions-clés.

      Cet observatoire n’a pas pour but de militer, ni de prendre des positions politiques. Il a pour but d’observer et d’aider à comprendre, à lire la production littéraire, scientifique et éditoriale des études en sciences humaines ou prétendument scientifiques orientées vers le décolonialisme. Il veut surtout aider à comprendre la limite entre science et propagande.

      L’équipe :


      http://decolonialisme.fr

    • La France contaminée par les idées venues des campus américains

      Entre l’Élysée et la presse outre-Atlantique, la controverse ne s’arrête plus : « Les idées américaines menacent-elles la cohésion française ?? » s’interroge le New York Times. Le prestigieux quotidien américain revient sur une série d’observations et de déclarations entendues en France à la suite du discours d’Emmanuel Macron contre les séparatismes le 2 octobre.

      Ce jour-là, le président français avait mis en garde les universités contre « certaines théories en sciences sociales totalement importées des États-Unis d’Amérique ». L’Hexagone, affirme le New York Times, se sentirait menacé par « les idées progressistes américaines - notamment sur la race, le genre, le post-colonialisme ». Certains « politiciens, d’éminents intellectuels et nombre de journalistes français » craignent qu’elles soient « en train de saper leur société ».

      Il y a eu les déclarations de Jean-Michel Blanquer, ministre de l’Éducation nationale, qui avait parlé d’un « combat à mener contre une #matrice_intellectuelle venue des universités américaines », et aussi le livre de deux éminents spécialistes des sciences sociales françaises, #Stéphane_Beaud et #Gérard_Noiriel, critiquant le principe d’#études_raciales. La virulence des réactions antiaméricaines étonne le NYT. Il note cependant :

      D’une certaine manière, c’est un combat par procuration autour de questions qui sont parmi les plus brûlantes au sein de la société française, celles notamment de l’#identité_nationale et du #partage_du_pouvoir."

      Car si, dans les universités françaises, la jeune génération de chercheurs n’est plus sur la même ligne que la précédente, la contestation de certains volets du #modèle_français est arrivée dans la société. Le journaliste américain cite plusieurs exemples, à commencer par les manifestations contre les violences policières suscitées par l’assassinat de George Floyd de juin 2020.

      [Celles-ci] remettaient en cause la non-reconnaissance institutionnelle de la race et le racisme systémique. Une génération #MeToo de féministes s’est dressée à la fois contre le pouvoir masculin et contre les féministes plus âgées. La répression qui a suivi une série d’attaques islamistes a soulevé des interrogations sur le modèle français de laïcité et l’intégration des immigrés des anciennes colonies de la France."

      Il se peut bien, estime le NYT en citant le chercheur français Éric Fassin, que derrière les attaques du gouvernement contre les universités américaines « se cachent les tensions d’une société où le pouvoir établi est bousculé ».

      https://www.courrierinternational.com/article/vu-des-etats-unis-la-france-contaminee-par-les-idees-venues-d

    • Will American Ideas Tear France Apart? Some of Its Leaders Think So

      Politicians and prominent intellectuals say social theories from the United States on race, gender and post-colonialism are a threat to French identity and the French republic.

      The threat is said to be existential. It fuels secessionism. Gnaws at national unity. Abets Islamism. Attacks France’s intellectual and cultural heritage.

      The threat? “Certain social science theories entirely imported from the United States,’’ said President Emmanuel Macron.

      French politicians, high-profile intellectuals and journalists are warning that progressive American ideas — specifically on race, gender, post-colonialism — are undermining their society. “There’s a battle to wage against an intellectual matrix from American universities,’’ warned Mr. Macron’s education minister.

      Emboldened by these comments, prominent intellectuals have banded together against what they regard as contamination by the out-of-control woke leftism of American campuses and its attendant cancel culture.

      Pitted against them is a younger, more diverse guard that considers these theories as tools to understanding the willful blind spots of an increasingly diverse nation that still recoils at the mention of race, has yet to come to terms with its colonial past and often waves away the concerns of minorities as identity politics.

      Disputes that would have otherwise attracted little attention are now blown up in the news and social media. The new director of the Paris Opera, who said on Monday he wants to diversify its staff and ban blackface, has been attacked by the far-right leader, Marine Le Pen, but also in Le Monde because, though German, he had worked in Toronto and had “soaked up American culture for 10 years.”

      The publication this month of a book critical of racial studies by two veteran social scientists, Stéphane Beaud and Gérard Noiriel, fueled criticism from younger scholars — and has received extensive news coverage. Mr. Noiriel has said that race had become a “bulldozer’’ crushing other subjects, adding, in an email, that its academic research in France was questionable because race is not recognized by the government and merely “subjective data.’’

      The fierce French debate over a handful of academic disciplines on U.S. campuses may surprise those who have witnessed the gradual decline of American influence in many corners of the world. In some ways, it is a proxy fight over some of the most combustible issues in French society, including national identity and the sharing of power. In a nation where intellectuals still hold sway, the stakes are high.

      With its echoes of the American culture wars, the battle began inside French universities but is being played out increasingly in the media. Politicians have been weighing in more and more, especially following a turbulent year during which a series of events called into question tenets of French society.

      Mass protests in France against police violence, inspired by the killing of George Floyd, challenged the official dismissal of race and systemic racism. A #MeToo generation of feminists confronted both male power and older feminists. A widespread crackdown following a series of Islamist attacks raised questions about France’s model of secularism and the integration of immigrants from its former colonies.

      Some saw the reach of American identity politics and social science theories. Some center-right lawmakers pressed for a parliamentary investigation into “ideological excesses’’ at universities and singled out “guilty’’ scholars on Twitter.

      Mr. Macron — who had shown little interest in these matters in the past but has been courting the right ahead of elections next year — jumped in last June, when he blamed universities for encouraging the “ethnicization of the social question’’ — amounting to “breaking the republic in two.’’

      “I was pleasantly astonished,’’ said Nathalie Heinich, a sociologist who last month helped create an organization against “decolonialism and identity politics.’’ Made up of established figures, many retired, the group has issued warnings about American-inspired social theories in major publications like Le Point and Le Figaro.

      For Ms. Heinich, last year’s developments came on top of activism that brought foreign disputes over cultural appropriation and blackface to French universities. At the Sorbonne, activists prevented the staging of a play by Aeschylus to protest the wearing of masks and dark makeup by white actors; elsewhere, some well-known speakers were disinvited following student pressure.

      “It was a series of incidents that was extremely traumatic to our community and that all fell under what is called cancel culture,’’ Ms. Heinich said.

      To others, the lashing out at perceived American influence revealed something else: a French establishment incapable of confronting a world in flux, especially at a time when the government’s mishandling of the coronavirus pandemic has deepened the sense of ineluctable decline of a once-great power.

      “It’s the sign of a small, frightened republic, declining, provincializing, but which in the past and to this day believes in its universal mission and which thus seeks those responsible for its decline,’’ said François Cusset, an expert on American civilization at Paris Nanterre University.

      France has long laid claim to a national identity, based on a common culture, fundamental rights and core values like equality and liberty, rejecting diversity and multiculturalism. The French often see the United States as a fractious society at war with itself.

      But far from being American, many of the leading thinkers behind theories on gender, race, post-colonialism and queer theory came from France — as well as the rest of Europe, South America, Africa and India, said Anne Garréta, a French writer who teaches literature at universities in France and at Duke.

      “It’s an entire global world of ideas that circulates,’’ she said. “It just happens that campuses that are the most cosmopolitan and most globalized at this point in history are the American ones.’’

      The French state does not compile racial statistics, which is illegal, describing it as part of its commitment to universalism and treating all citizens equally under the law. To many scholars on race, however, the reluctance is part of a long history of denying racism in France and the country’s slave-trading and colonial past.

      “What’s more French than the racial question in a country that was built around those questions?’’ said Mame-Fatou Niang, who divides her time between France and the United States, where she teaches French studies at Carnegie Mellon University.

      Ms. Niang has led a campaign to remove a fresco at France’s National Assembly, which shows two Black figures with fat red lips and bulging eyes. Her public views on race have made her a frequent target on social media, including of one of the lawmakers who pressed for an investigation into “ideological excesses’’ at universities.

      Pap Ndiaye, a historian who led efforts to establish Black studies in France, said it was no coincidence that the current wave of anti-American rhetoric began growing just as the first protests against racism and police violence took place last June.

      “There was the idea that we’re talking too much about racial questions in France,’’ he said. “That’s enough.’’

      Three Islamist attacks last fall served as a reminder that terrorism remains a threat in France. They also focused attention on another hot-button field of research: Islamophobia, which examines how hostility toward Islam in France, rooted in its colonial experience in the Muslim world, continues to shape the lives of French Muslims.

      Abdellali Hajjat, an expert on Islamophobia, said that it became increasingly difficult to focus on his subject after 2015, when devastating terror attacks hit Paris. Government funding for research dried up. Researchers on the subject were accused of being apologists for Islamists and even terrorists.

      Finding the atmosphere oppressive, Mr. Hajjat left two years ago to teach at the Free University of Brussels, in Belgium, where he said he found greater academic freedom.

      “On the question of Islamophobia, it’s only in France where there is such violent talk in rejecting the term,’’ he said.

      Mr. Macron’s education minister, Jean-Michel Blanquer, accused universities, under American influence, of being complicit with terrorists by providing the intellectual justification behind their acts.

      A group of 100 prominent scholars wrote an open letter supporting the minister and decrying theories “transferred from North American campuses” in Le Monde.

      A signatory, Gilles Kepel, an expert on Islam, said that American influence had led to “a sort of prohibition in universities to think about the phenomenon of political Islam in the name of a leftist ideology that considers it the religion of the underprivileged.’’

      Along with Islamophobia, it was through the “totally artificial importation’’ in France of the “American-style Black question” that some were trying to draw a false picture of a France guilty of “systemic racism’’ and “white privilege,’’ said Pierre-André Taguieff, a historian and a leading critic of the American influence.

      Mr. Taguieff said in an email that researchers of race, Islamophobia and post-colonialism were motivated by a “hatred of the West, as a white civilization.’’

      “The common agenda of these enemies of European civilization can be summed up in three words: decolonize, demasculate, de-Europeanize,’’ Mr. Taguieff said. “Straight white male — that’s the culprit to condemn and the enemy to eliminate.”

      Behind the attacks on American universities — led by aging white male intellectuals — lie the tensions in a society where power appears to be up for grabs, said Éric Fassin, a sociologist who was one of the first scholars to focus on race and racism in France, about 15 years ago.

      Back then, scholars on race tended to be white men like himself, he said. He said he has often been called a traitor and faced threats, most recently from a right-wing extremist who was given a four-month suspended prison sentence for threatening to decapitate him.

      But the emergence of young intellectuals — some Black or Muslim — has fueled the assault on what Mr. Fassin calls the “American boogeyman.’’

      “That’s what has turned things upside down,’’ he said. “They’re not just the objects we speak of, but they’re also the subjects who are talking.’’

      https://www.nytimes.com/2021/02/09/world/europe/france-threat-american-universities.html?searchResultPosition=5

    • Le manifeste des 100 repris par la tribune des généraux qui appellent Macron à défendre le #patriotisme...

      Qui sont donc les ennemis que ces militaires appellent à combattre pour sauver « la Patrie » ? Qui sont les agents du « délitement de la France » ? Le premier ennemi désigné reprend mot pour mot les termes de l’appel des universitaires publié le 1 novembre 2020 sous le titre de « Manifeste des 100 » : « un certain antiracisme » qui veut « la guerre raciale » au travers du « racialisme », « l’indigénisme » et les « théories décoloniales ». Le second ennemi est « l’islamisme et les hordes de banlieue » qui veulent soumettre des territoires « à des dogmes contraires à notre constitution ». Le troisième ennemi est constitué par « ces individus infiltrés et encagoulés saccagent des commerces et menacent ces mêmes forces de l’ordre » dont ils veulent faire des « boucs émissaires ».

      https://seenthis.net/messages/912643
      Et plus précisément : https://seenthis.net/messages/912643#message913950

    • « Islamo-gauchisme » à l’université : la ministre Frédérique Vidal accusée d’abus de pouvoir devant le Conseil d’Etat

      Six enseignants-chercheurs ont déposé en avril un #recours devant le #Conseil_d’Etat. La ministre de l’enseignement supérieur va devoir justifier sa décision d’ouvrir une enquête sur l’« islamo-gauchisme à l’université ».

      Qu’est devenue l’enquête sur l’ « islamo-gauchisme à l’université » voulue par la ministre de l’enseignement supérieur ? Le 14 février, Frédérique Vidal annonçait sur CNews qu’elle allait demander, « notamment au CNRS », de mener une enquête portant sur « l’ensemble des courants de recherche » en lien avec « l’islamo-gauchisme » à l’université. Deux jours plus tard, à l’Assemblée nationale, elle confirmait la mise en place d’ « un bilande l’ensemble des recherches » en vue de « distinguer ce qui relève de la recherche académique et ce qui relève du militantisme et de l’opinion .

      Quatre mois ont passé et c’est le silence complet. Sollicité par Le Monde à de multiples reprises, l’entourage de la ministre refuse d’indiquer si une enquête a été lancée et, le cas échéant, à qui a été confié le soin de la mener, le CNRS ayant décliné la demande.

      C’est désormais sur le terrain juridique que se joue l’affaire, six enseignants-chercheurs attaquant la ministre pour #abus_de_pouvoir. Une procédure de référé et un recours en annulation ont été introduits le 13 avril devant le Conseil d’Etat par les avocats William Bourdon et Vincent Brengarth. Les requérants demandent à Frédérique Vidal de renoncer officiellement et définitivement à cette enquête « qui bafoue les libertés académiques et menace de soumettre à un contrôle politique, au-delà des seules sciences sociales, la recherche dans son ensemble .

      Le 7 mai, le Conseil d’Etat qui a rejeté le référé a transmis la requête en annulation au ministère pour l’interroger sur sa position. « La ministre de l’enseignement supérieur dispose désormais de deux mois pour démontrer que sa décision ne constitue pas un détournement des pouvoirs et des attributions qui lui sont confiés », indiquent MM. Bourdon et Brengarth. « Info ou intox ? Les masques vont tomber. Quand on a suscité un tel émoi, il est essentiel que la ministre assume soit la décision, soit le rétropédalage », ajoute William Bourdon.

      « Police de la pensée »

      Si le Conseil d’Etat s’est déclaré incompétent, il demande au ministère des explications, souligne Fabien Jobard, l’un des requérants, chercheur au CNRS, spécialiste des questions pénales. « Il agit comme une commission d’accès aux documents administratifs en demandant à Mme Vidal de nous dire ce qu’il en est. Soit oui, une commission existe avec tel et tel membre, soit non c’est le plus probable , il n’y a pas de commission d’enquête », projette-t-il.

      Pour la requérante Fanny Gallot, maîtresse de conférences en histoire à l’université Paris-Est-Créteil, « ce recours marque le fait que les bornes ont été largement dépassées. Aujourd’hui, l’offensive est très forte et elle est autorisée par Frédérique Vidal . Ainsi, « mener des recherches sur les discriminations ethnoraciales quand on est soi-même racisé est d’emblée considéré comme se faire le porte-parole des minorités. Mener des recherches quand on est féministe, comme moi, peut être utilisé par certains pour remettre en question la scientificité de mes recherches », illustre-t-elle.

      Des étudiants de deuxième année de master qui voulaient s’inscrire en thèse hésitent à travailler sur certains sujets, notamment liés à l’intersectionnalité (qui consiste à croiser divers mécanismes de domination, liés au genre, à l’âge ou encore à la couleur de peau). « C’est une #intimidation, même s’il n’y a pas eu véritablement de commission d’enquête. Pour pouvoir assumer de parler de certains sujets, il faut être un enseignant en poste, sinon c’est trop risqué », confirme Caroline Ibos, maîtresse de conférences en science politique à l’université Rennes-II.

      Les effets sont donc « très concrets » et vont « dans le sens d’une #police_de_la_pensée », alors que sont en question des savoirs déjà marginalisés en France. « Il y a peu d’endroits où l’on peut se former en études de genre et un seul Paris-VIII qui décerne des doctorats en études de genre en France, décrit la chercheuse. Il n’y a pas de section au CNRS, ni au CNU [Conseil national des universités], c’est un champ particulièrement sous-financé et aujourd’hui le gouvernement décide de le livrer à la vindicte populaire ? »

      Fanny Gallot décrit « un climat d’angoisse » depuis les déclarations de la ministre. « Il y a des moments d’échanges académiques qui sont empêchés », comme lors d’une table ronde au mois de mars consacrée à l’intersectionnalité qui s’est déroulée dans une ambiance « électrique », rapporte-t-elle. « Je pense que je n’ai pas dit exactement ce que j’aurais dit si nous n’avions pas été trois semaines après les propos de Frédérique Vidal. Nous nous autocensurons dans une certaine mesure parce que nous avons #peur. Dans des conférences Zoom où on ne sait pas toujours qui est présent, on redoute des trolls. On ne sait plus ce que l’on peut dire en classe ou dans les séminaires », confie Fanny Gallot.

      Une #suspicion constante

      « Nous souhaitions mettre la ministre face à ses responsabilités, explique Nacira Guénif, professeure de sociologie à Paris-VIII, également requérante. On ne peut pas faire n’importe quelle déclaration sans que cela ait des implications. » Née en France de parents algériens, Nacira Guénif « travaille depuis longtemps dans ces conditions de suspicion.

      « J’ai eu un procès en imposture avant même d’avoir mon poste à l’université », narre-t-elle. Dans les années 1990, auprès de la direction des populations et des migrations, qui finançait une recherche obtenue par la jeune chercheuse après un appel d’offres, elle fait face à une « curée générale . « Je ne collais pas aux stéréotypes de la beurette, qui était précisément le sujet de ma thèse. On me reprochait de ne pas dire ce qu’on attendait de moi et cela s’est transformé en déloyauté de ma part », poursuit Nacira Guénif.

      Depuis, la suspicion de militance est constante, les promesses non tenues d’invitations dans des colloques se poursuivent et les prises à partie également. Dans la volonté de la ministre, Fabien Jobard voit « au mieux un doublon inutile et au pire, une volonté du gouvernement de substituer ou d’ajouter aux procédures scientifiques habituelles une procédure dérogatoire .

      Car, pour faire des enquêtes, il existe des commissions dans chacun des établissements, tel le comité national au CNRS, chargé d’évaluer les collègues et de recruter les nouveaux chercheurs. « C’est le principe de l’évaluation de l’action scientifique par les pairs, rappelle-t-il. Si un collègue au CNRS présente un projet visant à nous dire que le prolétariat nouveau est constitué d’islamistes et exige que le politique mette genou à terre devant lui, alors je suis suffisamment grand pour émettre un avis d’alerte sur ce collègue », illustre celui qui a siégé au comité national dans la section science politique entre 2004 et 2008.

      Lui aussi témoin d’effets concrets après l’annonce de Mme Vidal, Fabien Jobard cite le cas d’une collègue chargée de suivre plusieurs sujets pour le compte du gouvernement. « Dans le cadre de ses missions, elle travaille avec des militaires et, alors qu’elle voulait organiser un colloque, l’un d’eux s’est opposé à ce qu’il se tienne à La Sorbonne, "à cause des problèmes d’islamo-gauchisme" », relate Fabien Jobard, qui s’inquiète du discrédit jeté sur les travaux de recherche. « J’essaye de maintenir une crédibilité, mais si mes interlocuteurs habituels que sont les procureurs, les policiers et les gendarmes s’effraient de mon travail, ma relation en sera-t-elle grillée ? Vont-ils travailler uniquement avec des universités et organismes qui feront le voeu de ne pas être islamo-gauchistes ? »

      https://www.lemonde.fr/societe/article/2021/06/10/islamo-gauchisme-a-l-universite-la-ministre-frederique-vidal-accusee-d-abus-

    • Ces attaques répétées contre le monde universitaire sont un chiffon rouge agité devant une opinion surchauffée par le #confusionnisme d’extrême droite qui se nourrit des frustrations sociales en les exacerbant « en même temps » avec des fantasmes identitaires et une volonté de renouer avec une certaine « grandeur » tout aussi fantasmée, lesquels fantasmes ont malheureusement contaminé une partie de la gauche nostalgique de « l’esprit des lumières » et d’une vision biaisée de la #laïcité. C’est une logique hégémonique de #reconquista pour conforter les « valeurs » mortifères héritées de l’occident gréco-romain puis chrétien. Cette logique hégémonique procède des mêmes intentions que le nazisme avec l’antisémitisme et le fantasme « judéo-bolchevique ». Quelques années après le deuxième conflit mondial, on a pu voir outre-atlantique se développer un anti-communisme propulsé par le sénateur Joseph McCarthy et plus récemment, cette logique était également à la manœuvre pendant le mandat de Trump avec pour conséquence la résurgence des mouvances issues du #suprémacisme_blanc.

      Make the Christian Occident great again ! ...

      #propagande_d'état

      (Mon propos est certainement synthétique mais c’est pourtant cela qu’évoquent les analyses d’ #Éric_Fassin)

    • #Caroline_Fourest sur LCP, 02.07.2021 :

      Journaliste : La société se racialise. A ce point-là ?
      Caroline Fourest : « En France, je peux vous dire, dans nos universités, à commencer par nos universités... regardez la façon dont les chercheurs ont réagi à une interpellation, certes peut-être trop directe et pas tout à fait bien choisie de la ministre de l’enseignement supérieur, mais il y a un corporatisme violent qui est en train de protéger le déni. D’abord, aujourd’hui quand on parle de questions qui fâchent ceux qui vous attaquent le plus violemment ce sont des chercheurs du CNRS. C’est un problème que l’alerte soit interdite. Que le fait de penser soit interdit de la part de gens qui sont des chercheurs du CNRS. Et puis il y a une très forte attraction du modèle américain qui passe évidemment par toutes les plateformes culturelles de ce modèle-là et aussi qui attire à l’université qui manque de moyen. »
      Journaliste : « Donc il y a vraiment une perméabilité »
      Caroline Fourest : « Tout le monde s’identitarise. »
      Journaliste : « Les combats idéologiques sont toujours menés par des minorités, mais est-ce que c’est toute la société ? »
      Caroline Fourest : « Toute la société s’identitarise. Version d’extrême droite évidemment ça peut donner des jeunes blancs déclassés qui vont désormais dire blancs au lieu de se dire pauvres et de se mettre ne mouvement pour essayer de lutter contre les inégalités. ça va donner des jeunes qu’au lieu de se dire ’On va lutter contre les inégalités’ se mettent à lutter par identité à l’extrême gauche »

      https://twitter.com/LCP/status/1411024030296064004

    • Un article d’avril 2021 :

      #Stéphane_Troussel : ’La République ne sait que faire des différences physiques ou des couleurs de peau multiples’

      Refusant l’affrontement qu’imposent la droite et l’extrême droite sur les réunions non mixtes, le président (PS) du conseil départemental de Seine-Saint-Denis appelle, dans une tribune au « Monde », la gauche à s’extraire d’une polémique stérile et dangereuse pour lutter véritablement contre les discriminations qui fracturent la société.

      La polémique est repartie, le brouhaha médiatique ne retombe pas. Après les outrances et les manipulations de la droite et de l’extrême droite, c’est maintenant au Sénat de surenchérir en adoptant un amendement à l’exposé des motifs caricatural au projet de loi dit « contre les #séparatismes » [celui-ci permettrait de dissoudre les associations qui organisent des réunions non mixtes racisées]. A en croire certains, sommant tous les autres de choisir leur camp, la République pourrait bien vaciller.

      Au fond, de quoi s’agit-il ? Des personnes se rassemblent pour échanger sur leurs expériences sociales douloureuses, les #discriminations vécues à partir d’un critère physique, d’une #orientation personnelle... Caractéristiques qui leur sont régulièrement renvoyées en pleine face comme une insulte : #sexisme, #racisme, #homophobie, etc. Il s’agit de paroles de victimes de racisme, de discrimination, d’inégalités. Il faut les prendre comme telles et, bien évidemment, je refuse que cela enferme les personnes concernées dans une « #victimisation » et que cela devienne une #parole_politique autrement que par son intégration unifiée contre toutes les formes de discrimination.

      Mais peu importe pour celles et ceux (Jean-Michel Blanquer, des députés et sénateurs LR, l’extrême droite...) qui ont lancé, puis alimenté la polémique. Toutes celles et tous ceux qui expriment, même avec nuance ou avec des réserves, une quelconque approbation de ces démarches, de ces expérimentations militantes, souvent transitoires, consistant à permettre de libérer la parole, sont accusés de « #dérive_séparatiste », « racialisante ».

      Artifices antiracistes

      Les gros mots sont de sortie. Les voilà lancés, jetés à une foule de commentateurs qui les voient comme un affront fait à une République censée être aveugle à la #couleur_de_peau, à la religion réelle ou supposée, au sexe... L’affrontement est en place, les camps bien délimités, chacun est sommé de choisir le sien et de laisser les nuances au vestiaire : les #racialistes d’une part, les #universalistes de l’autre. « Il faut choisir son camp, crient les repus de la haine », écrivait Albert Camus, dans son Pour une trêve civile, en 1956, en pleine guerre d’Algérie, condamnant à égalité les massacres de civils du FLN et les massacres répressifs de l’armée française.

      Cela semble ne poser de problème à personne que cette #polémique permette, à un an de la présidentielle, à la chef de l’extrême droite de se parer d’artifices antiracistes et de tenter de cohabiter, avec d’autres, dans le camp universaliste. Ici se situerait donc le débat politique de notre temps, la nouvelle #fracture : je m’y refuse. Je m’y refuse, parce que, si nous en sommes là, c’est que la gauche est tombée dans le piège tendu par la droite la plus réactionnaire et l’extrême droite qui, désormais, fixent les termes du débat et l’agenda politiques de notre pays.

      Je m’y refuse parce que, justement, la bonne question, celle qui devrait animer unanimement une gauche solidaire, droite dans ses bottes, fière de ses valeurs, cette question-là, la gauche française n’a pas su, ou pas suffisamment su, quelle réponse y apporter. Pourquoi, en France, les dispositifs républicains de lutte concrète contre les discriminations et les inégalités qui fracturent notre société piétinent ou ne s’imposent qu’au forceps (#loi_SRU [Solidarité et renouvellement urbain], #testing, #CV_anonyme, récépissé de contrôle d’identité, #droit_de_vote des étrangers aux élections locales, conventions ZEP-Sciences Po, mariage pour tous, droits des femmes...) ? Celles et ceux qui, à droite et à l’extrême droite, hurlent avec les loups ont combattu chacune de ces avancées.

      Pourtant, il n’y a qu’à se baisser pour constater le chemin qu’il reste à parcourir dans la lutte contre les #inégalités_femmes-hommes, le racisme, l’homophobie ou le #passé_colonial et ses conséquences pour les descendants des ex-pays colonisés.

      Il faudrait interdire les organisations qui reprendraient à leur compte des solutions avancées par la gauche libérale américaine, fondée sur le multiculturalisme et la valorisation des identités plurielles ? Ou bien faut-il se demander pourquoi n’opposer qu’un discours « il faut réduisons les inégalités socio-économiques pour que tout le monde ait sa chance » - ou qu’un slogan « la République, rien que la République » ? qui sonne de plus en plus creux aux oreilles de celles et ceux qui restent au bord du chemin, alors que les inégalités sociales et territoriales explosent dans notre société.

      L’#égalité_réelle

      Voilà mon explication. Oui, sans aucun doute, la République a un problème avec le #corps des individus, elle ne sait que faire de ces #différences_physiques, de ces #couleurs multiples, de ces orientations diverses, parce qu’elle a affirmé que pour traiter chacun et chacune également, elle devait être #aveugle.

      Mais, sans aucun doute également, d’autres dans la République ont détourné cette promesse d’une #égalité_républicaine, politique et donc sociale, pour exclure. Exclure les #femmes d’abord, les #pauvres ensuite, les #ouvriers, ces « classes laborieuses donc classes dangereuses », puis les #étrangers, la « #racaille » et ses « #sauvageons », venus d’ailleurs, emmenant leurs religions, leurs mémoires et leurs histoires. Et la gauche ne verrait pas cela. Elle passerait à côté de ce détournement, voire y inscrirait ses pas, au lieu de saisir le problème à bras-le-corps.

      Au lieu d’affirmer que dans ce pays, où a été défendue la République, puis la République sociale, il faut maintenant défendre la #République_citoyenne_et_universelle, la #République_métissée, la #République_de_l'égalité_réelle, en tentant de comprendre son passé, ses erreurs et ses oublis, pour regarder ensemble, tous et toutes ensemble, plus sereinement son avenir.

      Note(s) :

      Stéphane Troussel est président du conseil départemental de la Seine-Saint-Denis.

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/04/07/stephane-troussel-la-republique-a-un-probleme-avec-le-corps-des-individus-el

      #non-mixité