• Molti esperti hanno espresso il timore che i fondi stanziati dall’Italia e dall’Unione europea per finanziare la guardia costiera libica finiscano indirettamente nelle mani dei trafficanti. Un’inchiesta di Nancy Porsia per Trt World, infatti, ha mostrato che il capo della guardia costiera a Zawiya, Abdurahman Milad, è una delle figure chiave del traffico di esseri umani nella regione.

    Milad è accusato di avere legami con le milizie di Tripoli che portano i migranti dal Sahara alla costa, prima che siano imbarcati verso l’Italia. “Le mafie si sono infiltrate, ricattano molte delle unità di polizia, delle guardie costiere delle città e dei villaggi libici”, aveva detto una fonte della sicurezza italiana all’inviato del quotidiano italiano Repubblica in Libia Vincenzo Nigro.

    http://www.internazionale.it/notizie/annalisa-camilli/2017/04/29/italia-libia-migranti-guardia-costiera
    #migranti #migration #asile #Italie

    • Il risultato degli accordi anti-migranti: aumentati i prezzi dei viaggi della speranza

      L’accordo tra Europa e Italia da una parte e Niger dall’altra per bloccare il flusso dei migranti verso la Libia e quindi verso le nostre coste ha ottenuto risultati miseri. O meglio un paio di risultati li ha avuti: aumentare il prezzo dei trasporti – e quindi i guadagni dei trafficanti di uomini – e aumentare a dismisura i disagi e i rischi dei disperati che cercano in tutti i modi di attraversare il Mediterraneo. Insomma le misure adottate non scoraggiano chi vuole partire. molti di loro muoiono ma non muore la loro speranza di una vita migliore.

      http://www.africa-express.info/2017/02/03/il-risultato-dellaccordo-con-il-niger-sui-migranti-aumentati-prezzi

    • Migranti: da vertice al Viminale con ministri Libia, Niger, Ciad centri accoglienza in paesi transito

      La strategia del Viminale si fonda su due pilastri: rafforzare la guardia costiera libica, mettendola in condizioni di operare per fermare i barconi – e in quest’ottica va la consegna entro giugno di 10 motovedette – e ristabilire il controllo sui cinquemila chilometri di confine sud che da anni sono in mano alle organizzazioni di trafficanti di esseri umani.

      Su quest’ultimo fronte il primo passo è stato il patto siglato il 2 aprile scorso sempre al Viminale con le principali tribù del Fezzan. Oggi, con la firma sulla dichiarazione da parte di Minniti, del ministro libico Aref Khoja e dei colleghi di Niger e Ciad, Mohamed Bazoum e Ahmat Mahamat Bachir e’stato fatto un altro passo per rafforzare i confini formando gli agenti e creando una “rete di contatto” tra tutte le forze di
      polizia della zona.

      http://www.onuitalia.com/2017/05/21/migranti-da-vertice-al-viminale-con-ministri-libia-niger-ciad-centri-acco

    • Sempre più a Sud: Minniti ora vuole i Cie in Niger e in Ciad

      La foto ricordo scattata domenica scorsa al Viminale mostra una «storica» stretta di mano a quattro tra il nostro ministro dell’Interno Marco Minniti e i suoi omologhi di Ciad, Libia e Niger, dopo la firma di una dichiarazione congiunta per istituire una «cabina di regia» comune allo scopo di sigillare i confini a sud e evitare la partenza di migranti verso l’Italia e l’Europa.

      La dichiarazione impegna l’Italia a «sostenere la costruzione e la gestione, conformemente a strandard umanitari internazionali, di centri di accoglienza per migranti irregolari in Niger e in Ciad». Chi controlli la rispondenza di questi centri «di accoglienza» a standard di umanità internazionalmente riconosciuti non è chiaro, né chi li debba gestire e con quali fondi. E neanche è dato sapere in quale modo si intenda «promuovere lo sviluppo di una economia legale alternativa a quella legata ai traffici illeciti in particolare al traffico di esseri umani». Ma i quattro ministri sono immortalati con ampi sorrisi, che dovrebbero migliorare la «sicurezza percepita» a cui tiene tanto il titolare del Viminale.

      Per chi non si accontenta di sorrisi e annunci, la situazione in Libia e tra una frontiera e l’altra nel Sahara, lungo la rotta dei migranti, è sempre più incandescente. A Zawiya, città costiera dove è florido il business dei barconi, è esplosa ieri un’autobomba.

      Nel Fezzan il bilancio del truculento assalto della settimana scorsa alla base aerea di Brak al Shati, controllata dalle milizie del generale Haftar, è salito a 141 morti, tra i quali 15 civili. E si scopre – attraverso la Commissione nazionale diritti umani della Libia – che al seguito della Terza Forza, negli squadroni della città stato di Misurata che costituiscono l’ossatura delle milizie fedeli al governo Serraj di Tripoli, quello con cui l’Italia sta stringendo accordi per fermare i migranti, c’erano anche «foreign fighters provenienti dal Ciad e qaedisti delle Brigate di difesa di Bengasi».

      Serraj, per far vedere di non aver gradito l’assalto che ha violato la tregua con Haftar, ha sospeso il ministro della Difesa Al Barghouthi e il capo della Terza Forza, Jamal al Treiki, ma si tratta di un pro forma che neanche il suo ministro ha preso sul serio, infatti ha continuato a incontrare i capi misuratini per verificare «la presenza di cellule dell’ Isis» sopravvissute all’assedio di Sirte. Gli Usa intendono mantenere una presenza militare in Libia, ha detto il generale Waldhauser, proprio per combattere le cellule dell’Isis che stanno tentando di riorganizzarsi.

      Intanto l’Alto commissario Onu per i rifugiati Filippo Grandi, per la prima volta in visita ai centri di detenzione per migranti in Libia in queste ore, si è detto «scioccato» dalle condizioni in cui si trovano bambini, donne e uomini «che non dovrebbero sopportare tali difficoltà». Grandi fa presente che oltre ai profughi africani (1,1 milioni) in Libia ci sono 300 mila sfollati interni a causa del conflitto che dal 2011 non è mai finito.

      https://ilmanifesto.it/sempre-piu-a-sud-minniti-ora-vuole-i-cie-in-niger-e-in-ciad

  • The Khartoum Process: A sustainable response to human smuggling and trafficking?

    In the 2012-16 ‘migration crisis’, citizens from the Horn of Africa have been arriving irregularly in Europe in unprecedented numbers, whilst featuring disproportionately amongst the fatalities. This has prompted the launch of the Khartoum Process, a partnership between the 28 member states of the European Union (EU) and East and North African states, to respond to human smuggling and trafficking. This brief critically and unfavourably evaluates this framework. The Khartoum Process is not only unlikely to achieve the desired outcomes, but, more importantly, it is likely to pose a risk to the better governance and development of the Horn of Africa.


    http://globalinitiative.net/documents/the-khartoum-process-a-sustainable-response-to-human-smuggling-and
    #processus_de_khartoum #externalisation #asile #migrations #réfugiés #passeurs #trafic_d'êtres_humains #rapport

  • Un ancien passeur raconte le trafic de migrants entre la #France et l’Angleterre

    Depuis deux décennies, les passeurs opérant en bandes organisées se succèdent autour de Calais et de Grande-Synthe, où le camp humanitaire a été ravagé par un incendie dans la nuit du 10 au 11 avril. Hommes invisibles qui dorment le jour, vivent la nuit, ils sont détestés des migrants mais indispensables pour franchir la frontière. Un ancien passeur a accepté de témoigner.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/110417/un-ancien-passeur-raconte-le-trafic-de-migrants-entre-la-france-et-l-angle
    #passeurs #Calais #asile #migrations #réfugiés #smugglers #campement #jungle

  • Un ancien passeur raconte le trafic de #migrants entre la France et l’Angleterre
    https://www.mediapart.fr/journal/international/110417/un-ancien-passeur-raconte-le-trafic-de-migrants-entre-la-france-et-l-angle

    À la tombée de la nuit en 2015-2016, il était courant d’apercevoir des silhouettes marchant à travers champs pour rejoindre les autoroutes et, a priori, créer des barrages © Elisa Perrigueur Depuis deux décennies, les #passeurs opérant en bandes organisées se succèdent autour de #Calais et de Grande-Synthe, où le camp humanitaire a été ravagé par un incendie dans la nuit du 10 au 11 avril. Hommes invisibles qui dorment le jour, vivent la nuit, ils sont détestés des migrants mais indispensables pour franchir la frontière. Un ancien passeur a accepté de témoigner.

    #International #asile #réfugiés

  • A deadly journey for children: The migration route from North Africa to Europe

    NEW YORK/GENEVA, 28 February 2017 – Refugee and migrant children and women are routinely suffering sexual violence, exploitation, abuse and detention along the Central Mediterranean migration route from North Africa to Italy, UNICEF warned in a new report.

    https://www.unicef.org/media/media_94941.html

    Pour télécharger le pdf:
    http://www.unicef.pt/docs/pdf_publicacoes/Child_Alert_Central_Mediterranean.pdf
    #rapport #méditerranée #asile #migrations #réfugiés #enfants #enfance #mineurs #parcours_migratoires #itinéraire_migratoire #Italie #Afrique_du_Nord #Sahel #Sahara #Afrique #Libye #détention_administrative #rétention #smugglers #passeurs #trafic_d'êtres_humains
    cc @reka

  • The #Smuggling Game. Playing with life and death to reach Europe

    Millions of people fleeing conflict and poverty are gambling their futures and life savings with people smugglers – strangers who play with their lives in dangerous cat-and-mouse chases with border authorities known as “The Game”.
    But who wins and who loses as rising numbers risk everything to reach safety?


    http://news.trust.org/shorthand/the-smuggling-game
    #passeurs #the_game #smugglers #asile #migrations #réfugiés #frontières #balkans #route_des_balkans #prix #coût #business

  • HCR | Les risques augmentent pour les réfugiés et migrants tentant de se rendre en Europe

    Après la “fermeture” de la route des Balkans et la déclaration commune UE-Turquie de mars 2016, le nombre de personnes atteignant la Grèce via la Méditerranée a rapidement chuté. Depuis, la Méditerranée centrale, entre l’Afrique du Nord et l’Italie, est devenue la voie d’accès principale à l’Europe. Concernant les tendances observées pour les arrivées en Italie, les principales nationalités qui arrivaient en Grèce ne se sont pas reportées en nombre significatif sur l’itinéraire de la Méditerranée centrale.

    Au total, quelque 181’436 personnes sont arrivées en Italie par la mer en 2016, dont 90% par bateau en provenance de la Libye. Parmi ces arrivants en Italie en 2016, il y a des personnes qui requièrent une protection internationale, ainsi que des migrants en quête d’une vie meilleure et des victimes de la traite d’êtres humains. Les Nigérians (21%) et les Érythréens (11%) sont les deux groupes de nationalités les plus importants parmi les arrivants. Une autre particularité marquante est le nombre croissant d’enfants non accompagnés et séparés qui font le voyage : plus de 25’000 en 2016. Ils représentaient 14% des nouveaux arrivants en Italie et leur nombre a plus que doublé par rapport à l’année précédente.

    La traversée vers l’Italie est particulièrement dangereuse et le nombre de décès recensés en mer Méditerranée en 2016 a dépassé celui de toutes les années précédentes. Sur les 5096 réfugiés et migrants portés disparus ou morts en mer l’année dernière, 90% avaient fait la traversée vers l’Italie par la mer, ce qui représente un décès pour 40 personnes effectuant la traversée.

    Le rapport montre également qu’au cours de la dernière partie de 2016, davantage de personnes ont rejoint l’Europe via l’ouest de la Méditerranée, soit en traversant ce bras de mer depuis le Maroc et l’Algérie vers l’Espagne, soit en entrant dans les enclaves espagnoles de Melilla et de Ceuta.

    Les départs depuis la Turquie via l’est de la Méditerranée se sont poursuivis dès avril, mais en nombres nettement inférieurs. La plupart d’entre eux ont effectué la traversée vers la Grèce, mais certains ont également traversé les frontières terrestres vers la Grèce et la Bulgarie, ou encore vers Chypre par la mer. Ceux qui empruntent cette voie sont nombreux à avoir besoin de protection. En 2016, 87% des personnes arrivées en Grèce par la mer étaient issues des dix principaux pays générateurs de réfugiés.

    Il en est de même pour ceux ayant continué à emprunter la route de l’ouest des Balkans. En Serbie par exemple, 82% des arrivants viennent d’Afghanistan, d’Iraq et de Syrie et la moitié d’entre eux sont des enfants, dont 20% sont non accompagnés, et leur nombre a cependant baissé depuis avril 2016. Comme l’indique le rapport, par suite du renforcement des restrictions aux frontières, ils sont nombreux à faire appel à des passeurs, s’exposant ainsi aux risques élevés qui sont à l’origine de plusieurs décès en 2016.

    Selon l’étude du HCR, des dizaines de milliers de personnes ont apparemment été refoulées par les autorités aux frontières de l’Europe, notamment en Bulgarie, Croatie, Grèce, Hongrie, Serbie, Espagne, et dans l’Ex-République yougoslave de Macédoine ; de nombreux rapports évoquent des cas de violences et d’abus ayant pour but de dissuader toute autre tentative d’entrée.

    Le HCR a par ailleurs reçu des informations très préoccupantes sur des cas d’enlèvement de réfugiés et de migrants, sur leur détention contre leur gré pendant plusieurs jours, sur des cas d’abus physiques et sexuels ainsi que des cas de torture et d’extorsion perpétrés par des passeurs et des bandes de criminels à plusieurs endroits le long des principaux itinéraires.

    « Ce rapport montre clairement que l’absence de voies d’accès régulières et sures pousse les réfugiés et les migrants à prendre d’énormes risques pour essayer de se rendre en Europe, y compris pour ceux qui veulent simplement rejoindre des membres de leur famille », a déclaré Vincent Cochetel, Directeur du bureau Europe du HCR.


    https://asile.ch/2017/03/12/hcr-risques-augmentent-refugies-migrants-tentant-de-se-rendre-europe
    #risques #asile #migrations #mortalité #Italie #Grèce #réfugiés #Melilla

    #abus_sexuels, Ceuta, #décès, #frontières, #Grèce, #Italie, #Méditerranée, #mineur_non_accompagné, #passeur#, #refoulement, #routes_migratoires, #Serbie, #traite, #voies_légales #itinéraires_migratoires #rapport

  • Critical Perspectives on Clandestine Migration Facilitation: An Overview of Migrant Smuggling Research

    The dichotomist script of smugglers as predators and migrants and asylum seekers as victims that dominates narratives of clandestine migration has often obscured the perspectives of those who rely on smugglers for their mobility. This has not only silenced migrants and asylum seekers’ efforts to reach safety, but also the collective knowledge their communities use to secure their mobility amid increased border militarization and migration controls.

    http://cmsny.org/publications/jmhs-clandestine-migration

    #smugglers #passeurs #asile #migrations #réfugiés

    Pour télécharger le papier:
    jmhs.cmsny.org/index.php/jmhs/article/download/72/62

  • Mexican Smuggler Says Trump’s Wall Won’t Stop Him — Here’s Why

    Everything from dogs and blimps to Gamma-ray imaging systems and video surveillance is used to prevent people from crossing the U.S.-Mexico border, making the prospect of a wall seem obsolete.

    http://www.seeker.com/mexican-smuggler-says-trumps-wall-wont-stop-him-heres-why-2260853414.html
    #passeurs #Trump #murs #barrières_frontalières #USA #Etats-Unis #fermeture_des_frontières #frontières

    cc @albertocampiphoto @daphne @marty

    • #Nogales wary about executive order to start building border wall

      NOGALES, ARIZONA – As President Donald Trump signed executive orders in Washington to build a wall and increase enforcement of the U.S.-Mexico border, Carlos Santa Cruz’s small section of fence behind his house was quiet and serene. A landscaper in Nogales and Rio Rico, he has lived right next to the border for 37 years and has seen the changes that have come with different presidential administrations.


      https://cronkitenews.azpbs.org/2017/01/25/nogales-wary-executive-order-building-border-wall

    • Au pied du mur

      Donald Trump veut construire un mur « impénétrable, beau et solide » à la frontière Sud des Etats-Unis. Sur les 3200 kilomètres de démarcation avec le Mexique, un tiers est déjà « barricadé ». Voyage dans un monde de migrants, de trafiquants et de séparations. En pleine canicule.

      Notre périple avait commencé à Phoenix, la capitale de l’Arizona, avec une petite angoisse. Malgré des contacts répétés avec un porte-parole de la Border Patrol – « Vous savez qu’avec la nouvelle administration il faut entre quatre et six mois pour obtenir l’aval de Washington pour passer une journée avec nous ? » –, toujours pas de rendez-vous fixé avec Vicente Paco. Notre interlocuteur était parti en vacances, apparemment sans transmettre le dossier à son collègue, beaucoup moins coopérant. Et puis, soudain, le coup de fil attendu : Vicente Paco !

      Rendez-vous a été donné à #Nogales, sur le parking d’un centre commercial. On file vers la ville, direction sud. Cinq heures de route, avec des cactus à n’en plus finir, une ferme d’autruches, un coyote écrasé et un serpent à sonnette au sort pas plus enviable.

      Nogales ? L’arrivée dans la ville n’est pas des plus chatoyantes. De larges routes, des hôtels de chaîne, les mêmes que l’on retrouvera tout au long du périple, des fast-foods. On retrouve l’agent, comme prévu, sur un parking, sous une chaleur suffocante. Il est pile à l’heure. Les règles sont strictes : interdiction de monter dans sa Jeep sans le fameux sésame de Washington. On le suit donc avec notre voiture. « Elle est solide ? Il va falloir grimper un peu. » En route !

      Le Mexicain qui chasse les Mexicains

      La voilà, la fameuse barrière rouillée qui coupe Nogales en deux. « Vous voyez les traces plus claires sur ces piliers ? glisse Vicente Paco. C’est là où des migrants ont glissé pour descendre côté américain. » On se trouve sur un petit monticule où viennent de passer trois biches. De l’autre côté de la barrière qui s’étend à perte de vue, c’est le Mexique.

      Silhouette svelte et regard volontaire, Vicente Paco, 35 ans, la main gauche toujours posée sur son taser, porte l’uniforme vert de la Border Patrol depuis 2010. Dans sa famille, tous se battent pour la sécurité des Etats-Unis, précise-t-il avec fierté. « Mon grand-père a fait la guerre de Corée, mon père le Vietnam et j’ai moi-même servi pendant quatre ans dans le Golfe. Ce sont les attentats du 11 septembre 2001 qui m’ont poussé à m’engager dans la Navy. » Aujourd’hui, sa tâche principale consiste à traquer les migrants clandestins en plein désert de Sonora et à les déporter. Un Mexicain qui chasse les Mexicains ? « Mon père est devenu Américain, je le suis aussi. Je suis né au Mexique, mais je suis arrivé aux Etats-Unis à l’âge de 12 ans, légalement », rectifie-t-il. Il ajoute, le regard noir : « Quand je porte l’uniforme, je suis là pour appliquer la loi et servir les Etats-Unis, rien d’autre ne compte. »

      Ici, la barrière s’étend sur 4 kilomètres et fait entre 5 et 8 mètres de hauteur, selon les endroits. Un avant-goût du mur « beau et grand » que Donald Trump veut ériger tout le long de la frontière. Le président américain évalue les coûts de sa construction à 12 milliards de dollars, un rapport du Département de la sécurité évoque le chiffre de 21 milliards. Donald Trump espère envoyer l’essentiel de la facture au président mexicain. « Jamás ! » lui a rétorqué ce dernier.

      Un tiers des 3200 kilomètres de frontière sont déjà barricadés. Grâce au Secure Fence Act (2006) signé par George W. Bush dans le sillage des attentats du 11 septembre 2001. Avec l’élection de Donald Trump, la chasse aux clandestins est montée d’un cran. Le président dit vouloir s’en prendre avant tout aux « bad hombres », auteurs de viols, de trafic de drogue et autres délits graves, mais depuis son élection, un homme présent sur sol américain depuis trente ans peut désormais être déporté pour avoir conduit sans permis.

      A Nogales, la barrière est presque intimidante. Dès qu’on s’éloigne un peu de la ville, elle se transforme en barricade anti-véhicules, plus basse, dont le but premier est d’empêcher les trafiquants de forcer le passage avec leurs pick-up. La zone est ultra-sécurisée. Tours de contrôle, caméras infrarouges et appareils de détection de mouvements au sol permettent à Vicente Paco et à ses collègues d’être alertés à la seconde du moindre passage illégal. Sans oublier les drones et les hélicoptères. Impossible de se promener dans la ville plus de dix minutes sans tomber sur une des fameuses jeeps blanches à larges bandes vertes de la Border Patrol.

      Vicente Paco s’appuie contre le « mur ». « Avant 2010, on ne pouvait pas voir à travers. C’était dangereux. Nos agents étaient parfois la cible de jets de pierres. » Il tait un drame pourtant omniprésent dans la ville. Le 10 octobre 2012, José Antonio Elena Rodriguez, un Mexicain de 16 ans, a été tué par un agent. Lonnie Swartz était du côté américain. Visé avec ses coéquipiers par des pierres, il a tiré à travers les barreaux. Dix balles ont touché José Antonio, qui s’est vidé de son sang, côté mexicain. En 2014, sa mère, excédée par la lenteur de l’enquête, a porté plainte. Le procès ne cesse d’être repoussé.

      Vicente Paco patrouille seul dans sa Jeep. Dans le secteur de Tucson, détaille-t-il, la Border Patrol dispose de 4000 agents pour surveiller 421 kilomètres de frontière. Ils ont arrêté 64 891 individus d’octobre 2015 à octobre 2016 (415 816 sur l’ensemble du pays). 7989 étaient des mineurs, la très grande majorité (6302) non accompagnés. En 2000, ces chiffres étaient dix fois plus élevés : 616 300 arrestations recensées dans le secteur de Tucson et 1,6 million sur le plan national.

      A sa ceinture, un pistolet, un taser, des menottes, un bâton télescopique, un couteau et des jumelles. A-t-il déjà fait usage de son arme à feu ? « Je ne vais pas répondre à cette question. Tout ce que je peux dire, c’est que le recours à la force est parfois nécessaire. »

      L’effectif des gardes-frontières est passé en quelques années de 10 000 à 21 000 agents. Donald Trump a promis d’en engager 5000 de plus. Les salaires sont attractifs, les conditions de retraite également. Des points indispensables pour limiter les cas de corruption et de collaboration avec les cartels.

      Vicente Paco l’avait dit tout de go : pas question de parler de politique. Il préfère raconter les migrants pourchassés en ville, décrire la partie mexicaine comme un enfer contrôlé par les trafiquants – « N’allez pas côté mexicain seule ! » – et évoquer les 115 tunnels rebouchés par ses collègues. Des souterrains surtout utilisés par les trafiquants de drogue, qui se montrent toujours plus inventifs. Quand ils n’utilisent pas des migrants comme mules, il leur arrive de recourir à des catapultes géantes et à des drones. Ils se moquent des barrières. D’ailleurs, ici à Nogales, la plupart des habitants lèvent les yeux au ciel à la seule évocation du mur de Trump. Personne n’y croit vraiment.

      Nogales côté mexicain, le contraste

      Le lendemain, après quelques tacos de carne asada et une agua fresca de melón, on file, à pied, découvrir « l’autre Nogales ». Pour aller au Mexique, rien de plus simple. Pas de queue et même pas besoin de montrer son passeport. Nogales côté mexicain ? Le contraste est saisissant : marchés folkloriques, petite place où les habitants se racontent leur vie, procession funéraire qui avance au rythme d’une batterie endiablée. Et des cliniques dentaires à profusion, très prisées des Américains. Rien à voir avec cette ambiance pesante des patrouilles de gardes-frontières côté Arizona. C’est du moins la toute première impression qui s’en dégage. Car les cartels de la drogue contrôlent la ville. Et dans les foyers d’urgence, les migrants arrivés jusqu’à la frontière – beaucoup viennent d’Amérique centrale – et ceux qui ont déjà été refoulés ont une tout autre image de Nogales-Sonora. Celle d’un rêve brisé.

      Un nom résonne en particulier. Celui de Guadalupe Garcia Aguilar. C’est le premier cas de déportation fortement médiatisé depuis que Donald Trump a édicté son décret sur la migration illégale le 25 janvier. Arrêtée en 2008 à Phoenix alors qu’elle travaillait avec un faux numéro de sécurité sociale, elle a été libérée six mois plus tard grâce à l’ONG Puente. A une condition : se présenter chaque année devant des fonctionnaires du « ICE », acronyme de Immigration and Customs Enforcement. Un moment source de stress.

      Le 8 février, elle s’est donc pliée à ce contrôle de routine. Mais la guerre lancée par Donald Trump contre les clandestins « criminels », y compris ceux qui ont commis de petits délits ou sur lesquels pèsent des soupçons, lui a fait craindre le pire. Elle avait raison. Guadalupe n’est pas ressortie du bâtiment officiel, là où sa famille et des membres de Puente l’attendaient en chantant « No está sola ! ». Elle a été embarquée dans une camionnette, menottée, et déportée vers Nogales, la ville par laquelle elle était arrivée il y a 21 ans. Ni les cris « Libération, pas déportation ! » ni la tentative d’un homme de s’accrocher à une roue de la camionnette n’ont pu empêcher son expulsion. La voilà séparée de son mari et de ses enfants, restés aux Etats-Unis.

      « Depuis que Donald Trump est au pouvoir, ce genre de drames est fréquent. Les passeurs ont par ailleurs augmenté les prix pour les migrants », souligne Sergio Garcia, avec son accent chantant. Journaliste, il travaille comme porte-parole pour la municipalité de Nogales-Sonora. La corruption est très présente des deux côtés de la frontière, dit-il, et la guerre contre le narcotrafic est « una farsa ». « Comment expliquez-vous que la frontière du pays le plus puissant du monde soit ainsi contrôlée par des groupes armés et des cartels ? Les Etats-Unis ont tout intérêt à ce que le trafic de drogue subsiste. »

      Il est temps de retourner côté américain. Passé les petites tracasseries habituelles et le tampon dans le passeport que l’agent peu aimable ne trouvait pas – il était pourtant bien visible –, restait la dernière question : « Et là, vous transportez quoi, dans ce sac ? » Moi, sans me rendre tout de suite compte de l’absurdité de la situation : « Oh, juste trois crânes ! » Le douanier a vite compris qu’il s’agissait de têtes de mort en céramique richement décorées, un classique de l’artisanat local. Ouf.

      Avec Wyatt Earp, Billy the Kid et deux trumpistes

      Après Nogales, on met le cap sur El Paso, au Texas, et son pendant mexicain, Juarez. Et pour aller à El Paso, un petit détour par Tombstone s’imposait. C’est là que s’est déroulée, en 1881, la fusillade d’OK Corral, le fameux règlement de comptes entre Wyatt Earp, ses frères, Doc Holliday et une bande de coriaces hors-la-loi. On s’y croirait encore. Dans cette bourgade de cow-boys, les habitants vivent à 100% du tourisme. Alors ils font l’effort de s’habiller en vêtements d’époque. Ils le font presque avec naturel. Et puis, il y a des passionnés, capables de commenter pendant des heures, dans deux musées très bien faits, le moindre objet ayant appartenu à Wyatt Earp, Billy the Kid ou Big Nose Kate. On a beau ne pas être passionné par les histoires de westerns, on ne ressort pas tout à fait indemne de cette ville-musée à l’atmosphère si particulière. Est-ce le fait d’avoir dormi dans le bordello de l’époque, dans la chambre de « Scarlet Lady » ?

      Retour à la réalité le lendemain, réveillés par un cri de coyote. Direction la maison de Moe pour le petit-déjeuner. Un sacré personnage, Moe. Tout comme Jane, qui prépare les œufs brouillés et le bacon.

      Des trumpistes purs et durs. « Trump est merveilleux, il veut nous remettre au cœur des préoccupations », souligne Jane. « Ce mur avec le Mexique est nécessaire. Ceux qui viennent illégalement profitent de notre système. Ils acceptent des bas salaires et, surtout, ne dépensent rien aux Etats-Unis ! » Moe acquiesce. Mais il préfère raconter ses souvenirs d’après-guerre – il était à Berlin en 1953 pour le plan Marshall – et nous montrer sa collection de quartz. Dont un avec une tête d’alligator fossilisée. Jane poursuit sur sa lancée : « Le Mexique doit s’occuper des gens qui veulent émigrer : c’est un pays riche en ressources minières, ils devraient avoir le même niveau que nous. » Elle l’assure, tous les touristes qu’elle a rencontrés à Tombstone trouvent Trump « très bien ».

      Après la visite de #Tombstone, la ville « too tough to die » [trop coriace pour mourir], on continue sur El Paso. Six heures de route en prenant des chemins de traverse. On croise un panneau « Proximité d’une prison, prière de ne pas prendre d’auto-stoppeurs », traverse des vergers de pacaniers (noix de pécan) et une ville qui s’appelle Truth or Consequences.

      De El Paso à #Juarez

      #El_Paso, bastion démocrate dans un Etat républicain, est, comme Nogales, opposée au projet de mur de Trump. La ville est aujourd’hui considérée comme l’une des plus sûres des Etats-Unis. Ici, la barrière court sur une courte distance. Par endroits, elle s’arrête abruptement, ou présente des « trous », comblés par des jeeps de la Border Patrol postées devant. Un « mur » mité, en somme.

      On part rejoindre Juarez à pied. Cette fois, il faut payer 50 cents pour traverser le pont qui enjambe le Rio Bravo. Comme à Nogales, pas de passeport à montrer. De l’autre côté, la ville est très animée, mais avec une forte présence policière. Les agents patrouillent en groupes, à pied, en jeeps et en quads. En tenue de combat, épais gilet pare-balles et armés jusqu’aux dents. Parfois le visage masqué. Là encore, on nous fait comprendre qu’il vaut mieux éviter de s’aventurer dans certains quartiers. On avait d’ailleurs hésité à venir à Juarez. La ville traîne une sale réputation : elle a pendant longtemps été considérée comme la plus dangereuse du monde, minée par une guerre des cartels de la drogue. La « capitale mondiale du meurtre », surtout de femmes. Mais, la veille, deux margaritas ont fini par nous convaincre d’y faire un saut. Ou plutôt le barman José, qui les préparait avec passion. Depuis que l’armée mexicaine est intervenue en 2009 pour tenter de neutraliser membres de cartels et paramilitaires, Juarez n’est plus autant coupe-gorge qu’avant, nous avait-il assuré. Les sicarios, ces tueurs liés aux cartels, font un peu moins parler d’eux.

      Lui-même est arrivé illégalement aux Etats-Unis, il y a vingt ans. « J’étais avec mon oncle. A l’époque, on m’avait juste dit de dire « American ! » en passant la douane. Je l’ai fait – je ne connaissais aucun autre mot en anglais – et j’étais aux Etats-Unis ! C’était aussi simple que ça. Les temps ont beaucoup changé », lâche-t-il dans un grand éclat de rire.

      Cette fois, le retour côté américain est plus compliqué. Une douanière fronce les sourcils en voyant notre visa de journaliste. Elle abandonne son guichet et nous dirige vers une salle, pour « vérification ». Zut. On doit déposer nos affaires à l’entrée, s’asseoir – des menottes sont accrochées à la chaise – et attendre de se faire interroger. Une situation désagréable. Un agent à l’allure bonhomme se pointe, visiblement de bonne humeur. Il n’avait qu’un mot à la bouche : tequila. « Quoi ? Vous rentrez du Mexique et vous n’avez même pas acheté de tequila ? » Un piège ? On bredouille qu’on n’aime pas trop ça. On ne saura jamais si c’était un test ou pas. Prochaine étape : Tucson, et surtout Sells, le chef-lieu de la tribu amérindienne des Tohono O’odham.

      Le dilemme de la tribu des #Tohono_O’odham

      A #Sells, les cactus sont plus nombreux que les habitants. C’est ici, en plein désert de #Sonora, que les Tohono O’odham (« peuple du désert ») ont leur gouvernement, leur parlement, leur prison et leur police tribale. Rendez-vous était pris avec Verlon Jose, le numéro deux de la tribu amérindienne. Mais il nous a posé un lapin. On a donc eu droit au chef (chairman), Edward Manuel, un peu moins habitué aux médias.

      Bien décidés à s’opposer au mur de Donald Trump, les Tohono O’odham se trouvent dans une situation particulière : 2000 de leurs 34 000 membres vivent au Mexique. La tribu est coupée en deux. Elle l’est de fait déjà depuis le traité de Gadsden de 1853, mais elle refuse que des blocs de béton concrétisent cette séparation. Certains membres ne pourraient alors même plus honorer la tombe de leurs parents. D’ailleurs, dans leur langue, il n’y a pas de mot pour dire « mur ». « Le projet de Donald Trump nous heurte pour des raisons historiques, culturelles, mais aussi spirituelles et environnementales. Et parce que nous n’avons même pas été consultés », dénonce, sur un ton ferme mais calme, Edward Manuel.

      Chez les Tohono, pas de rideau de fer comme à Nogales, mais du sable, des arbustes secs, des montagnes et des canyons. Avec, par endroits, des Normandy-style barriers, des sortes de structures métalliques qui émergent du sable, de quoi empêcher des véhicules de passer. Mais pas les hommes, ni les animaux.

      Edward Manuel et sa « Nation » ont avalé bien des couleuvres. Ils ne voient pas d’un bon œil la militarisation de la frontière, mais ont dû apprendre à collaborer avec la Border Patrol, déjà bien présente sur les 100 kilomètres de frontière qui passent par leurs terres. Car les cartels de la drogue y sont très actifs. Des membres de la tribu ont été séquestrés et brutalisés. Le chairman parle lentement. « Il y a un cartel en particulier qui contrôle la zone. Nos jeunes sont parfois recrutés. Ce sont des proies faciles : le taux de chômage est élevé dans la tribu. Se voir proposer plusieurs milliers de dollars est très tentant. »

      La réserve est aussi devenue un corridor mortel pour les migrants. Edward Manuel brise un autre tabou. « Si nous en trouvons en difficulté, nous les soignons dans nos hôpitaux, avec l’argent fédéral que nous recevons. » Délicat. Quand des corps sont retrouvés, la police tribale mène des enquêtes et doit transférer les dépouilles à l’institut médico-légal de Tucson pour procéder à des autopsies, coûteuses. Mais parfois, nous dit-on, les dépouilles sont enterrées là où elles sont trouvées, et resteront probablement à jamais anonymes. D’ailleurs, le long de la route qui mène à Sells, nous avons été frappés par le nombre de petites croix fleuries. Des accidents de la route, mais pas seulement. Des clandestins morts déshydratés, aussi.

      Le chef évoque un chiffre : la tribu dépense près de 3 millions de dollars par an pour « gérer ces problèmes de frontière », une somme non remboursée par le gouvernement fédéral et à laquelle s’ajoutent les frais médicaux. Alors, forcément, la tentation est grande de vouloir laisser un plus grand champ d’action aux agents de la Border Patrol. Même si leurs courses-poursuites en quad dans le désert brusquent leur quiétude et effraient le gibier qu’ils aiment chasser. C’est le dilemme des Amérindiens : ils veulent conserver leur autonomie et défendre leurs droits, mais la situation tendue les contraint à coopérer avec les forces de sécurité. Au sein de la tribu, des divisions apparaissent, entre les plus frondeurs et les pragmatiques. Mais ils sont au moins unis sur un point : personne ne veut du mur de Trump. « Les 21 tribus de l’Arizona nous soutiennent dans notre combat », insiste le chef.

      Edward Manuel tient à relever les effets positifs de cette coopération : en dix ans le nombre d’arrestations a baissé de 84%. La barrière anti-véhicules installée en 2006 y est pour beaucoup. La police tribale a procédé à 84 186 arrestations dans la réserve en 2006, chiffre qui est tombé à 14 472 en 2016.

      Le chef est également préoccupé par l’impact qu’un « vrai mur » aurait sur la migration des animaux. « Et qui a pensé au problème de l’écoulement naturel de l’eau en période de mousson ? La nature est la plus forte. » Le porte-parole venu de Tucson acquiesce discrètement. Ce n’est pas un membre de la tribu, mais il a fallu passer par lui pour que les Amérindiens puissent s’exprimer dans un média.

      La problématique des Tohono rappelle celle de propriétaires de terrains privés, du côté du Texas notamment, menacés d’expropriation pour que Donald Trump puisse construire son mur. Plus d’une centaine d’actions en justice ont déjà été lancées. Certains ont accepté des portions de barrière sur leur terrain, en échange de compensations. Et d’un code électronique pour pouvoir franchir le grillage qui s’érige sur leur propriété.

      Edward Manuel semble fatigué. Mais il a encore une chose à dire : il a invité Donald Trump à venir « voir concrètement ce qui se passe du côté de Sells. Il verra bien que ce n’est pas possible de construire un mur ici. » Le président avait accepté l’invitation. Des dates avaient même été fixées. Puis la Maison-Blanche a annulé, sans jamais proposer de nouvelles dates. Pourquoi ? Seul Donald Trump le sait.

      Les morts qui hantent le désert de Sonora

      On continue notre route vers l’ouest, avec un crochet par l’Organ Pipe Cactus National Monument. Le désert de Sonora est d’une beauté insolente. Des drames s’y déroulent pourtant tous les jours, parfois en silence, comme étouffés.

      Le 15 juin, en début de soirée, la Border Patrol a joué une scène digne d’un mauvais film d’action : elle a pris d’assaut un campement humanitaire en plein désert, dans le but de dénicher des clandestins. Et elle en a en trouvé quatre. L’ONG No More Deaths est sous le choc. C’est elle qui gère ce camp un peu spécial, dont le but est de soulager, le temps d’une étape, les migrants qui se lancent dans une traversée périlleuse depuis le Mexique. Une tente, du matériel médical, des lits et beaucoup d’eau, voilà ce qu’elle leur propose.

      « La Border Patrol connaissait l’existence de ce camp et, jusqu’ici, elle tolérait sa présence », explique Chelsea Halstead, qui travaille pour une autre ONG active dans la région. Un accord a été signé en 2013 : les agents s’engageaient à ne pas y intervenir. Mais le 15 juin, alors qu’ils traquaient déjà depuis plusieurs jours les clandestins aux abords du camp, ils ont décidé de troquer les goutte-à-goutte contre des menottes. Une quinzaine de jeeps, deux quads et une trentaine d’agents lourdement armés ont investi le camp. Chelsea Halstead : « Les migrants risquent maintenant de penser qu’un piège leur a été tendu. C’est dévastateur pour le travail des humanitaires. »

      #No_More_Deaths s’attelle depuis treize ans à empêcher que des migrants meurent dans le désert. Des bénévoles vont régulièrement y déposer des réserves d’eau. Depuis 1998, plus de 7000 migrants ont trouvé la mort dans les quatre Etats (Californie, Arizona, Nouveau-Mexique et Texas) qui bordent le Mexique. Environ 3000 ont péri dans le seul désert de Sonora, déshydratés.

      Dans l’Organ Pipe Cactus National Monument, une réserve de biosphère qui abrite d’étonnantes cactées en forme d’orgues, une pancarte avertit les randonneurs : « Contrebande et immigration illégale peuvent être pratiquées ici. Composez le 911 pour signaler toute activité suspecte. » Interrogé, le manager du parc relativise les dangers. Une plaque en marbre devant le centre des visiteurs raconte pourtant une triste histoire. Celle de Kris Eggle, un apprenti ranger, tué à 28 ans par les membres d’un cartel qu’il était en train de poursuivre.

      Ce jour-là, pas loin de la piste, on aperçoit un bout d’habit pris dans les ronces. Par terre, une chaussure, sorte d’espadrille raccommodée, avec le genre de semelles qui ne laisse pas de traces. Celles que privilégient les migrants. Ils les recouvrent parfois avec des bouts de tapis.

      Pour passer aux Etats-Unis par cette région hostile, les migrants peuvent débourser jusqu’à 6000 dollars. Plus le chemin est périlleux, plus le prix augmente. C’est bien ce que dénoncent les activistes : la militarisation de portions de frontière pousse les migrants à emprunter des chemins toujours plus dangereux, en alimentant l’industrie des « coyotes » – le nom donné aux passeurs –, qui eux-mêmes travaillent parfois main dans la main avec les cartels de la drogue.

      Les « coyotes » abandonnent souvent les migrants en plein désert après avoir empoché l’argent. Ce n’est que la première difficulté à laquelle les clandestins font face. Poursuivis par les agents de la Border Patrol, ils sont parfois également traqués par des milices privées composées d’individus lourdement armés à l’idéologie proche de l’extrême droite qui, souvent, cherchent « à faire justice » eux-mêmes. Quand ils ne tombent pas sur des brigands. Des cas de viols et de meurtres sont signalés. Dans le désert, c’est la loi du plus fort.

      « Chaque jour, entre trente et plusieurs centaines de gens passent par illégalement dans la région », raconte un agent de la Border Patrol, à un checkpoint à la sortie du parc, pendant qu’un chien sniffe l’arrière de la voiture. « Surtout des trafiquants. »

      Chelsea Halstead travaille pour Colibri, un centre qui collabore avec l’institut médico-légal de Tucson. L’ONG s’est donné un but : identifier les corps, donner un nom aux restes humains retrouvés dans le désert. Faire en sorte que « Doe 12-00434 » ou « Doe 12-00435 » retrouvent enfin leur identité. « Nous avons obtenu l’an dernier l’autorisation de procéder à des tests ADN. Cela simplifie considérablement nos recherches. Avant, on recueillait les informations de familles qui n’ont plus de nouvelles d’un proche, et nous les transmettions aux médecins légistes. Mais s’il n’y avait pas de signalement particulier, comme une caractéristique au niveau de la dentition ou du crâne, c’était comme rechercher une aiguille dans une botte de foin. » En prélevant des échantillons d’ADN chez les familles de disparus, Colibri espère pouvoir identifier des centaines de corps encore anonymes. Un bandana, une poupée, une bible : tous les objets retrouvés dans le désert, à proximité ou non de restes humains – les animaux sauvages sont parfois passés par là –, ont une histoire, que l’ADN peut permettre de reconstituer.

      Mais le centre se heurte parfois à un obstacle : la peur. « Notre travail n’a pas vraiment changé avec l’élection de Donald Trump. Mais les déportations sont plus massives, chaque clandestin se sent potentiellement en danger », précise Chelsea. Une femme a été arrêtée et déportée alors qu’elle subissait une opération pour une tumeur au cerveau, rappelle-t-elle. Autre exemple : une victime de violence conjugale. Son compagnon a dénoncé son statut migratoire, et la voilà expulsée. « Les clandestins sont tétanisés. Ils craignent d’être arrêtés en se rendant chez nous. Une famille de Los Angeles, qui nous avait fourni de l’ADN, nous a appelés pour nous dire qu’un de leur fils a été déporté peu après. »

      Chelsea est encore toute tourneboulée par l’épisode du raid. Dans le désert, quand un migrant parvient à trouver une balise de sauvetage et appelle le 911, il tombe généralement sur la Border Patrol, et pas sur des équipes médicalisées. « Ils veulent nous faire croire qu’ils sauvent des vies, mais ils s’empressent de déporter les migrants. On a même eu droit à une fausse opération de sauvetage par hélicoptère, où un agent de la Border Patrol jouait le rôle d’un migrant ! » assure-t-elle.

      A #Ajo, on n’aime pas parler de migration illégale

      Depuis le parc de cactus, on remonte vers la petite ville d’Ajo. Les gens ne sont pas toujours bavards, ni les journalistes bienvenus. Chez Marcela’s, la Marcela en question, une Mexicaine, n’avait visiblement pas très envie de parler immigration illégale ce jour-là. Sa préoccupation : faire fonctionner son petit restaurant. Elle a trouvé un bon créneau : elle est la seule de la ville à offrir des petits-déjeuners. Alors plutôt que de répondre aux questions, elle file chercher le café.

      Départ pour #Yuma, située à la confluence du Colorado et de la rivière Gila. De l’autre côté de l’eau, le Mexique. Après avoir fait un tour en ville et tenté d’approcher le mur – le nombre de sens interdits nous fait faire des kilomètres –, on descend vers #Gadsden. Là, à force de chercher à approcher la barricade, on l’a vue de très près, en empruntant, sans le remarquer tout de suite, un chemin totalement interdit. D’ailleurs, à cet endroit, le « mur » s’est arrêté sec au bout de quelques centaines de mètres.

      Plus rien. Ou plutôt si : du sable, des ronces et des pierres. Plus loin, la barricade se dédouble. A un endroit, elle jouxte une place de jeu, qui semble laissée à l’abandon.

      A San Diego, le « mur » se jette dans le Pacifique

      On décide un peu plus tard de poursuivre l’aventure jusqu’à San Diego. La route est presque droite. On traverse le désert de Yuha, des montagnes rocheuses, des réserves amérindiennes, des champs d’éoliennes et des parcs de panneaux solaires. Avec un détour par Calexico – contraction de « California » et de « Mexico » – pour avaler deux-trois tacos. En face, son pendant, Mexicali, mariage entre « Mexico » et « California ». A Calexico, on a beau être encore aux Etats-Unis, l’espagnol domine. Dans la petite gargote choisie pour midi, l’ambiance est étrange. Les clients ont tous des visages boursouflés et tristes.

      L’entrée à #San_Diego est impressionnante, avec ses autoroutes à voies multiples. Ici, le « mur » se jette dans le Pacifique. On parque la voiture dans le Border State Park, et c’est parti pour 30 minutes de marche sous un soleil cuisant. Une pancarte avertit de la présence de serpents à sonnette. Très vite, un bruit sourd et répétitif : les pales d’hélicoptères, qui font d’incessants va-et-vient. On se trouve dans une réserve naturelle. Au bout de quelques minutes, la plage. Elle est déserte. On se dirige vers la palissade rouillée. Le sable est brûlant. Le bruit des vagues est couvert par celui des hélicoptères. Et par la musique qui émane de la jeep d’un agent de la Border Patrol, posté face au Mexique. Pas vraiment de quoi inspirer les Californiens : ils ont de belles plages un peu plus loin, sans barbelés, sans panneaux leur indiquant de ne pas s’approcher de la palissade, sans caméra qui enregistre leurs faits et gestes. De l’autre côté, à Tijuana, c’est le contraste : des familles et des chiens profitent de la plage, presque accolés aux longues barres rouillées. Un pélican passe nonchalamment au-dessus de la barrière.

      Le week-end, l’ambiance est un peu différente. Le parc de l’Amitié, qui porte aujourd’hui très mal son nom, ouvre pendant quelques heures, de 10 à 14 heures. C’est là que des familles, sous l’étroite surveillance de la Border Patrol, peuvent, l’espace de quelques instants, franchir la première barrière côté américain, se retrouver dans le no man’s land qui sert de passage pour les jeeps des gardes-frontières, et se diriger vers la deuxième. Pour enfin pouvoir, à travers un grillage, toucher, embrasser leurs proches. C’est le sort de familles séparées par la politique migratoire.

      Ce parc a été inauguré en 1971 par l’épouse du président Richard Nixon. Jusqu’à mi-2009, il était possible de s’étreindre et de se passer des objets, presque sans restriction. Puis, le parc a fermé, le temps de construire une nouvelle barrière, en acier cette fois, de 6 mètres de haut. Il a rouvert en 2012. Ses environs sont désormais quadrillés en permanence par des agents de la Border Patrol. En jeeps, en quads et à cheval. C’est devenu l’une des portions de frontière les plus surveillées des Etats-Unis. Avec Donald Trump, elle pourrait le devenir encore plus.

      Sur la piste des jaguars
      La construction du mur « impénétrable, beau et solide » de Trump aurait des conséquences désastreuses sur l’écosystème, avertissent les scientifiques. Les rares jaguars mexicains venus aux Etats-Unis pourraient en pâtir. Et en matière de jaguars, Mayke et Chris Bugbee en connaissent un rayon.

      Mayke est un berger malinois femelle. Elle était censée faire carrière dans la traque aux narcotrafiquants, détecter drogues et explosifs, mais la Border Patrol n’en a pas voulu : la chienne a peur des gros camions. Peu importe : Mayke a aujourd’hui une existence bien plus fascinante. Repérée par le biologiste Chris Bugbee, elle a été formée pour surveiller un autre type de clandestin venu tout droit du Mexique : El Jefe. L’un des rares jaguars à avoir foulé le sol américain.

      El Jefe (« le chef ») vient probablement de la Sierra Madre, une chaîne de montagnes du nord du Mexique. La dernière fois qu’il a été filmé aux Etats-Unis – il lui arrive de se faire avoir par des pièges photographiques –, c’était en octobre 2015. Depuis, plus rien. A-t-il été tué, braconné par des chasseurs ? Ou est-il reparti au Mexique, à la recherche d’une femelle ? Aucune piste n’est à écarter.

      Une chose est sûre : El Jefe est un jaguar malin. Chris Bugbee ne l’a jamais vu. Grâce à Mayke, il a trouvé des traces de sa présence – des excréments, des restes de mouffettes où tout a été dévoré sauf les glandes anales, et même un crâne d’ours avec les traces de dents d’un jaguar, peut-être les siennes –, mais n’a jamais croisé son regard. « El Jefe est très prudent. Il nous a probablement observés pendant des missions. Il est arrivé qu’il apparaisse sur des images de caméras à peine 12 minutes après mon passage, raconte Chris Bugbee. Ma chienne, par contre, l’a probablement vu. Un jour, elle s’est brusquement immobilisée sur ses pattes, comme tétanisée par la peur. Elle est venue se cacher derrière mes jambes. Je suis presque sûr que c’était lui. Cela devait en tout cas être quelque chose d’incroyable ! »

      Auteur d’un mémoire de master consacré aux alligators, Chris Bugbee s’est installé à Tucson avec sa femme, qui s’est, elle, spécialisée dans les ours noirs, puis les félins. Il a d’abord entraîné des chiens à ne pas attaquer des serpents à sonnette. Puis il s’est pris de passion pour les jaguars et s’est intéressé de près à El Jefe, qui rôdait pas loin. Ni une, ni deux, il décide de faire de Mayke le premier chien spécialisé dans la détection de ces félins aux Etats-Unis. Il l’entraîne avec de l’excrément de jaguar récupéré d’un zoo. Tous deux se mettent ensuite sur la piste d’El Jefe pendant quatre ans, dans le cadre d’un projet de l’Université de l’Arizona, dont le but est de surveiller les effets sur la faune de la construction de premières portions de palissades de long de la frontière.

      En été 2015, le projet prend fin, mais Chris Bugbee veut continuer. Il finit par obtenir le soutien du Center for Biological Diversity. Grâce à ses pièges photographiques, il réussit à cerner les habitudes d’El Jefe. Des images censées rester discrètes et utilisées uniquement à des fins scientifiques, jusqu’à ce que Chris Bugbee décide de les rendre publiques, sans demander l’avis de ses anciens chefs ni celui des agences fédérales associées au projet, « qui de toute façon ne font rien pour préserver les jaguars ». Il avait hésité. Le risque en révélant l’existence d’El Jefe est d’éveiller la curiosité de braconniers.

      Mais Chris veut sensibiliser l’opinion publique à la nécessité de protéger cette espèce, qui revient progressivement aux Etats-Unis. Car le mur de Donald Trump la menace. Tout comme le projet d’exploitation d’une mine de cuivre, pile-poil sur le territoire d’El Jefe. En février 2016, il diffuse donc une vidéo de 41 secondes qui montre « l’unique jaguar aux Etats-Unis ». C’est le buzz immédiat. La vidéo a été visionnée des dizaines de millions de fois. Du côté de l’Université de l’Arizona et du Service américain de la pêche et de la faune, l’heure est par contre à la soupe à la grimace. Chris Bugbee est sommé de rendre son matériel et son véhicule.

      « Je ne regrette pas d’avoir diffusé la vidéo, souligne aujourd’hui Chris Bugbee. L’opinion publique doit être alertée de l’importance de protéger cette espèce. C’est incroyable de les voir revenir, peut-être poussés vers le nord à cause des changements climatiques. Dans les années 1900-1920, il existait un programme d’éradication de ces prédateurs. La population des jaguars aux Etats-Unis a presque été entièrement décimée vers 1970. » Il ajoute : « Mais avec le projet de Trump, ce serait clairement la fin de l’histoire du retour des jaguars aux Etats-Unis. »

      Le dernier jaguar femelle recensé aux Etats-Unis a été tué dans l’Arizona en 1963. Depuis, les jaguars observés dans le pays se font rares. Ces vingt dernières années, sept jaguars ont été aperçus. Les deux derniers ont été photographiés récemment, l’un d’eux en décembre 2016 dans les montagnes Huachuca. Juste au nord d’une petite portion de frontière sans barricade.

      Les jaguars de Sonora et les ocelots ne seraient pas les seuls animaux affectés par la construction d’un mur. Beaucoup d’espèces migrent naturellement entre les deux pays. Des coyotes, des ours, des lynx, des cougars, des antilopes ou des mouflons. Ou encore les rares loups gris du Mexique. Même des animaux de très petite taille, comme le hibou pygmée, des tortues, des grenouilles ou des papillons risquent d’être touchés. Les animaux volants pourraient être gênés par des radars et des installations lumineuses, qui font partie des méthodes de détection de passages illégaux de migrants ou de trafiquants.

      Chris Bugbee continue de se promener sur les terres d’El Jefe dans l’Arizona, dans l’espoir de retrouver, un jour, des signes de sa présence. Quant à Mayke, elle pourrait bientôt avoir une nouvelle mission : « Je vais probablement l’entraîner à trouver des ocelots. Eux aussi commencent à remonter depuis le Mexique. »


      https://labs.letemps.ch/interactive/2017/longread-au-pied-du-mur
      #décès #morts #mourir_aux_frontières

      Avec une carte des morts :

      sur les tunnels, v. aussi :
      https://seenthis.net/messages/625559

  • Fit for Purpose? The #Facilitation_Directive and the Criminalisation of Humanitarian Assistance to Irregular Migrants

    This study was commissioned by the European Parliament’s Policy Department for Citizens’ Rights and Constitutional Affairs at the request of the LIBE Committee. With renewed efforts to counter people smuggling in the context of an unprecedented influx of migrants and refugees into the EU, it assesses existing EU legislation in the area – the 2002 Facilitators’ Package – and how it deals with those providing humanitarian assistance to irregular migrants. The study maps EU legislation against the international legal framework and explores the effects – both direct and indirect – of the law and policy practice in selected Member States. It finds significant inconsistencies, divergences and grey areas, such that humanitarian actors are often deterred from providing assistance. The study calls for a review of the legislative framework, greater legal certainty and improved data collection on the effects of the legislation.

    http://www.europarl.europa.eu/thinktank/fr/document.html?reference=IPOL_STU(2016)536490

    #rapport #passeurs #smugglers #assistance_humanitaire #criminalisation #délit_de_solidarité #solidarité #asile #migrations #réfugiés

    Lien pour télécharger le rapport:
    http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2016/536490/IPOL_STU(2016)536490_EN.pdf

  • Clingendael report : EU external migration policies misaligned with reality

    On the February 1, Dutch think tank #Clingendael released a report on the relationship between irregular migration and conflict and stability in Mali, Niger and Libya. The report’s main finding is that current EU policies are misaligned with the reality of trans-Saharan migration.

    The report argues that European external migration policies fail to take into account the diverse socio-political dynamics of intra-African migration. EU policies focus on stemming migration flows through securitised measures as a means to stop human smuggling. However, it disregards local actors such as transportation companies facilitating irregular movements, local security forces gaining income by bribery and road taxes, political elites facilitating irregular migration in exchange for money and local population offering to sell food and lodging to earn a living. Ignoring such essential local dynamics prevents the establishment of effective migration management policies. A worrying mistake given the EU’s increased focus on the external dimension of migration in the context of the Partnership Framework.

    The report encourages the EU to focus on peace building processes and invest in both conflict- and politically sensitive state building as well as regional cooperation.

    http://www.ecre.org/clingendael-report-eu-external-migration-policies-misaligned-with-reality
    #rapport #externalisation #asile #migrations #réfugiés #Libye #Sahel #Gao #Agadez #Niger #routes_migratoires #Mali #Tamanrasset #Niamey #Sebba #Arlit #Séguédine #Algérie #Murzuq #Ghadames #Ghat #Tripoli #EU #UE #Union_européenne #détention_administrative #rétention #passeurs #trafiquants #trafic_d'êtres_humains #gardes-côtes

    Lien vers le rapport :


    https://www.clingendael.nl/sites/default/files/turning_the_tide.pdf

    cc @isskein @reka

    • Our analyses from January: externalisation of migration control

      We pay but others do it. This first and foremost has been the response of the European Union
      to the so
      –called “refugee crisis”. Under the title of the
      European Agenda on Migration
      , in May
      2015 the European Commission proposed a series of measures to stop what
      it called “the
      human misery created by those who exploit migrants.” This document established as a priority
      cooperation with third countries to jointly address the causes of emigration. In practice, this
      cooperation has been limited to promoti
      ng the readmission of irregular migrants, border control
      and the reception of asylum
      –seekers and refugees in third countries. The EU’s agreements
      with Turkey (March 2016) and more recently with Niger, Nigeria, Senegal, Mali and Ethiopia
      (June 2016) represent the implementation of this approach.

      http://www.statewatch.org/analyses/no-305-viewpoint-migration-more-externalisation.pdf

    • Ecco l’accordo con la Libia sui migranti…

      Praticamente si chiede di far soffrire, di far subire violazioni, magari anche di uccidere, o di estorcere soldi ai migranti lontano dai nostri confini. Lontano dalle macchine fotografiche dei giornalisti, lontano da chi può raccontare cosa succede.


      http://www.africarivista.it/ecco-laccordo-con-la-libia-sui-migranti/111726

    • Profughi: un piano studiato per tenerli lontano, ad ogni costo

      Ora è operativo. Dal pomeriggio del 2 febbraio, con la firma congiunta del premier Gentiloni e del presidente del Governo di Alleanza di Tripoli, Fayez Serraj, è entrato in vigore a tutti gli effetti il piano sull’immigrazione concordato tra Italia e Libia dal ministro Minniti all’inizio di gennaio. Lo hanno chiamato memorandum sui migranti. Gentiloni lo ha presentato come “una svolta nella lotta al traffico degli esseri umani”, sollecitando il sostegno politico e finanziario dell’Unione Europea. In realtà è un piano di respingimento e deportazione, da attuare in più fasi e in modi diversi, a seconda delle condizioni e delle circostanze: l’ultima di tutta una serie di barriere messe su da Roma e da Bruxelles, negli ultimi dieci anni, per esternalizzare le frontiere della Fortezza Europa, spostandole il più a sud possibile e affidandone la sorveglianza a Stati “terzi” come, appunto, la Libia. Sorveglianza remunerata con milioni di euro, ben inteso: milioni per affidare ad altri il lavoro sporco di bloccare i profughi, non importa come, prima che raggiungano il Mediterraneo e, ancora, di “riprendersi” quelli respinti dall’Europa, con l’obiettivo, poi, di convincerli in qualche modo a ritornare “volontariamente” nel paese d’origine. A prescindere se il “paese d’origine” è sconvolto da guerre, terrorismo, dittature e persecuzioni, miseria e fame endemiche, carestia.

      http://habeshia.blogspot.ch/2017/02/profughi-un-piano-studiato-per-tenerli.html

    • La « forteresse » Europe commence en #Afrique_du_nord

      Le 3 février 2017, les représentants de l’Union européenne réunis à Malte se sont séparés après avoir entériné un plan d’action destiné à freiner – et éventuellement arrêter - les arrivées de réfugiés en provenance de #Libye principalement. Face à une situation incontrôlable dans ce pays, les dirigeants européens se tournent de plus en plus vers les pays voisins, la #Tunisie, l’#Egypte et l’#Algérie afin de les pousser à respecter ou intégrer les dispositifs de gestion des flux migratoires qu’ils ont mis en place. La chancelière allemande Angela Merkel a fait personnellement le déplacement pour convaincre les responsables de ces Etats à coopérer moyennant de substantielles aides matérielles et financières. Si les rencontres n’ont pas abouti aux résultats escomptés, force est de constater que les pratiques de contrôle et de répression de ces pays se professionnalisent et s’adaptent progressivement aux exigences de leurs partenaires du Nord.

      http://www.algeria-watch.org/fr/article/analyse/mellah_forteresse.htm

    • L’Afrique du Nord, dernier recours de l’Europe ?

      Depuis que l’accord controversé, conclu entre la Turquie et l’Union européenne (UE) en mars 2016, a largement réussi à empêcher les demandeurs d’asile d’atteindre l’Europe par la Méditerranée orientale, les dirigeants européens se sont tournés vers la partie centrale de cette mer. Avec les élections qui approchent dans plusieurs États de l’Union et les craintes suscitées par la perspective de voir de nouvelles vagues de migrants entrer en Europe au printemps, les responsables politiques tentent de trouver des solutions rapides pour montrer qu’ils sont capables de gérer la crise.

      Au-delà de ce contexte électorale, l’UE dans son ensemble est pressée de formuler, et pas seulement des solutions d’urgence, une vision stratégique de long à même de relever le défi que présente la question migratoire. Et pour trouver de telles solutions, elle est contrainte de se tourner vers les pays nord-africains.

      http://www.alternatives-economiques.fr/lafrique-nord-dernier-recours-de-leurope/00077792

      En anglais : carnegieendowment.org/sada/68097

    • Migration monitoring in the Mediterranean region – Libyan military to be linked up to European surveillance systems

      The Mediterranean countries of the EU are establishing a network to facilitate communication between armed forces and the border police. Libya, Egypt, Algeria and Tunisia are also set to take part. This would make them, through the back door, part of the surveillance system #EUROSUR. Refugees could then be seized on the open seas before being returned to Libya.

      https://digit.site36.net/2017/04/25/migration-monitoring-in-the-mediterranean-region-libyan-military-to-be

    • Security and migration amongst EU priorities for cooperation with “modern, democratic” Egypt

      Joint priorities adopted today by the EU and Egypt for 2017 to 2020 include a commitment from the EU to “support the Egyptian government’s efforts to strengthen its migration governance framework, including elements of legislative reform and strategies for migration management,” and to “support Egypt’s efforts to prevent and combat irregular migration, trafficking and smuggling of human beings, including identifying and assisting victims of trafficking.”

      http://www.statewatch.org/news/2017/jul/eu-egypt-priorities.htm

    • Niger : #ingérence et #néocolonialisme, au nom du #Développement

      Le 10 octobre 2016, la chancelière allemande Angela Merkel était reçue en grande pompe à Niamey. Elle ne faisait pas mystère que ses deux préoccupations étaient la « #sécurité » et « l’#immigration ». Il s’agissait de mettre en œuvre des « recommandations » répétées à l’envie : le Niger, « pays de transit », devait être accompagné afin de jouer le rôle de filtre migratoire. Des programmes de « renforcement des institutions locales » feraient advenir cette grande césure entre les « réfugiés » à protéger sur place et les « migrants » à « reconduire » vers leurs « pays d’origine ». Autrement dit, comme l’a récemment exprimé le président français, le Niger et ses voisins (Libye, Tchad…) devaient accepter de se couvrir de camps et de jouer le rôle de #hotspot (voir Note #4). Le #néo-colonialisme d’une telle vision des rapports euro-africains a poussé les très conciliantes autorités nigériennes à rappeler que les intérêts de leurs ressortissants et la souveraineté nationale devaient être l’objet de plus d’égards. Ces négociations inter-gouvernementales sont toujours en cours alors qu’en Libye elles ont été directement menées avec des chefs de milices, prêts à jouer les geôliers à condition de pouvoir capter les fonds qui se déversent sur les gardes-frontières de l’Union européenne (UE).

      http://www.migreurop.org/article2840.html

    • Niger : #Niamey, capitale cernée par les crises

      Exode de migrants, conflits ethniques exacerbés par une guerre contre le jihad et une montée de l’islam politique… Dans la ville, devenue réceptacle des problèmes actuels du Sahel, la tension est omniprésente.

      Ce sont des victimes invisibles. Emportées par un cycle sans fin de représailles dans un coin reculé du monde. La scène de la tuerie est pourtant terrifiante : « Les assaillants sont arrivés vers 17 heures et se sont rendus directement à la mosquée où ils ont tué à coup de mitraillettes automatiques une dizaine de personnes. Puis ils se sont dirigés à l’intérieur du campement nomade où ils ont tiré sur des personnes qu’ils ont croisées », affirme un communiqué officiel relayé par la presse au Niger. Bilan ? 17 morts, vendredi à Inates, un bled perdu dans le sud de ce pays sahélien et proche de la frontière avec le Mali. A part les autorités du pays, aucun témoin extérieur, journaliste ou humanitaire, n’a pu se rendre seul sur place. Car Inates se trouve dans cette nouvelle zone de tous les périls, située au nord de Niamey, la capitale. Le 11 avril, Joerg Lang, un humanitaire allemand, pensait pouvoir s’y rendre incognito en dissimulant son visage sous un keffieh, foulard traditionnel, et en circulant à bord d’une voiture banalisée. Il a été enlevé sur la route du retour, non loin d’Inates.

      L’attaque du 19 mai n’est que la dernière d’une longue série, qui oppose depuis peu des nomades, touaregs et peuls, de chaque côté de la frontière qui sépare le Niger et le Mali. « Il y a trois semaines, de jeunes Peuls, venus du Niger, ont exécuté 18 Touaregs de l’autre côté de la frontière, au Mali. Cette fois-ci, les assaillants voulaient en tuer autant chez les Peuls, en représailles. Sauf que l’une des victimes a finalement survécu », indique Mohamed Bazoum, ministre de l’Intérieur du Niger. Les forces de sécurité sont pourtant loin d’être absentes dans ce pays, qui est même devenu le nouveau hub militaire régional d’une coalition internationale en lutte contre les forces jihadistes au Sahel. A Niamey, la capitale, située à seulement 250 kilomètres d’Inates, des gaillards musclés aux cheveux très courts ont remplacé les touristes dans les hôtels, qui ne désemplissent pas. On y croise des Français, des Américains, et même désormais des Allemands.
      Théories complotistes

      C’est au Mali, pays gangrené depuis plusieurs années par les mouvements jihadistes, et désormais aussi au Burkina Faso voisin, que se joue l’essentiel de cette guerre asymétrique. Mais c’est bien au Niger que s’implantent de plus en plus les bases arrières étrangères engagées dans cette bataille du Sahel. Pourtant le Niger n’a jamais connu de mouvement jihadiste autochtone. Son point faible, ce sont justement ses frontières. Et notamment celles avec le Mali et le Burkina Faso, dans ce petit triangle où se trouve aussi Niamey. Une capitale en apparence assoupie, particulièrement en ce mois de mai où la température frôle souvent les 45 °C. Mais le calme de la ville est trompeur. Tous les accès extérieurs sont verrouillés par des barrages, les fameuses « ficelles ». Et les entrées et les sorties sont fortement contrôlées. Les dunes orange qu’on aperçoit parfois au loin évoquent ainsi un monde potentiellement hostile, qui donne à la capitale nigérienne un air de forteresse isolée guettant l’ennemi, comme dans le roman de l’Italien Dino Buzzati, le Désert des Tartares. Mais qui est exactement l’ennemi ?

      A Niamey, nombreux sont ceux qui s’interrogent : « Les Américains ont construit une immense base à Agadez [à 950 kilomètres au nord-est de Niamey, ndlr]. Les Français et les Allemands renforcent leurs installations près de l’aéroport. Visiblement, ils sont là pour rester longtemps. Mais dans quel but ? Est-ce seulement pour notre sécurité ? » s’inquiète Abdoulaye, un jeune entrepreneur de la capitale. Les intentions « réelles » des Occidentaux au Niger font l’objet de nombreuses conversations et les théories complotistes ne manquent pas. Pourtant, même dans ce cas de la tuerie d’Inates, c’est bien l’influence des jihadistes qui est aussi en jeu. « Les Peuls se sont fait piéger. Depuis quelques années, la pression démographique et la raréfaction des terres pastorales les ont poussés vers le nord du Mali. Mais en s’y implantant, ils ont dû choisir leur camp dans un conflit purement malien. Et se sont laissé instrumentaliser par les forces jihadistes de l’Etat islamique en Afrique de l’Ouest alors qu’une partie des Touaregs soutient désormais la coalition internationale », affirme le général Abou Tarka qui dirige la Haute Autorité pour la consolidation de la paix, un organisme né lors des rébellions touaregs des années 90 et qui tente aujourd’hui de désamorcer cette bombe communautariste parée des oripeaux jihadistes. « C’est une guerre de pauvres, de populations qui se sentent souvent abandonnées », confie le général.

      Le conflit dans le sud-ouest est récent. Mais dans le sud-est du pays, une autre zone dessine depuis plus longtemps un front sensible avec la présence de la secte Boko Haram qui a infiltré la région de Diffa, en provenance du Nigeria voisin. Il existe d’autres frontières sensibles dans ce vaste « pays de sable, en apparence immobile », comme le décrit le père Mauro, un prêtre italien très investi aux côtés des migrants. Les Nigériens immigrent peu, et encore moins vers l’Europe. Mais depuis longtemps, le pays est une zone de passage pour tous ceux qui veulent tenter la traversée de la Méditerranée à partir des côtes libyennes. Depuis 2016, les Européens ont fait pression sur le pouvoir en place pour restreindre ces mouvements. En criminalisant les passeurs, mais aussi en faisant de Niamey et d’Agadez des « hot spots » censés dissuader les traversées clandestines, grâce à l’espoir d’un passage légal vers l’Europe, du moins pour ceux qui peuvent prétendre au statut de réfugié. Ces derniers mois, des charters ont même ramené au Niger des candidats à l’asile en Europe, jusqu’alors détenus dans les geôles libyennes. « Mais aujourd’hui ces rotations sont quasiment à l’arrêt car les autorités se sont rendu compte que les Européens, et notamment les Français, n’acceptaient les réfugiés qu’au compte-gouttes, malgré leurs promesses », explique un responsable du Haut Commissariat aux réfugiés (HCR) à Niamey.

      Cette nouvelle stratégie impose aussi un tri entre « bons » et « mauvais » migrants. Dans une rue ombragée du centre de la capitale, des hommes prennent l’air, assis devant une maison gardée par des vigiles. Les visages sont maussades, les regards fuyants, et les gardiens ont vite fait d’éconduire les visiteurs étrangers qui tentent de parler à ces migrants rapatriés de Libye et qui ont, eux, accepté de rentrer dans leur pays. Ceux qui refusent ce retour « volontaire » se dispersent dans la ville, formant une cohorte invisible qui échappe aux radars. « En réalité, les passages de migrants ne se sont pas arrêtés. Il y a de nouvelles routes, plus dangereuses », confie un officiel nigérien. En revanche, la création des hot spots attire désormais d’autres candidats à l’exil. Début mai, des centaines de Soudanais ont ainsi envahi les rues d’Agadez dans l’espoir d’obtenir le sésame miraculeux de l’asile en Europe. Mais, excédées par ces arrivées massives, les autorités de la ville ont envoyé de force, le 12 mai, 145 d’entre eux à la frontière libyenne, en plein désert. Depuis, leur sort est inconnu.
      Arrestations

      En privé, les responsables nigériens se moquent parfois de l’autosatisfaction des Européens sur les mirages de cette nouvelle politique migratoire. Et fustigent les faux-semblants de l’aide, en principe massive, accordée au pays : « On nous dit que le Niger est désormais le pays d’Afrique le plus aidé par l’Europe. Mais ce sont les ONG étrangères qui captent toute cette aide », peste un haut responsable. Ce n’est pas le seul mirage financier dans l’un des pays les plus pauvres de la planète. En décembre, un grand raout organisé à Paris avait permis en principe au Niger d’engranger 23 milliards de dollars (19 milliards d’euros) de promesses d’investissements. Six mois plus tard, les promesses sont restées… des promesses : « La concrétisation des projets est effectivement assez lente », reconnaît, un peu gênée, la responsable d’une agence onusienne. Reste qu’en raison des enjeux sécuritaires et migratoires, le Niger est bien devenu « le chouchou de la communauté internationale », comme le rappelle Issa Garba, porte-parole local de l’association Tournons la page.

      Au début de l’année, la société civile avait organisé des manifestations dans les rues de Niamey pour protester contre une loi de finances qui instaure de nouvelles taxes et augmente les prix de l’électricité et de l’eau. Mais à partir du 25 mars, le mouvement a été brutalement décapité avec l’arrestation d’une vingtaine de leaders de la société civile. « Ils ne représentent rien, ils veulent juste créer le chaos et susciter un coup d’Etat militaire », balaye Mohamed Bazoum, le ministre de l’Intérieur. « Tout ce que nous demandons, c’est une bonne gouvernance et l’abandon de lois qui frappent les plus pauvres », rétorque Issa Garba. Reste que face aux arrestations, la communauté internationale se tait. Et la rue, elle, a compris le message : une journée ville morte décrétée par la société civile le 14 mai a été un échec et les manifestations n’ont pas repris. « Je soutiens ces leaders, mais je n’ai aucune envie de me retrouver moi aussi en prison », résume Mokhtar, un jeune homme très pieux. Dans la base arrière des Occidentaux en guerre contre le jihadisme au Sahel, d’autres influences s’imposent pourtant silencieusement. « Au Niger, l’islam gagne du terrain », souligne un professeur d’université, citant le nombre exponentiel de femmes voilées et de salles de prières dans les facs. « Le jour où les imams nous demanderont de sortir dans la rue, là, j’obéirais. Car l’islam est dans nos cœurs », constate de son côté Mokhtar.


      http://www.liberation.fr/planete/2018/05/23/niger-niamey-capitale-cernee-par-les-crises_1652220

      Signalé par Alizée Dauchy sur la liste Migreurop, avec ce commentaire :

      un article rédigé par Maria Malagardis publié dans Libération le 23 mai :
      http://www.liberation.fr/planete/2018/05/23/niger-niamey-capitale-cernee-par-les-crises_1652220

      et à écouter sur France Culture un podcast avec Maria Malagardis en première partie :
      https://www.franceculture.fr/emissions/cultures-monde/culturesmonde-du-vendredi-25-mai-2018

      sur la question migratoire :
      Elle revient (min’9) notamment sur ’l’hypocrisie des #hotspot", avec très peu de #réinstallation en Europe, malgré les engagements pris (la France s’est engagée à 3000 #réinstallations jusqu’en 2019).

      Procédure d’asile : Idée admise de trier sur la base de la nationalité à la place des demandes individuelles. Autrement : rapatriement volontaire dans les pays d’origine / les migrants se fondent dans la nature.
      Effet pervers : de nouvelles populations se rendent au Niger pour demander l’asile, exemple des soudanais à #Agadez (Cf. http://www.rfi.fr/afrique/20180526-niger-refugies-soudanais-darfour-agadez-statut-migrants).
      Elle qualifie le Niger de « passoire de mouvements », en « rotation perpétuelle ».

      sur la loi de finance :
      Augmentation des taxes sur l’électricité et l’eau, loi typique d’austérité. Manifestations dans la rue dès la promulgation.
      Interdiction des manifestations par les autorités nigériennes, arrestations d’activistes dès le 25 mars, 26 personnes de la société civile ont été arrêtées.
      Silence de la part de la communauté internationale, elle parle de dérive autoritaire car chèque en blanc de la communauté internationale.

      Loi de finance élaborée avec le parrainage des européens, notamment des français avec des conseillers techniques français du ministère de l’économie.
      « Accord tacite » davantage que « silence tacite ». Communauté internationale a besoin d’un Niger calme et silencieux.

      sur la question jihadiste :
      Pas de mouvement nigérien jihadiste autochtone contrairement au Mali et au Burkina Faso.
      Niger était un exemple de stabilité, où l’on louait le règlement de la question touareg, il est aujourd’hui le pays le plus menacé.

      #hotspots #tri #catégorisation #djihadisme #EI #Etat_islamique

    • « Pour le HCR, l’essentiel est d’aider les pays qui hébergent vraiment les réfugiés, en Afrique ou en Asie »

      Filippo Grandi : « L’essentiel est qu’on nous donne les moyens d’aider les pays qui hébergent vraiment les réfugiés »

      Le haut-commissaire des Nations unies pour les réfugiés revient sur les difficultés de l’UE à apporter une solution commune à la crise migratoire et s’inquiète de la diminution de la solidarité en Europe.

      LE MONDE | 09.11.2018
      Propos recueillis par Jean-Baptiste Chastand

      A la tête de l’Agence des Nations unies pour les réfugiés (HCR) depuis 2016, Filippo Grandi appelle l’Union européenne (UE) à préserver le droit d’asile et considère que le retour des réfugiés syriens dans leur pays se fera au compte-gouttes.

      La crise migratoire déchirait l’Union européenne depuis 2015. Elle semble être passée au second plan des pré­occupations. Le problème est-il réglé ?

      Il y a eu des manipulations excessives de la part de ceux qui ont parlé d’invasion, de la fin de l’identité européenne ou de menaces sécuritaires. Maintenant que l’intérêt politique se décale, le risque consiste à ne pas faire ce qu’il faudrait pour mieux gérer ces mouvements de populations. L’Europe n’a pas encore donné toutes les réponses. Or, un report ne peut qu’aggraver la situation en cas de nouvelle crise.

      Les « centres contrôlés » et les « plates-formes de débarquement » destinés à centraliser le traitement des demandeurs d’asile paraissent dans l’impasse…

      La convention de Dublin, destinée à éviter le « tourisme de l’asile » en prévoyant que le premier pays d’accueil doit gérer les de­mandes d’asile, est mise à l’épreuve par les arrivées nombreuses dans quelques pays, qui se sont retrouvés pénalisés par rapport aux autres. Il faut passer à autre chose. On a longuement évoqué une répartition entre les 28 Etats, mais ça ne fonctionne pas, car seuls quelques pays y sont prêts. Moins de 100 000 personnes arrivées en Europe en 2018, c’est gérable.

      La prise en charge par des Etats d’une partie des passagers de l’Aquarius, par exemple, ressemble à une forme de partage, sauf que chaque nouveau bateau s’est transformé en crise. Un tel système devrait être décidé au préalable. Le problème est l’absence de consensus sur le lieu où ce partage doit se faire. Ce n’est pas au HCR de déterminer où ces centres d’accueil et de réception doivent se trouver, mais à l’Europe. Le rôle du HCR est de donner tous les instruments pour les gérer de manière correcte.

      Et qu’en est-il de l’idée de « centres ­d’accueil » hors Europe, comme au Maghreb ?

      Le HCR travaille dans tous les pays du monde pour gérer l’asile. Le gérer avec efficacité aide à stabiliser ces flux. Par ailleurs, nous n’accepterons jamais que les demandes d’asile en Europe soient gérées hors de son territoire. L’Europe doit garder ses portes ouvertes. Il faut qu’il y soit toujours possible de demander l’asile, sans être renvoyé vers des pays tiers. Cela dit, si l’Europe est prête à prendre des réfugiés dès le Niger, par exemple, dans le cadre de la « réinstallation » [transfert au sein de l’UE, par des voies sûres et légales, de personnes déplacées ayant besoin d’une protection], ce processus peut être renforcé.

      Vous êtes donc opposé à des plates-formes pour débarquer, en Afrique, des migrants sauvés en Méditerranée ?

      Si quelqu’un est sauvé dans les eaux territoriales tunisiennes, puis renvoyé en Tunisie, c’est légitime. C’est le droit. En Libye, les garde-côtes ont été renforcés par l’Europe de manière plus ou moins transparente. C’est une bonne idée, à condition de renforcer aussi les institutions qui gèrent les migrants, et pas seulement celles qui les empêchent de partir.

      L’Autriche, qui assure ce semestre la présidence tournante de l’UE, cherche à instaurer un accord avec l’Egypte. Y êtes-vous ­favorable ?

      Nous travaillons depuis longtemps en Egypte, qui héberge plus de 250 000 réfugiés. Si les Etats veulent nous aider à y renforcer les structures, c’est une bonne chose, mais cela ne doit pas être un moyen d’empêcher les gens de partir vers l’Europe.

      Pourquoi le HCR participe-t-il à cette politique d’externalisation des frontières européennes ?

      La Turquie héberge 4 millions de réfugiés. Vous voudriez qu’on ne les aide pas ? Au moment de l’accord UE-Turquie, auquel le HCR n’a pas été associé, on nous a demandé de vérifier que son contenu n’allait pas à l’encontre des normes internationales. Le HCR a travaillé avec la Grèce pour s’assurer qu’il n’y ait pas d’expulsion vers la Turquie de personnes qui pourraient y courir des risques.

      En 2015, l’Europe a lancé l’initiative d’un fonds pour l’Afrique. Il est sous-financé, et la plupart des ressources sont utilisées pour le contrôle des frontières et non pour traiter les causes des départs. Je le regrette.

      La situation de surpopulation et ­d’insalubrité du camp de Moria, sur l’île grecque de Lesbos, est catastrophique. Le HCR y participe…

      C’est difficile en effet, d’autant que le nombre d’arrivées continue à augmenter J’en ai parlé au premier ministre grec, Alexis ­Tsipras, et au ministre de l’immigration, qui vont faire un effort pour transférer des personnes sur le continent. J’ai reçu des assurances. Si on arrive à réguler la population dans les îles, on arrivera à mieux gérer la situation.

      Accordez-vous foi aux perspectives démographiques alarmistes du journaliste et chercheur Stephen Smith, qui prévoit une explosion migratoire venue d’Afrique ?

      L’invasion est un peu une légende : 70 % des mouvements de population en Afrique restent à l’intérieur du continent et ne vont pas vers l’Europe. Cela dit, il y aura toujours des migrations : les gens se déplacent toujours vers la prospérité. Quand il n’y a pas de possibilité d’émigrer de manière légale, ne reste que l’asile. Ce n’est pas bien, car ces demandes encombrent les systèmes d’asile et les délégitimisent, en créant dans l’opinion publique une confusion entre immigration et asile.

      Aujourd’hui, 80 % des demandeurs d’asile en Europe sont venus pour des raisons économiques, comment faire ?

      L’un des problèmes est l’impossibilité pour les déboutés du droit d’asile de retourner chez eux. Il faut trouver des accords de réadmission avec les pays d’origine, mais c’est coûteux et politiquement difficile pour ces derniers. En Libye, un accord avec l’Union africaine autorisant le HCR et l’Organisation internationale pour les migrations d’y travailler, a permis le retour de 30 000 migrants chez eux [depuis début 2017]. Ils ont été réadmis parce que les images terribles des gens exploités dans les prisons libyennes ont eu un impact. Ce processus doit s’élargir.

      Pensez-vous que les réfugiés syriens retourneront dans leur pays ?

      Il y a une petite augmentation des demandes de retour de Syriens vivant en Jordanie et au Liban, mais il ne s’agit que de quelques milliers de personnes sur plusieurs millions. Le droit au retour existe, mais il doit être le résultat d’un choix personnel. Il reste des obstacles sécuritaires et matériels. Les réfugiés ont peur d’être enrôlés pour le service militaire, ils redoutent des représailles ou de ne pas retrouver leurs biens. La situation dans la province d’Idlib [minée par les affrontements inter-rebelles et l’insécurité galopan­te] n’encourage pas non plus les gens à rentrer. La reconstruction de la Syrie est un sujet politiquement sensible, mais j’appelle les pays donateurs à au moins aider les gens qui font le choix du retour.

      Comment jugez-vous la politique migratoire d’Emmanuel Macron ?

      En France, il faut améliorer la mise à l’abri, l’accueil, certains aspects de la procédure, mais la loi asile et immigration [définitivement adoptée à l’Assemblée le 1er août] a permis des progrès. A l’échelle européenne, le discours solidaire du président est très positif [il s’était engagé, en automne 2017, à offrir en deux ans 10 000 places de réinstallation aux réfugiés liés au HCR, notamment au Niger et au Tchad]. L’augmentation relative des places de réinstallation pour les réfugiés et l’action rapide de l’Ofpra [Office français de protection des réfugiés et apatrides] au Niger ont été exemplaires.

      Comprenez-vous que l’afflux massif d’une population culturellement musulmane dans une région majoritairement judéo-chrétienne puisse créer des tensions ?

      Toute absorption de personnes issues d’une culture minoritaire est complexe, mais elle est possible et souhaitable ! Je crois à la diversité, même si je sais que ce n’est pas populaire de le dire. Lors de réunions européennes, en particulier dans l’est de l’Europe, j’ai entendu certains pays parler d’homogénéité. Mais ce n’est pas dans la tradition de l’Europe. Les valeurs chrétiennes sont précisément des valeurs de solidarité et de partage. L’homogénéité est une utopie négative qu’il faut contrer à tout prix. La diversité est un élément d’enrichissement. Les villes vivantes dans le monde sont des villes diverses ; ce sont elles qui sont à l’avant-garde ! Les Européens ont suffisamment d’outils économiques, sociaux et culturels pour gérer cette diversité.

      Etes-vous inquiet de la montée de l’extrême droite en Italie ?

      [Le ministre de l’intérieur italien] Matteo Salvini mène plusieurs batailles. Sur la question de la répartition des migrants en Europe, je suis d’accord avec lui : l’Italie ne peut pas recevoir tout le monde. Mais son discours très agressif, même s’il n’est pas forcément raciste, est susceptible de créer une atmosphère où le racisme peut prospérer. Cela m’inquiète beaucoup. Son langage ouvre la porte à des tendances extrêmes au sein des sociétés.

      La montée du populisme dans le monde pose-t-elle des problèmes pour une organisation multilatérale comme le HCR ?

      Pour l’instant, personne ne nous dit d’arrêter notre travail, qui, il faut le rappeler, est effectué à 90 % hors de l’Europe. Pour nous, l’essentiel est d’obtenir les ressources pour aider les pays qui hébergent vraiment les réfugiés, c’est-à-dire souvent des pays pauvres en Afrique ou en Asie. Je crains que la diminution de la solidarité en Europe et la stigmatisation du droit d’asile aux Etats-Unis donnent un mauvais exemple. Les pays pauvres me demandent de plus en plus pourquoi ils devraient prendre des réfugiés alors que l’Europe n’en veut pas. Or, pour des Etats voisins de pays en guerre, cela signifierait renvoyer des gens dans ces zones de conflit. C’est cela qui m’inquiète le plus.

      https://www.lemonde.fr/international/article/2018/11/09/filippo-grandi-l-essentiel-est-qu-on-nous-donne-les-moyens-d-aider-les-pays-

      Avec ce commentaire de Emmanuel Blanchard via la mailing-list Migreurop :

      Une interview inquiétante à plus d’un titre : #Filippo_Grandi suggère que le HCR pourrait être plus impliqué encore en Lybie et dans tout pays d’Afrique du Nord prêt à s’impliquer dans des programmes de retours de boat-people et autres projets de gestion de « centres d’accueil et de réception ». Il ouvre même grand la porte pour une collaboration poussée avec l’UE en Egypte, même s’il prévient que le rôle du HCR ne peut pas être de contribuer à « des moyens d’empêcher les gens de partir vers l’Europe ». Il critique en effet à mots couverts certaines dimensions des politiques européennes de contrôle des frontières extérieures (voir passages soulignés en gras).
      A noter que sous couvert « d’équilibre », le journaliste du Monde - qui s’est autorisé une critique de la « politique d’externalisation des frontières européennes » - reprend certains des argumentaires « anti-migrants » les plus éculés.

  • Turning the tide

    This online report analyses the relationship between irregular migration and conflict and stability in #Mali, #Niger and Libya. Studying the human smuggling networks that operate within and across these three countries provides insights into the transnational dynamics of irregular migration as well as these networks’ interaction with local, national and regional political and economic dynamics.


    https://www.clingendael.nl/publication/turning-tide

    #Afrique #migrations #asile #réfugiés #Sahara #routes_migratoires
    #Libye #migrations_internes #migrations_régionales #passeurs #cartographie #visualisation #réseaux

    cc @reka

  • Des centaines de #migrants accusés à tort de trafic d’êtres humains

    Les forces de l’ordre arrêtent systématiquement les pilotes et les navigateurs des bateaux de clandestins, sans tenir compte du fait que la plupart ont été forcés à prendre leurs fonctions

    https://www.letemps.ch/monde/2017/01/26/centaines-migrants-accuses-tort-trafic-detres-humains
    #passeurs #trafic_d'êtres_humains #asile #migrations #réfugiés #préjugés #criminalisation

    signalé par @forumasile

  • Western Union admits to aiding wire fraud, to pay $586 million | Reuters
    http://www.reuters.com/article/us-usa-western-union-settlement-idUSKBN1532RL

    Western Union, which has over half a million locations in more than 200 countries, admitted “to aiding and abetting wire fraud” by allowing scammers to process transactions, even when the company realized its agents were helping scammers avoid detection, the U.S. Department of Justice and the Federal Trade Commission said in statements.

    With the help of Western Union agents, Chinese immigrants used the service to send hundreds of millions of dollars to pay human smugglers, wiring the money in smaller increments to avoid federal reporting requirements, U.S. authorities said.

    #banques #passeurs #remittances #migrations

  • Smuggler or survivor? Migrants forced to help, face arrest

    PACHINO, Sicily (AP) — All migrant Marc Samie has of his fiancee is a picture in his mind. Louise, seven and a half months pregnant, is standing silently on a beach in Libya, tears rolling down her face as traffickers force him at gunpoint into a rubber dinghy with a compass.

    “(We are) making the arrests at what I would define as the lowest level, the so-called smugglers, the ones who drive the boats and who are often migrants,” he said. “They risk their lives together with the others.”


    https://apnews.com/89bcdaa9bf3b467b87385cdc8be0a09d
    #smugglers #passeurs #victimes #catégorisation #asile #migrations #réfugiés #survivants

  • Réfugiés : la #Bulgarie veut renforcer la lutte contre les réseaux de #passeurs

    Jamais les affaires des passeurs ne se si bien portées. La police bulgare veut renforcer ses efforts pour lutter contre les bandes de trafiquants qui opèrent dans le nord-ouest du pays, facilitant les passages clandestins de la frontière serbe.

    http://www.courrierdesbalkans.fr/le-fil-de-l-info/bulgarie-controle-trafic-migrants.html
    #préjugés #asile #migrations #réfugiés

  • En Méditerranée, les canots de la mort

    Les embarcations qui emportent les migrants de la Libye vers l’Europe sont toujours moins solides. Un effet dramatique de la guerre menée contre le modèle économique des passeurs

    https://www.letemps.ch/monde/2016/12/11/mediterranee-canots-mort
    –-> la #responsabilité des morts en Méditerranée ? Les embarcations d’origine chinoise... pas les politiques migratoires européennes, par hasard ?
    #2A #Opération_Sophie #EUNAVFOR_Med #passeurs #asile #migrations #réfugiés #mourir_en_mer #embarcations_chinoises #bateaux #Méditerranée

    #smugglerblaming :

    La multiplication de ces bateaux a largement contribué au taux record de décès qu’a connu cette année la Méditerranée centrale.