• Aurore Bergé annonce des « travaux d’intérêt général pour les parents défaillants »
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/12/10/aurore-berge-annonce-la-creation-d-une-commission-sur-la-parentalite_6204883

    Dans un entretien à « La Tribune Dimanche », la ministre des solidarités détaille également la mise en place d’une commission sur la parentalité, coprésidée par le pédopsychiatre Serge Hefez.

    Parmi les [...] mesures confirmées samedi, « des travaux d’intérêt général pour les parents défaillants, le paiement d’une contribution financière pour les parents d’enfants coupables de dégradations auprès d’une association de victimes et une amende pour les parents ne se présentant pas aux audiences qui concernent leurs enfants »

    « J’ai une certitude : nous ne pouvons pas nous passer des parents, ni faire sans eux, ni contre eux », a encore dit la ministre (...).

    #famille #société_punitive

  • Ecco quello che hanno fatto davvero gli italiani “brava gente”

    In un libro denso di testimonianze e documenti, #Eric_Gobetti con “I carnefici del duce” ripercorre attraverso alcune biografie i crimini dei militari fascisti in Libia, Etiopia e nei Balcani, smascherando una narrazione pubblica che ha distorto i fatti in una mistificazione imperdonabile e vigliacca. E denuncia l’incapacità nazionale di assumersi le proprie responsabilità storiche, perpetuata con il rosario delle “giornate della memoria”. Ci fu però chi disse No.

    “I carnefici del duce” è un testo che attraverso alcune emblematiche biografie è capace di restituire in modo molto preciso e puntigliosamente documentato le caratteristiche di un’epoca e di un sistema di potere. Di esso si indagano le pratiche e le conseguenze nella penisola balcanica ma si dimostra come esso affondi le radici criminali nei territori coloniali di Libia ed Etiopia, attingendo linfa da una temperie culturale precedente, dove gerarchia, autoritarismo, nazionalismo, militarismo, razzismo, patriarcalismo informavano di sé lo Stato liberale e il primo anteguerra mondiale.

    Alla luce di tali paradigmi culturali che il Ventennio ha acuito con il culto e la pratica endemica dell’arbitrio e della violenza, le pagine che raccontano le presunte prodezze italiche demoliscono definitivamente l’immagine stereotipa degli “italiani brava gente”, una mistificazione imperdonabile e vigliacca che legittima la falsa coscienza del nostro Paese e delle sue classi dirigenti, tutte.

    Anche questo lavoro di Gobetti smaschera la scorciatoia autoassolutoria dell’Italia vittima dei propri feroci alleati, denuncia l’incapacità nazionale di assumere le proprie responsabilità storiche nella narrazione pubblica della memoria – anche attraverso il rosario delle “giornate della memoria” – e nell’ufficialità delle relazioni con i popoli violentati e avidamente occupati dall’Italia. Sì, perché l’imperialismo fascista, suggeriscono queste pagine, in modo diretto o indiretto, ha coinvolto tutta la popolazione del Paese, eccetto coloro che, nei modi più diversi, si sono consapevolmente opposti.

    Non si tratta di colpevolizzare le generazioni (soprattutto maschili) che ci hanno preceduto, afferma l’autore,­ ma di produrre verità: innanzitutto attraverso l’analisi storiografica, un’operazione ancora contestata, subissata da polemiche e a volte pure da minacce o punita con la preclusione da meritate carriere accademiche; poi assumendola come storia propria, riconoscendo responsabilità e chiedendo perdono, anche attraverso il ripudio netto di quel sistema di potere e dei suoi presunti valori. Diventando una democrazia matura.

    Invece, non solo persistono ambiguità, omissioni, false narrazioni ma l’ombra lunga di quella storia, attraverso tante biografie, si è proiettata nel secondo dopoguerra, decretandone non solo la radicale impunità ma l’affermarsi di carriere, attività e formazioni che hanno insanguinato le strade della penisola negli anni Settanta, minacciato e condizionato l’evolversi della nostra democrazia.

    Di un sistema di potere così organicamente strutturato – come quello che ha retto e alimentato l’imperialismo fascista – pervasivo nelle sue articolazioni sociali e culturali, il testo di Gobetti ­accanto alle voci dei criminali e a quelle delle loro vittime, fa emergere anche quelle di coloro che hanno detto no, scegliendo di opporsi e dimostra che, nonostante tutto, era comunque possibile fare una scelta, nelle forme e nelle modalità più diverse: dalla volontà di non congedarsi dal senso della pietà, al tentativo di rendere meno disumano il sopravvivere in un campo di concentramento; dalla denuncia degli abusi dei propri pari, alla scelta della Resistenza con gli internati di cui si era carcerieri, all’opzione netta per la lotta di Liberazione a fianco degli oppressi dal regime fascista, a qualunque latitudine si trovassero.

    È dunque possibile scegliere e fare la propria parte anche oggi, perché la comunità a cui apparteniamo si liberi dagli “elefanti nella stanza” – così li chiama Gobetti nell’introduzione al suo lavoro –­ cioè dai traumi irrisolti con cui ci si rifiuta di fare i conti, che impediscono di imparare dai propri sbagli e di diventare un popolo maturo, in grado di presentarsi con dignità di fronte alle altre nazioni, liberando dalla vergogna le generazioni che verranno e facendo in modo che esse non debbano più sperimentare le nefandezze e i crimini del fascismo, magari in abiti nuovi. È questo autentico amor di patria.

    “I carnefici del duce” – 192 pagine intense e scorrevolissime, nonostante il rigore della narrazione,­ è diviso in 6 capitoli, con un’introduzione che ben motiva questa nuova ricerca dell’autore, e un appassionato epilogo, che ne esprime l’alto significato civile.

    Le tappe che vengono scandite scoprono le radici storiche dell’ideologia e delle atrocità perpetrate nelle pratiche coloniali fasciste e pre-fasciste; illustrano la geopolitica italiana del Ventennio nei Balcani, l’occupazione fascista degli stessi fino a prospettarne le onde lunghe nelle guerre civili jugoslave degli anni Novanta del secolo scorso; descrivono la teoria e la pratica della repressione totale attuata durante l’occupazione, circostanziandone norme e regime d’impunità; evidenziano la stretta relazione tra la filosofia del regime e la mentalità delle alte gerarchie militari.


    Raccontano le forme e le ragioni dell’indebita appropriazione delle risorse locali e le terribili conseguenze che ne derivarono per le popolazioni, fino a indagare l’inferno, il fenomeno delle decine e decine di campi d’internamento italiani, di cui è emblematico quello di Arbe. Ciascun capitolo è arricchito da una testimonianza documentaria, significativa di quanto appena esposto. Impreziosiscono il testo, oltre ad un’infinità di note che giustificano quasi ogni passaggio – a riprova che nel lavoro storiografico rigore scientifico e passione civile possono e anzi debbono convivere – una bibliografia e una filmografia ragionata che offrono strumenti per l’approfondimento delle questioni trattate.

    https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/ecco-quello-che-hanno-fatto-davvero-gli-italiani-brava-gente
    #Italiani_brava_gente #livre #Italie #colonialisme #fascisme #colonisation #Libye #Ethiopie #Balkans #contre-récit #mystification #responsabilité_historique #Italie_coloniale #colonialisme_italien #histoire #soldats #armée #nationalisme #racisme #autoritarisme #patriarcat #responsabilité_historique #mémoire #impérialisme #impérialisme_fasciste #vérité #résistance #choix #atrocités #idéologie #occupation #répression #impunité #camps_d'internement #Arbe

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    • I carnefici del Duce

      Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili. Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni?
      In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858151396
      #patrie #patriotisme #Grèce #Yougoslavie #crimes_de_guerre #camps_de_concentration #armes_chimiques #violence #brutalité

  • ★ LA PATRIE... - Socialisme libertaire

    Depuis longtemps, depuis toujours peut-être, il existe sur terre un terrible fléau : la guerre.

    Que de flots de sang versés, que de forces perdues pour satisfaire l’orgueil et la vanité de quelques individus, ou étouffer dans l’œuf le germe des révolutions libératrices.

    Un monarque veut-il agrandir son territoire ? Rien de plus simple ; il provoque, et par mille incidents de frontière ou autre, et plusieurs peuples vont s’entre-tuer. Une fois ces peuples se sont pillés et entr’égorgés il se fait donner rançon par l’ennemi vaincu.

    Le peuple commence-t-il à sentir sa misère, fait-il mine de se révolter, vite la guerre sauveuse de bourgeois !…

    #patrie #patriotisme #guerre #militarisme #antimilitarisme #internationalisme #anarchisme #anarchocommunisme #Algérie #Henri_Zisly

    ⏩ Lire l’article complet…

    ▶️ https://www.socialisme-libertaire.fr/2022/12/la-patrie.html

  • Decolonize your eyes, Padova.. Pratiche visuali di decolonizzazione della città

    Introduzione
    Il saggio a tre voci è composto da testi e due video.[1]
    Mackda Ghebremariam Tesfau’ (L’Europa è indifendibile) apre con un una riflessione sulle tracce coloniali che permangono all’interno degli spazi urbani. Lungi dall’essere neutre vestigia del passato, questi segni sono tracce di una storia contesa, che si situa contemporaneamente al cuore e ai margini invisibili della rappresentazione di sé dell’occidente. La dislocazione continua del fatto coloniale nella memoria storica informa il discorso che è oggi possibile sul tema delle migrazioni, del loro governo e dei rapporti tra Nord e Sud Globale. La stessa Europa di cui Césaire dichiarava “l’indifendibilità” è ora una “fortezza” che presidia i suoi confini dal movimento di ritorno postcoloniale.
    Annalisa Frisina (Pratiche visuali di decolonizzazione della città) prosegue con il racconto del percorso didattico e di ricerca Decolonizzare la città. Dialoghi visuali a Padova, realizzato nell’autunno del 2020. Questa esperienza mostra come sia possibile performare la decolonizzazzione negli spazi pubblici e attivare contro-politiche della memoria a livello urbano. Le pratiche visuali di decolonizzazione sono utili non solo per fare vacillare statue e nomi di vie, ma soprattutto per mettere in discussione le visioni del mondo e le gerarchie sociali che hanno reso possibile celebrare/dimenticare la violenza razzista e sessista del colonialismo. Le vie coloniali di Padova sono state riappropriate dai corpi, dalle voci e dagli sguardi di sei cittadine/i italiane/i afrodiscendenti, facendo uscire dall’insignificanza le tracce coloniali urbane e risignificandole in modo creativo.
    Infine, Salvatore Frisina (L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio) conclude il saggio soffermandosi sui due eventi urbani Decolonize your eyes (giugno e ottobre 2020), promossi dall’associazione Quadrato Meticcio, che ha saputo coinvolgere in un movimento decoloniale attori sociali molto eterogenei. Da quasi dieci anni questa associazione di sport popolare, radicata nel rione Palestro di Padova, favorisce la formazione di reti sociali auto-gestite e contribuisce alla lotta contro discriminazioni multiple (di classe, “razza” e genere). La sfida aperta dai movimenti antirazzisti decoloniali è infatti quella di mettere insieme processi simbolici e materiali.

    L’Europa è indifendibile
    L’Europa è indifendibile, scrive Césaire nel celebre passo iniziale del suo Discorso sul colonialismo (1950). Questa indifendibilità non è riferita tanto al fatto che l’Europa abbia commesso atti atroci quanto al fatto che questi siano stati scoperti. La “scopertura” è “svelamento”. Ciò che viene svelata è la natura stessa dell’impresa “Europa” e lo svelamento porta all’impossibilità di nascondere alla “coscienza” e alla “ragione” tali fatti: si tratta di un’indifendibilità “morale” e “spirituale”. A portare avanti questo svelamento, sottraendosi alla narrazione civilizzatrice che legittima – ovvero che difende – l’impresa coloniale sono, secondo Césaire, le masse popolari europee e i colonizzati che “dalle cave della schiavitù si ergono giudici”. Era il 1950.
    A più di sessant’anni di distanza, oggi l’Europa è tornata ad essere ben difesa, i suoi confini materiali e simbolici più che mai presidiati. Come in passato, tuttavia, uno svelamento della sua autentica natura potrebbe minarne le fondamenta. È quindi importante capire quale sia la narrazione che oggi sostiene la fortezza Europa.
    La scuola decoloniale ha mostrato come la colonialità sia un attributo del potere, la scuola postcoloniale come leggerne i segni all’interno della cultura materiale. Questa stessa cultura è stata interrogata, al fine di portarne alla luce gli impliciti. È successo ripetutamente alla statua di Montanelli, prima oggetto dell’azione di Non Una di Meno Milano, poi del movimento Black Lives Matter Italia. È successo alla fermata metro di Roma Amba Aradam. È successo anche alle vie coloniali di Padova. La reazione a queste azioni – reazione comune a diversi contesti internazionali – è particolarmente esplicativa della necessità, del Nord globale, di continuare a difendersi.
    Il fronte che si è aperto in contrapposizione alla cosiddetta cancel culture[2] si è battuto per la tutela del “passato” e della “Storia”, così facendo ribadendo un potere non affatto scontato, che è quello di decidere cosa sia “passato” e quale debba essere la Storia raccontata – oltre che il come debba essere raccontata. Le masse che si sono radunate sotto le statue abbattute, deturpate e sfidate, l’hanno fatto per liberare “passato” e “Storia” dal dominio bianco, maschile e coloniale che ha eretto questi monumenti a sua immagine e somiglianza. La posta in gioco è, ancora, uno svelamento, la presa di coscienza del fatto che queste non sono innocue reliquie di un passato disattivato, ma piuttosto la testimonianza silente di una Storia che lega indissolubilmente passato a presente, Nord globale e Sud globale, colonialismo e migrazioni. Riattivare questo collegamento serve a far crollare l’impalcatura ideologica sulla quale oggi si fonda la pretesa di sicurezza invocata e agita dall’Europa.
    Igiaba Scego e Rino Bianchi, in Roma Negata (2014), sono stati tra i primi a dedicare attenzione a queste rumorose reliquie in Italia. L’urgenza che li ha spinti a lavorare sui resti coloniali nella loro città è l’oblio nel quale il colonialismo italiano è stato relegato. Come numerosi autrici e autori postcoloniali hanno dimostrato, tuttavia, questo oblio è tutt’altro che improduttivo. La funzione che svolge è infatti letteralmente salvifica, ovvero ha lo scopo di salvare la narrazione nazionale dalle possibili incrinature prodotte dallo svelamento alla “barra della coscienza” (Césaire 1950) delle responsabilità coloniali e dei modi in cui si è stati partecipi e protagonisti della costruzione di un mondo profondamente diseguale. Al contempo, la presenza di questi monumenti permette, a livello inconscio, di continuare a godere del senso di superiorità imperiale di cui sono intrisi, di continuare cioè a pensarsi come parte dell’Europa e del Nord Globale, con ciò che questo comporta. Che cosa significa dunque puntarvi il dito? Che cosa succede quando la memoria viene riattivata in funzione del presente?
    La colonialità ha delle caratteristiche intrinseche, ovvero dei meccanismi che ne presiedono il funzionamento. Una di queste caratteristiche è la produzione costante di confini. Questa necessità è evidente sin dai suoi albori ed è rintracciabile anche in pagine storiche che non sono abitualmente lette attraverso una lente coloniale. Un esempio è la riflessione marxiana dei Dibattiti sulla legge contro i furti di legna[3], in cui il pensatore indaga il fenomeno delle enclosure, le recinzioni che tra ‘700 e ‘800 comparvero in tutta Europa al fine di rendere privati i fondi demaniali, usati consuetudinariamente dalla classe contadina come supporto alla sussistenza del proprio nucleo attraverso la caccia e la raccolta. Distinzione, definizione e confinamento sono processi materiali e simbolici centrali della colonialità. Per contro, connettere, comporre e sconfinare sono atti di resistenza al potere coloniale.
    Da tempo Gurminder K. Bhambra (2017) ha posto l’accento sull’importanza di questo lavoro di ricucitura storica e sociologica. Secondo l’autrice la stessa distinzione tra cittadino e migrante è frutto di una concettualizzazione statuale che fonda le sue categorie nel momento storico degli imperi. In questo senso per Bhambra tale distinzione poggia su di una lettura inadeguata della storia condivisa. Tale lettura ha l’effetto di materializzare l’uno – il cittadino – come un soggetto avente diritti, come un soggetto “al giusto posto”, e l’altro – il migrante – come un soggetto “fuori posto”, qualcuno che non appartiene allo stato nazione.
    Questo cortocircuito storico è reso evidente nella mappa coloniale che abbiamo deciso di “sfidare” nel video partecipativo. La raffigurazione dell’Impero Italiano presente in piazza delle Erbe a Padova raffigura Eritrea, Etiopia, Somalia, Libia, Albania e Italia in bianco, affinché risaltino sullo sfondo scuro della cartina. Su questo spazio bianco è possibile tracciare la rotta che oggi le persone migranti intraprendono per raggiungere la Libia da numerosi paesi subsahariani, tra cui la Somalia, l’Eritrea e l’Etiopia, la stessa Libia che è stata definita un grande carcere a cielo aperto. Dal 2008 infatti Italia e Libia sono legate da accordi bilaterali. Secondo questi accordi l’Italia si è impegnata a risarcire la Libia per l’occupazione coloniale, e in cambio la Libia ha assunto il ruolo di “guardiano” dei confini italiani, ruolo che agisce attraverso il contenimento delle persone migranti che raggiungono il paese per tentare la traversata mediterranea verso l’Europa. Risulta evidente come all’interno di questi accordi vi è una riattivazione del passato – il risarcimento coloniale – che risulta paradossalmente neocoloniale piuttosto che de o anti-coloniale.
    L’Italia è indifendibile, eppure si difende. Si difende anche grazie all’ombra in cui mantiene parti della sua storia, e si difende moltiplicando i confini coloniali tra cittadini e stranieri, tra passato e presente. Questo passato non è però tale, al contrario plasma il presente traducendo vecchie disuguaglianze sotto nuove vesti. Oggi la dimensione coloniale si è spostata sui corpi migranti, che si trovano ad essere marchiati da una differenza che produce esclusione nel quotidiano.
    I confini coloniali – quelli materiali come quelli simbolici – si ergono dunque a difesa dell’Italia e dell’Europa. Come nel 1950 però, questa difendibilità è possibile solo a patto che le masse popolari e subalterne accettino e condividano la narrazione coloniale, che è stata ieri quella della “missione civilizzatrice” ed è oggi quella della “sicurezza”. Al fine di decolonizzare il presente è dunque necessario uscire da queste narrazioni e riconnettere il passato alla contemporaneità al fine di svelare la natura coloniale del potere oggi. Così facendo la difesa dell’Europa potrà essere nuovamente scalfibile.
    Il video partecipativo realizzato a Padova va esattamente in questa direzione: cerca di ricucire storie e relazioni interrotte e nel farlo pone al centro il fatto coloniale nella sua continuità e contemporaneità.

    Pratiche visuali di decolonizzazione della città
    Il video con Mackda Ghebremariam Tesfau è nato all’interno del laboratorio di Visual Research Methods dell’Università di Padova. Da diversi anni, questo laboratorio è diventato un’occasione preziosa per fare didattica e ricerca in modo riflessivo e collaborativo, affrontando il tema del razzismo nella società italiana attraverso l’analisi critica della visualità legata alla modernità europea e attraverso la sperimentazione di pratiche contro-visuali (Mirzoeff 2011). Come docente, ho provato a fare i conti con “l’innocenza bianca” (Wekker 2016) e spingere le mie studentesse e i miei studenti oltre la memoria auto-assolutoria del colonialismo italiano coi suoi miti (“italiani brava gente”, “eravamo lì come migranti straccioni” ecc.). Per non restare intrappolate/i nella colonialità del potere, le/li/ci ho invitate/i a prendere consapevolezza di quale sia il nostro sguardo su noi stessi nel racconto che facciamo degli “altri” e delle “altre”, mettendo in evidenza il peso delle divisioni e delle gerarchie sociali. Come mi hanno detto alcune mie studentesse, si tratta di un lavoro faticoso e dal punto di vista emotivo a volte difficilmente sostenibile. Eppure, penso sia importante (far) riconoscere il proprio “disagio” in quanto europei/e “bianchi/e” e farci qualcosa collettivamente, perché il sentimento di colpa individuale è sterile, mentre la responsabilità è capacità di agire, rispondere insieme e prendere posizione di fronte ai conflitti sociali e alle disuguaglianze del presente.
    Nel 2020 la scommessa è stata quella di fare insieme a italiani/e afrodiscendenti un percorso di video partecipativo (Decolonizzare la città. Dialoghi visuali a Padova[4]) e di utilizzare il “walk about” (Frisina 2013) per fare passeggiate urbane con studentesse e studenti lasciandosi interpellare dalle tracce coloniali disseminate nella città di Padova, in particolare nel rione Palestro dove abito. La congiuntura temporale è stata cruciale.
    Da una parte, ci siamo ritrovate nell’onda del movimento Black Lives Matter dopo l’omicidio di George Floyd a Minneapolis. Come discusso altrove (Frisina & Ghebremariam Tesfau’ 2020, pp. 399-401), l’antirazzismo è (anche) una contro-politica della memoria e, specialmente nell’ultimo anno, a livello globale, diversi movimenti hanno messo in discussione il passato a partire da monumenti e da vie che simbolizzano l’eredità dello schiavismo e del colonialismo. Inevitabilmente, in un’Europa post-coloniale in cui i cittadini hanno le origini più diverse da generazioni e in cui l’attivismo degli afrodiscendenti diventa sempre più rilevante, si sono diffuse pratiche di risignificazione culturale attraverso le quali è impossibile continuare a vedere statue, monumenti, musei, vie intrise di storia coloniale in modo acritico; e dunque è sempre più difficile continuare a vedersi in modo innocente.
    D’altra parte, il protrarsi della crisi sanitaria legata al covid-19, con le difficoltà crescenti a fare didattica in presenza all’interno delle aule universitarie, ha costituito sia una notevole spinta per uscire in strada e sperimentare forme di apprendimento più incarnate e multisensoriali, sia un forte limite alla socialità che solitamente accompagna la ricerca qualitativa, portandoci ad accelerare i tempi del laboratorio visuale in modo da non restare bloccati da nuovi e incalzanti dpcm. Nel giro di soli due mesi (ottobre-novembre 2020), dunque, abbiamo realizzato il video con l’obiettivo di far uscire dall’insignificanza alcune tracce coloniali urbane, risignificandole in modo creativo.
    Il video è stato costruito attraverso pratiche visuali di decolonizzazione che hanno avuto come denominatore comune l’attivazione di contro-politiche della memoria, a partire da sguardi personali e familiari, intimamente politici. Le sei voci narranti mettono in discussione le gerarchie sociali che hanno reso possibile celebrare/dimenticare la violenza razzista e sessista del colonialismo e offrono visioni alternative della società, perché capaci di aspirare e rivendicare maggiore giustizia sociale, la libertà culturale di scegliersi le proprie appartenenze e anche il potere trasformativo della bellezza artistica.
    Nel video, oltre a Mackda Ghebremariam Tesfau’, ci sono Wissal Houbabi, Cadigia Hassan, Ilaria Zorzan, Emmanuel M’bayo Mertens e Viviana Zorzato, che si riappropriano delle tracce coloniali con la presenza dei loro corpi in città e la profondità dei loro sguardi.
    Wissal, artista “figlia della diaspora e del mare di mezzo”, “reincarnazione del passato rimosso”, si muove accompagnata dalla canzone di Amir Issa Non respiro (2020). Lascia la sua poesia disseminata tra Via Catania, via Cirenaica, via Enna e Via Libia.

    «Cerchiamo uno spiraglio per poter respirare, soffocati ben prima che ci tappassero la bocca e ci igienizzassero le mani, cerchiamo una soluzione per poter sopravvivere […]
    Non siamo sulla stessa barca e ci vuole classe a non farvelo pesare. E la mia classe sociale non ha più forza di provare rabbia o rancore.
    Il passato è qui, insidioso tra le nostre menti e il futuro è forse passato.
    Il passato è qui anche se lo dimentichi, anche se lo ignori, anche se fai di tutto per negare lo squallore di quel che è stato, lo Stato e che preserva lo status di frontiere e ius sanguinis.
    Se il mio popolo un giorno volesse la libertà, anche il destino dovrebbe piegarsi».

    Cadigia, invece, condivide le fotografie della sua famiglia italo-somala e con una sua amica si reca in Via Somalia. Incontra una ragazza che abita lì e non ha mai capito la ragione del nome di quella via. Cadigia le offre un suo ricordo d’infanzia: passando da via Somalia con suo padre, da bambina, gli aveva chiesto perché si chiamasse così, senza ricevere risposta. E si era convinta che la Somalia dovesse essere importante. Crescendo, però, si era resa conto che la Somalia occupava solo un piccolo posto nella storia italiana. Per questo Cadigia è tornata in via Somalia: vuole lasciare traccia di sé, della sua storia familiare, degli intrecci storici e rendere visibili le importanti connessioni che esistono tra i due paesi. Via Somalia va fatta conoscere.
    Anche Ilaria si interroga sul passato coloniale attraverso l’archivio fotografico della sua famiglia italo-eritrea. Gli italiani in Eritrea si facevano spazio, costruendo strade, teleferiche, ferrovie, palazzi… E suo nonno lavorava come macchinista e trasportatore, mentre la nonna eritrea, prima di sposare il nonno, era stata la sua domestica. Ispirata dal lavoro dell’artista eritreo-canadese Dawit L. Petros, Ilaria fa scomparire il suo volto dietro fotografie in bianco e nero. In Via Asmara, però, lo scopre e si mostra, per vedersi finalmente allo specchio.
    Emmanuel è un attivista dell’associazione Arising Africans. Nel video lo vediamo condurre un tour nel centro storico di Padova, in Piazza Antenore, ex piazza 9 Maggio. Emmanuel cita la delibera con la quale il comune di Padova dedicò la piazza al giorno della “proclamazione dell’impero” da parte di Mussolini (1936). Secondo Emmanuel, il fascismo non è mai scomparso del tutto: ad esempio, l’idea dell’italianità “per sangue” è un retaggio razzista ancora presente nella legge sulla cittadinanza italiana. Ricorda che l’Italia è sempre stata multiculturale e che il mitico fondatore di Padova, Antenore, era un profugo, scappato da Troia in fiamme. Padova, così come l’Italia, è inestricabilmente legata alla storia delle migrazioni. Per questo Emmanuel decide di lasciare sull’edicola medioevale, che si dice contenga le spoglie di Antenore, una targa dedicata alle migrazioni, che ha i colori della bandiera italiana.
    Chiude il video Viviana, pittrice di origine eritrea. La sua casa, ricca di quadri ispirati all’iconografia etiope, si affaccia su Via Amba Aradam. Viviana racconta del “Ritratto di ne*ra”, che ha ridipinto numerose volte, per anni. Farlo ha significato prendersi cura di se stessa, donna italiana afrodiscendente. Riflettendo sulle vie coloniali che attraversa quotidianamente, sostiene che è importante conoscere la storia ma anche ricordare la bellezza. Amba Alagi o Amba Aradam non possono essere ridotte alla violenza coloniale, sono anche nomi di montagne e Viviana vuole uno sguardo libero, capace di bellezza. Come Giorgio Marincola, Viviana continuerà a “sentire la patria come una cultura” e non avrà bandiere dove piegare la testa. Secondo Viviana, viviamo in un periodo storico in cui è ormai necessario “decolonizzarsi”.

    Anche nel nostro percorso didattico e di ricerca la parola “decolonizzare” è stata interpretata in modi differenti. Secondo Bhambra, Gebrial e Nişancıoğlu (2018) per “decolonizzare” ci deve essere innanzitutto il riconoscimento che il colonialismo, l’imperialismo e il razzismo sono processi storici fondamentali per comprendere il mondo contemporaneo. Tuttavia, non c’è solo la volontà di costruire la conoscenza in modi alternativi e provincializzare l’Europa, ma anche l’impegno a intrecciare in modo nuovo movimenti anti-coloniali e anti-razzisti a livello globale, aprendo spazi inediti di dialogo e dando vita ad alleanze intersezionali.

    L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio
    Il video-partecipativo è solo uno degli strumenti messi in atto a Padova per intervenire sulla memoria coloniale. Con l’evento pubblico urbano chiamato Decolonize your Eyes (20 giugno 2020), seguito da un secondo evento omonimo (18 Ottobre 2020), attivisti/e afferenti a diversi gruppi e associazioni che lavorano nel sociale si incontrano a favore di uno scopo che, come poche volte precedentemente, consente loro di agire all’unisono. Il primo evento mette in scena il gesto simbolico di cambiare, senza danneggiare, i nomi di matrice coloniale di alcune vie del rione Palestro, popolare e meticcio. Il secondo agisce soprattutto all’interno di piazza Caduti della Resistenza (ex Toselli) per mezzo di eventi performativi, artistici e laboratoriali con l’intento di coinvolgere un pubblico ampio e riportare alla memoria le violenze coloniali italiane. Ai due eventi contribuiscono realtà come l’asd Quadrato Meticcio, la palestra popolare Chinatown, Non una di meno-Padova, il movimento ambientalista Fridays for future, il c.s.o. Pedro e l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani (anpi).
    Si è trattato di un rapporto di collaborazione mutualistico. L’anpi «indispensabile sin dalle prime battute nell’organizzazione» – come racconta Camilla[5] del Quadrato Meticcio – ha contribuito anche ai dibattiti in piazza offrendo densi spunti storici sulla Resistenza. Fridays for future, impegnata nella lotta per l’ambiente, è intervenuta su via Lago Ascianghi, luogo in cui, durante la guerra d’Etiopia, l’utilizzo massiccio di armi chimiche da parte dell’esercito italiano ha causato danni irreversibili anche dal punto di vista della devastazione del territorio. Ha sottolineato poi come l’odierna attività imprenditoriale dell’eni riproduca lo stesso approccio prevaricatore colonialista. Non una di meno-Padova, concentrandosi sulle tematiche del trans-femminismo e della lotta di genere, ha proposto un dibattito intitolando l’attuale via Amba Aradam a Fatima, la bambina comprata da Montanelli secondo la pratica coloniale del madamato. Durante il secondo evento ha realizzato invece un laboratorio di cartografia con gli abitanti del quartiere di ogni età, proponendogli di tracciare su una mappa le rotte dal luogo d’origine a Padova: un gesto di sensibilizzazione sul rapporto tra memoria e territorio. Il c.s.o. Pedro ha invece offerto la strumentazione mobile e di amplificazione sonora che ha permesso a ogni intervento di diffondersi in tutto il quartiere.
    Rispetto alla presenza attiva nel quartiere, Il Quadrato Meticcio, il quale ha messo a disposizione gli spazi della propria sede come centrale operativa di entrambi gli eventi, merita un approfondimento specifico.
    Mattia, il fondatore dell’associazione, mi racconta che nel 2008 il “campetto” – così chiamato dagli abitanti del quartiere – situato proprio dietro la “piazzetta” (Piazza Caduti della Resistenza), sarebbe dovuto diventare un parcheggio, ma “l’intervento congiunto della comunità del quartiere lo ha preservato”. Quando gli chiedo come si inserisca l’esperienza dell’associazione in questo ricordo, risponde: “Ho navigato a vista dopo quell’occasione. Mi sono accorto che c’era l’esigenza di valorizzare il campo e che il gioco del calcio era un contesto di incontro importante per i ragazzi. La forma attuale si è consolidata nel tempo”. Adesso, la presenza costante di una vivace comunità “meticcia” – di età che varia dagli otto ai sedici anni – è una testimonianza visiva e frammentaria della cultura familiare che i ragazzi si portano dietro. Come si evince dalla testimonianza di Mattia: «Loro non smettono mai di giocare. Sono in strada tutto il giorno e passano la maggior parte del tempo con il pallone ai piedi. Il conflitto tra di loro riflette i conflitti che vivono in casa. Ognuno di loro appartiene a famiglie economicamente in difficoltà, che condividono scarsi accessi a opportunità finanziarie e sociali in generale. Una situazione che inevitabilmente si ripercuote sull’emotività dei ragazzi, giorno dopo giorno».

    L’esperienza dell’associazione si inserisce all’interno di una rete culturale profondamente complessa ed eterogenea. L’intento dell’associazione, come racconta Camilla, è quello di offrire una visione inclusiva e una maggiore consapevolezza dei processi coloniali e post-coloniali a cui tutti, direttamente o indirettamente, sono legati; un approccio simile a quello della palestra popolare Chinatown, che offre corsi di lotta frequentati spesso dagli stessi ragazzi che giocano nel Quadrato Meticcio. L’obiettivo della palestra è quello di educare al rispetto reciproco attraverso la simulazione controllata di situazioni conflittuali legate all’uso di stereotipi etno-razziali e di classe, gestendo creativamente le ambivalenze dell’intimità culturale (Herzfeld, 2003). Uber[6], fra i più attivi promotori di Decolonize your eyes e affiliato alla palestra, racconta che: «Fin tanto che sono ragazzini, può essere solo un gioco, e tra di loro possono darsi man forte ogni volta che si scontrano con il razzismo brutale che questa città offre senza sconti. Ma ho paura che presto per loro sarà uno shock scoprire quanto può far male il razzismo a livello politico, lavorativo, legale… su tutti i fronti. E ho paura soprattutto che non troveranno altro modo di gestire l’impatto se non abbandonandosi agli stereotipi che gli orbitano già attorno».

    La mobilitazione concertata del 2008 a favore della preservazione del “campetto”, ha molto in comune con il contesto dal quale è emerso Decolonize your eyes. È “quasi un miracolo” di partecipazione estesa, mi racconta Uber, considerando che storicamente le “realtà militanti” di Padova hanno sempre faticato ad allearsi e collaborare. Similmente, con una vena solenne ma scherzosa, Camilla definisce entrambi gli eventi “necessari”. Lei si è occupata di gestire anche la “chiamata” generale: “abbiamo fatto un appello aperto a tutti sui nostri social network e le risposte sono state immediate e numerose”. Uber mi fa presente che “già da alcune assemblee precedenti si poteva notare l’intenzione di mettere da parte le conflittualità”. Quando gli chiedo perché, risponde “perché non ne potevamo più [di andare l’uno contro l’altro]”. Camilla sottolinea come l’impegno da parte dell’anpi di colmare le distanze generazionali, nei concetti e nelle pratiche, sia stato particolarmente forte e significativo.

    Avere uno scopo comune sembra dunque essere una prima risorsa per incontrarsi. Ma è nel modo in cui le conflittualità vengono gestite quotidianamente che può emergere una spinta rivoluzionaria unitaria. In effetti, «[…] l’equilibrio di un gruppo non nasce per forza da uno stato di inerzia, ma spesso da una serie di conflitti interni controllati» (Mauss, 2002, p. 194).
    Nel frattempo il Quadrato Meticcio ha rinnovato il suo impegno nei confronti del quartiere dando vita a una nuova iniziativa, chiamata All you can care, basata sullo scambio mutualistico di beni di prima necessità. Contemporaneamente, i progetti per un nuovo Decolonize your eyes vanno avanti e, da ciò che racconta Camilla, qualcosa sembra muoversi:
    «Pochi giorni fa una signora ci ha fermati per chiederci di cambiare anche il nome della sua via – anch’essa di rimando coloniale. Stiamo avendo anche altre risposte positive, altre realtà vogliono partecipare ai prossimi eventi».
    L’esperienza di Decolonize your eyes è insomma una tappa di un lungo progetto di decolonizzazione dell’immaginario e dell’utilizzo dello spazio pubblico che coinvolge molte realtà locali le quali, finalmente, sembrano riconoscersi in una lotta comune.

    Note
    [1] Annalisa Frisina ha ideato la struttura del saggio e ha scritto il paragrafo “Pratiche visuali di decolonizzazione della città”; Mackda Ghebremariam Tesfau’ ha scritto il paragrafo “L’Europa è indifendibile” e Salvatore Frisina il paragrafo “L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio”.
    [2] Cancel culture è un termine, spesso utilizzato con un’accezione negativa, che è stato usato per indicare movimenti emersi negli ultimi anni che hanno fatto uso del digitale, come quello il #metoo femminista, e che è stato usato anche per indicare le azioni contro le vestigia coloniali e razziste che si sono date dal Sud Africa agli Stati Uniti all’Europa.
    [3] Archivio Marx-Engels
    [4] Ho ideato con Elisabetta Campagni il percorso di video partecipativo nella primavera del 2020, rispondendo alla call “Cinema Vivo” di ZaLab; il nostro progetto è rientrato tra i primi cinque votati e supportati dal crowfunding.
    [5] Da un’intervista realizzata dall’autore in data 10/12/2020 a Camilla Previati e Mattia Boscaro, il fondatore dell’associazione.
    [6] Da un’intervista realizzata con Uber Mancin dall’autore in data 9/12/2020.
    [7] Le parti introduttive e finali del video sono state realizzate con la gentile concessione dei materiali audiovisivi da parte di Uber Mancin (archivio privato).

    Bibliografia
    Bhambra, G., Nişancıoğlu, K. & Gebrial, D., Decolonising the University, Pluto Press, London, 2018.
    Bhambra, G. K., The current crisis of Europe: Refugees, colonialism, and the limits of cosmopolitanism, in: «European Law Journal», 23(5): 395-405. 2017.
    Césaire, A. (1950), Discorso sul colonialismo, Mellino, M. (a cura di), Ombre corte, Verona, 2010.
    Frisina, A., Ricerca visuale e trasformazioni socio-culturali, utet Università, Torino, 2013.
    Frisina, A. e Ghebremariam Tesfau’, M., Decolonizzare la città. L’antirazzismo come contro-politica della memoria. E poi?, «Studi Culturali», Anno XVII, n. 3, Dicembre, pp. 399-412. 2020.
    Herzfeld, M., & Nicolcencov, E., Intimità culturale: antropologia e nazionalismo, L’ancora del Mediterraneo, 2003.
    Mauss, M., Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, G. Einaudi, Torino, 2002.
    Mirzoeff, N., The Right to Look: A Counterhistory of Visuality, Duke University Press, Durham e London, 2011.
    Scego, I., & Bianchi, R., Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, Roma, 2014.
    Wekker, G., White Innocence: Paradoxes of Colonialism and Race, Duke University Press, Durham and London, 2016.

    https://www.roots-routes.org/decolonize-your-eyes-padova-pratiche-visuali-di-decolonizzazione-della
    #décolonisation #décolonial #colonialisme #traces_coloniales #Italie #Italie_coloniale #colonialisme_italien #statues #Padova #Padoue

    ping @cede (même si c’est en italien...)

  • « Pour un retour de l’#honneur de nos gouvernants » : 20 #généraux appellent Macron à défendre le #patriotisme

    (attention : toxique)

    À l’initiative de #Jean-Pierre_Fabre-Bernadac, officier de carrière et responsable du site Place Armes, une vingtaine de généraux, une centaine de hauts-gradés et plus d’un millier d’autres militaires ont signé un appel pour un retour de l’honneur et du #devoir au sein de la classe politique. Valeurs actuelles diffuse avec leur autorisation la lettre empreinte de conviction et d’engagement de ces hommes attachés à leur pays.

    Monsieur le Président,
    Mesdames, Messieurs du gouvernement,
    Mesdames, Messieurs les parlementaires,

    L’heure est grave, la #France est en #péril, plusieurs #dangers_mortels la menacent. Nous qui, même à la retraite, restons des soldats de France, ne pouvons, dans les circonstances actuelles, demeurer indifférents au sort de notre beau pays.

    Nos #drapeaux tricolores ne sont pas simplement un morceau d’étoffe, ils symbolisent la #tradition, à travers les âges, de ceux qui, quelles que soient leurs couleurs de peau ou leurs confessions, ont servi la France et ont donné leur vie pour elle. Sur ces drapeaux, nous trouvons en lettres d’or les mots « #Honneur_et_Patrie ». Or, notre honneur aujourd’hui tient dans la dénonciation du #délitement qui frappe notre #patrie.

    – Délitement qui, à travers un certain #antiracisme, s’affiche dans un seul but : créer sur notre sol un mal-être, voire une #haine entre les communautés. Aujourd’hui, certains parlent de #racialisme, d’#indigénisme et de #théories_décoloniales, mais à travers ces termes c’est la #guerre_raciale que veulent ces partisans haineux et fanatiques. Ils méprisent notre pays, ses traditions, sa #culture, et veulent le voir se dissoudre en lui arrachant son passé et son histoire. Ainsi s’en prennent-ils, par le biais de statues, à d’anciennes gloires militaires et civiles en analysant des propos vieux de plusieurs siècles.

    – Délitement qui, avec l’#islamisme et les #hordes_de_banlieue, entraîne le détachement de multiples parcelles de la nation pour les transformer en territoires soumis à des #dogmes contraires à notre #constitution. Or, chaque Français, quelle que soit sa croyance ou sa non-croyance, est partout chez lui dans l’Hexagone ; il ne peut et ne doit exister aucune ville, aucun quartier où les lois de la #République ne s’appliquent pas.

    – Délitement, car la haine prend le pas sur la #fraternité lors de manifestations où le pouvoir utilise les #forces_de_l’ordre comme agents supplétifs et boucs émissaires face à des Français en #gilets_jaunes exprimant leurs désespoirs. Ceci alors que des individus infiltrés et encagoulés saccagent des commerces et menacent ces mêmes forces de l’ordre. Pourtant, ces dernières ne font qu’appliquer les directives, parfois contradictoires, données par vous, gouvernants.

    Les #périls montent, la #violence s’accroît de jour en jour. Qui aurait prédit il y a dix ans qu’un professeur serait un jour décapité à la sortie de son collège ? Or, nous, serviteurs de la #Nation, qui avons toujours été prêts à mettre notre peau au bout de notre engagement – comme l’exigeait notre état militaire, ne pouvons être devant de tels agissements des spectateurs passifs.

    Aussi, ceux qui dirigent notre pays doivent impérativement trouver le courage nécessaire à l’#éradication de ces dangers. Pour cela, il suffit souvent d’appliquer sans faiblesse des lois qui existent déjà. N’oubliez pas que, comme nous, une grande majorité de nos concitoyens est excédée par vos louvoiements et vos #silences coupables.

    Comme le disait le #cardinal_Mercier, primat de Belgique : « Quand la #prudence est partout, le #courage n’est nulle part. » Alors, Mesdames, Messieurs, assez d’atermoiements, l’heure est grave, le travail est colossal ; ne perdez pas de temps et sachez que nous sommes disposés à soutenir les politiques qui prendront en considération la #sauvegarde_de_la_nation.

    Par contre, si rien n’est entrepris, le #laxisme continuera à se répandre inexorablement dans la société, provoquant au final une #explosion et l’intervention de nos camarades d’active dans une mission périlleuse de #protection de nos #valeurs_civilisationnelles et de sauvegarde de nos compatriotes sur le territoire national.

    On le voit, il n’est plus temps de tergiverser, sinon, demain la guerre civile mettra un terme à ce #chaos croissant, et les morts, dont vous porterez la #responsabilité, se compteront par milliers.

    Les généraux signataires :

    Général de Corps d’Armée (ER) Christian PIQUEMAL (Légion Étrangère), général de Corps d’Armée (2S) Gilles BARRIE (Infanterie), général de Division (2S) François GAUBERT ancien Gouverneur militaire de Lille, général de Division (2S) Emmanuel de RICHOUFFTZ (Infanterie), général de Division (2S) Michel JOSLIN DE NORAY (Troupes de Marine), général de Brigade (2S) André COUSTOU (Infanterie), général de Brigade (2S) Philippe DESROUSSEAUX de MEDRANO (Train), général de Brigade Aérienne (2S) Antoine MARTINEZ (Armée de l’air), général de Brigade Aérienne (2S) Daniel GROSMAIRE (Armée de l’air), général de Brigade (2S) Robert JEANNEROD (Cavalerie), général de Brigade (2S) Pierre Dominique AIGUEPERSE (Infanterie), général de Brigade (2S) Roland DUBOIS (Transmissions), général de Brigade (2S) Dominique DELAWARDE (Infanterie), général de Brigade (2S) Jean Claude GROLIER (Artillerie), général de Brigade (2S) Norbert de CACQUERAY (Direction Générale de l’Armement), général de Brigade (2S) Roger PRIGENT (ALAT), général de Brigade (2S) Alfred LEBRETON (CAT), médecin Général (2S) Guy DURAND (Service de Santé des Armées), contre-amiral (2S) Gérard BALASTRE (Marine Nationale).

    https://www.valeursactuelles.com/politique/pour-un-retour-de-lhonneur-de-nos-gouvernants-20-generaux-appellen

    La une :

    #appel #généraux #valeurs_actuelles #lettre #lettre_ouverte #armée #soldats

    ping @isskein @karine4

    • 2022 : « l’étrange défaite » qui vient

      Pour Marc Bloch, auteur de L’Étrange défaite, la cause de la débâcle de juin 1940 n’était pas seulement militaire mais d’abord politique. De la même façon, le désastre annoncé de printemps 2022 n’est pas seulement de nature électorale. La débâcle de la démocratie se construit depuis des mois par une sorte de capitulation rampante et générale face à l’extrême droite.

      « Un jour viendra, tôt ou tard, où la France verra de nouveau s’épanouir la liberté de pensée et de jugement. Alors les dossiers cachés s’ouvriront ; les brumes, qu’autour du plus atroce effondrement de notre histoire commencent, dès maintenant, à accumuler tantôt l’ignorance et tantôt la mauvaise foi, se lèveront peu à peu . »

      Ainsi s’ouvre L’Étrange défaite écrite par Marc Bloch au lendemain de la capitulation de l’armée française en juin 1940. « À qui la faute ? », se demande-t-il. Quels mécanismes politiques ont conduit à ce désastre et à l’effondrement d’une République ? Si les militaires, et surtout l’état-major, sont aux premières loges des accusés, nul n’échappe à l’implacable regard de l’historien : ni les classes dirigeantes qui ont « préféré Hitler au Front Populaire », ni la presse mensongère, ni le pacifisme munichois, ni la gauche qui n’a pas eu besoin de ses adversaires pour ensevelir ce Front populaire qui fit si peur aux bourgeois.

      Les « brumes », l’aveuglement et la soumission passive aux récits des futurs vainqueurs ont conduit inexorablement à une #capitulation_anticipée. Comment ne pas y reconnaître la logique des moments sombres que nous vivons sidérés.

      La banalisation de la menace factieuse

      Sidérés, nous le sommes à coup sûr quand il faut attendre six jours pour qu’une menace de sédition militaire (http://www.regards.fr/politique/societe/article/lettre-des-generaux-un-texte-seditieux-qui-menace-la-republique) signée le 21 avril 2021 par une vingtaine de généraux en retraite, mais aussi par de nombreux officiers, commence à faire un peu réagir.

      Sidérés, nous le sommes par la légèreté de la réponse gouvernementale. Un tweet de la ministre des Armées (https://www.lemonde.fr/politique/article/2021/04/25/la-gauche-s-insurge-contre-une-tribune-de-militaires-dans-valeurs-actuelles-) ne parle que « d’#irresponsabilité » de « généraux en retraite ». Pour #Florence_Parly le soutien que leur apporte Marine Le Pen « reflète une méconnaissance grave de l’institution militaire, inquiétant pour quelqu’un qui veut devenir cheffe des armées ». N’y aurait-il à voir que de l’irresponsabilité militaire et de l’incompétence politique ?

      Il faut attendre le lundi 26 avril pour que Agnès Runacher secrétaire d’État auprès du ministre de l’Économie et des Finances s’avise (https://www.boursorama.com/actualite-economique/actualites/un-quarteron-de-generaux-en-charentaises-la-tribune-de-militaires-dans-v) que le texte a été publié jour pour jour 60 ans après l’appel des généraux d’Alger. En parlant de « quarteron de généraux en charentaises », elle semble considérer que la simple paraphrase d’une expression de l’allocution de De Gaulle, le 23 avril 1961 suffira à protéger la démocratie. Ce dernier, plus martial, en uniforme, parlait surtout de « putsch » et d’un « groupe d’officiers ambitieux et fanatiques ».

      Sidérés, nous le sommes par le #silence persistant, cinq jours après la publication du texte factieux, de l’essentiel les leaders de la droite, du centre, de la gauche et des écologistes.

      Sidérés, nous sommes encore de l’isolement de ceux qui appellent un chat un chat tels Éric Coquerel, Benoît Hamon ou Jean Luc Mélenchon. Ce dernier rappelle au passage que l’article 413-3 du code pénal prévoit cinq ans d’emprisonnement et 75.000 euros d’amende pour provocation à la désobéissance des militaires.

      Sidérés, nous le sommes enfin, pendant une semaine, de la #banalisation de l’événement par des médias pourtant prompts à se saisir du buzz des « polémiques ». Le 25 avril (https://rmc.bfmtv.com/emission/tribunes-de-militaires-les-gens-n-ont-pas-confiance-dans-les-politiques-m), RMC/BFM, dans les Grandes Gueules, n’hésite pas à présenter l’appel sur fond de Marseillaise, à moquer « la gauche indignée » en citant Jean Luc Mélenchon et Éric Coquerel, et à débattre longuement avec l’initiateur du texte, Jean-Pierre Fabre-Bernadac. Jack Dion, ancien journaliste de L’Humanité (1970-2004), n’hésite pas à écrire (https://www.marianne.net/agora/les-signatures-de-marianne/malgre-ses-relents-putschistes-la-tribune-des-ex-generaux-met-le-doigt-la-) dans Marianne le 28 avril : « Malgré ses relents putschistes, la tribune des ex généraux met le doigt là où ça fait mal. » Il faut croire donc que cet appel factieux et menaçant ne fait pas polémique après l’appel à l’insurrection de Philippe de Villiers dont on oublie qu’il est le frère aîné d’un autre général ambitieux, Pierre de son prénom, chef d’état-major des armées de 2010 à 2017.

      Qui sont donc les ennemis que ces militaires appellent à combattre pour sauver « la Patrie » ? Qui sont les agents du « délitement de la France » ? Le premier ennemi désigné reprend mot pour mot les termes de l’appel des universitaires publié le 1 novembre 2020 sous le titre de « #Manifeste_des_100 » (https://manifestedes90.wixsite.com/monsite) : « un certain antiracisme » qui veut « la guerre raciale » au travers du « racialisme », « l’indigénisme » et les « théories décoloniales ». Le second ennemi est « l’islamisme et les hordes de banlieue » qui veulent soumettre des territoires « à des dogmes contraires à notre constitution ». Le troisième ennemi est constitué par « ces individus infiltrés et encagoulés saccagent des commerces et menacent ces mêmes forces de l’ordre » dont ils veulent faire des « boucs émissaires ».

      Chacune et chacun reconnaîtra facilement les islamo-gauchistes, les séparatistes et les black blocs, ces épouvantails stigmatisés, dénoncés, combattus par le pouvoir comme par une partie de l’opposition. Ce texte a au moins une vertu : il identifie clairement la nature fascisante des diatribes de Jean-Michel Blanquer, Gérald Darmanin ou Frédérique Vidal. Il renvoie à leur responsabilité celles et ceux qui gardent le silence, organisent le débat public autour de ces thématiques sur la scène médiatique, s’abstiennent à l’Assemblée sur des textes de loi à la logique islamophobe – quand ils ne votent pas pour –, signent des tribunes universitaires pour réclamer une police de la pensée. Il renvoie à ses responsabilités le Bureau national du Parti socialiste qui, dans sa résolution du 27 avril (https://partisocialiste92.fr/2021/04/27/resolution-du-bureau-national-a-la-suite-dune-tribune-de-militaire), persiste à affirmer « qu’il serait absurde de chercher à nier ces sujets qui nous font face » comme « ces #minorités_agissantes » qui prônent la « #désaffiliation_républicaine ».

      Baromètre incontesté des dérives intellectuelles, l’omniprésent #Michel_Onfray, aujourd’hui obsédé par la décadence de la France, ne partage-t-il pas le diagnostic des factieux ? Sa sentence du 27 avril dans la matinale d’Europe 1 (https://www.europe1.fr/societe/sur-le-terrorisme-la-parole-presidentielle-est-totalement-devaluee-estime-on), « l’intérêt de l’#islamo-gauchisme est de détruire la nation, la souveraineté nationale, la France, l’histoire de France, tout ce qui constitue la France », est immédiatement reprise par Valeurs actuelles (https://www.valeursactuelles.com/politique/pour-michel-onfray-linteret-de-lislamo-gauchisme-est-de-detruire-l). Quelques jours plus tôt, dans une envolée digne de Gérald Darmanin, il assénait au Point (https://www.lepoint.fr/debats/michel-onfray-on-a-un-seul-probleme-en-france-c-est-que-la-loi-n-est-pas-res) : « On a un seul problème en France, c’est que la loi n’est pas respectée ». Mais de quelle loi parle Michel Onfray quand il ajoute, à propos du verdict en appel du procès des jeunes de Viry-Châtillon : « Il y a des gens à qui on dit : […] peut-être que vous faites partie de ceux qui auraient pu tuer, mais la preuve n’est pas faite, on est pas sûr que c’est vous, allez, vous pouvez rentrer chez vous. L’affaire est terminée pour vous. » Pour Michel Onfray, le scandale n’est pas la mise en accusation délibérée d’innocents par une police en quête désespérée de coupables mais un principe de droit : la présomption d’innocence elle-même !

      La capitulation rampante

      Voilà où nous en sommes. Voilà pourquoi il est pour beaucoup si difficile de se scandaliser d’un appel factieux quand les ennemis désignés sont ceux-là même qui sont désignés à longueur d’antenne et de déclaration politique dans ce désastreux consensus « républicain » réunissant l’extrême droite, la droite et une partie de la gauche.

      Chacune et chacun y va de sa surenchère. #Anne_Hidalgo (https://www.nouvelobs.com/edito/20201125.OBS36577/derriere-la-gueguerre-entre-hidalgo-et-les-ecolos-la-pomme-de-discorde-de) enjoint les Verts « d’être au clair avec la République » à propos de la laïcité alors même que #Yannick_Jadot (https://www.lepoint.fr/politique/loi-contre-le-separatisme-la-gauche-denonce-un-texte-qui-ne-regle-rien-07-02) demande de « sortir de toute naïveté et de toute complaisance », pour « combattre l’islam politique », proposant de « contrôler les financements des associations » et de « renforcer tous les dispositifs sur le contrôle des réseaux sociaux ».

      La discussion et le vote de la loi sur le « séparatisme », puis les débats hallucinants sur l’organisation de « réunions non mixtes » au sein du syndicat étudiant Unef nous en a fourni un florilège. Pour le communiste #Stéphane_Peu (http://www.le-chiffon-rouge-morlaix.fr/2021/02/separatisme-une-loi-equilibree-se-serait-attachee-a-renforc) comme pour le socialiste #Olivier_Faure (https://www.europe1.fr/politique/projet-de-loi-contre-les-separatismes-olivier-faure-craint-une-surenchere-40), la question n’est pas de combattre sur le fond la notion de « #séparatisme » mais de rester dans une « loi équilibrée » qui « renforce la #République » (Peu) et d’éviter « la surenchère » (Faure). L’un comme l’autre et comme nombre de députés de leurs groupes, s’abstiendront lors du vote à l’Assemblée nationale. Seule La France insoumise a sauvé l’honneur et dénoncé, notamment par la voix de #Clémentine_Autain (https://www.lepoint.fr/politique/loi-contre-le-separatisme-la-gauche-denonce-un-texte-qui-ne-regle-rien-07-02) dès le 16 février, une loi qui « ouvre la boîte de Pandore pour des idées qui stigmatisent et chassent les musulmans » et « nous tire vers l’agenda de l’extrême droite ».

      Si le débat parlementaire gomme un peu les aspérités, l’affaire des réunions « non mixtes » au sein de l’Unef est l’occasion d’un déferlement de sincérité imbécile. On n’en attendait pas moins de #Manuel_Valls (https://www.franceinter.fr/emissions/l-invite-de-8h20-le-grand-entretien/l-invite-de-8h20-le-grand-entretien-22-mars-2021) qui s’empresse de poser l’argument clef de la curée : « Les réunions "racialisées" légitiment le concept de race ». Le lendemain #Marine_Le_Pen (https://www.francetvinfo.fr/politique/marine-le-pen/video-il-faut-poursuivre-l-unef-un-syndicat-qui-commet-des-actes-racist) le prend au mot et réclame des poursuites contre ces actes racistes. Anne Hidalgo (https://www.europe1.fr/politique/reunions-non-mixtes-a-lunef-cest-tres-dangereux-juge-anne-hidalgo-4032954) apporte sa voix contre une pratique qu’elle considère comme « très dangereuse » au nom de « ses convictions républicaines ». Olivier Faure (https://www.youtube.com/watch?v=rifRSrm7lpU

      ), moins « équilibré » que sur la loi contre le « séparatisme » renchérit comme « une dérive incroyable ».

      Quelle « dérive » ? Tout simplement « l’idée que sont légitimes à parler du racisme les seules personnes qui en sont victimes », alors que « c’est l’inverse qu’il faut chercher ». Dominés restez à votre place, nous parlerons pour vous ! Aimé Césaire dans sa lettre à Maurice Thorez (https://lmsi.net/Lettre-a-Maurice-Thorez), dénonçait ce qu’il nommait le « #fraternalisme » : « Un grand frère qui, imbu de sa supériorité et sûr de son expérience, vous prend la main pour vous conduire sur la route où il sait se trouver la Raison et le Progrès. » Or, ajoutait-il, « c’est très exactement ce dont nous ne voulons plus » car « nous ne (pouvons) donner à personne délégation pour penser pour nous. »

      Olivier Faure revendique un « #universalisme » que ne renierait pas le candidat communiste à la présidentielle, #Fabien_Roussel pour qui « les réunions segmentées selon la couleur de sa peau, sa religion ou son sexe, ça divise le combat ». Le PCF (https://www.pcf.fr/actualite_derri_re_les_attaques_contre_l_unef_une_d_rive_autoritaire_et_antid_mo) n’hésite pas à défendre en théorie l’Unef tout en se joignant cœur réactionnaire des condamnations de ses pratiques.

      #Audrey_Pulvar (https://www.lci.fr/politique/demander-a-une-personne-blanche-de-se-taire-dans-une-reunion-non-mixte-pulvar-cr) cherchant peut-être un compromis dans la présence maintenue mais silencieuse d’un blanc dans une réunion de personnes racisées, se prend une volée de bois vert du chœur des bonnes âmes universalistes. La « dilution dans l’universel » est bien « une façon de se perdre » comme l’écrivait encore Aimé Césaire en 1956.

      Ce chœur hystérisé, rien ne le fera taire, ni le rappel élémentaire d’#Eric_Coquerel (https://www.facebook.com/watch/?v=773978356575699) que les #groupes_de_parole sont « vieux comme le monde, comme le mouvement féministe, comme les alcooliques anonymes », ni la prise du conscience de l’énormité morale, politique et juridique des positions prises ainsi dans une émotion révélatrice.

      Refuser de comprendre que la parole des dominées et dominés a besoin de se constituer à l’abri des dominants, c’est nier, de fait, la #domination. Ce déni de la domination, et de sa #violence, est une violence supplémentaire infligée à celles et ceux qui la subissent.

      Au passage, une partie de la gauche a par ailleurs perdu un repère simple en matière de liberté : la liberté de réunion est la liberté de réunion. Elle n’est plus une liberté si elle est sous condition de surveillance par une présence « hétérogène ». À quand les réunions de salariés avec présence obligatoire du patron ? Les réunions de femmes avec présence obligatoire d’un homme ? Les réunions d’étudiants avec présence obligatoire d’un professeur ? Les réunions de locataires avec présence obligatoire du bailleur ? Les réunions d’antiracistes avec présence obligatoire d’un raciste ?

      Ces héritiers et héritières d’une longue tradition politique liée aux luttes sociales révèle ainsi leur déconnexion avec les mobilisation d’aujourd’hui, celles qui de #MeToo à Black Lives Matter ébranlent le monde et nous interrogent sur quelle humanité nous voulons être au moment où notre survie est officiellement en question. Ces mouvements de fond martèlent, 74 ans après Aimé Césaire, que « l’heure de nous-mêmes a sonné. »

      Nul doute, hélas, que ce qui fait ainsi dériver des femmes et des hommes issus de la #gauche, c’est le poids pas toujours avoué, mais prégnant et souvent irrationnel, de l’#islamophobie. Cette adhésion générale à un complotisme d’État (https://blogs.mediapart.fr/alain-bertho/blog/041220/l-etat-t-il-le-monopole-du-complotisme-legitime) touche plus fortement les espaces partisans, voire universitaires, que le monde associatif. On a pu le constater lors de la dissolution du #Collectif_contre_l’islamophobie_en_France (#CCIF) fin 2020 quand la fermeté les protestations de la Ligue des droits de l’Homme (https://blogs.mediapart.fr/gabas/blog/031220/ldh-dissolution-politique-du-ccif) ou d’Amnesty international (https://www.amnesty.fr/presse/france-la-fermeture-dune-association-antiraciste-e) n’a eu d’égale que la discrétion de la gauche politique. La palme du mois d’avril revient sans conteste à #Caroline_Fourest (https://twitter.com/i/status/1384567288922259467) qui lors du lancement des États Généraux de la Laïcité a pu déclarer sans frémir que « ce mot islamophobie a tué les dessinateurs de Charlie Hebdo et il a tué le professeur Samuel Paty ».

      Oui voilà ou nous en sommes. La menace d’une victoire du #Rassemblement_national ne se lit pas que dans les sondages. Elle se lit dans les #renoncements. Elle s’enracine dans la banalisation voire le partage de ses thématiques disciplinaires, de ses émotions islamophobes, de son vocabulaire même.

      L’évitement politique du réel

      Il faut vraiment vivre dans une bulle, au rythme de réseaux sociaux hégémonisés par l’extrême droite, loin des réalités des quartiers populaires, pour considérer que l’islam et les réunions non mixtes sont les causes premières du délitement des relations collectives et politiques dans ce pays.

      Quelle République, quelle démocratie, quelle liberté défend-on ici avec ces passions tristes ? Depuis plus d’un an, la réponse gouvernementale à l’épreuve sanitaire les a réduites à l’état de fantômes. L’#état_d’urgence sanitaire est reconduit de vague en vague de contamination. Notre vie est bornée par des contrôles, des interdictions et des attestations. Les décisions qui la règlent sont prises par quelques-uns dans le secret délibératif d’un Conseil de défense. Nous vivons suspendus aux annonces du président et de quelques ministres et, de plus de plus en plus, du président seul, autoproclamé expert omniscient en gestion de pandémie. Nous n’avons plus prise sur notre vie sociale, sur nos horaires, sur notre agenda, sur notre avenir même très proche. Nous n’avons plus de lieu de délibération, ces lieux qui des clubs révolutionnaires de 1789 aux ronds-points des gilets jaunes, en passant par la Place Tahrir et la Puerta Del Sol en 2011 sont l’ADN de la #démocratie.

      La violence de la menace létale mondiale que font peser sur nous le Covid et ses variants successifs nous fait espérer que cette épreuve prendra fin, que la parenthèse se refermera. Comme dans une période de guerre (https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/070221/stephane-audoin-rouzeau-nous-traversons-l-experience-la-plus-tragique-depu), cet espoir toujours déçu se renouvelle sans fin à chaque annonce moins pessimiste, à chaque communication gouvernementale sur les terrasses jusqu’à la déception suivante. Cette #précarité sans fin est un obstacle collectif à la #résistance_démocratique, à la critique sociale, idéologique et opératoire de cette période qui s’ouvre et sera sans doute durable. C’est bien dans ce manque politique douloureux que s’engouffrent tous les complotismes de Q-Anon à l’islamophobie d’État.

      Depuis le printemps 2020 (www.regards.fr/politique/societe/article/covid-19-un-an-deja-chronique-d-une-democratie-desarticulee), les partis d’opposition ont cessé d’être dans l’élaboration et la proposition politique en lien avec la situation sanitaire. Le monologue du pouvoir ne provoque plus sporadiquement que des réactions, jamais d’alternative stratégique ni sur la réponse hospitalière, ni sur la stratégie vaccinale, ni sur l’agenda des restrictions sociales. Même l’absence de publication, des semaines durant début 2021, des avis du Conseil scientifique n’émeut pas des politiques beaucoup plus préoccupés par les réunions non mixtes à l’Unef.

      Attac (https://france.attac.org/spip.php?page=recherche&recherche=covid) n’est pas beaucoup plus proactif malgré la publication sur son site en novembre 2020 d’un texte tout à fait pertinent de Jacques Testard sur la #démocratie_sanitaire. En général les think tanks sont plutôt discrets. L’Institut Montaigne est silencieux sur la stratégie sanitaire tout comme la Fondation Copernic qui n’y voit pas l’occasion de « mettre à l’endroit ce que le libéralisme fait fonctionner à l’envers ». Si le think tank Économie Santé des Échos déplore le manque de vision stratégique sanitaire, seule Terra Nova semble avoir engagé un véritable travail : une cinquantaine de contributions (https://tnova.fr/ckeditor_assets/attachments/218/terra-nova_dossier-de-presse_cycle-coronavirus-regards-sur-une-crise_2020.pdf), des propositions (https://tnova.fr/revues/covid-19-le-think-tank-terra-nova-fait-des-propositions-pour-limiter-les-conta) sur l’organisation de la rentrée scolaire du 26 avril 2021, des propositions sur la stratégie vaccinale…

      Pourquoi cette #inertie_collective sur les choix stratégiques ? Ce ne sont pas les sujets qui manquent tant la stratégie gouvernementale ressemble à tout sauf à une stratégie sanitaire. Sur le fond, aucun débat n’est ouvert sur le choix entre stratégie de cohabitation avec la maladie ou d’éradication virale. Ce débat aurait eu le mérite d’éclairer les incohérences gouvernementales comme la communication sur le « tester/tracer/isoler » de 2020 qui n’a été suivie d’aucun moyen opérationnel et humain nécessaire à sa mise en œuvre. Il aurait permis de discuter une stratégie vaccinale entièrement fondée sur l’âge (et donc la pression hospitalière) et non sur la circulation active du virus et la protection des métiers à risque. Cette stratégie a fait battre des records vaccinaux dans des territoires aux risques faibles et laissé à l’abandon les territoires les plus touchés par la surmortalité comme la Seine-Saint-Denis.

      Pourquoi cette inertie collective sur la démocratie sanitaire ? Les appels dans ce sens n’ont pourtant pas manqué à commencé par les recommandations du Conseil Scientifique dès mars 2020 : le texte de Jacques Testard (https://france.attac.org/nos-publications/les-possibles/numero-25-automne-2020/debats/article/la-covid-la-science-et-le-citoyen), un article de The Conversation (https://theconversation.com/debat-quelles-lecons-de-democratie-tirer-de-la-pandemie-140157) au mois de juin 2020, l’excellent « tract » de #Barbara_Stiegler, De la démocratie en pandémie, paru chez Gallimard en janvier 2021 et assez bien relayé. Des propositions, voire des expérimentations, en termes de délibération et de construction collective des mesures sanitaires territorialisées, des contre expertises nationales basées sur des avis scientifiques et une mobilisation populaire auraient sans doute mobilisé de façon positive la polyphonie des exaspérations. On a préféré laisser réprimer la mobilisation lycéenne (https://blogs.mediapart.fr/alain-bertho/blog/181120/sommes-nous-aux-portes-de-la-nuit) pour de vraies mesures sanitaires en novembre 2020.

      Bref la construction de masse d’une alternative à l’incapacité autoritaire du pouvoir aurait pu, pourrait encore donner corps et usage à la démocratie, aujourd’hui désarticulée (https://blogs.mediapart.fr/alain-bertho/blog/160321/covid-un-deja-chronique-d-une-democratie-desarticulee), qu’il nous faut essayer de défendre, pourrait incarner la République dans des exigences sociales et une puissance populaire sans lesquelles elle risque toujours de n’être qu’un discours de domination.

      Une autre élection est-elle encore possible ?

      Entre cet étouffement démocratique de masse et l’immensité des choix de société suggérés au quotidien par la crise sanitaire, le grain à moudre ne manque pas pour des courants politiques héritiers d’une tradition émancipatrice. Leur responsabilité est immense quand l’humanité est mise au pied du mur de sa survie et de l’idée qu’elle se fait d’elle-même. Mais ces partis préfèrent eux aussi considérer la situation sanitaire comme une simple parenthèse à refermer, se projetant sur les échéances de 2022 comme pour oublier 2020 et 2021. Il est ahurissant de penser que, après 14 mois de pandémie, la politique sanitaire ne soit pas au centre des élections territoriales de ce printemps, sinon pour une question d’agenda.

      En « rêvant d’une autre élection » comme d’autres ont rêvé d’un autre monde, la gauche permet tout simplement au président en exercice de s’exonérer de son bilan dramatique : un système de santé et des soignantes et soignants mis en surchauffe des mois durant, une mise en suspens de milliers de soins parfois urgents, des dizaines de milliers de Covid longs, plus de 100.000 morts, des territoires et des populations délibérément sacrifiés, des inégalités devant la mort et la maladie largement calquées sur les inégalités sociales et les discriminations, une vie sociale dévastée, une démocratie en miettes, une faillite biopolitique structurelle.

      Comment lui en faire porter la responsabilité si on ne peut lui opposer aucune alternative ? Le pouvoir s’en réjouit d’avance et, renversant la charge de la preuve, semaine après semaine, somme chacune et chacun de présenter un bilan sur l’agenda qu’il déroule sans rencontrer beaucoup de résistance : les politiques sécuritaires et l’islamophobie d’État. Or, ce concours électoraliste du prix de la « laïcité », de la condamnation de l’islamisme, de la condamnation des formes contemporaines de lutte contre les discriminations, nous savons qui en sera la championne incontestée : elle en maîtrise à merveille les thématiques, le vocabulaire comme la véhémence.

      Voici ce que les sondages, jour après jour, mesurent et nous rappellent. Dans ces conditions, l’absence de dynamique unitaire à gauche n’est pas la cause de la défaite annoncée, elle est déjà le résultat d’une perte majoritaire de boussole politique, le résultat d’une sorte d’évitement du réel, le résultat d’un abandon.

      « L’étrange défaite » de juin 1940 a pris racine dans le ralliement des classes dirigeantes à la nécessité d’un pouvoir policier et discriminatoire. Nous y sommes. « L’étrange défaite » s’est nourrie de la pusillanimité d’une gauche désertant les vrais combats pour la démocratie, de la défense de l’Espagne républicaine au barrage contre un racisme aussi déchaîné qu’expiatoire. Nous y sommes sur les enjeux de notre temps. « L’étrange défaite » a été la fille du consensus munichois et de la capitulation anticipée. Nous y sommes. « L’étrange défaite » a été suivie de la mort d’une République. L’appel militaire du 21 avril en fait planer la menace.

      À l’exceptionnalité de la période traumatique qui bouleverse depuis 14 mois en profondeur nos repères politiques, sociaux et vitaux, s’ajoute l’exceptionnalité de l’échéance institutionnelle du printemps 2022. Il est dérisoire d’y voir la énième occasion de porter un message minoritaire, dérisoire de donner le spectacle d’une querelle d’egos, dérisoire de jouer à qui sera responsable de la défaite. Le salut ne sera pas dans un compromis défensif sans principe mais dans un sursaut collectif d’ambition.

      Il est temps de prendre la mesure du temps que nous vivons, car il est toujours temps de résister. Comme concluait Marc Bloch en septembre 1940, « peut-être est-ce une bonne chose d’être ainsi contraints de travailler dans la rage », car « est-ce à des soldats qu’il faut, sur un champ de bataille, conseiller la peur de l’aventure ? » Il ajoutait que « notre peuple mérite qu’on se fie à lui et qu’on le mette dans la confidence ».

      http://www.regards.fr/idees-culture/article/2022-l-etrange-defaite-qui-vient
      #non-mixité

  • USA : scandale chez les Boy Scouts - ARTE Reportage - Regarder le documentaire complet | ARTE
    https://www.arte.tv/fr/videos/102400-000-A/usa-scandale-chez-les-boy-scouts
    https://api-cdn.arte.tv/api/mami/v1/program/fr/102400-000-A/1920x1080?ts=1619105745&watermark=true&text=true

    En février 2020, « Boy Scouts of America » dépose le bilan, plombé par le plus gros scandale sexuel pédophile aux Etats-Unis. Près de 100.000 plaintes pour abus sexuel sur mineur sont déposées.

    Pendant près d’un siècle, les témoignages d’enfants abusés ont été passés sous silence. Les noms des #pédophiles étaient soigneusement consignés par l’organisation elle-même dans des archives secrètes surnommées "les dossiers de la perversion".

    Comble de l’horreur, certains pédophiles, dont les noms figuraient sur ces listes, ont continué à exercer en toute impunité au sein de cette structure où les enfants, éloignés de leurs parents et isolés en pleine nature, prêtent serment de loyauté. Aujourd’hui, la parole se libère et la vérité éclate.

    Pauline Louvet et Sophie Przychodny ont rencontré les plaignants, aujourd’hui adultes, qui dénoncent leurs vies brisées pour tenter, enfin, d’obtenir réparation.

    #pédophilie #USA

  • Sur la frontière gréco-turque, à l’épicentre des tensions

    L’Union européenne entend sanctionner la politique de plus en plus expansionniste de la Turquie, qui ravive en Grèce les souvenirs des conflits du passé. Ligne de rupture, mais aussi d’échanges entre Orient et Occident, la frontière gréco-turque ne respire plus depuis la crise sanitaire. De #Kastellorizo à la #Thrace en passant par #Lesbos, les deux pays ont pourtant tant de choses en commun, autour de cette démarcation qui fut mouvante et rarement étanche.

    Petite île aux confins orientaux de la Grèce, Kastellorizo touche presque la #Turquie. Le temps s’écoule lentement dans l’unique village, logé dans une baie profonde. En cette fin septembre, de vieux pêcheurs jouent aux cartes près des enfants qui appâtent des tortues dans les eaux cristallines. Devant son café froid, M. Konstantinos Papoutsis observe, placide, l’immense côte turque, à guère plus de deux kilomètres, et la ville de Kaş, son seul horizon. « Nous sommes une île touristique tranquille, assure cet homme affable qui gère une agence de voyages. Je l’ai répété aux touristes tout l’été. » Attablée autour de lui, la poignée d’élus de cette commune de cinq cents âmes reprend ses propos d’un air débonnaire : « Il n’y a aucun danger à Kastellorizo ! »

    Un imposant ferry, qui paraît gigantesque dans ce petit port méditerranéen, vient animer le paysage. Parti d’Athènes vingt-quatre heures plus tôt, il manœuvre difficilement pour débarquer ses passagers, parmi lesquels une cinquantaine d’hommes en treillis et chapeaux de brousse. Les soldats traversent la baie d’un pas vif avant de rejoindre les falaises inhabitées qui la dominent. « C’est une simple relève, comme il y en a tous les mois », commente M. Papoutsis, habitué à cette présence.

    Selon le #traité_de_Paris de février 1947 (article 14), et du fait de la cession par l’Italie à la Grèce du Dodécanèse, les îles dont fait partie Kastellorizo sont censées être démilitarisées. Dans les faits, les troupes helléniques y guettent le rivage turc depuis l’occupation par Ankara de la partie nord de Chypre, en 1974, précisent plusieurs historiens (1). Cette défense a été renforcée après la crise gréco-turque autour des îlots disputés d’Imia, en 1996. La municipalité de Kastellorizo refuse de révéler le nombre d’hommes postés sur ses hauteurs. Et si les villageois affichent un air de décontraction pour ne pas effrayer les visiteurs — rares en cette période de Covid-19 —, ils n’ignorent pas l’ombre qui plane sur leur petit paradis.

    Un poste avancé d’Athènes en Méditerranée

    Kastellorizo se trouve en première ligne face aux menaces du président turc Recep Tayyip Erdoğan, qui veut redessiner les cartes et imposer son propre #partage_des_eaux. Depuis les années 1970, les #îles du #Dodécanèse font l’objet d’un #conflit larvé entre ces deux pays membres de l’Organisation du traité de l’Atlantique nord (OTAN). La Turquie conteste la souveraineté grecque sur plusieurs îles, îlots et rochers le long de sa côte. Surtout, elle est l’un des rares pays, avec notamment les États-Unis, à ne pas avoir signé la convention des Nations unies sur le droit de la mer (dite #convention_de_Montego_Bay, et entrée en vigueur en 1994), et ne reconnaît pas la revendication par la Grèce d’un plateau continental autour de ses îles. Athènes justifie dès lors leur #militarisation au nom de la #légitime_défense (2), en particulier depuis l’occupation turque de Chypre et en raison d’une importante présence militaire à proximité : la marine et l’armée de l’air turques de l’Égée sont basées à İzmir, sur la côte occidentale de l’Asie Mineure.

    Si proche de la Turquie, Kastellorizo se trouve à 120 kilomètres de la première autre île grecque — Rhodes — et à plus de 520 kilomètres du continent grec. Alors que l’essentiel de la #mer_Egée pourrait être revendiqué par Athènes comme #zone_économique_exclusive (#ZEE) (3) au titre de la convention de Montego Bay (voir la carte ci-contre), ce lointain îlot de neuf kilomètres carrés lui permet de facto de jouir d’une large extension de plusieurs centaines de kilomètres carrés en Méditerranée orientale. Or, faute d’accord bilatéral, cette ZEE n’est pas formellement établie pour Ankara, qui revendique d’y avoir librement accès, surtout depuis la découverte en Méditerranée orientale de gisements d’#hydrocarbures potentiellement exploitables. À plusieurs reprises ces derniers mois, la Turquie a envoyé dans le secteur un bateau de recherche sismique baptisé #Oruç_Reis, du nom d’un corsaire ottoman du XVIe siècle — surnommé « #Barberousse » — né à Lesbos et devenu sultan d’Alger.

    Ces manœuvres navales font écho à l’idéologie de la « #patrie_bleue » (#Mavi_Vatan). Soutenue par les nationalistes et les islamistes, cette doctrine, conçue par l’ancien amiral #Cem_Gürdeniz, encourage la Turquie à imposer sa #souveraineté sur des #zones_disputées en #mer_Noire, en mer Égée et en #Méditerranée. Ces derniers mois, M. Erdoğan a multiplié les discours martiaux. Le 26 août, à l’occasion de l’anniversaire de la bataille de Manzikert, en 1071, dans l’est de la Turquie, où les Turcs Seldjoukides mirent en déroute l’armée byzantine, il avertissait la Grèce que toute « erreur » mènerait à sa « ruine ». Quelques semaines plus tard, le 21 octobre, lors d’une rencontre avec les présidents chypriote et égyptien à Nicosie, M. Kyriakos Mitsotakis, le premier ministre grec conservateur, accusait la Turquie de « fantasmes impérialistes assortis d’actions agressives ».

    Sous pression en août dernier, Athènes a pu compter sur le soutien de la République de Chypre, de l’Italie et de la France, avec lesquelles elle a organisé des manœuvres communes. Ou encore de l’Égypte, avec laquelle elle vient de signer un accord de partage des #zones_maritimes. Déjà en conflit ouvert avec son homologue turc sur la Syrie, la Libye et le Caucase, le président français Emmanuel Macron s’est résolument rangé aux côtés d’Athènes. « C’est un allié précieux que l’on voudrait inviter à venir sur notre île », déclare l’adjoint à la municipalité de Kastellorizo, M. Stratos Amygdalos, partisan de Nouvelle Démocratie, le parti au pouvoir. À la mi-septembre 2020, la Grèce annonçait l’acquisition de dix-huit Rafale, l’avion de combat de Dassault Aviation.

    « Erdoğan se prend pour Soliman le Magnifique. Mais il perd du crédit dans son pays, la livre turque s’effondre. Alors il essaie de redorer son image avec des idées de conquêtes, de rêve national… », maugrée de son côté M. Konstantinos Raftis, guide touristique à Kastellorizo. La comparaison entre le sultan de la Sublime Porte et l’actuel président turc revient fréquemment dans ce pays qui fit partie de l’Empire ottoman durant quatre siècles (de 1430, date de la chute de Salonique, à l’indépendance de 1830). La résistance hellénique a forgé l’identité de l’État grec moderne, où l’on conserve une profonde suspicion à l’égard d’un voisin encombrant, quatre fois plus riche, six fois plus grand et huit fois plus peuplé. Cette méfiance transcende les clivages politiques, tant le #nationalisme irrigue tous les partis grecs. Athènes voit aujourd’hui dans la doctrine de la « patrie bleue » une politique expansionniste néo-ottomane, qui fait écho à l’impérialisme passé.

    À l’embouchure du port de Kastellorizo, la silhouette d’une mosquée transformée en musée — rare vestige de la présence ottomane — fait de l’ombre à un bar à cocktails. L’édifice trône seul face aux vingt-six églises orthodoxes. La Constitution précise que l’orthodoxie est la « religion dominante » dans le pays, et, jusqu’en 2000, la confession était inscrite sur les cartes d’identité nationales. La suppression de cette mention, à la demande du gouvernement socialiste, a provoqué l’ire de la puissante Église orthodoxe, plus de 95 % des Grecs se revendiquant alors de cette religion. « Pendant toute la période du joug ottoman, nous restions des Grecs. Nos ancêtres ont défendu Kastellorizo pour qu’elle garde son identité. Nous nous battrons aussi pour qu’elle la conserve », s’emballe soudainement M. Raftis.

    Son île a dû résister plus longtemps que le reste du pays, insiste le sexagénaire. Après le départ des Ottomans, Kastellorizo, convoitée par les nations étrangères pour sa position géographique aux portes de l’Orient, a été occupée ou annexée par les Français (1915-1921), les Italiens (1921-1944), les Britanniques (1944-1945)… L’îlot n’est devenu complètement grec qu’en 1948, comme l’ensemble des îles du Dodécanèse. Depuis, il arbore fièrement ses couleurs. Dans la baie, plusieurs étendards bleu et blanc flottent sur les balcons en encorbellement orientés vers la ville turque de Kaş (huit mille habitants). Le nombre de ces drapeaux augmente quand la tension s’accroît.

    Trois autres grands étendards nationaux ont été peints sur les falaises par des militaires. En serrant les poings, M. Raftis raconte un épisode qui a « mis les nerfs de tout le monde à vif ». À la fin septembre 2020, un drone d’origine inconnue a diffusé des chants militaires turcs avant d’asperger ces bannières d’une peinture rouge vif, évoquant la couleur du drapeau turc. « C’est une attaque impardonnable, qui sera punie », peste l’enfant de l’île, tout en scrutant les quelques visages inconnus sur la promenade. Il redoute que des espions viennent de Turquie.

    « Les #tensions durent depuis quarante ans ; tout a toujours fini par se régler. Il faut laisser la Turquie et la Grèce dialoguer entre elles », relativise pour sa part M. Tsikos Magiafis, patron avenant d’une taverne bâtie sur un rocher inhabité, avec une vue imprenable sur Kaş. « Les querelles sont affaire de diplomates. Les habitants de cette ville sont nos frères, nous avons grandi ensemble », jure ce trentenaire marié à une Turque originaire de cette cité balnéaire. Adolescent, déjà, il délaissait les troquets de Kastellorizo pour profiter du bazar de Kaş, du dentiste ou des médecins spécialisés qui manquent au village. Les Turcs, eux, ont compté parmi les premiers touristes de l’île, avant que la frontière ne ferme totalement en mars 2020, en raison du Covid-19.

    À Lesbos, les réfugiés comme « #arme_diplomatique »

    À 450 kilomètres plus au nord-ouest, au large de l’île de Lesbos, ce ne sont pas les navires de recherche d’hydrocarbures envoyés par Ankara que guettent les Grecs, mais les fragiles bateaux pneumatiques en provenance de la côte turque, à une dizaine de kilomètres seulement. Cette île montagneuse de la taille de la Guadeloupe, qui compte 85’000 habitants, constitue un autre point de friction, dont les migrants sont l’instrument.

    Depuis une décennie, Lesbos est l’une des principales portes d’entrée dans l’Union européenne pour des centaines de milliers d’exilés. Afghans, Syriens, Irakiens ou encore Congolais transitent par la Turquie, qui accueille de son côté environ quatre millions de réfugiés. En face, le rivage turc se compose de plages peu touristiques et désertes, prisées des passeurs car permettant des départs discrets. Les migrants restent toutefois bloqués à Lesbos, le temps du traitement de leur demande d’asile en Grèce et dans l’espoir de rejoindre d’autres pays de l’espace Schengen par des voies légales. Le principal camp de réfugiés, Moria, a brûlé dans des conditions obscures le 8 septembre, sans faire de victime grave parmi ses treize mille occupants.

    Pour M. Konstantinos Moutzouris, le gouverneur des îles égéennes du Nord, ces arrivées résultent d’un calcul stratégique d’Ankara. « Erdoğan utilise les réfugiés comme arme diplomatique, il les envoie lorsqu’il veut négocier. Il a une attitude très agressive, comme aucun autre dirigeant turc avant lui », accuse cette figure conservatrice locale, connue pour ses positions tranchées sur les migrants, qu’il souhaite « dissuader de venir ».

    Il en veut pour preuve l’épisode de tension de mars 2020. Mécontent des critiques de l’Union européenne lors de son offensive contre les Kurdes dans le nord de la Syrie, le président turc a annoncé l’ouverture de ses frontières aux migrants voulant rejoindre l’Europe, malgré l’accord sur le contrôle de l’immigration qu’il a passé avec Bruxelles en mars 2016. Plusieurs milliers de personnes se sont alors massées aux portes de la Grèce, à la frontière terrestre du Nord-Est, suscitant un renforcement des troupes militaires grecques dans ce secteur. Dans le même temps, à Lesbos, une dizaine de bateaux chargés de réfugiés atteignaient les côtes en quelques jours, déclenchant la fureur d’extrémistes locaux. « Nous ne communiquons plus du tout avec les autorités turques depuis », affirme M. Moutzouris.

    Athènes assume désormais une ligne dure, quitte à fermer une partie de sa frontière commune avec la Turquie aux demandeurs d’asile, en dépit des conventions internationales que la Grèce a signées. Le gouvernement a ainsi annoncé mi-octobre la construction d’un nouveau #mur de 27 kilomètres sur la frontière terrestre. Au début de l’année 2020, il avait déjà déclaré vouloir ériger un #barrage_flottant de 2,7 kilomètres au large de Lesbos. Un ouvrage très critiqué et jugé illégal par les organisations non gouvernementales (ONG) de défense des droits humains. Un projet « absurde », juge M. Georgios Pallis, pharmacien de l’île et ancien député Syriza (gauche). Plusieurs sources locales évoquent une suspension de la construction de ce barrage. Le gouvernement, lui, ne communique pas à ce sujet.

    « Les réfugiés payent la rupture du dialogue gréco-turc », déplore M. Pallis entre deux mezze arrosés de l’ouzo local, près du port bruyant de Mytilène, dans le sud de l’île. « Des retours forcés de migrants sont organisés par les gardes-côtes grecs. » En septembre, le ministre de la marine se targuait, au cours d’une conférence de presse, d’avoir « empêché » quelque dix mille migrants d’entrer en 2020. Un mois plus tard, le ministre de l’immigration tentait, lui, de rectifier le tir en niant tout retour forcé. À Lesbos, ces images de réfugiés rejetés ravivent un douloureux souvenir, analyse M. Pallis : « Celui de l’exil des réfugiés d’Asie Mineure. » Appelé aussi en Grèce la « #grande_catastrophe », cet événement a fondé l’actuelle relation gréco-turque.

    Au terme du déclin de l’Empire ottoman, lors de la première guerre mondiale, puis de la guerre gréco-turque (1919-1922), les Grecs d’Asie Mineure firent l’objet de #persécutions et de #massacres qui, selon de nombreux historiens, relèvent d’un #génocide (4). En 1923, les deux pays signèrent le #traité_de_Lausanne, qui fixait les frontières quasi définitives de la Turquie moderne et mettait fin à l’administration par la Grèce de la région d’İzmir-Smyrne telle que l’avait décidée le #traité_de_Sèvres de 1920 (5). Cet accord a aussi imposé un brutal #échange_de_populations, fondé sur des critères religieux, au nom de l’« #homogénéité_nationale ». Plus de 500 000 musulmans de Grèce prirent ainsi le chemin de l’Asie Mineure — soit 6,5 % des résidents de Lesbos, selon un recensement de 1920 (6). En parallèle, le traité a déraciné plus de 1,2 million de chrétiens orthodoxes, envoyés en Grèce. Au total, plus de 30 000 sont arrivés dans l’île. Ils ont alors été péjorativement baptisés les « #graines_de_Turcs ».

    « Ils étaient chrétiens orthodoxes, ils parlaient le grec, mais ils étaient très mal perçus des insulaires. Les femmes exilées de la grande ville d’İzmir étaient surnommées “les prostituées”. Il a fallu attendre deux générations pour que les relations s’apaisent », raconte M. Pallis, lui-même descendant de réfugiés d’Asie Mineure. « Ma grand-mère est arrivée ici à l’âge de 8 ans. Pour s’intégrer, elle a dû apprendre à détester les Turcs. Il ne fallait pas être amie avec “l’autre côté”. Elle n’a pas remis les pieds en Turquie avant ses 80 ans. »

    Enfourchant sa Vespa sous une chaleur accablante, M. Pallis s’arrête devant quelques ruines qui se dressent dans les artères de #Mytilène : d’anciennes mosquées abandonnées. L’une n’est plus qu’un bâtiment éventré où errent des chatons faméliques ; une autre a été reconvertie en boutique de fleuriste. « Les autorités n’assument pas ce passé ottoman, regrette l’ancien député. L’État devrait financer la reconstruction de ces monuments et le développement du tourisme avec la Turquie. Ce genre d’investissements rendrait la région plus sûre que l’acquisition de Rafale. »

    En #Thrace_occidentale, une population musulmane ballottée

    Dans le nord-est du pays, près de la frontière avec la Turquie et la Bulgarie, ce passé ottoman reste tangible. En Thrace occidentale, les #mosquées en activité dominent les villages qui s’élèvent au milieu des champs de coton, de tournesols et de tabac. La #minorité_musulmane de Grèce vit non loin du massif montagneux des #Rhodopes, dont les sommets culminent en Bulgarie. Forte d’entre 100 000 et 150 000 personnes selon les autorités, elle se compose de #Roms, de #Pomaks — une population d’origine slave et de langue bulgare convertie à l’#islam sous la #domination_ottomane — et, majoritairement, d’habitants aux racines turques.

    « Nous sommes des citoyens grecs, mais nous sommes aussi turcs. Nous l’étions avant même que la Turquie moderne existe. Nous parlons le turc et nous avons la même #religion », explique M. Moustafa Moustafa, biologiste et ancien député Syriza. En quelques mots, il illustre toute la complexité d’une #identité façonnée, une fois de plus, par le passé impérial régional. Et qui se trouve elle aussi au cœur d’une bataille d’influence entre Athènes et Ankara.

    Rescapée de l’#Empire_ottoman, la minorité musulmane a vu les frontières de la Grèce moderne se dessiner autour d’elle au XXe siècle. Elle fut épargnée par l’échange forcé de populations du traité de Lausanne, en contrepartie du maintien d’un patriarcat œcuménique à Istanbul ainsi que d’une diaspora grecque orthodoxe en Turquie. Principalement turcophone, elle évolue dans un État-nation dont les fondamentaux sont la langue grecque et la religion orthodoxe.

    Elle a le droit de pratiquer sa religion et d’utiliser le turc dans l’enseignement primaire. La région compte une centaine d’écoles minoritaires bilingues. « Nous vivons ensemble, chrétiens et musulmans, sans heurts. Mais les mariages mixtes ne sont pas encore tolérés », ajoute M. Moustafa, dans son laboratoire de la ville de #Komotini — aussi appelée #Gümülcine en turc. Les quelque 55 000 habitants vivent ici dans des quartiers chrétiens et musulmans érigés autour d’une rivière méandreuse, aujourd’hui enfouie sous le béton. M. Moustafa n’a presque jamais quitté la Thrace occidentale. « Notre minorité n’est pas cosmopolite, nous sommes des villageois attachés à cette région. Nous voulons juste que nos descendants vivent ici en paix », explique-t-il. Comme de nombreux musulmans de la région, il a seulement fait ses études supérieures en Turquie, avant de revenir, comme aimanté par la terre de ses ancêtres.

    À cent kilomètres de Komotini, la Turquie demeure l’« État parrain » de ces musulmans, selon le traité de Lausanne. Mais l’influence de celle que certains nomment la « mère patrie » n’est pas toujours du goût de la Grèce. Les plus nationalistes craignent que la minorité musulmane ne se rapproche trop du voisin turc et ne manifeste des velléités d’indépendance. Son statut est au cœur de la discorde. La Turquie plaide pour la reconnaissance d’une « #minorité_turque ». La Grèce refuse, elle, toute référence ethnique reliée à une appartenance religieuse.

    La bataille se joue sur deux terrains : l’#éducation et la religion. À la fin des années 1990, Athènes a voulu intégrer la minorité dans le système d’éducation publique grec, appliquant notamment une politique de #discrimination_positive et offrant un accès facilité à l’université. Les musulmans proturcs plaident, eux, pour la création de davantage d’établissements minoritaires bilingues. Sur le plan religieux, chaque partie nomme des muftis, qui ne se reconnaissent pas mutuellement. Trois représentants officiels sont désignés par la Grèce pour la région. Deux autres, officieux, le sont par les musulmans de Thrace occidentale soutenus par Ankara, qui refuse qu’un État chrétien désigne des religieux.

    « Nous subissons toujours les conséquences des #crises_diplomatiques. Nous sommes les pions de leur jeu d’échecs », regrette d’une voix lasse M. Moustafa. Le sexagénaire évoque la période qui a suivi le #pogrom dirigé principalement contre les Grecs d’Istanbul, qui avait fait une quinzaine de morts en 1955. Puis les années qui ont suivi l’occupation du nord de #Chypre par la Turquie, en 1974. « Notre minorité a alors subi une violation de ses droits par l’État grec, dénonce-t-il. Nous ne pouvions plus passer le permis de conduire. On nous empêchait d’acheter des terres. » En parallèle, de l’autre côté de la frontière, la #peur a progressivement poussé la communauté grecque de Turquie à l’exil. Aujourd’hui, les Grecs ne sont plus que quelques milliers à Istanbul.

    Ces conflits pèsent encore sur l’évolution de la Thrace occidentale. « La situation s’est améliorée dans les années 1990. Mais, maltraités par le passé en Grèce, certains membres de la minorité musulmane se sont rapprochés de la Turquie, alimentant une méfiance dans l’imaginaire national grec. Beaucoup de chrétiens les considèrent comme des agents du pays voisin », constate M. Georgios Mavrommatis, spécialiste des minorités et professeur associé à l’université Démocrite de Thrace, à Komotini.
    « Ankara compte des milliers d’#espions dans la région »

    Une atmosphère de #suspicion plane sur cette ville, sous l’emprise de deux discours nationalistes concurrents. « Les gens de l’extrême droite grecque nous perçoivent comme des janissaires [soldats de l’Empire ottoman]. Erdoğan, lui, nous qualifie de soydas [« parents », en turc] », détaille d’une voix forte Mme Pervin Hayrullah, attablée dans un café animé. Directrice de la Fondation pour la culture et l’éducation en Thrace occidentale, elle se souvient aussi du passage du président turc dans la région, fin 2017. M. Erdoğan avait dénoncé les « discriminations » pratiquées par l’État grec à l’égard de cette communauté d’origine turque.

    Une chrétienne qui souhaite rester anonyme murmure, elle, que « les autorités grecques sont dépassées. La Turquie, qui est bien plus présente sur le terrain, a davantage de pouvoir. Ankara compte des milliers d’espions dans la région et donne des millions d’euros de budget chaque année au consulat turc de Komotini ». Pour Mme Hayrullah, qui est proche de cette institution, « le consulat ne fait que remplir une mission diplomatique, au même titre que le consulat grec d’Edirne [ville turque à quelque deux cents kilomètres, à la frontière] ». L’allure du consulat turc tranche avec les façades abîmées de Komotini. Surveillé par des caméras et par des gardes en noir, l’édifice est cerné de hautes barrières vertes.

    « La Grèce nous traite bien. Elle s’intéresse au développement de notre communauté et nous laisse exercer notre religion », vante de son côté M. Selim Isa, dans son bureau calme. Le président du comité de gestion des biens musulmans — désigné par l’État grec — est fier de montrer les beaux lustres et les salles lumineuses et rénovées d’une des vingt mosquées de Komotini. « Mais plus les relations avec la Turquie se détériorent et plus le consulat étend son influence, plus il revendique la reconnaissance d’une minorité turque », ajoute M. Isa, regard alerte, alors que l’appel du muezzin résonne dans la ville.

    À l’issue du sommet européen des 10 et 11 décembre, l’Union européenne a annoncé un premier volet de #sanctions contre la Turquie en raison de ses opérations d’exploration. Des mesures individuelles devraient cibler des responsables liés à ces activités. Athènes plaidait pour des mesures plus fortes, comme un embargo sur les armes, pour l’heure écarté. « C’était une proposition-clé. Nous craignons que la Turquie s’arme davantage. Sur le plan naval, elle est par exemple en train de se doter de six #sous-marins de type #214T fournis par l’#Allemagne, explique le diplomate grec Georgios Kaklikis, consul à Istanbul de 1986 à 1989. M. Erdoğan se réjouit de ces sanctions, qui sont en réalité minimes. » Le président turc a réagi par des #rodomontades, se félicitant que des pays « dotés de bon sens » aient adopté une « approche positive ». Bruxelles assure que d’autres mesures pourraient tomber en mars 2021 si Ankara ne cesse pas ces actions « illégales et agressives ».

    https://www.monde-diplomatique.fr/2021/01/PERRIGUEUR/62666
    #Grèce #Turquie #frontière #asile #migrations #réfugiés
    #Oruc_Reis #murs #Evros #barrières_frontalières #histoire

    ping @reka

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    #terminologie #mots #vocabulaire :
    – "Le traité (de Lausanne) a déraciné plus de 1,2 million de chrétiens orthodoxes, envoyés en Grèce. Au total, plus de 30 000 sont arrivés dans l’île. Ils ont alors été péjorativement baptisés les « #graines_de_Turcs »."
    – "Les femmes exilées de la grande ville d’İzmir étaient surnommées “les prostituées”."

    –-> ajoutés à la métaliste sur la terminologie de la migration :
    https://seenthis.net/messages/414225

    ping @sinehebdo

  • Potins de la macronie : Le général Pierre Le Jolis de Villiers de Saintignon ou la tentation d’une percée en politique
    https://www.lemonde.fr/politique/article/2020/12/06/rechercher-un-homme-providentiel-c-est-dans-l-air-du-temps-le-general-pierre

    Depuis sa démission fracassante, en juillet 2017, l’ancien chef d’état-major des armées écrit des livres à succès et murmure à l’oreille des grands patrons.

    La petite assemblée a pris place sous les lustres du salon Cristal de l’hôtel Lutetia. Comme tous les ans, les auteurs des best-sellers de l’année précédente se retrouvent dans ce palace parisien pour un déjeuner organisé par L’Express et RTL. Ce 30 janvier 2019, François Hollande, pour Les Leçons du pouvoir (Stock, 2018), a été placé à la même table que son ancien chef d’état-major, le général Pierre de Villiers, auteur de Qu’est-ce qu’un chef ? (Fayard, 2018), connu pour avoir brutalement démissionné, en juillet 2017, après s’être opposé à Emmanuel Macron sur le budget des armées.

    Devant un saumon fumé aux baies roses, ces deux grands brûlés du macronisme échangent avec gourmandise sur les interminables séances de signature qui, de librairies en salons, leur permettent de sentir l’humeur du pays. Villiers observe combien les propos se sont peu à peu durcis contre le jeune président, devenu la cible des « gilets jaunes ». Hollande, ravi, s’enhardit : « “S’il était devant moi, je l’étranglerais !”, m’a confié une paisible retraitée. » Regard noir de l’ancienne ministre de la culture, Françoise Nyssen, assise à la même table. Le général sourit à Hollande : « Ah, si on nous avait dit, il y a deux ans, quand nous préparions des opérations, qu’on se retrouverait tous les deux ici, on aurait éclaté de rire ! »

    En croisant dans les couloirs du siège de l’état-major des armées, à Balard, la mince silhouette de ce général aimable et discret, peu de hauts gradés auraient en effet imaginé qu’il deviendrait cette figure courtisée et un auteur à succès. Son premier ouvrage, Servir (Fayard, 2017), s’est écoulé en France à 130 783 exemplaires, selon le panel GFK, le deuxième, Qu’est-ce qu’un chef ?, à 141 189 exemplaires. Le dernier en date, L’équilibre est un courage (Fayard, 320 pages, 22,50 euros), en librairie depuis le 14 octobre, a connu un joli démarrage, 30 000 exemplaires, avant le confinement.

    A chaque livre, les séances de dédicace s’éternisent, ferventes. On remercie le général pour son « courage », sa « droiture », pour « avoir rendu leur dignité aux soldats » et « dit non à Macron ». A la librairie Mollat de Bordeaux, le 28 octobre, des lecteurs ont pleuré en l’écoutant. « Ils pleurent sur la France, juge Pierre de Villiers. Ils disent : “Mon général, on marche sur la tête, tout fout le camp, on n’y comprend plus rien, où va-t-on ?” » Le député (Les Républicains, LR) de Haute-Marne François Cornut-Gentille se souvient de l’avoir accueilli dans sa circonscription, en février 2019 : « Il y avait des gens que je n’arrivais pas à situer politiquement et dont c’était la première réunion publique. Ils buvaient du petit-lait. J’ai compris alors qu’il se passait quelque chose autour de lui… Une attente… C’était palpable… »

    Cette attente a été mesurée par l’IFOP pour l’hebdomadaire Valeurs actuelles, le 19 novembre. Vingt pour-cent des Français seraient prêts à voter en sa faveur s’il était candidat à la présidentielle. Un score non négligeable, même s’il ne s’agit pas d’intentions de vote, seulement d’un « potentiel électoral », qui évalue l’intérêt que suscite une personnalité, précise Jérôme Fourquet, le directeur du département Opinion et stratégies d’entreprise de l’institut de sondage. A titre de comparaison, l’humoriste Jean-Marie Bigard avait obtenu 13 % avant l’été, le philosophe Michel Onfray, 9 %. Un bémol, tout de même : 42 % des personnes interrogées disent ne pas connaître l’ancien chef d’état-major, en dépit de sa spectaculaire démission, il y a trois ans.

    Plan médias

    Ce 13 juillet 2017, le général ne se doutait de rien. Il sortait d’une réunion avec Emmanuel Macron et s’apprêtait à écouter sagement son discours, le premier depuis son élection, devant tout le gratin militaire, dans les jardins de l’hôtel de Brienne. Il sursaute en l’entendant dire, à propos des arbitrages budgétaires : « Il n’est pas digne d’étaler ces débats sur la place publique », et rappeler sèchement qui est « le #chef ». Humilié devant ses pairs, Villiers prend l’attaque en plein cœur. La veille, il avait quitté un conseil de défense houleux à l’Elysée et s’était plaint en termes fleuris, devant une commission de l’Assemblée nationale à huis clos, de la faiblesse du budget militaire. Malgré tout, il lui a bien fallu assister, le 14 juillet, debout et crispé aux côtés du président, au défilé sur les Champs-Elysées. Avant de démissionner, cinq jours plus tard. Deux cents militaires lui ont fait une haie d’honneur. Le général a attendu d’être dans sa voiture pour pleurer.

    A l’époque, l’affaire fait des vagues. Jamais un chef d’état-major n’a claqué la porte ainsi. Pierre de Villiers devient celui qui a dit « non » à Macron. Ce dernier comprend trop tard qu’il vient de faire d’un officier inconnu des Français le symbole d’une certaine conception du pays et de la fidélité à ses idéaux. « Il va nous faire chier maintenant, il va faire de la politique », soupirent alors plusieurs généraux.

    Pierre de Villiers, qui n’a plus aucun contact avec le chef de l’Etat, a beau nier tout esprit de revanche, ce 14 juillet 2017 reste une blessure. « Il n’est pas animé par la vengeance mais veut restaurer son honneur bafoué », juge l’ancien coordinateur du renseignement à l’Elysée, Didier Le Bret. De là à penser qu’il veut battre Macron sur son terrain, il n’y a qu’un pas. A dix-huit mois de la présidentielle, alors que le contexte politique n’a jamais été aussi volatil, l’intense plan médias du général a de quoi intriguer. D’autant que l’intéressé, et c’est la nouveauté du moment, se plaît à cultiver l’ambiguïté. Tranchée il y a un an, sa réponse ne l’est plus autant. « Je suis un officier, la politique n’est pas ma vocation, répète-t-il au Monde. Mais je ne peux plus dire avec fermeté que je ne fais pas de politique, parce que je ne peux nier que mon dernier livre est politique. » S’il assure qu’il ne s’agit pas pour autant d’un « marchepied pour une élection », Pierre de Villiers concède que la pression du public s’est accrue. « Pour les deux livres précédents, c’était : “Merci pour votre exemple, on a besoin d’une voix comme la vôtre.” Là, les gens disent : “Présentez-vous en 2022, ne nous abandonnez pas !” »

    Dans l’armée, beaucoup estiment toutefois qu’il n’est ni un homme de pouvoir ni un politique. Trop « boy-scout », pas assez florentin. Qu’avant de se faire humilier par Emmanuel Macron, il s’était fait « duper » par Hollande. « C’est un homme loyal et sincère, mais il a une confiance excessive dans la parole donnée », confirme un ancien du cabinet Le Drian à la défense. Didier Le Bret, qui l’a observé pendant les conseils de défense, décrit, à l’inverse, un homme « courageux », capable d’oser « dire la vérité », « le contraire d’un courtisan » mais « certainement pas un perdreau de l’année ».

    « Je suis un serviteur »

    Le général assume « ne pas être un homme de pouvoir », tout en revendiquant une « connaissance parfaite » de l’Etat. Il est vrai que, en dehors d’un commandement de quatre mois, en 2006-2007, pour l’OTAN en Afghanistan et d’un séjour de cinq mois au Kosovo, en 1999, il a passé l’essentiel de sa carrière dans les bureaux, à Paris. Douze ans à l’état-major de l’armée de terre, puis à la direction des affaires financières du ministère, où il a côtoyé plusieurs premiers ministres, « une année avec M. Raffarin, une année avec M. Villepin et presque deux avec M. Fillon », comme chef de son cabinet militaire à Matignon en 2008. « Le pouvoir, je l’ai connu. Je sais réfléchir à autre chose que la poudre à canon ! Mais je suis un serviteur, pas un billard à quatre bandes. »

    Sur le fond, Pierre Le Jolis de Villiers de Saintignon – son nom complet – est un militaire trempé très tôt dans le catholicisme social [sic] . Il croit aux vertus de l’exemple et veut réconcilier la France dans l’amour du prochain. Pour lui, l’armée est un laboratoire et un modèle d’intégration sociale. Si Macron rêve d’une France de start-up, lui la voit plutôt comme un bataillon, où l’on obéit « par amitié ». « La vraie richesse, c’est les autres, plaide-t-il, ce n’est pas un hasard si le chapitre de mon livre le plus important s’appelle comme ça. » Du coup, le général a assez peu goûté la « une » de Charlie Hebdo, le 25 novembre. Sous le titre « Villiers président », le dessinateur Salch le croquait avec « les oreilles du Général », « le képi du Maréchal » et « le programme de la 7e compagnie ».

    Son dernier livre dresse en effet une série de constats de « bon sens » – le mot revient souvent. L’auteur a des campagnes une image charmante, regrette « le bon sens paysan », le temps des lampes à huile et de la marine à la voile. Pour lui, « il y a dans notre société une culture du #travail minimal » ; la #famille « reste, de loin, la valeur sacrée dans la débâcle générale de nos croyances » ; la #patrie est « une notion jugée non comestible dans l’empire du politiquement correct ». Sur la boîte de son casoar, qu’il conserve pieusement, son binôme de Saint-Cyr a inscrit : « Mon âme à Dieu, mon corps à la patrie, mon cœur à la famille. » Il assume sans ciller Renaud Camus et sa peur du #grand_remplacement, sans même y mettre un guillemet.

    Politiquement, le général refuse de se situer, comme souvent à droite. « Moi, je suis différent, dit-il. Je ne me sens pas dans un parti. J’ai servi la gauche et la droite, c’est comme ça. Ma ligne de conduite, ma colonne vertébrale, c’est l’unité. » Tout en admettant être issu d’une famille de droite, il ne comprend pas les clivages politiques : « Pour moi, il n’y a qu’une réconciliation. » Ainsi reste-t-il très ami avec le général Bertrand de la Chesnais, candidat (malheureux) à Carpentras et soutenu par le Rassemblement national. Mais il entretient aussi d’excellentes relations avec François Hollande, Jean-Yves Le Drian ou Jean-Louis Borloo, qui « l’aime bien » et échange avec lui sur l’état du pays. « Il se voit comme quelqu’un qui va essayer de retisser le lien social, analyse l’eurodéputé (LR) Arnaud Danjean. Il est consensuel, très intégrateur. Ceux de droite et d’extrême droite qui seraient exclusivement tentés par son côté “mili” seraient déçus par sa modération. »

    Depuis son départ, l’ancien chef d’état-major des armées est devenu un objet de fantasme. En 2019, des « gilets jaunes » ont voulu voir en lui un recours : l’un des porte-parole du mouvement, Christophe Chalençon, l’aurait bien vu à Matignon. A gauche, Ségolène Royal lui a proposé − en vain − un livre de dialogue entre « un homme de droite et une femme de gauche » attachés à « l’ordre juste ». « J’aime ce que vous incarnez », lui a-t-elle glissé au téléphone.

    Mais c’est sans surprise à droite que ses courtisans sont les plus nombreux. Dans un parti divisé, sans leader, les élus LR sentent bien qu’il répond à un besoin d’autorité puissant dans la société. Arnaud Danjean reçoit des SMS de ses militants sur le thème, « Tu en penses quoi du général de Villiers ? » A Nice, le député (LR) des Alpes-Maritimes Eric Ciotti avoue, lui aussi, qu’on lui parle du général. Il a demandé à le rencontrer, comme de nombreux élus des Républicains, de Geoffroy Didier à Damien Abad en passant par Valérie Pécresse. Quelques mois avant les européennes de 2019, il a été approché par l’ex-numéro deux de LR, Virginie Calmels, qui venait de quitter le parti de Laurent Wauquiez. L’élue de Bordeaux lui a proposé un « ticket » à la tête d’une liste hors parti : à lui le régalien, à elle l’économie. Le général a demandé à réfléchir avant de décliner, invoquant notamment les réticences de son épouse, Sabine, très réservée sur un engagement politique.

    Rivalité fraternelle

    A la droite de la droite, où l’on ne nourrit aucune sympathie pour le général, son succès commence vaguement à inquiéter. Pas tant Marine Le Pen, même si 29 % de ses électeurs ont dit, dans le sondage IFOP, être tentés de voter pour lui. Le très catholique Jean-Frédéric Poisson, président du Parti chrétien-démocrate et candidat à la présidentielle, a plus de raisons d’être attentif, mais il est convaincu que le général ne se présentera pas. « Villiers veut seulement participer au débat public », dit-il. Moins amène, le polémiste Eric Zemmour l’a exécuté en dix minutes sur CNews, le 6 octobre : « Il y a une double demande d’autorité et de patriotisme, et en France quand la patrie est en danger, on va chercher un général. Mais j’ai été frappé par le décalage entre l’attente d’un homme à poigne et de Villiers. C’est un homme de paix, une espèce de lieu commun consensuel assez étonnant. Ce n’est pas vraiment un Bonaparte, plutôt un dalaï-lama. »

    Un autre surveille son ascension médiatique : son frère Philippe. L’homme du Puy du Fou ne voit pas d’un très bon œil cette incursion sur son terrain, la politique. Officiellement, il affiche son « affection » pour son cadet et refuse de parler de compétition, quand Pierre vend trois fois plus de livres que lui. « Mon frère a une expérience personnelle riche et il voit le pays qui se délite, au bord de l’abîme, indique Philippe de Villiers. Finalement, on fait le même constat, lui et moi. »

    Dans la fratrie, quatre frères et une sœur décédée, la relation entre Philippe, 71 ans, et Pierre, 64 ans et père de six enfants, a toujours été complexe. Flamboyant, séducteur et bretteur, le premier a longtemps été une ombre encombrante pour le second. Même si cela n’a pas gêné sa carrière militaire, il a souffert d’être constamment associé à cet aîné aux idées si tranchées. « On me regarde de travers car je suis le frère de Philippe de Villiers ? Mais j’ai le droit d’exister, d’être moi-même ! », s’agace-t-il encore. Politiquement, tous deux partagent la même éducation, traditionnelle et catholique – « à la paysanne », résume Philippe –, un conservatisme certain et la passion du football. Mais Pierre, qui a préféré travailler avec Hollande qu’avec Sarkozy, est « plus tolérant, plus ouvert », juge l’un de ses amis. Avec un brin de perversité, Emmanuel Macron n’a rien arrangé en cajolant ostensiblement Philippe, alors qu’il avait humilié Pierre.

    A l’Elysée, où l’on redoute l’émergence d’un candidat « hors système » prêt à venir troubler le jeu présidentiel, le phénomène Villiers est suivi de près. « Ça fout la trouille », confiait un conseiller de Macron avant l’été, alors que les crises sanitaire et sécuritaire alimentent la défiance envers le pouvoir. Un stratège de l’exécutif croit d’ailleurs savoir que le général « se prépare ».

    De fait, la rumeur agite le microcosme, sans que rien ne vienne, à ce stade, l’étayer. L’intéressé, qui cloisonne avec une redoutable efficacité, jure qu’il ne rassemble pas une équipe, et concède seulement recevoir des « offres de services ». Une poignée de jeunes gens brillants et bien nés, orphelins de candidat, se plaisent en effet à lui délivrer quelques conseils. L’avocat et chroniqueur Charles Consigny, séduit par son côté gaullien, lui a fait passer une note. Il l’avait interrogé sur le plateau de l’émission télévisée de Laurent Ruquier, « On n’est pas couché », en novembre 2018. « Villiers avait même retourné Christine Angot ! », se souvient le chroniqueur.

    En société unipersonnelle

    Le général en est le premier surpris. Au lendemain de sa démission, il se demandait bien ce qu’il allait faire de sa vie. « Je n’ai jamais été seul, convient-il. C’était la première fois. » Il déménage de son bel appartement de fonction, aux Invalides, et cherche des revenus. Comme chef d’état-major des armées, il gagnait 10 000 euros net – de l’argent de poche pour un militaire nourri, logé, véhiculé –, mais il n’en touche, à la retraite, que la moitié. Il a heureusement quelques précieux contacts, dont Augustin de Romanet, le PDG du Groupe ADP (ex-Aéroports de Paris), rencontré au cabinet de Jean-Pierre Raffarin, qui lui donne des conseils pour se reconvertir.

    Dès le 3 août 2017, le général fonde la société unipersonnelle « Pierre de Villiers », chez lui, dans sa ferme vendéenne, avec un capital de 1 000 euros, un objet social très large de conseil en stratégie, et s’attelle à l’écriture de Servir. Une quinzaine d’éditeurs l’avaient appelé après sa démission. Il choisit Fayard. Et réécrit un peu l’histoire. « Ça s’est passé par hasard, au sens où Sophie de Closets [la directrice de Fayard], la plus futée, m’a dit : “Je publierai le livre que vous voulez écrire.” Moi, je n’aime pas qu’on m’impose des choses. » En réalité, c’est Philippe de Villiers qui a négocié l’arrivée de son petit frère, en expliquant franchement qu’il avait besoin d’argent. D’où un premier à-valoir, quasi historique en France, de 400 000 euros.

    Chez Fayard, Villiers est édité par Nicolas Diat, un personnage, une sorte de Mazarin de l’édition. Ex-conseiller spécial de Laurent Wauquiez, pendant le quinquennat de Nicolas Sarkozy, il a fait glisser son talent et son influence dans le monde de l’édition. C’est notamment lui qui a réussi à débaucher d’Albin Michel, en 2019, Philippe de Villiers, auteur prolifique de quelque 29 livres. Nicolas Diat est un homme discret, fin connaisseur de la droite catholique : il a ses entrées au Vatican, écrit de pieux ouvrages et a publié notamment celui du très conservateur et polémique cardinal Robert Sarah.

    Quand Servir sort, en novembre 2017, « j’avais eu zéro client, zéro contact », poursuit le général. Grâce au succès du livre, il entre en relation avec l’Association progrès du management et passe quelques demi-journées avec de petits entrepreneurs. « Vous faites une intervention sur un thème, ils vous posent des questions, c’est très sympa », se félicite Villiers. C’est alors que François Dalens, le patron de la branche française du Boston Consulting Group (BCG), le sollicite. Le BCG est l’un des trois leaders mondiaux du conseil en stratégie ; son bureau parisien conseille 60 % des entreprises du CAC 40. « Je voyais bien la richesse qu’il y avait à croiser les approches entre pensées militaire et civile, témoigne M. Dalens. Il m’a dit qu’il ne connaissait rien au monde de l’entreprise, je lui ai répondu que les problèmes des chefs sont souvent les mêmes. »

    Le général, devenu « senior advisor » du BCG, passe devant une commission de déontologie et prend l’engagement de ne toucher en rien au secteur de la défense. Il intervient un jour par semaine ou par mois, à son gré, auprès des clients du BCG ou en interne. Mais la nouvelle passe mal chez les militaires : le général de Villiers, apôtre de la souveraineté nationale, s’est vendu aux Américains ! Pas du tout, assure François Dalens, le bureau de Paris appartient à ses 70 directeurs français, qui travaillent avec des entreprises françaises, de Danone à L’Oréal.

    Le général a aussi confié ses intérêts à la communicante Claudine Pons, directrice à poigne de l’agence Les Rois mages et proche du criminologue et consultant en sécurité Alain Bauer. Elle organise ses conférences, lui prépare des « media trainings », qu’elle mène aux côtés de l’indispensable Nicolas Diat, et gère son agenda. En trois ans, Villiers a donné près de 110 conférences, dont 55 à titre gracieux, aux associations, aux grandes écoles, et 35 payantes, à de grandes entreprises – sans compter ses cours à Sciences Po. « Je suis complètement débordé, déclare-t-il, en souriant, je croule sous les propositions ! Les Rois mages m’aident, ils font office de cabinet. »

    « Formidable marketing »

    Le général en convient : « J’ai une vie qui est beaucoup plus confortable que celle que j’avais quand j’étais dans l’armée. Mais je n’ai pas envie du tout de faire fortune. Moi, je mène une vie normale, je prends le métro. L’argent est un mauvais maître. » Pierre de Villiers dit être resté simple, mais facture ses conférences 5 000 euros ; c’est aussi ce qu’il gagne au BCG par demi-journée. Il a obtenu de Fayard 150 000 euros d’à-valoir pour son second livre, 250 000 pour le troisième. Depuis octobre 2019, il est également administrateur du groupe Adeo (Leroy Merlin). « Mais je fais des dons importants, c’est aussi une façon de redistribuer ce que l’armée me donne, parce qu’une partie de mon succès est due à l’institution que je porte. » Il est effectivement membre de l’Association pour le développement des œuvres d’entraide dans l’armée (ADO) et lui verse, depuis ses succès éditoriaux, des dons « très significatifs ». « Je passe le voir tous les ans à la fin de l’année, rigole le général Robert Hérubel, délégué général de l’ADO, en lui souhaitant de faire un nouveau livre l’an prochain. »

    Le général mène ainsi gaillardement sa petite entreprise, entre Nicolas Diat et Claudine Pons, qui ne sont pas toujours d’accord. Le premier veut vendre des livres, et c’est plutôt réussi, mais, comme le confie un proche du général, « il est démangé par la politique et se veut un peu conseiller de l’ombre. D’ailleurs, il n’est pas mauvais. Il est drôle, intelligent, flatteur… » C’est Diat qui a trouvé le titre de L’équilibre est un courage, une citation obscure d’Albert Camus, et fait ajouter le bandeau « Réparer la France », qui colore sensiblement la démarche. Claudine Pons, pour sa part, préférait Halte au feu !, le titre du premier chapitre et le mot de la fin. D’après elle, « plus ils vont le tirer vers la politique, moins il va vendre de livres. C’est un mauvais calcul ». Chez les militaires, pareille réussite éditoriale stupéfie. « Il n’y a rien dans ses livres qui justifie des tirages comme ça, s’étonne un haut gradé. Formidable marketing de Fayard, qui active le vieux mythe français de l’homme providentiel. »

    Pierre de Villiers joue le jeu. Il sait à merveille répondre à côté, a bien compris qu’on ne sort de l’ambiguïté qu’à son détriment et pratique avec brio l’art de la digression. Mais il s’agace des pressions et reste soucieux de sa liberté, comme s’il redoutait que le phénomène lui échappe. « Personne ne me dictera quoi que ce soit, se cabre-t-il. On veut me fabriquer un personnage, je suis comme je suis. J’ai 64 ans, l’essentiel de ma vie est derrière moi, qu’on me foute la paix. » Mi-novembre, il a annulé « Le Grand Rendez-vous politique », d’Europe 1, au grand dam de son éditeur, et s’est réfugié dix jours en Vendée, pour souffler, aux côtés de son épouse, qui « l’empêche de prendre la grosse tête », selon les intimes du couple.

    Un signe de plus pour ceux qui doutent que le général, qui « déteste les diviseurs », soit prêt à descendre dans l’arène, en renonçant à sa popularité et à sa position en surplomb. En privé, Pierre de Villiers ne tait pas ses critiques envers Emmanuel Macron, ni ses inquiétudes pour le pays, mais se dévoile le moins possible. « Tout cela se jouera très tard », glisse-t-il. Mais le député LR Julien Aubert, qui l’a invité à prendre un café à l’Assemblée, a senti un homme peu à l’aise avec les codes politiques et n’aimant ni le conflit ni la compétition. « La politique a trop fait souffrir ma famille », répète le général. Il a d’ailleurs décliné l’invitation du député à venir débattre lors de l’université d’été de LR. « Je pense que c’est le genre de type qui se dit : “Si c’est la guerre civile, si le pays s’écroule, je suis là”, résume Aubert. Au fond, Villiers, c’est davantage Cincinnatus que Jules César : “J’ai le glaive mais je ne marcherai sur Rome que si Rome est menacée.” » Lui assure, agacé, qu’il « n’est pas le général Boulanger », le ministre de la guerre de 1886 qui, porté par l’émotion populaire, avait ébranlé la IIIe République – avant de se suicider.

    Son frère Bertrand, le propriétaire de la radio vendéenne Alouette FM, n’a aucun doute. « Son engagement est celui d’un citoyen, il n’a pas du tout l’intention d’entrer en politique, ce n’est pas sa nature profonde, et je le connais depuis soixante-quatre ans », sourit le troisième enfant de la fratrie. « Comme Philippe », Bertrand se dit surpris par « l’emballement » autour de Pierre, certes « quelqu’un de bien, d’intègre, et les gens le sentent ». Mais il y voit le signe d’un vide politique, d’un désarroi. Lui qui a préparé deux élections présidentielles pour son frère Philippe, en 1995 et 2007, sait les difficultés de l’entreprise. « Les sondages, c’est de l’écume, conclut-il. Le général de Villiers, c’est combien de divisions ? Rechercher un homme providentiel, c’est dans l’air du temps. De là à confier à Pierre les pleins pouvoirs… Ce n’est pas dans la tradition familiale. Nous, on est plutôt dans la résistance. »

    #encasdeguerrecivile #édition

  • Marginalità e #piccole_patrie in #Rigoni_Stern e oggi

    Ho passato l’estate a leggere romanzi contemporanei italiani (da Veronesi a Durastanti, Covacich, Perrella, Terranova, Vicari, Bazzi…), afroitaliani (Igiaba Scego) e americani (Whitehead, una mezza delusione nonostante il Pulitzer), ma nessuno mi ha dato l’emozione e la gioia di un vecchio libro di Rigoni Stern, regalatomi in agosto da un amico, un dolce amico avrebbero detto gli antichi latini. Si tratta di due racconti lunghi accomunati dall’argomento: contadini e montanari in una terra fra i monti, marginale e di confine, fra Italia e Austria: Storia di Tönle e L’anno della vittoria, il primo del 1978, il secondo del 1985, ma riuniti in volume unitario da Einaudi già nel 1993. E in effetti L’anno della vittoria, quello immediatamente successivo alla conclusione della prima guerra mondiale, sembra la continuazione ideale di Storia di Tönle, che termina con la morte del protagonista alla fine del 1918.

    Nei due racconti gli abitanti della piccola patria non parlano fra loro né italiano né veneto né tedesco, ma un’”antica lingua” (come vi si legge) più vicina al tedesco che all’italiano (ma con qualche influenza anche del ladino, se non erro). E tuttavia i protagonisti conoscono bene, e speditamente parlano, italiano, tedesco, veneto. E si capisce: il protagonista, per esempio, è italiano ma ha fatto il soldato nell’esercito dell’impero austroungarico agli ordini di un ufficiale certamente anche lui italiano, il maggiore Fabiani, e pratica il piccolo contrabbando di nascosto alla polizia di frontiera dei due stati, ma talora anche con il suo interessato accordo, e vive per alcuni anni facendo il venditore ambulante (vende stampe iconografiche, che diffondevano nel centro Europa la lezione dei grandi maestri della pittura italiana) in Boemia, Austria, Polonia, Ungheria mentre alcuni suoi amici e conterranei si spingono sino ai Carpazi, all’Ucraina e alla lontana Russia. Sono certo contadini e montanari, ma sanno leggere e scrivere e conoscono Vienna, Cracovia, Praga, Budapest, oltre naturalmente a Venezia, Belluno, Trento. La loro piccola patria non conosce confini: è il luogo della casa e della famiglia, dei parenti, degli amici e dei morti, a cui il protagonista sempre fa ritorno dopo ogni viaggio; ma è una patria aperta al mondo, senza angustie e senza limiti, una patria dove ancora le stagioni dell’anno scorrono con il ritmo della natura annunciato dal canto e dal volo degli uccelli, dal succedersi dei raccolti e dalla trasformazione delle piante. In questa terra l’unico vero nemico è la miseria contro cui lottano tenacemente in modo solidale tutte le famiglie.

    Su questa piccola patria si abbatte la grande guerra, che distrugge le case e le messi, una guerra incomprensibile e assurda che mette gli uni contro gli altri amici di vecchia data e persino membri della stessa famiglia. Il protagonista, che sa fare ogni mestiere (altre al contrabbandiere e al venditore ambulante, è stato contadino, muratore, allevatore di cavalli), si riduce a fare il pastore di un piccolo gregge che vaga per monti e valli cercando di evitare gli opposti eserciti e le cannonate che essi si scambiano, sinché, arrestato dai militari italiani e mandato verso Venezia, riesce a fuggire e muore per l’età e per gli stenti nel suo viaggio di ritorno alla vecchia casa, che nel frattempo i bombardamenti hanno distrutto.

    Quando uscì L’anno della vittoria Giulio Nascimbeni scrisse sul “Corriere della sera” che questo libro sarebbe dovuto diventare un testo di lettura per le nostre scuole, ma non ne spiegò bene i motivi. Disse solo che era “esemplare” (immagino dal punto di vista morale) e “poetico”. Mi azzardo a fornire qualche altra ragione.

    Una ragione, intanto, è di tipo storico. Quando si studia la prima guerra mondiale sembra che si contrappongano solo due posizioni: quella degli interventisti (non solo d’Annunzio ma la maggior parte degli intellettuali italiani) e quella dei neutralisti e pacifisti (nell’arco che va da Croce e Giolitti al papa cattolico che condannava “l’inutile strage”). Ma gli abitanti della piccola patria di cui qui si parla, come molti contadini mandati al fronte, non sono interventisti e nemmeno pacifisti o sostenitori della neutralità. Nella loro cultura la guerra è solo insensata perché oppone uomini abituati alla solidarietà nella lotta contro la miseria, il freddo, la fame, la febbre spagnola: nel mondo della piccola patria l’aiuto reciproco è necessario e indiscutibile. Per loro le frontiere non hanno ragione d’essere e sembrano esistere solo per essere superate con astuzia e abilità. Loro vivono fra le frontiere e nonostante le frontiere. La loro piccola patria è insomma una civiltà autonoma, diversa da quella italiana o austriaca o genericamente “occidentale”.

    Si dirà che proprio per questo sono condannati alla inessenzialità e alla marginalità. Ma siamo proprio sicuri che il centro in cui viviamo noi (il cosiddetto Occidente) sia portatore di una civiltà migliore?

    Una seconda ragione è, infatti, la straordinaria attualità della marginalità. Se oggi si intravede una qualche possibilità di cambiamento non viene proprio dai marginali (come sono, per esempio, gli esuli e gli emigrati, che spesso incontriamo fra di noi di nuovo come venditori ambulanti)? Gli stessi insegnanti, e la massa proletarizzata di quelli che un tempo si chiamavano intellettuali, non sono un esempio di marginalità? Non sono costretti a una sorta di contrabbando, a una vita difficile fra le frontiere e i muri con cui oggi si cerca di difendere patrie ormai prive di ideali, che non siano quelli economici, e costrette ad arroccarsi riesumando propagande a sfondo razzista e nazionalista? Non cerchiamo anche noi (noi intellettuali, noi insegnanti) di far passare di contrabbando valori di solidarietà che la nostra civiltà ormai ignora o addirittura combatte? La scuola stessa oggi non è una piccola patria assediata da una civiltà aliena?

    https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/1252-marginalit%C3%A0-e-piccole-patrie-in-rigoni-stern-e-oggi.html

    #petites_patries #petite_patrie #frontières #misère #faim #montagnards #paysans #patrie #nationalisme #identité #guerre #WWI #première_guerre_mondiale #entraide #marginalité

  • #Sacrario_militare #Redipuglia
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Cimeti%C3%A8re_militaire_de_Redipuglia

    Quelques photos prises le 08.05.2019:

    Un monument impressionnant, très très imposant:

    Et cette liste infinie de noms... avec cette inscription à gros caractères PRESENTE ("présent"):


    Et une place spéciale pour une infirmière, #Margherita_Kaiser_Parodi

    Ne nous oubliez pas!

    Quelques #chiffres des #pertes de vies humaines


    #morts

    Non curiosità di vedere
    ma proposito di ispirarvi
    vi conduca

    Agli invitti
    che diedero per la Patria
    tutto il sangue
    solo è degno di accostarsi
    chi ha nel cuore la Patria


    #patrie

    Et des #graffitis de #guerre dont on peut voir les photos dans le musée...

    Avec cette introduction:
    Se un giorno gli uomini taceranno.
    Se l’ingratitudine ucciderà ogni ricordo
    grideranno le pietre


    #pierres #mémoire #souvenir

    #mémoriel #musée #WWI #première_guerre_mondiale #monument #Italie #guerre

    ping @reka

    • Pour Troie, c’est aussi assez largement daté, c’est du Ronsard, sur le modèle de l’Énéide pour un pouvoir central qui cherche à affirmer une légitimité en exhibant une ancienneté vénérable…
      La Franciade — Wikipédia
      https://fr.wikipedia.org/wiki/La_Franciade

      Rédigé, à la demande expresse du roi Charles IX, non pas en alexandrins, qu’il manie si largement dans les Discours, mais en décasyllabes, le poème a pour thème l’histoire de ce Francion ou Francus, prétendu fils d’Hector, qui aurait été à l’origine de la nation française : il reprend la légende de l’origine troyenne des Francs en vogue à l’époque.
      […]
      Francus, fils d’Hector, vient avec une colonie de Troyens fonder la monarchie française. Au chant Ier, les dieux décident que le fils d’Hector, élevé incognito en Épire, par sa mère Andromaque et son oncle Hélénus, partira pour la Gaule. Mercure vient prévenir Hélénus ; on prépare une flotte.

      Avant, on (= l’élite gouvernante) se contentait de remonter aux Francs et au droit de conquête. Mérovée, pour les… Mérovingiens, à qui les Carolingiens (ou les auteurs à leur solde) bricolent un père, aux aventures mythiques, Clodion le Chevelu dont ils sont également descendants,…

      Idem pour les Capétiens, se rattachant, on ne sait plus trop comment aux Mérovingiens ; l’utilisation systématique du prénom Louis marquant cette filiation : Clovis (mérovingien), Louis le Pieux (carolingien) et premier Louis de la série.

  • Centenaire de 1918 : à l’école, le devoir de mémoire est une escroquerie mémorielle (B. Girard, Le Club de Mediapart)
    https://blogs.mediapart.fr/b-girard/blog/041118/centenaire-de-1918-l-ecole-le-devoir-de-memoire-est-une-escroquerie-

    A l’image des quatre dernières années de commémoration scolaire autour de la Première guerre mondiale, les cérémonies du 11 novembre s’annoncent patriotiques et militaires. Avec cette confirmation : à l’école, l’hommage aux morts a sérieusement dérivé vers un hommage à la guerre et à ceux qui l’entretiennent.

    Et en complément :
    Indre : la Chanson de Craonne indésirable le 11 Novembre (La Nouvelle République)
    https://www.lanouvellerepublique.fr/indre/la-chanson-de-craonne-indesirable-le-11-novembre

    #éducation #école #militarisme #patrie #histoire #devoir_de_mémoire #1918 #WW1 #itinérance_mémorielle

  • Si può parlare di “patria” anche a sinistra

    Alcuni esponenti della sinistra radicale hanno partecipato alla costituzione dell’associazione politica “#Patria_e_Costituzione”. Ne è seguita una reazione fredda, quando non apertamente critica. L’impressione è che il riferimento alla Patria sia percepito come “estraneo” e “innaturale” rispetto alla tradizione della sinistra.
    Il rapporto tra la sinistra e l’idea di Patria richiederebbe l’analisi approfondita di uno storico, di un politologo, di un sociologo. Questo articolo non può arrivare a tanto. Tuttavia, siamo persone di sinistra, conosciamo i nostri valori, e riconosciamo l’esigenza di evitare malintesi al nostro interno. Perciò, possiamo e dobbiamo dare il nostro contributo al dibattito. E nella nostra ingenuità, non riusciamo a convincerci che il sentimento patriottico sia incompatibile con la sinistra.

    In teoria (e purtroppo, spesso, anche in pratica), il nazionalismo viola alcuni dei valori fondamentali della sinistra: la pace tra i popoli, e quindi tra gli Stati; l’accoglienza degli stranieri e l’uguaglianza tra persone di culture diverse in uno stesso Paese; la cooperazione tra i Paesi del mondo. A questo proposito, sappiamo che il dialogo internazionale è una necessità dettata dalla realtà, dalla consapevolezza che non siamo da soli sulla Terra, dai guadagni che possono arrivare – per tutti – se il commercio internazionale è inserito in un sistema equo e non fraudolento, dall’esigenza di affrontare multinazionali private più forti dei singoli Stati. (Per inciso, quest’ultima esigenza non richiede, per forza, la scomparsa degli attuali Stati: è sufficiente, appunto, che gli Stati collaborino).
    Eppure, dal punto di vista logico, il patriottismo non ci sembra affatto in contraddizione con tutti questi valori. Quando una Patria si trasforma in uno Stato sovrano, questo Stato può ripudiare la guerra; può ospitare gli immigrati sul suo territorio e può garantire la loro dignità; può collaborare con gli altri Stati per promuovere gli scambi commerciali e culturali o per combattere le ingiustizie in tutto il pianeta. Questa è la definizione di “internazionalismo”: non è la distruzione degli Stati nazionali, ma l’esistenza di relazioni pacifiche e costruttive fra tutti gli Stati.
    Insomma, lo Stato può anche corrispondere a una Patria: ciò che conta, per noi, è che sia governato secondo i valori del socialismo democratico; in questo caso, non sarà mai costruito su base etnica, e non si consoliderà mai nell’esclusione del diverso, ma proprio nella sua inclusione in un sistema armonico di sviluppo.

    Se quel che abbiamo scritto sin qui è condivisibile, allora si può ammettere che il sentimento patriottico, che è parte integrante della vita di molte persone, possa esserlo anche per molte persone di sinistra.
    Naturalmente, questo sentimento ci spaventa se è interpretato da un punto di vista etnico; rifiutiamo un’Italia che esclude chi non è italiano di sangue, una patria che diventa razzista e disumana.
    Però, non sono incoerenti quei compagni che riconoscono l’importanza della storia e delle tradizioni di un popolo, all’interno di uno Stato sovrano (e anche, in modo diverso, all’interno di un’autonomia locale: si tratta di questione complessa, ma collegata con una delle possibili declinazioni del concetto chiave della sinistra e cioè quello dell’ “autodeterminazione”). E non lo sono nemmeno quando riconoscono, in ogni Stato sovrano nato da una Patria, una comunità di persone, con il diritto a compiere liberamente le scelte politiche che la riguardano, nel rispetto della sovranità degli altri Stati.

    In questo modo, si possono rassicurare anche quei compagni che vedono nella riscoperta della sovranità nazionale una rottura con l’Unione Europea. A questo proposito, bisogna ammettere che alcuni compagni più sensibili al sentimento patriottico hanno contribuito a generare un equivoco, concentrandosi su temi economicistici come quello della moneta unica, considerata un male in sé, e non per il meccanismo che genera.
    Attualmente, è un dato di fatto che i Trattati dell’Unione e l’attuale sistema della moneta unica impediscano agli Stati membri di intervenire a favore dei lavoratori e dei deboli: la spesa pubblica è vincolata; non esistono trasferimenti di risorse a vantaggio degli Stati più poveri. Questa è un’emergenza. Finché non sarà risolta, ogni programma di sinistra è destinato a non essere realizzato.
    In sé, la soluzione non è uscire dall’Unione Europea, così come non lo è rinunciare (anche solo in parte) alla sovranità degli Stati per dare vita agli Stati Uniti d’Europa. Infatti, l’Italia è uno Stato, come lo sarebbe un’eventuale Federazione Europea: uno Stato può aumentare la spesa pubblica, come ridurla; può schierarsi a favore del capitale, come del lavoro. Si può avere uno Stato nel quale compiere scelte politiche di sinistra, liberi dai vincoli dell’austerità, ma il problema resta: lo Stato, come ci ricorda Marx, non è un’entità statica e neutra, ma l’espressione di rapporti di forza sociali, e a nulla serve “tornare allo Stato” se poi esso è amministrato e governato a favore dei pochi, delle élites finanziarie, delle oligarchie anche politiche. Del resto, se il Governo italiano (come ci sembra) non è in grado di affrontare i problemi reali dell’Italia che lavora, la colpa non può essere scaricata interamente sull’Europa. Peraltro, è utile ricordare che gli attuali vincoli europei sono stati adottati da Stati sovrani, legittimamente e volontariamente: ad esempio, la Gran Bretagna scelse di non sottoscrivere il fiscal compact, segno che l’adesione alle politiche di austerità è stata anch’essa espressione di una volontà nazionale forte.
    Di conseguenza, un conto è la lotta contro i vincoli europei, che è la priorità assoluta per qualsiasi forza socialista e democratica; un altro conto sono i sentimenti patriottici e la sovranità nazionale.
    Sicuramente, nessuno Stato europeo può essere “sovrano”, finché le norme dell’Unione impediranno una politica economica diversa dall’austerità. Inoltre, il problema primario in Europa è – di nuovo – proprio l’autodeterminazione, dal momento che non possono convivere pacificamente e nello sviluppo comune sistemi produttivi così diversi ed eterogenei; anche se potessero farlo, noi non crediamo che l’uniformità sia desiderabile: ciascun popolo ha diritto a pensare una via al proprio sviluppo.
    Eppure, si può invocare maggiore sovranità nazionale contro l’Europa che ci impedisce la spesa pubblica, anche senza proporre l’uscita dalla moneta unica, o dall’Unione Europea. Infatti, si tratta di problemi specifici, che richiedono rimedi specifici, modifiche di specifiche disposizioni contenute nei Trattati, introduzione di specifici istituti fiscali. Questi rimedi ridurrebbero solo in parte la sovranità degli Stati membri; quindi, consentirebbero un compromesso accettabile tra l’autodeterminazione dei popoli europei e la loro permanenza in un’Unione che ne assicura la collaborazione pacifica.

    Persino il nesso tra il patriottismo e il fascismo è più complesso di quanto siamo abituati a pensare. Fabio Vander, ne L’estetizzazione della politica, ha ricostruito il legame tra il fascismo e la tradizione futurista, proseguito a lungo durante il Ventennio; il fascismo ha utilizzato il sentimento nazionale come strumento di propaganda, ma le sue radici si trovano in un movimento che intendeva rompere con l’Italia dei secoli precedenti, con la sua storia e la sua cultura, a iniziare dall’Umanesimo.
    Del resto, la sinistra che vuole davvero contrastare il fascismo e la sua eredità dovrebbe iniziare a riconoscere la caratteristica principale di quell’ideologia: non tanto la presenza di un “capo” in diretta relazione con il “popolo”, e nemmeno tanto l’odio verso il “diverso”, quanto la volontà di distruggere la vita delle persone, in nome di un continuo “cambiamento” che non lascia alcuno spazio alla dignità umana. Può trattarsi di perseguitare gli ebrei e di deportarli ad Auschwitz, o di inviare i giovani italiani a morire in guerra, o di mantenere le donne italiane in stato di servitù, ma può trattarsi anche di realizzare il principale obiettivo del fascismo degli inizi, nonostante le sue pretese protezionistiche: impedire con la forza le lotte dei lavoratori per essere pagati di più, per lavorare di meno, per avere più ferie o la malattia pagata. In questo senso, sarebbe sicuramente “fascista” (anche se questo non è avvenuto sotto il regime di Mussolini) una forza politica che emargina il patriottismo, magari con lo scopo di scoraggiare (o addirittura di eliminare), in nome della libertà dell’individuo, le identità e i sentimenti collettivi, come temeva Pasolini negli Scritti corsari.

    Patria e sovranità nazionale non hanno a che vedere con la guerra e con il razzismo. Non hanno a che fare neanche con uno Stato che si isola, condannando i suoi cittadini a essere più deboli e più poveri in un mondo sempre più interconnesso. E non ci obbligano neppure a dare l’addio all’Unione Europea, ai suoi vantaggi pratici, alla sua insostituibile missione storica di collaborazione internazionale. Almeno, non necessariamente.
    Per noi, socialisti e democratici, il valore principale resta la difesa della dignità umana e il sostegno alla classe lavoratrice. Finché questo valore non è in discussione, i sentimenti patriottici possono essere un bene prezioso anche per chi sta a sinistra: inoltre, non rappresentano solo un fatto privato, perché a ogni Patria corrisponde una comunità che ha il diritto di autodeterminarsi.
    A voler ampliare l’orizzonte, questo singolo tema offre lo spunto per affrontare la reale difficoltà della sinistra, in questa fase in cui, dal nostro punto di vista, tutto sembra disperato. Nessuno dice che la sinistra si debba fondare sul patriottismo, perché non è la sua ragione di esistere: quel che conta è saper accogliere anche chi crede ancora in alcune identità collettive (come la Patria), verso le quali la sinistra degli ultimi anni è stata troppo diffidente. Allo stesso modo, del resto, tutti devono impegnarsi a difendere la libertà e la dignità di chi non crede nella Patria: non solo nel partito della sinistra che verrà (se verrà), ma anche in quelle realtà sociali nelle quali questo valore è imposto con la forza violenta dell’intolleranza e del conformismo.
    Al di là di questo singolo tema, un partito deve saper trovare il compromesso fra i propri valori e i bisogni emotivi delle persone, quando è possibile. Altrimenti, è destinato a non fare egemonia e a lasciare il campo libero ai suoi avversari, ai suoi opposti. È destinato a rinunciare alla sua funzione di includere le persone, che è qualcosa di diverso (e di più) rispetto al semplice “imitare la destra per portarle via i voti”. È destinato a non scendere in quel terreno di gioco nel quale si può almeno provare quell’impresa culturale, oggi così urgente. In altri termini, è destinato a cantarsela e suonarsela da sé. Mentre la Lega di Salvini conquista a tavolino il potere politico e le coscienze degli italiani.

    https://ipettirossi.wordpress.com/2018/09/26/si-puo-parlare-di-patria-anche-a-sinistra
    #patrie #mots #vocabulaire #terminologie #droite #gauche #idéologie #UE #Union_européenne #EU #Etat-nation #nationalisme #fascisme #souveraineté_nationale
    via @wizo

  • Le projet de passeport autrichien pour ses germanophones fâche l’Italie Belga - 7 Septembre 2018 - RTBF
    https://www.rtbf.be/info/monde/detail_le-projet-de-passeport-autrichien-pour-ses-germanophones-fache-l-italie?

    Le ministère italien des Affaires étrangères a dénoncé vendredi soir la poursuite du projet de Vienne d’offrir un passeport autrichien aux habitants germanophones de la province de Bolzano, dans le nord-est de la péninsule.

    Le ministère a annoncé avoir appris l’existence à Vienne d’une commission gouvernementale chargée de préparer un projet de loi pour sur l’instauration de cette double nationalité.

    « Cette initiative est inopportune en raison de sa portée potentiellement perturbatrice », a insisté le ministère.



    « Il est surtout singulier que le gouvernement assurant la présidence tournante de l’Union européenne, plutôt que de se concentrer sur des actions qui unissent et favorisent la concorde réciproque entre les pays, cultive des projets de loi susceptibles de fomenter la discorde », a-t-il ajouté.

    « Une telle initiative est de plus vraiment curieuse si l’on considère que pour unir les citoyens des différents pays membres de l’UE, il existe déjà la citoyenneté européenne, comme le stipulent les passeports délivrés par chaque Etat » membre, a poursuivi le ministère.

    Province autonome
    La province de #Bolzano, une région montagneuse appelée Alto Adige (Haut-Adige) en italien et Südtirol en allemand, a été principalement autrichienne pendant des siècles, avant d’être intégrée après la Première guerre mondiale à l’Italie, où elle bénéficie d’un régime d’autonomie particulier.

    Au dernier recensement en 2011, 70% de ses habitants s’y sont déclarés germanophones, 26% italophones et 4% ladinophones, une langue rare locale d’origine romane. Le programme du gouvernement autrichien prévoit de proposer un passeport aux germanophones et aux ladinophones.

    Lors de l’annonce du projet fin 2017, les responsables de la province autonome de Bolzano s’étaient réjouis de cette opportunité tout en réaffirmant leur ancrage européen, tandis que leurs voisins également germanophones du Trentin avaient regretté de ne pas figurer dans les plans de Vienne.

    #nationalité #citoyenneté #identité #Sudètes #germanophones #frontières #minorités #nationalisme #UE #union_européenne #Autriche #Italie #passeport #patrie

  • Pour l’abolition du #titre_de_séjour

    #Leoluca_Orlando, élu à cinq reprises maire de #Palerme, ancien député européen, est l’une des rares personnalités politiques à tenir une parole claire et nette concernant la situation migratoire : la mobilité internationale des hommes est un droit inaliénable. La « #Charte_de_Palerme » l’affirmait déjà en 2015. Il a fallu du temps pour abolir l’esclavage, il a fallu du temps pour abolir la peine de mort : il en faudra pour abolir la nécessité de détenir un titre de séjour, écrit ici dans une lettre ouverte le maire de la ville européenne la plus tournée vers l’Afrique.

    Le cours de ma vie a changé plusieurs fois. L’une d’entre elles fut le jour où j’allai voir une adolescente congolaise, très belle, qui devait avoir 13 ou 14 ans. Elle avait fui par les côtes libyennes sur une embarcation de fortune avec beaucoup d’autres migrants.
    Elle portait une jolie robe pour l’occasion et son attitude montrait qu’elle savait l’importance de ce qu’elle faisait. Elle lut une poésie en français et à plusieurs reprises sa voix fut étranglée par la tristesse et par les larmes. La poésie racontait le drame et la culpabilité de n’être pas parvenue à aider sa mère au moment de passer de leur embarcation au bateau des secours. Sa mère était morte dans ces circonstances et les mots de la poésie transmettaient toute la douleur et le désespoir de cet événement terrible qu’elle avait vécu.

    Au moment précis où la jeune fille a lu ces mots, j’ai eu le sentiment qu’ils cachaient quelque chose d’autre. Très probablement, cette jeune fille avait tué sa mère pour pouvoir survivre. J’eus alors devant moi l’image de ma petite-fille tuant sa mère, ma fille, pour sa propre survie. Et être traversé par cette pensée, ne serait-ce qu’un court instant, fut déjà terrible.

    À une autre occasion, je me trouvais sur le port comme je le fais chaque fois qu’arrive à Palerme un navire qui porte secours à des migrants. Je le fais pour leur faire sentir, tout comme aux professionnels qui s’en occupent, le respect que l’on porte aux migrants, qui sont des personnes humaines, et pour leur faire sentir que les institutions sont à leurs côtés. Dans ces situations-là, j’essaie de trouver des paroles de réconfort : « le pire est passé », « l’important est que vous soyez vivant », « à présent, vous êtes en Europe ». Tandis que je parlais avec un groupe de jeunes sur le quai, l’un d’eux était assis en silence, les yeux baissés et perdus dans le vide. Après avoir parlé avec eux un certain temps, je me suis tourné vers ce garçon et je lui ai demandé pourquoi il ne me parlait pas et ne me regardait pas. Il a levé sur moi ses yeux noirs et dans un anglais impeccable, il m’a dit : « Monsieur le maire, que voulez-vous que je vous dise ? J’ai tué deux frères pour arriver ici vivant ». J’ai pensé à ce qu’il se serait passé si mon frère avait été contraint de nous tuer, mon autre frère et moi, pour survivre.

    On croirait des récits de Dachau et d’Auschwitz : nous poussons des personnes comme nous à risquer leur vie et celle de leurs proches à cause d’absurdes réglementations sur les migrations.

    Les migrants nous poussent à nous interroger sur les #droits, pas seulement sur notre respect des droits de l’homme mais sur les droits qui sont les nôtres, les droits de tout être humain.

    Palerme est devenue, à travers ce genre d’expériences, une référence dans le monde entier en matière de culture de l’#accueil. Je suis fier d’être maire d’une ville qui adresse un message au monde et le met en demeure face aux égoïsmes européens, et pas seulement européens. Je crois qu’au nombre des droits inviolables de l’homme, il y a le droit de choisir où vivre et où mourir. Personne ne peut être contraint à vivre et à mourir, et souvent à se faire tuer, là où l’ont choisi ses parents, sans avoir été consulté sur l’endroit où il allait naître.

    Telles sont les raisons pour lesquelles, à Palerme, a vu le jour la « Charte de Palerme », présentée en 2015 lors du congrès « Io sono persona » (Je suis personne), qui propose et soutient l’abolition du titre de séjour, et promeut la #mobilité_internationale comme un droit inaliénable de l’homme. Nous ne pouvons pas permettre que des êtres humains soient torturés au nom d’un permis de séjour qui constitue, j’en suis convaincu, une nouvelle peine de mort et un nouvel #esclavage. Le système de lois et d’accords internationaux au niveau européen est aujourd’hui un système qui engendre le crime, un système criminogène qui remplit les poches d’organisations criminelles et de trafiquants d’êtres humains. Il ne sera pas facile de se libérer du #permis_de_séjour, comme il n’a pas été facile de se libérer de la peine de mort et de l’esclavage.

    La mondialisation, code culturel et économique de notre époque, a consacré le principe de liberté de circulation pour les informations, la communication, l’économie, l’argent, les moyens de transports. Mais pas pour les personnes. À l’âge de la #mondialisation, un grand nombre de mots voient leur sens changer et certains le perdent tout à fait. Pensons aux mots #État, #patrie, #identité.

    Un jeune reconnaît-il à l’État le même sens que celui que lui a donné ma génération ?

    Aujourd’hui, un jeune connaît son « village » et le monde, qu’il vit également à travers Internet. L’État est perçu comme lointain et souvent comme une limite à nos aspirations, une entrave au bonheur.

    Qu’est-ce que la patrie ? La condamnation par l’état civil à vivre là où mes parents ont décidé que j’allais naître ? Non, la patrie c’est moi qui la choisis. Ma patrie est l’Italie parce que j’ai choisi de rester et de vivre ma vie à Palerme, pas parce que ma mère et mon père m’ont fait naître en Sicile.

    Qu’est-ce que l’identité ? Est-ce une condamnation décidée par le sang de nos parents ? L’identité est tout au contraire un acte suprême de #liberté. Je suis chrétien et italien, et je pourrais choisir de devenir marocain et hindou ou allemand et musulman. Maudite #loi_du_sang, qui a provoqué des génocides terribles tout au long de l’histoire de l’humanité.

    Publié en partenariat avec l’Ambassade de France en Italie et l’Institut français d’Italie, dans le cadre du cycle de débat d’idées « Dialoghi del Farnese ».

    Leoluca Orlando

    MAIRE DE PALERME

    #villes-refuges #ville-refuge #solidarité #Sicile #Italie #esclavage_moderne #liberté_de_circulation #liberté_de_mouvement #frontières #ouverture_des_frontières
    cc @reka

  • Fillon, MPN extrême ? – Grinçant
    https://www.grincant.com/2017/02/03/fillon-mpn-extreme

    Cela me semble de plus en plus évident.
    Pénélope Fillon ne comprend rien à ce qui lui arrive, et elle n’y est même probablement pour rien.

    via @tout_va_tres

    Depuis le début de l’affaire, je me demande pourquoi ne pas monter un groupe de soutien aux Pénélopes.
    Cette femme se retrouve (malgré elle) le symbole du déni, celui de l’effacement des femmes, puisqu’elle existe pour ne pas avoir été, ce qui est quand même un comble.

    Quand je regarde le visage de cette femme, j’essaie de savoir qui elle est, et non pas ce qu’elle n’a pas été. Je ne sais pas si un seul journaliste a tenté de le faire. Je m’interroge sur cette nouvelle négation, comment fait-elle, comment doit-elle percevoir son rôle de marionnette qui émerge de façon si flagrante des mots de son mari, de ses mots à elle, de ses hésitations, de la souffrance qui émane de son être. Elle n’a rien dit, rien décidé, mais une chose est sure : elle n’est pas.

    Et ce qui m’intéresse finalement, c’est le parcours d’une femme désignée coupable (demain, voir l’expo aux archives) et comment cette france du XVIIIem siècle toujours chiant dans ses bottes féodales de domination masculine, ne lui autorise toujours pas un statut supérieur à celui de reproductrice. Je la plains sincèrement, elle et son sacrifice.

  • Les écoles « Espérance banlieues » : médiatiques, traditionalistes et ultra-libérales... (I) (L’École des réac-publicains - Questions de Classe(s))
    http://www.questionsdeclasses.org/reac/?Les-ecoles-Esperance-banlieues

    la fondation Espérance banlieues, très médiatique - et très lisse ! - vitrine d’un réseau traditionaliste et ultra-libérale, celui de la fondation pour l’École et de ses inspirateurs. Un réseau qui entend en finir avec le service public d’éducation au nom de la foi et/ou du libéralisme le plus radical...

    Avec le soutien du Figaro :
    – 13/09/2013 : “Cette étonnante école qui fait rêver en Seine-Saint-Denis”
    http://www.lefigaro.fr/actualite-france/2013/09/13/01016-20130913ARTFIG00389-cette-etonnante-ecole-qui-vient-d-ouvrir-a-montfe
    – 31/12/2015 : “À l’école de la patrie”
    http://www.lefigaro.fr/actualite-france/2015/12/31/01016-20151231ARTFIG00072-a-l-ecole-de-la-patrie.php

    #école #école_privée #patrie

    • L’école (privée) pour tous ? (Slate.fr)
      http://seenthis.net/messages/249579

      Certes l’enseignement de la République a aussi un beau slogan qui claque : liberté, égalité, fraternité, écrit au-dessus du portail. Dommage qu’il soit si difficile d’y croire. Le manque d’égalité pour les élèves, c’est justement ce que dénoncent des enseignants de l’éducation prioritaire comme ceux Villeneuve-Saint-Georges. La Cour des comptes et il y a encore peu de temps Vincent Peillon s’étonnaient du fait que les élèves parisiens coûtent 50% plus cher que ceux de l’académie de Créteil où se situe Alexandre-Dumas. Prenons les paris que Benoît Hamon ne tarde pas à faire de même.

      Au vu de cette situation, il n’est pas étonnant que l’idée que l’alternative du privé finisse par être présentée comme un droit qui devrait être accessible à tous. Le droit à échapper à l’école publique ! A l’Education nationale de gérer des ghettos de plus en plus ségrégués...

    • Il y a beaucoup d’argent à se faire pour quelques uns, et c’est déja le cas.

      BUDGET 2016 Ministère de l’Education Nationale

      7 205 523 579 euros détournés pour le financement de l’enseignement privé 1er et 2nd degrés
       
      Dépenses de personnel, de fonctionnement et d’intervention : 7 174 423 975 € en 2015

      Environ 17 % des élèves (2 079 149 en 2014-2015) sont scolarisés dans l’enseignement privé sous contrat (13 % des élèves du premier degré et 21 % des élèves du second degré), au sein de 4 828 écoles et 2 919 établissements du second degré sous contrat.


      L’enseignement privé sous contrat regroupe essentiellement des établissements gérés par des associations régies par la loi de 1901 ; environ 95 % de ces établissements sont catholiques. Les autres sont soit confessionnels (juifs, protestants ou musulmans), soit laïques, soit des établissements d’enseignement des langues régionales ou des établissements d’enseignement adapté.

      L’Etat assurera en 2016 le paiement de la rémunération de 137 502 personnes physiques, les dépenses de formation initiale et continue des enseignants, les dépenses pédagogiques, le forfait d’externat (c’est-à-dire la subvention permettant de couvrir la dépense de rémunération de personnels non enseignants des classes du second degré sous contrat d’association), les emplois de vie scolaire pour l’accompagnement d’élèves handicapés ainsi que des aides directes aux élèves (bourses de collège et de lycée, fonds sociaux).

      En 2016, les crédits consacrés à la formation connaitront une augmentation de 24,9 millions d’euros (+20,7 %). Ce montant inclut une dotation supplémentaire de 4 millions d’euros destinée au financement du plan de formation exceptionnel au numérique, dans les mêmes conditions que celui mis en œuvre dans l’enseignement public du second degré.
      De plus, concernant l’enseignement privé du 1er degré, les communes sont tenues de prendre en charge leurs dépenses de fonctionnement dans les mêmes conditions que celles des classes correspondantes de l’enseignement public.

      CRÉDITS CONSACRÉS AU FONCTIONNEMENT DES LYCEES ET COLLEGES PRIVES
      _ (Forfait d’externat, dépenses pédagogiques, action culturelle…)
      660 807 586 € en 2016
       
      L’État participe, sous forme de subventions, aux dépenses de rémunération des personnels non enseignants afférentes à l’externat des collèges et des lycées d’enseignement privés sous contrat d’association. Le montant de cette participation correspond à la rémunération que l’État verse à ses personnels non enseignants affectés dans les collèges et les lycées publics, au seul titre de leurs activités liées à l’externat des collégiens et lycéens qui y sont scolarisés. Les personnels non enseignants pris en considération pour la détermination du montant du forfait d’externat sont les personnels de direction, d’éducation et de surveillance, les personnels administratifs, sociaux et de santé, ainsi que les personnels de laboratoire
      Il est prévu, en 2016, au titre de la part « personnels » du forfait d’externat que l’État verse 637 361 651 € aux établissements d’enseignement privés sous contrat (+ 9,8 millions par rapport à 2015). Ainsi, le coût moyen d’un élève du privé sera revalorisé par rapport à celui de la Loi de Finances 2015, à savoir
      523 € par élève du second degré, dont :
      512 € pour un collégien ;
      497 € pour un lycéen dans l’enseignement général et technologique ;
      647 € pour un lycéen dans l’enseignement professionnel.
       
      Les associations liées à l’enseignement privé et à son caractère confessionnel, ne sont pas oubliées : 410 000 € de subventions en 2016.
      La loi de finance 2016 prévoit également un abondement de 15,3 millions d’euros pour la prise en charge du renouvellement des manuels dans les collèges privés sous contrat.
      En complément du forfait versé par l’Etat pour le financement des personnels d’éducation, administratifs et d’encadrement des établissements privés, les collectivités territoriales (départements pour les collèges, régions pour les lycées) versent depuis le 1er janvier 2007 un forfait calculé en proportion du financement des personnels TOS (Techniques, Ouvriers et de Service) de l’enseignement public par les départements et régions. 
      Le département ou la région contribuent également au financement des dépenses pédagogiques des établissements privés : en collège, pour l’acquisition des manuels scolaires et des carnets de correspondance, pour l’équipement nécessaire aux technologies de l’information et de la communication pour l’enseignement (TICE) et pour les droits de reproduction ; en lycée, pour l’équipement nécessaire aux TICE et pour les droits de reproduction ; en lycée professionnel, pour la documentation pédagogique, l’équipement nécessaire aux TICE, les frais de stages et les droits de reproduction ; dans les classes post-baccalauréat, pour les frais de stages et les droits de reproduction.
       
      Enseignement post-baccalauréat en lycée :
      261 585 051 € en 2016
       
      Budget 2016 - Ministère de l’Agriculture
       
      574 291 502 euros détournés pour le financement de l’enseignement agricole privé
      Rémunérations des personnels contractuels de droit public des établissements privés du temps plein : 227 917 193 € ;
      Subventions aux établissements privés du temps plein : 126 811 905 €, et aux établissements privés du rythme approprié (alternance sous statut scolaire) : 215 642 500 € ;
      Subventions aux organisations fédératives représentant les établissements privés de l’enseignement technique agricole : 584 901 €, et aux organismes de formation : 3 335 003 €.

      Le montant d’autres crédits (aide sociale aux élèves, moyens communs à l’enseignement technique agricole, public et privé) au profit de la scolarisation dans l’enseignement agricole privé est difficile à déterminer car ils figurent dans des lignes budgétaires communes au public et au privé !
       
      Budget 2016 Ministère de l’Enseignement Supérieur et de la Recherche
      78 895 852 € détournés pour le financement de l’enseignement supérieur privé dit associatif
      23 880 820 € pour le financement des établissements privés supérieurs agricoles sous contrat

       
      L’enseignement supérieur privé associatif en bref 
      En bleu, les associations comportant des établissements catholiques ou d’inspiration catholique.
      L’enseignement supérieur privé associatif comptait en 2013 77 000 étudiants dans 59 établissements, rassemblés principalement au sein de quatre associations : 
      la FESIC, réseau de 28 grandes écoles d’ingénieurs et de management. 
      L’UGEI (Union des grandes écoles indépendantes) composée de 17 écoles d’ingénieurs et 8 écoles de commerce et de management 
      l’UDESCA (Union des établissements d’enseignement supérieur catholique) qui regroupe les cinq universités catholiques de France (Angers, Lille, Lyon, Paris, Toulouse) 
      l’UNFL (Union des nouvelles facultés libres) qui réunit la FACO (Faculté libre de droit, d’économie et de gestion), l’Institut Saint-Jean Paris/CEPHI, l’Ircom, I2M Caraïbes (Institut de management et de marketing supérieur de commerce des Caraïbes), l’IPC (facultés libres de philosophie et de psychologie), l’ICES (Institut catholique d’études supérieures) et l’ICR (Institut catholique de Rennes).

      Qui peut nier ces chiffres ? Mais ce ne sont que les chiffres nationaux.

      C’est pourquoi, la fédération nationale de la Libre Pensée engage chacune de ses fédérations départementales à établir pour cette année l’inventaire des fonds détournés au profit de l’enseignement confessionnel, à rendre public la totalité des sommes, à interpeller sur la base de ces chiffres les citoyens, la presse et les élus.
      2016 sera pour la fédération nationale de la Libre Pensée une année où nous ferons, à nouveau, comme en 1906, comme 2006, l’inventaire des biens de l’Eglise, prélevés sur les biens du peuple. Une année où nous ferons la démonstration qu’il faut en finir avec l’étranglement de l’école publique, où il faut :
      L’abrogation de la Loi Debré !
      Fonds publics à l’Ecole publique !
      Fonds privés à l’école privée ! *

  • Ernest Renan : un antisémitisme savant

    Parler d’Ernest Renan c’est évoquer l’une des figures du panthéon intellectuel français, un de ces personnages dont on donne le nom à des établissements scolaires ou à des rues. C’est dire qu’il n’est pas facile de parler de Renan, surtout pour présenter certains des aspects les plus contestables de ses idées. À Renan, dont la production intellectuelle a été très abondante, on doit certains grands textes, comme la célèbre conférence « Qu’est-ce qu’une Nation ? » prononcée à la Sorbonne, le 11 mars 1882, et que l’on cite encore aujourd’hui, entre autres à cause de la célèbre formule qui définit la nation comme« le désir de vivre ensemble ». Malheureusement, on lui doit aussi les textes dont je parlerai ici et qui, anachronisme mis à part, tomberaient sans doute sous le coup des lois réprimant le délit de « provocation à la discrimination, à la haine ou à la violence raciale »...

    1. L’antisémitisme de Renan a un fondement complexe

    Son fondement n’est pas simplement « épidermique » comme l’est celui du racisme vulgaire. Il est bien plus sophistiqué. Ce racisme est, si l’on peut risquer l’expression, un « racisme ethno-linguistique » : c’est l’appartenance à une famille linguistique donnée qui constitue la vraie signature de l’appartenance
    raciale...

    2. L’antisémitisme de Renan est « hiérarchique ».

    Renan n’oppose pas en bloc une « race supérieure », la race aryenne à l’ensemble des autres races humaines globalement considérées comme « inférieures ». Ce racisme, donc, ne se contente pas d’établir entre les peuples une partition disjonctive. La division qu’il postule est hiérarchique, en sorte que l’on peut connaître entre deux races distinctes des proximités, voire des affinités qui les séparent des autres races...

    3. L’antisémitisme de Renan est « systématique »

    Le premier chapitre de Histoire générale des langues sémitiques est intitulé « caractère général des peuples et des langues sémitiques ». Dans ce chapitre, Renan s’efforce de mettre en évidence des traits qui, selon lui, sont partagés par tous les peuples « sémitiques » (à travers le temps et l’espace), donc des traits « inhérents » à ces peuples. Mais, et c’est là que réside l’aspect « scientifique » de l’entreprise, il va s’efforcer de relier tous ces traits les uns avec autres ET avec les propriétés des langues sémitiques. Il s’agit de montrer que tout cela « fait système ». Dans la foulée, et bien que le titre de l’ouvrage ne l’annonçât pas, il va faire de même pour les peuples et les langues indo-européennes (et parfois pour d’autres langues, notamment le chinois). Ce qui rend concevable cette entreprise remarquable c’est la thèse, centrale dans la pensée de Renan, selon laquelle la langue, la psychologie, le système cognitif, les conceptions artistiques, politiques et religieuses, tout cela est en étroite interdépendance...

    4. L’antisémitisme de Renan permet des prédictions.

    L’image extrêmement « typée » et systématique que Renan se fait de ce que sont les Sémites et leurs cultures lui permet de formuler diverses prédictions sur ce que l’on peut identifier, a priori, comme étant un quelconque de leurs avatars.

    5. L’antisémitisme de Renan est « fixiste », c’est-à-dire a-historique

    Le système de Renan repose crucialement sur le fait que les caractéristiques d’une « race » (langues, culture, organisation sociale) sont données une fois pour toutes. Il n’y a pas de processus de constitution progressive des langues, processus qui permettrait de supposer une évolution des idiomes avec le temps pouvant conduire à un changement profond de leur « nature »...

    Djamel Kouloughli

    https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-00295114/document

    #renan
    #antisémitisme
    #islamophobie

    • sans lien direct avec le sujet mais à propos de Renan et du concept de nation :
      http://classiques.uqac.ca/classiques/weil_simone/enracinement/weil_Enracinement.pdf

      Il n’y aura pas de mouvement ouvrier sain s’il ne trouve à sa disposition une doctrine assignant une place à la notion de #patrie, et une place déterminée, c’est-à-dire limitée. D’ailleurs, ce besoin n’est davantage évident pour les milieux ouvriers que parce que le problème de la patrie y a été beaucoup discuté depuis longtemps. Mais c’est un besoin commun à tout le pays. Il est inadmissible que le mot qui aujourd’hui revient presque continuellement accouplé à celui de devoir, n’ait presque jamais fait l’objet d’aucune étude. En général, on ne trouve à citer à son sujet qu’une page médiocre de Renan.
      La #nation est un fait récent. Au Moyen Âge la fidélité allait au seigneur, ou à la cité, ou aux deux, et par delà à des milieux territoriaux qui n’étaient pas très distincts.
      Le sentiment que nous nommons #patriotisme existait bien, à un degré parfois très intense ; c’est l’objet qui n’en était pas territorialement défini. Le sentiment couvrait selon les circonstances des surfaces de terre variables.
      [...]
      L’#État est une chose froide qui ne peut pas être aimée mais il tue et abolit tout ce qui pourrait l’être ; ainsi on est forcé de l’aimer, parce qu’il n’y a que lui. Tel est le supplice moral de nos contemporains.
      C’est peut-être la vraie cause de ce phénomène du chef qui a surgi partout et surprend tant de gens. Actuellement, dans tous les pays, dans toutes les causes, il y a un homme vers qui vont les fidélités à titre personnel. La nécessité d’embrasser le froid métallique de l’État a rendu les gens, par contraste, affamés d’aimer quelque chose qui soit fait de chair et de sang. Ce phénomène n’est pas près de prendre fin, et, si désastreuses qu’en aient été jusqu’ici les conséquences, il peut nous réserver encore des surprises très pénibles ; car l’art, bien connu à Hollywood, de fabriquer des vedettes avec n’importe quel matériel humain permet à n’importe qui de s’offrir à l’adoration des masses.
      Sauf erreur, la notion d’État comme objet de fidélité est apparue, pour la première fois en France et en Europe, avec Richelieu. Avant lui on pouvait parler, sur un ton d’attachement religieux, du bien public, du pays, du roi, du seigneur. Lui, le premier, adopta le principe que quiconque exerce une fonction publique doit sa fidélité tout entière, dans l’exercice de cette fonction, non pas au public, non pas au roi, mais à l’État et à rien d’autre. Il serait difficile de définir l’État d’une manière rigoureuse. Mais il n’est malheureusement pas possible de douter que ce mot ne désigne une réalité.
      [...]
      Si l’État a tué moralement tout ce qui était, territorialement parlant, plus petit que lui, il a aussi transformé les #frontières territoriales en murs de prison pour enfermer les pensées. Dès qu’on regarde l’histoire d’un peu près, et hors des manuels, on est stupéfait de voir combien certaines époques presque dépourvues de moyens matériels de communication dépassaient la nôtre pour la richesse, la variété, la fécondité,
      l’intensité de vie dans les échanges de pensées à travers les plus vastes territoires.
      C’est le cas du Moyen Âge, de l’Antiquité pré-romaine, de la période immédiatement antérieure aux temps historiques. De nos jours, avec la T. S. F., l’aviation, le développement des transports de toute espèce, l’imprimerie, la presse, le phénomène moderne de la nation enferme en petits compartiments séparés même une chose aussi naturellement universelle que la science. Les frontières, bien entendu, ne sont pas infranchissables ; mais de même que pour voyager il faut en passer par une infinité de formalités ennuyeuses et pénibles, de même tout contact avec une pensée étrangère, dans n’importe quel domaine, demande un effort mental pour passer la frontière. C’est un effort considérable, et beaucoup de gens ne consentent pas à le fournir. Même chez ceux qui le fournissent, le fait qu’un effort est indispensable empêche que des liens organiques puissent être noués par-dessus les frontières.

    • voir également
      http://seenthis.net/messages/313819 http://bougnoulosophe.blogspot.fr/2009/05/derriere-la-nation-francaise-il-y.html
      http://anarsonore.free.fr/spip.php?breve176

      Dans « Qu’est-ce qu’une nation  ? » , conférence prononcée en 1882, il ne se gène pas pour écrire : « L’oubli, et je dirai même l’erreur historique, sont un facteur essentiel de la création d’une nation, et c’est ainsi que le progrès des études historiques est souvent pour la nationalité un danger » . On ne saurait être plus clair...

      http://seenthis.net/messages/53202

    • « La colonisation en grand est une nécessité politique tout à fait de premier ordre. Une nation qui ne colonise pas est irrévocablement vouée au socialisme, à la guerre du riche et du pauvre. La conquête d’un pays de race inférieure par une race supérieure, qui s’y établit pour le gouverner, n’a rien de choquant. L’Angleterre pratique ce genre de colonisation dans l’Inde, au grand avantage de l’Inde, de l’humanité en général, et à son propre avantage » (Ernest Renan, 1872, La Réforme intellectuelle et morale, Paris, Michel Lévy frères, pp. 92-93).

  • Pourquoi la France est-elle le pays qui a le plus fusillé « pour l’exemple » pendant la Grande guerre ?
    http://www.bastamag.net/Grande-Guerre-un-tour-du-monde-des

    Au moins 918 soldats français ont été exécutés entre 1914 et 1918. Ce qui fait de l’armée française celle qui a le plus fusillé, juste devant l’Italie, loin devant l’Allemagne et les pays anglo-saxons, selon la comptabilité officielle. Si plusieurs soldats condamnés à mort ont, depuis, été réhabilités, le sujet, un siècle plus tard, suscite toujours la controverse. Tour d’Europe des « fusillés pour l’exemple ». Quelques 918 militaires français ont été fusillés pour l’exemple pendant la « Grande guerre ». La (...)

    #Résister

    / A la une, #Mémoires, #Justice, #Europe, #Enquêtes

  • Peut-il y avoir des chefs bienfaisants ? | Mediapart
    http://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/151213/peut-il-y-avoir-des-chefs-bienfaisants?onglet=full

    Et il cite le Sartre de Critique de la raison dialectique (1960) : « Chacun se sent et sent tous les autres comme des leaders possibles mais personne ne prétend à la souveraineté sur les autres. Chacun est capable d’exprimer le sentiment du groupe au cœur de l’action comme une aide aux objectifs du groupe. »

    MEDIAPART : Comment entendez-vous ces deux phrases de Jean-Paul Sartre ?

    ROBERT DAMIEN, auteur du #livre Éloge de l’#autorité. Généalogie d’une (dé)raison politique (Armand Colin) : Sartre veut dire que ce qui commande, c’est l’équipe ; elle fait chacun s’élever au-dessus de lui-même ; et chacun peut prétendre exprimer le tout qu’est l’équipe. Chacun, étant l’égal de l’autre, a la capacité d’exprimer le “nous” au moment décisif les décisions qui devront être prises. Mais par-delà cette ossature constitutionnelle, il y a des moments où la décision exige d’être formulée, pensée, ordonnée. Elle oblige à une incarnation. Le problème avec Sartre, c’est sa difficulté à penser le chef d’équipe.

    Il y a un moment de souveraineté, assumé par un(e). La question devient ensuite celle de la légitimité durable, non pas d’un chef momentané, mais qui s’inscrit dans une continuité judicieuse.

    Sartre demeure à mes yeux le seul philosophe d’envergure qui ait réfléchi sur l’équipe comme moteur et matrice de l’autorité. Sartre, à la fois théoricien et praticien du libre arbitre, cherchait à intégrer le marxisme, c’est-à-dire les contraintes socio-économiques et politiques qui déterminent et les situations et les libertés.

    #démocratie

    La patrie c’est le “nous” qui nous fait citoyen, ce par quoi nous acquérons une identité littéraire, culturelle, intellectuelle. La #patrie me semble démocratique, puisque c’est le cadre dans lequel s’exerce la question qui permet de demander des comptes. Dans la #nation, il y a l’idée de naissance : elle est inscrite dans une forme de nature. Et sur la nation pèse le risque d’un nationalisme, tandis que la patrie est le cadre démocratique par excellence.

    Nous nous confrontons à cela en ces temps de révolution informatique, donc du langage numérique, par définition pluralisé mais sous hégémonie américaine : comment trouver une expression à nos appartenances qui s’y intègre ? Comment exprimer une forme particulière de l’universel et par la même une confrontation avec la pluralité même de ces universalités ? Le grand penseur de demain, donc de la pluralité des universels, m’apparaît Gaston Bachelard, qui a pensé la normativité – autre nom de l’autorité – dans la pluralité des axiomes, des appartenances, des dualités – ce qu’il appelle le birationalisme, ou le plurirationalisme… Il a joué avec humour le prophète barbu, alors qu’il se confrontait aux deux grandes machines conceptuelles de l’époque : la phénoménologie et le marxisme.
    http://www.ina.fr/video/CAF89004641

  • Nicolas Sarkozy serait contraint de faire à la France le don de sa personne. J’ai retrouvé l’enregistrement.
    http://www.lepoint.fr/fil-info-reuters/nicolas-sarkozy-pourrait-revenir-par-devoir-en-politique-06-03-2013-1636601_

    Nicolas Sarkozy n’a pas l’intention de revenir en politique mais estime qu’il pourrait y être contraint « non par envie mais par devoir » pour la France si la situation politique l’exigeait, selon des propos cités par Valeurs Actuelles.

    http://www.youtube.com/watch?v=s87CKB5E3SQ

    • ce discours me donne toujours envie de chialer (en imaginant la trahison qu’ont du ressentir la plupart des contemporains, ceux qui ont perdu des proches pendant la drôle de guerre, ceux qui voyaient un héros dans le maréchal, ceux qui aimaient leur pays, ceux qui détestaient les « boches », ceux qui s’étaient engagés politiquement ou en asso, les alsaciens, les lorrains et toutes les minorités que les SA puis les SS puis le régime nazi avaient commencé à persécuter depuis près de dix ans...)

      Sarko, lui me donne plutôt envie de rire jaune...

    • C’est le cœur serré que je vous dis aujourd’hui qu’il faut cesser le combat.

      Je me suis adressé cette nuit à l’adversaire pour lui demander s’il est prêt à rechercher avec nous, entre soldats, après la lutte et dans l’honneur, les moyens de mettre un terme aux hostilités.

      Allocution du 17 juin 1940.

      Les négociations pour un armistice n’ont même pas encore commencées, il fait juste savoir qu’il vient de prendre contact.

      Entre le 17 et le 22 à 18h50, signature de l’armistice avec effet immédiat, plus d’un million de soldats prisonniers.

      #coup_de_poignard_dans_le_dos

      NB : ça posait (un peu) problème à l’époque : dans le recueil de ses discours de l’époque, la transcription donne :

      C’est le cœur serré que je vous dis aujourd’hui qu’il faut tenter de cesser le combat.

  • Devoir d’insolence : nique les bobos | Ragemag
    http://www.piecesetmaindoeuvre.com/spip.php?page=resume&id_article=403

    Un animateur de radio faisait récemment remarquer que les Français était le seul peuple à s’être donné un surnom péjoratif : franchouillard. On ne sait si le fait est vrai, il n’en reste pas moins que l’auto-dénigrement est un trait national de plus en plus accusé. Allez, dites-le, faites un effort, poussez, poussez : "J’ai hoooooonte de la France". Bravo. Bel étron. Il en est tant qui, se pliant au conformisme dominant, préfèrent avoir honte de leur pays qui n’en peut mais, plutôt que d’eux-mêmes. Ce qui serait plus pertinent. Voici un Belge qui n’a pas honte des Français ni de la France, et qui explique pourquoi, en termes posés et articulés. * Devoir d’insolence : nique les bobos Source : http://ragemag.fr/devoir-insolence-... Publié le 11 décembre 2012 | par Galaad Wilgos Le ronflant hebdomadaire de la rebellitude conforme et satisfaite, le dénommé Inrocks, vient de récemment publier une pétition en faveur de Saïd Bouamama et Saïdou de ZEP. Ces derniers ont été attaqués en justice par l’AGRIF, une association d’extrême-droite bornée par un horizon antiraciste assez loufoque qui consiste à attaquer uniquement le racisme anti-blanc ou la « christianophobie ». Ayant déjà perdu plus de cinq procès contre Charlie Hebdo, elle n’en démord néanmoins pas. En cause dans ce cas-ci, une chanson, au titre très fin au demeurant (Nique la France), et au délicat refrain qui suit : « Nique la France et son passé colonialiste, ses odeurs, ses relents et ses réflexes (...)

    #Service_compris

    • À faire du copier-coller rapidement, on se plante (sévère). Que PMO reprenne Ragemag, complaisant avec l’extrême droite de manière récurrente, c’est déjà franchement limite (mais tout le monde peut ne pas suivre ce qu’il s’y publie, ok), mais alors ce papier ? L’article de Basile Lemaire des Inrocks qui suscite l’ire du rédacteur n’en méritait certainement pas tant (je précise le lien vu qu’il ne figure même pas dans la page de PMO ! - il n’y est pas non plus, étrangement, sur l’article d’origine de Ragemag, alors qu’il renvoie à une quinzaine d’autres pages) :
      http://www.lesinrocks.com/2012/11/28/actualite/nique-la-france-un-rappeur-et-un-sociologue-poursuivis-par-une-associati

      Nique la France incarne une expression populaire, spontanée et politique. Qu’on le veuille ou non, elle existe et on l’entend tous les jours dans les quartiers, alors pourquoi ne pas en faire une chanson ?” Saïd Bouamama complète : “Nous voulions comprendre ce que les jeunes veulent dire à travers cette expression. Et ce qu’ils expriment, c’est le sentiment d’être méprisés et insultés. Derrière, (…) il y a une demande d’égalité.”

      La pétition :
      http://petition.lesinrocks.com/devoirdinsolence

      Cette pétition, ou taper sur Les Inrocks à travers une pseudo critique des médias, ou sur cette figure si pratique pour la droite du « bobo », c’est une nouvelle occasion pour Ragemag de dérouler son attaque de l’antiracisme et son patriotisme puant. Le meilleur moment c’est quand l’auteur renvoie le FN et les Inrocks dos à dos :

      Néanmoins, rappelons tout d’abord qu’il est hors de question de s’allier ne serait-ce que temporairement avec les raclures puantes des bidets inondés de l’extrême-droite. (…) Ils confondent patriotisme et nationalisme, on y reviendra. Cela étant dit, il est tout aussi impossible de rester stoïque devant cette catastrophe ambulante de magazine que l’on nomme Inrocks qui, loin de simplement défendre la liberté d’expression, poursuit un agenda idéologique.

      Allez, écoutons donc pour voir cette « chanson rythmée par la haine » (le premier intertitre sur la page de PMO) :
      http://www.dailymotion.com/video/xc08wd_zep-nique-la-france_music

      #antifrance ;)

    • « A force de la niquer, la France, on finira par l’aimer ».
      Le style pamphlétaire est réducteur. Opposer la France des beaufs à la France des bobos est vain. C’est le pouvoir qu’il faut niquer, et pas son pays.
      Ceci dit, le clip me fait rire. Va savoir pourquoi. Sûrement à cause de mon rapport conflictuel à toute autorité.

    • @sombre : « son pays » ? La chanson de ZEP est une critique du racisme d’État partagé (en 2010 au moment de sa sortie) par une large partie de la population (maintenant tout va bien).
      http://www.maxilyrics.com/z.e.p.-nique-la-france-lyrics-8742.html
      Pour aller plus loin, y’a un entretien intéressant sur LMSI :
      http://lmsi.net/Expression-populaire

      Entre les prises de son de manifestation pour la régularisation des sans-papiers, l’accordéon et la mandole, ZEP s’installe au cœur d’un héritage de luttes de classe anti-coloniales. De l’émouvant et rageant poème de Mahmoud Darwich – Inscris ! Je suis arabe – aux magnifiques Palestine, Nique la France et La gueule du patrimoine, ZEP nous fait danser tout en rappelant constamment la nécessité de se battre contre un monde en crise qui réactualise sans cesse les discours racistes et l’idéologie coloniale.

      Ou l’entretien publié en 2009 dans Mouvements qui revient sur le sifflement de la Marseillaise (qui a inspiré la chanson Nique la France) :
      http://www.mouvements.info/Les-bronzes-font-du-ch-ti.html

      Ce qui est sifflé, c’est donc ce que cet hymne véhicule. Alors moi, même si je ne suis pas spécialement porté sur tout ce qui est nation, frontière, hymne, je me demande : pourquoi ne pas changer d’hymne ? Pourquoi ne pas prendre un hymne moins équivoque, qui ne porte pas toute cette histoire de violences faites aux colonisés ? Par exemple, Mouss et Hakim ont chanté le Chant des Partisans, un chant majeur de l’histoire de France, le chant des résistants… Personne ne les a sifflés ! Au contraire, ils étaient applaudis par les jeunes des quartiers. Tu sens bien que cet hymne, la Marseillaise, colle bien à cette France réactionnaire, celle de la droite dure… Et c’est pour ça qu’elle est sifflée.

      Mais il serait plus intéressant de décortiquer l’article de Ragemag pour voir en quoi il pose fondamentalement problème, et quelle est l’idéologie (proche d’Égalité & Réconciliation ?) qui est en train de se diffuser dans la gauche radicale.

    • proche d’Égalité & Réconciliation ?

      J’en ai pas eu l’impression pour l’instant en ayant lu un certain nombre d’article du site.

      Les références : Jean-Claude Michéa en premier lieu, Orwell, Lasch, Weil, etc ensuite. Ceux qui se réclament du socialisme ouvrier (non scientifique).

      Une des introductions du magazine disait :

      La pensée de Jean-Claude Michéa, ainsi que celle de ses auteurs fétiches, George Orwell et Christopher Lasch, constituent le fondement intellectuel de notre magazine. Jean-Claude Michéa a accepté que Ragemag publie quelques extraits d’un texte inédit en France, écrit par lui en janvier 2012 pour présenter sa pensée au grand public espagnol, dans les colonnes du journal El Confidantial.

      http://ragemag.fr/liberalisme-et-decence-ordinaire

      On notera qu’Alain Soral a très rapidement essayé de récupérer la pensée de Michéa, comme il avait essayé de récupérer la pensée de Michel Clouscard (http://seenthis.net/messages/98315). Les deux s’en sont toujours très explicitement détaché.

      Comparer Michéa, proche de Coline Serrau, de Serge Latouche, du MAUSS, etc, à un penseur d’extrême-droite... hum. Un peu lol. Moi-même j’ai un certain nombre de critiques et de remarques ou incohérences à formuler sur ses livres, mais je ne vois pas le rapport avec l’extrême droite.

      Orwell lui-même a théorisé un certain nombre de choses sur le patriotisme populaire : c’était un immonde fasciste patriote puant ? Faut peut-être lire un peu plus en détail avant de faire de l’anti-fascisme de bas étage.

    • Non mais arrêtez quoi, vous avez de la merde dans les yeux et vous ne voyez alors que ce qui pue ?

      J’ai lu les trois articles et les quelques rares (en plus) commentaires qui sont en dessous, et je ne vois toujours pas le rapport. Qu’ils ne soient pas libertaires, ça se voit bien. Mais ils ont le droit d’être républicains, ou patriotes, ou je sais pas quoi, sans se faire traiter de facho-puant-d’extrême-droite.

      Tu vas sur n’importe quel journal de droite ou de gauche (libé, le monde, figaro, etc) et t’as des commentaires merdiques aussi. Mais là en plus dans les 3 liens cités ya... même pas de commentaires « fachos » (lol). Ya même Koma de la Scred Connexion qui intervient ! (un rappeur indépendant connu).

      Je ne connaissais même pas ce magazine avant que @ari fasse ses remarques, ce n’est que là que j’ai fouillé un peu la ligne éditoriale et son contenu. Et je vois toujours pas de preuve de complaisance « avec l’extrême droite ». De décomplaisance avec la gauche ça oui...

    • Bon on arrête de se chamailler, là ? On se croirait à l’UMP (sauf qu’eux, ils ont un dieu commun à adorer : le fric). Alors que nous, on ne voit que ce qui nous divise. C’est pas gagné, hein !
      Ceci dit, je suis comme @rastapopoulos, pas de quoi fouetter un curé (enfin on peut les fouetter même sans raison) dans tout ce que j’ai lu.

    • @thibnton : gauche anti mondialiste et populiste plutôt, non ?

      La droite respectable, c’est celle de Dupont-Aignan, mais elle est presque inexistante. Contrainte, par la mondialisation, à choisir entre le conservatisme et l’argent, la droite a très majoritairement choisi l’argent.

      ou aussi :

      Jean-Luc Mélenchon est dans cette ambiguïté, cette incapacité à se défaire de son habitus « de gauche » pour devenir véritablement socialiste. Sur l’Europe, sur l’euro, sur le peuple, sur les électeurs FN, sur toutes ces problématiques qui pourraient faire du Front de Gauche une véritable alternative socialiste, il bute sur des réflexes bourgeois, « de gauche ». Le gauchisme obtus a un véritable catéchisme, un credo, ils tombent en adoration devant la relique de leurs Saints : « L’Europe, c’est la paix ».

      Sinon, j’ai eu une impression de question toute faite dans ce passage (ou alors A. Scheuer a un grand talent de répartie) :

      Aimeriez-vous entrer au Siècle ?

      Oui, avec un lance-flamme, j’adore les petits-fours.

    • Si pas d’extrême-droite, Ragemag est réactionnaire. Pour moi, c’est déjà trop, dans un contexte où le retour de la réaction, contre révolutionnaire ou pas - il y a plusieurs tendances - fait son chemin, de partout, en se parant du masque de l’irrévérance, de l’ironie, de l’idiosyncrasie. Ils se disent muselés, mais ils sont partout.

    • Entre nous soit dit, c’est donner bien de l’importance à un phénomène qui ne préoccupe pas grand monde (sauf ragemacreac apparemment). Quant à la réaction ou autre contre-révolution (révolution ? mais laquelle ?), elles n’ont pas besoin de Ragemag pour prospérer.
      Ragemag me fait penser au magasine « Actuel » des années 80 : des sales gosses pourris-gâtés et insolents, irrévérencieux et provocateurs, sûrement. Réactionnaires, pas vraiment. Maintenant, si ceux qui les lisent ont une tendance pathologique au racisme, à l’antisémitisme, ou au nationalisme, ils auraient très bien pu faire leur miel d’autres lectures à tendances populistes, ce n’est pas ce qui manque sur le Net.

    • @sombre : on peut définir Ragemag comme une tentative « gramscienne » pour liquider, au sein de la gauche, l’héritage anti-autoritaire de mai 68. Leur sphère d’influence s’élargit peu à peu, comme le montre le fait qu’un certain nombre de cadres du Parti de Gauche les aient rejoints, alors même que la rhétorique de ce parti se « nationalise ». On peut juger ça inintéressant ou s’en préoccuper, chacun jugera.

    • @ari : Le PG surfe sur un vieux fond de souverainisme qui, somme toute, n’est que la partie émergée acceptable du nationalisme. Je ne suis pas surpris que les cadres de ce parti s’exprime sur Ragemag. Maintenant, la définition que tu donnes de Ragemag, je dois humblement avouer que je n’y avais même pas songé car je ne connais pas bien la pensée « gramscienne ».
      @rastapopoulos : J’étais un lecteur d’Actuel dans les années 80, j’avais à peine plus de 20 balais. Et, je suis d’accord avec toi, question investigation, chacun pourrait en prendre de la graine. Maintenant, dans le paysage médiatique « papier » de l’époque, ils ne touchaient que des intellos en rupture avec l’idéologie marxiste de leurs aînés. Et ce contre-pied assez systématique de leur part a pu contribuer à la diffusion des dogmes ultralibéraux, sous couvert d’un modernisme forcené. A leur corps défendant, ils ne furent pas les seuls.

    • Dans la bibliothèque publique de mon trou perdu, Actuel était quand même une fenêtre incroyable sur le monde. Il ne touchait pas que des intellectuels en rupture avec le marxisme. Mais des amateurs de musique, des curieux aussi, des ados comme moi ! Non exempt de critiques, je vous rejoins sur le côté libéral enfant gâté, bien sur, mais il reste un ovni regretté dans le paysage de la presse française. Regretté ne serait-ce que parce que parfait pour taper dessus, il a donné naissance à de bons journalistes, dont certains qui sont régulièrement seenthissés. Mais on s’éloigne un peu de Ragemag, quand même, parce que Actuel c’est aussi les grandes années du multiculti béa, de la soul makossa, de Manu Dibango, Fela et Salif Keita, d’une période ou on pensait encore à des possibles. Un subtil mélange de on-va-y-arriver et de gueule de bois en plomb. Quand antiraciste n’était pas un gros mot mais se dire faciste bien, avant Malik Oussekine et tout ça, les années tonton, beuark, Le Pen à 15%.

    • Le PG surfe sur un vieux fond de souverainisme qui, somme toute, n’est que la partie émergée acceptable du nationalisme.

      C’est d’ailleurs bien leur inscription dans ce cadre précurseur de la xénophobie et du racisme qui leur interdira éternellement de devenir quoi que ce soit d’autre qu’un alibi de la gauche toute aussi nationaliste, mais respectable.