• Meloni, accordo con Rama prevede 2 centri migranti in Albania

    “L’accordo prevede di allestire centri per migranti in Albania che possano contenere fino a 3mila persone”. Lo ha detto la premier Giorgia Meloni dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il primo ministro dell’Albania Edi Rama. “L’accordo che sigliamo oggi – ha aggiunto - arricchisce di un ulteriore tassello la collaborazione” tra i due Paesi e “quando ne abbiamo iniziato a discutere siamo partiti dall’idea che l’immigrazione illegale di massa è un fenomeno che nessuno Stato Ue può affrontare da solo e la collaborazione tra Stati Ue e Stati per ora extra Ue – per ora - è fondamentale”. “In questi due centri” i migranti resteranno “il tempo necessario per le procedure e una volta a regime nei centri ci potrà essere un flusso annuale complessivo di 36 mila persone”. “L’accordo non riguarda i minori e donne in gravidanza ed i soggetti vulnerabili – precisa – la giurisdizione sarà italiana. L’Albania collabora sulla sorveglianza esterna delle strutture. All’accordo che disegna la cornice, seguiranno una serie di protocolli. Contiamo di rendere operativi i centri in primavera”. (ANSA).

    https://it.euronews.com/2023/11/06/meloni-accordo-con-rama-prevede-2-centri-migranti-in-albania

    #Italie #asile #migrations #réfugiés #Albanie #accord #externalisation #centres

    ajouté à la Métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...
    https://seenthis.net/messages/1043873

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    Et ajouté à la métaliste sur les différentes tentatives de différentes pays européens d’#externalisation non seulement des contrôles frontaliers, mais aussi de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers
    https://seenthis.net/messages/900122

    • Migranti, accordo Italia-Albania. Meloni: “Centri italiani nel loro Paese”. Il Pd: “Un pericoloso pasticcio”. Ue: “L’Italia rispetti il diritto comunitario”

      Il premier Edi Rama ricevuto a Palazzo Chigi dove è stato siglato un protocollo d’intesa in materia di gestione dei flussi. Accoglieranno fino a 3mila persone, solo coloro che saranno salvati in mare. Protestano + Europa e Avs

      La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ricevuto a Palazzo Chigi il primo ministro dell’Albania Edi Rama. «Sono contenta di annunciare con lui un protocollo d’intesa tra Italia e Albania in materia di gestione dei flussi migranti. L’Italia è il primo partner commerciale dell’Albania. C’è una strettissima collaborazione che già esiste nella lotta all’illegalità – dice Meloni durante le dichiarazioni congiunte con il collega albanese – L’accordo prevede di allestire due centri migranti in Albania che possano contenere fino 3mila persone. E arricchisce di un ulteriore tassello la collaborazione» tra i due Paesi e «quando ne abbiamo iniziato a discutere siamo partiti dall’idea che l’immigrazione illegale di massa è un fenomeno che nessuno Stato Ue può affrontare da solo e la collaborazione tra stati Ue e stati - per ora - è fondamentale».

      Un accordo contro cui si scagliano le opposizioni e che il Pd definisce “un pericoloso pasticcio”. Mentre da Bruxelles un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos dice: «Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve ancora essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale».

      L’incontro tra i due primi ministri è stata anche l’occasione per ribadire il sostegno dell’Italia all’ingresso di Tirana in Ue. "L’Albania si conferma una nazione amica e nonostante non sia ancora parte dell’Unione si comporta come se fosse un paese membro e questa è una delle ragioni per cui sono fiera che l’Italia sia da sempre uno dei paesi sostenitori dell’allargamento ai Balcani occidentali”. E ancora. «L’Ue non è un club. Quindi, io non parlo di ingressi ma di riunificazione dei Balcani occidentali che sono Paesi Ue a tutti gli effetti», osserva Meloni. Che ricorda anche come l’Italia sia «il primo partner commerciale dell’Albania. Il nostro interscambio vale circa il 20% del Pil albanese. Ci sono intensi rapporti culturali e sociali. È una strettissima collaborazione che già esiste nella lotta all’illegalità. L’accordo di oggi arricchisce questa collaborazione con un ulteriore tassello», conclude la premier.
      Le reazioni

      Se la destra plaude all’intesa tra l’Italia e l’Albania, le opposizioni insorgono. «L’accordo che il governo Meloni ha raggiunto con il governo albanese sembra configurarsi come un pericoloso pasticcio, parecchio ambiguo. Se infatti si è, come sembra, di fronte a richiedenti asilo, appare assolutamente inimmaginabile compiere con personale italiano e senza esborso di risorse, come annunciato, le procedure di verifica delle domande d’asilo», attacca Pierfrancesco Majorino, responsabile Politiche migratorie della segreteria nazionale del Pd. “Praticamente si crea una sorta di Guantanamo italiana, al di fuori di ogni standard internazionale, al di fuori dell’Ue senza che possa esserci la possibilita’ di controllare lo stato di detenzione delle persone rinchiuse in questi centri"., protesta Riccardo Magi, segretario di Più Europa. E Angelo Bonelli di Alleanza Verdi e Sinisra aggiunge: Quello che il governo ha definito come un ’importantissimo protocollo di intesa’ non è altro che una politica di respingimento mascherata da cooperazione internazionale. Il governo italiano –prosegue - sta delegando la gestione dei migranti irregolari, di fatto esternalizzando le proprie responsabilità, con il rischio di creare campi di permanenza che potrebbero non assicurare standard adeguati di accoglienza e rispetto per la dignità umana".

      Ma il ministro degli Esteri Antonio Tajani replica: «L’accordo rafforza il nostro ruolo da protagonista in Europa ed apre nuove strade di collaborazione nell’Adriatico. Contrasto all’immigrazione irregolare e bloccare la tratta di esseri umani. Queste le priorita’ della nostra politica estera».
      Il protocollo d’intesa

      Il protocollo d’intesa tra Italia e Albania in materia di gestione dei flussi migratori siglato oggi, secondo quanto si apprende da fonti di palazzo Chigi, non si applica agli immigrati che giungono sulle coste e sul territorio italiani ma a quelli salvati in mare, fatta eccezione per minori, donne in gravidanza e soggetti vulnerabili. Le strutture realizzate, viene spiegato, potranno accogliere complessivamente fino a 3mila immigrati, per una previsione di 39mila persone accolte in un anno. L’accordo si pone un obiettivo di dissuasione rispetto alle partenze e di deterrenza rispetto al traffico di esseri umani.

      La giurisdizione dei due centri per migranti in Albania sarà italiana, spiega ancora Palazzo Chigi. I migranti, viene precisato, sbarcheranno a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un centro di prima accoglienza e screening; a Gjader realizzerà una struttura modello Cpr per le successive procedure. L’Albania collaborerà con le sue forze di polizia per la sicurezza e sorveglianza. L’Albania, sottolinea ancora Palazzo Chigi, già vede un’importante presenza di forze dell’Ordine e magistrati italiani.
      Rama: “Se l’Italia chiama l’Albania c’è”

      “Se l’Italia chiama l’Albania c’è – risponde Rama – Non sta a noi giudicare il merito politico di decisioni prese in questo luogo e altre istituzioni, a noi sta rispondere ’Presente’ quando si tratta di dare una mano. Questa volta significa aiutare a gestire con un pizzico di respiro in più una situazione e difficile per l’Italia". «La geografia è diventata una maledizione per l’Italia, quando si entra in Italia si entra in Ue – spiega il premier Albanese – Noi non abbiamo la forza e la capacità di essere la soluzione ma abbiamo un dovere verso l’Italia e la capacità di dare una mano. L’Albania non fa parte dell’Unione ma è uno Stato europeo, ci manca la U davanti ma ciò non ci impedisce di essere e vedere il mondo come europei».

      https://www.repubblica.it/politica/2023/11/06/news/migranti_meloni_accordo_albania_edi_rama-419723671

      #Gjader #Shengjin #débarquement #identification #screening #premier_accueil #CPR

    • Migrants, accord Italie-Albanie. Meloni : « Des centres italiens dans leur pays ». Adhésion de Tirana à l’UE : « Nous l’avons toujours soutenue »

      Le Premier ministre Giorgia Meloni a reçu le Premier ministre de l’Albanie au Palazzo Chigi Edi Rama. “Je suis heureux d’annoncer avec lui un mémorandum d’accord entre l’Italie et l’Albanie sur la gestion des flux migratoires. L’Italie est le premier partenaire commercial de l’Albanie. Il existe déjà une collaboration très étroite dans la lutte contre l’illégalité – a déclaré Meloni lors de la réunion conjointe déclarations avec son collègue albanais – L’accord prévoit la création de centres de migrants en Albanie pouvant accueillir jusqu’à 3 mille personnes. Et il enrichit la collaboration « entre les deux pays avec une étape supplémentaire » et « lorsque nous avons commencé à en discuter, nous sommes partis du l’idée que l’immigration clandestine de masse est un phénomène auquel aucun État de l’UE ne peut lutter seul et que la collaboration entre les États de l’UE est – pour l’instant – fondamentale”.

      La rencontre entre les deux premiers ministres a également été l’occasion de réitérer le soutien de l’Italie à l’entrée de Tirana dans l’UE. “L’Albanie se confirme comme une nation amie et même si elle ne fait pas encore partie de l’Union, elle se comporte comme si elle en était un pays membre et c’est une des raisons pour laquelle je suis fier que l’Italie ait toujours été l’un des pays qui soutiennent l’élargissement. aux Balkans occidentaux”. Et encore. “L’UE n’est pas un club. Je ne parle donc pas d’entrées, mais de la réunification des Balkans occidentaux, qui sont à tous égards des pays de l’UE”, observe encore Meloni. Il rappelle également que l’Italie est “le premier partenaire commercial de l’Albanie. Nos échanges commerciaux représentent environ 20 % du PIB albanais. Il existe des relations culturelles et sociales intenses. C’est une collaboration très étroite qui existe déjà dans la lutte contre l’illégalité. L’accord d’aujourd’hui enrichit cette collaboration d’une étape supplémentaire”, conclut le Premier ministre.

      Le protocole d’accord entre l’Italie et l’Albanie sur la gestion des flux migratoires signé aujourd’hui, selon ce que l’on apprend de sources au Palazzo Chigi, ne s’applique pas aux immigrants arrivant sur les côtes et le territoire italiens mais à ceux secourus en mer, à l’exception de les mineurs, les femmes enceintes et les sujets vulnérables. Les structures créées, explique-t-on, pourront accueillir au total jusqu’à 3 mille immigrants, pour une prévision de 39 mille personnes accueillies par an. L’accord vise à dissuader les départs et à décourager la traite des êtres humains.

      « Si l’Italie appelle l’Albanie, elle est là – répond Rama – Ce n’est pas à nous de juger du mérite politique des décisions prises dans ce lieu et dans d’autres institutions, c’est à nous de répondre ‘Présent’ lorsqu’il s’agit de prêter un main. Cette fois, il s’agit d’aider à gérer une situation difficile pour l’Italie avec un peu plus de répit.” “La géographie est devenue une malédiction pour l’Italie, quand vous entrez en Italie, vous entrez dans l’UE – explique le Premier ministre Albanese – Nous n’avons pas la force et Nous avons la capacité d’être la solution, mais nous avons un devoir envers l’Italie et la capacité de lui donner un coup de main. L’Albanie ne fait pas partie de l’Union mais c’est un Etat européen, il nous manque le U devant mais cela ne nous empêche pas d’être et de voir le monde en Européens”.

      https://fr.italy24.press/local/1061085.html

    • Migrants: two structures to manage illegal flows, this is what the Italy-Albania #memorandum_of_understanding provides

      Two structures in Albanian territory under Italian jurisdiction which will serve to manage illegal migratory flows. This is the fulcrum of the memorandum of understanding signed today by Italy and Albania and announced by the Prime Minister Giorgia Meloni and the counterpart Edi Rama. Rama’s “surprise” visit was not officially announced until this morning when a brief note from Palazzo Chigi announced that the two heads of government would meet in the afternoon and that they would subsequently make statements to the press. The discretion of the two governments prevailed and, consequently, also the surprise effect at the time of the announcement. “It is an agreement that enriches the friendship between the two nations,” said Meloni at the time of the announcement, subsequently explaining the details of the agreement which focuses on three primary objectives: combating human trafficking, preventing it and welcoming who has the right to protection. “Albania will grant some areas of the territory”, where Italy will be able to create “two structures” for the management of illegal migrants: “they will initially be able to accommodate up to three thousand people who will remain here for the time necessary to process asylum applications and , possibly, for the purposes of repatriation", said Meloni, specifying that the agreement does not concern minors, pregnant women and vulnerable subjects.

      The prime minister also provided details on the areas which will host the two structures which, hopefully, will be ready by spring 2024. “In the port of Shengjin (the seaport located north of Albania) disembarkation and identification procedures will be taken care of, while in another more internal area another structure based on the Repatriation Retention Centers model will be created (Cpr)”, explained Meloni, adding that the Albanian police forces will cooperate to guarantee “the security and external surveillance of the structures”. According to Meloni, the agreement signed today is a further step in the close bilateral cooperation. “Mass illegal immigration is a phenomenon that EU member states cannot face alone and cooperation between EU states and, for now, non-EU states can be decisive,” said the Prime Minister, according to whom Albania confirms itself as a friend not only of Italy but also of the European Union. “Despite not yet being formally part of the EU, Albania is a candidate country but behaves as if it were already a de facto member country of the Union and this is one of the reasons why I am proud of the fact that Italy is has always been one of the greatest supporters of the entry of Albania and the Western Balkans into the Union", added Meloni, who defined the memorandum of understanding “an innovative solution” in the hope that “it can become the model for other agreements of this type”.

      Speaking at the end of Meloni’s statements, Prime Minister Rama – underlining that the idea for the agreement was born during the Prime Minister’s summer holiday in Vlore – he immediately wanted to point out that “when Italy calls, Albania is there”. “Albania is not an EU state, but it is in Europe. It is a European state, and this does not prevent us from seeing the world as Europeans,” said Rama. “We would not have made this agreement with any other EU state. There is an important relationship of a historical, cultural, but also emotional nature, which links Albania with Italy", continued the prime minister. “We can lend a hand and help manage a situation which, as everyone sees, is difficult for Italy. When you enter Italy, you enter Europe, the EU, but when it comes to managing this entry as an EU we know well how things go,” said Rama. “We don’t have the strength to be a solution, but I believe we have a duty towards Italy and a certain ability to lend a hand”, added Rama who then recalled how his country can boast a tradition of hospitality, which began by the thousands of Italians protected after the Second World War. “We have a history of hospitality”, Rama underlined, recalling that Albania welcomed more than half a million war refugees and those fleeing to survive the ethnic cleansing from Kosovo. “We also gave refuge to thousands of Afghan women when NATO abandoned Afghanistan, and to a few thousand Iranians,” added the Albanian prime minister.

      https://www.agenzianova.com/en/news/migrants-two-structures-to-manage-illegal-flows%2C-this-is-what-the-Ita
      #MoU

    • Migranti: Un #Protocollo_d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali

      Con l’ennesimo annuncio propagandistico del govern si apprende che Giorgia Meloni avrebbe concluso con il premier albanese Edi Rama un Memorandum d’intesa , che prevede – la realizzazione in Albania di due centri per il rimpatrio, che dovrebbero ospitare ogni mese fino a 3000 persone definite “irregolari”, ma solo se soccorse nel Mediterraneo da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza. Più precisamente, “l’Albania darà possibilità all’Italia di utilizzare alcune aree del territorio albanese dove l’Italia potrà realizzare, a proprie spese, due strutture dove allestire centri per la gestione di migranti illegali. Inizialmente potrà accogliere fino a 3mila persone che rimarranno il tempo necessario per espletare le procedure delle domande di asilo ed eventualmente rimpatrio”. I naufraghi saranno sbarcati a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un “centro di prima accoglienza e screening” a Gjader, che di fatto sarà una “struttura modello Cpr” per le successive procedure. I due centri dovrebbero servire per processare in 28-30 giorni le richieste di asilo e per detenere coloro che si vedranno respinta la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine. Come ha annunciato Giorgia Meloni “Dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.

      Secondo quanto annunciato dalle stesse fonti governative in un anno si penserebbe addirittura di fare transitare in queste nuove strutture detentive, che dovrebbero essere sotto giurisdizione italiana, ma con “sorveglianza esterna” affidata alle autorità albanesi, circa 36.000 persone. Nulla è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, nè su quali autorità efettueranno i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?

      La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi, al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, che si asserisce sarebbero “sotto giurisdizione italiana” potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegno alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi socorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici). In quell’occasione la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “Chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama.

      Un progetto impraticabile e privo di basi legali, quanto previsto dal Memorandum sottoscritto dalla Meloni con il premier albanese, alla luce dei tempi previsti per le procedure nei centri di detenzione, e soprattutto a causa delle difficoltà di esecuzione delle misure di allontanamento forzato da tutti i paesi europei, anche per la mancanza di accordi di riammissione tra l’Albania e molti paesi di origine dei naufraghi che, dopo essere soccorsi in mare, dovranno affrontare in stato di detenzione procedure”accelerate” per il riconoscimento di uno status di protezione, ed una possibile deportazione. Senza potere fare valere i diritti di difesa e le garanzie della libertà personale previsti dalla Costituzione italiana (a partire dal’art.13 che impone la tempestiva convalida da parte di un giudice di ogni misura di trattenimento amministrativo attuata sotto la giurisdizione italiana) e dalle norme sovranazionali dettate dalle Nazioni Unite a protezione dei richiedenti asilo, e dall’Unione Europea in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. E poi, se pensiamo ai migranti soccorsi intercettati nel mare Ionio, ma anche a quelli provenienti dalla Libia o dalla Tunisia, quanti di loro provengono da paesi terzi veramente “sicuri” ? Il governo italiano non può creare una evidente disparità di trattamento tra persone soccorse nel Mediterraneo da navi civili e altre soccorse da navi militari, che per questa sola ragione verrebbero esposte a procedure accelerate in territorio extra-UE, a differenza di quelle sbarcate in Italia,soprattutto se si tratta di persone che non provengono da paesi terzi sicuri, per cui in Italia si prevedono procedure ordinarie e sistemi di prima e seconda accoglienza.

      Non si comprende neppure quali saranno i criteri per “selezionare” i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo dalle navi militari italiane, e se queste attività di “trasporto” verso l’Albania riguarderanno anche le navi italiane impegnate nell’operazione europea Eunavfor Med- IRINI, ammesso che svolgano qualche volta attività di salvatagio. Soprattutto non si comprende come le navi militari italiane possano fare fronte, dopo soccorsi di massa in axque internazionali, al trasporto di centinaia di persone verso l’Albania, che rimane alquanto decentrata rispetto alle rotte migratorie che attraversano il Mediterraneo centrale dal nord-africa. Forse si vorranno imporre giorni e giorni di navigazione su imbarcazioni poco adatte al trasporto di naufraghi, o si risoverà tutto nel’ennesimo effetto annuncio ?

      Come è avvenuto anche in passato, il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi. Ma colpisce immediatamente la portata disumanizzante dell’accordo, se solo si mette in evidenza l’uso pregiudiziale del termine “irregolari”, quando non addirittura “illegali”, per indicare tutte le persone soccorse in mare da navi militari italiane e condotte in Albania, ad eccezione di donne in gravidanza, persone vulnerabili e minori. In palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio, e comunque riconoscono a tutte le persone, senza differenze a seconda della natura e della nazionalità della nave soccorriitrice, il diritto di chiedere protezione internazionale secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo, Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera. Ma per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, e la caduta di qualsiasi ipotesi di collaborazione con i paesi africani, il Piano Mattei per l’Africa, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee.

      Per il ministro per gli affari europei Raffaele Fitto, il Memorandum sarebbe “in linea con la priorità accordata alla dimensione esterna della migrazione e con i dieci punti del piano della presidente della Commissione von der Leyen”. Da Bruxelles, un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos ha invece affermato: “Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale“. Non si vede come la Commissione europea possa dare sostegno a questo Memorandum d’intesa, anche se l’approssimarsi della scadenza delle elezioni europee potrebbe fare schierare opportunisticamente alcuni leader nazionali(sti) o pezzi della Commisione UE a fianco di Giorgia Meloni. Il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione dela libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio. In ogni caso le attività degli assetti militari in mare, con riferimento al soccorso dei naufraghi ed al contrasto dell’immigrazione irregolare, non possono prescindere dagli obblighi imposti dal Regolamento europeo n.656 del 2014. O, forse, le operazioni di ricerca e soccorso si trasformeranno in attività di intercettazione ed “manovre cinematiche di interposizione”, come quelle condotte poste in essere nel 1997 dal comandante di Nave Sibilla, dopo gli accordi di Prodi con il governo albanese di allora, quando la nave militare italiana, nel tentativo di attuare un maldestro blocco navale, speronava un barcone carico di migranti provenienti dall’Albania, mandandolo a fondo? Ci saranno altri casi simili sotto esame da parte dei Tribunali penali italiani?

      La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respjgimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana” ?

      Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea.

      https://www.osservatoriorepressione.info/migranti-un-protocollo-dintesa-lalbania-opaco-disumano-pri

    • Naufraghi e richiedenti protezione. In collisione con i diritti

      È sbagliato evocare Guantanamo e la detenzione extraterritoriale dei sospetti terroristi negli Usa, ma di certo l’accordo a sorpresa tra Italia e Albania per l’accoglienza di una parte delle persone tratte in salvo dal mare è destinato a far discutere. Il governo Meloni aveva bisogno di riprendere l’iniziativa su un dossier identitario come quello della politica dell’asilo, i cui risultati sono finora rimasti lontani dalle promesse elettorali, e ha servito all’opinione pubblica una soluzione che può presentare come “innovativa”. Ma l’innovazione può entrare in collisione con i diritti sanciti dalla Costituzione italiana e dai trattati europei e internazionali.

      Anzitutto, il patto Meloni-Rama ha un sottofondo post-coloniale, come l’accordo britannico con il Ruanda a cui sembra ispirarsi: un Paese del “Primo mondo”, forte delle sue risorse politiche ed economiche, dirotta su un Paese meno fortunato e più bisognoso di appoggi l’onere di accogliere sul suo territorio i migranti sgraditi. Si immagina paradossalmente che Paesi con meno risorse e istituzioni più fragili possano ricevere degnamente i profughi che da noi sono visti come un problema. Infatti, quasi tradendo il sottotesto punitivo dell’accordo, si prevede che vengano esentati dal trasferimento in Albania donne in gravidanza, minori, soggetti vulnerabili. E il governo non ha esitato a parlare di una misura finalizzata alla deterrenza nei confronti di quelli che si ostina a definire come immigrati illegali, al pari del modello britannico.

      In realtà nel 2022 il 48% dei richiedenti l’asilo ha ottenuto uno status legale in prima istanza, e ad essi si aggiunge il 72% di coloro che hanno presentato un ricorso giurisdizionale. Dunque, rischiamo di mandare in Albania delle persone che hanno diritto all’asilo. Proprio l’esempio britannico mostra che le corti di giustizia, nazionali ed europee, l’hanno finora bloccato, e la capacità di reggere al vaglio della magistratura sarà un arduo banco di prova dell’accordo.

      Qualcosa non quadra poi riguardo ai numeri: si prevede di realizzare due strutture sul territorio albanese, una per l’identificazione allo sbarco, l’altra per l’accoglienza temporanea, con una capacità di 3.000 posti complessivi, e si prevede di trattare complessivamente 36-39.000 profughi all’anno. Si lascia intendere che basteranno quattro settimane per decidere della loro domanda di asilo, mentre oggi il tempo medio è di circa 18 mesi, senza contare la possibilità di ricorso. È probabile che i profughi languiranno a lungo in Albania e che i numeri dei casi trattati rimarranno assai più bassi di quelli annunciati.

      Ma i problemi più spinosi riguardano l’integrazione dei “deportati”. Se otterranno la protezione internazionale, averli lasciati in un Paese terzo non avrà di certo preparato la strada per la loro futura integrazione in Italia, sotto il profilo della possibilità di apprendere e praticare la lingua italiana, di conoscere la società in cui dovranno inserirsi, di orientarsi nel mercato del lavoro e nel sistema dei servizi. Se invece riceveranno un diniego, occorre chiedersi che ne sarà di loro. La bassissima capacità di rimpatrio forzato da parte delle nostre istituzioni (4.304 persone nel 2022), peraltro simili in questo agli altri Paesi europei, è un dato ormai noto. Se ne occuperanno le autorità albanesi? Con quale protezione dei loro diritti umani inalienabili, per esempio il diritto alle cure mediche necessarie e urgenti, o a non morire di fame?

      La politica dell’immigrazione ci ha abituato da tempo a dichiarazioni enfatiche – basti ricordare i più volte annunciati accordi con la Tunisia – e presunte soluzioni che si rivelano inattuabili. Anche l’accordo Italia-Albania rischia ora di entrare nella serie. O meglio: se non sarà attuato, sarà l’ennesima pseudo-ricetta venduta all’opinione pubblica; se dovesse essere attuato, anche solo parzialmente, tratterà soltanto una minoranza dei casi e sferrerà comunque una picconata alla già traballante architettura giuridica dei diritti umani fondamentali.

      https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/in-collisione-con-i-diritti

    • Accord migratoire Italie-Albanie : l’#ONU appelle au respect du #droit_international

      L’agence de l’ONU pour les réfugiés (HCR) a appelé mardi au « respect du droit international relatif aux réfugiés » après l’accord signé lundi entre l’Italie et l’Albanie visant à délocaliser dans ce pays l’accueil de migrants sauvés en mer et l’examen de leur demande d’asile.

      « Les modalités de transfert des demandeurs d’asile et des réfugiés doivent respecter le droit international relatif aux réfugiés », a exhorté le HCR dans un communiqué publié à Genève.

      L’accord signé lundi à Rome par la cheffe du gouvernement italien Giorgia Meloni et son homologue albanais Edi Rama prévoit que l’Italie va ouvrir dans ce pays, candidat à l’adhésion à l’UE, deux centres pour accueillir des migrants sauvés en mer afin de « mener rapidement les procédures de traitement des demandes d’asile ou les éventuels rapatriements ».

      Ces deux centres gérés par l’Italie, opérationnels au printemps 2024, pourront accueillir jusqu’à 3.000 migrants, soit environ 39.000 par an selon les prévisions. Les mineurs, les femmes enceintes et les personnes vulnérables ne seraient pas concernés.

      Le HCR, qui dit n’avoir « pas été informé ni consulté sur le contenu de l’accord », estime que « les retours ou les transferts vers des pays tiers sûrs ne peuvent être considérés comme appropriés que si certaines normes sont respectées - en particulier, que ces pays respectent pleinement les droits découlant de la Convention relative au statut des réfugiés et les obligations en matière de droits de l’Homme, et si l’accord contribue à répartir équitablement la responsabilité des réfugiés entre les nations, plutôt que de la déplacer ».

      Un membre du gouvernement italien a précisé mardi que les migrants seraient emmenés directement vers ces centres, sans passer par l’Italie, et que ces structures seraient placées sous l’autorité de Rome en vertu d’« un statut d’extraterritorialité ». Mais de nombreuses questions sur le fonctionnement d’un tel projet restent en suspens.

      L’Italie est confrontée à un afflux de migrants depuis janvier (145.000 contre 88.000 en 2022 sur la même période). Les règles européennes prévoient que d’une manière générale, le premier pays d’entrée d’un migrant dans l’UE est responsable du traitement de sa demande d’asile, et les pays méditerranéens se plaignent de devoir assumer une charge disproportionnée.

      https://www.mediapart.fr/journal/fil-dactualites/071123/accord-migratoire-italie-albanie-l-onu-appelle-au-respect-du-droit-interna

    • Accordo Italia-Albania: un altro patto illegale, un altro tassello della propaganda del governo

      #Fulvio_Vassallo_Paleologo: «Un protocollo opaco, disumano e privo di basi legali»

      “Un’intesa storica”, “È un accordo che arricchisce un’amicizia storica”, “I nostri immigrati in Albania”, “Svolta sugli sbarchi”. E’ un tripudio di frasi altisonanti e di affermazioni risolutive quelle che hanno accompagnato in questi giorni la diffusione del protocollo d’intesa firmato da Meloni e dal primo ministro albanese, Edi Rama, per l’apertura in Albania di due centri italiani per la gestione dei richiedenti asilo. Strutture in cui dovranno essere trattenute persone migranti, ad esclusione di donne e minori, soccorse nel Mediterraneo centrale da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza.

      Alcuni dettagli dell’operazione sono emersi da un testo (scarica qui) di nove pagine scarse e 14 articoli che indicano come funzioneranno e verranno gestiti i centri. L’accordo ha una durata di cinque anni e sarà rinnovato automaticamente a meno che una delle due parti non comunichi il proprio dissenso entro sei mesi dalla scadenza. In un anno dovrebbero essere accolte-trattenute circa 36.000 persone. I costi, dalle spese di detenzione alla sicurezza interna, saranno tutti in capo all’Italia, mentre l’Albania fornirà gratuitamente gli spazi in cui verranno costruiti i centri: uno al porto di Shengjin, circa 70 chilometri a nord di Tirana, e un altro a Gjader, nell’entroterra. I due centri dovrebbero servire per processare entro 30 giorni le richieste di asilo e per trattenere coloro a cui verrà negata la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine oppure del probabile invio in Italia. Come ha annunciato Giorgia Meloni “dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.
      L’Italia dovrà farsi carico anche di tutte le spese legate alla costruzione dei centri che dovranno essere aperti per la primavera del 2024. Il Post riporta che il sito albanese Gogo.al ha indicato sommariamente dei costi iniziali (vedi il documento diffuso): “l’Italia verserà all’Albania entro 3 mesi un primo fondo pari a 16,5 milioni. Si prevede che oltre 100 milioni di euro saranno congelati in un conto bancario di secondo livello come garanzia”.

      La presidente del Consiglio doveva battere un colpo, dare un messaggio al suo elettorato e alla maggioranza: il “problema immigrazione”, con gli sbarchi che non accennano a diminuire 1 e il flop dell’accordo con la Tunisia, è sempre una priorità della sua agenda politica, a tal punto che è lei stessa, senza coinvolgere nessun altro ministro, a intestarsi l’operazione e dichiarare il nuovo “punto di svolta”. E’ perciò evidente che questo protocollo si inserisce dentro il solco della narrazione mediatica e normativa, dal decreto Piantedosi sulle Ong, al cosiddetto decreto Cutro, fino alla proclamazione dello stato di emergenza dell’11 aprile e alle altre modifiche ai danni di minori e richiedenti asilo, dove vale tutto per raggiungere l’obiettivo dichiarato di ostacolare gli arrivi delle persone migranti.

      Tuttavia, tutti questi tentativi, dall’esternalizzare le frontiere e le procedure di asilo fino a portare fisicamente le persone in Paesi extra Ue, non sono una prerogativa solo del governo Meloni, ma hanno avuto in questi anni diversi promotori e, pur con delle differenze tra loro, una stessa matrice ideologica anti-migranti: per esempio, i respingimenti a catena dall’Italia alla Bosnia-Erzegovina, non hanno poi uno scopo così diverso dagli accordi tra Inghilterra e Ruanda.

      Secondo l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo si tratta dell’ennesimo annuncio propagandistico del governo in quanto il protocollo d’intesa è «opaco, disumano e privo di basi legali».

      «Nulla infatti – fa notare l’esperto di diritto di asilo e immigrazione – è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, né su quali autorità effettuano i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?», si domanda.

      Nel protocollo – si legge nel testo – le autorità italiane avranno piena responsabilità all’interno dei centri, mentre le autorità albanesi dovranno garantire la sicurezza all’esterno dei centri e durante il trasferimento dei migranti: potranno entrare nei centri solo «in caso di incendio o di altro grave e imminente pericolo che richiede un immediato intervento».

      «La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi – spiega l’esperto – al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegnò alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi soccorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici)».

      «In quell’occasione – prosegue Paleologo – la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama».

      Anche rispetto la procedura di cosiddetto “sbarco selettivo” tra donne, minori e uomini ci sono diversi problemi di legittimità giuridica in quanto si tratta di una palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio. Anche su questo punto Paleologo è chiaro: «Il diritto di chiedere protezione internazionale è regolato secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo. Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure se sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporrebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera».

      Da Bruxelles, la Commissione UE non esclude del tutto la validità dell’accordo, affermando che il caso è diverso dall’accordo Regno Unito-Ruanda, in quanto si applicherebbe alle persone che non hanno ancora raggiunto le coste italiane. Sempre secondo l’avvocato Paleologo «il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, pratiche illegali di privazione della libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio».

      «La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respingimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana”? Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati.
      Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea», conclude Paleologo.

      https://www.meltingpot.org/2023/11/accordo-italia-albania-un-altro-patto-illegale-un-altro-tassello-della-p

    • L’accordo Italia-Albania sui migranti? Solo propaganda!

      Il nuovo memorandum d’intesa tra Italia e Albania sulla gestione dei migranti? Probabilmente solo un « ennesimo annuncio propagandistico » secondo Fulvio Vassallo Paleologo che firma su ADIF [1] un dettagliato articolo che analizza l’annuncio di Giogia Meloni ( non il provvedimento perché questo non esiste ).

      In altre parole, « per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, il “Piano Mattei per l’Africa”, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee ».

      Possibile che il giurista abbia ragione, ma è anche possibile che il fine sia creare terrore in chi in Italia è già; I CPR, ancor di più se in Albani, sono strumentali a schiavizzare i migranti.

      L’avvocato e attivista pro migranti Fulvio Vassallo Paleologo, nell’articolo solleva pure una serie di perplessità giuridiche del progetto della presidente del consiglio italiano di realizzare un CPR in Albania.

      Una tra queste: « qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo [e quindi l’Italia, NdR] deve avere una espressa previsione di legge, e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa » [1].

      Come possa assicurarsi, in Albania, la difesa legale del migrante e un procedimento di convalida firmato da un magistrato italiano rappresenta un grande punto interrogativo. « Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese? », scrive infatti il giurista nell’articolo.

      Precisa poi Fulvio Vassallo Paleologo come « il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi ».

      Il giudizio finale dell’autore rispetto all’annuncio della Meloni non può, quindi, che essere negativo e drastico: « appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio ».

      Tagliente anche il giudizio rispetto alla firma del leader albanese, Edi Rama: « il Memorandum d’intesa rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità ».

      La differenza tra la verità di Fulvio Vassallo Paleologo e la propaganda della Meloni, tuttavia, la fanno le “visualizzazioni” del sito ADIF rispetto a quelli di Repubblica, La Stampa, Libero, Il Giornale, La Verità, Il Gazzettino, etc dove l’effetto “annuncio” è passato senza commenti critici.

      Fonti e Note:

      [1] ADIF, 7 novembre 2023, Fulvio Vassallo Paleologo, “Un Protocollo d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali”.

      https://www.pressenza.com/it/2023/11/laccordo-italia-albania-sui-migranti-solo-propaganda

    • Un Protocollo d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali

      Con l’ennesimo annuncio propagandistico del govern si apprende che Giorgia Meloni avrebbe concluso con il premier albanese Edi Rama un Memorandum d’intesa , che prevede – la realizzazione in Albania di due centri per il rimpatrio, che dovrebbero ospitare ogni mese fino a 3000 persone definite “irregolari”, ma solo se soccorse nel Mediterraneo da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza. Più precisamente, “l’Albania darà possibilità all’Italia di utilizzare alcune aree del territorio albanese dove l’Italia potrà realizzare, a proprie spese, due strutture dove allestire centri per la gestione di migranti illegali. Inizialmente potrà accogliere fino a 3mila persone che rimarranno il tempo necessario per espletare le procedure delle domande di asilo ed eventualmente rimpatrio”. I naufraghi saranno sbarcati a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un “centro di prima accoglienza e screening” a Gjader, che di fatto sarà una “struttura modello Cpr” per le successive procedure. I due centri dovrebbero servire per processare in 28-30 giorni le richieste di asilo e per detenere coloro che si vedranno respinta la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine. Come ha annunciato Giorgia Meloni “Dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.

      Secondo quanto annunciato dalle stesse fonti governative in un anno si penserebbe addirittura di fare transitare in queste nuove strutture detentive, che dovrebbero essere sotto giurisdizione italiana, ma con “sorveglianza esterna” affidata alle autorità albanesi, circa 36.000 persone. Nulla è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, nè su quali autorità efettueranno i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?

      La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi, al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, che si asserisce sarebbero “sotto giurisdizione italiana” potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegno alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi socorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici). In quell’occasione la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “Chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama.

      Un progetto impraticabile e privo di basi legali, quanto previsto dal Memorandum sottoscritto dalla Meloni con il premier albanese, alla luce dei tempi previsti per le procedure nei centri di detenzione, e soprattutto a causa delle difficoltà di esecuzione delle misure di allontanamento forzato da tutti i paesi europei, anche per la mancanza di accordi di riammissione tra l’Albania e molti paesi di origine dei naufraghi che, dopo essere soccorsi in mare, dovranno affrontare in stato di detenzione procedure”accelerate” per il riconoscimento di uno status di protezione, ed una possibile deportazione. Senza potere fare valere i diritti di difesa e le garanzie della libertà personale previsti dalla Costituzione italiana (a partire dal’art.13 che impone la tempestiva convalida da parte di un giudice di ogni misura di trattenimento amministrativo attuata sotto la giurisdizione italiana) e dalle norme sovranazionali dettate dalle Nazioni Unite a protezione dei richiedenti asilo, e dall’Unione Europea in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. E poi, se pensiamo ai migranti soccorsi intercettati nel mare Ionio, ma anche a quelli provenienti dalla Libia o dalla Tunisia, quanti di loro provengono da paesi terzi veramente “sicuri” ? Il governo italiano non può creare una evidente disparità di trattamento tra persone soccorse nel Mediterraneo da navi civili e altre soccorse da navi militari, che per questa sola ragione verrebbero esposte a procedure accelerate in territorio extra-UE, a differenza di quelle sbarcate in Italia,soprattutto se si tratta di persone che non provengono da paesi terzi sicuri, per cui in Italia si prevedono procedure ordinarie e sistemi di prima e seconda accoglienza.

      Non si comprende neppure quali saranno i criteri per “selezionare” i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo dalle navi militari italiane, e se queste attività di “trasporto” verso l’Albania riguarderanno anche le navi italiane impegnate nell’operazione europea Eunavfor Med- IRINI, ammesso che svolgano qualche volta attività di salvatagio. Soprattutto non si comprende come le navi militari italiane possano fare fronte, dopo soccorsi di massa in axque internazionali, al trasporto di centinaia di persone verso l’Albania, che rimane alquanto decentrata rispetto alle rotte migratorie che attraversano il Mediterraneo centrale dal nord-africa. Forse si vorranno imporre giorni e giorni di navigazione su imbarcazioni poco adatte al trasporto di naufraghi, o si risoverà tutto nel’ennesimo effetto annuncio ?

      Come è avvenuto anche in passato, il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi. Ma colpisce immediatamente la portata disumanizzante dell’accordo, se solo si mette in evidenza l’uso pregiudiziale del termine “irregolari”, quando non addirittura “illegali”, per indicare tutte le persone soccorse in mare da navi militari italiane e condotte in Albania, ad eccezione di donne in gravidanza, persone vulnerabili e minori. In palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio, e comunque riconoscono a tutte le persone, senza differenze a seconda della natura e della nazionalità della nave soccorriitrice, il diritto di chiedere protezione internazionale secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo, Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera. Ma per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, e la caduta di qualsiasi ipotesi di collaborazione con i paesi africani, il Piano Mattei per l’Africa, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee.

      Per il ministro per gli affari europei Raffaele Fitto, il Memorandum sarebbe “in linea con la priorità accordata alla dimensione esterna della migrazione e con i dieci punti del piano della presidente della Commissione von der Leyen”. Da Bruxelles, un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos ha invece affermato: “Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale“. Non si vede come la Commissione europea possa dare sostegno a questo Memorandum d’intesa, anche se l’approssimarsi della scadenza delle elezioni europee potrebbe fare schierare opportunisticamente alcuni leader nazionali(sti) o pezzi della Commisione UE a fianco di Giorgia Meloni. Il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione dela libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio. In ogni caso le attività degli assetti militari in mare, con riferimento al soccorso dei naufraghi ed al contrasto dell’immigrazione irregolare, non possono prescindere dagli obblighi imposti dal Regolamento europeo n.656 del 2014. O, forse, le operazioni di ricerca e soccorso si trasformeranno in attività di intercettazione ed “manovre cinematiche di interposizione”, come quelle condotte poste in essere nel 1997 dal comandante di Nave Sibilla, dopo gli accordi di Prodi con il governo albanese di allora, quando la nave militare italiana, nel tentativo di attuare un maldestro blocco navale, speronava un barcone carico di migranti provenienti dall’Albania, mandandolo a fondo? Ci saranno altri casi simili sotto esame da parte dei Tribunali penali italiani?

      La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respjgimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana” ?

      Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea.

      https://www.a-dif.org/2023/11/07/un-protocollo-dintesa-con-lalbania-opaco-disumano-e-privo-di-basi-legali

    • Accordo Italia-Albania sui migranti, la UE chiede i dettagli

      L’Italia realizzerà in Albania due centri per la gestione dei migranti che potranno gestire un flusso annuale di 36mila persone. Lo ha dichiarato oggi la premier Giorgia Meloni in conferenza stampa con il primo ministro albanese Edi Rama. Ne parliamo con Genthiola Madhi, ricercatrice di Osservatorio Balcani e Caucaso, e con Andrea Spagnolo, professore di Diritto internazionale e umanitario all’Università di Torino.

      https://www.radio24.ilsole24ore.com/programmi/luogo-lontano/puntata/trasmissione-7-novembre-2023-160500-2404283315532563

    • Ecco perché l’accordo tra Italia e Albania è illegale: tutte le procedure che violano il diritto europeo

      Rappresenta il punto più estremo dell’esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo. Le tutele per le persone bisognose di protezione, invece che garantite, vengono ridotte al minimo.

      Il Protocollo stipulato tra Italia ed Albania “per il rafforzamento della cooperazione in materia migratoria” è il punto finora più estremo (ma, come si vedrà, anche incoerente) a cui l’Italia è giunta nel processo di esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo.

      Trattandosi di un’intesa avente una chiara natura politica, che richiede oneri finanziari, e che altresì riguarda la condizione giuridica degli stranieri, quindi una materia coperta dalla riserva di legge di cui all’art. 10 co.2 della Costituzione, il Protocollo e i suoi atti attuativi devono essere ratificati dal Parlamento ai sensi dell’art. 80 della Costituzione. Prive di alcun pregio mi sembrano le argomentazioni di chi ritiene che non occorre alcuna ratifica trattandosi di una sorta rinforzo ad accordi pre-esistenti.

      Scopo del Protocollo è quello di trasportare coattivamente in Albania cittadini di paesi terzi per “i quali deve essere accertata la sussistenza o è stata accertata l’insussistenza dei requisiti per l’ingresso, il soggiorno o la residenza” (art.1) in Italia. In Albania, in “aree di proprietà demaniale” (art.1) albanesi, quindi in territorio albanese a tutti gli effetti, nel quale i migranti rimarrebbero confinati “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea e per il tempo strettamente necessario alle stesse” (art.4.3).

      Il testo non esclude che l’ingresso in Albania avvenga anche in via diversa da quella marittima, quindi riguardi anche persone straniere bloccate sulle vie terrestri, magari nei Balcani, purché tale trasporto avvenga “esclusivamente con i mezzi delle competenti autorità italiane” (art. 4.4). Le autorità italiane assicurano “la permanenza dei migranti all’interno delle aree impedendo la loro uscita non autorizzata” (art. 6.5) e il periodo di permanenza in Albania “non può essere superiore al periodo massimo di trattenimento consentito dalla normativa italiana” (art. 9.1).

      Al termine delle procedure le autorità italiane “provvedono all’allontanamento dei migranti dal territorio albanese” (art. 9) ovvero al rientro in Italia. Molta enfasi è stata posta sul fatto che l’accordo sia finalizzato al trasferimento forzato in Albania dei soccorsi in mare al fine di esaminare le domande di asilo dei naufraghi; tuttavia nel protocollo non c’è alcun riferimento alla procedura di asilo né alla protezione internazionale e le uniche parole che richiamano l’asilo riguardano il rinvio a non meglio definite procedure di frontiera.

      Obiettivo non secondario del protocollo, risulterebbe dunque essere l’utilizzo del territorio albanese per farvi dei centri di detenzione amministrativa per stranieri espulsi dall’Italia, ma che verrebbero trattenuti in Albania al fine di eseguire coattivamente il rimpatrio nel paese di origine. Nonostante il ministro Piantedosi si affanni a dichiarare che non si tratterà di CPR (Centri per il Rimpatrio) il testo del Protocollo dice diversamente.

      Emerge dunque evidente il rischio che l’operazione intenda nascondere una strategia per realizzare CPR inaccessibili, lontani da sguardi indiscreti e da inchieste giornalistiche, liberandosi dell’incubo di dover trovare un luogo dove aprirli in Italia, dove nessun amministratore, di qualsiasi colore politico li vuole. Esaminiamo ora l’ipotesi che il Protocollo venga applicato principalmente a persone soccorse in mare che verrebbero portate in Albania al solo scopo di detenerle e di esaminare le loro domande di asilo.

      Nel testo del protocollo si fa riferimento esplicito all’espletamento delle procedure di frontiera previste dal diritto italiano ed europeo. Prima ancora di verificare se gli standard e le garanzie previste dal diritto dell’Unione possano essere rispettate, ciò che bisogna chiedersi è se sia possibile esaminare le domande di asilo presentate da coloro che vengono deportati dal territorio italiano in cui si trovano (le navi ed altri mezzi delle autorità italiane) nel territorio albanese.

      La risposta non può che essere negativa, dal momento che il diritto dell’Unione sull’asilo (o protezione internazionale) si applica nel territorio degli Stati membri, alle frontiere, nelle zone di transito e nelle acque territoriali. Non si applica al di fuori dell’Unione. Un’applicazione extra-territoriale del diritto dell’UE non pare possibile, come del tutto correttamente messo in luce anche dal documento “Preliminary Comments on the Italy-Albania Deal” pubblicato il 9.11.23 dall’autorevole E.C.R.E. (European Council on Refugees and Exiles).

      Analogo ragionamento vale anche per ciò che attiene l’ipotesi di usare i centri per l’esecuzione del trattenimento degli stranieri espulsi regolato dal diritto dell’Unione con la Direttiva 115/2008/CE. Anche in tal caso non ne risulta possibile alcuna applicazione extra territoriale al di fuori del territorio degli stati membri dell’Unione.

      Va sempre considerato che non ci troviamo di fronte alla questione di come consentire l’accesso alla procedura di asilo da parte di uno straniero che si trova all’estero, e di come si possa esaminare, almeno in fase preliminare, la sua domanda di asilo al fine di consentire un suo successivo ingresso nel territorio di uno stato membro: in altri termini, di come creare delle procedure di ingresso protette a persone con un chiaro bisogno di protezione.

      All’esatto opposto, il protocollo tra Italia e Albania configura una situazione nella quale persone che sono già sotto la giurisdizione italiana, per essere stati soccorsi e trasportati da navi dello Stato, vengono subito dopo tradotte in un paese terzo al solo scopo di impedirne l’ingresso nel territorio nazionale e predeterminare delle condizioni di esame delle domande di asilo con garanzie procedurali ridotte al minimo.

      Ammettiamo ora, come mero esercizio, che si possa sostenere che il diritto dell’Unione sia applicabile all’esame delle domande di asilo in Albania ed esaminiamo le principali questioni che si aprono: la consegna dei migranti dalle mani delle autorità italiane a quelle albanesi, allo sbarco e fino all’ingresso nei centri di detenzione, che, nonostante l’asserita giurisdizione italiana, si trovano in territorio albanese, potrebbe configurare un respingimento collettivo vietato dal diritto dell’Unione Europea. Per i respingimenti collettivi attuati con la Libia nel 2009 l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti umani il 23.02.2013 nella causa Hirsi Jamaa.

      Nessuna valutazione sulla condizione delle persone salvate in mare può essere condotta a bordo delle navi italiane, e dunque ogni procedura giuridica dovrebbe iniziare in territorio albanese all’interno di centri sotto la giurisdizione italiana (ma anche albanese). La restrizione della libertà personale di coloro che vi verrebbero rinchiusi, per essere conforme all’art. 13 Costituzione, va convalidato dall’autorità giudiziaria con un esame caso per caso a seguito del quale il provvedimento di trattenimento viene convalidato o meno.

      Come garantire dentro il microcosmo del campo a gestione italiana il corretto funzionamento della procedura, tra cui ovviamente il diritto del richiedente che si intende trattenere di essere assistito da un legale italiano di fiducia? In ogni caso deve essere esclusa la possibilità di un trattenimento generalizzato di tutti i richiedenti asilo perché tassativamente vietato dal diritto dell’Unione che vieta agli Stati di applicare misure di limitazione della libertà personale nei confronti dei richiedenti asilo “per il solo fatto di essere un richiedente” (Direttiva 2013/33/UE articolo 7 paragrafo 1).

      Come noto, il diritto dell’Unione prevede che il trattenimento venga disposto solo in casi molto limitati e “salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive” (articolo 8, paragrafo 2), misure che comunque in Albania non sarebbero mai praticabili.

      La larga maggioranza dei richiedenti asilo, sicuramente tutte le situazioni vulnerabili e i minori, ma anche tutti coloro cui non sarebbe applicabile la procedura accelerata di frontiera, non potrebbero dunque in nessun caso essere trattenuti, ma poiché non possono neppure rimanere in Albania al di fuori dal centro, dovrebbero essere trasportati in Italia immediatamente per continuare l’accoglienza e l’esame ordinario della loro domanda di asilo sul territorio nazionale.

      Nei confronti di coloro che rimarrebbero rinchiusi nei centri in Albania va garantito senza eccezioni l’esercizio dei diritti fondamentali, tra cui il diritto di ricevere “le informazioni sulla procedura con riguardo alla situazione particolare del richiedente” nonché di comunicare con “organizzazioni che prestino assistenza legale o altra consulenza ai richiedenti” (Direttiva 2013/32/UE art. 19).

      In caso di diniego il richiedente deve poter pienamente esercitare il suo diritto alla difesa, costituzionalmente garantito (Cost. articolo 24) e ha diritto ad un “ricorso effettivo” (Direttiva 2013/32/UE art. 46 par.1) che per essere tale deve garantire alla persona la libertà di consultare un legale e di sceglierlo.

      Nell’ambito delle procedure accelerate di frontiera il giudice mantiene la possibilità di concedere la sospensiva nelle more della decisione di merito ovvero “autorizzare o meno la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro” (art.46 par.6 lettera d). Ma, in caso di autorizzazione il richiedente non si trova affatto sul territorio dello Stato membro (!) bensì in Albania, il che comporta l’immediato trasferimento in Italia del richiedente da parte delle autorità italiane e la prosecuzione dell’iter della domanda in Italia.

      Il Protocollo appare dunque un incredibile coacervo di procedure radicalmente illegittime rispetto al diritto dell’Unione vigente e che comunque non potrebbero essere applicate in modo razionale e rispettoso di garanzie procedurali e di tutela dei diritti fondamentali degli stranieri coinvolti, sia che si tratti di naufraghi prima e richiedenti asilo poi, che di stranieri espulsi e poi trattenuti in Albania.

      https://www.unita.it/2023/11/10/ecco-perche-laccordo-tra-italia-e-albania-e-illegale-tutte-le-procedure-che-vi

    • Ancora lui, ancora Edi

      Periodicamente il primo ministro albanese si occupa dei flussi migratori italiani. Ripassare quali siano le sue motivazioni è utile, anche perché questa volta, forse, ha esagerato. Un commento

      Edi Rama governa l’Albania da più di dieci anni. Le prime elezioni le vinse nel 2013, pochi mesi dopo il “siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto” di Pierluigi Bersani. Da noi la sinistra pareggiava con un Berlusconi terminale; sull’altra sponda dell’Adriatico, invece, Edi l’artista, Edi il socialista, l’ex sindaco di Tirana che aveva colorato i palazzi, archiviava per sempre la stagione di Sali Berisha. Voltava pagina. “Come sono avanti questi albanesi”, è il qualunquismo mezzo di sinistra e mezzo di disprezzo che da allora dedichiamo ai nostri vicini. E su questa carenza di conoscenza, da più di un decennio, periodicamente, Edi Rama lucra politica. Non lo vediamo perché per vederlo bisogna considerare l’Albania uno stato. E invece per noi l’Albania è un luogo dell’immaginario, e i sogni non sono portatori di interessi. Non lo vediamo, perché la fiction italo-albanese è utile a mascherare la povertà della nostra politica estera.

      L’ultimo gioco di prestigio Rama lo ha regalato lunedì scorso a Palazzo Chigi, questa volta il complice non è stato l’«amico Renzi» (2014), né l’«amico Di Maio» (2021), siccome siamo nel 2023 è stata «l’amica Giorgia Meloni». Non sono certo che commentare il memorandum (https://www.ilpost.it/wp-content/uploads/2023/11/08/1699429572-Protocollo-Italia-Albania-.pdf?x19465) firmato dai due governi sia utile, non solo perché è evidentemente poco praticabile sul piano pratico e giuridico, ma perché seguo da diversi anni le relazioni tra Italia e Albania e non credo più alle parole che si dicono le due diplomazie. A chi non avesse seguito, basti sapere che nel corso della conferenza stampa (https://www.governo.it/it/articolo/il-presidente-meloni-incontra-il-primo-ministro-della-repubblica-d-albania/24178), la Presidente del Consiglio ha dichiarato che l’Albania “concederà all’Italia alcune zone del suo territorio” (sic!), sulle quali l’Italia potrà realizzare “a proprie spese e sotto la propria giurisdizione” due strutture “per la gestione dei migranti illegali”. Per l’esattezza il governo ipotizza di portare in Albania tremila persone al mese, che dovrebbero rimanere in questi centri durante la domanda di asilo, negata la quale il richiedente verrebbe allontanato dal territorio albanese (non si capisce per andare dove, se si rimpatria dall’Italia o dall’Albania). Flusso complessivo annuale stimato: 36.000 persone. Come alla fine delle pubblicità dei farmaci, Meloni in chiusura ha messo le avvertenze – “Il protocollo disegna la cornice politica, all’accordo dovranno seguire i provvedimenti normativi conseguenti” – e ha fornito una vaga data di inizio progetto: primavera 2024. Tradotto: questo accordo non esiste, è pura propaganda.

      Nulla di nuovo sotto il sole italo-albanese. Qualcosa di simile era già avvenuto nel 2018, quando la crisi della nave Diciotti bloccata da Salvini nel porto di Catania venne “risolta” dai media manager del governo albanese, che promise su twitter l’accoglienza di 20 migranti, venendo immediatamente ripreso dall’account della Farnesina, e quindi da tutte le agenzie stampa. Anche allora i ministri Salvini e Di Maio (il governo era gialloverde) enfatizzarono la condotta del piccolo paese balcanico “più europeo e più solidale degli stati membri”: a sinistra ci si cullò nel sogno di un paese povero ma ospitale, a destra ci si vantò dei frutti dell’intransigenza del ministro degli Interni, che con il suo “no” aveva imposto una redistribuzione, peraltro a un paese che con il suo gesto ripagava finalmente l’accoglienza degli italiani (come se la Lega Nord degli anni Novanta fosse stata accogliente verso gli albanesi). Giorni di dichiarazioni allucinanti e vuote, perché nessun asilante della Diciotti arrivò mai in Albania (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Nessun-asilante-della-Diciotti-e-mai-arrivato-in-Albania-192453), né alcuna autorità si pose mai il problema che ciò accadesse, essendo illegale il trasferimento di un migrante giunto in Ue in uno stato terzo, fuori dal sistema di asilo europeo.

      Ed è proprio qui che la sparata di Meloni supera quella di Salvini: perché per evitare l’obiezione dell’illegalità di un trasferimento forzato fuori dall’Ue, a questo giro si dice che il porto di Shëngjin e le sue strutture saranno “territorio italiano”, e che da quel territorio i migranti dislocati in Albania potranno chiedere asilo all’Italia. Ammesso e non concesso che sia possibile trasportare i migranti intercettati, poniamo, al largo della Sicilia in un porto a 700 km di mare delle rotte del Mediterraneo centrale (non certo l’approdo più vicino imposto dalle Convenzioni internazionali sul soccorso in mare), davvero non si capisce come sia possibile realizzare una Italia extraterritoriale, capace di organizzare un’accoglienza rispettosa del diritto internazionale fuori dai propri confini. Ma sto contravvenendo al buon proposito di non commentare un memorandum che non diventerà mai operativo. Torniamo alla politica, e in particolare alla politica albanese. Perché, ciclicamente, Edi Rama si occupa delle nostre questioni migratorie?

      Per lo stesso motivo per cui nel 2020 sceneggiò di inviare una squadra di infermieri in Lombardia per aiutare le nostre terapie intensive intasate dal Covid-19 (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Dare-un-senso-alla-solidarieta-del-governo-albanese-200768): il video sulla pista dell’aeroporto di Tirana (https://www.youtube.com/watch?v=XYtgeZjtIko

      ), con i poveri medici già inscafandrati è degno della Corea del Nord (per la cronaca, si trattava di ragazzi inesperti, come emerse negli ospedali del bresciano dove vennero dislocati, sostanzialmente per apprendere le tecniche di contrasto al virus, nel momento in cui la pandemia divampava anche in Albania). Nel 2018, come nel 2020 come nel 2023, per Edi Rama l’obiettivo è sempre uno solo: entrare nel flusso narrativo delle vicende europee, accreditarsi tra i partner come leader d’area e dipingere presso le opinioni pubbliche l’Albania come membro di fatto dell’Unione europea. Cose che aiutano a far dimenticare che su ogni singolo dossier dei negoziati di adesione il suo paese arranca.

      La conferenza stampa di Rama e Meloni non ha raccontato l’avvenimento di un fatto diplomatico. È essa stessa il fatto diplomatico. Dinanzi agli italiani, Rama ha offerto a Meloni la possibilità di fingere che l’Italia abbia una politica estera assertiva (una funzione che lo stato albanese ha svolto altre volte nella storia d’Italia), dinanzi agli europei, Meloni ha offerto a Rama ciò che tutti i governi italiani garantiscono a prescindere dal colore politico: il certificato di europeità. “Non solo l’Albania si conferma una nazione amica dell’Italia – ha dichiarato la Presidente – ma anche una nazione amica dell’Unione europea. Nonostante sia solo un paese candidato si comporta già come un paese membro dell’Unione”. Insomma, da dieci anni il copione è lo stesso, ma i nostri governi cambiano ed ereditano il discorso dal precedente, mentre Rama resta e continua ad affinare la sua interpretazione: “Preferisco far riposare il traduttore”, dice prima di sfoderare il suo italiano, con lo sguardo umile di chi vorrebbe fare di più. E poi va dritto al cuore, dritto sul senso di colpa della sinistra, dritto sul complesso di superiorità della destra: “Non avremmo fatto questo accordo con nessuno stato Ue. Il debito che abbiamo con l’Italia non si paga, ma se l’Italia chiama l’Albania c’è. Se ci sono domande bene, se non ci sono firmiamo e andiamo in vita dopo aver fatto il nostro dovere”.

      Da dieci anni, Edi Rama governa il suo paese con i media stranieri e il consenso che miete all’estero, da Bruxelles ad Ankara (perché esiste anche un copione “orientalista” consolidato, ma questa è un’altra storia: https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-candidata-all-Europa-o-provincia-ottomana-195112). Oggi in Albania manca una opposizione credibile, sia a livello nazionale che municipale, principalmente perché opporsi non conviene. La criminalità organizzata è scesa a patti con questo nuovo, singolo, potere. La corruzione non dilaga, è endemica, l’unico metodo possibile. Le riforme richieste dall’Ue arrancano, gli albanesi emigrano in massa: senza barconi, ma chiedendo asilo in nord Europa, come gli eritrei della Diciotti.

      Per tutti questi motivi Edi (che è cresciuto a Rai e Mediaset e conosce il potere ipnotico che l’estero esercita sulla periferia albanese e che il ricordo della migrazione albanese esercita su di noi) ogni tanto un giretto in Italia se lo fa. E proprio per questi motivi, proprio perché l’Albania reale, nonostante la nostra cooperazione e le nostre politiche, oggi è un paese così, noi abbiamo bisogno di un’Albania che ci racconti quanto siamo stati bravi. Che ci confermi che stiamo raccogliendo i frutti dell’accoglienza seminata trenta anni fa. Che ci rassicuri sul fatto che sappiamo stare nel Mediterraneo, e che sul Mare Nostrum disponiamo di tavoli e relazioni che ci consentono di farci ascoltare in Europa. Questa volta, forse, l’hanno sparata troppo grossa. La ricorrente bugia italo-albanese è un’impostura morale che interessa a poche persone, ma sta oltrepassando le soglie della sostenibilità. Il risveglio rischia di essere molto brusco.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Ancora-lui-ancora-Edi-228139

    • Albania Agrees to Host Centres Processing Migrants to Italy

      Albanian Prime Minister Edi Rama has signed an agreement in Rome pledging to host centers that will process the claims of thousands of migrants rescued by Italy at sea.

      Italian Prime Minister Giorgia Meloni and her Albanian counterpart, Edi Rama, on Monday in Rome signed an important memorandum of understanding under which Albania has agreed to host centres managing thousands of would-be migrants to Italy rescued at sea.

      “Mass illegal immigration is a phenomenon that no EU state can deal with alone, and collaboration between EU states and non-EU states, for now, is fundamental,” Meloni said.

      “The memorandum has three main goals”, she explained; to combat people smuggling and illegal migration, and to welcome only those that have rights to international protection.

      Under the deal, Italy will set up two centres in Albania, which Meloni said in the end might handle “a total annual flow of 36,000 people”.

      Jurisdiction over the centres will be Italian.

      “Albania will grant some areas of territory”, where Italy will create “two structures” for the management of illegal migrants: “they will initially be able to accommodate up to 3,000 people who will remain there for the time needed to process asylum applications and, possibly, for the purposes of repatriation,” said Meloni, Italy’s ANSA news agency reported.

      One centre will be at the northwestern Albanian port of Shëngjin, which will handle disembarkation and identification procedures and where Italy will set up a first reception and screening centre.

      In Gjader, also in north-western Albania, it will set up a second, pre-removal centre, CPR, structure for subsequent procedures, ANSA added.

      The deal does not apply to immigrants arriving on Italian territory but to those rescued in the Mediterranean by Italian official ships – not those rescued by NGOs. It does not apply to minors, pregnant women and vulnerable persons.

      Albania will collaborate on the external surveillance of the centres. A series of protocols will follow that outline the framework. The plan is to make the centres operational in the spring of 2024, Meloni said.

      Since Meloni’s far-right government came into power, one of its priorities has been to reduce the number of people arriving illegally in Italy through the Central Mediterranean or Western Balkan migration routes.

      This goal explains Italy’s renewed political interest in the Balkans. Several top Italian political figures, including Meloni herself and Foreign Minister Antonio Tajani, have been regularly meeting counterparts in Slovenia, Croatia and Albania in the last months. A central point of these meetings has been migration.

      Data published by the Italian Department of Public Safety show that the number of irregular arrivals in Italy in 2023 until November 1, 2023, was 145,314, a 165-per-cent increase compared to 2021, and 64 per cent higher than 2022.

      Albania’s Rama said Albania could not reach a similar agreement with any other country in the EU, citing the unique connections between Albania and Italy and Italians and Albanians.

      Sa far, Albania has had limited capacities to host migrants, most of whom use it as transit country to reach EU countries.

      Rama added that Albania owes the Italian people a debt for “what they did to us from the first day that we arrived on the shores of [Italy] to find support and to imagine and have a better life”.

      After the fall of communism of Albania in 1991, many Albanians fled to Italy’s southern coasts by boat. According to data published in 2021 by the Italian National Institute of Statistic, 230,000 Albanian citizens have acquired Italian citizenship since 1991.

      https://balkaninsight.com/2023/11/06/albania-agrees-to-host-centres-processing-migrants-to-italy

    • Italy-Albania agreement adds to worrying European trend towards externalising asylum procedures

      “The Memorandum of Understanding (MoU) between Italy and Albania on disembarkation and the processing of asylum applications, concluded last week, raises several human rights concerns and adds to a worrying European trend towards the externalisation of asylum responsibilities,” said today the Council of Europe Commissioner for Human Rights, Dunja Mijatović.

      “The MoU raises a range of important questions on the impact that its implementation would have for the human rights of refugees, asylum seekers and migrants. These relate, among others, to timely disembarkation, impact on search and rescue operations, fairness of asylum procedures, identification of vulnerable persons, the possibility of automatic detention without an adequate judicial review, detention conditions, access to legal aid, and effective remedies. The MoU creates an ad hoc extra-territorial asylum regime characterised by many legal ambiguities. In practice, the lack of legal certainty will likely undermine crucial human rights safeguards and accountability for violations, resulting in differential treatment between those whose asylum applications will be examined in Albania and those for whom this will happen in Italy.

      The MoU is indicative of a wider drive by Council of Europe member states to pursue various models of externalising asylum as a potential ‘quick fix’ to the complex challenges posed by the arrival of refugees, asylum seekers and migrants. However, externalisation measures significantly increase the risk of exposing refugees, asylum seekers and migrants to human rights violations. The shifting of responsibility across borders by some states also incentivises others to do the same, which risks creating a domino effect that could undermine the European and global system of international protection.

      Ensuring that asylum can be claimed and assessed on member states’ own territories remains a cornerstone of a well-functioning, human rights compliant system that provides protection to those who need it. It is therefore important that member states continue to focus their energy on improving the efficiency and effectiveness of their domestic asylum and reception systems, and that they do not allow the ongoing discussion about externalisation to divert much-needed resources and attention away from this. Similarly, it is crucial that member states ensure that international co-operation efforts prioritise the creation of safe and legal pathways that allow individuals to seek protection in Europe without resorting to dangerous and irregular migration routes.”

      https://www.coe.int/en/web/commissioner/view/-/asset_publisher/ugj3i6qSEkhZ/content/id/261934338

    • German Chancellor Scholz to examine Italy-Albania asylum deal

      The German leader has signalled an openness to study Italy’s recent agreement to hold asylum seekers in centers in Albania. The deal has raised human rights concerns, including from the Council of Europe.

      German Chancellor Scholz has said he will look “closely” at Italy’s plans to establish centers in Albania to hold migrants. Speaking on the sidelines of the congress of European Socialists in the Spanish city of Malaga, he noted that Albania is a candidate for EU membership and that challenges like migration needed to be addressed on a European level, reported Reuters.

      “Bear in mind that Albania will quite soon, in our view, be a member of the EU, implying that we are talking about the question of how can we jointly solve challenges and problems within the European family,” Scholz told reporters on Saturday (November 11).

      The Memorandum of Understanding between the Italian and Albanian governments, announced last week, will see tens of thousands of migrants who were rescued in the Mediterranean housed in closed centers in Albania while authorities assess their asylum requests.

      “Such deals, that have been eyed there, are possible, and we will all look at that very closely,” Scholz stated during the briefing, according to Reuters.

      He emphasized that a clear European course in migration policy was needed “to correct things that have not been right in the past (and) to establish a solidarity mechanism so that not each country on its own has to try and master the challenges alone.”
      ’It becomes less attractive for them to pay big money to smugglers’

      If the Italy-Albania deal is implemented, it would be the first time that such an idea would actually be put in place, Ruud Koopmans, a professor for migration studies and advisor to the German Federal Office for Migration and Refugees, BAMF, told DW in an interview. He referred to unsuccessful attempts by Denmark and the UK to try something similar in Rwanda.

      From a legal perspective, the Italy-Albania deal could become problematic if people who are rescued on Italian territory instead of in international waters are sent to Albania, Koopmans noted. “When people from the Sahara come to Italy and are then sent to Albania, there is no prior connection to Albania. This could be legally problematic.”

      Koopmans said that it could also become difficult to send people back who are rejected. “…(T)his is not easy in practice, as home countries often do not cooperate and documents are missing. This is a problem that Albania will also face. But if people know that they will have to wait in Albania if they are rejected, it becomes less attractive for them to pay big money to smugglers,” he said.

      Discussions on finding solutions to increasing asylum numbers are gaining momentum, Koopmans said. “More and more countries are looking for solutions. Denmark, Austria, the Netherlands and Germany are having discussions along these lines.” Deals like the Italy-Albania agreement could present an opportunity for countries neighboring the EU, in that they could help their efforts to join the bloc, he added.

      Deal could undermine human rights safeguards, Mijatović

      Italy’s deal has raised concerns among Italy’s opposition as well as rights groups who see it as an attack on the right to asylum. The NGO Emergency said that the deal is “in reality, ...a way to block migrants from arriving on Italian soil – and therefore European soil – to ask for asylum, as required by European and international law. (This is) yet another attack on asylum rights and the provisions of Article 10 of our Constitution.”

      Concerns were also expressed by Council of Europe Commissioner for Human Rights, Dunja Mijatović. She warned that the deal’s legal ambiguities could undermine human rights safeguards and accountability. “The MoU is indicative of a wider drive by Council of Europe member states to pursue various models of externalizing asylum as a potential ’quick fix’ to the complex challenges posed by the arrival of refugees,” she said in a press release on November 13.

      Mijatović urged member states to focus on improving domestic asylum and reception systems and to prioritize safe and legal pathways for protection in Europe.

      Germany announces streamlined asylum process

      The chancellor’s remarks in Malaga came on the heels of an agreement with Germany’s 16 states on a tougher migration policy and increased funding for refugee hosting capacities.

      Faced with an increase in the number of asylum cases filed in Germany, estimated to reach 300,000 this year, the government has announced it will accelerate procedures.

      At all BAMF offices, the procedure for registering asylum seekers now includes photographing and fingerprinting, allowing for immediate data checks to rule out potential multiple identities. The system allows other agencies involved in the asylum process to access biometric data as well, according to BAMF. Arabic names will be transferred into the Latin alphabet to prevent differences in spelling and other mix-ups.

      Furthermore, mobile phone searches will only be conducted on a case-by-case basis, BAMF said, and queries to the Schengen Information System (SIS) will be reduced: if the last SIS search was within 14 days, an additional inquiry is waived.

      A spokesperson from BAMF said that these specific measures would make procedures more efficient, while maintaining high-security standards. The asylum procedure is meant to last 6.7 months on average. However, when considering negative decisions, administrative court proceedings take on average 21.8 months in the first instance, the spokesperson noted.

      https://www.infomigrants.net/en/post/53194/german-chancellor-scholz-to-examine-italyalbania-asylum-deal

    • Accordo Italia-Albania, ASGI: è incostituzionale non sottoporlo al Parlamento

      La Costituzione italiana prevede che la ratifica di trattati internazionali spetti al Presidente della Repubblica, previa, quando occorra, l’autorizzazione con legge del Parlamento (art. 87, Cost.).

      Tutti i tipi di trattati internazionali costituiscono una delle fonti del diritto internazionale, la cui efficacia nell’ambito nazionale deriva da un ordine di esecuzione dato per effetto della loro ratifica che fa sorgere l’obbligo internazionale della loro attuazione interna.

      Come ha ricordato il Ministero degli affari esteri nella sua circolare n. 2/2021 del 30 luglio 2021 “quale che sia la loro denominazione formale (trattati, accordi, convenzioni, memorandum, etc.), i trattati internazionali possono essere conclusi tramite documenti a firma congiunta, scambi di note, scambi di lettere o altre modalità, essendo riconosciuto dal diritto internazionale il principio della libertà delle forme.”

      Gli atti per i quali l’art. 80 Cost. prescrive la preventiva legge di autorizzazione alla ratifica sono i «trattati che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi».

      La dottrina giuridica afferma che si tratti di una forma di controllo democratico della politica estera e di compartecipazione delle Camere al potere estero del Governo. Anche per tale rilevanza politica complessiva l’art. 72, comma 4 Cost. prescrive che i disegni di legge per la ratifica siano esaminati sempre con procedura legislativa ordinaria.

      Inoltre, è bene ricordare che, in generale, qualsiasi norma non costituzionale deve essere interpretata sempre in modo conforme alla Costituzione, sicché anche questo Protocollo deve essere interpretato in modo conforme all’art. 80 Cost.

      Secondo il Governo, tuttavia, il Protocollo italo-albanese in materia di gestione delle migrazioni non deve essere sottoposto a legge di autorizzazione alla ratifica, perché sarebbe l’attuazione del Trattato di amicizia e collaborazione tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Albania, con scambio di lettere esplicativo dell’articolo 19, fatto a Roma il 13 ottobre 1995, ratificato e reso esecutivo sulla base della legge 21 maggio 1998, n. 170.

      Tesi giuridicamente infondata, perché l’art. 19 del Trattato del 1995 prevede soltanto che Italia ed Albania “concordano nell’attribuire una importanza, prioritaria ad una stretta ed incisiva collaborazione tra i due Paesi per regolare, nel rispetto della legislazione vigente, i flussi migratori” e che “riconoscono la necessità di controllare i flussi migratori anche attraverso lo sviluppo della cooperazione fra i competenti organi della Repubblica Italiana e della Repubblica di Albania e di concludere a tal fine un accordo organico che regoli anche l’accesso dei cittadini dei due Paesi al mercato del lavoro stagionale, conformemente alla legislazione vigente”.

      Dunque, nel Trattato del 1995 Italia e Albania si sono accordate per concludere successivi protocolli in materia migratoria soltanto per l’ipotesi prevista nell’art. 19 comma 2 e cioè per regolare l’immigrazione albanese in Italia (che infatti è stata poi regolata con due successivi accordi firmati in forma semplificata nel 1997 e nel 2008), mentre le norme che si riferiscono genericamente alla regolazione e al controllo dei flussi migratori alludono a materie del tutto vaghe e suscettibili delle più diverse applicazioni, future e incerte.

      Pertanto, la mera indicazione che si tratti di un Protocollo sulla “cooperazione in materia migratoria” e il richiamo a due precedenti trattati e accordi non possono certo essere lo strumento per eludere l’obbligo derivante dall’art. 80 Cost. per il Governo di presentare alle Camere un apposito disegno di legge di autorizzazione alla ratifica del Protocollo e della futura intesa di attuazione.

      Il Protocollo appena firmato prevede disposizioni molto dettagliate che riguardano proprio i casi in cui l’art. 80 Cost. esige la preventiva legge di autorizzazione alla ratifica, perché:

      – comportano oneri alle finanze, sia perché il Protocollo pone espressamente a carico dell’Italia specifici oneri finanziari, per l’allestimento delle strutture (art. 4, comma 5), per l’erogazione di servizi sanitari (art. 4, comma 9), per la realizzazione delle strutture necessarie al personale albanese addetto alla sicurezza esterna dei centri (art. 5., comma 2), per la riconduzione nei centri da parte delle autorità albanesi di eventuali migranti usciti illegalmente dai centri (art. 6, comma 6) e per l’impiego dei mezzi e delle unità albanesi (art. 8, comma 3) e per eventuali risarcimenti del danno (art. 12, comma 2), cioè per la realizzazione e gestione dei centri, per il relativo personale, per il trasporto da e per l’Albania degli stranieri trattenuti e per la loro assistenza anche sanitaria (a cui dovrà aggiungersi anche la copertura degli oneri connessi al gratuito patrocinio per le spese di difesa degli stranieri, per quelle di interpretariato e per quelle sullo svolgimento dell’attività delle commissioni per il riconoscimento della protezione internazionale e dei giudici che convalideranno il trattenimento e che giudicheranno sugli eventuali ricorsi), sia perché il Protocollo prevede specifici contributi, iniziali (16,5 milioni di euro) e una successiva garanzia di 100 milioni di euro, che devono essere erogati dall’Italia all’Albania i cui importi e scadenze sono specificati in un apposito allegato al Protocollo stesso;

      - comportano modificazioni di leggi, perché il Protocolloper essere effettivamente attuato non soltanto prevede espressamente un’intesa successiva (che, dunque, dovrà essere sottoposta alle Camere congiuntamente al Protocollo), ma prevede norme che comportano operazioni amministrative e giudiziarie concernenti stranieri giunti in Italia e che saranno svolte in Albania, cioè norme non previste dalle attuali leggi italiane. Questo significa che il protocollo, per essere attuato, esige implicitamente la modificazione di tante norme legislative vigenti in Italia, che regolano la condizione giuridica degli stranieri che giungono in Italia e che presentano in Italia una domanda per fruire del diritto di asilo nel territorio della Repubblica italiana (e la condizione giuridica dello straniero e le condizioni per il diritto di asilo sono materie coperte da riserva di legge ai sensi dell’art. 10, commi 2 e 3 Cost.). Infatti, in base alle disposizioni del protocollo costoro potranno essere soccorsi da navi italiane, e dunque in territorio italiano, e da qui trasportati poi in Albania per essere sottoposti in territorio albanese a misure restrittive alla libertà personale (e i casi e i modi dei provvedimenti restrittivi della libertà personale sono materie coperte da riserva assoluta di legge e da riserva di giurisdizione previste dall’art. 13 Cost. e dall’art. 5 CEDU); tali restrizioni avverranno mediante provvedimenti disposti e attuati in Albania da autorità italiane in modi che saranno, in tutto o in parte, diversi da quelli già previsti dalle vigenti norme legislative italiane (p. es. occorrerà indicare quale sarà l’autorità di pubblica sicurezza competente dal punto di vista geografico ad adottare i provvedimenti amministrativi di espulsione e i provvedimenti di trattenimento, occorrerà individuare la commissione territoriale competente ad esaminare eventuali domande di protezione internazionale, occorrerà dare una nuova applicazione al concetto di “accompagnamento immediato alla frontiera” di persone che in realtà sono già fuori del territorio italiano, occorrerà stabilire modi e garanzie per interpreti, difensori e stranieri durante lo svolgimento in Albania dei colloqui con le autorità di pubblica sicurezza e con i giudici, occorrerà disciplinare i procedimenti di trasporto degli stranieri da e per i centri albanesi);

      – comportano regolamenti giudiziari che riguardano la giurisdizione italiana, sia relativamente alla sua estensione territoriale e personale (inclusa la regolamentazione di eventuali contenziosi sulla responsabilità civile di ciò che accadrà in Albania che saranno espressamente di competenza dei giudici italiani), sia con riguardo alla effettuazione da parte dei giudici italiani nei centri albanesi dei giudizi di convalida dei trattenimenti e degli eventuali giudizi sui ricorsi contro le eventuali decisioni di diniego e di inammissibilità delle domande di protezione internazionale (occorrerà disciplinare la competenza territoriale del giudice che dovrà giudicare in Albania e le modalità delle notificazioni e dello svolgimento dei giudizi);

      - hanno natura politica, poiché le disposizioni del Protocollo impegnano durevolmente la politica estera italiana, avendo una durata di cinque anni ed essendo state negoziate e stipulate personalmente e pubblicamente dai capi dei Governi dei due Stati e non già da Ministri o da meri funzionari ministeriali, e poiché le premesse del Protocollo espressamente lo motivano con la “comunanza di interessi e di aspirazioni” tra i due Stati e dei due Stati alla prevenzione dei flussi migratori illeciti e della tratta degli esseri umani, e a promuovere la crescente collaborazione bilaterale tra Italia ed Albania “anche nella prospettiva dell’adesione della Repubblica di Albania all’UE”, che è l’evidente interesse principale di tutte le azioni di politica estera del governo albanese. La grande ed evidente politicità dell’accordo è confermata dalle dichiarazioni pubbliche fatte dalla Presidente del Consiglio dei ministri al momento della firma del protocollo davanti al Primo ministro albanese: il Protocollo è stato definito «importantissimo […] che arricchisce un’amicizia storica [e] una cooperazione profonda» tra i due Stati, la «cornice politica e giuridica» della collaborazione tra Italia e Albania e «un accordo di respiro europeo».

      Inoltre, il Protocollo ha per oggetto misure che attengono alle materie della sicurezza e della difesa nazionale. L’attuazione delle disposizioni previste dal Protocollo comporta il trasporto verso l’Albania di stranieri mediante mezzi delle competenti autorità italiane, il che avverrà in modi sostanzialmente forzati, mediante aerei o navi delle Forze armate italiane, le quali hanno già basi in Albania e alle quali il Governo con l’art. 21 del decreto-legge 19 settembre 2023, n. 124 ha affidato la realizzazione dei centri di permanenza per il rimpatrio, dei punti di crisi e dei centri governativi di accoglienza per richiedenti asilo, trattandosi di materie che lo stesso articolo del citato decreto-legge attribuisce espressamente alla materia della difesa e della sicurezza la realizzazione.

      Proprio su queste materie la legge n. 25/1997 (e oggi l’art. 10, comma 1, lett. a) del codice dell’ordinamento militare, emanato con d. lgs. n. 66/2010) ha previsto che tutte le deliberazioni del Governo in materia di sicurezza e di difesa debbano essere sempre approvate dal Parlamento. Ciò comporta che dal 1997 sono sottoposti all’esame delle Camere mediante leggi di autorizzazione alla ratifica anche tutti i tipi di accordi internazionali in materia di sicurezza e di difesa.

      *

      È dunque indispensabile l’esame parlamentare del disegno di legge di autorizzazione alla ratifica di questo protocollo e della sua futura intesa di attuazione e delle norme nazionali che daranno esecuzione nell’ordinamento italiano a questi accordi.

      Va ricordato, infine che:

      – la proposta di legge di autorizzazione alla ratifica non necessariamente deve essere di iniziativa del Governo (la Costituzione non lo prescrive), sicché, come è già accaduto in alcune altre occasioni, in mancanza di una presentazione di un disegno di legge del Governo essa può essere presentata nelle Camere anche da singoli parlamentari;

      – L’Assemblea di ogni Camera ha il potere di presentare alla Corte costituzionale ricorso per conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato.

      In ogni caso qualora questo Protocollo non sia sottoposto a legge di autorizzazione alla ratifica in conformità con l’art. 80 Cost. non potrà mai essere eseguito, né potrà essere considerato vincolante per l’ordinamento italiano, quale obbligo internazionale ai sensi dell’art. 117, comma 1 Cost.

      https://www.asgi.it/notizie/accordo-italia-albania-asgi-illegittimo-parlamento

    • Nell’intesa Italia-Albania, la continuità deve preoccuparci quanto la novità

      L’accordo spinge la pratica di esternalizzare le frontiere verso direzioni preoccupanti. Dubbi sulla sua effettiva applicabilità

      A più di una settimana dall’annuncio dell’accordo tra Italia e Albania in materia di “gestione dei flussi migratori”, la mossa del governo italiano ha attirato diverse critiche in ambienti giuridici e militanti per le sue implicazioni in termini di diritti umani e di rispetto della legislazione italiana ed europea in materia di asilo.

      Nella consueta propaganda del governo, l’accordo (reso noto soltanto a operazione conclusa) è stato presentato come un successo diplomatico, un accordo “storico” e “innovativo”. Di fronte alle preoccupazioni sollevate da varie voci, la Presidente del Consiglio non è entrata nel merito, limitandosi a dichiararsi “fiera” di questa azione pionieristica, che “può diventare un modello per altre nazioni di collaborazione tra Paesi Ue e extra Ue” 1.

      Il protocollo prevede l’istituzione di due centri (paradossalmente definiti da alcuni media “di accoglienza”) in territorio albanese, ma sottoposti alla giurisdizione italiana: uno per le procedure di identificazione e gestione delle domande di asilo, l’altro per i rimpatri, sul “modello” dei CPR. È previsto un termine di 28 giorni per valutare le domande di ogni richiedente: una velocizzazione dei tempi che sicuramente andrebbe a discapito dell’accuratezza delle raccolte delle prove e delle valutazioni. Per quanto riguarda il “modello” del centro per i rimpatri, è ormai noto quanto gli abusi fisici e psicologici verso i detenuti siano frequenti, e quante morti evitabili sono state causate da questo sistema.

      I dubbi sulla legittimità e le possibili conseguenze dell’accordo sono tanti e fondati. E nonostante alcune affermazioni di approvazione da parte di politici europei per l’esperimento “interessante”, diversi giuristi esperti di migrazioni e diritto d’asilo hanno espresso le loro riserve sull’intesa. Una dichiarazione di ASGI sottolinea le ragioni per cui la mancata approvazione parlamentare di un accordo come questo non può ritenersi legittima. L’intesa prevede infatti disposizioni su alcune materie (finanziarie, scelte di politica estera, modifiche all’ordinamento giuridico) di cui dovrebbe necessariamente rispondere la rappresentanza democratica 2. Nel merito dei contenuti si è ampiamente espresso Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato e attivista, descrivendo l’accordo come “privo di basi legali”.

      Un primo elemento di illegittimità è il trasferimento delle persone soccorse dalle navi italiane in territorio extra-europeo. Non si conoscono poi le attribuzioni delle competenze sulle procedure, le modalità dei rimpatri, i criteri per l’attribuzione delle caratteristiche di “vulnerabilità” che impedirebbero il trasferimento di alcune persone tratte in salvo da navi italiane verso l’Albania.

      Critiche sono arrivate anche da alcune organizzazioni non governative. Emergency ha descritto l’accordo come l’ennesimo attacco al diritto di asilo 3. La non appartenenza dell’Albania all’UE significa l’impossibilità di applicare la legge europea all’azione delle autorità albanesi. Inoltre, per i tempi sbrigativi con cui le persone richiedenti asilo sarebbero valutate, potrebbe non esserci spazio per il diritto al ricorso contro la decisione di rifiuto della domanda. In modo analogo, Amnesty International ha condannato l’accordo come “illegale e impraticabile” 4.

      Sia nelle presentazioni istituzionali sia nelle critiche, si è parlato di questo accordo soprattutto in termini di novità, di rottura con il quadro giuridico esistente. Ma è bene anche enfatizzare anche gli aspetti di continuità di questa scelta politica con il passato. Un’opinione autorevole arriva dal Consiglio d’Europa, che nelle parole della Commissaria per i diritti umani Dunja Mijatović esprime la sua preoccupazione per la tendenza crescente in Europa ad esternalizzare le frontiere e le procedure di asilo.

      La dichiarazione mette a punto una serie di fattori ambigui e problematici dell’accordo: “le tempistiche degli sbarchi, l’impatto sulle operazioni di ricerca e salvataggio, l’equità delle procedure di asilo, l’identificazione delle persone vulnerabili, la possibilità automatica di detenzione senza un adeguato controllo giudiziario, le condizioni di detenzione, l’accesso all’assistenza legale e a rimedi effettivi […]. In pratica, la mancanza di certezza giuridica probabilmente comprometterà le garanzie fondamentali per i diritti umani e la responsabilità per le violazioni, determinando un trattamento differenziato tra coloro le cui domande di asilo saranno esaminate in Albania e coloro per i quali ciò avverrà in Italia” 5.

      E sebbene tutte le ambiguità e anomalie implicite nel trattato potrebbero comportarne il fallimento o addirittura l’inapplicabilità, il protocollo d’intesa non fa che aggravare la preoccupante tendenza a esternalizzare le frontiere, ormai consolidata.

      E non è chiaramente una prerogativa esclusiva del governo attuale e delle forze politiche che lo sostengono. Infatti, il memorandum si inserisce perfettamente nel solco di altri accordi, più o meno opachi, che i nostri governi – ma anche altri governi europei e la stessa Unione – sottoscrivono da anni con paesi extra UE. Allora, forse, vale la pena di riflettere su quanto siamo disposti ad accettare, di volta in volta, di sacrificare un pezzo in più dei diritti delle persone in movimento, in una posta al ribasso che ha normalizzato sistemi che producono morte, sfruttamento e torture come inevitabili conseguenze della sacralità dei confini.

      Questa tendenza a esternalizzare tramite accordi con paesi terzi è indice di scarsa democraticità.

      Innanzitutto perché uno strumento come un protocollo d’intesa, o Memorandum of Understanding, è per sua natura “flessibile”. La preferenza sempre più marcata per questo tipo di accordo da parte del governo italiano – si pensi al memorandum con la Libia nel 2017 e con la Tunisia nel 2020 – risponde alle logiche emergenziali con cui sono ormai quasi esclusivamente trattate le questioni legate alle migrazioni.

      Se questo è un vantaggio dal punto di vista del governo, è evidente che la mancanza di controllo sui suoi contenuti e sulla sua eventuale applicazione rappresenta un problema: un memorandum non è legalmente vincolante per le due parti, non è necessariamente sottoposto a ratifiche parlamentare e può essere mantenuto riservato.

      Se si vuole parlare la lingua degli “interessi strategici”, troppo spesso l’unica con cui le istituzioni governative si approcciano alle politiche migratorie, è però una mossa rischiosa e in alcuni casi poco lungimirante. Un paese terzo a cui vengono attribuite determinate prerogative nel controllo dei confini non è un semplice ricettore passivo di politiche neocoloniali. Benché sia evidente che i rapporti di potere sono sbilanciati in favore della controparte europea, è vero anche che accordi di questo tipo hanno dato la possibilità ad alcuni governi di esercitare forme di pressione e influenza. Pressioni che, ovviamente, sono sempre andate a scapito dei diritti delle persone in movimento, usate come merce di scambio per ottenere dei vantaggi. Controlli più serrati si alternano a periodi di “rilascio controllato” dei/delle migranti, a seconda di ciò che il governo appaltante ritiene in quel momento più funzionale ai propri bisogni. È quello che accade ad esempio con Libia, Turchia, Marocco, Tunisia.

      È in questi termini che emerge ancora la continuità con le politiche migratorie degli ultimi decenni. Esternalizzare le frontiere e le procedure permette di sorvolare più di quanto non sia possibile in Italia sulle incombenze giuridiche e burocratiche del sistema di asilo. Ma soprattutto, rende meno visibili le immancabili violazioni associate al sistema di controllo delle migrazioni. Con la creazione di spazi sotto la giurisdizione italiana in un territorio di uno stato terzo, resta da chiarire come sarebbero valutate le responsabilità in caso di carenze gravi nelle strutture, che sono già state riscontrate in moltissime altre strutture europee, e non: sovraffollamento, mancanza di servizi adeguati per i richiedenti, incuria, abusi fisici, somministrazione di psicofarmaci contro la volontà dei soggetti interessati. A chi sarebbe affidata poi la repressione di eventuali rivolte o fughe da parte delle persone detenute?

      Esternalizzare le frontiere ha quindi uno scopo pratico molto preciso: allontanare dal territorio europeo la conoscenza delle sofferenze e degli atti di ribellione delle persone sottoposte al regime delle frontiere, prevenire azioni di monitoraggio e pressioni sul rispetto dei loro diritti da parte della società civile, far svolgere ad altri il lavoro sporco che per cui le istituzioni governative e le forze di polizia europee potrebbero dover essere chiamate a rispondere.

      Sottolineare gli elementi che renderebbero questo accordo illegale e inapplicabile è necessario per prevenire situazioni difficilmente riparabili con gli strumenti a disposizione della legge. Ma potrebbe non bastare: l’esperienza ci ha mostrato come accordi e decreti contrari ad alcuni principi costituzionali e del diritto di asilo abbiano comunque trovato applicazione, soprattutto quando questa è affidata in parte ad autorità di paesi terzi. È fondamentale quindi contestare alle sue radici una gestione emergenziale delle migrazioni, che passa per il solo sistema di asilo senza prevedere canali di ingresso regolari, e che mira a prevenire l’arrivo nel territorio europeo del maggior numero di persone possibile.

      Tweet di Giorgia Meloni: https://twitter.com/GiorgiaMeloni/status/1723027124246708620
      https://www.asgi.it/notizie/accordo-italia-albania-asgi-illegittimo-parlamento
      https://www.emergency.it/comunicati-stampa/laccordo-italia-albania-e-lennesimo-attacco-al-diritto-di-asilo-e-sottende
      https://www.amnesty.org/en/latest/news/2023/11/italy-plan-to-offshore-refugees-and-migrants-in-albania-illegal-and-unworka
      https://www.coe.int/hr/web/commissioner/-/italy-albania-agreement-adds-to-worrying-european-trend-towards-externalising-a

      https://www.meltingpot.org/2023/11/nellintesa-italia-albania-la-continuita-deve-preoccuparci-quanto-la-novi

    • Tavolo Asilo e Immigrazione: appello al Parlamento perché non ratifichi il Protocollo Italia-Albania

      L’accordo getta le basi per la violazione del principio di non respingimento e per l’attuazione di pratiche di detenzione illegittima: alle persone condotte nei centri sarebbe impedito di uscire, senza una chiara base legale e nessuna garanzia del diritto di difesa e a un ricorso effettivo

      Il Tavolo Asilo e Immigrazione chiede che il Protocollo Italia-Albania venga revocato dal Governo e fa fin da ora un appello al Parlamento perché voti contro il disegno di legge di ratifica preannunciato dal Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale durante le odierne comunicazioni alla Camera sull’intesa.

      L’accordo firmato con il governo albanese, violando gli obblighi costituzionali e internazionali del nostro Paese, si pone, come quello con la Tunisia, l’obiettivo di esternalizzare le frontiere e il diritto d’asilo.

      L’accordo Italia-Albania, così come delineato, comporta infatti il rischio di gravi violazioni dei diritti umani. Il testo dell’intesa non chiarisce se i centri da realizzarsi in Albania saranno destinati alle procedure di esame delle domande di protezione internazionale e in particolare alle procedure di frontiera o al rimpatrio, ma alle persone condotte nei centri sarebbe impedito di uscire, subendo di fatto un regime di detenzione automatica e prolungata, senza una chiara base legale. Anche la possibilità di controllo giurisdizionale sembra compromessa, così come il diritto di difesa e a un ricorso effettivo. L’Accordo non chiarisce infatti la competenza a convalidare il trattenimento delle persone, né che cosa accadrà alle persone che hanno chiesto protezione internazionale che non ottengano risposta entro i 28 giorni previsti dalla procedura accelerata.

      Infine, desta preoccupazione la mancanza nel Protocollo di qualsiasi riferimento alle persone maggiormente vulnerabili, minori, donne, famiglie, vittime di tortura, e di come queste sarebbero salvaguardate dall’applicazione dell’accordo, così come era stato invece annunciato nei giorni scorsi.

      Per questi motivi le Organizzazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione ne hanno chiesto oggi la revoca da parte del Governo durante una conferenza stampa alla quale hanno partecipato anche la Segretaria del Partito Democratico Elly Schlein e il Segretario di +Europa Riccardo Magi, il senatore Graziano Delrio, Presidente del Comitato Parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione, oltre ai deputati Matteo Mauri, Giuseppe Provenzano e Alfonso Colucci.

      Le associazioni hanno inoltre lanciato un appello al Parlamento perché voti contro il disegno di legge di ratifica preannunciato dal Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale durante le odierne comunicazioni alla Camera.

      Per il Tavolo Asilo e Immigrazione

      A Buon Diritto, ACAT, ACLI, ActionAid, Amnesty International Italia, ARCI, ASGI, Casa dei Diritti Sociali, Centro Astalli, CGIL, CIES, CNCA, Commissione Migranti e GPIC Missionari Comboniani Italia, DRC Italia, Emergency, Europasilo, Fondazione Migrantes, Forum per Cambiare l’Ordine delle Cose, Intersos, Medici del Mondo, Medici per i Diritti Umani, Medici Senza Frontiere, Movimento Italiani Senza Cittadinanza, Oxfam Italia, Refugees Welcome Italia, Save the Children Italia, Senza Confine, Società Italiana Medicina delle Migrazioni, UIL, UNIRE

      Aderiscono inoltre

      AOI, Mediterranea Saving Humans, Open Arms, Rivolti ai Balcani, Sea Watch e Sos Mediterranée Italia

      https://www.asgi.it/primo-piano/tavolo-asilo-e-immigrazione-appello-al-parlamento-perche-non-ratifichi-il-proto

    • Italy: Parliament to ratify Albania deal to process asylum seekers

      Both of Italy’s houses of parliament will be given the chance to ratify the country’s new deal to process asylum seekers in Albania. The motion was approved after a debate in the lower house on Tuesday.

      Italy’s Foreign Minister Antonio Tajani spoke to Italy’s lower house on Tuesday (November 21), explaining the Italy-Albania deal to process asylum seekers in more detail, and promising that the deal would be presented as a DDL (proposal of a law) and that both houses would have the chance to ratify it before it proceeds.

      In his long speech to the lower house, Tajani reminded parliamentarians that other similar deals with countries like Libya had not been subject to the same ratification process. Originally the Italian government said that the Italy-Albania deal didn’t need to be either, since it was not a treaty and only treaties needed to be ratified by parliament.

      However, in what the opposition has dubbed a “complete U-turn,” two weeks after the Italy-Albania deal was signed, Tajani has announced that it would be presented as a subject for debate by parliamentarians. The government hopes that the debates and ratification process will be “as quick as possible,” since the deal is meant to begin in just a few months, by spring 2024.
      Deal ’is just one additional instrument’ to manage migration

      Fighting the traffickers is “an absolute priority” for the Italian government, said Tajani during his speech to parliament. Referring to the death of a two-year-old girl during a rescue operation on Monday (November 20), Tajani said “we won’t and shouldn’t get used to these kinds of tragedies that are unfolding along our coasts.”

      He proposes that the Italy-Albania deal is just “one additional instrument” to help Italy manage migration. Tajani said that Italy has worked hard to make migration a central tenet of EU debate, and says that Italy and other members of the bloc are all working hard to “stop irregular migration, fight traffickers and strengthen the external borders of the EU.”

      Although Tajani admitted that the deal was “no panacea”, he said that Italy had “deep and historic ties with Albania” and already had joint teams to stop the trade in drugs and migrants. For the benefit of the parliament, Tajani outlined once again that the deal would be entirely paid for by Italy and was expected to cost €16.5 million initially. This would cover the two centers, one at the port and one about 30 kilometers away.

      The initial center at the port will be where people are registered and fingerprinted. They will then be moved to the reception center, where they will have their asylum requests examined. Anyone whose request is refused would be repatriated from there.
      Not comparable to UK-Rwanda deal, says Tajani

      This is no offshoring deal, said Tajani, disputing the accusations that it was “Italy’s Guantanamo” or anything like the UK-Rwanda deal. The centers will be entirely staffed by Italian personnel, be managed under Italian law, and they will come under the jurisdiction of the Italian courts, said Tajani.

      Italy’s foreign minister underlined that “no vulnerable people, women or children” would be sent to these centers. It will be exclusively to process the asylum requests of non-vulnerable migrants from safe countries, explained Tajani, or those who have already had one claim refused, or people waiting for repatriation.

      There will never be more than 3,000 people in the centers at any one time, promised Tajani. Italy will pay Albania for police patrols outside the centers and for any hospital visits that are required. Tajani also assured parliamentarians that all rights to healthcare and safety would be respected and that the only asylum seekers brought to Albania would be by Italian official boats. NGO rescue ships would not be disembarking people in Albania.
      Keeping it within the ’European family’

      Tajani said that the European Commission had already confirmed that the agreement did not violate EU law, since, as Tajani explained quoting EU Home Affairs Commissioner Ylva Johansson, the processing will follow Italian law which is fully in line with European law.

      Several MPs in the debate, including Minister Tajani referenced the fact that the German chancellor had said they would be following the agreement closely and thinking about similar models for their country. According to Tajani, the German Chancellor Olaf Scholz said that since Albania will soon be part of the European family, referring to Albania’s European accession process, processing asylum seekers in Albania was about “solving challenges within Europe” and not offshoring.

      Scholz, speaking in Malaga recently, said that the whole bloc was looking to “reduce irregular migration” and said he thought there should be more deals struck like the EU-Turkey 2016 deal, to help Europe manage migration.

      Increasing the legal pathways to Italy

      Nearing the conclusion of his speech, Tajani underlined that any exceptions to adhering to the rule of international law would be straight out “impossible”. Using the Albania agreement as a model, Tajani said the Italian government was seeking to conclude or extend similar deals with other friendly countries, transit countries and countries of origin.

      Tajani promised that the Italian government would also increase the number of legal pathways into Italy. He said in parliament that the new work permits for migrant workers had already been increased to about 150,000 per year from this year to 2025, compared to 82,000 in 2022.

      At the end of the debate in parliament, a majority of 189 to 126 voted to allow the proposal to continue its passage and be put forward as an official proposal of law (DDL), to be examined and ratified by both houses.
      Critics call deal ’illegitimate’ and ask for it to be revoked

      However, the law was not without its critics. During the debate, Riccardo Magi from the Più Europa (More Europe) party said that the deal “did nothing but increase uncertainty and would take away the fundamental right to personal liberty” of people who may be detained under the deal. He added that he didn’t believe that even the ministers proposing the deal believed it would really be doable.”

      On November 20, Amnesty International and 35 other NGOs, which together form the TAI (Tavalo Asilo e Immigrazione – a forum for the discussion of asylum and immigration) have also criticized the deal, calling it “illegitimate” and saying it should be “revoked.”

      The TAI held a press conference on Tuesday (November 21) where they reiterated that in their opinions, the deal violated international obligations and laws. They said that just like the deal with Tunisia, it was an attempt to “externalize the borders and the right to asylum.”

      According to a press release from the TAI, the Italian migration system is “in chaos and continuously violates the law and the rights of welcome and asylum” that under international law they are forced to offer. TAI accuses the Italian government of “making sure it implements practices in the field which just produce emergencies and discomfort.”

      The TAI says that the Italy-Albania deal “risks seriously violating human rights.” They say that once those people are on an Italian boat, they come under Italian jurisdiction, so they can’t then be transferred to another state to have their asylum requests examined.

      The deal, says TAI, goes against the principle of non-refoulement, whereby a person cannot be sent back to a land where they could knowingly be put in danger. The deal also allows for people to be detained illegitimately, claims TAI.

      https://www.infomigrants.net/en/post/53392/italy-parliament-to-ratify-albania-deal-to-process-asylum-seekers

    • In Pictures: Sites Where Refugees Will be Hosted In Albania

      BIRN has taken a look at the sites in Albania where a reception centre and a refugee camp will be built in accordance with the controversial agreement reached between the Albanian and Italian governments.

      The agreement was opposed both in Italy and Albania and one of the biggest critics that it received is related to Albania’s capacities to receive 3000 migrants in a month.

      According to the protocol that has been published, a reception centre for migrants will be built inside the Port of Shengjin, in the Lezha area of northern Albania, which will process and register migrants rescued at sea by Italy.

      A second site, which will serve as a refugee camp, will be built in Gjader, a village where a former military air base was built in the 1970s during the communist era.

      Italy’s plan to build migrant centres in Albania has been criticised in both countries, where activists and human rights lawyers have questioned Albania’s capacities to handle the arrangements.

      While the deal has been criticised by human rights experts, lawyers and civil society groups in Italy, in Albania many see it as Prime Minister Edi Rama’s personal initiative, since it was not discussed previously in public.

      The deal allows Italy to set up facilities on Albanian territory for migrants it has rescued at sea, which will accommodate up to 3,000 people at any one time.

      The agreement, which BIRN has seen, although without its annexes, states: “In the event that, for any reason, the [migrant’s] right to stay in the facilities cease to exist”, Italy must immediately transfer these persons out of Albanian territory.

      “Italy will use the port of Shengjin and the Gjader area to establish, at its own expense, two entry and temporary reception facilities for immigrants rescued at sea, capable of accommodating up to 3,000 people, or 39,000 a year, to expedite the processing of asylum applications or potential repatriation”, the text of the protocol notes, adding that jurisdiction over the centres will be Italian.

      “In Shengjin, Italy will handle disembarkation and identification procedures and establish a first reception and screening centre; in Gjader, it will create a model Cpr facility for subsequent procedures. Albania will collaborate with its police forces, for security and surveillance,” it adds.

      https://balkaninsight.com/2023/11/22/in-pictures-sites-where-refugees-will-be-hosted-in-albania
      #photographie #localisation

    • L’intesa con Tirana costerà oltre mezzo miliardo. 142 milioni di euro solo nel 2024

      «Oltre 142 milioni di euro nel 2024, quasi 645 nei cinque anni di validità (prorogabili). È quanto costerà ai contribuenti italiani l’intesa tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e l’omologo Edi Rama per rinchiudere nei centri di trattenimento in Albania i migranti soccorsi in alto mare dalle navi italiane. Soldi che l’esecutivo è andato a cercare raschiando il fondo del barile degli accantonamenti di quattordici ministeri.»

      https://ilmanifesto.it/tagli-a-universita-e-agricoltura-per-fare-i-centri-in-albania
      #coût

    • The 2023 Italy-Albania protocol on extraterritorial migration management

      In November 2023, the Italian government concluded a Memorandum of Understanding (MoU), or Protocol, with the Albanian authorities envisaging extraterritorial migration and asylum management, including detention and asylum processing, in Albania. This Report examines the Protocol in light of EU, regional and international legal standards, and the main responses that it has attracted so far. It concludes that the MoU can be understood as a nationalistic and unilateral arrangement that, while not involving the EU, covers policy areas falling within the scope of European law. The MoU runs contrary to EU constitutive principles enshrined in the Treaties, including the EU Charter of Fundamental Rights, as well as international law. It should be regarded as a non-model in migration and asylum policies as it is affected by far-reaching illegality and unfeasibility grounds undermining both its rationale and implementation.

      https://www.ceps.eu/ceps-publications/the-2023-italy-albania-protocol-on-extraterritorial-migration-management
      #extra-territorialité #droit_international #droits_fondamentaux

    • Nouvel avatar de l’externalisation : l’accord Italie-Albanie

      Il y a 20 ans, Plein Droit s’inquiétait des projets européens d’installation, dans des pays non membres de l’Union européenne (UE), de « centres de transit » où seraient enfermées, le temps d’instruire leur demande d’asile, les personnes étrangères ayant franchi illégalement les frontières de l’Union. Évoquant un « cauchemar », l’édito dénonçait l’intention des États membres « de se dégager des responsabilités que la Convention de Genève sur les réfugiés fait peser sur eux », ajoutant : « On devine au prix de quelles pressions, économiques ou non, ces pays accepteront ou se feront imposer ces camps de transit, […] on imagine sans mal l’insécurité à laquelle les demandeurs d’asile seront confrontés, les chantages auxquels ils pourront être soumis de la part des pays condamnés par l’Europe à les accueillir à sa place [1] ».

      Si, depuis, l’externalisation de l’asile a été déclinée de multiples façons [2], le projet de #camps_de_détention situés hors de l’UE, mais juridiquement contrôlés par un État membre, ne s’est jamais concrétisé. Sans doute à cause des #obstacles_juridiques que poserait un tel montage, notamment au regard du respect des droits fondamentaux. Mais aussi parce qu’il suppose de trouver où les implanter : jusqu’ici, les tentatives pour convaincre des pays voisins de se prêter au jeu ont échoué. Lorsqu’en 2018 le Conseil européen a exploré la possibilité de créer, hors du territoire européen, des « #centres_régionaux_de_débarquement » pour y placer des boat people interceptés en Méditerranée, il s’est heurté au refus catégorique des États nord-africains et de l’Union africaine [3].

      Aujourd’hui, le #cauchemar est à nos portes. À la veille de l’adoption du Pacte européen qui entend accélérer la procédure frontalière d’examen des demandes d’asile et renforcer la « dimension externe » de la politique migratoire de l’UE, l’Italie a conclu le 6 novembre, avec l’Albanie, un accord visant à y délocaliser l’accueil de migrants secourus en mer et l’examen des demandes d’asile. Il paraît que c’est au cours de ses vacances en Albanie, l’été dernier, que la cheffe du gouvernement italien Giorgia Meloni a posé les bases de cette « pièce importante » de sa stratégie de lutte contre les flux migratoires. Elle y a trouvé l’oreille attentive de son homologue albanais, Edi Rama, prêt à mettre « gratuitement » à la disposition de l’Italie deux zones au nord du pays pour qu’elle y construise les centres sous administration italienne où seront détenus des migrants interceptés en mer par des navires italiens. Le premier, dans une ville côtière, pour y procéder aux premiers soins, aux opérations d’identification, et instruire les demandes d’asile ; le second, sur une base militaire, pour organiser le #rapatriement des personnes qui ne demandent pas l’asile ou ne seront pas reconnues éligibles à une protection. Aux demandeurs d’asile placés dans ces centres qualifiés d’« extraterritoriaux » serait appliquée la procédure accélérée que la loi italienne prévoit pour les requêtes formées à la frontière. Seuls ceux qui obtiendraient une protection seraient admis au séjour en Italie, les autres devant être expulsés.

      L’accord ne pourra cependant entrer en vigueur avant que la Haute Cour albanaise ne se soit prononcée sur sa #constitutionnalité : les membres de l’opposition qui l’ont saisie contestent cette forme de « vente d’un morceau du territoire albanais » qui conduirait, selon un député du parti Più Europa, à la création d’« une sorte de #Guantanamo italien, en dehors de toute norme internationale, en dehors de l’UE [4] ».

      Là n’est pas le seul problème que soulève l’accord, même si Georgia Meloni aimerait que celui-ci devienne « un modèle à suivre ». Un « modèle » qui suscite les réserves du Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR), à aucun moment « informé ni consulté », et que dénonce la Commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe. Relevant ses « #ambiguïtés_juridiques », celle-ci liste les multiples questions que l’accord soulève en matière d’équité des procédures d’asile, d’identification des personnes vulnérables et des mineurs, de risque de détention automatique sans contrôle juridictionnel, de conditions de détention, d’accès à l’assistance juridique et de recours effectif... Et met en garde contre le recours croissant à l’externalisation, qui pourrait « créer un effet domino susceptible de saper le système européen et mondial de protection internationale [5] ». De leur côté, plusieurs ONG ont déjà mis en évidence l’incompatibilité de l’accord avec la législation européenne – à laquelle l’Italie est tenue de se conformer – en matière d’asile et d’éloignement [6].

      Les institutions de l’UE semblent moins inquiètes. Pas de réaction du côté des gouvernements, sans doute soulagés de voir l’Italie traiter seule le problème des arrivées d’exilé·es sur ses côtes plutôt que d’être rappelés à une « solidarité européenne » à laquelle ils préfèrent se dérober. Quant à la Commission européenne, elle s’est empressée de préciser que « le droit européen n’est pas applicable en dehors du territoire de l’UE » mais que, « étant donné l’appartenance de l’Italie à l’Union et l’adoption obligatoire d’une législation commune, les règles qui s’appliqueront dans les centres albanais seront effectivement de nature européenne et imiteront le cadre qui s’applique sur le sol italien [7] ». Nous voilà rassurés.

      https://www.gisti.org/spip.php?article7170

    • Protocole d’accord Italie/Albanie sur les migrations : une coopération transfrontière contraire au droit international

      La chambre des députés italienne et la Cour suprême albanaise ont approuvé le protocole d’accord sur les migrations conclu en novembre 2023, respectivement les 24 et 29 janvier 2024. Le réseau Migreurop dénonce des manœuvres qui s’inscrivent dans la continuité des politiques de l’Union européenne (UE) et de ses États membres pour externaliser le traitement de la demande de protection internationale.

      Le 6 novembre 2023, l’Italie a conclu un « accord » avec l’Albanie en vue de délocaliser le traitement de la demande d’asile de certain·e·s ressortissant·e·s étranger·ère·s de l’autre côté de ses frontières [1]. Ce protocole, rendu public le 7 novembre, s’appliquerait aux personnes interceptées ou secourues en mer par les autorités italiennes, qui pourraient être débarquées dans les villes côtières albanaises de Shëngjin et de Gjader. Les personnes reconnues « vulnérables » ne seraient pas concernées par cet accord.

      Celui-ci prévoit, d’ici le printemps 2024, la construction de deux camps [2] financés par l’Italie : l’un destiné à l’évaluation de la demande d’asile, l’autre aux « éventuels rapatriements » [3] (autrement dit, aux expulsions). Alors que le Parlement italien n’a pas été sollicité au moment de la conclusion de l’accord [4], ces structures relèveraient pourtant exclusivement de la juridiction italienne. Contre une compensation financière et une avancée dans le processus d’adhésion à l’UE, l’Albanie aurait donné son accord pour « accueillir » 3 000 personnes par mois sur son territoire et assurer une part active dans les activités de sécurité et de surveillance via ses forces de police [5]. Fortement inspiré par le concept australien de « Pacific solution » [6], ce mécanisme placerait les deux camps sous autorité italienne, avec du personnel italien, en vertu d’un statut d’extraterritorialité.

      Certaines institutions européennes se sont dans un premier temps contentées d’appeler au respect du droit national et international. La Commissaire européenne en charge des affaires intérieures a déclaré, une semaine après que l’accord a été rendu public : « L’évaluation préliminaire de notre service juridique est qu’il ne s’agit pas d’une violation de la législation de l’UE, mais que cela est hors de la législation de l’UE » [7]. Une formulation particulièrement ambiguë, qui n’a pas été éclaircie quand elle a ajouté : « l’Italie se conforme à la législation européenne, ce qui signifie que les règles sont les mêmes. Mais d’un point de vue juridique, il ne s’agit pas de la législation européenne, mais de la législation italienne (qui) suit la législation européenne ».

      La Commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe, a quant à elle rappelé que « la possibilité de déposer une demande d’asile et de la faire examiner sur le territoire des États membres reste une composante indispensable d’un système fiable et respectueux des droits humains », ajoutant que « Le protocole d’accord crée un régime d’asile extraterritorial ad hoc, caractérisé par de nombreuses ambiguïtés juridiques » [8].

      S’il a l’allure d’un accord bilatéral, cet accord s’inscrit dans la continuité de l’externalisation des politiques d’asile menée par les États européens depuis le début des années 2000, se projetant plus ou moins loin des frontières européennes (du Maroc au Rwanda en passant par la Turquie, notamment). De nombreux pays sont en effet tenus de coopérer avec l’UE et ses États membres dans le domaine de l’immigration et de l’asile en échange d’avantages en matière commerciale, de politique étrangère ou d’aide au développement.

      Dans le cas présent, l’Italie, au nom d’un prétendu « partage des responsabilités », pioche dans la mallette à outils à disposition des États pour externaliser le traitement de la demande d’asile. L’Albanie ayant obtenu en 2014 le statut de pays candidat à l’adhésion à l’Union européenne, cette coopération transfrontière représenterait un gage de sa bonne volonté, se donnant ainsi l’image d’être le partenaire-clé des pays européens dans la mise en œuvre de leurs politiques de sélection et de filtrage des personnes étrangères aux frontières extérieures [9]. Cette stratégie utilitariste, mobilisant les personnes en migration comme levier de négociation politique, a déjà été mise en œuvre par le passé à de maintes reprises, et le réseau Migreurop a solidement étayé les effets délétères de tels accords sur les droits des personnes migrantes [10].

      Au-delà de l’opacité et du secret qui a entouré sa conclusion, ce protocole d’accord pose de nombreuses questions :

      Alors même que l’accord ne s’appliquerait pas aux personnes considérées vulnérables, ne peut-on estimer que les personnes rescapées sont de facto vulnérables ? Que le déplacement dans ces centres albanais de personnes rescapées en mer constitue de facto une action qui vulnérabilise ces personnes ?

      Quid du principe de non-refoulement ? En envoyant des personnes en dehors de son territoire, le temps du traitement de la demande d’asile, l’Italie risque de contrevenir au principe de non-refoulement, pourtant énoncé à l’article 33 de la Convention de 1951 relative au statut des réfugiés, qui interdit le retour des réfugiés et des demandeurs d’asile vers des pays où ils risquent d’être persécutés [11].

      En pratique, sa mise en œuvre impactera les droits des personnes selon les conditions du débarquement (qui ne sera donc pas le lieu sûr le plus proche comme le prévoit la réglementation internationale) : qu’en sera-t-il du respect de la procédure de demande d’asile, de l’identification de la vulnérabilité, de l’accès à une assistance juridique ? Elle impactera aussi, ensuite, les conditions dans lesquelles les personnes seront détenues, à l’image de ce qui s’est passé dans les hotspots en Grèce, dans lesquels les personnes étaient prisonnières de camps à ciel ouvert [12].

      Qui sera responsable en cas de violations des droits au sein de ces camps ? Quel droit s’appliquera, le droit italien ou le droit albanais ? Comment pourra être garantie l’effectivité des droits dans un territoire localisé à distance de la juridiction responsable, loin des regards ?

      Selon les termes de cet accord, ni les personnes débarquées par les bateaux d’ONG, ni les personnes arrivées de manière autonome ne devraient être concernées. Comment savoir si les autorités italiennes n’élargiront pas cette procédure à tou·te·s les demandeur·euse·s d’asile ? L’accord ne risque-t-il pas, en outre, de mettre en difficulté les conditions dans lesquelles s’effectueront les opérations de recherche et sauvetage des personnes en détresse en mer ? Le tri entre les personnes reconnues vulnérables et les autres se fera-t-il sur le bateau ou en Albanie ?

      Pour les personnes expulsées, le seront-elles depuis l’Italie ou depuis l’Albanie ? De sérieux doutes se posent au regard des déclarations du Premier ministre albanais affirmant qu’elles incomberaient aux autorités italiennes (alors qu’initialement cette tâche devait être effectuée par l’Albanie).

      La détention aurait lieu durant la procédure frontalière et en vue du retour, mais quid des personnes libérées en Albanie : seront-elles renvoyées vers l’Italie ou un autre État ?

      Cet accord tombe-t-il sous le coup du droit européen ou non ? La Commissaire aux affaires intérieures a laissé planer un doute sur la nature européenne des règles qui s’y appliqueraient. La Commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe a quant à elle pointé du doigt le risque d’un effet domino « susceptible de saper le système européen » si d’autres États décident eux-aussi de transférer leur responsabilité au-delà des frontières européennes [13].

      Les règles édictées dans l’accord politique sur le pacte européen adoptées le 20 décembre 2023 devront-elles s’appliquer sur le territoire albanais car sous juridiction italienne et donc européenne ?

      Et pour finir, se pose la question du coût exorbitant de ces déplacements de populations, mais aussi celui de l’accord négocié avec l’Albanie pour disposer d’une partie de son territoire national, et du fonctionnement-même de ces camps.

      Pour toutes ces raisons, le réseau Migreurop dénonce un protocole d’accord qui n’aurait jamais dû voir le jour. Et à supposer que le gouvernement italien s’obstine dans cette direction, cela ne peut se faire sans que le droit européen et la protection des droits des personnes soient mis en œuvre et respectés. À commencer par celui de demander l’asile dans de bonnes conditions.

      Les mécanismes d’externalisation à l’œuvre – qui se généralisent – violent le droit international avec la complicité des autorités nationales et la complaisance de certaines institutions européennes. Il est urgent de refuser ce contournement incessant du droit qui, loin des regards, s’inscrit dans la stratégie mortifère de mise à distance des personnes étrangères.

      https://migreurop.org/article3230

  • Paysans, artisans : ils se battent pour une activité qui respecte les #sans-papiers

    En France, l’association #A4 aide des personnes migrantes à être régularisées en les accompagnant vers une activité agricole ou artisanale. Une démarche à rebours de l’immigration utilitariste prônée par le gouvernement.

    « Le but n’est pas de forcer l’installation, seulement d’ouvrir des portes », explique Habib, membre fondateur et salarié de l’#association_d’accueil_en_agriculture_et_artisanat (A4). Depuis 2022, l’organisation aide les personnes migrantes à être régularisées en les accompagnant dans le développement d’une activité agricole ou artisanale décente. Le tout, en préservant les #terres_agricoles au profit de la #paysannerie. Du 9 au 14 octobre, ses membres étaient réunis à La Demeurée, un lieu de création à Saint-Contest près de Caen (Calvados), pour faire le point sur une année et demie d’activité intense.

    L’association gère depuis mai 2023 une ancienne serre industrielle de 3 000 mètres carrés à Lannion (Côtes-d’Armor), mise à disposition par un agriculteur retraité. Omar [], originaire du Soudan, Marie [], Congolaise, et Uma Marka [*], venue d’Amérique du Sud, ont pu y lancer des expérimentations pour la culture de plantes exotiques et tropicales : cacahuètes, gingembre, pastèques, melons, ananas, dattes, etc. Mais l’avenir de cette ferme reste incertain, alors qu’un nouveau PLU est prévu pour 2025.

    « Soit la mairie décide de rendre la parcelle constructible et les serres seront détruites ; soit la parcelle reste agricole et d’autres perspectives peuvent s’ouvrir pour ce lieu », explique Marie. Pour éviter l’artificialisation de ces terres, l’association travaille sur d’autres projets : un #fournil_mobile pour vendre du pain et organiser des ateliers sur le levain, un atelier de #réparation_de_vélos, un lieu de rencontre pour les associations et collectifs locaux. Reste à savoir si cela suffira à faire pencher la balance. « C’est le même problème dans toute la #Bretagne : les terres se vendent à des prix affolants », soupire Tarik, membre fondateur d’A4.

    Outre Lannion, d’autres lieux ont été prospectés dans le #Limousin, en région Provence-Alpes-Côte-d’Azur, dans les départements de l’#Isère et de la #Drôme et à #Saint-Affrique, dans l’Aveyron. Un sixième « voyage-enquête » est prévu en Ariège en 2024. L’objectif est de « faire émerger un réseau de fermes et d’artisans complices » qui pourraient accueillir et embaucher les exilés dans de bonnes conditions, explique Gaël Louesdon, membre du collectif #Reprise_de_terres, qui conseille A4 dans sa recherche de #foncier_agricole.

    Au-delà, ces voyages sont des moments de « découverte des luttes en milieu agricole », insiste Marie. Logique, alors que l’idée de l’association est née dans le cadre des rencontres Reprise de terres, au printemps 2021 sur la zad de Notre-Dame-des-Landes.

    Cette démarche s’inspire des premières enquêtes ouvrières des XIXᵉ et XXᵉ siècles, basées sur des questionnaires remplis par les ouvriers eux-mêmes. Ces dernières visaient à améliorer les conditions de travail en dénonçant le capitalisme, le productivisme et l’exploitation ouvrière. « Seuls les travailleurs connaissent leurs conditions. Et quand on mène une enquête sur ses conditions de vie, on les transforme », explique Paul, membre de l’association et du collectif d’enquêtes militantes Strike.

    En parallèle, l’association travaille sur un guide juridique à destination des personnes migrantes et des artisans et agricultures qui souhaitent les aider. Ce gros projet devait occuper une bonne partie de la réunion de l’association à Caen.

    Savoir-faire et aspirations

    L’objectif est double. D’une part, lutter contre l’#accaparement_des_terres agricoles par l’agro-industrie, qui mobilise « la violence mais aussi les outils juridiques et le droit existants », selon Gaël Louesdon. Mais aussi respecter les savoir-faire et les aspirations des personnes exilées, à l’heure où le gouvernement favorise une « optique utilitariste » de l’immigration, insiste Élise Costé, juriste spécialisée en droit des étrangers et salariée de l’antenne caennaise de l’association de solidarité pour tous les immigrés (Asti).

    De fait, dans le projet de loi asile et immigration, dont l’examen commence ce lundi 6 novembre au Sénat, l’exécutif veut permettre aux #travailleurs_sans-papiers présents sur le territoire depuis trois ans d’obtenir un titre de séjour « métiers en tension » valide un an — une proposition rejetée avec vigueur par la droite et l’extrême droite.

    Cette dérive alimente, selon A4, des scandales d’embauche de travailleurs sans-papiers dans des conditions indignes. « Il faut casser la tentation de l’#agro-industrie d’exploiter des gens », plaide Tarik, qui évoque les entreprises bretonnes #Aviland et #Prestavic, respectivement poursuivies et condamnées pour traite d’êtres humains — en l’occurrence, de dizaines de travailleurs migrants sans-papiers.

    Pour toutes ses actions, l’association cultive l’#entraide et prône une organisation « d’égal à égal », sans distinction entre les aidants et les aidés. Parmi le noyau dur des dix membres les plus actifs d’A4, certains sont passés d’un statut à l’autre, comme Awad, garagiste à Paris devenu chauffeur pour les voyages-enquêtes, Amine, qui développe un projet d’agriculture et de vie en collectif avec des amis, ou encore Habib, soudeur spécialisé dans les fours à pain qui aspire à devenir écrivain. Une approche réparatrice pour des membres souvent éprouvés par leurs expériences passées. « Ça soigne les blessures, sourit Habib. Si ça continue comme ça, on peut changer le monde ! »

    https://reporterre.net/Paysans-artisans-ils-se-battent-pour-une-activite-qui-respecte-les-sans-
    #travail #régularisation #artisanat #agriculture #France #industrie_agro-alimentaire #conditions_de_travail

  • Cohabiter avec les fluctuations et les débordements de l’eau
    https://metropolitiques.eu/Cohabiter-avec-les-fluctuations-et-les-debordements-de-l-eau.html

    Le dernier ouvrage du paysagiste Frédéric Rossano ouvre des pistes pour apprendre à lire les trajectoires des paysages fluviaux. Marguerite Charles, paysagiste-conceptrice, en retient des outils et des leçons essentiels pour faire face aux dérèglements climatiques en cours. La Part de l’eau paraît dans un contexte de tension croissante entre l’usage de territoires toujours plus fortement anthropisés et certains effets des dérèglements climatiques en cours. Si la plupart des sociétés ont connu les #Commentaires

    / #paysage, #eau, #écologie, #urbanisme, #changement_climatique, #risque

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_charles.pdf

  • EU-Tunisia like UK-Rwanda? Not quite. But would the New Pact asylum reforms change that?

    EU law only allows sending asylum applicants to third countries if they can be considered safe and have a reasonable connection with the applicant. However, if the New Pact reforms go ahead, the safe third-country concept may be used to further shift protection responsibilities outside the EU. While the EU would be unable to conclude a UK-Rwanda-style agreement, the pressure for reforms, as well as the recent Memorandum of Understanding with Tunisia, signal the threat of diminished human rights protections and safeguards.

    Following an agreement on the last piece of the reform package, the so-called crisis instrument, the European Council and European Parliament are currently negotiating all proposals included in the New Pact on Migration and Asylum. While the focus on preventing irregular arrivals and increasing returns has long been a priority for the European Council and has been widely debated in EU migration policy, the possible impact of Pact reforms on the Safe Third-Country (STC) has gone largely unnoticed, partly due to its technical nature.

    However, the use of this concept could be expanded, in line with the original Pact proposal by the Commission, unless the European Parliament’s approach prevails over the European Council’s position. Should the Parliament fail to stay the course, the reforms could make it easier to transfer asylum applicants back to countries of transit, where they could be exposed to human rights violations. Recent developments point in this direction.

    Faced with an increase in irregular arrivals, ahead of the February 2023 meeting of the European Council, eight member states called on the European Commission and European Council to “explore new solutions and innovative ways of tackling irregular migration” based on “safe third-country arrangements”. Reflecting an established trend of outsourcing to third countries migration management responsibilities, in July 2023, the Commission signed a Memorandum of Understanding (MoU) with Tunisia on border controls and returns in exchange, among others, for economic and trade benefits. This MoU, singled out as a blueprint for similar arrangements by von der Leyen in her 2023 State of the Union address, was concluded at the urging of the Italian government, as it wants to use the concept of STC to return those arriving by sea via Tunisia.

    However, some member states aim to go further, with some commentators arguing that their goal is cooperation with third countries based on the 2022 UK-Rwanda deal. In this controversial deal, Rwanda committed to readmit asylum seekers arriving irregularly in the UK in exchange for development aid, regardless of whether asylum seekers had ever lived in or even entered the country before. Explicit bilateral declarations of support for this policy came from Austria and Italy. Denmark even negotiated a similar deal with Rwanda in September 2022. However, the Danish plans were put on hold, with the government expecting an EU-wide approach.

    These developments raise several crucial questions regarding EU migration and asylum policies. Under EU law, are UK-Rwanda-like deals lawful? What difference, if any, could the Pact reforms bring in this respect? How should the MoU with Tunisia be seen in this context? And will the concept of STC be used to shift responsibility to third countries in the future, and with what potential consequences for human rights protections?

    Externalisation: A U-turn on the concept of safe third-country

    The concept of STC emerged at the end of the 1980s to ensure a fair burden sharing of responsibility for asylum applicants among members of the international community. Under its original conception, the states most impacted by refugee flows could send asylum applicants to another state on the condition that the receiving state could offer them adequate protection in line with international standards.

    In recent years, however, restrictive immigration policies aimed at deterring irregular arrivals have proliferated, including outsourcing responsibilities to third countries. These policies, commonly referred to as ‘externalisation’, seek to transfer migration management and international protection responsibilities to countries already impacted by refugee flows, mostly countries of transit, in a spirit of burden-shifting rather than burden-sharing. These also come with diminished safeguards.

    Notable examples from outside the EU include the controversial policy by Australia of setting up extraterritorial asylum processing in Papua New Guinea in 2001. In the European context, the idea of setting up extraterritorial processing centres was first suggested by the UK in 2003 and then by Germany in 2005. This idea regained attention in the aftermath of the so-called 2015 refugee crisis, with several heads of EU states calling for asylum external processing. However, legal hurdles and the lack of willing neighbouring countries prevented it from becoming an EU mainstream migration control mechanism. The use of the STC concept to declare an application for international protection inadmissible without an examination of its merits prevailed instead, with the purpose of transferring the person who filed it to a third-country which is considered safe. Under current EU rules, the safety of the country is assessed on the basis of protection from persecution, serious harm, and respect for the principle of non-refoulement. However, this concept can only be applied individually, when there is a sufficient connection between the asylum seeker and the third- country, defined under national law, which makes it reasonable to return to that country.

    The much-debated 2016 EU-Türkiye Statement is considered the blueprint of this approach. Under the statement, Türkiye agreed to readmit all asylum seekers who crossed into Greece from Türkiye. In line with EU law, asylum applicants can only be returned after considering the time of stay there, access to work or residence, existence of social or cultural relations, and knowledge of the language, among others.

    Unlike the EU-Türkiye Statement, the UK-Rwanda agreement does not foresee the need for any such connection. Under the deal, the UK would, in principle, be able to send to Rwanda Syrians, Albanians and Afghans without them having ever set foot there. However, as of October 2023, the deal remains on hold, as the Court of Appeal found that it overlooks serious deficiencies in the Rwandan asylum system, rendering it unsafe.

    The expansion of safe third-country under the New Pact on Migration and Asylum

    Considering the above, Denmark or other member states could not transfer asylum seekers to a third-country, regardless of their circumstances. As the European Commission and experts argued, this would only be possible if a reasonable connection with the applicant could be established.

    Things may nevertheless change if the Pact negotiations were to proceed in accordance with the compromise reached by member states in June 2023. The European Council’s compromise text keeps the reasonable connection requirement while also leaving to member states the exact definition of STC under national law, as in the current rules. However, two possible changes could broaden its applicability to facilitate returns.

    First, albeit non-legally binding, the recitals introducing the European Council’s agreed position explicitly mention that a mere ‘stay’ in a STC could be regarded as sufficient for the reasonable connection requirement to be met. If the changes were to pass in this form, it is not unforeseeable that some member states will push to return asylum seekers to countries of transit, even if they only have a tenuous link with them, although case-law of the EU Court of Justice points against this interpretation.

    Second, the position agreed by the European Council in June would allow member states to presume the safety of a third country when the EU and the said third-country have decided that migrants readmitted there will be protected in line with international standards. However, the mere existence of an agreement does not prove its safety in practice. For example, the recently agreed MoU with Tunisia was called into question for its human rights implications and overlooking abuses against migrants, arguably rendering it unsafe.

    Despite Italian wishes to the contrary, Tunisia has so far only expressly agreed to readmit its own nationals. However, considering the expectations of EU states, the European Council’s position, and an uncertain future, the possibility of more comprehensive arrangements with other countries, such as Egypt, cannot be ruled out. While UK-Rwanda-style deals are and will remain a no-go for member states, an expanded STC concept could enable the EU to pursue its priority of implementing returns to countries of transit, a notable shift compared to current practices. The push for cooperation with Tunisia shows that this would come at the expense of human rights.

    The negotiations with the European Parliament offer the opportunity to avoid this expansion and maintain stronger safeguards. However, considering the wider systemic weaknesses of the envisaged reforms – especially the loose solidarity obligations within member states – the EU will likely continue its burden-shifting efforts in the future regardless, whether through the STC concept or other types of arrangements with third countries.

    https://www.epc.eu/en/Publications/EU-Tunisia-like-UK-Rwanda-Not-quite-But-would-the-New-Pact-asylum-re~55422c
    #Pacte_européen_sur_la_migration_et_l’asile #migrations #asile #réfugiés #externalisation #new_pact #nouveau_pacte #EU #UE #Union_européenne #pays-tiers_sûrs #procédure_d'asile #droits_humains #Tunisie #Rwanda #pays_de_transit

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    ajouté à la métaliste sur le #Pacte_européen_sur_la_migration_et_l’asile:
    https://seenthis.net/messages/1019088

  • 5 graphiques pour prendre la mesure de l’évitement fiscal | Alternatives Economiques
    https://www.alternatives-economiques.fr/5-graphiques-prendre-mesure-de-levitement-fiscal/00108479

    Le « Global Tax Evasion Report 2024 », publié ce 23 octobre, offre des statistiques détaillées sur la lutte contre les paradis fiscaux et l’évitement fiscal. Nous en avons sélectionné 5 graphiques pour mieux saisir le phénomène.

  • Il privilegio del passaporto

    Quanto vale la libertà?

    I termini “migrazioni” e “migranti” sono quelli utilizzati soprattutto per parlare delle persone che provengono, principalmente, dal Sud America, dall’Africa, dal Medio Oriente e dal Sud dell’Asia.

    Per indicare invece lo spostamento delle persone che provengono dagli Stati Uniti, dal Giappone o dai Paesi dell’Unione Europea, i termini utilizzati sono principalmente “viaggio”, “expat”, “fuga di cervelli”.

    Questa asimmetria linguistica utilizzata per descrivere la mobilità umana ci suggerisce che esiste una disparità non solo dettata dalla percezione che si ha delle persone che “si spostano” ma anche, evidentemente, dal privilegio della nazionalità del Paese di provenienza. Tale privilegio dipende non solo dalla ricchezza del Paese in cui si nasce – al netto di tutte le disparità sociali che troviamo anche all’interno dei Paesi ricchi -, ma dal passaporto.
    Tutti i passaporti sono uguali ma alcuni sono più uguali di altri

    Nonostante la definizione di passaporto sia generalmente nota, difficilmente ci si sofferma a riflettere sulla potenza di un documento simile e sul suo significato. Il passaporto viene utilizzato per viaggiare da un Paese all’altro, è il lasciapassare, per l’appunto, per poter superare i confini e raggiungere la destinazione desiderata.

    Tuttavia, il passaporto è un’invenzione piuttosto recente. Nell’inchiesta Passaporti d’oro (o The man Who knows no boundaries), scritta dal giornalista Hannes Grassegger su Das Magazin e tradotta da Internazionale, si legge: “solo nella metà del ‘900 si è imposto l’obbligo del visto e quindi anche di dimostrare la cittadinanza. Storicamente, il passaporto […] è l’evoluzione dell’antico salvacondotto che garantiva una protezione ai nobili o ai loro emissari”. E ancora, “la ricercatrice Ayelet Schachar – giurista, Università di Toronto – parla di una lotteria dei passaporti in cui il paese di nascita condanna la maggioranza dell’umanità a stare tra i perdenti”.

    In effetti, se si osserva la classifica aggiornata del Global Passport Power Rank 2023, si noterà che tra i primi sette spiccano principalmente i Paesi nord occidentali – l’Italia è tra i passaporti che si trovano al secondo posto.

    L’unica eccezione sono gli Emirati Arabi Uniti (EAU) che si trovano al primo posto della classifica, infatti: “gli EAU hanno battuto paesi del calibro di Germania, Svezia, Finlandia e Lussemburgo nell’ultima classifica, anche se questi paesi sono tutti tra i primi cinque”, riporta la giornalista Natasha Turak sulla testata CNBC. In sostanza, se si è titolari di un passaporto degli EAU, è possibile viaggiare in un numero enorme di paesi senza visto e in molti altri è possibile ottenere un visto direttamente al proprio arrivo: la popolazione espatriata ammonta a circa l’88,52%, ovvero 9,0 milioni, mentre i cittadini emiratini ammontano solo all’11,48%, ovvero 1,17 milioni, secondo le statistiche del Global Media Insight.

    A differenza di persone di nazionalità siriana, nigeriana, sudanese o pakistana, ad esempio, una persona di nazionalità emiratina può entrare nell’area Schengen senza dover chiedere il visto e ciò dipende principalmente dalle relazioni economico-diplomatiche tra gli EAU e l’Unione Europea (UE), costituiti da accordi bilaterali per l’approvvigionamento di energia e il commercio – chiudendo, tuttavia, un occhio sulle violazioni dei diritti umani che si consumano quotidianamente nel ricco Paese del Golfo.

    L’assenza di vie legali effettivamente percorribili per entrare nei Paesi UE, l’impossibilità di ottenere visti di viaggio presso le ambasciate dei Paesi europei stanno alla base della creazione di un doppio binario: uno è quello percorso dalle persone costrette, ad esempio, a dover attraversare la pericolosa rotta del Mediterraneo, oppure cercare di oltrepassare i confini dalle rotte balcaniche (affrontando respingimenti violenti e illegali da parte delle autorità di frontiera). L’altro è il binario di prima classe e a cui i Paesi europei aprono le porte, ed è percorso da coloro che possono permettersi di acquistare i cosiddetti visti o passaporti d’oro.

    Passaporti e visti d’oro

    Come anticipato, se per la maggior parte delle persone provenienti dai Paesi del Sud Globale viaggiare in Europa legalmente risulta essere una corsa a ostacoli impossibile da superare, le procedure per ottenere visti e passaporti sono molto più semplici per alcune categorie di persone. Tali operazioni sono possibili per via di determinati schemi dell’area Schengen, come viene spiegato nel sito ufficiale della stessa: il Golden Visa è un programma di immigrazione che garantisce a persone facoltose un permesso di soggiorno in un paese straniero in cambio di un importante investimento. Il Golden Passport, invece, è un programma che garantisce [l’acquisizione] della cittadinanza e del passaporto del paese in cui si investe. In entrambi i casi, solitamente, all’investitore/trice non è richiesto di vivere a tempo pieno nel paese in cui ha investito.

    Per poter beneficiare di un visto d’oro o di un passaporto d’oro in Europa, l’investimento dovrebbe essere piuttosto elevato: si tratta di una somma che varia dai centinaia di migliaia ai milioni di dollari. A questo proposito, nel 2018, la coalizione Transparency International, ha pubblicato un rapporto dal titolo European Getaway 1 in cui è stato analizzato l’elevato rischio di corruzione generato dagli schemi Golden Visa e Golden Passport. Innanzitutto, si legge nel rapporto, almeno dal 2008 al 2018, nell’UE, 6 mila cittadini stranieri hanno ottenuto la cittadinanza e quasi 100 mila hanno ottenuto la residenza UE attraverso visti e passaporti d’oro. “Spagna, Ungheria, Lettonia, Portogallo e Regno Unito (prima della Brexit, l’uscita di quest’ultimo dall’Ue) hanno concesso il maggior numero di visti d’oro – oltre 10.000 ciascuno – agli investitori e alle loro famiglie. Seguono Grecia, Cipro e Malta”. I programmi dei visti d’oro, sempre nel medesimo arco di tempo, hanno attirato circa 25 miliardi di euro in investimenti diretti esteri.

    Tuttavia, come riporta la Transparency International, sebbene tali schemi siano legali, il rischio di corruzione deriva dalla scarsa trasparenza degli Stati UE (ad esempio, si legge nel rapporto, nessuno dei Paesi UE ha reso pubblica la lista degli investitori tranne Austria e Malta), sia perché – analizzando in modo particolare i casi di Cipro, Malta e Portogallo – è stata riscontrata una grave carenza sui dovuti controlli nei confronti di chi richiede tali documenti.

    Sia perché, come viene spiegato nel rapporto, gli schemi per l’ottenimento dei visti d’oro sono altamente desiderabili per chiunque abbia a che fare con la corruzione, in quanto offrono l’accesso a un rifugio sicuro – “e non soltanto in termini di stile di vita di lusso, quanto ad esempio in campo bancario, dove un cliente munito di passaporto UE si troverà in una posizione agevolata rispetto a chi proviene da un Paese considerato a rischio o sottoposto a sanzioni”, come ha spiegato il giornalista Duccio Facchini su Altreconomia.

    Dell’alto rischio di vendere visti e passaporti d’oro a ricchi investitori senza i dovuti controlli, ha molto parlato il Guardian che ad esempio, nel 2017, nell’articolo Corrupt Brazilian tycoon among applicants for Portugal’s golden visas ha riportato diversi casi di imprenditori brasiliani condannati, o accusati di corruzione, che hanno acquistato proprietà in Portogallo con il fine di ottenere visti d’oro. Di seguito alcuni esempi (tra i tanti): Otavio Azevedo, un ricco imprenditore brasiliano condannato a 18 anni di carcere per corruzione. Due anni prima del suo arresto, Azevedo aveva acquistato una proprietà da 1,4 milioni di euro a Lisbona e successivamente aveva chiesto un visto d’oro nel 2014; Pedro Novis, ex presidente e amministratore delegato di Odebrecht, la più grande impresa di costruzioni del Sud America, ha acquistato nel 2013 una proprietà da 1,7 milioni di euro a Lisbona. Questo acquisto è stato la base per la sua richiesta di visto d’oro presentata alla fine del 2013. La società è stata accusata di molteplici reati di corruzione in tutta l’America Latina; Carlos Pires Oliveira Dias, vicepresidente del gruppo edile Camargo Correa, ha investito 1,5 milioni di euro in Portogallo nell’ambito del programma Golden Resident nel 2014 – il gruppo Camargo Correa è stato anche collegato allo scandalo Car Wash (operazione della polizia federale brasiliana su gravi reati legati alla corruzione). Oliveira Dias ha confermato di aver ottenuto il visto d’oro.
    L’UE “corre ai ripari“

    Nel 2020 la Commissione Europea ha dato avvio a due procedimenti di infrazione rispettivamente contro Cipro e Malta ritenendo che la concessione della cittadinanza UE in cambio di pagamenti o investimenti predeterminati, senza alcun legame reale con lo Stato membro interessato, fosse in violazione del diritto dell’UE – in particolare dell’articolo 4(3) del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.

    La stretta sulla vendita dei passaporti d’oro si è ulteriormente intensificata in seguito allo scoppio della guerra in Ucraina, per impedire agli oligarchi russi – che già prima usufruivano dei programmi Golden Visa e Golden Passport, in particolare attraverso i programmi di Cipro – di entrare in UE. Nell’inchiesta “Passaporti d’Oro” del giornalista Grassagger, viene spiegato che all’inizio della guerra, molti cittadini russi benestanti hanno quindi acquistato il passaporto turco: “non uno falso, si badi”, spiega Grassager, “ma quello che si ottiene legalmente in cambio di denaro. La questione in Turchia è regolata dall’articolo 12 della legge n. 5901 sulla cittadinanza, in base alla quale, per diventare turchi, bisogna dimostrare di aver comprato immobili in Turchia per un valore minimo di 400 mila dollari oppure di aver creato cinquanta posti di lavoro o di aver portato in Turchia mezzo milione di dollari investendo in imprese turche per un minimo di tre anni”.

    Nel 2022, riporta il Middle East Monitor, 5 mila cittadini russi hanno acquistato la cittadinanza turca allo scoppio della guerra in Ucraina, specie a seguito delle pesanti sanzioni imposte dai Paesi occidentali. Nell’inchiesta Cyprus Papers (2020) della testata Al Jazeera, è stato rivelato che 2.500 cittadini milionari, inclusi criminali già condannati, hanno ottenuto la cittadinanza cipriota tramite investimento.

    Diversi Paesi europei hanno successivamente deciso di porre restrizioni sui programmi Golden Visa o Golden Passport, come riporta Euronews: nel febbraio 2023, l’Irlanda ha eliminato il suo programma di visti d’oro – l’Immigrant Investor Program – che offriva la residenza irlandese in cambio di una donazione di 500 mila euro o di un investimento triennale annuale di 1 milione di euro nel paese; nello stesso mese il primo ministro portoghese António Costa ha annunciato l’intenzione di porre fine al programma di residenza per contrastare la speculazione sui prezzi immobiliari e sugli affitti.

    Nel mese di settembre 2023, il Portogallo ha definitivamente chiuso il programma Golden Visa, pur concedendo il rinnovo dei visti d’oro già acquisiti.

    Anche l’Italia ha il suo programma Golden Visa (o Visto per Investitori). I beneficiari devono investire almeno 500 mila euro (250 mila euro se si tratta di start-up innovative) in una società per azioni italiana, un contributo di beneficenza di 1 milione di euro a favore di un ente impegnato in un settore specifico come quello dei beni culturali o paesaggistici, o in titoli di Stato per un importo di almeno 2 milioni di euro.

    Benché per l’ottenimento della cittadinanza sia necessario comunque aver maturato i 10 anni di residenza, se si è cittadini extra-UE, e si possiede il denaro necessario, è possibile ottenere un visto di durata biennale (con possibile rinnovo di altri tre anni). L’Italia ha inoltre sospeso i visti d’oro per coloro che sono di cittadinanza russa o bielorussa con un anno di ritardo rispetto ai provvedimenti UE.
    Conclusione: un mercato che si espande mentre le disuguaglianze aumentano

    Henley & Partners, Arton Capital, Cs global partners, PwC sono solo alcune delle aziende di consulenza che agiscono da intermediarie tra cittadini stranieri milionari e i Paesi con programmi Golden Visa o Golden Passport desiderabili. “Secondo le stime di Kristin Surak, sociologa della London School of Economics”, scrive Grasseger nella sua inchiesta, “ogni anno nel mondo si ottengono circa 25 mila cittadinanze in cambio di denaro”.

    E mentre le persone ricche continuano a godere del diritto alla libertà di movimento, tutte le altre non hanno diritto di avere diritti: dall’ennesimo rigetto di visto dalle ambasciate dei Paesi UE fino ai respingimenti sistematici alle frontiere, dalla criminalizzazione strutturale che le conduce nei centri di detenzione fino alla stipulazione di accordi bilaterali con Libia e Tunisia (nonostante le gravi violazioni dei diritti umani di queste ultime ai danni delle persone migranti).

    Non si potrà mai parlare del rispetto dei diritti fondamentali di ogni cittadino/a finché l’accesso a questi ultimi viene garantito solo a chi può permetterselo.

    https://www.meltingpot.org/2023/10/il-privilegio-del-passaporto

    #passeport #privilège #migrations #visa #visas #business #passeports #Golden_Visa #citoyenneté #Golden_Passport #Chypre #Malte

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    ajouté à la métaliste sur la #vente de #passeports et de la #citoyenneté de la part de pays européens/occidentaux à des riches citoyen·nes non-EU :
    https://seenthis.net/messages/1024213

  • Sous la pression des libéraux, l’#Allemagne souhaite externaliser le traitement de demandes d’asile en #Afrique

    Le gouvernement allemand a annoncé envisager d’externaliser le #traitement_des_demandes d’asile sur le continent africain, sous la pression des libéraux, membres de la coalition.

    L’Allemagne, à l’instar de tous les pays européens, a vu une augmentation de plus de 70 % des demandes d’asile en 2023 par rapport à l’année dernière. Une tendance à laquelle le FDP, parti libéral membre de la coalition gouvernementale, souhaite remédier.

    La solution ? Envoyer des demandeurs d’asile dans des pays non-membres de l’UE, notamment en Afrique, pour gérer les demandes.

    « J’attends du ministre de l’Intérieur qu’il examine dès que possible comment le traitement des demandes d’asile dans les pays tiers peut être facilité, car c’est ce que nous avons convenu dans notre accord de coalition », a déclaré à Euractiv Ann-Veruschka Jurisch, rapporteure parlementaire du FDP sur la migration.

    La première mesure devrait être prise avant la fin de la législature en 2025, a ajouté Mme Jurisch, renforçant ainsi les demandes du président du groupe du FDP au parlement allemand, Christian Dürr.

    « Cette disposition empêcherait les personnes qui n’ont aucune chance d’obtenir l’asile d’entreprendre la dangereuse traversée de la Méditerranée », a déclaré M. Dürr, le président du groupe FDP au Parlement allemand, mardi (31 octobre).

    Les députés sociaux-démocrates, dont le chancelier #Olaf_Scholz est membre, ont affirmé travailler sur une proposition législative en ce sens.

    Dès mardi, la ministre de l’Intérieur, #Nancy_Faeser, signait en outre un accord avec le #Maroc pour accélérer le #rapatriement des demandeurs d’asile refusés en échange d’une migration légale plus facile vers l’Allemagne.

    Dans le respect des droits humains

    La proposition du FDP rappelle le projet controversé du gouvernement britannique d’envoyer les demandeurs d’asile au Rwanda, projet dont la mise à l’essai, annoncée l’année dernière, avait créé un tollé dans la classe politique.

    Le Royaume-Uni a déjà rencontré des obstacles dans la mise en œuvre de ce programme, la législation étant en cours de révision depuis que la Cour européenne des droits de l’Homme a interrompu les vols vers le Rwanda pour des raisons liées aux droits humains.

    Le Royaume-Uni a donc menacé de se retirer de la Convention européenne des droits de l’Homme si la Cour ne statuait pas en sa faveur.

    Selon le FDP, les demandes d’asile pourraient en effet être externalisées « dans le respect de la Convention de Genève et de la Convention européenne des droits de l’Homme », malgré l’existence de gouvernements autoritaires en Afrique du Nord, a déclaré Mme Jurisch.

    « Il est hors de question de quitter la Convention européenne des droits de l’Homme », a-t-elle souligné, se désolidarisant des menaces britanniques. Toute législation viendrait compléter et non supplanter un accord européen en cours d’élaboration sur le traitement des demandes d’asile aux frontières extérieures de l’Union européenne.

    Le gouvernement se rapproche ainsi de la rhétorique plus radicale du parti de centre droit CDU/CSU, le plus grand parti d’opposition. Hendrik Wüst, Premier ministre CDU de l’État régional de Rhénanie-du-Nord–Westphalie et candidat potentiel à la chancellerie en 2025, avait lancé le débat plus tôt dans la journée de mardi (31 octobre) en appelant à transférer le traitement des demandes d’asile à l’étranger.

    M. Wüst a refusé de préciser si un éventuel futur gouvernement CDU prendrait des mesures plus radicales, un porte-parole ayant expliqué à Euractiv que la conception concrète de toute mesure devrait être déterminée par le gouvernement.

    Cependant, le porte-parole a salué les discussions de la coalition avec les pays africains en les décrivant comme « la bonne approche ».

    https://www.euractiv.fr/section/immigration/news/sous-la-pression-des-liberaux-lallemagne-souhaite-externaliser-le-traitemen

    #asile #migrations #réfugiés
    #offshore_asylum_processing #externalisation #Rwanda

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    ajouté à la métaliste sur les différentes tentatives de différentes pays européens d’#externalisation non seulement des contrôles frontaliers, mais aussi de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers
    https://seenthis.net/messages/900122

  • #Journal du #Regard : Octobre 2023
    https://liminaire.fr/journal/article/journal-du-regard-octobre-2023

    https://youtu.be/DDHqg053ubo

    Chaque mois, un film regroupant l’ensemble des images prises au fil des jours, le mois précédent, et le texte qui s’écrit en creux. « Une sorte de palimpseste, dans lequel doivent transparaître les traces - ténues mais non déchiffrables - de l’écriture “préalable” ». Jorge Luis Borges, Fictions Nous ne faisons qu’apparaître dans un monde soumis comme nous au pouvoir du temps. Dans le silence qui suit la fin du signal de départ. Dans un seul et unique instant. Non pas suites sans principe de (...) #Journal, #Vidéo, #Architecture, #Art, #Écriture, #Voix, #Sons, #Paris, #Mémoire, #Paysage, #Ville, #Journal_du_regard, #Regard, #Dérive, #Paris, #Voyage, #Bruxelles (...)

  • L’#agriculture n’est pas une carte postale

    Dans les #Alpes_Maritimes, pour nos élus, l’agriculture n’a pour seule fonction que de servir de carte postale pour le #tourisme. Je suis devenu agriculteur à 25 ans. Et depuis, à part des bâtons dans les roues, je/nous n’avons jamais reçu aucune aide. Donc ce que je propose, c’est qu’on devienne tous intermittents du spectacle. Par #Cédric_Herrou.

    La question de l’agriculture dans la vallée de la Roya, et plus largement dans les Alpes-Maritimes, c’est une question qui comporte quelque chose de très surprenant : nous avons des politiques qui nous parlent de « #culture_identitaire ». Il s’agit du seul département, à ma connaissance, où l’on parle de « culture identitaire » à propos des #olives. Alors même que c’est un arbre du bassin méditerranéen, cultivé par des Marseillais, des Niçois, des Italiens, des Égyptiens… C’est une « #identité » de la Méditerranée dans son ensemble.

    C’est un détail, mais il est porteur de quelque chose : les Alpes-Maritimes, pour nos élus, l’agriculture n’a pour seule fonction que de servir de #carte_postale pour le tourisme.

    Nous l’avons vu lors de la #tempête_Alex, en octobre 2020 (1). J’étais alors agriculteur depuis 2006, donc depuis une quinzaine d’années. J’ai depuis cédé mon exploitation agricole à #Emmaüs-Roya, première #communauté_Emmaüs entièrement agricole. Cette exploitation faisait, auparavant, moyennement vivre une seule personne (moi) ; il nous a fallu à partir de là faire vivre quinze personnes, et dans des conditions matérielles beaucoup plus confortables que quand je vivais seul. Nous avons donc dû transformer ces 5 hectares en quelque chose de plus gros, de plus productif, -de plus professionnalisé.

    Nous voulions donc nous agrandir, et faire du #maraîchage sur des terrains où il était plus facile de le faire -donc, sur un terrain plat, ce qui est très rare ici.

    Ainsi, suite à la tempête, dans un contexte où ils voulaient relancer l’agriculture dans la vallée de la Roya -patin-couffin et blablabla-, il y a eu une réunion avec les associations, et nous avons eu rendez-vous avec Sébastien Olharan, maire de Breil-sur-Roya, avec la CARF (communauté d’agglomération de la Riviera française), et aussi, très important, avec la #SAFER (Sociétés d’aménagement foncier et d’établissement rural, supposément voué au soutien tout projet viable d’installation en milieu rural).

    Ils nous ont tous dit qu’ils adoraient ce que ce nous faisions. Que c’était super, que c’était génial. « Bien évidemment, nous préférons vous voir planter des tomates qu’héberger des noirs, mais en tous les cas, la partie agriculture, c’est très bien ! » Par contre, ils n’avaient pas de terrain à nous proposer. Rien. Car les terrains plats étaient déjà « réservés », qui pour un terrain de basket, qui pour un parking…

    J’étais donc bien saoulé. Et j’ai décidé de faire moi-même mes recherches, sur Le Bon Coin. Et je peux donc le dire : le Bon Coin est beaucoup plus efficace que la mairie de Breil, la CARF et la SAFER - dont c’est pourtant la fonction. Car sur ce site, je trouve un terrain qui est à vendre depuis des mois sur la commune de Saorge, non loin. Nous l’avons acheté, et nous y développons donc aujourd’hui une partie de nos activités.

    En temps normal, la SAFER surveille les ventes. Elle est supposée être LA référence pour savoir où des terrains potentiellement exploitables sont à acheter. Et là, nous avions un terrain en bord de route, avec de l’eau car à côté de la Roya, de l’eau potable également, l’accès à l’électricité, et un hectare de terrain plat. Ce qui, dans notre vallée, n’est vraiment pas rien. D’autant plus qu’une maison présente sur ce lieu a été rasée car trop proche de l’eau, ce qui en a fait du même coup des terres agricoles.

    La mairie, la #CARF et la SAFER étaient donc forcément au courant.

    La même chose s’est produite, 10 ans auparavant, avec un terrain situé à 100 mètres d’une zone que nous exploitons déjà, à Veil, chez mes parents. Il s’est vendu 2 fois plus cher que ce qu’avaient vu des amis à moi venu y jeter un œil : dans mes souvenirs, quelque chose comme 80 000 euros, au lieu des 40 000 annoncés. C’est la CARF qui l’avait acheté, et revendu à la mairie de Breil-sur-Roya, avec la promesse d’un projet agricole - qui n’a jamais eu lieu. Quand nous avons questionné la mairie sur ce point, car nous voulions récupérer ces terres, ils nous ont dit non, et prétexté vouloir y développer des activités... touristiques - dans un lieu sans eau potable, sans évacuation des eaux usées, et surtout qui est une zone agricole, donc non destinée à quoi que ce soit lié au tourisme. Et on en revient à ce que je disais au début. Ce même maire avait par ailleurs soutenu le voisin qui avait voulu (indûment, et la justice lui a donné tort) bloquer l’accès à mon terrain, rendant très complexe voire impossible nos activités agricoles.

    On pourrait penser que c’est le « militant » en faveur des droits des personnes en situation d’exil qui est attaqué, et pas le paysan. Mais j’ai commencé à être médiatisé sur ces sujets en 2016. Et je suis arrivé dans la vallée de la Roya en 2002. J’avais 23 ans.

    Je suis devenu agriculteur à 25 ans, et c’est rare de le devenir aussi jeune. Et à part des bâtons dans les roues (sans jeu de mot, NDLR), je, nous n’avons jamais reçu aucune aide.

    Au-delà des grands mots, agriculture, ici, cela semble donc faire chier tout le monde. Cela bloque 5 hectares, des terres qui, l’État le sait, ne deviendront jamais constructible. Sur les terrains limitrophes à l’exploitation, l’agriculteur sera prioritaire sur l’achat. Cela bloque le foncier, qui est la seule chose qui leur importe.

    On veut de l’agriculture, mais que comme carte postale.

    Donc ce que je propose, c’est qu’on sorte de la #mutuelle_sociale_agricole (#MSA), et qu’on devienne tous intermittents du spectacle.

    Un article paru dans le Mouais n°42 (octobre 2023), consacré à l’alimentation, nous le mettons en accès libre mais soutenez-nous, abonnez-vous ! https://www.helloasso.com/associations/association-pour-la-reconnaissance-des-medias-alternatifs-arma/boutiques/abonnement-a-mouais

    (1) Épisode méditerranéen extrêmement violent ayant ravagé en une nuit les vallées de la Tinée, de la Vésubie et de la Roya, occasionnant des morts et de nombreux dégâts matériels, NDLR.

    https://blogs.mediapart.fr/mouais-le-journal-dubitatif/blog/291023/l-agriculture-n-est-pas-une-carte-postale
    #Vallée_de_la_Roya #montagne #agriculture_de_montagne #paysannerie

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  • Barbares et civilisés, par Alain Gresh (Le Monde diplomatique, novembre 2023)
    https://www.monde-diplomatique.fr/2023/11/GRESH/66250

    (...) Et pourtant… Nous sommes le 4 septembre 1997, rue Ben-Yéhouda, en plein centre de Jérusalem. Trois kamikazes du Hamas se font exploser, tuant cinq personnes, dont une jeune fille de 14 ans prénommée Smadar, sortie de chez elle pour acheter un livre. Elle porte un nom prestigieux en Israël. Son grand-père, le général Mattityahou Peler, a été l’un des artisans de la victoire de juin 1967, avant de devenir une « colombe » et l’un des protagonistes de ce que l’on a appelé les « conversations de Paris », premières rencontres secrètes entre des responsables de l’Organisation de libération de la Palestine (OLP) et des Israéliens « sionistes ». En cette année 1997, M. Benyamin Netanyahou était déjà premier ministre et avait promis de détruire l’accord d’Oslo signé en 1993, ce qu’il réussira à faire. Il connaît aussi la mère de Smadar, Nourit, une camarade d’école et une amie de jeunesse. Quand il l’appelle pour lui présenter ses condoléances, elle lui rétorque : « Bibi qu’as-tu fait ? », le tenant pour responsable de la mort de sa fille (1). (...)

  • EU to step up support for human rights abuses in North Africa

    In a letter (https://www.statewatch.org/media/4088/eu-com-migration-letter-eur-council-10-23.pdf) to the European Council trumpeting the EU’s efforts to control migration, European Commission president Ursula von der Leyen highlighted the provision of vessels and support to coast guards in Libya and Tunisia, where refugee and migrant rights are routinely violated.

    The letter (pdf) states:

    “…we need to build up the capacity of our partners to conduct effective border surveillance and search and rescue operations. We are providing support to many key partners with equipment and training to help prevent unauthorised border crossings. All five vessels promised to Libya have been delivered and we see the impact of increased patrols. Under the Memorandum of Understanding with Tunisia, we have delivered spare parts for Tunisian coast guards that are keeping 6 boats operational, and others will be repaired by the end of the year. More is expected to be delivered to countries in North Africa in the coming months.”

    What it does not mention is that vessels delivered to the so-called Libyan coast guard are used to conduct “pullbacks” of refugees to brutal detention conditions and human rights violations.

    Meanwhile in Tunisia, the coast guard has been conducting pullbacks of people who have subsequently been dumped in remote regions near the Tunisian-Algerian border.

    According to testimony provided to Human Rights Watch (HRW)¸ a group of people who were intercepted at sea and brought back to shore were then detained by the National Guard, who:

    “…loaded the group onto buses and drove them for 6 hours to somewhere near the city of Le Kef, about 40 kilometers from the Algerian border. There, officers divided them into groups of about 10, loaded them onto pickup trucks, and drove toward a mountainous area. The four interviewees, who were on the same truck, said that another truck with armed agents escorted their truck.

    The officers dropped their group in the mountains near the Tunisia-Algeria border, they said. The Guinean boy [interviewed by HRW) said that one officer had threatened, “If you return again [to Tunisia], we will kill you.” One of the Senegalese children [interviewed by HRW] said an officer had pointed his gun at the group.”

    Von der Leyen does not mention the fact that the Tunisian authorities refused an initial disbursement of €67 million offered by the Commission as part of its more than €1 billion package for Tunisia, which the country’s president has called “small” and said it “lacks respect.” (https://apnews.com/article/tunisia-europe-migration-851cf35271d2c52aea067287066ef247) The EU’s ambassador to Tunisia has said that the refusal “speaks to Tunisia’s impatience and desire to speed up implementation” of the deal.

    [voir: https://seenthis.net/messages/1020596]

    The letter also emphasises the need to “establish a strategic and mutually beneficial partnership with Egypt,” as well as providing more support to Türkiye, Jordan and Lebanon. The letter hints at the reason why – Israel’s bombing of the Gaza strip and a potential exodus of refugees – but does not mention the issue directly, merely saying that “the pressures on partners in our immediate vicinity risk being exacerbated”.

    It appears that the consequences rather than the causes of any movements of Palestinian refugees are the main concern. Conclusions on the Middle East agreed by the European Council last night demand “rapid, safe and unhindered humanitarian access and aid to reach those in need” in Gaza, but do not call for a ceasefire. The European Council instead “strongly emphasises Israel’s right to defend itself in line with international law and international humanitarian law.”

    More surveillance, new law

    Other plans mentioned in the letter include “increased aerial surveillance” for “combatting human smuggling and trafficking” by Operation IRINI, the EU’s military mission in the Mediterranean, and increased support for strengthening controls at points of departure in North African states as well as “points of entry by migrants at land borders.”

    The Commission also wants increased action against migrant smuggling, with a proposal to revise the 2002 Facilitation Directive “to ensure that criminal offences are harmonised, assets are frozen, and coordination strengthened,” so that “those who engage in illegal acts exploiting migrants pay a heavy price.”

    It appears the proposal will come at the same time as a migrant smuggling conference organised by the Commission on 28 November “to create a Global Alliance with a Call to Action, launching a process of regular international exchange on this constantly evolving crime.”

    Deportation cooperation

    Plans are in the works for more coordinated action on deportations, with the Commission proposing to:

    “…work in teams with Member States on targeted return actions, with a lead Member State or Agency for each action. We will develop a roadmap that could focus on (1) ensuring that return decisions are issued at the same time as a negative asylum decisions (2) systematically ensuring the mutual recognition of return decisions and follow-up enforcement action; (3) carrying out joint identification actions including through a liaison officers’ network in countries of origin; (4) supporting policy dialogue on readmission with third countries and facilitating the issuance of travel documents, as well as acceptance of the EU laissez passer; and (5) organising assisted voluntary return and joint return operations with the support of Frontex.”

    Cooperation on legal migration, meanwhile, will be done by member states “on a voluntary basis,” with the letter noting that any offers made should be conditional on increased cooperation with EU deportation efforts: “local investment and opportunities for legal migration must go hand in hand with strengthened cooperation on readmission.”

    More funds

    For all this to happen, the letter calls on the European Council to make sure that “migration priorities - both on the internal and external dimension - are reflected in the mid-term review of the Multiannual Financial Framework,” the EU’s 2021-27 budget.

    Mid-term revision of the budget was discussed at the European Council meeting yesterday, though the conclusions on that point merely state that there was an “in-depth exchange of views,” with the European Council calling on the Council of the EU “to take work forward, with a view to reaching an overall agreement by the end of the year.”

    https://www.statewatch.org/news/2023/october/eu-to-step-up-support-for-human-rights-abuses-in-north-africa

    #migrations #asile #réfugiés #Afrique_du_Nord #externalisation #Ursula_von_der_Leyen #lettre #contrôles_frontaliers #Tunisie #Libye #bateaux #aide #gardes-côtes_libyens #surveillance_frontalière #surveillance_frontalière_effective #frontières #Méditerranée #mer_Méditerranée #Memorandum_of_Understanding #MoU #pull-backs #Egypte #Turquie #Jourdanie #Liban #réfugiés_palestiniens #Palestine #7_octobre_2023 #Operation_IRINI #IRINI #surveillance_aérienne #passeurs #directive_facilitation #renvois #déportation #officiers_de_liaison #réadmissions #laissez-passer #Frontex

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    • *Crise migratoire : le bilan mitigé des accords passés par l’Union européenne pour limiter les entrées sur son sol*

      Réunis en conseil jeudi et vendredi, les Vingt-Sept devaient faire le point sur la sécurisation des frontières extérieures de l’UE. Mardi, la présidente de la Commission, Ursula von der Leyen, a proposé de conclure de nouveaux partenariats « sur mesure » avec le #Sénégal, la #Mauritanie et l’Egypte.

      Malgré la guerre entre Israël et le Hamas, qui s’est imposée à leur ordre du jour, le sujet de la migration demeure au menu des Vingt-Sept, qui se réunissent en Conseil européen jeudi 26 et vendredi 27 octobre à Bruxelles. Les chefs d’Etat et de gouvernement doivent faire un point sur la dimension externe de cette migration et la sécurisation des frontières extérieures de l’Union européenne (UE). Depuis janvier, le nombre d’arrivées irrégulières, selon l’agence Frontex, a atteint 270 000, en progression de 17 % par rapport à 2022. Sur certaines routes, la croissance est bien plus importante, notamment entre la Tunisie et l’Italie, avec une augmentation de 83 % des arrivées sur les neuf premiers mois de 2023.

      Si le #pacte_asile_et_migration, un ensemble de réglementations censé améliorer la gestion intra européenne de la migration, est en passe d’être adopté, le contrôle des frontières externes de l’Europe est au cœur des discussions politiques. A moins de huit mois des élections européennes, « les questions de migration seront décisives », prévient Manfred Weber, le patron du groupe conservateur PPE au Parlement européen.

      Nouveaux « #partenariats sur mesure »

      Mardi, dans une lettre aux dirigeants européens, Ursula von der Leyen, la présidente de la Commission, a rappelé sa volonté de « combattre la migration irrégulière à la racine et travailler mieux avec des #pays_partenaires », c’est-à-dire ceux où les migrants s’embarquent ou prennent la route pour l’UE, en établissant avec ces pays des « #partenariats_stratégiques_mutuellement_bénéficiaires ». Elle propose de conclure avec le Sénégal, la Mauritanie et l’Egypte de nouveaux « #partenariats_sur_mesure » sur le modèle de celui qui a été passé avec la Tunisie. Sans oublier la Jordanie et le Liban, fortement déstabilisés par le conflit en cours entre Israël et Gaza.

      L’UE souhaite que ces pays bloquent l’arrivée de migrants vers ses côtes et réadmettent leurs citoyens en situation irrégulière sur le Vieux Continent contre des investissements pour renforcer leurs infrastructures et développer leur économie. « L’idée n’est pas nécessairement mauvaise, glisse un diplomate européen, mais il faut voir comment c’est mené et négocié. Le partenariat avec la Tunisie a été bâclé et cela a été fiasco. »

      Depuis vingt ans, l’Europe n’a eu de cesse d’intégrer cette dimension migratoire dans ses accords avec les pays tiers et cette préoccupation s’est accentuée en 2015 avec l’arrivée massive de réfugiés syriens. Les moyens consacrés à cet aspect migratoire ont augmenté de façon exponentielle. Au moins 8 milliards d’euros sont programmés pour la période 2021-2027, soit environ 10 % des fonds de la coopération, pour des politiques de sécurisation et d’équipements des gardes-côtes. Ces moyens manquent au développement des pays aidés, critique l’ONG Oxfam. Et la Commission a demandé une rallonge de 15 milliards d’euros aux Vingt-Sept.

      Mettre l’accent sur les retours

      Tant de moyens, pour quels résultats ? Il est impossible de chiffrer le nombre d’entrées évitées par les accords passés, exception faite de l’arrangement avec la Turquie. Après la signature le 18 mars 2016, par les Vingt-Sept et la Commission, de la déclaration UE-Turquie, les arrivées de Syriens ont chuté de 98 % dès 2017, mais cela n’a pas fonctionné pour les retours, la Turquie ayant refusé de réadmettre la majorité des Syriens refoulés d’Europe. Cet engagement a coûté 6 milliards d’euros, financés à la fois par les Etats et l’UE.

      « Pour les autres accords, le bilan est modeste, indique Florian Trauner, spécialiste des migrations à la Vrije Universiteit Brussel (Belgique). Nous avons étudié l’ensemble des accords passés par l’UE avec les pays tiers sur la période 2008-2018 pour mesurer leurs effets sur les retours et réadmissions. Si les pays des Balkans, plus proches de l’Europe, ont joué le jeu, avec les pays africains, cela ne fonctionne pas. »

      Depuis le début de l’année, la Commission assure malgré tout mettre l’accent sur les retours. Selon Ylva Johansson, la commissaire chargée de la politique migratoire, sur près de 300 000 obligations de quitter le territoire européen, environ 65 000 ont été exécutées, en progression de 22 % en 2023. Ces chiffres modestes « sont liés à des questions de procédures internes en Europe, mais également à nos relations avec les Etats tiers. Nous avons fait beaucoup de pédagogie avec ces Etats en mettant en balance l’accès aux visas européens et cela commence à porter ses fruits. »

      « Généralement, explique Florian Trauner, les Etats tiers acceptent les premiers temps les retours, puis la pression de l’opinion publique locale se retourne contre eux et les taux de réadmissions baissent. Les accords qui conditionnent l’aide au développement à des réadmissions créent davantage de problèmes qu’ils n’en résolvent. La diplomatie des petits pas, plus discrète, est bien plus efficace. »

      L’alternative, juge le chercheur, serait une meilleure gestion par les Européens des migrations, en ménageant des voies légales identifiées pour le travail, par exemple. Dans ce cas, affirme-t-il, les pays concernés accepteraient de reprendre plus simplement leurs citoyens. « Mais en Europe, on ne veut pas entendre cela », observe M. Trauner.
      Statut juridique obscur

      Le développement de ces accords donnant-donnant pose un autre problème à l’UE : leur statut juridique. « Quel que soit leur nom – partenariat, déclaration…–, ce ne sont pas des accords internationaux en bonne et due forme, négociés de manière transparente avec consultation de la société civile, sous le contrôle du Parlement européen puis des tribunaux, rappelle Eleonora Frasca, juriste à l’Université catholique de Louvain (Belgique). Ce sont des objets juridiques plus obscurs. »

      En outre, les arrangements avec la Turquie ou la Libye ont conduit des migrants à des situations dramatiques. Qu’il s’agisse des camps aux conditions déplorables des îles grecques où étaient parqués des milliers de Syriens refoulés d’Europe mais non repris en Turquie, ou des refoulements en mer, souvent avec des moyens européens, au large de la Grèce et de la Libye, ou enfin du sort des migrants renvoyés en Libye où de multiples abus et de crimes ont été documentés.

      Concernant la Tunisie, « l’Union européenne a signé l’accord sans inclure de clause de respect de l’Etat de droit ou des droits de l’homme au moment même où cette dernière chassait des migrants subsahariens vers les frontières libyenne et algérienne, relève Sara Prestianni, de l’ONG EuroMed Droit. Du coup, aucune condamnation n’a été formulée par l’UE contre ces abus. » L’Europe a été réduite au silence.

      Sous la pression d’Ursula von der Leyen, de Giorgia Melloni, la présidente du conseil italien, et de Mark Rutte, le premier ministre néerlandais, ce partenariat global doté d’un milliard d’euros « a été négocié au forceps et sans consultation », juge une source européenne. La conséquence a été une condamnation en Europe et une incompréhension de la part des Tunisiens, qui ont décidé de renvoyer 60 millions d’euros versés en septembre, estimant que c’était loin du milliard annoncé. « Aujourd’hui, le dialogue avec la Tunisie est exécrable, déplore un diplomate. La méthode n’a pas été la bonne », déplore la même source.
      Exposition à un chantage aux migrants

      « L’Union européenne a déjà été confrontée à ce risque réputationnel et semble disposée à l’accepter dans une certaine mesure, nuance Helena Hahn, de l’European Policy Center. Il est important qu’elle s’engage avec les pays tiers sur cette question des migrations. Toutefois, elle doit veiller à ce que ses objectifs ne l’emportent pas sur ses intérêts dans d’autres domaines, tels que la politique commerciale ou le développement. »

      Dernier risque pour l’UE : en multipliant ces accords avec des régimes autoritaires, elle s’expose à un chantage aux migrants. Depuis 2020, elle en a déjà été l’objet de la part de la Turquie et du Maroc, de loin le premier bénéficiaire d’aides financières au titre du contrôle des migrations. « Ce n’est pas juste le beau temps qui a exposé Lampedusa à l’arrivée de 12 000 migrants en quelques jours en juin, juge Mme Prestianni. Les autorités tunisiennes étaient derrière. La solution est de rester fermes sur nos valeurs. Et dans notre négociation avec la Tunisie, nous ne l’avons pas été. »

      https://www.lemonde.fr/international/article/2023/10/26/crise-migratoire-le-bilan-mitige-des-accords-passes-par-l-union-europeenne-p

    • EU planning new anti-migration deals with Egypt and Tunisia, unrepentant in support for Libya

      The European Commission wants to agree “new anti-smuggling operational partnerships” with Tunisia and Egypt before the end of the year, despite longstanding reports of abuse against migrants and refugees in Egypt and recent racist violence endorsed by the Tunisian state. Material and financial support is already being stepped up to the two North African countries, along with support for Libya.

      The plan for new “partnerships” is referred to in a newly-revealed annex (pdf) of a letter from European Commission president, Ursula von der Leyen, that was sent to the European Council prior to its meeting in October and published by Statewatch.

      In April, the Commission announced “willingness” from the EU and Tunisia “to establish a stronger operational partnership on anti-smuggling,” which would cover stronger border controls, more police and judicial cooperation, increased cooperation with EU agencies, and anti-migration advertising campaigns.

      The annex includes little further detail on the issue, but says that the agreements with Tunisia and Egypt should build on the anti-smuggling partnerships “in place with Morocco, Niger and the Western Balkans, with the support of Europol and Eurojust,” and that they should include “joint operational teams with prosecutors and law enforcement authorities of Member States and partners.”

      Abuse and impunity

      Last year, Human Rights Watch investigations found that “Egyptian authorities have failed to protect vulnerable refugees and asylum seekers from pervasive sexual violence, including by failing to investigate rape and sexual assault,” and that the police had subjected Sudanese refugee activists to “forced physical labor [sic] and beatings.” Eritrean asylum-seekers have also been detained and deported by the Egyptian authorities.

      The EU’s own report on human rights in Egypt in 2022 (pdf) says the authorities continue to impose “constraints” on “freedom of expression, peaceful assembly and media freedom,” while “concerns remained about broad application of the Terrorism Law against peaceful critics and individuals, and extensive and indiscriminate use of pre-trial detention.”

      Amr Magdi, Human Rights Watch’s Senior Researcher on the Middle East and North Africa, has said more bluntly that “there can be no light at the end of the tunnel without addressing rampant security force abuses and lawlessness.” The Cairo Institute for Human Rights said in August that the country’s “security apparatus continues to surveil and repress Egyptians with impunity. There is little to no access to participatory democracy.”

      The situation in Tunisia for migrants and refugees has worsened substantially since the beginning of the year, when president Kais Said declared a crackdown against sub-Saharan Africans in speeches that appeared to draw heavily from the far-right great replacement theory.

      It is unclear whether the EU will attempt to address this violence, abuse and discrimination as it seeks to strengthen the powers of the countries’ security authorities. The annex to von der Leyen’s letter indicates that cooperation with Tunisia is already underway, even if an anti-smuggling deal has not been finalised:

      “Three mentorship pairs on migrant smuggling TU [Tunisia] with Member States (AT, ES, IT [Austria, Spain and Italy]) to start cooperation in the framework of Euromed Police, in the last quarter of 2023 (implemented by CEPOL [the European Police College] with Europol)”

      Anti-smuggling conference

      The annex to von der Leyen’s letter indicates that the Egyptian foreign minister, Sameh Shoukry, “confirmed interest in a comprehensive partnership on migration, including anti-smuggling and promoting legal pathways,” at a meeting with European Commissioner for Migration and Home Affairs, Ylva Johansson, at the UN General Assembly.

      This month the fourth EU-Egypt High Level Dialogue on Migration and the second Senior Officials Meeting on Security and Law Enforcement would be used to discuss the partnership, the annex notes – “including on the involvement of CEPOL, Europol and Frontex” – but it is unclear when exactly the Commission plans to sign the new agreements. An “International Conference on strengthening international cooperation on countering migrant smuggling” that will take place in Brussels on 28 November would provide an opportune moment to do so.

      The conference will be used to announce a proposal “to reinforce the EU legal framework on migrant smuggling, including elements related to: sanctions, governance, information flows and the role of JHA agencies,” said a Council document published by Statewatch in October.

      Other sources indicate that the proposal will include amendments to the EU’s Facilitation Directive and the Europol Regulation, with measures to boost the role of the European Migrant Smuggling Centre hosted at Europol; step up the exchange of information between member states, EU agencies and third countries; and step up Europol’s support to operations.

      Additional support

      The proposed “partnerships” with Egypt and Tunisia come on top of ongoing support provided by the EU to control migration.

      In July the EU signed a memorandum of understanding with Tunisia covering “macro-economic stability, economy and trade, green energy, people-to-people contacts and migration and mobility.”

      Despite the Tunisian government returning €67 million provided by the EU, the number of refugee boat departures from Tunisia has decreased significantly, following an increase in patrols at sea and the increased destruction of intercepted vessels.

      Violent coercion is also playing a role, as noted by Matthias Monroy:

      “State repression, especially in the port city of Sfax, has also contributed to the decline in numbers, where the authorities have expelled thousands of people from sub-Saharan countries from the centre and driven them by bus to the Libyan and Algerian borders. There, officials force them to cross the border. These measures have also led to more refugees in Tunisia seeking EU-funded IOM programmes for “voluntary return” to their countries of origin.”

      The annex to von der Leyen’s letter notes that the EU has provided “fuel to support anti-smuggling operations,” and that Tunisian officials were shown around Frontex’s headquarters in mid-September for a “familiarisation visit”.

      Egypt, meanwhile, is expected to receive the first of three new patrol boats from the EU in December, €87 million as part of the second phase of a border management project will be disbursed “in the coming months,” and Frontex will pursue a working arrangement with the Egyptian authorities, who visited the agency’s HQ in Warsaw in October.

      Ongoing support to Libya

      Meanwhile, the EU’s support for migration control by actors in Libya continues, despite a UN investigation earlier this year accusing that support of contributing to crimes against humanity in the country.

      The annex to von der Leyen’s letter notes with approval that five search and rescue vessels have been provided to the Libyan Coast Guard this year, and that by 21 September, “more than 10,900 individuals reported as rescued or intercepted by the Libyan authorities in more than 100 operations… Of those disembarked, the largest groups were from Bangladesh, Egypt and Syria”.

      The letter does not clarify what distinguishes “rescue” and “interception” in this context. The organisation Forensic Oceanography has previously described them as “conflicting imperatives” in an analysis of a disaster at sea in which some survivors were taken to Libya, and some to EU territory.

      In a letter (pdf) sent last week to the chairs of three European Parliament committees, three Commissioners – Margaritas Schinas, Ylva Johansson and Oliver Várhelyi – said the Commission remained “convinced that halting EU assistance in the country or disengagement would not improve the situation of those most in need.”

      While evidence that EU support provided to Libya has facilitated the commission of crimes against humanity is not enough to put that policy to a halt, it remains to be seen whether the Egyptian authorities’ violent repression, or state racism in Tunisia, will be deemed worthy of mention in public by Commission officials.

      The annex to von der Leyen’s letter also details EU action in a host of other areas, including the “pilot projects” launched in Bulgaria and Romania to step up border surveillance and speed up asylum proceedings and returns, support for the Moroccan authorities, and cooperation with Western Balkans states, amongst other things.

      https://www.statewatch.org/news/2023/november/eu-planning-new-anti-migration-deals-with-egypt-and-tunisia-unrepentant-

      en italien:
      Statewatch. Mentre continua il sostegno alla Libia, l’UE sta pianificando nuovi accordi anti-migrazione con Egitto e Tunisia
      https://www.meltingpot.org/2023/11/statewatch-mentre-continua-il-sostegno-alla-libia-lue-sta-pianificando-n

    • Accord migratoire avec l’Égypte. Des #navires français en eaux troubles

      Les entreprises françaises #Civipol, #Défense_Conseil_International et #Couach vont fournir à la marine du Caire trois navires de recherche et sauvetage dont elles formeront également les équipages, révèle Orient XXI dans une enquête exclusive. Cette livraison, dans le cadre d’un accord migratoire avec l’Égypte, risque de rendre l’Union européenne complice d’exactions perpétrées par les gardes-côtes égyptiens et libyens.

      La France est chaque année un peu plus en première ligne de l’externalisation des frontières de l’Europe. Selon nos informations, Civipol, l’opérateur de coopération internationale du ministère de l’intérieur, ainsi que son sous-traitant Défense Conseil International (DCI), prestataire attitré du ministère des armées pour la formation des militaires étrangers, ont sélectionné le chantier naval girondin Couach pour fournir trois navires de recherche et sauvetage (SAR) aux gardes-côtes égyptiens, dont la formation sera assurée par DCI sur des financements européens de 23 millions d’euros comprenant des outils civils de surveillance des frontières.

      Toujours selon nos sources, d’autres appels d’offres de Civipol et DCI destinés à la surveillance migratoire en Égypte devraient suivre, notamment pour la fourniture de caméras thermiques et de systèmes de positionnement satellite.

      Ces contrats sont directement liés à l’accord migratoire passé en octobre 2022 entre l’Union européenne (UE) et l’Égypte : en échange d’une assistance matérielle de 110 millions d’euros au total, Le Caire est chargé de bloquer, sur son territoire ainsi que dans ses eaux territoriales, le passage des migrants et réfugiés en partance pour l’Europe. Ce projet a pour architecte le commissaire européen à l’élargissement et à la politique de voisinage, Olivér Várhelyi. Diplomate affilié au parti Fidesz de l’illibéral premier ministre hongrois Viktor Orbán, il s’est récemment fait remarquer en annonçant unilatéralement la suspension de l’aide européenne à la Palestine au lendemain du 7 octobre — avant d’être recadré.

      La mise en œuvre de ce pacte a été conjointement confiée à Civipol et à l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) de l’ONU, comme déjà indiqué par le média Africa Intelligence. Depuis, la présidente de la Commission européenne Ursula von der Leyen a déjà plaidé pour un nouvel accord migratoire avec le régime du maréchal Sissi. Selon l’UE, il s’agirait d’aider les gardes-côtes égyptiens à venir en aide aux migrants naufragés, via une approche « basée sur les droits, orientée vers la protection et sensible au genre ».
      Circulez, il n’y a rien à voir

      Des éléments de langage qui ne convainquent guère l’ONG Refugees Platform in Egypt (REP), qui a alerté sur cet accord il y a un an. « Depuis 2016, le gouvernement égyptien a durci la répression des migrants et des personnes qui leur viennent en aide, dénonce-t-elle auprès d’Orient XXI. De plus en plus d’Égyptiens émigrent en Europe parce que la jeunesse n’a aucun avenir ici. Ce phénomène va justement être accentué par le soutien de l’UE au gouvernement égyptien. L’immigration est instrumentalisée par les dictatures de la région comme un levier pour obtenir un appui politique et financier de l’Europe. »

      En Égypte, des migrants sont arrêtés et brutalisés après avoir manifesté. Des femmes réfugiées sont agressées sexuellement dans l’impunité. Des demandeurs d’asile sont expulsés vers des pays dangereux comme l’Érythrée ou empêchés d’entrer sur le territoire égyptien. Par ailleurs, les gardes-côtes égyptiens collaborent avec leurs homologues libyens qui, également soutenus par l’UE, rejettent des migrants en mer ou les arrêtent pour les placer en détention dans des conditions inhumaines, et entretiennent des liens avec des milices qui jouent aussi le rôle de passeurs.

      Autant d’informations peu compatibles avec la promesse européenne d’un contrôle des frontières « basé sur les droits, orienté vers la protection et sensible au genre ». Sachant que l’agence européenne de gardes-frontières et de gardes-côtes Frontex s’est elle-même rendue coupable de refoulements illégaux de migrants (pushbacks) et a été accusée de tolérer de mauvais traitements sur ces derniers.

      Contactés à ce sujet, les ministères français de l’intérieur, des affaires étrangères et des armées, l’OIM, Civipol, DCI et Couach n’ont pas répondu à nos questions. Dans le cadre de cette enquête, Orient XXI a aussi effectué le 1er juin une demande de droit à l’information auprès de la Direction générale du voisinage et des négociations d’élargissement (DG NEAR) de la Commission européenne, afin d’accéder aux différents documents liés à l’accord migratoire passé entre l’UE et l’Égypte. Celle-ci a identifié douze documents susceptibles de nous intéresser, mais a décidé de nous refuser l’accès à onze d’entre eux, le douzième ne comprenant aucune information intéressante. La DG NEAR a invoqué une série de motifs allant du cohérent (caractère confidentiel des informations touchant à la politique de sécurité et la politique étrangère de l’UE) au plus surprenant (protection des données personnelles — alors qu’il aurait suffi de masquer lesdites données —, et même secret des affaires). Un premier recours interne a été déposé le 18 juillet, mais en l’absence de réponse de la DG NEAR dans les délais impartis, Orient XXI a saisi fin septembre la Médiatrice européenne, qui a demandé à la Commission de nous répondre avant le 13 octobre. Sans succès.

      Dans un courrier parvenu le 15 novembre, un porte-parole de la DG NEAR indique :

      "L’Égypte reste un partenaire fiable et prévisible pour l’Europe, et la migration constitue un domaine clé de coopération. Le projet ne cible pas seulement le matériel, mais également la formation pour améliorer les connaissances et les compétences [des gardes-côtes et gardes-frontières égyptiens] en matière de gestion humanitaire des frontières (…) Le plein respect des droits de l’homme sera un élément essentiel et intégré de cette action [grâce] à un contrôle rigoureux et régulier de l’utilisation des équipements."

      Paris-Le Caire, une relation particulière

      Cette livraison de navires s’inscrit dans une longue histoire de coopération sécuritaire entre la France et la dictature militaire égyptienne, arrivée au pouvoir après le coup d’État du 3 juillet 2013 et au lendemain du massacre de centaines de partisans du président renversé Mohamed Morsi. Paris a depuis multiplié les ventes d’armes et de logiciels d’espionnage à destination du régime du maréchal Sissi, caractérisé par la mainmise des militaires sur la vie politique et économique du pays et d’effroyables atteintes aux droits humains.

      La mise sous surveillance, la perquisition par la Direction générale de la sécurité intérieure (DGSI) et le placement en garde à vue de la journaliste indépendante Ariane Lavrilleux fin septembre étaient notamment liés à ses révélations dans le média Disclose sur Sirli, une opération secrète associant les renseignements militaires français et égyptien, dont la finalité antiterroriste a été détournée par Le Caire vers la répression intérieure. Une enquête pour « compromission du secret de la défense nationale » avait ensuite été ouverte en raison de la publication de documents (faiblement) classifiés par Disclose.

      La mise en œuvre de l’accord migratoire UE-Égypte a donc été indirectement confiée à la France via Civipol. Société dirigée par le préfet Yann Jounot, codétenue par l’État français et des acteurs privés de la sécurité — l’électronicien de défense Thales, le spécialiste de l’identité numérique Idemia, Airbus Defence & Space —, Civipol met en œuvre des projets de coopération internationale visant à renforcer les capacités d’États étrangers en matière de sécurité, notamment en Afrique. Ceux-ci peuvent être portés par la France, notamment via la Direction de la coopération internationale de sécurité (DCIS) du ministère de l’intérieur. Mais l’entreprise travaille aussi pour l’UE.

      Civipol a appelé en renfort DCI, société pilotée par un ancien chef adjoint de cabinet de Nicolas Sarkozy passé dans le privé, le gendarme Samuel Fringant. DCI était jusqu’à récemment contrôlée par l’État, aux côtés de l’ancien office d’armement Eurotradia soupçonné de corruption et du vendeur de matériel militaire français reconditionné Sofema. Mais l’entreprise devrait prochainement passer aux mains du groupe français d’intelligence économique ADIT de Philippe Caduc, dont l’actionnaire principal est le fonds Sagard de la famille canadienne Desmarais, au capital duquel figure désormais le fonds souverain émirati.

      DCI assure principalement la formation des armées étrangères à l’utilisation des équipements militaires vendus par la France, surtout au Proche-Orient et notamment en Égypte. Mais à l’image de Civipol, l’entreprise collabore de plus en plus avec l’UE, notamment via la mal nommée « Facilité européenne pour la paix » (FEP).
      Pacte (migratoire) avec le diable

      Plus largement, ce partenariat avec l’Égypte s’inscrit dans une tendance généralisée d’externalisation du contrôle des frontières de l’Europe, qui voit l’UE passer des accords avec les pays situés le long des routes migratoires afin que ceux-ci bloquent les départs de migrants et réfugiés, et que ces derniers déposent leurs demandes d’asile depuis l’Afrique, avant d’arriver sur le territoire européen. Après la Libye, pionnière en la matière, l’UE a notamment signé des partenariats avec l’Égypte, la Tunisie — dont le président Kaïs Saïed a récemment encouragé des émeutes racistes —, le Maroc, et en tout 26 pays africains, selon une enquête du journaliste Andrei Popoviciu pour le magazine américain In These Times.

      Via ces accords, l’UE n’hésite pas à apporter une assistance financière, humaine et matérielle à des acteurs peu soucieux du respect des droits fondamentaux, de la bonne gestion financière et parfois eux-mêmes impliqués dans le trafic d’êtres humains. L’UE peine par ailleurs à tracer l’utilisation de ces centaines de millions d’euros et à évaluer l’efficacité de ces politiques, qui se sont déjà retournées contre elles sous la forme de chantage migratoire, par exemple en Turquie.

      D’autres approches existent pourtant. Mais face à des opinions publiques de plus en plus hostiles à l’immigration, sur fond de banalisation des idées d’extrême droite en politique et dans les médias, les 27 pays membres et les institutions européennes apparaissent enfermés dans une spirale répressive.

      https://orientxxi.info/magazine/accord-migratoire-avec-l-egypte-des-navires-francais-en-eaux-troubles,68

  • Ecriture inclusive : ce qu’en dit la #science

    Loin de se résumer à l’usage du #point_médian, l’usage de l’écriture inclusive a effectivement un impact sur les #représentations_mentales du lecteur, concluent de récents travaux français. Plus important encore, cet #impact varie en fonction du type d’écriture inclusive utilisée.

    « Péril mortel » de la langue française pour l’#Académie_Française ou « outil essentiel » d’après l’investigation Elles Font La Culture (https://ellesfontla.culture.gouv.fr/conseils_articles/42__;!!Orpbtkc!7gg4iKTPdMkm6FWuHya6vu_vrzDkrr_63AXwMlNYHRXM) portée par le ministère de la Culture, l’écriture inclusive divise. « Notre objectif est de remettre un peu de science dans ce débat qui évolue parfois en #polémique incontrôlée », pointe le psycholinguiste au CNRS Léo Varnet. Loin de se résumer à l’usage du point médian, l’usage de l’écriture inclusive a effectivement un impact sur les représentations mentales du lecteur, concluent de récents travaux français publiés dans la revue Frontiers in Psychology (https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fpsyg.2023.1256779/full#h3). Plus important encore, cet impact varie en fonction du type d’écriture inclusive utilisée.

    (#paywall)

    https://www.sciencesetavenir.fr/sante/cerveau-et-psy/ecriture-inclusive-ce-qu-en-dit-la-science_174628
    #écriture_inclusive

  • #Chartreuse : un #marquis privatise la #montagne, les randonneurs s’insurgent

    Des centaines de personnes ont manifesté dans le massif de la Chartreuse contre un marquis qui interdit de traverser ses terres. Elles réclament un véritable #droit_d’accès à la nature.

    « Entends nos voix, #marquis_de_Quinsonas… » Malgré la fraîcheur de cette matinée de dimanche, ils étaient plusieurs centaines, jeunes et vieux, à être venus pousser la chansonnette au #col_de_Marcieu (#Isère), aux pieds des falaises du massif de la Chartreuse. L’objet de leur chanson et de leur colère ? #Bruno_de_Quinsonas-Oudinot, marquis et propriétaire d’une zone de 750 hectares au cœur de la #Réserve_naturelle_des_Hauts_de_Chartreuse, et sa décision, il y a quelques semaines, d’en fermer l’accès aux randonneurs.

    C’est fort d’une loi du 2 février 2023, qui sanctionne le fait de pénétrer sans autorisation dans une « propriété privée rurale et forestière » [1] que le marquis a fait poser pendant l’été des panneaux « #Propriété_privée » aux abords de son terrain. Et si ces panneaux changent la donne, c’est parce qu’ils sont désormais suffisants pour verbaliser le randonneur qui voudrait entrer ici, chamboulant ainsi des siècles de culture de partage des montagnes.

    Immédiatement après la découverte de ces panneaux, une #pétition rédigée par le #collectif_Chartreuse a été publiée en ligne, réclamant « la liberté d’accès à tout-e-s à la Réserve naturelle des Hauts de Chartreuse » et récoltant plus de 35 000 signatures en quelques semaines (https://www.change.org/p/pour-la-libert%C3%A9-d-acc%C3%A8s-%C3%A0-tout-e-s-%C3%A0-la-r%C3%A9serve-nat). Ciblant le « cas » de la Chartreuse, elle s’oppose « plus globalement à l’accaparement du milieu naturel par quelques personnes pour des objectifs financiers, au détriment du reste de la population », souligne le collectif.

    Car c’est aussi ce qui cristallise la grogne des manifestants en Chartreuse. Tout en fermant l’#accès de son terrain aux #randonneurs et autres usagers de la montagne, le marquis de Quinsonas y autorise des parties de #chasse_privée au chamois, autorisées par le règlement de la #réserve_naturelle, que paient de fortunés clients étrangers.

    « C’est complètement hypocrite »

    « C’est complètement hypocrite », disent Stan et Chloé, deux grenoblois âgés d’une trentaine d’années, alors que le marquis avait justifié sa décision par la nécessité de protéger la faune et la flore de son terrain des dommages causés par le passage des randonneurs.

    « On n’a rien contre les chasseurs, et les #conflits_d’usage ont toujours existé. Mais on dénonce le fait qu’il y a deux poids, deux mesures », explique Adrien Vassard, président du comité Isère de la Fédération française des clubs alpins et de montagne (FFCAM), venu « déguisé » en marquis pour mieux moquer le propriétaire des lieux.

    Beaucoup de manifestants craignent que l’initiative du marquis ne fasse des émules parmi les propriétaires privés d’espaces naturels, alors que 75 % de la forêt française est privée. « On n’est pas là pour remettre en cause la propriété privée, mais un propriétaire ne peut s’octroyer le droit d’accès à toute une montagne, il faut laisser un #droit_de_circulation », martèle Denis Simonin, habitant du massif et bénévole du collectif Chartreuse.

    Propriété privée contre liberté d’accéder à la nature, faudra-t-il choisir ? Les députés Les Écologistes de l’Isère Jérémie Iordanoff et de la Vienne Lisa Belluco ont en tout cas annoncé leur volonté de déposer un projet de loi pour abroger la contravention instaurée par la loi de février 2023, pour ensuite engager « un travail commun vers un vrai droit d’accès à la nature ». Rejoignant les revendications des manifestants, toujours en chanson : « Sache que les gueux ne s’arrêt’ront pas là, notre droit d’accès, oui on l’obtiendra ! »

    https://reporterre.net/Chartreuse-un-marquis-privatise-la-montagne-les-randonneurs-protestent
    #privatisation #résistance

    • Dans le massif de la Chartreuse, #mobilisation contre la « privatisation » de la montagne

      Fort d’une nouvelle législation, le propriétaire d’une zone de 750 hectares dans une réserve naturelle de la Chartreuse a décidé d’en restreindre l’accès aux randonneurs. Partisans d’un libre accès à la nature et défenseurs de la propriété privée s’affrontent.

      « Chemin privé – Passage interdit. » Tous les 500 mètres, le rouge vif des petits panneaux tranche sur le vert des arbres ou le gris de la roche. Les indications parsèment le chemin qui mène jusqu’à la tour Percée, une immense arche rocheuse émergeant à environ 1 800 mètres d’altitude, au cœur de la réserve naturelle des Hauts de Chartreuse, à quelques kilomètres de Grenoble (Isère). Ces panneaux, tout récemment posés, cristallisent depuis quelques semaines un conflit entre les différents usagers de la montagne… et ses propriétaires.

      (#paywall)
      https://www.lemonde.fr/planete/article/2023/10/15/dans-le-massif-de-la-chartreuse-mobilisation-contre-la-privatisation-de-la-m

    • .... « Chemin privé – Passage interdit. » Tous les 500 mètres, le rouge vif des petits panneaux tranche sur le vert des arbres ou le gris de la roche. Les indications parsèment le chemin qui mène jusqu’à la tour Percée, une immense arche rocheuse émergeant à environ 1 800 mètres d’altitude, au cœur de la réserve naturelle des Hauts de Chartreuse, à quelques kilomètres de Grenoble (Isère).
      ... Théoriquement, un randonneur qui se rendrait à la tour Percée pourrait donc désormais recevoir une amende allant jusqu’à 750 euros.
      ... le conflit en Chartreuse est devenu « le cas d’école d’une situation qui va se développer sur tout le territoire ». « L’intention affichée du texte, de limiter l’engrillagement pour permettre la circulation de la faune sauvage, était bonne », souligne Jérémie Iordanoff. Mais, quand 75 % de la forêt est privée, ce n’est pas acceptable de dire aux gens qu’ils ne peuvent se promener que sur 25 % du territoire. »
      ... Dans les faits, l’application de la loi du 2 février et de la contravention qu’elle instaure s’avère complexe. Selon les textes, seuls les gendarmes et les gardes privés, agréés par la préfecture puis assermentés par le tribunal judiciaire, peuvent verbaliser les randonneurs au titre de la violation de la propriété privée rurale et forestière. Un sujet qui a pu faire naître des tensions autour de la tour Percée, des chasseurs ayant reçu la mission – informelle – de surveiller la propriété. Selon les informations du Monde, à l’heure actuelle, aucun garde privé n’a été dûment habilité pour contrôler le terrain du marquis.

      La tour Percée est une double arche de 30 mètres de haut, située sur la parcelle du marquis de Quinsonas-Oudinot, à 1 800 mètres d’altitude. Le 8 octobre 2023. SOPHIE RODRIGUEZ POUR « LE MONDE »

      avec une série de photos

      https://archive.ph/yCAI1

      #forêts #propriété_foncière

  • Des policiers falsifient des documents pour expulser des ados #sans-papiers

    Le ministère de l’Intérieur affirme qu’Ibrahim a 22 ans. Il en a pourtant six de moins. Pour pouvoir expulser des étrangers, des policiers font grandir des mineurs non accompagnés d’un simple coup de crayon. Une pratique illégale.

    (#paywall)

    https://www.streetpress.com/sujet/1698051854-policiers-falsifient-documents-expulser-adolescents-sans-pap
    #falsification #âge #expulsion #France #asile #migrations #réfugiés #adolescents #jeunes #majeurs #mineurs #faux_en_écriture_publique

    ping @karine4 @isskein

    signalé par @colporteur ici:
    https://seenthis.net/messages/1022663

  • Les bancs publics, une particularité du #paysage suisse

    À l’orée des forêts, au bord des lacs, sur les flancs des montagnes et dans les parcs municipaux… En Suisse, on trouve des bancs partout. Mais loin d’être un simple meuble dans le paysage, le banc est aussi un objet politique. À la croisée des chemins entre l’ordre et la détente dans l’#espace_public.

    Personne n’aurait sans doute l’idée de se poster à un coin de rue pour observer les gens pendant des heures. Mais il paraît tout à fait naturel, en revanche, de s’asseoir sur un banc pour contempler les allées et venues. On peut même y engager le dialogue avec de parfaits étrangers, converser à sa guise et nouer des liens éphémères. C’est pourquoi les #personnes_âgées solitaires, en particulier, passent parfois des après-midi entiers assises sur le banc d’un arrêt d’autobus. « Les gens aiment s’asseoir dans les endroits animés », explique Sabina Ruff, responsable de l’espace public de la ville de Frauenfeld. Elle cite la place Bullinger, par exemple, ou la terrasse du Zollhaus à Zurich. « Il y a là des trains qui passent, des vélos, des piétons et des voitures. La place du Sechseläuten, aussi à Zurich, est aussi un bel exemple, car elle compte des chaises qui peuvent être installées selon les goûts de chacun. »

    Une #fonction_sociale

    Oui, le banc est un endroit social, confirme Renate Albrecher. La sociologue sait de quoi elle parle, car elle est assistante scientifique au Laboratoire de sociologie urbaine de l’EPFL et elle a fondé une association visant à promouvoir la « #culture banc’aire » helvétique. #Bankkultur cartographie les bancs du pays et révèle ses « secrets banc’aires », notamment avec l’aide d’une communauté d’enthousiastes qui téléchargent leurs photos sur la plate-forme. Renate Albrecher rappelle que les premiers bancs publics, en Suisse, étaient déjà placés aux croisées des chemins et près des gares, c’est-à-dire là où l’on voyait passer les gens. Plus tard, avec l’essor du tourisme étranger, des bancs ont fait leur apparition dans tous les endroits dotés d’une belle vue.

    L’un des tout premiers fut installé près des fameuses chutes du Giessbach (BE). Il permettait de contempler la « nature sauvage », célébrée par les peintres de l’époque. Des sentiers pédestres ayant été aménagés parallèlement à l’installation des bancs, « les touristes anglais n’avaient pas à salir leurs belles chaussures », note la sociologue. Aujourd’hui, il paraît naturel de trouver des bancs publics un peu partout dans le paysage suisse. Leur omniprésence jusque dans les coins les plus reculés des plus petites communes touristiques est également le fruit du travail des nombreuses sociétés d’embellissement, spécialisées depuis deux siècles dans l’installation des bancs.

    Un banc fonctionnel

    Dans les villes, par contre, les bancs sont quelquefois placés dans des endroits peu plaisants, dénués de vue ou à côté d’une route bruyante. Jenny Leuba, responsable de projets au sein de l’association Mobilité piétonne Suisse, éclaire notre lanterne. Ces bancs, dit-elle, peuvent être situés à mi-chemin entre un centre commercial et un arrêt de bus, ou le long d’un chemin pentu. « Ils permettent de reprendre son souffle et de se reposer et sont donc indispensables, surtout pour les seniors. »

    « Les gens aiment s’asseoir dans les endroits animés. » Sabina Ruff

    Jenny Leuba aborde ainsi une autre fonction du banc : la population doit pouvoir se déplacer à pied en ville. Pour que cela s’applique aussi aux personnes âgées, aux familles accompagnées d’enfants, aux malades, aux blessés, aux personnes handicapées et à leurs accompagnants, on a besoin d’un réseau de bancs qui relie les quartiers et permette de « refaire le plein » d’énergie. Pour Renate Albrecher, le banc est ainsi la station-service des #piétons.

    Un élément des #plans_de_mobilité

    Jenny Leuba, qui a élaboré des concepts d’installation de bancs publics pour plusieurs villes et communes suisses, a constaté une chose surprenante : bien qu’un banc coûte jusqu’à 5000 francs, les autorités ne savent pas combien leur ville en possède. Elle pense que cela est dû au morcellement des responsabilités concernant les places, les parcs et les rues. « Il n’existe pas d’office de l’espace public, et on manque donc d’une vue d’ensemble. » D’après Renate Albrecher, c’est aussi la raison pour laquelle les bancs publics sont oubliés dans les plans de mobilité. « Il n’existe pas de lobby du banc », regrette-t-elle. Les trois spécialistes sont d’accord pour dire qu’en matière de bancs publics, la plupart des villes pourraient faire mieux. De plus, on manque de bancs précisément là où on en aurait le plus besoin, par exemple dans les quartiers résidentiels comptant de nombreux seniors : « Plus on s’éloigne du centre-ville, moins il y a de bancs. »

    #Conflit de besoins

    Le bois est le matériau préféré de Renate Albrecher, et les sondages montrent qu’il en va de même pour les autres usagers des bancs. Cependant, les villes veulent du mobilier qui résiste au vandalisme, qui dure éternellement et qui soit peut-être même capable d’arrêter les voitures. C’est pourquoi le béton ou le métal pullulent. Et ce, même si les personnes âgées ont du mal à se relever d’un bloc de béton, et si le métal est trop chaud pour s’asseoir en été, et trop froid en hiver. Que faire pour que l’espace public, qui, « par définition, appartient à tout le monde », note Sabina Ruff, soit accessible en tout temps à toute la population ? Le mot magique est « participation ». Dans le cadre d’un projet de recherche européen, Renate Albrecher a développé une application de navigation, qui a été testée à Munich, entre autres. Une réussite : « Notre projet est parvenu à rassembler des usagers des bancs publics qui, d’ordinaire, ne participent pas à ce genre d’initiatives ». Dans plusieurs villes suisses, des inspections de quartier sont organisées sous la houlette de « Promotion Santé Suisse ». Également un succès. « Désormais, les autorités sont plus sensibles au sujet », relève Jenny Leuba, de Mobilité piétonne Suisse.

    Un salon en plein air

    Tandis que des espaces de #détente munis de sièges ont été supprimés ou rendus inconfortables ces dernières années pour éviter que les gens ne s’y attardent, notamment autour des gares, certaines villes suisses font aujourd’hui œuvre de pionnières et aménagent par endroits l’espace public comme un #salon. Pour cela, elles ferment à la circulation des tronçons de rues ou transforment des places de #parc. À Berne, par exemple, une partie de la place Waisenhaus accueille depuis 2018 une scène, des sièges, des jeux et des îlots verts en été. Cet aménagement limité dans le temps possède un avantage : il ne nécessite aucune procédure d’autorisation fastidieuse et permet de mettre rapidement un projet sur pied, relève Claudia Luder, cheffe de projets à la Direction des ponts et chaussées de la ville de Berne. Elle dirige également le centre de compétence pour l’espace public (KORA), qui promeut la collaboration entre les différents offices municipaux et la population dans la capitale fédérale, et qui fait donc figure de modèle en matière de coordination et de participation. Claudia Luder note que les installations temporaires réduisent également les craintes face au bruit et aux déchets. Elle soulève ainsi le sujet des #conflits_d’usage pouvant naître dans un espace public agréablement aménagé. Des conflits qui sont désamorcés, selon Jenny Leuba, par les expériences positives faites dans des lieux provisoires comme à Berne, ou par une série d’astuces « techniques ». Deux bancs publics qui se font face attirent les groupes nombreux, tout comme les lieux bien éclairés. Les petits coins retirés et discrets sont eux aussi appréciés. La ville de Coire, raconte Jenny Leuba, propose également une solution intéressante : les propriétaires des magasins installent des sièges colorés dans l’espace public pendant la journée, et les remisent le soir.

    Certaines villes et communes suisses sont donc en train d’aménager – à des rythmes différents –, des espaces publics comme ceux qui ont enthousiasmé Sabina Ruff cet été à Ljubljana. Ces derniers ont été imaginés par l’architecte et urbaniste slovène Jože Plecnik, qui concevait la ville comme une scène vivante et l’espace public comme un lieu de #communauté et de #démocratie. Selon Sabina Ruff, c’est exactement ce dont on a besoin : un urbanisme axé sur les #besoins des gens. Une variété de lieux où il fait bon s’arrêter.

    https://www.swisscommunity.org/fr/nouvelles-et-medias/revue-suisse/article/les-bancs-publics-une-particularite-du-paysage-suisse

    #bancs_publics #Suisse #urbanisme #aménagement_du_territoire

  • Nucléaire : la création de nouveaux réacteurs pourrait être simplifiée jusqu’à 20 km autour de ceux en service
    https://www.actu-environnement.com/ae/news/simplification-procedures-nouveau-nucleaire-42794.php4

    Un projet de décret propose d’alléger la création de réacteurs construits à moins de 500 m (en zone littorale) ou 5 km (hors zone littorale) d’une installation nucléaire en service. Cette distance pourrait être étendue à 20 km sous certaines conditions.

    #paywall
    Le projet de décret en consultation :
    https://www.consultations-publiques.developpement-durable.gouv.fr/projet-de-decret-definissant-la-notion-de-a2921.html
    Avant pour exprimer la proximité il y avait l’expression « à un jet de pierre », du coup pour la proximité à distance de 20 km on dit « à un nuage contaminé » ?
    #nucléaire

  • Le Haaretz publie des données sur les victimes israéliennes qui semblent contredire les informations précédentes sur le nombre de morts comme sur leurs âges

    Sulaiman Ahmed sur X : « BREAKING : ISRAEL HAVE RELEASED THEIR OWN UNVERIFIED STATS ABOUT DEATH - NO BABIES HAVE BEEN KILLED https://t.co/Bg8Ac8FhuB » / X
    https://twitter.com/ShaykhSulaiman/status/1715801373735018695

    Sulaiman Ahmed

    @ShaykhSulaiman
    Souscrire
    BREAKING: ISRAEL HAVE RELEASED THEIR OWN UNVERIFIED STATS ABOUT DEATH - NO BABIES HAVE BEEN KILLED

    Source : https://www.haaretz.com/israel-news/2023-10-19/ty-article-magazine/israels-dead-the-names-of-those-killed-in-hamas-massacres-and-the-israel-hamas-war/0000018b-325c-d450-a3af-7b5cf0210000 (#paywall)

    • Déjà rien que sur le nombre total ya mensonge dès le départ

      western media reporting that Hamas allegedly killed around 1,400 Israeli

      the news outlet has released information on 683 Israelis killed during the Hamas-led offensive, including their names and locations of their deaths on 7 October

      Moins de la moitié donc de ce qui était annoncé pendant des jours (et encore récemment).

      Of these, 331 casualties – or 48.4 percent - have been confirmed to be soldiers and police officers, many of them female. Another 13 are described as rescue service members, and the remaining 339 are ostensibly considered to be civilians.

      Donc 352 civils, dont 16 enfants.

      The numbers and proportion of Palestinian civilians and children among those killed by Israeli bombardment over the past two weeks – over 5,791 killed, including 2,360 children and 1,292 women, and more than 18,000 injured - are far higher than any of these Israeli figures from the events of 7 October.

    • sauf erreur, il semble que ce chiffrage concerne les morts identifiés et dont l’identité et l’âge sont rendus publics. en ce qui concerne les français morts là bas, ce chiffre augmente quotidiennement (aujourd’hui on lit 30). en revanche, pour ce chiffrage, la proportion de militaire et personnel de sécurité est bien plus élevée qu’attendu et contredit la com israélienne reprise par les gouvernements elles média occidentaux

      #Israël #7_octobre_2023 #Hamas #civils_israéliens #propagande #propagande_de_guerre #palestiniens

  • Au #Sénégal, la farine de poisson creuse les ventres et nourrit la rancœur

    À #Kayar, sur la Grande Côte sénégalaise, l’installation d’une usine de #farine_de_poisson, destinée à alimenter les élevages et l’aquaculture en Europe, a bouleversé l’économie locale. Certains sont contraints d’acheter les rebuts de l’usine pour s’alimenter, raconte “Hakai Magazine”.
    “Ils ont volé notre #poisson”, affirme Maty Ndau d’une voix étranglée, seule au milieu d’un site de transformation du poisson, dans le port de pêche de Kayar, au Sénégal. Quatre ans plus tôt, plusieurs centaines de femmes travaillaient ici au séchage, au salage et à la vente de la sardinelle, un petit poisson argenté qui, en wolof, s’appelle yaboi ou “poisson du peuple”. Aujourd’hui, l’effervescence a laissé place au silence.

    (#paywall)

    https://www.courrierinternational.com/article/reportage-au-senegal-la-farine-de-poisson-creuse-les-ventres-

    #élevage #Europe #industrie_agro-alimentaire

    • Un article publié le 26.06.2020 et mis à jour le 23.05.2023 :

      Sénégal : les usines de farines de poisson menacent la sécurité alimentaire

      Au Sénégal, comme dans nombre de pays d’Afrique de l’Ouest, le poisson représente plus de 70 % des apports en protéines. Mais la pêche artisanale, pilier de la sécurité alimentaire, fait face à de nombreuses menaces, dont l’installation d’usines de farine et d’huile de poisson. De Saint-Louis à Kafountine, en passant par Dakar et Kayar… les acteurs du secteur organisent la riposte, avec notre partenaire l’Adepa.

      Boum de la consommation mondiale de poisson, accords de #pêche avec des pays tiers, pirogues plus nombreuses, pêche INN (illicite, non déclarée, non réglementée), manque de moyens de l’État… La pêche sénégalaise a beau bénéficier de l’une des mers les plus poissonneuses du monde, elle fait face aujourd’hui à une rapide #raréfaction de ses #ressources_halieutiques. De quoi mettre en péril les quelque 600 000 personnes qui en vivent : pêcheurs, transformatrices, mareyeurs, micro-mareyeuses, intermédiaires, transporteurs, etc.

      Pourtant, des solutions existent pour préserver les ressources : les aires marines protégées (AMP) et l’implication des acteurs de la pêche dans leur gestion, la création de zones protégées par les pêcheurs eux-mêmes ou encore la surveillance participative… Toutes ces mesures contribuent à la durabilité de la ressource. Et les résultats sont palpables : « En huit ans, nous sommes passés de 49 à 79 espèces de poissons, grâce à la création de l’aire marine protégée de Joal », précise Karim Sall, président de cette AMP.

      Mais ces initiatives seront-elles suffisantes face à la menace que représentent les usines de farine et d’huile de poisson ?

      Depuis une dizaine d’années, des usines chinoises, européennes, russes, fleurissent sur les côtes africaines. Leur raison d’être : transformer les ressources halieutiques en farines destinées à l’#aquaculture, pour répondre à une demande croissante des consommateurs du monde entier.

      Le poisson détourné au profit de l’#export

      Depuis 2014, la proportion de poisson d’élevage, dans nos assiettes, dépasse celle du poisson sauvage. Les farines produites en Afrique de l’Ouest partent d’abord vers la #Chine, premier producteur aquacole mondial, puis vers la #Norvège, l’#Union_européenne et la #Turquie.

      Les impacts négatifs de l’installation de ces #usines sur les côtes sénégalaises sont multiples. Elles pèsent d’abord et surtout sur la #sécurité_alimentaire du pays. Car si la fabrication de ces farines était censée valoriser les #déchets issus de la transformation des produits de la mer, les usines achètent en réalité du poisson directement aux pêcheurs.

      Par ailleurs, ce sont les petits pélagiques (principalement les #sardinelles) qui sont transformés en farine, alors qu’ils constituent l’essentiel de l’#alimentation des Sénégalais. Enfin, les taux de #rendement sont dévastateurs : il faut 3 à 5 kg de ces sardinelles déjà surexploitées [[Selon l’organisation des Nations unies pour l’agriculture et l’alimentation (FAO)]] pour produire 1 kg de farine ! Le poisson disparaît en nombre et, au lieu d’être réservé à la consommation humaine, il part en farine nourrir d’autres poissons… d’élevage !

      Une augmentation des #prix

      Au-delà de cette prédation ravageuse des sardinelles, chaque installation d’usine induit une cascade d’autres conséquences. En premier lieu pour les mareyeurs et mareyeuses mais aussi les #femmes transformatrices, qui achetaient le poisson directement aux pêcheurs, et se voient aujourd’hui concurrencées par des usines en capacité d’acheter à un meilleur prix. Comme l’explique Seynabou Sene, transformatrice depuis plus de trente ans et trésorière du GIE (groupement d’intérêt économique) de Kayar qui regroupe 350 femmes transformatrices : « Avant, nous n’avions pas assez de #claies de #séchage, tant la ressource était importante. Aujourd’hui, nos claies sont vides, même pendant la saison de pêche. Depuis 2010, quatre usines étrangères se sont implantées à Kayar, pour transformer, congeler et exporter le poisson hors d’Afrique, mais elles créent peu d’#emploi. Et nous sommes obligées de payer le poisson plus cher, car les usines d’#exportation l’achètent à un meilleur prix que nous. Si l’usine de farine de poisson ouvre, les prix vont exploser. »

      Cette industrie de transformation en farine et en huile ne pourvoit par ailleurs que peu d’emplois, comparée à la filière traditionnelle de revente et de transformation artisanale. Elle représente certes un débouché commercial lucratif à court terme pour les pêcheurs, mais favorise aussi une surexploitation de ressources déjà raréfiées. Autre dommage collatéral enfin, elle engendre une pollution de l’eau et de l’air, contraire au code de l’environnement.

      La riposte s’organise

      Face à l’absence de mesures gouvernementales en faveur des acteurs du secteur, l’#Adepa [[L’Adepa est une association ouest-africaine pour le développement de la #pêche_artisanale.]] tente, avec d’autres, d’organiser des actions de #mobilisation citoyenne et de #plaidoyer auprès des autorités. « Il nous a fallu procéder par étapes, partir de la base, recueillir des preuves », explique Moussa Mbengue, le secrétaire exécutif de l’Adepa.

      Études de terrain, ateliers participatifs, mise en place d’une coalition avec différents acteurs. Ces actions ont permis d’organiser, en juin 2019, une grande conférence nationale, présidée par l’ancienne ministre des Pêches, Aminata Mbengue : « Nous y avons informé l’État et les médias de problèmes majeurs, résume Moussa Mbengue. D’abord, le manque de moyens de la recherche qui empêche d’avoir une connaissance précise de l’état actuel des ressources. Ensuite, le peu de transparence dans la gestion d’activités censées impliquer les acteurs de la pêche, comme le processus d’implantation des usines. Enfin, l’absence de statistiques fiables sur les effectifs des femmes dans la pêche artisanale et leur contribution socioéconomique. »

      Parallèlement, l’association organise des réunions publiques dans les ports concernés par l’implantation d’usines de farines et d’huile de poisson. « À Saint-Louis, à Kayar, à Mbour… nos leaders expliquent à leurs pairs combien le manque de transparence dans la gestion de la pêche nuit à leur activité et à la souveraineté alimentaire du pays. »

      Mais Moussa Mbengue en a conscience : organiser un plaidoyer efficace, porté par le plus grand nombre, est un travail de longue haleine. Il n’en est pas à sa première action. L’Adepa a déjà remporté de nombreux combats, comme celui pour la reconnaissance de l’expertise des pêcheurs dans la gestion des ressources ou pour leur implication dans la gestion des aires marines protégées. « Nous voulons aussi que les professionnels du secteur, conclut son secrétaire exécutif, soient impliqués dans les processus d’implantation de ces usines. »

      On en compte aujourd’hui cinq en activité au Sénégal. Bientôt huit si les projets en cours aboutissent.

      https://ccfd-terresolidaire.org/senegal-les-usines-de-farines-de-poisson-menacent-la-securite-a

      #extractivisme #résistance

  • [on veut un chiffrement de bourre en bourre] Casser le chiffrement des messageries, un serpent de mer politique inapplicable
    https://www.lemonde.fr/pixels/article/2023/10/20/casser-le-chiffrement-des-messageries-un-serpent-de-mer-politique-inapplicab

    Interrogé sur BFM-TV, jeudi 19 octobre, le ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin, a désigné une cible bien commode pour expliquer que le terroriste ayant assassiné le professeur de français Dominique Bernard à Arras, vendredi 13 octobre, ait pu agir alors même qu’il était sous surveillance rapprochée des services de renseignement : les applications de #messagerie.
    « Hier encore, les écoutes téléphoniques classiques nous renseignaient sur la grande criminalité et le terrorisme. Aujourd’hui, les gens passent par Telegram, par WhatsApp, par Signal, par Facebook (…) Ce sont des messageries cryptées (…) On doit pouvoir négocier avec ces entreprises ce que vous appelez une “porte dérobée”. On doit pouvoir dire : “Monsieur Whatsapp, Monsieur Telegram, je soupçonne que M. X va peut-être passer à l’acte, donnez-moi ses conversations.” »
    L’argument semble frappé au coin du bon sens et M. Darmanin s’est dit favorable à un changement de la loi pour imposer aux plates-formes de fournir le contenu des messages chiffrés lorsque les autorités le requièrent. Le problème, pourtant, c’est que ces demandes sont contraires à des lois bien plus difficiles à faire évoluer que celles de la République : celles des mathématiques.

    .... la seule méthode efficace dont disposent les enquêteurs pour lire le contenu de conversations WhatsApp ou Signal est tout simplement d’avoir accès aux téléphones ou ordinateurs utilisés par un ou plusieurs interlocuteurs d’une conversation. C’est d’ailleurs ce qu’ont tenté de faire les agents qui surveillaient l’auteur de l’attentat d’Arras, a rappelé M. Darmanin, en le contrôlant la veille de l’attaque dans l’espoir de mettre la main sur son téléphone portable, sans succès.

    https://www.lemonde.fr/pixels/article/2023/10/20/casser-le-chiffrement-des-messageries-un-serpent-de-mer-politique-inapplicab
    https://justpaste.it/c9a2b

    #police #surveillance #signal #chiffrement_de_bout_en_bout

    • Attentat d’Arras : comment la DGSI a échoué à accéder aux messages cryptés de Mogouchkov
      https://www.lexpress.fr/societe/attentat-darras-comment-la-dgsi-a-echoue-a-acceder-aux-messages-cryptes-de-

      .... le travail de la Direction générale de la sécurité intérieure (#DGSI) a bel et bien été compliqué par une immense faiblesse technique : l’incapacité du service secret français à accéder aux conversations du terroriste, Mohammed Mogouchkov, sur les messageries cryptées, WhatsApp, Signal, Telegram et Snapchat. L’enquête judiciaire en cours montre d’ailleurs que l’assaillant entretenait une correspondance troublante sur Snapchat avec un détenu fiché S pour radicalisation islamiste, Maxime C., par l’intermédiaire d’un des membres de la famille de ce dernier. Dans une de ces missives, le prisonnier radicalisé et prosélyte évoque « la mort douce avec l’épée à la main », selon Le Parisien.

      Le #contrôle_d’identité diligenté à l’encontre de Mogouchkov par les policiers, jeudi 12 octobre, la veille de l’attentat, avait notamment pour but de placer un #logiciel_espion dans son téléphone portable. Gérald Darmanin l’a reconnu au détour d’une réponse passée inaperçue lors de sa conférence de presse du 14 octobre : "La veille de l’attentat, nous avons procédé à l’interpellation de cette personne pour vérifier qu’il n’avait pas des armes sur lui mais aussi pour procéder à d’autres techniques de #renseignement plus intrusives, c’est-à-dire notamment d’avoir accès à son téléphone et aux messageries

      #Paywall

  • 18.10.2023 : Reintroduzione dei controlli delle frontiere interne terrestri con la Slovenia, nota di Palazzo Chigi

    Il Governo italiano ha comunicato la reintroduzione dei controlli delle frontiere interne terrestri con la Slovenia, in base all’articolo 28 del Codice delle frontiere Schengen (Regolamento Ue 2016/339).

    Il ripristino dei controlli alle frontiere interne, già adottato nell’area Schengen, è stato comunicato dal ministro Piantedosi al vicepresidente della Commissione europea Margaritis Schinas, al commissario europeo agli Affari interni Ylva Johansson, alla presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, al segretario generale del Consiglio dell’Unione europea Thérèse Blanchet e ai ministri dell’Interno degli Stati membri Ue e dei Paesi associati Schengen.

    L’intensificarsi dei focolai di crisi ai confini dell’Europa, in particolare dopo l’attacco condotto nei confronti di Israele, ha infatti aumentato il livello di minaccia di azioni violente anche all’interno dell’Unione. Un quadro ulteriormente aggravato dalla costante pressione migratoria cui l’Italia è soggetta, via mare e via terra (140 mila arrivi sulle coste italiane, +85% rispetto al 2022). Nella sola regione del Friuli Venezia Giulia, dall’inizio dell’anno, sono state individuate 16 mila persone entrate irregolarmente sul territorio nazionale.

    Questo scenario, oggetto di approfondimento anche da parte del Comitato di analisi strategica anti-terrorismo istituito presso il ministero dell’Interno, conferma la necessità di un ulteriore rafforzamento delle misure di prevenzione e controllo. Nelle valutazioni nazionali, infatti, le misure di polizia alla frontiera italo-slovena non risultano adeguate a garantire la sicurezza richiesta. La misura verrà attuata dal 21 ottobre prossimo per un periodo di 10 giorni, prorogabili ai sensi del Regolamento Ue 2016/339. Le modalità di controllo saranno attuate in modo da garantire la proporzionalità della misura, adattate alla minaccia e calibrate per causare il minor impatto possibile sulla circolazione transfrontaliera e sul traffico merci.
    Ulteriori sviluppi della situazione ed efficacia delle misure verranno analizzati costantemente, nell’auspicio di un rapido ritorno alla piena libera circolazione.

    https://www.governo.it/it/articolo/reintroduzione-dei-controlli-delle-frontiere-interne-terrestri-con-la-sloven

    #Slovénie #Italie #frontières #asile #migrations #réfugiés #frontières #contrôles_systématiques_aux_frontières #frontière_sud-alpine #Alpes
    –—

    ajouté à cette métaliste sur l’annonce du rétablissement des contrôles frontaliers de la part de plusieurs pays européens :
    https://seenthis.net/messages/1021987

    • Terrorismo, l’Italia sospende Schengen: Blindato il confine sloveno. Gli 007: “Falle nei controlli, i lupi solitari passano da lì”

      Meloni sui social: “La sospensione del Trattato di Schengen sulla libera circolazione in Europa si è resa necessaria per l’aggravarsi della situazione in Medio Oriente, me ne assumo la piena responsabilità”. Vertice tra la premier e i servizi di intelligence sul rischio attentati

      Non hanno nome. E nemmeno un volto. Sono fantasmi, impossibili da intercettare per l’intelligence e la Prevenzione. “Per un terrorista, come dimostra la cronaca, il corridoio balcanico rappresenta un percorso privilegiato verso l’Italia e l’Europa: niente fotosegnalazione, nessuna identificazione”, spiegano da settimane la Polizia e i Servizi al governo. Un’indicazione ribadita martedì, durante il comitato di analisi strategica antiterrorismo.

      (#paywall)

      https://www.repubblica.it/politica/2023/10/18/news/terrorismo_italia_allerta_slovenia-418144267

      #terrorismo

    • L’Italia vuole ristabilire i controlli alla frontiera con la Slovenia

      Il governo ha motivato la decisione – inedita – citando il conflitto israelo-palestinese e l’aumento degli arrivi di migranti

      Mercoledì pomeriggio il governo italiano ha annunciato di voler ristabilire dei controlli alla frontiera tra Friuli Venezia Giulia e Slovenia: la misura entrerà in vigore dal 21 ottobre prossimo, avrà una durata iniziale di 10 giorni e potrà eventualmente essere prorogata. La notizia è stata data dalla presidenza del Consiglio, dopo che era stata comunicata alle istituzioni europee da Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno e titolare delle procedure di controllo alle frontiere. «L’intensificarsi dei focolai di crisi ai confini dell’Europa, in particolare dopo l’attacco condotto nei confronti di Israele, ha infatti aumentato il livello di minaccia di azioni violente anche all’interno dell’Unione» ha detto in un comunicato il governo, che dunque giustifica questa decisione con le tensioni generate dal conflitto israelo-palestinese.

      Di fatto quindi l’Italia vuole sospendere l’accordo di Schengen, ovvero un’intesa che garantisce la libera circolazione di persone e merci sul territorio europeo a cui aderiscono 23 dei 27 paesi membri dell’Unione Europea (e tra questi anche la Slovenia). È una scelta senza precedenti: l’Italia aveva sospeso Schengen solo in concomitanza con lo svolgimento sul territorio nazionale di eventi internazionali di grande rilevanza. Per il G20 di Roma (tra il 27 ottobre e il primo novembre del 2021), per il G7 di Taormina (tra il 10 e il 30 maggio del 2017) e per il G8 dell’Aquila (tra il 28 giugno e il 15 luglio del 2009). A seguito degli attentati terroristici a Parigi del 2015 si parlò dell’eventualità di un ripristino dei controlli alle frontiere, ma l’ipotesi fu poi accantonata dal governo di Matteo Renzi.

      Sono stati numerosi, invece, i paesi europei che hanno fatto ricorso a questa procedura negli ultimi due anni, cioè da quando dopo la lunga fase della pandemia la libera circolazione nell’area Schengen era stata reintrodotta stabilmente: Francia, Germania, Austria, Polonia, Danimarca, Slovacchia, Norvegia, Repubblica Ceca, quasi sempre per ragioni legate a un aumento dei flussi migratori ritenuto eccessivo e, più di rado, per minacce legate al terrorismo o a seguito di un attentato subito sul territorio nazionale.

      Insieme all’Italia vari altri paesi dell’Unione Europea hanno notificato alle istituzioni europee la decisione di sospendere Schengen temporaneamente in questi giorni e nelle prossime settimane: tra questi Austria, Germania, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. L’Italia è però l’unica, finora, a citare tra le ragioni a giustificazione della sospensione il conflitto israelo-palestinese. La motivazione ufficiale del governo cita anche «la costante pressione migratoria via mare e via terra» collegandola a una presunta «possibile infiltrazione terroristica» che «conferma la necessità di un ulteriore rafforzamento delle misure di prevenzione e controllo».

      Pochi minuti dopo l’annuncio, la Lega di Matteo Salvini ha diffuso a sua volta un comunicato in cui dice che la decisione adottata «è un’ottima notizia che conferma la serietà e la concretezza del governo. Avanti così, a difesa dell’Italia e dei suoi confini».

      https://www.ilpost.it/2023/10/18/controlli-frontiera-slovenia-schengen

    • Ripristinati i controlli al confine tra Italia e Slovenia

      ICS - Ufficio Rifugiati di Trieste: usato uno stratagemma che può riproporre gravissime condotte illegali

      7.000 sono le persone migranti intercettate e respinte in Slovenia nel corso del 2023. A fornire questi numeri è direttamente il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, all’indomani del ripristino dei controlli sul confine orientale per prevenire, secondo il Viminale, “infiltrazione terroristiche“.

      E’ difatti con questa motivazione che il Governo italiano giustifica la decisione di ripristinare i controlli: il Codice frontiere Schengen (Regolamento UE n. 2016/399) prevede che il ripristino dei controlli di frontiera interni può avvenire “solo come misura di extrema ratio (…) in caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna di uno Stato membro” (Codice, art. 25) per il tempo più breve possibile. Il rischio di “attentati o minacce terroristiche” (Codice, art. 26) può motivare il temporaneo ripristino dei controlli di frontiera, ma tale rischio deve essere concreto e specifico.

      Secondo ICS – Ufficio Rifugiati onlus di Trieste le motivazioni del governo «appaiono del tutto vaghe e inadeguate; in particolare l’inserimento, nelle motivazioni, dell’esistenza di presunto problema dell’arrivo in tutto il Friuli Venezia-Giulia di un modestissimo numero di rifugiati (circa 1.500 persone al mese nel corso del 2023), in assoluta prevalenza provenienti dall’Afghanistan, risulta risibile e del tutto privo di alcuna connessione logico-giuridica con i criteri richiesti dal Codice Schengen per legittimare una scelta così estrema quale il ripristino dei confini interni».

      «E non può – ricorda l’associazione – comportare alcuna compressione o limitazione del diritto d’asilo in quanto “gli Stati membri agiscono nel pieno rispetto (…) del pertinente diritto internazionale, compresa la convenzione relativa allo status dei rifugiati firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 «convenzione di Ginevra»), degli obblighi inerenti all’accesso alla protezione internazionale, in particolare il principio di non-refoulement (non respingimento), e dei diritti fondamentali”. (Codice, art. 3)».
      Ciò significa «che anche durante il periodo di temporaneo ripristino dei controlli di frontiera rimane dunque inalterato, alla frontiera italo-slovena, l’obbligo da parte della polizia, di recepire le domande di asilo degli stranieri che intendono farlo e di ammettere gli stessi al territorio per l’espletamento delle procedure previste dalla legge».

      L’Italia non più tardi di cinque mesi fa è stata condannata per le riammissioni / respingimenti illegali attuate nel 2020 e perfino al risarcimento economico dei richiedenti asilo, mentre la Corte di giustizia UE ha ribadito, a fine settembre, che è vietato il respingimento sistematico alle frontiere interne.

      Tutto questo fa emergere che l’inadeguatezza delle motivazioni fornite da Roma rendono non infondato il sospetto che la decisione – secondo ICS – «ben poco abbia a che fare con la difficile situazione internazionale, bensì rappresenti una misura propagandistica e uno stratagemma, attraverso le quasi già annunciate proroghe della misura, per riproporre gravissime condotte illegali al confine italo-sloveno tramite respingimenti di richiedenti asilo che sono tassativamente vietati dal diritto internazionale ed europeo».

      «In un pericolosissimo effetto domino, la situazione potrebbe facilmente degenerare in uno scenario di respingimenti collettivi a catena, radicalmente vietati dal diritto internazionale, in ragione della decisione assunta dalla Slovenia a seguito della decisione italiana di ripristinare a sua volta i controlli di frontiera con la Croazia e l’Ungheria», conclude l’associazione.

      https://www.meltingpot.org/2023/10/ripristinati-i-controlli-al-confine-tra-italia-e-slovenia
      #terrorisme

    • 27 ottobre 2023: Controlli ai confini con la Slovenia: divieto di circolazione, libertà di respingimento

      Preoccupa la reintroduzione dei controlli ai confini interni con la Slovenia annunciata il 18 ottobre dal Governo Meloni dopo gli attacchi compiuti da Hamas in territorio israeliano. Si tratta infatti di un’iniziativa infondata e strumentale, per la distorsione della presunta “costante pressione migratoria” (appena 1.500 persone al mese in Friuli-Venezia Giulia dall’inizio dell’anno), grave, per l’equivalenza che suggerisce all’opinione pubblica tra migranti in transito e potenziali “lupi solitari”, e che rischia soprattutto di tradursi in un palese “via libera” a riammissioni e respingimenti a catena a danno dei migranti e richiedenti asilo, in violazione del diritto interno ed europeo.

      Il tutto in un punto di transito, quello tra Italia e Slovenia, che ha già vissuto nel 2020 l’esperienza delle riammissioni informali attive disposte dall’allora capo di gabinetto della ex ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e oggi titolare di quel dicastero, Matteo Piantedosi. Pratiche che hanno comportato il respingimento a catena delle persone, esponendole a violenze e trattamenti inumani e degradanti, e per questo dichiarate illegittime dai tribunali nel corso di questi anni. E che pure sembrano rappresentare ancora in principio l’unico strumento per l’esecutivo: uno strumento, è bene ribadirlo, illegale.

      Come hanno già fatto notare anche altri osservatori e organizzazioni sul campo, il ripristino dei controlli di frontiera interni e il sacrificio della libera circolazione può avvenire in base al Codice frontiere Schengen (Regolamento (UE) 2016/399) “solo come misura di extrema ratio […] in caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna di uno Stato membro” (Codice, art. 25) per il tempo più breve possibile. Il rischio di “attentati o minacce terroristiche” (Codice, art. 26) può motivare il temporaneo ripristino dei controlli di frontiera, ma tale rischio deve essere concreto e specifico.

      Giocando all’equivoco intorno al concetto di minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza interna, e liquidando in poche battute il flop delle preesistenti “misure di polizia alla frontiera italo-slovena” annunciate in pompa magna solo pochi mesi fa, il governo ha però già esplicitato di voler prorogare il ripristino dei controlli per i prossimi mesi (la misura doveva durare per 10 giorni dal 21 ottobre 2023). A significare che il reale scopo della reintroduzione dei controlli ai confini interni non è contrastare la minaccia terroristica -verso la quale, come noto, è totalmente inefficace- quanto tentare di dar parvenza di (non) legittimità a prassi operative sovrapponibili a riammissioni e respingimenti. Puntando magari a vietare l’accesso al territorio per coloro che intendano chiedere asilo, scavalcando gli obblighi di informativa che stanno in capo alle autorità di frontiera, respingendo le persone senza lasciar loro in mano alcun provvedimento.

      “Le modalità di controllo saranno attuate in modo da garantire la proporzionalità della misura, adattate alla minaccia e calibrate per causare il minor impatto possibile sulla circolazione transfrontaliera e sul traffico merci”, ha provato a chiarire Palazzo Chigi. Ci si augura che dietro queste parole non si prefiguri il ricorso a forme di profilazione razziale, tema sul quale il nostro Paese è già stato bacchettato dal Comitato Onu per l’eliminazione delle discriminazioni razziali.

      Ecco perché è fondamentale monitorare l’attività delle autorità italiane al confine sloveno. La rete RiVolti ai Balcani, tramite le realtà che vi aderiscono, lo sta già facendo.

      Ed è molto importante al riguardo informare correttamente la cittadinanza.
      Ecco perché giovedì 9 novembre alle ore 18.30 sui canali social della rete è stata organizzata l’iniziativa pubblica online “Divieto di circolazione. Libertà di respingimento” per fare il punto della situazione sia per quanto riguarda la frontiera Italia-Slovenia e sia per quanto attiene alla condizione delle persone in transito lungo le rotte balcaniche, dove le violenze sono tornate ancora una volta a governare la “gestione” dei passaggi. Una gestione oscura, come insegna anche la “novità” italiana della reintroduzione dei controlli ai confini interni con la Slovenia.

      https://www.rivoltiaibalcani.org/news-5

    • Rotta balcanica, Piantedosi lancia le brigate antimigranti

      Lo stesso Piantedosi ha altresì annunciato che, non appena i controlli alle frontiere cesseranno (al momento sono prorogati fino al 20 novembre), è intenzione del Governo prevedere l’istituzione di “brigate miste” (di polizia) da “rendere stabili nel tempo”. Il termine utilizzato – brigate – è già piuttosto militaresco, ma, soprattutto, tali brigate miste come sarebbero composte, con quale mandato e con quali garanzie opererebbero al di fuori del territorio italiano? Anche sul confine sloveno-croato e su quello croato-bosniaco?

      https://seenthis.net/messages/1025275

  • L’anthropologue #Didier_Fassin sur #Gaza : « La non-reconnaissance de la qualité d’êtres humains à ceux qu’on veut éliminer est le prélude aux pires violences »

    Le sociologue s’alarme, dans une tribune au « Monde », que l’Union européenne n’invoque pas, dans le cadre du conflit israélo-palestinien, la « responsabilité de protéger » votée par l’Assemblée des Nations unies, et qu’elle pratique le deux poids deux mesures dans ses relations internationales.

    L’incursion sanglante du #Hamas en #Israël a produit dans le pays un #choc sans précédent et a suscité des réactions d’horreur dans les sociétés occidentales. Les #représailles en cours à Gaza, d’autant plus violentes que le gouvernement israélien est tenu responsable par la population pour avoir favorisé l’essor du Hamas afin d’affaiblir le #Fatah [le parti politique du président palestinien, Mahmoud Abbas] et pour avoir négligé les enjeux de sécurité au profit d’une impopulaire réforme visant à faire reculer la démocratie, ne génèrent pas de semblables sentiments de la part des chancelleries occidentales, comme si le droit de se défendre impliquait un droit illimité à se venger. Certaines #victimes méritent-elles plus que d’autres la #compassion ? Faut-il considérer comme une nouvelle norme le ratio des tués côté palestinien et côté israélien de la guerre de 2014 à Gaza : 32 fois plus de morts, 228 fois plus parmi les civils et 548 fois plus parmi les enfants ?

    Lorsque le président français, #Emmanuel_Macron, a prononcé son allocution télévisée, le 12 octobre, on comptait 1 400 victimes parmi les Gazaouis, dont 447 enfants. Il a justement déploré la mort « de nourrissons, d’enfants, de femmes, d’hommes » israéliens, et dit « partager le chagrin d’Israël », mais n’a pas eu un mot pour les nourrissons, les enfants, les femmes et les hommes palestiniens tués et pour le deuil de leurs proches. Il a déclaré apporter son « soutien à la réponse légitime » d’Israël, tout en ajoutant que ce devait être en « préservant les populations civiles », formule purement rhétorique alors que #Tsahal avait déversé en six jours 6 000 bombes, presque autant que ne l’avaient fait les Etats-Unis en une année au plus fort de l’intervention en Afghanistan.

    La directrice exécutive de Jewish Voice for Peace a lancé un vibrant « #plaidoyer_juif », appelant à « se dresser contre l’acte de #génocide d’Israël ». Couper l’#eau, l’#électricité et le #gaz, interrompre l’approvisionnement en #nourriture et envoyer des missiles sur les marchés où les habitants tentent de se ravitailler, bombarder des ambulances et des hôpitaux déjà privés de tout ce qui leur permet de fonctionner, tuer des médecins et leur famille : la conjonction du siège total, des frappes aériennes et bientôt des troupes au sol condamne à mort un très grand nombre de #civils – par les #armes, la #faim et la #soif, le défaut de #soins aux malades et aux blessés.

    Des #crimes commis, on ne saura rien

    L’ordre donné au million d’habitants de la ville de Gaza de partir vers le sud va, selon le porte-parole des Nations unies, « provoquer des conséquences humanitaires dévastatrices ». Ailleurs dans le monde, lorsque éclatent des conflits meurtriers, les populations menacées fuient vers un pays voisin. Pour les Gazaouis, il n’y a pas d’issue, et l’armée israélienne bombarde les écoles des Nations unies où certains trouvent refuge. Ailleurs dans le monde, dans de telles situations, les organisations non gouvernementales apportent une assistance aux victimes. A Gaza, elles ne le peuvent plus. Mais des crimes commis, on ne saura rien. En coupant Internet, Israël prévient la diffusion d’images et de témoignages.

    Le ministre israélien de la défense, #Yoav_Gallant, a déclaré, le 9 octobre, que son pays combattait « des #animaux_humains » et qu’il « allait tout éliminer à Gaza ». En mars, son collègue des finances a, lui, affirmé qu’« il n’y a pas de Palestiniens, car il n’y a pas de peuple palestinien ».
    Du premier génocide du XXe siècle, celui des Herero, en 1904, mené par l’armée allemande en Afrique australe, qui, selon les estimations, a provoqué 100 000 morts de déshydratation et de dénutrition, au génocide des juifs d’Europe et à celui des Tutsi, la non-reconnaissance de la qualité d’êtres humains à ceux qu’on veut éliminer et leur assimilation à des #animaux a été le prélude aux pires #violences.

    Rhétorique guerrière

    Comme le dit en Israël la présidente de l’organisation de défense des droits de l’homme, B’Tselem, « Gaza risque d’être rayée de la carte, si la communauté internationale, en particulier les Etats-Unis et l’Europe, ne fait pas stopper – au lieu de laisser faire, voire d’encourager – les crimes de guerre qu’induit l’intensité de la riposte israélienne ». Ce n’est pas la première fois qu’Israël mène une #guerre à Gaza, mais c’est la première fois qu’il le fait avec un gouvernement aussi fortement orienté à l’#extrême-droite qui nie aux Palestiniens leur humanité et leur existence.
    Il existe une « responsabilité de protéger », votée en 2005 par l’Assemblée des Nations unies, obligeant les Etats à agir pour protéger une population « contre les génocides, les crimes de guerre, les nettoyages ethniques et les crimes contre l’humanité ». Cet engagement a été utilisé dans une dizaine de situations, presque toujours en Afrique. Que l’Union européenne ne l’invoque pas aujourd’hui, mais qu’au contraire la présidente de la Commission, Ursula von der Leyen, se rende, sans mandat, en Israël, pour y reprendre la #rhétorique_guerrière du gouvernement, montre combien le deux poids deux mesures régit les relations internationales.
    Quant à la #France, alors que se fait pressante l’urgence à agir, non seulement le gouvernement apporte son appui sans failles à l’#opération_punitive en cours, mais il interdit les #manifestations en faveur du peuple palestinien et pour une #paix juste et durable en Palestine. « Rien ne peut justifier le #terrorisme », affirmait avec raison le chef de l’Etat. Mais faut-il justifier les crimes de guerre et les #massacres_de_masse commis en #rétorsion contre les populations civiles ? S’agit-il une fois de plus de rappeler au monde que toutes les vies n’ont pas la même valeur et que certaines peuvent être éliminées sans conséquence ?

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/10/18/l-anthropologue-didier-fassin-sur-gaza-la-non-reconnaissance-de-la-qualite-d

    #à_lire #7_octobre_2023

    • Le spectre d’un génocide à Gaza

      L’annihilation du Hamas, que la plupart des experts jugent irréaliste, se traduit de fait par un massacre des civils gazaouis, ce que la Première ministre française appelle une « catastrophe humanitaire », mais dans lequel un nombre croissant d’organisations et d’analystes voient le spectre d’un génocide.

      Au début de l’année 1904, dans ce qui était alors le protectorat allemand du Sud-Ouest africain, les Hereros se rebellent contre les colons, tuant plus d’une centaine d’entre eux dans une attaque surprise.

      Au cours des deux décennies précédentes, ce peuple d’éleveurs a vu son territoire se réduire à mesure que de nouvelles colonies s’installent, s’emparant des meilleures terres et entravant la transhumance des troupeaux. Les colons traitent les Hereros comme des animaux, les réduisent à une forme d’esclavage et se saisissent de leurs biens. Le projet des autorités est de créer dans ce qui est aujourd’hui la Namibie une « Allemagne africaine » où les peuples autochtones seraient parqués dans des réserves.

      La révolte des Hereros est vécue comme un déshonneur à Berlin et l’empereur envoie un corps expéditionnaire avec pour objectif de les éradiquer. Son commandant annonce en effet qu’il va « annihiler » la nation herero, récompensant la capture des « chefs », mais n’épargnant « ni les femmes ni les enfants ». Si l’extermination n’est techniquement pas possible, ajoute-t-il, il faudra forcer les Hereros à quitter le pays, et « ce n’est qu’une fois ce nettoyage accompli que quelque chose de nouveau pourra émerger ».

      Dans les mois qui suivent, nombre de Hereros sans armes sont capturés et exécutés par les militaires, mais la plupart sont repoussés dans le désert où ils meurent de déshydratation et d’inanition, les puits ayant été empoisonnés. Selon l’état-major militaire, « le blocus impitoyable des zones désertiques paracheva l’œuvre d’élimination ». On estime que seuls 15 000 des 80 000 Hereros ont survécu. Ils sont mis au travail forcé dans des « camps de concentration » où beaucoup perdent la vie.

      Le massacre des Hereros, qualifié par les Allemands de « guerre raciale » est le premier génocide du XXe siècle, considéré par certains historiens comme la matrice de la Shoah quatre décennies plus tard. Dans Les Origines du totalitarisme, la philosophe Hannah Arendt elle-même a établi un lien entre l’entreprise coloniale et les pratiques génocidaires.

      Comparaison n’est pas raison, mais il y a de préoccupantes similitudes entre ce qui s’est joué dans le Sud-Ouest africain et ce qui se joue aujourd’hui à Gaza. Des décennies d’une colonisation qui réduit les territoires palestiniens à une multiplicité d’enclaves toujours plus petites où les habitants sont agressés, les champs d’olivier détruits, les déplacements restreints, les humiliations quotidiennes.

      Une déshumanisation qui conduisait il y a dix ans le futur ministre adjoint à la Défense à dire que les Palestiniens sont « comme des animaux ». Une négation de leur existence même par le ministre des Finances pour qui « il n’y a pas de Palestiniens car il n’y a pas de peuple palestinien », comme il l’affirmait au début de l’année. Un droit de tuer les Palestiniens qui, pour l’actuel ministre de la Sécurité nationale, fait du colon qui a assassiné vingt-neuf d’entre eux priant au tombeau des Patriarches à Hébron un héros. Le projet, pour certains, d’un « grand Israël », dont l’ancien président est lui-même partisan.

      Pendant les six premiers jours de l’intervention israélienne, 6 000 bombes ont été lâchées sur Gaza, presque autant que les États-Unis et ses alliés en ont utilisé en Afghanistan en une année entière

      Dans ce contexte, les attaques palestiniennes contre des Israéliens se sont produites au fil des ans, culminant dans l’incursion meurtrière du Hamas en territoire israélien le 7 octobre faisant 1 400 victimes civiles et militaires et aboutissant à la capture de plus de 200 otages, ce que le représentant permanent d’Israël aux Nations unies a qualifié de « crime de guerre ». La réponse du gouvernement, accusé de n’avoir pas su prévenir l’agression, s’est voulue à la mesure du traumatisme provoqué dans le pays. L’objectif est « l’annihilation du Hamas ».

      Pendant les trois premières semaines de la guerre à Gaza, les représailles ont pris deux formes. D’une part, infrastructures civiles et populations civiles ont fait l’objet d’un bombardement massif, causant 7 703 morts, dont 3 595 enfants, 1 863 femmes et 397 personnes âgées, et endommageant 183 000 unités résidentielles et 221 écoles, à la date du 28 octobre. Pendant les six premiers jours de l’intervention israélienne, 6 000 bombes ont été lâchées sur Gaza, presque autant que les États-Unis et ses alliés en ont utilisé en Afghanistan en une année entière, au plus fort de l’invasion du pays.

      Pour les plus de 20 000 blessés, dont un tiers d’enfants, ce sont des mutilations, des brûlures, des handicaps avec lesquels il leur faudra vivre. Et pour tous les survivants, ce sont les traumatismes d’avoir vécu sous les bombes, assisté aux destructions des maisons, vu des corps déchiquetés, perdu des proches, une étude britannique montrant que plus de la moitié des adolescents souffrent de stress post-traumatique.

      D’autre part, un siège total a été imposé, avec blocus de l’électricité, du carburant, de la nourriture et des médicaments, tandis que la plupart des stations de pompage ne fonctionnent plus, ne permettant plus l’accès à l’eau potable, politique que le ministre de la Défense justifie en déclarant : « Nous combattons des animaux et nous agissons comme tel ». Dans ces conditions, le tiers des hôpitaux ont dû interrompre leur activité, les chirurgiens opèrent parfois sans anesthésie, les habitants boivent une eau saumâtre, les pénuries alimentaires se font sentir, avec un risque important de décès des personnes les plus vulnérables, à commencer par les enfants.

      Dans le même temps, en Cisjordanie, plus d’une centaine de Palestiniens ont été tués par des colons et des militaires, tandis que plus de 500 éleveurs bédouins ont été chassés de leurs terres et de leur maison, « nettoyage ethnique » que dénoncent des associations de droits humains israéliennes. Croire que cette répression féroce permettra de garantir la sécurité à laquelle les Israéliens ont droit est une illusion dont les 75 dernières années ont fait la preuve.

      L’annihilation du Hamas, que la plupart des experts jugent irréaliste, se traduit de fait par un massacre des civils gazaouis, ce que la Première ministre française appelle une « catastrophe humanitaire », mais dans lequel un nombre croissant d’organisations et d’analystes voient le spectre d’un génocide.

      L’organisation états-unienne Jewish Voice for Peace implore « toutes les personnes de conscience d’arrêter le génocide imminent des Palestiniens ». Une déclaration signée par 880 universitaires du monde entier « alerte sur un potentiel génocide à Gaza ». Neuf Rapporteurs spéciaux des Nations unies en charge des droits humains, des personnes déplacées, de la lutte contre le racisme et les discriminations, l’accès à l’eau et à la nourriture parlent d’un « risque de génocide du peuple palestinien ». Pour la Directrice régionale de l’Unicef pour le Moyen Orient et l’Afrique du nord, « la situation dans la bande de Gaza entache de plus en plus notre conscience collective ». Quant au Secrétaire général des Nations unies, il affirme : « Nous sommes à un moment de vérité. L’histoire nous jugera ».

      Alors que la plupart des gouvernements occidentaux continuent de dire « le droit d’Israël à se défendre » sans y mettre de réserves autres que rhétoriques et sans même imaginer un droit semblable pour les Palestiniens, il y a en effet une responsabilité historique à prévenir ce qui pourrait devenir le premier génocide du XXIe siècle. Si celui des Hereros s’était produit dans le silence du désert du Kalahari, la tragédie de Gaza se déroule sous les yeux du monde entier.

      https://aoc.media/opinion/2023/10/31/le-spectre-dun-genocide-a-gaza

    • Cette réponse sur AOC est d’une mauvaise foi affligeante. Ils se piquent de faire du droit international, et ne se rendent pas compte que leurs conclusions vont à l’encontre de ce qui est déclamé par les instances multilatérales internationales depuis des dizaines d’années.

      Personnellement, les fachos qui s’ignorent et qui prennent leur plume pour te faire comprendre que tu n’es pas assez adulte pour comprendre la complexité du monde, ils commencent à me chauffer les oreilles. La tolérance c’est bien, mais le déni c’est pire. Et là, cette forme de déni, elle est factuelle. Elle n’est pas capillotractée comme lorsqu’on étudie les différentes formes d’un mot pour en déduire un supposé racisme pervers et masqué.

    • La réponse dans AOC mais fait vraiment penser à la sailli de Macron sur les violences policières : « dans un État de droit il est inadmissible de parler de violences policières » : autrement dit ce ne sont pas les violences elles-mêmes, concrète, prouvées, qui sont à condamner, mais c’est le fait d’en parler, de mettre des mots pour les décrire.

      Là c’est pareil, l’État israélien fait littéralement ces actions là : tuerie de masse par bombes sur civils, destruction des moyens de subsistance en brulant les champs (d’oliviers et autres), et en coupant tout accès à l’eau (base de la vie quand on est pas mort sous les bombes) ; ce qui correspond bien factuellement au même genre de stratégie militaire d’annihilation des Héréros par les allemands. Mais ce qui est à condamner c’est le fait de le décrire parce que ça serait antisémite, et non pas les actions elles-mêmes.

      Parce que l’accusation d’empoisonnement est un classique de l’antisémitisme depuis le moyen âge, alors si concrètement une armée et des colons de culture juive bloquent l’accès à la subsistance terre et eau, ça n’existe pas et il ne faut pas en parler.

      (Et c’est le même principe que de s’interdire de dire que le Hamas est un mouvement d’extrême droite, avec une politique autoritaire et ultra réactionnaire, et qu’ils promeuvent des crimes de guerre, parce qu’ils se battent contre l’État qui les colonise. Il fut un temps où beaucoup de mouvements de libération, de lutte contre le colonialisme et ou les impérialismes, faisaient attention aux vies civiles, comme le rappelait Joseph Andras il me semble.)

      #campisme clairement ("mon camp", « notre camp », ne peut pas faire ça, puisque c’est les méchants qui nous accusaient faussement de faire ça…)

  • Résilience climatique : viser au dessus de la ligne Bordeaux-Lyon | Le Monde | 15.10.23

    https://www.lemonde.fr/m-perso/article/2023/10/15/comment-la-creuse-est-devenue-un-eden-climatique-ici-tous-les-trois-jours-il

    Pascal Lenormand, ingénieur expert en sobriété énergétique :

    « Je ne suis pas collapsologue, se défend d’emblée le quadragénaire, père de deux enfants. Mais j’ai une vague idée que cela ne va pas s’arranger. J’ai cherché un lieu résilient où l’on pourra vivre normalement. Dans mon métier, depuis une décennie, je déconseille de migrer sous une ligne Bordeaux-Lyon pour des questions de ressources en eau et de surchauffe des bâtiments. Je me suis appliqué le conseil à moi-même. »

    Lenormand est maintenant un monsieur de Fursac (Creuse), migrant climatique en provenance de Chambéry (Savoie, fond de vallée).

  • Orwell, very well | LeMonde | 08.07.23

    https://www.lemonde.fr/culture/article/2023/07/08/comment-le-xxi-siecle-est-devenu-orwellien_6181089_3246.html

    Sa figure de reporter antitotalitaire et d’écrivain visionnaire est un véritable étendard. Pour beaucoup, Orwell est une vigie, un phare. Sans compter son héritage sans testament que se disputent populistes et anarchistes, conservateurs et progressistes. Une captation politique notamment opérée par une droite politique et médiatique déboussolée par l’effondrement du monde d’hier, qui cherche en George Orwell un support à sa rhétorique réactionnaire.

    il doit se retourner dans son nuage, le Georges, avec ces fans de droite.

    • Face à la réécriture de l’histoire par les éditorialistes nationaux-populistes, il est devenu nécessaire de le rappeler : Orwell n’est pas de droite, mais de gauche. Et n’est ni réactionnaire ni conservateur. Comme en atteste cette réponse sans appel adressée le 15 novembre 1945 à Katherine Marjory, duchesse écossaise d’Atholl, qui l’invitait à un meeting anti­communiste organisé par la Ligue pour la liberté européenne : « Je ne puis m’associer à une organisation essentiellement conservatrice, qui prétend défendre la démocratie en Europe, sans avoir un mot contre l’impérialisme britannique. » N’oubliant pas de préciser avec la plus grande netteté : « J’appartiens à la gauche et c’est en son sein que je dois travailler. » « Le risque avec une icône, c’est de s’attacher ­davantage à sa vie qu’à son œuvre », prévient Jean-Jacques Rosat, philosophe et auteur de Chroniques orwelliennes (Collège de France, 2013), qui a édité et préfacé trois de ses livres en français aux Éditions Agone. Impossible pourtant, avec Orwell, de dissocier sa vie de ses écrits.

      Victime et observateur de l’humiliation sociale

      Eric Arthur Blair est né dans une famille de la petite bourgeoisie britannique, le 25 juin 1903, au Bengale, où son père, Richard Walmesley Blair (1857-1939), s’occupe du ­commerce de l’opium au sein de l’administration coloniale. Sa mère, Ida Mabel Blair (1875-1943), née Limouzin­, était la fille d’un homme d’affaires français installé en Birmanie, propriétaire d’une plantation de teck. Il arrivait à cette femme indépendante et cultivée de prendre sous la dictée les premiers poèmes que son fils, inspiré par William Blake, écrivait dès l’âge de cinq ans, racontera plus tard l’écrivain dans Pourquoi j’écris (1946).

      Le jeune Eric Blair vécut également avec ses deux sœurs, Marjorie (1898-1946) et Avril (1908-1978) et gardera sans doute de l’atmosphère bucolique de ses vacances familiales en Cornouailles­ un goût prononcé pour la pêche et la nature qu’il traduira plus tard sous la forme d’une éthique dans l’une de ses chroniques : « Je pense que c’est en conservant notre amour enfantin pour les arbres, les poissons, les papillons, les crapauds… que l’on rend un peu plus probable la possibilité d’un avenir paisible et décent. » Mais l’auteur relate avant tout une enfance solitaire lors de laquelle il prit l’habitude de s’« inventer des histoires et de converser avec des personnages imaginaires ».

      Scolarisé en Angleterre, il fut très tôt sensible aux différences de classes, tour à tour victime et observateur de l’humiliation sociale. Roué de coups de cravache au collège de St Cyprian’s pour ses incontinences nocturnes, il gardera de cet épisode une profonde blessure, une aversion pour la toute-puissance du pouvoir de la surveillance et plus généralement l’impression de « perdre [son] temps » et de « gâcher [ses] talents » (« Tels, tels étaient nos plaisirs », 1947). Certains biographes ont vu en la personne du directeur de cette école huppée, surnommé « Sambo », autocrate qui favorisait les élèves les plus riches et, écrira Orwell, « menait la vie dure aux plus pauvres doués » dont « les cerveaux étaient considérés comme des mines d’or », les prémisses de Big Brother. À St-Cyprian’s, dans le sud de l’Angleterre, entre sa huitième et sa quatorzième année, Eric Blair fut ainsi sensibilisé au « système de castes » qui divisait les élèves entre la minorité des aristocrates millionnaires, le gros bataillon des bourgeois aisés et, dit-il, « le rebut » dont il faisait partie, notamment composé de fils de fonctionnaires de l’administration impériale.

      Un dominé chez les dominants

      Pensionnaire boursier du prestigieux collège d’Eton, de 1917 à 1921, il découvre et réprouve également le snobisme des public schools, ces écoles privées et prisées des élites qu’il proposera plus tard d’abolir dans Le Lion et la Licorne (1941). C’est toutefois dans ce prestigieux établissement du Berkshire qu’il dévore les auteurs qui feront partie de son panthéon personnel, comme H.G Wells et, bien sûr, Charles Dickens, l’auteur de David Copperfield, dont il fit plus tard l’éloge en forme d’autoportrait, imaginant le visage de l’écrivain derrière ses pages : « C’est le visage d’un homme qui ne cesse de combattre quelque chose, mais qui se bat au grand jour, sans peur, le visage d’un homme animé d’une colère généreuse, écrit-il dans un essai qu’il lui consacrera en 1939, une intelligence libre, un type d’individu également exécré par toutes les petites orthodoxies malodorantes qui se disputent aujourd’hui le contrôle de nos esprits. »
      Eric Blair rompt avec cette précaire méritocratie autoritaire. Sa route scolaire s’arrête et il n’empruntera pas la voie royale qui mène d’ordinaire cette élite à Oxford ou à Cambridge. Mais il gardera, jusque dans les bas-fonds de Paris ou de Londres, l’accent etonien qui marquera à jamais son appartenance à sa classe, même si Orwell est non pas un transfuge, mais un dominé chez les dominants, dirait une certaine sociologie aujourd’hui, un homme capable de circuler entre les mondes, les bourgeois et les prolétaires, les officiers et les ouvriers, les éditeurs et les mineurs.

      Il s’embarque pour la Birmanie en 1922 et devient officier de la police impériale des Indes, avant de démissionner en 1927, horrifié par « les visages gris et apeurés des détenus » et « les fesses zébrées des hommes châtiés à coups de bambous ». Sur le bateau qui le mène vers l’Asie, il prend à nouveau conscience des différences de classes devant le comportement d’un des quartiers-maîtres anglais « détalant comme un rat » afin de dévorer les restes d’un pudding pris illicitement par un steward sur la table d’un passager. Même ces « êtres quasi-divins » apparentés aux officiers ne sont pas épargnés par l’empire de la nécessité. « La stupeur qui me frappa à ce moment-là m’en apprit plus que ne l’aurait fait une demi-­douzaine de brochures socialistes », écrira-t-il dans une de ses chroniques données à Tribune (1947).
      Car l’auteur d’Une histoire birmane pense presque toujours à partir d’une expérience. Le futur Orwell n’est pas un homme de la théorie, ni seulement un faiseur de récit. C’est un écrivain à la pensée éprouvée. Et en Birmanie, les épreuves ne manquent pas. Il en tirera deux nouvelles et son premier roman, Une histoire birmane (1934), récit cinglant, drôle et cruel d’un employé d’une compagnie forestière égaré dans la jungle coloniale. Il assista un jour à une pendaison, qui lui parut « plus atroce que mille assassinats » et après laquelle il ne put jamais pénétrer à l’intérieur d’une prison « sans avoir l’impression que [sa] place était derrière les barreaux plutôt que devant ». Sans doute est-ce dans Comment j’ai tué un éléphant (1936), où le jeune officier relate la façon dont il fut contraint d’abattre un pachyderme pour préserver son statut face à la foule, qu’il décrit le mieux « la vacuité du règne de l’homme blanc en Orient ».

      La Birmanie fut sans doute le baptême de sa conscience européenne blessée. Non pas seulement l’occasion de verser un « sanglot de l’homme blanc » moqué par les néoconservateurs, mais une prise de conscience graduée, suivie d’une critique raisonnée de l’impérialisme et de « toute forme de domination de l’homme par l’homme ».

      Enquêtes en immersion, puis à visage découvert

      Pour en comprendre les ressorts, l’officier rincé par cinq années de service au sein de l’empire a besoin d’effectuer « une véritable plongée ». C’est pourquoi il démissionne en 1927 et rejoint l’Europe où il va vivre, de 1929 à 1931, avec les paumés et les travailleurs paupérisés, les mendiants et les chapardeurs, le prolétariat en haillon des vagabonds et des cueilleurs de houblon. Installé rue du Pot-de-fer à Paris, dans un quartier latin populaire, il devient plongeur dans les cuisines d’un grand hôtel parisien de la rue de Rivoli et en observe la sévère hiérarchie. Lui comme ses pairs sont « astreints à un travail épuisant, qui n’offre aucune perspective d’avenir » et leur « horizon [est] parfaitement bouché ». Ainsi, écrit-il, « le plongeur est l’un des esclaves du monde moderne ». Il poursuit son enquête à Londres, se grime, joue la comédie et dort dans les asiles de nuit avant de partir dans le Kent ramasser le houblon, dans des plantations « où les lois sur le travail des enfants sont outrageusement bafouées », reste toutes les journées débout au point de se « sentir réduit à l’état de véritable loque ». C’est à cette époque qu’il prend son nom de plume et devient George Orwell, du nom d’un fleuve du Suffolk qui se jette dans la mer à cinquante kilomètres de la maison où vivaient ses parents, et publie sous ce pseudonyme

      Dans la dèche à Paris et à Londres (1933).

      Orwell se réapproprie le récit d’immersion, notamment adopté par Jack London dans Le Peuple de l’abîme (1903), qui consiste à partager la vie de ceux que l’on souhaite approcher et même à se faire passer pour un des leurs. Une méthode notamment prolongée par le journaliste allemand Günter Wallraff, l’auteur de Tête de turc (La Découverte, 1985), qui prit l’identité d’un travailleur immigré sans carte de travail et révéla les brimades et l’exploitation dont faisait l’objet cette communauté précarisée en Allemagne. Une approche employée dans d’autres enquêtes menées parmi les SDF et tous « les perdants du meilleur des mondes ». Une manière d’être au plus près des classes populaires, d’en partager les travaux et les jours, témoigner de leur décence ordinaire. Mais sans prétendre pour autant faire partie de leur monde, sans s’illusionner sur cette proximité momentanée. Une démarche qui inspirera également la journaliste française Florence Aubenas qui travailla comme femme de ménage dans les ferrys du Quai de Ouistreham (Éditions de l’Olivier, 2010), titre choisi en référence au Quai de Wigan, que publiera Orwell en 1937.

      Car, après des années à chercher du boulot et parfois à en trouver, notamment comme libraire, mais aussi à vouloir percer dans le monde littéraire avec des romans sans succès, comme La Fille du clergyman (1935) ou Et vive l’aspidistra ! (1936), Orwell repart, cette fois-ci, dans le Lancashire et sa région minière. Toujours pour le compte de son éditeur, Victor Gollancz, qui lui commande, en 1936, une enquête sur la condition de la classe ouvrière et sur les chômeurs du nord de l’Angleterre. Pas de masque ni d’identité d’emprunt cette fois-ci. Orwell enquête deux mois durant à visage découvert. Il descend notamment dans la profondeur des mines de charbon et « découvre l’enfer » de ces cavités à l’air vicié où « rugissent » les machines actionnées par des mineurs qui doivent « rester en permanence à genoux ». Il montre comment « le travail presque surhumain » de ceux d’en bas est « la contrepartie obligée de notre monde d’en haut ».

      La décence ordinaire

      C’est dans Le Quai de Wigan (1937) que George Orwell forge son concept de « common decency », cette propension de l’homme ordinaire à la générosité, au respect, à l’entraide et à la solidarité, particulièrement répandue dans les classes populaires. Non pas une supériorité morale des pauvres, mais « une profonde humanité qu’il n’est pas facile de retrouver ailleurs­ », écrit-il. « Cherchant l’humiliation, il découvre l’humilité », résume le philosophe Bruce Bégout, selon qui la décence ordinaire est, chez Orwell, « le revers de l’apparente indécence publique » des puissants (De la décence ordinaire, Allia, 2019).
      Mais la seconde partie de l’ouvrage révèle un reporter réflexif, un journaliste critique, un observateur engagé à la plume aiguisée. Orwell mène une analyse sans concession de l’avenir du socialisme auquel il restera attaché jusqu’à la fin de sa vie. « Le mouvement socialiste a autre chose à faire que de se transformer en une association de matérialistes dialectiques ; ce qu’il doit être, c’est une ligue des opprimés contre les oppresseurs », écrit-il à l’usage des marxistes s’adonnant au « culte sans réserve de la Russie. » Orwell propose même une alliance par-delà les différences.

      L’écrivain, qui a « reçu une éducation bourgeoise » mais qui était contraint de « vivre avec un revenu d’ouvrier », y explique que « des classes distinctes peuvent et doivent faire front commun ». Tous « ceux qui courbent l’échine devant un patron ou frissonnent à l’idée d’un prochain loyer à payer » doivent « unir leur force », enjoint-il. Ce qui revient à dire que « le petit actionnaire doit tendre la main au manœuvre d’usine, la dactylo au mineur de fond, le maître d’école au mécano ». Une alliance qui, pour beaucoup, reste largement d’actualité, en dépit des changements survenus dans les corps de métiers.
      Une autre conviction s’ancre dès cette expérience fondatrice : « Le socialisme, c’est l’abolition de la tyrannie, aussi bien dans le pays où l’on vit que dans les autres pays. » Or le stalinisme se déploie. Et le fascisme s’étend. En Italie, bien sûr, avec Mussolini. Mais aussi en Angleterre, avec la British Union of Fascists d’Oswald Mosley, qui sera interdite en 1940 et dont le leader sera emprisonné pendant la guerre. En Allemagne, le parti national-­socialiste d’Adolf Hitler répand la terreur d’État depuis 1933. Sans oublier l’Espagne où les Républicains se battent sans le soutien des démocraties française et britannique contre les phalanges franquistes armées par les fascistes et les nazis.

      Le cottage aux animaux

      Marié depuis 1936 à Eileen O’Shaughnessy, une femme de gauche au « visage de chat », Orwell s’installe en couple dans un modeste cottage sans électricité ni salle de bains, s’occupe d’un poulailler et d’un potager entouré de chèvres qu’il trait au petit matin et d’un chien ironiquement appelé « Marx ». Après s’être cherché durant des années, il s’est enfin trouvé. Dans sa vie, son style et ses écrits. Et décide de partir en Espagne. Non seulement pour raconter et témoigner, mais pour « combattre le fascisme ». De passage à Paris, avant de prendre le train pour Barcelone, l’écrivain Henry Miller tente de l’en dissuader. En vain. Lui laissant sa veste en velours qu’Orwell gardera tout au long de son expédition catalane. Il faut dire qu’il en aura besoin, tant le front d’Aragon est, en hiver, balayé par la neige, les vents froids et « le claquement glacé des balles ».

      George Orwell arrive à Barcelone en décembre 1936 et s’engage dans les milices du Parti ouvrier d’unification marxiste (POUM), organisation fondée en 1935 par Andrés Nin qu’il rejoint en raison de sa proximité avec l’Independant Labour Party, auquel Orwell adhère de juin 1938 à septembre 1939. Les drapeaux rouges des communistes, les fanions rouges et noirs des anarchistes qui tournoient dans les rues de Barcelone, les conversations lors desquelles tout le monde se tutoie, les différences sociales qui semblent soudainement abolies, les liesses lors desquelles des militants fraternisent, le grisent.
      Incorporé sur le front d’Aragon, dans la région de Saragosse et de Huesca, où il est nommé caporal, Orwell mène une guerre de tranchée avec de vieux fusils rouillés, guette les troupes ennemies en face de montagnes « grises et plissées comme la peau des éléphants », patrouille dans des « vallées obscures » où « les balles perdues passaient en sifflant comme des bécasseaux ». Le froid, les rats, l’attente. Une nuit, il tient un fasciste dans le viseur de son vieux Mauser. Mais il n’abat pas cette estafette franquiste en raison d’un détail qui interrompt son geste : l’homme tient dans sa main son pantalon. « J’étais venu pour tirer sur des fascistes ; mais un homme qui tient son pantalon n’est pas un fasciste, il est un être humain », écrira-t-il. Quatre mois plus tard, une permission le ramène à Barcelone où l’atmosphère a changé. Les distinctions sociales sont de retour et les divisions politiques éclatent au grand jour. Dans ces journées de mai 1937, la ville n’est plus, à l’image des milices qu’il a intégrées, ce « microcosme de la société sans classe » où « personne ne léchait les bottes à quelqu’un », mais une poudrière où les communistes s’affrontent aux anarchistes et aux poumistes.

      De retour sur le front d’Aragon, une balle fasciste lui traverse la gorge et Orwell échappe presque miraculeusement à la mort. Quand il revient à Barcelone, il découvre que les communistes ont obtenu que le POUM soit interdit par le gouvernement républicain. Ses membres sont ainsi arrêtés et emprisonnés. Les anciens alliés anarchistes et poumistes sont accusés d’espionnage, de trahison et de « complot trotskiste », à l’image du commandant de l’unité de sa milice, Georges Kopp (1903-1951), qui passera dix-huit mois dans les prisons républicaines. Eileen, venue rejoindre son mari et travailler au sein du bureau catalan de l’ILP, lui apprend qu’il est recherché. Orwell se cache pendant trois jours avant de réussir à partir, avec l’aide du consulat britannique.
      Une santé qui se dégrade
      Barcelone, Banuyls, puis Paris, avant de rejoindre le sud de l’Angleterre, « le plus onctueux paysage du monde ». Sur le trajet, une envie, perçue comme une « folie », lui traverse l’esprit : « retourner en Espagne ». Car malgré « l’épouvantable désastre » d’une « guerre politique », cette expérience inoubliable accroît sa « foi » dans la « dignité humaine ». George Orwell restera en quête d’un « trésor », un peu comme les maquisards selon René Char car, dit le poète, celui qui « a épousé la Résistance, a découvert sa vérité ». Orwell cherchera à retrouver cet élan malgré l’effondrement d’une Europe plongée dans de « sombres temps », une expression d’Hannah Arendt (1906-1975) qui estime que « l’histoire des révolutions pourrait être racontée sous la forme d’une parabole comme la légende d’un trésor sans âge qui, dans des circonstances les plus diverses, apparaît brusquement, à l’improviste, et disparaît de nouveau dans d’autres conditions mystérieuses, comme s’il était une fée Morgane ».

      Autant marqué par ce surgissement de la liberté que par la dérive totalitaire de certains révolutionnaires, Orwell a donc regagné une Angleterre plongée dans un « profond sommeil » et dont il craint qu’elle n’en soit arrachée par le vrombissement des bombes. Celles-ci ne tardent pas à tomber. En 1940, il assume pleinement son patriotisme sans renier pour autant son socialisme égalitaire. Et explique pourquoi, malgré son opposition politique aux tories, il a « choisi l’Angleterre », ce qui ne l’empêche pas de tonner contre « ces libéraux à la bouche fleurie qui attendent la fin de la Seconde Guerre mondiale pour toucher tranquillement leur dividende ». Il devient chroniqueur à la BBC, puis pour Tribune, le journal de l’aile gauche du Parti travailliste, et collaborateur de nombreuses revues. Il s’engage dans la Home Guard, organisation combattante composée de civils destinée à protéger le pays contre un potentiel débarquement allemand.

      En 1944, il adopte avec sa femme un fils, Richard Blair, qui préside aujourd’hui la Fondation Orwell et la Orwell society. En 1945, il publie La Ferme des animaux, chez Secker & Warburg, devenu son éditeur depuis les réserves émises par Gollancz sur ses analyses critiques de l’orthodoxie marxiste. Mais Eileen meurt la même année d’un cancer. Désemparé, Orwell se mettra rapidement en quête d’une épouse, notamment pour faire face à l’adversité, car l’avenir de sa paternité est menacé par une santé dégradée depuis qu’une sévère tuberculose a été détectée.

      « Mon erreur fondamentale »

      Ce sera Sonia Brownell (1918-1980), personnalité en vue du milieu littéraire et artistique, qui fut l’assistante de son ami Cyril Connolly à Horizon, la grande revue culturelle de l’époque, avec qui Orwell se marie en 1949, trois mois seulement avant sa mort. La même année paraît le roman 1984, qu’il termine à Barnhill, sur l’île écossaise de Jura, où il s’installe avec son tout jeune fils adoptif Richard. Sa sensibilité au mépris de classe s’aiguise presque jusqu’au dernier souffle et, dans une note du 17 avril rédigée au sanatorium de Cranham, Orwell raille encore la « satiété ronflante », la « sotte assurance » et la « lourdeur repue » des membres des classes huppées dont il entend les voix à l’hôpital. « Pas étonnant que tout le monde nous haïsse autant », conclut-il. Mais, rongé par la maladie, il n’aura pas le temps de connaître l’immense succès de son dernier livre, qu’il hésitait à titrer Le Dernier Homme en Europe, puisqu’il meurt le 21 janvier 1950, d’une hémorragie pulmonaire massive.

      Anticolonialiste dès la fin des années 1920, antitotalitaire dans les années 1930, patriote révolutionnaire dès 1940, socialiste radical et défenseur des libertés politiques jusqu’à sa mort, Orwell est doté d’un sens de l’histoire et d’une pensée de l’événement hors du commun. Une acuité politique remarquable qui le conduisit à être le premier auteur à forger la notion de « guerre froide » : « Il se pourrait que nous n’allions pas vers l’effondrement général, mais vers une époque aussi atrocement stable que les empires esclavagistes de l’Antiquité », écrit-il dans l’une de ses chroniques à Tribune (« La bombe atomique et vous », 9 octobre 1945). L’arme nucléaire contribuerait en effet à renforcer un certain type d’État qui serait « en même temps invincible et dans une situation permanente de « guerre froide » avec ses voisins », poursuit-il.
      Gare, toutefois, à ne pas transformer Orwell en « objet d’une vénération sirupeuse », prévient l’écrivain Christopher Hitchens, qui publia Dans la tête d’Orwell (Saint-Simon, 2019). Orwell n’est pas un saint qui ne se serait jamais trompé. Correspondant londonien à partir de janvier 1941 de Partisan Review, revue politico-littéraire de la gauche radicale américaine, Orwell reconnut notamment ses erreurs d’interprétation lors de la Seconde Guerre mondiale. Dans l’une de ces Lettres de Londres datée de décembre 1944, il admet s’être « grossièrement trompé » jusqu’en 1942. Son « erreur ­fondamentale », explique-t-il, a été de « croire qu’il était impossible de gagner la guerre sans ­démocratiser la manière de la mener ».

      Dès l’automne 1940, en effet, il avait avancé l’idée du patriotisme révolutionnaire, résumée en deux formules : on ne peut espérer faire la révolution un jour en Angleterre si on ne gagne pas la guerre. En effet si Hitler gagne, toute perspective de révolution socialiste disparaît, ce pour quoi il est violemment hostile au pacifisme, notamment celui de ses amis anarchistes. Mais on ne peut espérer gagner la guerre si on ne fait pas la révolution, si une alliance des ouvriers et des classes moyennes ne chasse pas du pouvoir la vieille classe dirigeante britannique.

      Le milieu littéraire boude Orwell

      C’est de la fausseté de cette seconde formule qu’Orwell prend conscience à la fin de l’année 1942. Exemplaire jusque dans la reconnaissance de ses erreurs d’appréciation, il écrit à la fin d’Hommage à la Catalogne, ouvrage qui dessilla les yeux de toute une génération sur la mainmise des staliniens sur la révolution : « Méfiez-vous de ma partialité, des erreurs sur les faits que j’ai pu commettre, et de la déformation qu’entraîne forcément le fait de n’avoir vu qu’un coin des événements. »
      Le succès de George Orwell repose aussi sur l’accessibilité et la limpidité de sa prose. C’est « un écrivain au style clair, précis et direct », observe Bruce Bégout. Loin de l’avant-gardisme de James Joyce ou d’Henry Miller, qu’il admirait et dont il lui arriva d’imiter maladroitement le style dans ses premiers romans, « Orwell écrit sans afféterie ni formalisme littéraire ».

      L’ambition d’Orwell est claire : il s’agit de « faire de l’écriture politique un art », explique-t-il dans Pourquoi j’écris (1946). Ce qui le « pousse au travail », c’est toujours « le sentiment d’une injustice, et l’idée qu’il faut prendre parti ». Pourtant, tient à ajouter Orwell, il lui serait « impossible d’écrire un livre » si cela ne représentait également « une expérience esthétique ».

      Un art du roman « imperméablement fermé à la poésie », lui reproche pourtant Milan Kundera­. Pour l’auteur des Testaments trahis (Gallimard, 1993), non seulement 1984 est un « mauvais roman », car « les situations et les personnages y sont d’une platitude d’affiche », mais cet ouvrage « fait lui-même partie de l’esprit totalitaire » puisqu’il réduit la vie à la politique, en l’occurrence celle d’une société haïe, « en la simple énumération de ses crimes ». Une posture également raillée par le romancier Claude Simon qui, dans le chapitre IV des Géorgiques (Minuit, 1981), réécrit Hommage à la Catalogne mais pour le déconstruire. Plébiscité par le grand public, Orwell fut longtemps boudé par le milieu littéraire, qui lui préférait Kafka ou Zamiatine.

      Mais la grande partie des écrits d’Orwell ne sont pas fictionnels. Ce sont des articles et des essais qui témoignent d’un goût de l’enquête réflexive et de la pensée informée. « Il y a du Montaigne en Orwell, analyse Bruce Bégout, l’idée qu’il faut aller voir les choses par soi-même et que connaître, c’est sortir de soi. » Une littérature de témoignage et d’engagement qui enthousiasme un public fervent. Des écrits qui apportent « un peu d’air frais », pour reprendre le titre d’un roman d’Orwell (1939), et tranchent avec les textes « théoricistes » de la radicalité savante et militante.

      Autre usage important et de plus en plus fréquent d’Orwell, sa critique de la société industrielle, déjà soulignée par Jaime Semprun dans L’Abîme se repeuple, ouvrage paru en 1997 à l’Encyclopédie des nuisances qui publia avec les éditions Ivrea, les Essais, Articles et lettres d’Orwell en France. Une lecture renforcée aujourd’hui par la prise de conscience de l’urgence écologique, au point que certains lecteurs le situent dans la famille des « précurseurs de la décroissance ». Sa sensibilité à la nature est évidente et son aversion contre la « mécanisation de la vie » est flagrante, en effet, comme en atteste sa critique des « lieux de loisirs », bulles de vacances artificielles qu’on imagine à l’époque, où l’« on n’est jamais en présence de végétation sauvage ou d’objets naturels de quelque espèce que ce soit ».

      Récupéré par les conservateurs

      Depuis quelques années, Orwell est loué dans la sphère conservatrice jusqu’à faire l’objet d’une véritable opération de récupération. C’est la notion de « décence ordinaire », cette morale des classes populaires selon lui instinctivement capables de distinguer « ce qui se fait » de « ce qui ne se fait pas », tout comme sa loyauté au gouvernement de son pays pendant la guerre, qui séduit une partie des conservateurs, inspirés par le travail du philosophe Jean-Claude Michéa, qui portraiture Orwell en « anarchiste tory ». Mais aussi parce que l’auteur de 1984 aimait à dire que « parler de liberté n’a de sens qu’à condition que ce soit la liberté de dire aux gens ce qu’ils n’ont pas envie d’entendre ». Il serait donc l’intellectuel incorrect, l’écrivain anti-« bien-pensant ». Orwell, en effet, savait parfaitement tancer son camp et notamment brocarder les « compagnons de route ».

      Mais son souci des autres désarmerait les adversaires les plus caricaturaux du « politiquement correct » et du « wokisme » qui font de l’antiracisme un nouveau communisme : « quiconque est informé d’un cas avéré de discrimination raciale doit systématiquement le dénoncer », écrivait-il ; son anticolonialisme viscéral, éclos lors de ces cinq années passées dans la police impériale des Indes, désemparerait aujourd’hui les pourfendeurs de la « repentance » postcoloniale : « Nous oublions qu’à l’autre bout du monde il y a toute une série de pays qui attendent d’être libérés » ; son égalitarisme déstabiliserait les modernes rentiers : « Pendant près de trois ans, les squares sont restés ouverts et leur gazon sacré a été piétiné par les enfants de la classe ouvrière, dit-il à propos des grilles qui avaient été retirées des parcs privés pendant la guerre. Une vision à faire grincer les dentiers des boursicoteurs. Si c’est du vol, alors tout ce que je peux dire, c’est : “ Vive le vol !”. »

      Orwell resta indéfectiblement de gauche et anticolonialiste jusqu’à ses derniers jours, européen favorable même à des « États-Unis socialistes d’Europe ». En un mot qui pourrait s’adresser à la droite libérale et autoritaire comme à ses intellectuels affidés : « Personne ne s’attend à ce que le parti tory et ses journaux nous apportent des lumières. »

      Plébiscitée, mais encore largement méconnue, l’œuvre de George Orwell reste d’une grande actualité. Elle invite surtout à faire vivre l’esprit critique, comme il le fit à l’égard de son camp dont il ne cessa de brocarder les facilités de pensée. « Le remplacement d’une orthodoxie par une autre n’est pas nécessairement un progrès. Le véritable ennemi, c’est l’esprit réduit à l’état de gramophone, et cela reste vrai que l’on soit d’accord ou non avec le disque qui passe à un certain moment », ­écrivait-il en 1945. Elle invite aussi ses lecteurs à sortir de l’entre-soi. À l’heure où le séparatisme social s’est particulièrement renforcé, elle affirme avec constance que « rendre les gens conscients de ce qui se passe en dehors de leur propre petit cercle » demeure l’« un des principaux problèmes de notre temps ».

  • Israël : Ursula von der Leyen, la bourde permanente – Libération
    https://www.liberation.fr/international/europe/israel-ursula-von-der-leyen-la-bourde-permanente-20231015_24YINO2VDZAH3G4
    https://www.liberation.fr/resizer/MMUWd9MAXfdvJT6EEeCWbZCht0U=/1200x630/filters:format(jpg):quality(70):focal(3450x1227:3460x1237)/cloudfront-eu-central-1.images.arcpublishing.com/liberation/IKSQQKWC2FDSHH5IGRFMLSQ62Q.jpg

    Lors de sa visite improvisée en soutien à Israël vendredi 13 octobre, la présidente de la Commission européenne a largement dépassé ses fonctions, sans aucun mandat des Vingt-Sept.

    Si quelqu’un a la suite de l’article ?

    • l’Europe « hongroise »

      #Benyamin_Nétanyahou n’en a sans doute pas cru ses oreilles lorsqu’#Ursula_von_der_Leyen a proclamé, urbi et orbi, à l’issue de leur rencontre à Tel-Aviv, vendredi 13 octobre, qu’#Israël avait « le droit » et « même le devoir de défendre et de protéger sa population » après l’attaque terroriste des islamistes du #Hamas. C’est peu dire que les capitales européennes, mais aussi les responsables communautaires soigneusement tenus à l’écart, se sont étranglés de fureur en découvrant ces propos qui ne reflètent que « la sensibilité personnelle » de Von der Leyen, selon les mots d’un ambassadeur, et absolument pas la position de l’Union, la présidente de la Commission n’ayant aucune compétence en matière de politique étrangère. Mais le mal est fait : pour l’ensemble du monde, et notamment le monde arabe, peu au fait des subtilités de l’architecture institutionnelle communautaire, l’#UE a proclamé son alignement sans réserve sur un gouvernement israélien dirigé par un boutefeu de droite radicale engagé dans une opération de représailles sanglantes. D’autant que ce dérapage intervient après la tentative de la Commission de suspendre l’aide européenne aux #Palestiniens en début de semaine [revirement : vu les besoins actuels tout à faits... croissants, l’aide a depuis été multipliée par 5 -humanitaire only ?, l’UE ayant pour habitude de financer des pansements de la destructice politique israélienne, ndc]. Un cauchemar diplomatique.

      Pis encore, l’ancienne ministre allemande de la Défense n’a manifesté aucune compassion pour les civils palestiniens pris dans la tourmente de cette guerre éternelle [c’est Jean Quatremer..., ndc]. Elle s’est même abstenue de tout appel à la retenue dans la riposte, comme l’ont [très vaguement, ndc] fait les Etats-Unis [qui outre de nouvelles livraison d’armes à Israël, envoient un 2eme porte avions et préparent des forces d’élite en appui, officiellement pour dissuader Hezbollah et Iran, ndc] alors que le nombre de morts et de blessés ne cesse d’augmenter dans la bande de Gaza. « Je souscris pleinement à votre appel au Hamas pour qu’il libère immédiatement tous les otages et qu’il renonce totalement à prendre des civils comme boucliers, ce que le Hamas fait constamment », a-t-elle affirmé, rendant ainsi implicitement responsable des morts à venir le seul Hamas qui « constitue une menace non seulement pour Israël, mais aussi pour le peuple palestinien ».

      A #Bruxelles, #Eric_Mamer, le porte-parole de la Commission ou de Nétanyahou – on ne sait plus trop –, en a remis une couche sur les propos guerriers de sa patronne en expliquant à quel point #Tsahal respecte le #droit_humanitaire : « Les civils doivent être prévenus et alertés de l’imminence des opérations militaires, ce qui leur permet de partir. C’est ce que fait Israël. » Bien sûr, si le Hamas « empêche les gens de partir et les utilise comme bouclier humain », ça ne sera pas bien, mais que peut-on y faire ? Fermez le ban !

      Plantage

      Le problème est qu’Ursula von der Leyen a franchi une ligne rouge en interférant ainsi dans la politique étrangère de l’Union et dans celle des Etats membres . En effet, elle s’est non seulement rendue en Israël sans aucun mandat des Vingt-Sept, mais sans prévenir qui que ce soit [et pourtant, elle n’est pas hongroise, ndc] : Josep Borrell, le chef de la diplomatie de l’Union, et Charles Michel, le président du Conseil européen des chefs d’Etat et de gouvernement, les deux seules personnes ayant des compétences dans le domaine de la politique étrangère, ont appris son déplacement par des rumeurs puis par la presse. Selon nos informations, Von der Leyen, apprenant que la Maltaise Roberta Metsola, la présidente du Parlement européen, allait se rendre en Israël à l’invitation de la Knesset, s’est imposée dans son avion…

      Le téléphone a manifestement chauffé au rouge entre les capitales et Bruxelles. Samedi en fin d’après-midi, elle a donc annoncé que l’UE allait augmenter son aide humanitaire de 50 millions d’euros, et a enfin fait un peu de diplomatie : « La Commission soutient le droit d’Israël de se défendre contre les terroristes du Hamas, [mais] dans le plein respect du droit humanitaire international. Nous mettons tout en œuvre pour que les civils innocents de Gaza reçoivent un soutien dans ce contexte. »

      Ce plantage de Von der Leyen n’est pas le premier, mais c’est sans aucun doute le plus monumental. Car, depuis le début de son mandat, elle se prend pour la présidente de l’Union, ce qu’elle n’est pas, et a donc lancé une OPA sur les compétences de Charles Michel et de Josep Borrell, qu’elle déteste (mais on se demande qui elle ne déteste pas). Elle n’a manifestement pas compris qu’il n’y a pas de politique étrangère autonome de la Commission et que l’Union n’a une politique étrangère que dans les domaines où il y existe un consensus, comme sur l’Ukraine, mais pas sur le Proche-Orient.

      Il faut cependant reconnaître que l’Espagne, qui n’a toujours pas de gouvernement, est largement responsable de ce cafouillage : dès le lendemain des massacres du 7 octobre, Madrid, qui exerce la présidence tournante du Conseil des ministres, aurait dû convoquer les 27 ambassadeurs de l’Union pour arrêter les grandes lignes de la réponse européenne. Ou un Conseil européen des chefs d’Etat et de gouvernement comme la présidence française l’a fait deux jours après le début de la guerre en Ukraine. Ce que l’#Espagne n’a pas fait, en dépit des demandes de plusieurs Etats membres, laissant ainsi la Commission libre de se livrer à des improvisations catastrophiques. Reste à savoir si les Etats s’en souviendront en juin, lorsqu’il faudra renouveler le mandat de Von der Leyen.

      #Europe (la phénicienne a mal tourné)

    • Le déplacement de von der Leyen en Israël provoque une nouvelle tempête au sein de l’UE
      https://www.lefigaro.fr/international/le-deplacement-de-von-der-leyen-en-israel-cree-une-nouvelle-tempete-au-sein

      « Je convoque un Conseil européen extraordinaire pour définir une position commune et une ligne d’action claire et unifiée ». Charles Michel a annoncé samedi soir une réunion en urgence des Vingt-Sept. Elle aura lieu mardi, en fin d’après-midi, par visio.

      C’est une réponse directe au récent déplacement d’Ursula von der Leyen en Israël. Sur place vendredi, lors de ses entretiens avec le premier ministre israélien Benyamin Netanyahou ni lors de ses prises de parole publique, la présidente de la Commission européenne n’avait pas évoqué la question brûlante de l’évacuation risquée de Gaza ordonnée par Israël et plus largement le devoir d’Israël de respecter le droit international, n’insistant que sur le droit de ce pays à répliquer aux « atrocités commises par le Hamas ».

    • @kassem l’article cité est de Ration. Outre celui du Figaro également cité, Les échos semble rester allusif (mais #paywall)
      Israël-Hamas : les Vingt-Sept cherchent à unifier leurs positions
      https://www.lesechos.fr/monde/europe/israel-hamas-les-vingt-sept-cherchent-a-unifier-leurs-positions-1987194

      https://media.lesechos.com/api/v1/images/view/652be35debce0a406947f8d7/1024x576-webp/0902817241173-web-tete.webp
      (c’est du webp... sur fond de mur ocre criblé d’impacts elle est entourée, l’air pincé, de gradés de Tsahal équipé et en gilets pare balle)

      Le 13 octobre, Les présidentes du Parlement européen et de la Commission européenne, Roberta Metsola et Ursula von der Leyen, se sont rendues en Israël pour une visite qui a créé la polémique. (Union Européenne/Hans Lucas/AFP)

      Le Président du Conseil européen convoque une réunion extraordinaire des leaders de l’UE pour mardi 17 octobre. Il s’agit d’envoyer un message commun qui resserre les rangs après une semaine de cacophonie.

      @arno la dame semble plutôt en campagne pour un deuxième mandat : Union européenne : la discrète entrée en campagne d’Ursula von der Leyen
      https://www.lemonde.fr/international/article/2023/04/22/union-europeenne-la-discrete-entree-en-campagne-d-ursula-von-der-leyen_61705

  • Nanon - Georges Sand - Etude critique - Extraits #paywall

    Nanon est l’un des derniers romans de George Sand. Tout du moins, c’est sa dernière œuvre majeure. Il est d’ailleurs assez étonnant de constater qu’il n’est pas vraiment considéré comme tel. Ecrit tardivement, Nanon paraît en 1872, peu après le traumatisme que la Commune a causé à George Sand., Ce roman est le plus souvent injustement limité à une idylle amoureuse et à un hymne champêtre à la gloire de sa campagne ou à une sorte de conte de fées révolutionnaire. Pourtant, Nanon, histoire de la réussite sans tache d’une jeune paysanne libérée par la Révolution représente bien plus que ça. Sorte de testament, et véritable apologue des idéaux sandiens, le roman est l’illustration parfaite que George Sand fait de la littérature autrement. La grande idée du progrès moral de l’humanité, inspirée de Rousseau, domine cette œuvre totale, qui multiplie les étiquettes avec brio. Quoi qu’il en soit, Nanon ne peut pas laisser de marbre. L’objet de cet avis argumenté sera de démontrer que Nanon doit être considéré comme une œuvre aux multiples facettes, qui est importante dans la bibliographie de George Sand. Il sera intéressant, dans un premier temps, de montrer à quel point George Sand s’est attachée à faire de Nanon un roman à la diversité très riche en multipliant les genres, avant de s’attarder plus précisément au savoureux mélange entre le réalisme contemporain, et son romantisme latent. Enfin, nous établirons que Nanon est avant tout un roman politique et social, empreint d’idéalisme et d’optimisme.

    - Diversité des genres
    - Entre réalisme et romantisme
    - Un roman politique et social empreint d’idéalisme et de positivisme

    Extraits

    [...] Peu importe le nom, Sand dépeint le monde dans sa réalité, comme le dit Sainte-Beuve. Le style très agréable des descriptions champêtres de Nanon, renforce d’une certaine manière son réalisme, parce que Sand nous donne véritablement l’impression d’accompagner les personnages dans une excursion, notamment lorsqu’au milieu du roman, Nanon, Emilien et Dumont s’installent, tels des Robinsons, dans une forêt déserte du Berry, près de Crevant. Les descriptions de la vie paysanne et de ses drames se font de la même manière. [...]

    [...] Enfin, Nanon est un roman qu’on pourrait qualifier de roman historique. À ceci près que l’Histoire est analysée de façon subjective dans l’autobiographie fictive d’une jeune paysanne, ce qui est tout à fait singulier. Contrairement à des romans historiques tels que Don Carlos qui mettent en scène des personnages réels, Sand choisit de faire une peinture de l’histoire à travers les yeux de cette petite fille non instruite, puis de la jeune femme future marquise, avec l’évolution que cela incombe. [...]

    [...] Nanon a toutes les qualités morales que Louise n’a pas. On peut citer Nanon à la page 281 qui dit que la femme donne toujours raison et autorité à celui qu’elle aime Grâce à sa fidélité, Nanon s’en sort. La consécration pour elle sera l’héritage du prieur, et le mariage avec Emilien. Toutefois, même Louise et Costejoux s’en sortent honorablement, preuve une fois de plus du positivisme du roman. Pour ces raisons, Nanon est peut être également un écho à la Cosette des Misérables de Victor Hugo, qui dans sa postface, dit : Tant qu’il existera, par le fait des lois et des mœurs, une damnation sociale créant artificiellement, en pleine civilisation, des enfers, et compliquant d’une fatalité humaine la destinée qui est divine ; tant que les trois problèmes du siècle, la dégradation de l’homme par le prolétariat, la déchéance de la femme par la faim, l’atrophie de l’enfant par la nuit, ne seront pas résolus ; tant que, dans de certaines régions, l’asphyxie sociale sera possible ; en d’autres termes, et à un point de vue plus étendu encore, tant qu’il y aura sur la terre ignorance et misère, des livres de la nature de celui-ci pourront ne pas être inutiles. [...]

    [...] Et par la suite il y’ aura une véritable émulation intellectuelle mutuelle entre eux deux traduite par de très nombreux débats sur lesquels nous reviendront plus tard. À l’époque, l’éducation est primordiale, et les paysans (et encore moins les femmes) ne sont pour la plupart pas instruits. Or, pour Sand, l’éducation est gage de réussite sociale. En outre lorsque que l’on voit, dans cette histoire l’efficacité toute relative du clergé, dont le rôle était, entre autres, de propager les nouvelles, on comprend la nécessité de savoir lire. [...]

    https://www.pimido.com/philosophie-et-litterature/litterature/fiche-de-lecture/nanon-g-sand-etude-critique-507307.html

    • Nanon, sujet de l’Histoire ? De la scène traumatique à la scène fraternelle
      https://books.openedition.org/ugaeditions/4854?lang=fr

      « Le récit des souffrances et des luttes de la vie de chaque homme est […] l’enseignement de tous ; ce serait le salut de tous si chacun savait juger ce qui l’a fait souffrir et connaître ce qui l’a sauvé », écrit George Sand dans Histoire de ma vie (t. I, p. 10). C’est un tel récit qu’entreprend l’auteure avec la rédaction de Nanon, roman écrit à la suite du drame sanglant de la Commune. Deux histoires s’écrivent à travers les souvenirs de l’héroïne éponyme : l’histoire de son ascension sociale, qui combine son accès à la propriété et à la culture, et son mariage avec un aristocrate ; et, en filigrane, l’histoire du traumatisme fondateur d’une société. En reconstruisant ses souvenirs, Nanon peint en effet l’arrière-plan historique de sa transformation, faisant ainsi revenir une histoire refoulée : celle de l’effacement des femmes et de l’instance féminine par le discours de la fraternité. Mais cet effacement, qui fut un véritable traumatisme collectif, met aussi en jeu la séparation d’avec sa mère dont souffrit la jeune Aurore. Dans cette étude, je me propose donc de lire Nanon comme une double réécriture des événements de la Révolution et de l’histoire familiale de l’auteure. Je montrerai que par la mise en scène de l’histoire révolutionnaire, Sand vise à réparer cette suppression de la mère d’origine humble et qu’elle le fait justement à travers la venue à la lecture et à l’écriture de Nanon. Dans le même geste, elle imagine une nouvelle fraternité qui prend en compte la matérialité du corps maternel tout en valorisant la terre et la fécondité.
      La Révolution française comme traumatisme

      De la remémoration à la réparation

      Terre et maternité dans Nanon

      Dans Nanon, Sand restaure le poids matériel du rôle maternel grâce à sa vision d’une fraternité où l’instance maternelle est reliée à la propriété et à la terre. D’origine paysanne, Nanon insiste sur ses racines et sur le lien profond à la terre qu’elles impliquent : « Je peux dire comment le paysan voit les choses, puisque je suis de cette race-là. Il considère avant tout, la terre qui le nourrit, et le peu qu’il en a est pour lui comme la moitié de son âme […]. » (N, p. 34) Le roman souligne ainsi les liens entre propriété et citoyenneté dans la République fraternelle. L’achat des terres nobles et ecclésiastiques sous la Révolution est au centre du roman. C’est avec un don de propriété que la communauté récompense Nanon, ce qui fait d’elle « la première acquéreuse » (N, p. 81). La propriété, manifestation matérielle de la citoyenneté, accorde au propriétaire un intérêt concret dans la nation. Ce lien entre propriété et citoyenneté est mis en valeur lors de la fête de la Fédération, où l’on voit des produits de la terre amassés sur un autel : « On se sentait par avance maître de ces épis, de ces fruits, de ces animaux, de tous ces produits de la terre qui allaient devenir possibles à acquérir28. » (N, p. 78) L’union idéale d’Émilien et de Nanon se fait entre deux classes unies par leur rapport ancestral à la terre, la paysannerie et la noblesse : « une alliance plus facile, je dirais presque plus naturelle, que l’union de la noblesse avec la bourgeoisie » (N, p. 328). Les classes associées à la Terreur, la bourgeoisie et les sans-culottes qui font peur à Nanon quand elle va à Paris, sont celles qui ne dépendent pas de la terre pour vivre.

      29 « Surgeon [jon], n. m. Rejeton qui naît de la souche d’un arbre et peut former un nouvel individu. (...)

      21En associant sa réinvention de la fraternité à la terre, Sand revalorise la maternité de manière concrète, tout en la séparant des relations sociales imposées par la naissance. La terre symbolise la fécondité et les qualités maternelles de Nanon. Son nom de famille, Surgeon, suggère la croissance, la fécondité, et surtout la renaissance29. Douée pour l’agriculture, Nanon est capable de rendre féconde la terre la plus aride. Quand elle se cache avec Émilien pendant la Terreur, elle cultive la terre infructueuse près de leur cachette pour en tirer « une récolte superbe » (N, p. 258). De retour à son village natal, elle fait fortune par la culture de la terre : « Je commençai par acheter avec le tiers de mon capital un terrain inculte, qu’avec le second tiers je fis cultiver, enclore, semer et fumer. » (N, p. 263) Tandis que la version révolutionnaire du roman familial fraternel cherchait à contrôler et sublimer la fécondité de la mère, Nanon lui accorde une place prééminente. On peut donc voir dans le roman une tentative de réinventer la fraternité en restaurant la place de la mère et de son corps fécond dans l’ordre social.

      22Une telle réinvention représente non seulement une revalorisation de la féminité, mais aussi une transformation des modèles traditionnels de la masculinité. Quand Nanon déclare que son but n’est pas de se faire remarquer, mais de « conserver pour [s] es enfants et pour [s] es petits-enfants le souvenir cher et sacré de celui qui fut [s] on époux », elle attire l’attention sur la refonte de la masculinité dans Nanon. Au début du roman, Émilien est presque aussi illettré que Nanon : il lit à peine et il écrit « comme un chat » (N, p. 55). En instruisant Nanon, il apprend lui-même à lire et à écrire, et à la fin du roman, il a même acquis un « langage pur » (N, p. 345). Il reconnaît que ce sont ses rapports fraternels avec Nanon, et le rapport à la terre qu’elle lui redonne, qui lui ont permis de survivre à la Révolution et de s’intégrer à la société fraternelle : « [Sans Nanon] je serais devenu un idiot ou un vagabond, au milieu de cette révolution qui m’eût jeté sur les chemins, sans notions de la vie et de la société », affirme-t-il (N, p. 330). Sa transformation est marquée à son retour de la guerre par la perte de son bras. Loin de considérer cette castration symbolique comme une catastrophe, il l’assume. En perdant la main qui tiendrait normalement l’épée, symbole de sa noblesse et de sa masculinité, il se libère : « j’ai payé le droit d’être citoyen […]. J’ai expié ma noblesse, j’ai conquis ma place au soleil de l’égalité civique » (N, p. 325). Au même titre que l’inceste, la castration n’est plus à craindre dans l’univers fraternel que met en place la nouvelle communauté. La double mise en scène de la Révolution permet ainsi à Sand d’imaginer une fraternité dans laquelle l’instance féminine est restaurée, les rôles masculins sont redéfinis, ce qui libère et l’homme et la femme.

      23L’emploi d’un cadre pastoral et l’accent mis sur le statut d’orphelins des protagonistes situent la vision fraternelle de Nanon dans la tradition littéraire de la période révolutionnaire. Les écrivains des années 1790 se servaient volontiers du genre pastoral en raison de son côté didactique, qui favorisait la dissémination des valeurs républicaines. Comme l’explique Florian, l’un des grands auteurs de pastorale de l’époque :

      30 J.-P. Claris de Florian, Essai sur la pastorale, p. 143.

      C’est en peignant des êtres vertueux et sensibles, qui savent immoler au devoir la passion la plus ardente, et trouvent ensuite la récompense de leur sacrifice dans leur devoir même […] que je crois possible de donner à la pastorale un degré d’utilité30.

      31 L. Hunt, Le Roman familial de la Révolution française, p. 102.
      32 N. Mozet, « Introduction » à Nanon, 1987, p. 18.

      24Lynn Hunt note la prédilection des auteurs pour des protagonistes orphelins ou abandonnés qui deviennent des exemples de vertu républicaine, tel le héros de Victor de Ducray-Duminil : « les écrivains favorables à la république semblent soucieux de démontrer que les enfants sans père sont des bastions de la vertu républicaine31 ». Sand situe sa représentation de la fraternité dans la généalogie littéraire de la Révolution, ce qui suggère qu’on peut lire Nanon, selon Nicole Mozet, comme « l’image de ce que la Révolution aurait pu être si elle n’avait pas été détournée de son cours32 ».

      25Cependant, l’idylle pastorale de Sand se distingue de ses modèles par sa juxtaposition avec une narration historique, tandis que les récits pastoraux se caractérisent par un manque de repères temporaux ou spatiaux. Dans Nanon, la Terreur envahit même l’utopie du roman. Le bourgeois Costejoux, qui achète le monastère d’Émilien, incarne la Révolution. À la différence de Nanon et d’Émilien, il n’a aucun attachement à la terre : il achète le monastère « par pur patriotisme » et sans Nanon « il n’eût rien tiré de son domaine » (N, p. 265-266). Malgré ses bonnes intentions, Costejoux échoue à vivre son idéal de fraternité dans sa vie privée, comme dans la sphère publique. Son mariage à la sœur d’Émilien, Louise, qui partage son dédain de la terre, est plutôt malheureux. Comme les révolutionnaires, Costejoux souhaite la subordination des femmes et traite son épouse de simple « femmelette » (N, p. 279). Les rapports de force qui caractérisent leur union les rendent malheureux tous les deux : « […] il ne pouvait la prendre au sérieux, et, par moments, il était sec et amer en paroles, ce qui montrait le vide de son âme à l’endroit du vrai bonheur et de la vraie tendresse. » (N, p. 342) De même, l’idéal révolutionnaire de fraternité auquel il s’est dévoué invertit les rapports de pouvoir sans changer les structures sociales. Les victimes et les bourreaux n’ont fait que changer de place. Cet échec se voit clairement dans le défilé auquel assiste Nanon à Châteauroux, où la déesse de la Liberté marche sur le dos d’un royaliste soupçonné (N, p. 188). Le récit historique s’immisce dans l’idylle pastorale, de sorte que l’utopie romanesque ressemble bien moins à une solution aux problèmes de la société française qu’à l’exploration d’un traumatisme collectif.

      26En lisant Nanon comme un « souvenir transformé », j’espère avoir montré que l’imaginaire sandien intègre à la fois les désastres politiques et la séparation d’avec la mère à la remémoration des traumatismes historiques fondateurs de la société post-révolutionnaire. Par le biais des mémoires de Nanon, Sand repense l’histoire collective et individuelle en juxtaposant des événements historiques à une utopie fraternelle qui restaure la médiation de l’instance maternelle et du sujet féminin. Par là même, Sand essaie de réparer ces traumatismes afin de proposer une nouvelle vision de la fraternité comme socle des relations sociales, vision offrant ainsi la possibilité d’une régénération durable.

    • Préface, notes et dossier de Nicole Savy

      Il faut nous débarrasser des théories de 93 ; elles nous ont perdus. Terreur et Saint-Barthélemy, c’est la même voie ”, écrit sans nuances George Sand à un jeune poète en octobre 1873.

      Cette lecture de la Terreur, la condamnation de la violence et le refus absolu de justifier les moyens par la fin viennent tout droit, pour elle, du traumatisme de la Commune qui est le point de départ décisif de l’écriture du roman. Nanon est un palimpseste : il suffit de se reporter à la correspondance de l’auteur pendant l’année terrible pour mesurer à quel degré elle superpose les violences de la Commune de Paris et la terreur révolutionnaire, qu’elle attribue de même non pas à la misère et à la colère populaire mais à une minorité dévoyée, et à la mise à l’écart complète de la France rurale dans un processus exclusivement parisien et ouvrier. “ Ce pauvre Paris représente-t-il encore la France ? L’Empire en avait fait un bazar et un égout. La Commune en a fait un égout et une ruine. Les cléricaux voudraient bien en faire un couvent et un cimetière ”, écrit-elle à son ami Henry Harrisse le 29 juin 1871.

      Flaubert et elle, à force de rage et de désespoir, ne parviennent même plus à s’écrire au printemps 1871, et pas seulement à cause de leurs désaccords politiques, lui haïssant la démocratie et elle la défendant malgré tout. “ Je suis malade du mal de ma nation et de ma race ”, lui écrit-elle le 6 septembre. George Sand a toujours été pacifiste et ennemie de la violence : mais pour la première fois elle se range dans le camp des modérés– bien plus que Hugo, dont elle juge inopportune l’offre d’asile aux communards poursuivis. Effrayée par “la boue et le sang de l’Internationale”, elle prend le parti désabusé d’une république bourgeoise. A la différence de Flaubert, elle ne désavoue pas le peuple : elle juge qu’il a été manipulé. Reste la province, “masse bête et craintive”, toujours attirée par la réaction quand Paris entre en convulsion. C’est dans une lettre à sa fille qu’elle résume le mieux son opinion sur la Révolution française et sur la Commune : “ Toute la révolution de 89 se résume en ceci, acquérir les biens nationaux, ne pas les rendre. Tout s’efface, se transforme ou se restaure, monarchie, clergé, spéculation. Une seule chose reste, le champ qu’on a acheté et qu’on garde. Les communeux comptent sans le paysan, et le paysan c’est la France matérielle invincible […], c’est le sauveur inconscient, borné, têtu ; mais je n’en vois pas d’autre. Il faudra bien que Paris l’accepte ou s’efface. ” Avec une conséquence littéraire directe : comme après son désespoir politique de 1848, qui avait été suivi de La Petite fadette et de François le champi , l’écrivain se remet au travail sur des sujets champêtres, ce qui ne veut certainement pas dire pour elle apolitiques. Réaction logique, puisque pour elle c’est là qu’est la vraie France.

      Pas plus que ses sentiments républicains, Sand n’a répudié son socialisme, mais elle le fonde sur un ordre social rassurant et sur l’acquisition par tous, en particulier par les paysans, de la propriété privée. Vision trop éloignée des masses urbaines et du mouvement ouvrier et syndical qui va se développer dans cette même fin du XIXe siècle pour que le roman n’ait pas été oublié, au moment où Zola développe la fresque du capital financier et de l’exploitation ouvrière dans Les Rougon-Macquart. En juillet 1872, c’est Le capital de Karl Marx qui est traduit en français : Nanon n’est vraiment pas dans l’air de son temps.

      C’est dans ce cadre qu’on peut comprendre l’itinéraire de Nanon, la bergère qui devient propriétaire de sa maison, puis exploitante de terres et de troupeaux qui lui permettent de s’enrichir et d’acquérir pour son compte, en empruntant et plaçant des fonds, un gros capital foncier qu’elle fait fructifier : non par goût de l’argent, dont elle n’a nul besoin personnel, mais parce que la Révolution lui en a donné le droit et la possibilité ; comme outil pour réaliser l’alliance de classes extrêmes que représente son mariage avec Emilien de Franqueville ; enfin par goût du travail bien fait, par souci de réussite dans toutes ses entreprises...

      http://excerpts.numilog.com/books/9782742755912.pdf

    • Communauté et sens du spectacle. La lecture dans Nanon

      Le roman de George Sand, Nanon (1872), comporte un passage consacré à un spectacle qui met en scène les tensions entre l’acte de voir et l’acte de lire dans le cadre de la Révolution française, posant ainsi les rapports entre le récit et la communauté. Dans le chapitre v, Nanon, qui est aussi narratrice de son histoire, relate la célébration de la fête de la Fédération à Valcreux, village fictif de la Creuse. Au cours de la cérémonie, tous les habitants sont doublement unis au sein de leur commune et avec le reste de la nation ; bouleversant les hiérarchies sociales, ils affirment dans le même temps des valeurs partagées. Un autel de gazon surmonté d’une inscription commémorative et dédié aux fruits de la nature et au travail de la terre constitue l’attraction principale de la cérémonie. Sobrement orné d’un arrangement de fleurs, de fruits, d’animaux et d’outils de labour, l’autel évoque l’allégorie d’une abondance à portée de main. Le message des symboles visuels diffère sensiblement de celui de l’inscription portée au bas de la croix d’épis de blé, qui couronne l’autel : « Ceci est l’autel de la pauvreté reconnaissante dont le travail, béni au ciel, sera récompensé sur la terre2. »

      2 La signification de l’autel, présentée de manière à la fois visuelle, par la mise en scène de symboles et d’objets, et de manière conceptuelle, par l’inscription-dédicace, pointe le décalage entre le petit groupe de ceux qui savent lire et la masse des spectateurs qui en sont incapables. Le sentiment euphorique d’union, associé à la fête de la Fédération, est ainsi troublé par le spectacle de l’autel qui sépare la communauté en deux groupes : d’un côté, les organisateurs du spectacle qui cherchent à transmettre des idées ; de l’autre, les spectateurs illettrés qui reçoivent passivement les informations. Cette communication, qui s’avère problématique durant tout le spectacle, notamment à l’endroit de l’autel, accroît paradoxalement le sentiment de communauté en ce que les habitants du village participent activement à la création du sens même de l’événement. En analysant le rôle du festival dans ce roman de Sand sur la révolution (qui inclut, dans le récit, les révolutions de 1789, de 1830 et de 1848), je montrerai comment les pratiques d’interprétation variées, voire concurrentes, permettent de construire une communauté démocratique, faisant de ce roman une réponse différée aux déchirements et à la violence de la Commune de 1871.


      3 Œuvre de Sand peu connue du grand public, Nanon fut en effet publié en feuilleton un an après la Commune, dans le quotidien Le Temps, du 7 mars au 20 avril 1872. Le roman a inspiré de nombreuses études depuis l’importante réédition réalisée par Nicole Mozet en 19873. Récit à la première personne dans lequel la narratrice âgée entreprend, en 1850, l’histoire de sa jeunesse, pendant et après la Révolution française, ce roman offre une perspective peu conventionnelle sur les événements historiques. Dans un style simple et élégant, la narratrice raconte comment elle est parvenue à mettre sur pied un commerce florissant, n’ayant au départ pour toute possession qu’un mouton. Pour atteindre un tel succès, elle apprend à lire, à prendre soin des autres et épouse le marquis de Franqueville – Émilien, aristocrate et novice au moutier de Valcreux, qui deviendra soldat, républicain et fermier. Dans Nanon, Sand allie le réalisme des descriptions de la vie quotidienne paysanne à l’idéalisme des promesses de la Révolution. Comme Nicole Mozet le précise dans sa préface au roman, chaque élément de l’histoire est réaliste, même si l’ensemble du récit peut apparaître improbable, voire utopique (N, p. 7). De son côté, Nancy E. Rogers reconnaît que l’histoire de la Révolution française jouit d’une certaine véracité dans le roman, mais pointe un décalage entre la scène historique révolutionnaire et le quotidien des paysans, privés d’information :

      […] la disjonction entre l’exactitude historique et les effets que ces événements majeurs ont sur les paysans de Nanon, qui sont dans l’ignorance et privés d’accès aux informations fiables en provenance de la capitale, crée une distance, voire une attitude ironique, chez le lecteur4.

      4 Cependant, cette distance avec le déroulement de la Révolution à Paris, pour les paysans, et avec ce que le lecteur en connaît, permet de repenser l’essence de la révolution et les possibilités d’une future action collective. Pour interpréter les événements tels qu’ils sont reconstruits et représentés dans le roman, il faut ainsi prêter attention à l’ensemble du contexte historique et, plus précisément, aux éléments qui vont à l’encontre des faits établis, donc à la rupture avec l’histoire telle qu’elle est exposée par la fiction.

      5 Dans le chapitre v, la narration offre une description de la fête de la Fédération qui est exacte, sur le plan historique, mais innove dans sa complication et sa portée pour le reste du roman. La fête révolutionnaire, qui eut lieu dans toute la France le 14 juillet 1790, constitue l’apogée de la première phase de la Révolution française. Ce fut une période de tranquillité, entre la grand-peur à laquelle Nanon fait référence dans le chapitre iii (N, p. 63-65), et la Terreur de 1793 qui menacera son ami et futur époux, Émilien. Si la fête de la Fédération commémorait par sa date la prise de la Bastille, elle célébrait aussi, comme son nom le suggère, l’union entre les différents départements et communes composant la nation et rendait également hommage aux gardes nationaux locaux. Ces derniers prêtèrent serment lors de cérémonies organisées partout en France durant l’hiver 1789 et le printemps 1790 : il s’agissait de fédérer les troupes pour les unir dans la défense de la France révolutionnaire contre ses ennemis. À l’époque, la fête fut vécue non pas comme un événement commémoratif rejouant le passé, mais plutôt comme un nouveau départ5. Les directives des autorités de Paris insistaient sur la synchronisation de la fête sur l’ensemble du territoire, ainsi que sur le caractère soigné de ses rituels. On espérait ainsi produire un événement qui serait vécu à travers tout le pays, au même moment, et véhiculant un même message, à la fois euphorique et éducatif6.


      6 Bien que les fêtes fussent mandatées par le pouvoir central, la mise en scène en était laissée à la discrétion des communes, qui utilisèrent les ressources disponibles sur place et les coutumes traditionnelles pour exprimer à leur manière leur vision de la Révolution7. Dans Nanon, la fête de Valcreux célèbre la Fédération en insistant davantage sur le sentiment d’unité nationale, et moins sur le besoin d’une défense nationale, qui était pourtant l’objectif premier de la Fédération. Nanon le précise clairement : « […] l’on se réjouissait surtout d’avoir une seule et même loi pour toute la France, et il [Émilien] me fit comprendre que, de ce moment, nous étions tous enfants de la même patrie. » (N, p. 76) Pour la commune de Valcreux, comme dans de nombreux villages en France, la fête offrait l’occasion d’affirmer le nouvel idéal d’égalité prôné par la Révolution. Quel que soit leur rang social, tous les résidents du village de Nanon participent à l’événement, y compris les anciens seigneurs des fermiers, les moines du moutier, qui bénissent les festivités à contrecœur. Selon Mona Ozouf, la nature démocratique de la fête fut, en grande partie, une illusion puisque, dans la plupart des cas, la séparation entre les classes sociales fut maintenue, quand les femmes et le peuple n’en furent pas purement et simplement exclus8. En faisant de son Valcreux fictif un village très pauvre, sans bourgeois, et dirigé par des moines, Sand présente la fête de la Fédération comme un moment d’harmonie entre la rhétorique démocratique de la Révolution et l’expérience commune du peuple.


      7 Dans le roman, les festivités commencent par un banquet modeste au cours duquel les paysans apportent du pain et un peu de vin. Un imposant autel est ensuite dévoilé et Émilien prononce un discours. Enfin, le banquet s’achève avec l’annonce de la décision, prise par l’ensemble du village, de faire de Nanon la propriétaire de sa maison en guise de récompense pour son travail et sa bonté, geste qui permet aussi de faire un premier essai pour l’acquisition des biens nationaux9. Les étapes de la fête s’enchaînent et culminent avec la joie de Nanon qui ne peut croire à sa bonne fortune. Pourtant, c’est le dévoilement surprise de l’autel par Émilien, durant le banquet, qui constitue le moment central des festivités :

      [O]n vit une manière d’autel en gazon, avec une croix au faîte, mais formée d’épis de blé bien agencés en tresses. Au-dessous, il y avait des fleurs et des fruits les plus beaux qu’on avait pu trouver ; le petit frère [Émilien] ne s’était pas fait faute d’en prendre aux parterres et aux espaliers des moines. Il y avait aussi des légumes rares de la même provenance, et puis des produits plus communs, des gerbes de sarrasin, des branches de châtaigniers avec leurs fruits tout jeunes, et puis des branches de prunellier, de senellier, de mûrier sauvage, de tout ce que la terre donne sans culture aux petits paysans et aux petits oiseaux. Et enfin, au bas de l’autel de gazon, ils avaient placé une charrue, une bêche, une pioche, une faucille, une faux, une cognée, une roue de char, des chaînes, des cordes, des jougs, des fers de cheval, des harnais, un râteau, une sarcloire [sic], et finalement une paire de poulets, un agneau de l’année, un couple de pigeons, et plusieurs nids de grives, fauvettes et moineaux avec les œufs ou les petits dedans . (N, p. 77)

      8 Jacques, le cousin de Nanon, et Émilien, ainsi que quelques autres hommes fabriquent un autel de bric et de broc en trois jours, puis ils le recouvrent de branches et de fagots afin de le cacher jusqu’au banquet. Ce tableau plutôt humble correspond à une esthétique allégorique, typique de l’imagerie révolutionnaire, dans la mesure où il est composé des objets réels et naturels qu’il est censé représenter. La forme de l’autel peut également évoquer les nombreux autels érigés à l’occasion des fêtes tout au long de la Révolution, notamment les monticules couverts d’herbe ou les pyramides qui furent dressés à Paris ou à Lyon pour la fête de la Fédération.

      9 Sand fournit au lecteur quelques indices sur l’apparence de l’autel par l’énumération de la longue liste des objets variés qui le décorent. La concurrence entre les symboles chrétiens, ceux de la Révolution et ceux de l’Antiquité, le tout combiné à la banalité des matériaux utilisés, amène Nanon à suggérer qu’il y avait quelque chose d’un peu maladroit, ou du moins de comique, dans ce « trophée bien rustique ». Comme pour s’excuser, elle loue la manière dont il est orné et ajoute : « À présent que je suis vieille, je n’en ris point. » (ibid.) Cet autel rustique, et par certains côtés risible, que le lecteur est censé imaginer, est aussi l’objet qui incarne toutes les nobles idées de la Révolution.


      10 Si le lecteur demeure incertain quant à la manière d’interpréter cet autel, les paysans le sont encore plus. L’objectif même de ce « spectacle », selon Nanon, est d’organiser les pensées désordonnées du paysan pour son propre bien : « Il faut au paysan qui regarde avec indifférence le détail qu’il voit à toute heure, un ensemble qui attire sa réflexion en même temps que ses yeux et qui lui résume ses idées confuses par une sorte de spectacle10. » (ibid.) L’autel rassemble des objets tirés du quotidien du paysan, lui apprend à regarder (ou plutôt à ne pas être indifférent aux détails), et oriente sa pensée en lui offrant un miroir et une synthèse de ses idées qui, sans cadre représentatif, restent « confuses » pour lui. Et pourtant les paysans demeurent aussi perplexes devant le spectacle, que les lecteurs à la description de Nanon. Les spectateurs accueillent d’abord l’autel en silence, soit parce qu’ils sont surpris par son aspect pour le moins singulier, comme le précise Nanon, soit parce qu’ils n’en comprennent pas la signification. En tout cas, selon Nanon, ils ne sont en mesure de formuler aucun sentiment : « Il y eut d’abord un grand silence quand on vit une chose si simple, que peut-être on avait rêvée plus mystérieuse, mais qui plaisait sans qu’on pût dire pourquoi. » (ibid.)

      11 De son côté, Nanon interprète mieux le spectacle parce qu’elle peut lire l’inscription qui surmonte les objets : « Moi, j’en comprenais un peu plus long, je savais lire et je lisais l’écriture placée au bas de la croix d’épis de blé ; mais je le lisais des yeux, j’étais toute recueillie […]. » (ibid.) Nanon comprend mieux le spectacle, non pas parce qu’elle peut lire l’inscription, puisqu’elle « lisai[t] des yeux », étant « recueillie » et pensive, mais plutôt parce qu’elle sait tout simplement lire. Bien avant cet épisode, quand Émilien lui enseigne l’alphabet et les bases de la lecture, elle prétend pouvoir désormais tout voir différemment, même la nature, comme si la simple connaissance des signes linguistiques lui avait ouvert les portes de l’interprétation du monde naturel (N, p. 70). Nanon distingue deux manières de lire, ou plutôt deux interprétations : la lecture visuelle des objets et symboles de l’autel (« je lisais des yeux »), et la lecture graphique de l’inscription (« je lisais l’écriture »). Cette capacité à lire à deux niveaux, à évoluer entre les registres interprétatifs et sociaux, annonce la fonction de médiatrice que jouera Nanon et qui lui permettra de construire une communauté durable autour d’elle, à la fin du roman.

      12 Les paysans qui peuvent voir l’autel mais ne peuvent lire l’inscription, le lecteur qui peut lire la description mais ne peut voir l’autel, et Nanon qui peut faire les deux mais demeure prise dans l’émotion du moment et ne peut donc pas le comprendre complètement, tous obtiennent finalement une explication lorsque Émilien demande à Nanon de lire à haute voix l’inscription sur la plaque : « Ceci est l’autel de la pauvreté reconnaissante dont le travail, béni au ciel, sera récompensé sur la terre. » (N, p. 78) À l’occasion d’une fête révolutionnaire qui devait célébrer la prise de la Bastille (à sa date du 14 juillet) et la confédération des gardes nationaux, Émilien et ses amis consacrent quant à eux un autel à la pauvreté, au travail et à leurs récompenses sur terre. Après cette explication verbale, la foule laisse échapper un long « Ah !… » que Nanon décrit « comme la respiration d’une grande fatigue après tant d’années d’esclavage », mais qui pourrait aussi être un « ah ah ! » exprimant leur satisfaction de comprendre enfin la signification de l’autel (ibid.). La confusion du paysan – et celle du lecteur – se comprend, étant donné la difficulté à lier la signification de l’inscription, le symbolisme visuel de l’autel et le contexte politique de la fête. Pourquoi choisir de consacrer un autel au travail et à la pauvreté pendant une fête censée célébrer l’unité nationale ?

      13 Le sens de l’inscription, comme celui de l’autel, s’éclairent alors dans la mesure où elle affirme que la Révolution a rendu possible la récompense de tout travail, par opposition avec l’Ancien Régime où les moines paresseux du moutier s’appropriaient les richesses produites par les paysans. Après la lecture de Nanon, la foule en liesse verse une libation sur l’autel, mais quelques « critiques » veulent parfaire le tableau en plaçant une « âme chrétienne » au-dessus des bêtes figurant dans l’autel. Émilien, bien sûr, choisit Nanon à la grande surprise de cette dernière, et la mène sous la croix, au sommet de l’autel, devenu « autel de la patrie » (la même formule désignant l’autel à Paris), plutôt que « reposoir », ce qui montre l’échange entre le sacré patriotique et le sacré religieux. À nouveau, les paysans sont déconcertés par le geste d’Émilien, mais cette fois, ils l’admettent ouvertement : « Il y eut un étonnement sans fâcherie, car personne ne m’en voulait [à Nanon], mais le paysan veut que tout lui soit expliqué. » (ibid.) Si l’autel, l’inscription et la fête constituent un ensemble peu cohérent, le choix de Nanon comme représentation allégorique du sacré est incompréhensible pour les paysans.

      14 Émilien justifie alors longuement son choix dans un discours où il explique que Nanon est la plus pauvre de la commune, qu’en dépit de son jeune âge, elle travaille « comme une femme » et surtout qu’elle apprend vite et enseignera à lire à d’autres. Depuis la mise en vente des biens nationaux, il était devenu indispensable de lire des documents de toute sorte. Nanon, en enseignant à lire aux autres, devrait permettre à chacun de bénéficier des fruits de la Révolution. Le discours d’Émilien parvient à convaincre les paysans du mérite de Nanon et de son droit à incarner les idéaux de l’autel. Ainsi, les membres de l’assemblée collectent un pécule qui permet à Nanon de devenir la propriétaire de sa maison et d’être la première « acquéreuse » d’un bien national dans son village.

      15 À mesure que se déroule la fête de la Fédération, les paysans acceptent les explications diverses d’Émilien par l’intermédiaire de Nanon qui lit l’inscription, puis incarne la signification allégorique de l’autel. Prise par la célébration de l’unité, l’assemblée oublie bien vite les divergences d’interprétation de l’autel, de la fête et du rôle symbolique de Nanon. Cependant, une lecture plus attentive du texte permet de montrer que la confusion initiale partagée par le lecteur et les spectateurs provient des contradictions inhérentes au spectacle même, à savoir la différence entre ses significations visuelle et écrite.


      16 En effet, la signification de l’inscription ne correspond que partiellement au spectacle de l’autel et à son incarnation allégorique en la personne de Nanon. Si l’on relit la description initiale de l’autel, avant même que Nanon ne lise l’inscription, on se rend compte que le travail est associé à des symboles peu pertinents dans l’autel décoré de jolies fleurs, de fruits, de quelques « légumes rares », tous dérobés par Émilien dans le jardin des moines, ainsi que par des branches d’arbres fruitiers sauvages : « tout ce que la terre donne sans culture aux petits paysans et aux petits oiseaux » (N, p. 77, je souligne). Au bas de l’autel, juxtaposés à ces produits naturels récupérés ici et là, se trouvent une charrue, une bêche, une pioche, une brouette, des chaînes et des fers à cheval. On note ainsi un décalage entre le haut et le bas de l’autel, car aucun de ces outils de labour n’a été nécessaire à la culture ou à la cueillette du trésor disposé sur l’autel. Enfin, des poulets, un jeune agneau, des pigeons et une variété de nids d’oiseaux sont placés à côté des outils de labour. Il ne s’agit donc pas de bêtes de somme telles que le cheval ou le bœuf, mais plutôt d’animaux dont on peut tirer de la nourriture sans trop de travail11.

      17 Tout comme l’autel d’Émilien ne remplit pas vraiment les deux buts politiques de la fête de la Fédération, l’incarnation en Nanon de la pauvreté, du travail et de la récompense bien méritée est problématique à certains égards. Au début du roman, l’héroïne est en effet une bergère n’ayant qu’un seul mouton, nommé Rosette. Nonobstant l’effort qu’exigeaient les tâches de la pastourelle, l’état de bergère était aussi associé, dans le contexte culturel du xviiie siècle, à la notion de loisir. Nanon est d’ailleurs bergère dans ce qui débute comme un roman pastoral. Bien entendu, le roman de Sand est plus réaliste que L’Astrée d’Honoré d’Urfé, mais le temps de la diégèse est contemporain du Hameau de Marie-Antoinette à Versailles. La pastorale exclut certes le travail pénible, mais cette exclusion permet justement à l’héroïne d’avoir un loisir productif. Nanon demande à Émilien, qui peut à peine lire lui-même, de lui enseigner tout ce qu’il sait. La vie de Nanon s’en trouve transformée ; elle peut désormais abstraire des idées à partir d’observations empiriques, faire de l’arithmétique, apprendre à lire aux autres, tracer un itinéraire sur une carte et, enfin, tenir les comptes de sa future fortune. Rien de cela n’aurait été possible sans le temps libre qu’autorise l’état de bergère. Dans La Nuit des prolétaires, Jacques Rancière a noté combien les activités intellectuelles auxquelles s’adonne l’ouvrier du xixe siècle pendant son temps libre déstabilisaient la hiérarchie des classes présentée comme naturelle ; Sand, qui avait vigoureusement soutenu les poètes ouvriers, comprenait bien l’importance sociale des pratiques culturelles des humbles et des ouvriers. Bien que le roman de Nanon soit situé dans le cadre paysan, l’analyse de Jacques Rancière est pertinente pour l’héroïne et sa promotion sociale. De pastorale, le texte de Nanon se transforme en roman sur la Révolution et le travail, tandis que le personnage éponyme utilise sa seule ressource, son temps libre (otium), pour s’investir dans le travail intellectuel des élites, le négoce (neg-otium) et l’écriture.

      18 La fête de la Fédération et son autel enseignent ainsi aux habitants de Valcreux comment un changement de perspective, produit par un nouveau moyen de lire et d’interpréter le monde, peut mener à l’émancipation. La définition du spectacle comme ensemble qui attire « en même temps » les yeux et la réflexion des paysans et lui « résume ses idées confuses » prend un tout autre sens lorsque Nanon en devient le symbole. Tout comme Nanon utilise le temps libre qu’offre son occupation pour s’instruire, l’autel met en scène des objets quotidiens et expose de nouvelles chances de prospérité puisque les biens du moutier, dont les terres, sont désormais disponibles pour tous : les fruits et les fleurs dérobés aux moines en attestent déjà la réalité. Par sa lecture et son incarnation, Nanon permet aux paysans de comprendre l’autel, comme elle leur enseignera plus tard à lire des textes. Ce n’est qu’en s’unissant que les habitants du village, officiellement nommé « commune » par la Révolution, pourront récolter les fruits du travail de tous. À travers le chapitre v, chacun des participants de la fête contribue à la compréhension de l’événement : les moines, avec leur bénédiction et leur tribut, involontaire, de fruits, fleurs et légumes pour l’autel ; Émilien, par la manière dont il a arrangé l’autel et inscrit le message sur la plaque, et par sa décision de choisir Nanon ; Nanon elle-même, grâce à sa lecture de l’inscription pour les paysans illettrés et son interprétation pour le lecteur, puis son rôle d’allégorie ; et surtout, le reste des paysans avec leurs demandes d’explication, leurs suggestions pour améliorer l’autel et leur réaction collective qui suggère qu’il y va de bien plus que d’une simple réponse affective à l’événement. Cette participation active de tous permet d’associer à la fête une variété de sens, à la fois politique, social et religieux. Conçues au départ pour dicter aux paysans quoi penser, la fête et ses étapes deviennent un texte ouvert à la lecture, à l’interprétation et à la discussion de chacun.

      19 La fête de la Fédération mise en scène dans Nanon, avec son spectacle construit sur le sentiment d’unité communautaire et sur un débat démocratique animé, trouve son origine non seulement dans la Révolution française, mais aussi dans la volonté de Sand de comprendre les victoires et les défaites de 1848 et la violence de la Commune de 187112. En rejouant ce qui est souvent considéré comme l’un des moments les plus exaltants de la première révolution, son roman suggère qu’une communauté ne peut se fonder que sur l’unité de but et sur la diversité d’opinion. Selon Arthur Mitzman, la description de la fête de la Fédération dans Nanon doit beaucoup au chapitre xi du livre III de l’Histoire de la Révolution française de Jules Michelet. Partageant le même style, les deux textes mettent l’accent sur l’inclusion démocratique qui caractérisent les diverses fêtes dans toute la France13. Dans un compte rendu lyrique, Michelet, qui assimile la fête de la Fédération à un « miracle », décrit la manière dont les jeunes et les moins jeunes, les riches et les pauvres, à travers toutes les régions, s’unirent pour l’événement afin de créer « la plus grande diversité (provinciale, locale, urbaine, rurale, etc.) dans la plus parfaite unité14 ». Pour Michelet, l’un des faits les plus remarquables est que les femmes, d’habitude exclues des rituels politiques, participèrent avec la plus grande passion, qu’elles fussent « appelées ou non appelées15 ». Ces femmes affirmaient ainsi avec force leur droit à jouer un rôle dans les célébrations politiques. Après un passage lyrique dans lequel il exprime la valeur universelle de la fête comme « solennel banquet de la liberté », l’historien termine son chapitre par de multiples anecdotes sur les fêtes dans toutes les régions et en commence un nouveau avec le récit d’une pratique qui eut lieu dans de nombreux villages, celle de placer sur les autels des enfants, ainsi « adoptés » par la communauté et couverts de cadeaux et de bénédictions16. Ces commentaires de Michelet permettent de mieux comprendre le personnage de Nanon qui, malgré son statut de jeune fille, se retrouve au cœur de l’attention publique par son rôle spirituel sur l’autel, avant de devenir une enfant adoptée par toute la communauté. Nanon est à la fois l’exception à l’égalité générale et la personne qui rassemble tous les êtres qui composent la communauté.


      20 Dans sa préface de 1868 à l’Histoire de la Révolution française, Michelet établit un lien explicite entre la fête de la Fédération de 1790 et les événements de 1848 : « Tel fut le cœur des pères aux Fédérations de 90, tel fut celui des fils à nos Banquets de Février. Journalistes, hommes politiques, professeurs, écrivains, nous eûmes l’élan désintéressé, généreux, clément et pacifique, humain17. » La lettre de Sand à son fils Maurice relatant sa participation au « spectacle » de la fête de la Fraternité (inspirée à plusieurs titres de la fête de la Fédération de 1790) du 20 avril 1848 anticipe à la fois la préface de Michelet de 1868 et le spectacle qu’elle imaginera dans Nanon en 1872 :

      La fête de la Fraternité a été la plus belle journée de l’Histoire. Un million d’âmes, oubliant toute rancune, toute différence d’intérêts, pardonnant au passé, se moquant de l’avenir, et s’embrassant d’un bout de Paris à l’autre au cri de Vive la fraternité, c’était sublime. […] Comme spectacle, tu ne peux pas t’en faire d’idée. [La fête] prouve que le peuple ne raisonne pas tous nos différends, toutes nos nuances d’idées, mais qu’il sent vivement les grandes choses et qu’il les veut. […] Du haut de l’arc de l’Étoile le ciel, la ville, les horizons, la campagne verte, les dômes des grands édifices dans la pluie et dans le soleil, quel cadre pour la plus gigantesque scène humaine qui se soit jamais produite ! (Corr., t. VIII, p. 430)

      21 Depuis le sommet de l’Arc de triomphe en 1848, comme Nanon sur son autel en 1790, Sand a une position privilégiée depuis laquelle elle peut voir un peuple unifié dans la célébration de la fraternité. Comme la romancière fera suggérer à Nanon narratrice que le « spectacle » organise les idées confuses des paysans, elle insiste en 1848 sur le fait que le peuple en fête n’a que peu d’intérêt pour les différences idéologiques (« tous nos différends »), mais qu’en revanche, il sent ce que les intellectuels républicains tels que Sand considèrent comme essentiel : la volonté innée du peuple lui paraît souveraine (« il les veut »). Cette différence fondamentale entre les discordes du « nous » politique et le peuple uni dans sa diversité sociale (« toute différence d’intérêts ») est accentuée par la séparation physique entre la foule et l’observatrice, jouissant d’une perspective élevée depuis le sommet de l’Arc de Triomphe. Symboliquement assise sur le siège du pouvoir, Sand exprime sa sympathie pour le peuple ; elle loue la force de ceux dont l’union spirituelle survivra aux fractures idéologiques : « Courage donc, demain peut-être, tout ce pacte sublime juré par la multitude sera brisé dans la conscience des individus ; mais aussitôt que la lutte essayera de reparaître, le peuple (c’est-à-dire tous) se lèvera et dira : “Taisez-vous et marchons !” » (Corr., t. VIII, p. 431)

      22 La prédilection de Sand pour le spectacle visuel d’un million de personnes unies, toutes classes sociales et toutes origines confondues – spectacle qu’elle oppose aux nuances verbales d’une certaine élite politique –, indique que la sensibilité politique de l’écrivaine n’a pas radicalement changé entre 1848 et 1872. À mesure que le roman progresse et que Nanon s’installe au moutier, elle crée une communauté qui n’est pas sans rappeler la manière dont Michelet caractérise la fête de la Fédération : « la plus grande diversité […] dans la plus parfaite unité ». Dans la communauté utopique de Nanon, paysans, domestiques, bourgeois, moines et aristocrates cohabitent, plus ou moins en paix, sans perdre leur diversité d’opinion ou d’identité. Dans quelques-uns des échanges les plus passionnés du roman, Nanon discute de la nature de la révolution, de la violence et du changement social avec plusieurs interlocuteurs : son oncle paysan, le moine Fructueux, le bourgeois révolutionnaire Costejoux et, bien sûr, son mari et ami, l’aristocrate libéral Émilien de Franqueville. Au cours de ces conversations, Nanon est capable de créer lentement et sans l’imposer, un consensus autour de l’idée que la fin ne justifie pas les moyens et qu’une révolution durable ne passe pas par la violence. Comme pour les spectacles de l’autel à la fête de la Fédération, ou la multitude à la fête de la Fraternité, le consensus naît de la diversité d’opinions et d’interprétations. Vers la fin du roman, Nanon explique qu’elle n’est plus impliquée dans les débats politiques :

      Il [Costejoux] est resté sous ce rapport aussi jeune que mon mari. Ils n’ont pas été dupes de la révolution de Juillet. Ils n’ont pas été satisfaits de celle de Février. Moi qui, depuis bien longtemps, ne m’occupe plus de politique – je n’en ai pas le temps – je ne les ai jamais contredits, et, si j’eusse été sûre d’avoir raison contre eux, je n’aurais pas eu le courage de le leur dire, tant j’admirais la trempe de ces caractères du passé […]. (N, p. 286)

      23 En ne participant plus à la vie politique, Nanon admet non seulement qu’elle n’a pas toujours raison (« si j’eusse été sûre d’avoir raison »), mais surtout, elle affirme son respect pour les opinions politiques de son mari et de Costejoux, tous deux valorisés par rapport aux hommes du présent. De plus, lorsqu’elle prétend ne plus avoir le temps de s’investir dans la politique, elle fait aussi allusion à son rôle de médiatrice et de négociatrice dans le roman.

      24 La fin de Nanon remet en jeu, indirectement, les questions soulevées par le spectacle de la fête de la Fédération : la communauté est construite et en même temps divisée par la lecture comme par le caractère délicat de l’équilibre entre les paysans et les citoyens instruits. Dans la dernière page du roman, le narrateur anonyme qui reprend le contrôle de la narration pour annoncer la mort de Nanon et ses contributions à la communauté, rapporte ce qui est advenu de ses cousins, Pierre et Jacques, qui représentaient ses derniers liens avec son passé humble. Jacques, à qui Nanon a appris à lire, comme l’indique le narrateur, devint officier militaire, mais « [se mit] en tête de supplanter » Émilien (N, p. 287). Ayant l’usage de ses deux bras (Émilien a perdu un bras à la guerre), Jacques est convaincu qu’il ferait un meilleur époux qu’Émilien et est aussi gradé que lui. Il est forcé de quitter le village et de s’installer ailleurs, après avoir perturbé l’harmonie collective. Le lecteur de Sand se souvient sans doute que Jacques a aidé Émilien à construire l’autel de la fête de la Fédération. On peut donc penser qu’il a cherché à imposer sa propre interprétation de la Révolution aux autres paysans. Apprendre à lire lui a non seulement permis de s’élever au rang d’officier, mais l’a aussi encouragé à faire passer ses propres désirs avant ceux de la communauté. L’autre cousin, Pierre, demeure un ami de la famille, et son fils, « sans cesser, quoique convenablement instruit, d’être un paysan », épouse l’une des filles de Nanon (ibid.). Dans ce roman, la classe sociale ne constitue jamais un obstacle au succès, et comme l’illustre Nanon, le bonheur et la fortune dépendent non seulement de la capacité à lire, mais aussi de la volonté de participer au bien de la communauté.

      25 Le spectacle idyllique de la fête de la Fédération porte à la fois les germes de la violence révolutionnaire (une division du public entre ceux qui savent et ceux qui ne savent pas lire) et sa possible résolution en une communauté unifiée dans sa diversité. Ceux qui ont planifié l’événement et qui savent lire partagent avec les participants illettrés les même objectifs patriotiques et égalitaires, mais échouent à les communiquer de manière efficace jusqu’à ce que Nanon médiatise une meilleure compréhension et incarne la valeur sacrée de l’autel, annonçant ainsi son rôle de fondatrice d’une nouvelle communauté. Dans ce dernier grand roman de Sand, le spectacle révolutionnaire ne propose pas de signification directe ou transparente, mais sa jouissance passe par des signes visibles et des symboles qui appellent l’interprétation et surtout la lecture. C’est une communauté nouvelle qui naît dans l’espace entre ce qui peut être seulement vu et ce qui ne peut être que lu.

      https://books.openedition.org/ugaeditions/4845