• Rinchiusi e sedati: l’abuso quotidiano di psicofarmaci nei Cpr italiani

    Nei #Centri_di_permanenza_per_il_rimpatrio le persone ristrette vengono “tenute buone” tramite un uso dei medicinali arbitrario, eccessivo e non focalizzato sulla presa in carico. Dati inediti mostrano la gravità del fenomeno. Da Milano a Roma

    “Mentre sono addormentati o storditi, le loro richieste diminuiscono: così le persone trattenute nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) non mangiano, non fanno ‘casino’, vengono rimpatriate e non pretendono i propri diritti. E soprattutto l’ente gestore risparmia, perché gli psicofarmaci costano poco. Il cibo e una persona ‘attiva’, invece, molto di più”. Il racconto di Matteo, nome di fantasia di un operatore che ha lavorato diversi mesi in un Cpr, è confermato da dati inediti ottenuti da Altreconomia e che fotografano un utilizzo elevatissimo di questi farmaci all’interno dei centri di tutta Italia. Una “macchina per le espulsioni” -dove “l’essere umano scompare e restano solo i soldi”, racconta Matteo- a cui il Governo Meloni non vuole rinunciare. Nell’ultima legge di Bilancio sono stati previsti più di 42,5 milioni di euro per l’ampliamento entro il 2025 della rete dei nove Cpr già attivi e il nuovo decreto sull’immigrazione licenziato a marzo 2023, appena dopo i fatti di Cutro, prevede procedure semplificate per la costruzione di nuove strutture, con l’obiettivo di realizzarne almeno una per Regione. Questo nonostante le percentuali dei rimpatri a seguito del trattenimento siano bassissime mentre incalcolabile è il prezzo pagato in termini di salute dalle oltre cinquemila persone che nel 2021 sono transitate nei centri.

    Per confrontare i dati ottenuti sulla spesa in farmaci effettuata dagli enti gestori delle strutture, abbiamo chiesto le stesse informazioni al Centro salute immigrati (Isi) di Vercelli, il servizio delle Asl che in Piemonte prende in carico le persone senza regolare permesso di soggiorno (non iscrivili quindi al sistema sanitario nazionale) e segue una popolazione simile a quella dei trattenuti del Cpr anche per età (15-45 anni), provenienza e condizione di “irregolarità”. A Vercelli la spesa in psicofarmaci rappresenta lo 0,6% del totale: al Cpr di via Corelli a Milano, invece, questa cifra è 160 volte più alta (il 64%), al “Brunelleschi” di Torino 110 (44%), a Roma 127,5 (51%), a Caltanissetta Pian del Lago 30 (12%) e a Macomer 25 (10%).

    Numeri problematici non solo per l’incidenza degli psicofarmaci sul totale ma anche per la tipologia, all’interno di una filiera difficile da ricostruire e che coinvolge tre attori: l’azienda sanitaria locale, la prefettura e l’ente gestore a cui è affidata, tramite bando, la gestione del centro. “A differenza della realtà carceraria, nel Cpr la cura della salute non è affidata a medici e figure specialistiche che lavorano per il sistema sanitario nazionale, bensì al personale assunto dagli enti gestori il cui ruolo di monitoraggio si è dimostrato carente, se non assente”, spiega Nicola Cocco, medico ed esperto di detenzione amministrativa.

    Grazie ai dati raccolti dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e dall’associazione di volontariato Naga relativi ai farmaci acquistati per il Cpr di Milano tra ottobre 2021 e febbraio 2022, sappiamo però che in cinque mesi la spesa in psicofarmaci è superiore al 60% del totale, di cui oltre la metà ha riguardato il Rivotril (196 scatole): farmaco autorizzato dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) come antiepilettico ma usato ampiamente come sedativo.

    Nel primo caso necessiterebbe una prescrizione ad hoc ma le visite psichiatriche effettuate alle persone trattenute nei mesi che vanno da ottobre 2021 a dicembre 2022 sono solo otto. In alternativa, un utilizzo del farmaco diverso rispetto a quello per cui è stato autorizzato dovrebbe avvenire solo previo consenso informato della persona a cui viene somministrato. “Chiedevano a me, operatore, di darlo, ma io mi rifiutavo perché non potevo farlo, non sono né un medico né un infermiere: i più giovani non sanno neanche che cosa sia questo medicinale ma no, non ho mai visto nessuna acquisizione del consenso”, racconta Matteo. A Torino la spesa in Clonazepam (Rivotril) dal 2017 al 2019 è di 3.348 euro, quasi il 15% del totale (22.128 euro) mentre a Caltanissetta tra il 2021 e il 2022 sappiamo che sono state acquistate 57.040 compresse: 21.300 solo nel 2021, a fronte di 574 persone trattenute. Significa mediamente 37 a testa. “L’utilizzo degli psicofarmaci all’interno dei Cpr è troppo spesso arbitrario, eccessivo e non focalizzato sulla presa in carico e sulla cura degli individui trattenuti, concorrendo ad aggravare la patogenicità di questi luoghi di detenzione”, osserva Cocco.

    Si registra inoltre un elevato consumo di derivati delle benzodiazepine, che dovrebbero essere utilizzate quando i disturbi d’ansia o insonnia sono gravi. A Roma in tre anni (2019, 2020 e 2021) sono state acquistate 3.480 compresse di Tavor su un totale di 2.812 trattenuti, cui si aggiungono, tra gli altri, 270 flaconi di Tranquirit da 20 millilitri e 185 fiale intramuscolo di Valium. Gli stessi farmaci li ritroviamo a Caltanissetta: 2.180 pastiglie di Tavor (più 29 fiale) tra il 2021 e il 2022; Zoloft (antidepressivo, 180 compresse); Valium e Bromazepam. Simile la situazione a Milano: tra ottobre 2021 e febbraio 2022 sono state acquistate, tra le altre, 27 scatole di Diazepam e 32 di Zoloft. Una “misura” del malessere che si vive nei centri è dato anche dall’alta spesa in paracetamolo, antidolorifici, gastroprotettori e farmaci per dolori intestinali. Un esempio su tutti: a Roma, in cinque anni, sono state acquistate 154.500 compresse di Buscopan su un totale di 4.200 persone transitate. In media, 36 pastiglie a testa quando un ciclo “normale” ne prevede al massimo 15.

    Un quadro eloquente in cui è fortemente problematica la compatibilità tra la permanenza della persona nel centro e l’assunzione di farmaci che prevedono precisi piani terapeutici. Qui entrano in gioco anche i professionisti assunti dall’ente gestore, che devono effettuare lo screening con cui si valuta lo stato di salute della persona trattenuta e l’eventuale necessità di visite specialistiche o terapie specifiche.

    A Milano gli psicofarmaci pesano per il 64% sul totale della spesa sanitaria. A Torino per il 44%, a Roma per il 51%. All’Isi di Vercelli appena per lo 0,6%

    Infatti, come previsto dallo schema di capitolato che disciplina i contratti d’appalto legati alla gestione dei Cpr italiani, “sono in ogni caso assicurati la visita medica d’ingresso [screening, ndr] nonché, al ricorrere delle esigenze, la somministrazione di farmaci e altre spese mediche”. Non è chiaro però, né dal capitolato né dalla nuova direttiva che regola diversi aspetti del funzionamento dei centri siglata il 19 maggio 2022 dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, in seno al ministero dell’Interno, quali siano le modalità con cui avviene la somministrazione di farmaci e chi effettivamente si faccia carico dei relativi costi.

    Dunque ogni Cpr (e quindi ogni ente gestore e ogni prefettura) adotta le proprie prassi, anche in virtù dell’esistenza o meno di protocolli con le Asl che gli uffici del governo sarebbero obbligate a stipulare. Una disomogeneità che genera scarsa trasparenza. Un altro caso di scuola: a Milano la prefettura chiarisce come “i farmaci acquistati dall’ente gestore sono prescritti da personale sanitario dotato di ricettario del Servizio sanitario nazionale, in capo al quale ricadono i relativi costi”. L’Asl a sua volta, ricordando l’esistenza di un protocollo d’intesa stipulato con la Prefettura, riporta che i medici del Cpr possono avvalersi del ricettario regionale per tutto un elenco di prestazioni, ma “non per la prescrizione di farmaci ai cittadini stranieri irregolari”. Un cortocircuito.

    Se anche i farmaci venissero forniti seguendo attente prescrizioni e piani terapeutici il problema sarebbe comunque la compatibilità del trattenimento con le patologie delle persone. I “trattenuti” accedono infatti nei Cpr solamente dopo una “visita di idoneità alla vita in comunità ristretta”, che dovrebbe sempre essere svolta da un medico della Asl o dall’azienda ospedaliera. Secondo quanto stabilito dalla citata direttiva del maggio 2022 la visita di idoneità serve a escludere “patologie evidenti come malattie infettive contagiose, disturbi psichiatrici, patologie acute o cronico degenerative che non possano ricevere le cure adeguate in comunità ristrette”.

    La presenza tra le “spese” di antipsicotici, antiepilettici o di creme e gel che curano, ad esempio, la scabbia, sembra quindi un “controsenso”. “Se non si può arrivare a parlare di incompatibilità assoluta è perché il regolamento è un riferimento normativo secondario -sottolinea Maurizio Veglio, avvocato di Torino e socio dell’Asgi specializzato in materia di detenzione amministrativa-. Se una prescrizione legislativa specifica che persone con determinate patologie non possono stare nel centro e poi abbiamo percentuali di spesa così alte per farmaci ‘congruenti’ con quel profilo c’è una frizione molto forte”.

    “Nel Cpr la cura della salute non è affidata a medici e figure specialistiche che lavorano per il Ssn, bensì al personale assunto dagli enti gestori” – Nicola Cocco

    Una frizione che si traduce, concretamente, nella presenza di farmaci acquistati in diversi Cpr come Quetiapina, Olanzapina o Depakin, indicati nella terapia di schizofrenia e disturbo bipolare; Pregabalin (antiepilettico); Akineton, utilizzato per il trattamento del morbo di Parkinson (30mila compresse in due anni a Caltanissetta), piuttosto che il Rivotril. A Macomer, in provincia di Nuoro, l’ente gestore Ors Italia in una comunicazione rivolta alla prefettura il 9 settembre 2020 di cui abbiamo ottenuto copia scrive che la “comunità di persone trattenute è caratterizzata da soggetti con le più svariate criticità […]: tossicodipendenza, soggetti con doppia diagnosi (dipendenza e patologia psichiatrica, ndr), pazienti affetti da patologie dermatologiche”. Uomini e donne per cui non è problematizzato l’ingresso o meno nel centro. E il Servizio per le dipendenze patologiche territoriale (Serd), dal canto suo, ci ha fornito i piani di trattamento degli ultimi tre anni.

    Il metadone è presente anche nelle spese di Torino (circa 1.150 euro in quattro anni). Sempre nel capoluogo piemontese, nello stesso periodo, la spesa per la Permetrina, un gel antiscabbia, è di quasi 2.800 euro; una voce che si ritrova anche a Milano e Caltanissetta dove, nel 2022, sono stati acquistati 109 tubetti di Scabianil mentre a Roma, nel 2020, troviamo un farmaco per la tubercolosi (50 compresse di Nicozid). In tutti i Cpr in analisi troviamo anche antimicotici, legati a infezioni fungine (dermatologiche o sistemiche). “Se non c’è incompatibilità assoluta, l’idoneità non può essere valutata su una ‘normale’ vita comunitaria, ma va ‘calibrata’ sulla specificità di quello che sono quelle strutture -conclude Veglio-. A Torino, prima della sua momentanea chiusura a inizio marzo 2023 dormivano sette persone in 35 metri quadrati”. Luoghi definiti eufemisticamente come “non gradevoli” dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a metà marzo 2023 a commento delle nuove regole sull’ampliamento della rete dei centri rispetto a cui le informazioni sono spesso frammentate o mancanti.

    Un tema che ritorna anche rispetto alla spesa sui farmaci. Due esempi: a Palazzo San Gervasio, struttura situata in provincia di Potenza e gestita da Engel Italia, secondo l’Asl nel 2022 la spesa totale è pari ad appena 34 euro (un dato costante dal 2018 in avanti) senza la presenza di psicofarmaci o antipsicotici. Un quadro diverso da quello descritto dai medici operanti all’interno del Centro che, secondo quanto riportato dall’Asgi in un report pubblicato nel giugno 2022, dichiaravano un “massiccio utilizzo di psicofarmaci (Rivotril e Ansiolin) da parte dei trattenuti”. Un copione che si ripete anche per il centro di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, già finito sotto i riflettori degli inquirenti. A metà gennaio 2023 è iniziato infatti il processo per la morte di Vakhtang Enukidze, 37 anni originario della Georgia, avvenuta il 18 gennaio 2020.

    Vakhtang Enukidze è morto nel Cpr di Gradisca d’Isonzo il 18 gennaio 2020 per edema polmonare e cerebrale causato da un cocktail di farmaci e stupefacenti

    Come ricostruito sul quotidiano Domani, l’autopsia ha accertato che la causa della morte è edema polmonare e cerebrale per un cocktail di farmaci e stupefacenti. Pochi mesi dopo, il 20 luglio 2020, Orgest Turia, 28enne originario dell’Albania, è morto per overdose di metadone. Due morti che danno ancor più rilevanza all’accesso ai dati. Ma sia l’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina (Asugi) sia la prefettura di Gorizia riferiscono ad Altreconomia di non averli a disposizione. In particolare, l’ufficio del governo sottolinea che “l’erogazione dei servizi non avviene tramite rendicontazione delle spese mediche affrontate”. Citando la “documentazione di gara” si specifica che le spese per i farmaci sono ricomprese “nell’ammontare pro-capite pro-die riconosciuto contrattualmente”. Buio pesto anche a Brindisi, Trapani e Bari.

    Qualche tribunale inizia però a fare luce. È il caso di Milano, dove a fine gennaio 2023 la giudice Elena Klindani non ha convalidato il prolungamento della detenzione di un ragazzo di 19 anni, rinchiuso in via Corelli da cinque mesi, perché “ogni ulteriore giorno di trattenimento comporta una compromissione incrementale della salute psicofisica per il sostegno della quale non è offerta alcuna specifica assistenza, al di fuori terapia farmacologica” e la salute del giovane “è suscettibile di ulteriore compromissione per via della condizione psicologica determinata dalla protratta restrizione della libertà personale”. Altro che “luogo non gradevole”.

    https://altreconomia.it/rinchiusi-e-sedati-labuso-quotidiano-di-psicofarmaci-nei-cpr-italiani
    #rétention #détention_administrative #Italie #CPR #asile #migrations #sans-papiers #médicaments #psychotropes #données #chiffres #cartographie #visualisation #renvois #expulsions #coût #Rivotril #sédatif #Clonazepam #benzodiazépines #Tavor #Tranquirit #Valium #Zoloft #Bromazepam #Buscopan #Quetiapina #Olanzapina #Depakin #méthadone #Permetrina #Scabianil #Nicozid #Ansiolin

    • Condizioni di detenzione nei Centri per il Rimpatrio - Conferenza stampa di #Riccardo_Magi
      https://webtv.camera.it/evento/22168

      –-

      “Rinchiusi e sedati” alla Camera dei deputati grazie a @riccardomagi e @cucchi_ilaria che chiedono “spiegazioni urgenti” al ministro Piantedosi sull’abuso di psicofarmaci all’interno dei Cpr denunciato dall’inchiesta: “La verità è una sola, questi luoghi vanno chiusi”

      https://twitter.com/rondi_luca/status/1644003698765381632

    • “Perché i Centri di permanenza per il rimpatrio devono indignare”

      L’avvocata Giulia Vicini, socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, conosce bene i Cpr e le condizioni di vita di chi vi è trattenuto. In particolare in quello di via Corelli a Milano. Luoghi di privazione della libertà, con garanzie inferiori a quelle della custodia in carcere. Stigmi cittadini. Il suo racconto

      Cpr. A dispetto del nome e dei nomi che lo hanno preceduto -Centro di permanenza temporanea (Cpt), Centro di identificazione ed espulsione (Cie), e ora l’acronimo sta per Centro di permanenza per il rimpatrio- si tratta di un luogo di privazione della libertà personale. La stessa struttura di questi centri lo dimostra: alte mura, filo spinato e telecamere sul perimetro. Presidio costante di almeno quattro corpi di forze dell’ordine: esercito, carabinieri, polizia di Stato e Guardia di Finanza.

      I francesi hanno trovato un nome per diversificare la privazione della libertà personale dei cittadini stranieri in attesa di rimpatrio dalla detenzione nelle carceri ed è “retention”. In Italia si parla di trattenimento amministrativo. Come lo si voglia chiamare, si tratta della stessa privazione della libertà personale a cui sono sottoposti coloro che sono stati condannati per avere commesso dei reati. Chi sta nel Cpr non può andare da nessuna parte e risponde a regole che sono proprie del carcere, nonostante siano diversi i presupposti per il trattenimento e anche le garanzie e le tutele del trattenuto.

      I trattenuti nel Cpr sono cittadini stranieri in attesa dell’espletamento delle procedure di esecuzione di un rimpatrio forzato. Tra i presupposti (quantomeno quelli previsti dalla legge) per il trattenimento presso il Cpr vi è quindi anzitutto di non avere o non avere più un titolo per soggiornare regolarmente nel territorio nazionale, un permesso di soggiorno. Prendendo in prestito uno degli alienanti nomi in voga nel dibattito pubblico, chi può essere trattenuto al Cpr è “irregolare”. O, peggio ancora, “clandestino”. Ma, sempre in forza delle norme di legge, l’irregolarità non è sufficiente perché si possa applicare la misura del trattenimento presso il Cpr. È anche necessario che lo straniero sia “espellibile”, che possa essere destinatario di un provvedimento di rimpatrio. Questo perché l’ordinamento nazionale prevede delle ipotesi in cui il cittadino straniero, pur non avendo un permesso di soggiorno, non può essere allontanato dal territorio nazionale. È il caso dei minori, delle donne in stato di gravidanza e -quantomeno fino alla recente riforma della protezione speciale- di coloro che avevano maturato in Italia dei legami famigliari o sociali significativi e degni di protezione.

      Ulteriore presupposto perché le autorità di pubblica sicurezza possano ricorrere al trattenimento è che il provvedimento di rimpatrio comminato possa essere eseguito con la forza. L’uso della forza e il trattenimento sono infatti previsti come ultima ratio per garantire l’esecuzione del rimpatrio. L’ordinamento disciplina delle misure alternative, meno afflittive della libertà personale, quali ad esempio l’obbligo di firma e il ritiro del passaporto.

      Questi i presupposti di legge. L’esperienza però ci mostra che nei Cpr vengono spesso trattenute persone inespellibili o che potrebbero avere accesso a misure alternative. Quello che è certo è che chi è trattenuto presso il Cpr non ha commesso alcun reato, o quantomeno non è trattenuto per avere commesso un reato. Il suo trattenimento è unicamente finalizzato a consentire alle autorità di pubblica sicurezza di rimuoverlo forzatamente dal territorio.

      Che il trattenimento nel Cpr non sia conseguenza di alcun reato è tanto più evidente se si considera che anche chi vi è trattenuto dopo avere espiato una pena in carcere non lo è per “pagare” una pena -appunto già pagata altrove- ma per essere identificato, in un sistema che si rivela incapace, o forse disinteressato a procedere all’identificazione e al riconoscimento durante la (spesso lunga) permanenza in carcere.

      Per riassumere, della popolazione del Cpr fanno parte coloro che entrano nel territorio senza un titolo per l’ingresso o il soggiorno o che entrano con un titolo trattenendosi però oltre la sua scadenza. Coloro che perdono un titolo di soggiorno spesso per cause non a loro imputabili, quali la perdita dell’occupazione. Ma anche i richiedenti asilo. Coloro che chiedono protezione internazionale perché in fuga da persecuzioni e guerre.

      Il decreto legge 20/2023 convertito in legge 50/2023 ha peraltro reso il trattenimento del richiedente asilo la norma ogni qualvolta la domanda è presentata “in frontiera”. Dove il concetto di frontiera si amplia a dismisura ricomprendendo territori scelti senza alcuna apparente ragione (si pensi ad esempio Matera) con la conseguenza che alla domanda di protezione presentata in questi territori seguirà un trattenimento. Le direttive europee prescrivono che il trattenimento del richiedente protezione debba rappresentare una misura eccezionale e che si debbano distinguere i luoghi di trattenimento perché diversi sono i presupposti e diverse le procedure e le garanzie. Nondimeno i richiedenti asilo possono essere trattenuti fino a dodici mesi negli stessi luoghi dei cittadini stranieri in attesa di esecuzione del rimpatrio.

      Quando e quanto si può essere trattenuti nel Cpr? Sul quando, si è già detto, lo straniero che viene portato al Cpr non è solo quello che è appena entrato in Italia ma anche quello che si trova nel territorio da moltissimi anni e che nel territorio ha costruito un percorso di vita. Sul quanto vale la pena interrogarsi perché la disciplina degli stessi termini del trattenimento dimostra l’esclusiva funzionalità alla conclusione di un procedimento -quello di espulsione- che molto spesso le autorità non portano a termine. La proroga del trattenimento, dopo i primi trenta giorni, può infatti essere consentita dal Giudice di pace solo se “l’accertamento dell’identità e della nazionalità ovvero l’acquisizione di documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà”. Il trattenimento può essere prorogato per altri trenta giorni solo se risulta probabile che il rimpatrio venga eseguito. Il trattenimento non solo è funzionale all’esecuzione del rimpatrio ma anche spesso determinato da inefficienze o ritardi della Pubblica amministrazione.

      Dove si consuma il trattenimento ai fini del rimpatrio? Nonostante le nostre preoccupazioni e la nostra indignazione riguardino spesso, legittimamente, i Cpr, gli stranieri destinatari di misure di rimpatrio vengono trattenuti anche negli aeroporti. In quella Malpensa in cui i titolari di passaporto italiano transitano senza alcun ostacolo e in cui i cittadini stranieri a cui si contesta di “non avere i documenti in regola” al momento del loro arrivo vengono trattenuti anche fino a otto giorni, in aree sterili, senza vedere la luce del giorno e senza avere accesso ai loro oggetti personali, e poi vengono “accompagnati” all’aereo che li riporta a casa. Dall’entrata in vigore del decreto legge 113/2018 è inoltre possibile trattenere presso dei locali all’interno delle questure in attesa di rimpatrio. E negli uffici di via Montebello della questura di Milano questi locali esistono e vengono comunemente utilizzati.

      Infine, quello che forse più deve indignare è come si svolge il trattenimento. Ai trattenuti nel Cpr sono riconosciute garanzie inferiori a quelle della custodia in carcere, tanto nel procedimento che porta alla privazione della libertà, quanto nelle condizioni materiali di tale privazione. Il caso dell’utilizzo della forza pubblica per l’esecuzione del rimpatrio di cittadini stranieri è l’unico per cui -in alcune ipotesi- la legge nazionale esclude la necessità di una convalida giudiziaria. Questo vale per i respingimenti “immediati” ai valichi di frontiera e anche, con l’entrata in vigore del decreto legge 20/2023, per chi è destinatario di misure di espulsione di carattere penale. Anche dove una convalida giudiziaria è prevista, la stessa è molto al di sotto degli standard del giusto processo, con udienze che si svolgono da remoto, senza concedere ai legali adeguato tempo per conferire con l’assistito, e hanno una durata complessiva di poco più di un quarto d’ora. Nel procedimento di convalida, inoltre, opera spesso un’inversione de facto dell’onere della prova in cui lo straniero deve offrire prova documentale di tutto quello che deduce mentre sulle dichiarazioni rese dalla Questura, parte istante, si fa cieco affidamento.

      Quanto alle condizioni, l’ampia reportistica risultante dai sopralluoghi effettuati presso i Cpr è più che eloquente. Lo straniero trattenuto non riceve alcuna informativa sui diritti e sui servizi a cui ha titolo. Significativo è che lo stesso venga identificato e arrivando nella sala colloqui con l’avvocato si identifichi con un numero. Quando si iniziano a identificare le persone con i numeri la storia ci insegna che non si arriva mai a nulla di buono.

      https://altreconomia.it/perche-i-centri-di-permanenza-per-il-rimpatrio-devono-indignare

    • Abuso di psicofarmaci nei Cpr: perché la versione del ministro Piantedosi non sta in piedi

      Intervistato da Piazzapulita sulle terribili condizioni dei trattenuti nei Centri, il titolare del Viminale ha provato a confutare i risultati della nostra inchiesta “Rinchiusi e sedati”. Ma le sue tesi non reggono: dalla presunta richiesta dei reclusi all’ipotizzata presenza solo di persone con reati commessi durante la loro permanenza in Italia

      Giovedì 25 maggio su La7 la trasmissione Piazzapulita (https://www.la7.it/piazzapulita/video/inchiesta-esclusiva-di-piazzapulita-violenze-e-psicofarmaci-ai-migranti-dentro-a) il servizio di Chiara Proietti D’Ambra ha mostrato immagini inedite sulle condizioni di vita delle persone recluse nei Centri di permanenza per il rimpatrio italiani (Cpr). Il lavoro si è concentrato sulle strutture di Gradisca d’Isonzo (Gorizia) e palazzo San Gervasio (Potenza) dando conto anche dei risultati dell’inchiesta “Rinchiusi e sedati” pubblicata da Altreconomia ad aprile e che per la prima volta ha quantificato, dati alla mano, l’abuso di psicofarmaci in cinque delle nove strutture detentive attualmente attive in Italia.

      Le immagini e i dati sono stati mostrati anche al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che ha risposto alle domande della giornalista Roberta Benvenuto (https://www.la7.it/piazzapulita/video/piantedosi-se-cpr-gestiti-da-privati-in-modo-insoddisfacente-possibilita-di-gest). Risposte lacunose, giunte tra l’altro prima in televisione rispetto alle quattro interrogazioni parlamentari presentate più di un mese fa da diversi senatori e deputati e tuttora rimaste inevase.

      Il ministro ha spiegato di “escludere nella maniera più categorica che vi sia un orientamento della gestione dei Centri finalizzata alla sedazione di massa. C’è una richiesta da parte degli ospiti. Fare il confronto tra le prescrizioni all’esterno e all’interno delle strutture non ha senso perché è più facile che nei Cpr si concentrano persone per cui quel tipo di prescrizioni si rivela normale”. Come descritto nella nostra inchiesta, presentata alla Camera dei Deputati a inizio aprile con Riccardo Magi e Ilaria Cucchi, l’utilizzo di psicofarmaci rispetto a un servizio dell’Asl che prende in carico una popolazione simile è però spropositato: 160 volte in più a Milano, 127,5 a Roma, 60 a Torino e così via.

      Il confronto è nato esattamente dalla necessità di quantificare un utilizzo di cui neanche le prefetture hanno contezza per partire da un dato di realtà che vada oltre le testimonianze dei reclusi. Piantedosi dichiara che non è significativo questo confronto perché il “sovrautilizzo” è dovuto al fatto che all’interno dei centri vi sono delle persone per cui quei farmaci sono necessari. Ma nell’inchiesta abbiamo riscontrato un largo utilizzo di Quetiapina, Olanzapina o Depakin, indicati nel­la terapia di schizofrenia e disturbo bipolare; Pregabalin (antiepilettico); Akineton, utilizzato per il trattamento del morbo di Parkinson (30mila compresse in due anni a Caltanissetta); Rivotril.

      Se questi farmaci sono forniti tramite prescrizioni e non somministrati al di fuori di quanto previsto dal foglio illustrativo, significa nei centri si trovano persone con patologie psichiatriche gravi. Ma nel maggio 2022 una direttiva dello stesso ministero dell’Interno aveva specificato che la visita d’ingresso nel Centro per valutare l’idoneità alla “vita” in comunità ristretta nella struttura deve escludere “pato­logie evidenti come malattie infettive contagio­se, disturbi psichiatrici, patologie acute o croni­co degenerative che non possano ricevere le cure adeguate in comunità ristrette”. Delle due l’una: o le persone non possono stare nei Centri per la loro condizione sanitaria, oppure i farmaci vengono forniti off-label, senza cioè seguire un preciso piano terapeutico.

      Nel centro di via Corelli a Milano, nonostante il 60% delle scatole di farmaci acquistate in cinque mesi sia stato di psicofarmaci, le visite psichiatriche svolte in quasi due anni (quindi un periodo più lungo) sono state appena otto. Un altro segnale inquietante sulle modalità di utilizzo di questi psicofarmaci.

      Va ricordato inoltre che all’interno dei Cpr la cura della salute non è affidata a medici che lavorano per il Sistema sanitario nazionale ma da personale assunto dagli enti gestori sulla base di convenzioni ad hoc con prefetture e aziende sanitarie locali. “Il ruolo del monitoraggio si è dimostrato carente se non assente. Il ricorso a specialisti psichiatri e centri di salute mentale, per quanto garantito dalla normativa vigente, risulta spesso difficoltoso dal punto di vista burocratico e poco utilizzato -ha spiegato ad Altreconomia il dottor Nicola Cocco, esperto di detenzione amministrativa-. L’utilizzo degli psicofarmaci all’interno di molti Cpr è appannaggio del personale medico dell’ente gestore, che quasi sempre non ha alcune esperienza di presa in carico della patologia mentale e della dipendenza, tanto più in un contesto complesso come quello della detenzione amministrativa per persone migranti”.

      Questo aspetto è problematico anche rispetto alla “giustificazione” avanzata dal ministro Piantedosi rispetto alla richiesta da parte delle stesse persone recluse della somministrazione di questi farmaci. “Dal punto di vista medico la eventuale ‘richiesta’ dei trattenuti non giustifica nulla: gli psicofarmaci vengono somministrati a discrezione del personale sanitario. Sempre”, ricorda Elena Cacello, referente sanitaria del Centro salute immigrati di Vercelli (VC).

      La presunta richiesta dei reclusi -presentata come giustificazione risolutiva- conferma in realtà l’inefficienza del sistema. “Vi è spesso una gestione improvvisata di eventuali quadri di patologia mentale dei trattenuti -ribadisce Cocco-. Tale improvvisazione si manifesta attraverso la prescrizione arbitraria di psicofarmaci da parte dei medici degli enti gestori, in mancanza spesso di un percorso di presa in carico e cura, ma solo per la risoluzione del sintomo”. Un sintomo che, considerando che non può essere presente già all’ingresso nel Centro (che quindi dovrebbe escludere il trattenimento), insorge a causa delle pessime condizioni di vita nelle strutture -dove non è prevista alcuna attività, spesso neanche nella disponibilità del proprio telefono cellulare- e dettato anche dalla necessità di “tenere buoni” i reclusi. “Un altro aspetto può ‘spiegare’ questo sovrautilizzo di psicofarmaci a scopo sedativo o tranquillizzante funziona: la somministrazione funziona come una vera e propria ‘camicia di forza farmacologica’ nei confronti delle persone trattenute, al fine di evitare disordini e, non meno importante, l’intervento diretto delle forze di polizia; è evidente come in questo caso l’utilizzo degli psicofarmaci non ha una rilevanza clinica per le persone interessate, bensì di sostegno all’apparato di polizia”.

      Il ministro ha dichiarato poi che “all’interno dei Cpr tutte le prestazioni sanitarie sono nella normalità garantite, controllate e monitorate”. Un dato smentito da diverse testimonianze di avvocati e attivisti che si occupano di detenzione amministrativa ma soprattutto da sentenze di tribunali.

      Partiamo da quella della giudice Elena Klindani che a fine gennaio 2023 non ha prorogato il trattenimento di un ragazzo di 19 anni rinchiuso in via Corelli a Milano da cinque mesi perché “ogni ulteriore giorno di trattenimento comporta una compromissione incrementale della salute psicofisica per il sostegno della quale non è offerta alcuna specifica assistenza, al di fuori terapia farmacologica” e la salute del giovane “è suscettibile di ulteriore compromissione per via della condizione psicologica determinata dalla protratta restrizione della libertà personale”. Per avere una panoramica completa di quello che succede è utile leggere, tra gli altri, “Il Libro nero del Cpr di Torino”, a cura dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che racconta “quattro casi di ordinaria ferocia” di persone trattenute nel Cpr da Torino che danno conto dell’insufficiente garanzia rispetto alle cure sanitarie di cui necessitano i trattenuti e il lavoro di denuncia dell’Associazione Naga, con sede a Milano, che da diversi anni segnala la scarsa tutela della salute all’interno del centro di via corelli. E poi i lavori della rete Mai più Lager-No ai Cpr e di LasciateCIEntrare.

      Moussa Balde, Wissem Abdel Latif, Vakhtang Enukidze sono solo alcuni dei nomi delle oltre 30 persone morte nei Cpr. Sul suicidio di Balde e di Enukidze sono tutt’ora in corso procedimenti penali, rispettivamente a Torino e a Trieste, per accertare le responsabilità di chi aveva in custodia i due giovani. Di fronte a questo quadro il titolare del Viminale ha parlato di “salute garantita” e dichiarato, solo a seguito dell’insistenza della giornalista, che è “possibile, probabile” che siano necessari più controlli.

      https://www.youtube.com/watch?v=OQF1F1lyFRY&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Faltreconomia.it%2F&

      Infine il ministro ha sottolineato che nei Cpr sarebbero presenti solamente persone con reati commessi durante la loro permanenza in Italia per una “prassi che si è consolidata negli anni”. “L’articolo 32 sul diritto alla salute è garantito a tutti, a prescindere dal loro passato”, ha giustamente risposto in studio lo psicoterapeuta Leonardo Mendolicchio.

      Ma il punto è che quanto detto da Matteo Piantedosi è falso. Secondo dati ottenuti da Altreconomia, e forniti proprio dal ministero dell’Interno, nel 2021 sono state 987 le persone che hanno fatto ingresso nei Cpr direttamente dal carcere: il 19% del totale di 5.174 trattenuti. Una percentuale a cui vanno certamente aggiunti coloro che hanno precedenti penali e vengono rintracciati sul territorio successivamente alla loro scarcerazione ma che comunque smentisce la versione governativa.

      Il ministro dichiara che non voler “rinforzare il sistema di espulsione e rimpatrio” sarebbe “omissivo” da parte di qualsiasi governo. Negli ultimi quattro anni la percentuale delle persone trattenute effettivamente rimpatriate ha superato il 50% solo nel 2017: questi centri non raggiungono quindi nemmeno l’obiettivo per cui sarebbero stati creati, sulla carta. La presunta omissione non passa dall’esistenza di queste strutture.

      Piantedosi ha poi paradossalmente auspicato una “collaborazione da parte degli ospiti” perché terribili scene come quelle mostrate nel servizio non avvengano più. Quasi a dire che i diritti fondamentali fossero materia da elargire, a mo’ di premio al merito, e non invece da garantire punto e basta. “Il Cpr è psicopatogeno di per sé e come sistema -conclude Cocco-. Le proteste sono legittime, sono un diritto. Chiedere più collaborazione è quasi come impedire a qualcuno di poter fare lo sciopero della fame: utilizzare il proprio corpo è la extrema ratio che si ha per manifestare il proprio malessere. Tocca allo Stato evitare che le persone si facciano male o muoiano. Non certo ai reclusi”. Che il ministro, nella lunga sequela di falsità, chiama “ospiti”.

      https://altreconomia.it/abuso-di-psicofarmaci-nei-cpr-perche-la-versione-del-ministro-piantedos

    • Pioggia di ansiolitici al Cpr di #Palazzo_San_Gervasio per rendere innocui i reclusi

      Oltre 2.800 pastiglie in appena sei mesi per poco più di 400 trattenuti transitati: i dati inediti sulla struttura in provincia di Potenza. La Procura intanto indaga sulla gestione di Engel Italia. Gli psicofarmaci sarebbero serviti a “neutralizzare ogni possibile lamentela per le condizioni disumane in cui spesso si trovavano a vivere le persone”

      Una scatola di psicofarmaci per ogni persona che è entrata al Cpr di Palazzo San Gervasio tra gennaio e luglio 2022. I dati inediti ottenuti da Altreconomia fotografano l’abuso dell’antiepilettico Rivotril e di benzodiazepine all’interno della struttura, su cui sta indagando anche la Procura di Potenza. “Le situazioni di degrado e non conformità al rispetto della persona umana e dei diritti in cui si trovavano a vivere i reclusi -scrivono gli inquirenti nell’ordinanza applicativa di misure cautelari di fine dicembre 2023 rivolta, tra gli altri, ad Alessandro Forlenza amministratore di fatto della Engel Italia Srl, che ha gestito il centro dal 29 ottobre 2018 al 23 giugno 2023- venivano lenite dall’uso inappropriato di farmaci sedativi volti a rendere gli ospiti innocui e quindi neutralizzare ogni loro possibile lamentela per le condizioni disumane in cui spesso si trovavano a vivere”.

      In sei mesi di spesa, da gennaio a luglio 2022, il 38% delle 791 scatole di farmaci acquistati erano psicofarmaci, per un totale di oltre 2.800 tra compresse e capsule e 1.550 millilitri in fiale o flaconi. Numeri esorbitanti se si considera che, secondo i dati della prefettura, la presenza media in struttura è stata di 70 persone con circa 400 transiti in sei mesi. Tra i farmaci acquistati troviamo soprattutto sedativi e ansiolitici come il Diazepam (65 scatole), l’Alprazolam (45), Tavor (14) ma anche Rivotril (77 confezioni), un antiepilettico con importanti effetti secondari di stordimento. “Tale farmaco veniva acquistato sistematicamente in quantità tali da non rimanere mai senza copertura -ha spiegato una delle operatrici sentite dalla Procura di Potenza-. Senza Rivotril sarebbe scoppiata la rivolta”.

      Gli inquirenti hanno così focalizzato la loro attenzione, rispetto all’operato della Engel Italia Srl, società madre di Martinina Srl, sotto indagine a Milano per presunte frodi nella gestione del Cpr di via Corelli, anche sull’utilizzo smodato degli psicofarmaci. Per diversi motivi. L’antiepilettico “Rivotril” dovrebbe essere utilizzato off-label, quindi al di fuori dei casi in cui la persona soffre di epilessia, solo laddove non vi siano “valide alternative terapeutiche” e in ogni caso con l’acquisizione del consenso della persona di cui, però, secondo la Procura, non vi sarebbe “alcuna traccia”.

      “Risulta che l’uso del medicinale -come si legge nell’ordinanza di custodia cautelare- prescindeva dalla volontà del paziente e corrispondeva alla specifica necessità di controllare illecitamente l’ordine pubblico interno da parte della Engel”. Che per la gestione del centro ha ricevuto oltre 2,8 milioni di euro dalla prefettura di Potenza.

      Un problema di quantità ma anche di modalità di somministrazione e prescrizione. La direzione dell’ente gestore, sempre stando alle ricostruzioni degli inquirenti, avrebbe richiesto “a seconda delle esigenze” di ridurre le dosi “per risparmiare sui costi del farmaco” allungando i flaconi con l’acqua. Ma non solo. Due medici operanti all’interno del Cpr sarebbero indagati per la redazione di “false ricette per la dispensazione dei predetti farmaci a carico del Servizio sanitario nazionale”.

      Con riferimento sempre agli psicofarmaci, “su 2.635 confezioni dispensate tra gennaio 2018 e agosto 2019 dai due medici ben 2.235 erano destinati a pazienti identificati con Stp (codice fiscale per chi non ha un permesso di soggiorno, ndr) e quindi presumibilmente ospitati presso il Cpr di Palazzo San Gervasio”. Con un dettaglio non di poco conto. Diverse prescrizioni sarebbero state destinate a soggetti, ordinanza alla mano, che erano già usciti dal Cpr. Un modo, presumibilmente, per continuare ad acquistare scatole di farmaci gravando sul sistema sanitario nazionale e non sull’ente gestore.

      I dati ottenuti da Altreconomia sui farmaci comprati dalla Engel Italia Srl potrebbero quindi essere solo una fetta di quelli somministrati perché riguardano quelli per cui la società ha chiesto rimborso dalla prefettura. Ma escludono quelli “passati” dall’azienda sanitaria. Rispetto a cui, però, i conti non tornano: nella nostra inchiesta “Rinchiusi e sedati” pubblicata ad aprile 2023 si è dato conto del riscontro dell’Asl territoriale che ha dichiarato importi bassissimi. Nei primi dieci mesi del 2022 in totale 19 prescrizioni e 34,7 euro di farmaci destinati al Cpr. Qualcosa, stando anche ai dati della Procura, non torna.

      Oltre agli psicofarmaci -tra cui troviamo anche la Quetiapina, antipsicotico prescrivibile per gravi patologie psichiatriche- nei farmaci acquistati dalla Engel si trovano diverse tipologie di farmaci acquistati che raccontano della presenza all’interno della struttura di persone dalla salute precaria. Due esempi su tutti: la Spiriva, prescrivibile per la broncopneumopatia, una malattia dell’apparato respiratorio caratterizzata da un’ostruzione irreversibile delle vie aeree e il Palexia, usato per il trattamento del dolore cronico grave in adulti che possono essere curati adeguatamente solo con antidolorifici oppioidi.

      Dal 20 giugno 2023 Engel Italia Srl non è più l’ente gestore del Cpr di Palazzo San Gervasio. Ad aggiudicarsi il nuovo appalto per 128 posti, con importo a base d’asta di 2,2 milioni di euro, è stata #Officine_Sociali, cooperativa di Priolo Gargallo in provincia di Siracusa. Officine Sociali ha partecipato a diverse gare per la gestione di Cpr e grandi strutture di accoglienza nel corso degli anni, finendo per aggiudicarsi la gestione dell’hotspot di Taranto e Pozzallo; per quest’utimo ha incassato, da inizio dicembre 2021 a giugno 2023, oltre 1,3 milioni di euro. Pochi mesi prima della gara indetta dalla prefettura di Potenza per la gestione del Cpr, Officine sociali costituiva un “raggruppamento temporaneo di imprese” con Martinina Srl, la nuova “creatura” di Forlenza, per aggiudicarsi la gara per la gestione del Cpr di Gorizia. Un anno prima, le due società avevano gareggiato insieme per vincere l’appalto di Torino. Una sinergia di intenti.

      Tornando alla gestione di #Engel_Italia Srl “il livello di assistenza e di cura”, secondo la Procura, sarebbe stato “insufficiente a garantire loro le modalità di trattenimento idonee ad assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della dignità umana”. Il servizio medico sarebbe stato garantito 4.402 ore in meno di quanto, quello infermieristico di più di 11mila in meno nel periodo compreso tra febbraio 2021 al 31 ottobre 2022. “Nell’ambulatorio è sempre mancata l’acqua corrente”, si legge nell’ordinanza. Per la gestione del Cpr di Potenza sono indagati anche dottori, due albergatori della zona, un commissario e due ispettori di polizia. “Gli ospiti apparivano infatti molto provati proprio dal contesto in cui si trovavano a vivere -ha raccontato un’operatrice sentita dalla Procura-. Dopo qualche settimana di permanenza alcuni di loro cominciavano a sviluppare comportamenti ossessivi come il camminare in cerchio”.

      A Milano intanto si verificano nuove proteste e violenze sui trattenuti nonostante il commissariamento, così come a Caltanissetta, dove la condizione di vita nelle strutture è insostenibile (un video dall’interno lo dimostra) fino ad arrivare Trapani, con la condanna del governo italiano da parte della Corte europea per i diritti dell’uomo per trattamenti inumani e degradanti a danni di un recluso nel Cpr. Tutto questo a meno di una settimana di distanza dal suicidio di Ousmane Sylla che ha acceso i riflettori sull’attuale gestione da parte di Ors Italia della struttura di Ponte Galeria a Roma. Intanto il ministero dell’Interno resta in silenzio: a “camminare in cerchio” sembra non essere solamente chi è trattenuto. Perché il sistema Cpr non va messo in discussione.

      https://altreconomia.it/pioggia-di-ansiolitici-al-cpr-di-palazzo-san-gervasio-per-rendere-innoc

  • Threatening wilderness, dams fuel protests in the Balkans

    For almost a year, a clutch of Bosnian women has kept watch over a wooden bridge to disrupt the march of hydropower - part of a Balkan-wide protest against the damming of Europe’s wild rivers.

    From Albania to Slovenia, critics fear the proposed run of dams will destroy their majestic landscape, steal their water and extinguish species unique to the Balkans.

    So the village women stake out the bridge around the clock, listening out for the telltale sounds of diggers on the move.

    “We are always here, during the day, at night, always,” said Hata Hurem, a 31-year-old housewife, in the shadow of the towering mountains that dominate the Balkan landscape.

    Clustered by a creek on the edge of the village of Kruscica, about 40 miles north west of Sarajevo, the local women have taken turns to stand firm, blocking trucks and scrapers from accessing the construction sites of two small plants.

    Investment in renewable energy is growing worldwide as countries rush to meet goals set by the Paris Agreement on climate change. But from China to South America, dams cause controversy for flooding fragile ecosystems and displacing local communities.

    Plans to build almost 3,000 hydropower plants were underway across the Balkans in 2017, about 10 percent of them in Bosnia, according to a study by consultancy Fluvius.

    Authorities and investors say boosting hydropower is key to reducing regional dependency on coal and to falling in line with European Union energy policies as Western Balkan states move toward integration with the bloc.

    Sponsored

    The energy ministry of the Federation of Bosnia and Herzegovina, one of Bosnia’s two autonomous regions, where Kruscica is located, did not respond to a request for comment.

    The government of Bosnia’s other region, Republika Srpska, said building dams was easier and cheaper than shifting toward other power sources.

    “The Republic of Srpska has comparative advantages in its unused hydro potential and considers it quite justified to achieve the goals set by the EU by exploiting its unused hydropower,” said energy ministry spokeswoman Zorana Kisic.
    DAMS AND PICKETS

    Yet, critics say the “dam tsunami” - a term coined by anti-hydropower activists - endangers Europe’s last wild rivers, which flow free.

    If rivers stop running freely, they say dozens of species, from the Danube Salmon to the Balkan Lynx, are at risk.

    About a third of the planned dam projects are in protected areas, including some in national parks, according to the 2017 study, commissioned by campaign groups RiverWatch and Euronatur.

    Most plants are small, producing as little as up to 1 MW each - roughly enough to power about 750 homes - but their combined impact is large as activists say they would cut fish migration routes and damage their habitat.

    “Three thousand hydropower plants ... will destroy these rivers,” said Viktor Bjelić, of the Center for Environment (CZZS), a Bosnian environmental group.

    “Many of the species depending on these ecosystem will disappear or will be extremely endangered.”

    Some local communities fear displacement and lost access to water they’ve long used for drinking, fishing and farming.

    In Kruscica, protesters say water would be diverted through pipelines, leaving the creek empty and sinking hopes for a revival of nature tourism that attracted hikers, hunters and fishing enthusiasts before war intervened in the 1990s.

    “(The river) means everything to us, it’s the life of the community,” said Kruscica’s mayor Tahira Tibold, speaking outside the barren wooden hut used as base by demonstrators.

    Locals first heard about the plants when construction workers showed up last year, added the 65-year-old.

    Women have led protests since fronting a picket to shield men during a confrontation with police last year, said Tibold.

    Campaigners have taken their plight to court, alleging irregularities in the approval process, and works have stalled. But demonstrators keep patrolling around the clock, said Bjelić of CZZS, as it is not known when or how the case will end.
    SHADES OF GREEN

    The protest was backed by U.S. clothing company Patagonia as part of a wider campaign to preserve Balkan rivers and dissuade international banks from investing in hydropower.

    Banks and multilateral investors including the European Investment Bank (EIB), the European Bank for Reconstruction and Development (EBRD) and the World Bank’s International Finance Corporation (IFC), fund hundreds of projects, according to a 2018 study by Bankwatch, a financial watchdog.

    “It’s a waste of money and a moral travesty that some of the world’s largest financial institutions have embraced this out-dated and exploitative technology,” Patagonia founder Yvon Chouinard said in a statement in April.

    The World Bank, EBRD and EIB said their investments have to comply with environmental and social standards, which EBRD and EIB said they were strengthening.

    EBRD said it also improved its assessment process and pulled out of some projects near protected areas.

    “Hydropower is an important source of renewable energy for Western Balkans,” said EBRD’s spokeswoman Svitlana Pyrkalo.

    Bosnia gets 40 percent of its electricity from hydropower, the rest from coal-fired power plants. It plans to increase the share of renewables to 43 percent by 2020, under a target agreed with the EU.

    Dams are generally considered more reliable than wind and solar plants as they are less dependent on weather conditions.

    But that could change with global warming if droughts and floods grow more common, said Doug Vine, a senior fellow at the Center for Climate and Energy Solutions, a U.S.-based think tank.

    Last year a long drought lowered water levels across the Western Balkans, hitting hydropower output and driving up prices.

    Campaigners say Balkan states should focus on solar and wind power as they involve less building works and cost less.

    “Just because it doesn’t emit CO2 it doesn’t mean it’s good,” said Ulrich Eichelmann, head of RiverWatch.

    “Is like saying (that) … smoking is healthy because it doesn’t affect the liver”.

    https://www.reuters.com/article/us-bosnia-environment-dams/threatening-wilderness-dams-fuel-protests-in-the-balkans-idUSKCN1J0007
    #barrages_hydroélectriques #eau #énergie #Balkans #Bosnie #résistance #manifestations #faune #wildlife

    • Dans les Balkans, un « tsunami de barrages » déferle sur les écosystèmes

      Portée par une image verte et des financements européens, l’énergie hydroélectrique connaît de multiples projets dans les Balkans. Au grand dam des populations locales concernées et au détriment d’écosystèmes encore préservés.

      « Ne touchez pas à la #Valbona ! » « Laissez les fleuves libres ! » Le soleil automnal à peine levé, les cris et les slogans d’une trentaine de manifestants résonnent jusqu’aux plus hauts sommets des « Alpes albanaises ». Coincée entre les montagnes du #Monténégro et du #Kosovo, la vallée de la Valbona a longtemps été l’une des régions les plus isolées d’Europe. Les eaux cristallines de sa rivière et le fragile écosystème qui l’entoure attirent depuis quelques années des milliers de personnes en quête de nature sauvage.

      « Les barrages vont détruire les rares sources de revenus des habitants. Sans le tourisme, comment peut-on gagner sa vie dans une région si délaissée ? » Après avoir travaillé une quinzaine d’années à l’étranger, Ardian Selimaj est revenu investir dans le pays de ses ancêtres. Ses petits chalets en bois se fondent dans la végétation alpine. Mais, à quelques dizaines de mètres seulement, les bétonnières sont à l’œuvre. Malgré l’opposition bruyante des habitants et des militants écologistes, le lit de la rivière est déjà défiguré. « Si la Valbona est bétonnée, ce ne sera plus un parc national mais une zone industrielle », se désole Ardian Selimaj, la larme à l’œil.

      Les barrages qui se construisent aux confins albanais sont loin d’être des cas uniques. « Les Balkans sont l’un des points chauds de la construction des centrales hydroélectriques. Près de 3.000 y sont prévus ou déjà en construction ! » Militant écologiste viennois, Ulrich Eichelmann se bat depuis près de trente ans pour la protection des rivières d’Europe. Son ONG, RiverWatch, est en première ligne contre les 2.796 centrales qu’elle a recensées dans le sud-est du continent. De la Slovénie à la Grèce, rares sont les rivières épargnées par ce « tsunami de barrages ».
      Un désastre environnemental qui se fait souvent avec le soutien du contribuable européen

      « Les raisons de l’explosion du nombre de ces projets sont multiples, commente Ulrich. La corruption, la mauvaise compréhension des enjeux climatiques, les intérêts financiers qu’y trouvent les banques et les institutions financières, l’extrême faiblesse de l’application des lois... » Dans des sociétés malmenées par la corruption, les investisseurs ont peu de mal à faire valoir leurs intérêts auprès des dirigeants. Ceux-ci s’empressent de leur dérouler le tapis rouge. Et sont peu enclins à appliquer leur propre législation environnementale : 37 % des barrages envisagés le sont au cœur de zones protégées.

      Parc national ou zone Natura 2000, des points chauds de la biodiversité mondiale sont ainsi menacés. Un désastre environnemental qui se fait souvent avec le soutien du contribuable européen. « En 2015, nous avons constaté que la Banque européenne pour la reconstruction et le développement (Berd) avait financé 21 projets dans des zones protégées ou valorisées au niveau international », commente Igor Vejnovic, de l’ONG Bankwatch-CEE. Alors que l’Union européenne (UE) promeut officiellement les normes environnementales dans la région, on retrouve ses deux grandes banques de développement derrière plusieurs constructions de centrales. Igor Vejnovic dénonce « un soutien à des projets qui ne seraient pas autorisés par la législation européenne en vigueur ».

      Un soutien financier qui est d’ailleurs difficile à établir. « Leur nombre est probablement encore plus élevé, assure Igor Vejnovic, car la Banque européenne d’investissement (BEI) et la Berd financent ces centrales par des intermédiaires régionaux et les deux banques refusent systématiquement d’identifier les porteurs des projets en invoquant la confidentialité du client. » Des clients qui font souvent peu de cas des obligations légales. Selon Bankwatch-CEE, de nombreuses études d’impact environnemental ont été bâclées ou falsifiées. Des irrégularités parfois si caricaturales qu’elles ont conduit les deux banques européennes à suspendre, quand même, leurs prêts à d’importants projets dans le parc national de Mavrovo, en Macédoine. Ses forêts abritent l’une des espèces les plus menacées au monde, le lynx des Balkans.

      Grâce à une géographie montagneuse et à une histoire récente relativement épargnée par les phases destructrices de l’industrialisation, les rivières des Balkans offrent encore des paysages spectaculaires et une nature sauvage. Leurs eaux cristallines et préservées abritent près de 69 espèces de poissons endémiques de la région, dont le fameux saumon du Danube, en danger d’extinction. Une expédition de quelques jours sur la Vjosa, le « cœur bleu de l’Europe », a ainsi permis la découverte d’une espèce de plécoptères et d’un poisson encore inconnus de la science. Un trésor biologique méconnu dont les jours sont pourtant comptés. Malgré leurs conséquences catastrophiques, les petits barrages de moins de 1 MW se multiplient : ceux-ci ne nécessitent généralement aucune étude d’impact environnemental.
      La détermination des populations locales a fait reculer plusieurs barrages

      Louée pour son caractère « renouvelable », l’hydraulique représente 10 % du parc électrique français et près de 17 % de l’électricité produite sur la planète. Bénéficiant de la relative conversion du secteur énergétique au développement dit « durable », les barrages sont en pleine expansion à travers le globe. Les industriels de l’eau n’hésitent pas à le répéter : l’énergie hydraulique, « solution d’avenir », n’émet ni gaz à effet de serre ni pollution. Ces affirmations sont pourtant contredites par de récentes études. Peu relayées dans les grands médias, celles-ci démontrent que les pollutions causées par l’énergie hydraulique auraient été largement sous-estimées. Dans certaines régions du monde, les grandes retenues d’eau artificielles généreraient d’importantes productions de méthane (CH4), dont le pouvoir de réchauffement est 25 fois supérieur à celui du dioxyde de carbone (CO2).

      « L’hydroélectricité est l’une des pires formes de production d’énergie pour la nature, s’emporte Ulrich. Ce n’est pas parce qu’il n’émet pas de CO2 que c’est une énergie renouvelable. » Le militant écologiste s’indigne des conséquences de ces constructions qui transforment des fleuves libres en lacs artificiels. « La nature et les espèces détruites ne sont pas renouvelables. Quand une rivière est bétonnée, la qualité de l’eau baisse, le niveau des eaux souterraines en aval du barrage chute alors que la côte, elle, est menacée par l’érosion en raison de la diminution de l’apport en sédiments. »

      Les discours positifs des industriels tombent en tout cas à pic pour les dirigeants des Balkans, qui espèrent ainsi tempérer les oppositions à ces centaines de constructions. La diversification énergétique recherchée a pourtant peu de chances de profiter à des populations locales qui verront leur environnement quotidien transformé à jamais. « Si les promoteurs investissent parfois dans les infrastructures locales, cela a une valeur marginale par rapport aux dommages causés au patrimoine naturel et à la qualité de l’eau, explique Igor Vejnovic. L’hydroélectricité est d’ailleurs vulnérable aux périodes de sécheresse, qui sont de plus en plus fréquentes. » Les centrales dites « au fil de l’eau » prévues dans les Balkans risquent de laisser bien souvent les rivières à sec.

      Malgré les problèmes politiques et sociaux qui frappent les pays de la région, les mobilisations s’amplifient. La détermination des populations locales à défendre leurs rivières a même fait reculer plusieurs barrages. En Bosnie, où les habitants ont occupé le chantier de la Fojnička pendant près de 325 jours, plusieurs constructions ont été arrêtées. À Tirana, le tribunal administratif a donné raison aux militants et interrompu les travaux de l’un des plus importants barrages prévus sur la Vjosa. Après s’être retirée du projet sur la Ombla, en Croatie, la Berd a suspendu le versement des 65 millions d’euros promis pour les gros barrages du parc Mavrovo, en Macédoine, et a récemment commencé à privilégier des projets liés à l’énergie solaire. Cette vague de succès suffira-t-elle à contrer le tsunami annoncé ?


      https://reporterre.net/Dans-les-Balkans-un-tsunami-de-barrages-deferle-sur-les-ecosystemes
      #hydroélectricité #extractivisme

    • Balkan hydropower projects soar by 300% putting wildlife at risk, research shows
      More than a third of about 2,800 planned new dams are in protected areas, threatening rivers and biodiversity.

      Hydropower constructions have rocketed by 300% across the western Balkans in the last two years, according to a new analysis, sparking fears of disappearing mountain rivers and biodiversity loss.

      About 2,800 new dams are now in the pipeline across a zone stretching from Slovenia to Greece, 37% of which are set to be built in protected areas such as national parks or Natura 2000 sites.

      Heavy machinery is already channelling new water flows at 187 construction sites, compared to just 61 in 2015, according to the research by Fluvius, a consultancy for UN and EU-backed projects.

      Ulrich Eichelmann, the director of the RiverWatch NGO, which commissioned the paper, said that the small-scale nature of most projects – often in mountainous terrain – was, counterintuitively, having a disastrous impact on nature.

      “They divert water through pipelines away from the river and leave behind empty channels where rivers had been,” he told the Guardian. “It is a catastrophe for local people and for the environment. For many species of fish and insects like dragonflies and stoneflies, it is the end.”

      One stonefly species, Isoperla vjosae, was only discovered on Albania’s iconic Vjosa river this year, during an expedition by 25 scientists which also found an unnamed fish previously unknown to science. Like the Danube salmon and the Prespa trout, it is already thought to be at risk from what Eichelmann calls “a dam tsunami”.

      The scientists’ report described the Vjosa as a remarkably unique and dynamic eco-haven for scores of aquatic species that have disappeared across Europe. “The majority of these viable communities are expected to irrecoverably go extinct as a result of the projected hydropower dams,” it said.

      However, Damian Gjiknuri, Albania’s energy minister, told the Guardian that two planned megadams on the Vjosa would allow “the passage of fish via fish bypass or fish lanes”.

      “These designs have been based on the best environmental practices that are being applied today for minimising the effects of high dams on the circulation of aquatic faunas,” he said.

      Gjiknuri disputed the new report’s findings on the basis that only two “high dams” were being built in Albania, while most others were “run-of-the-river hydropower”.

      These generate less than 10MW of energy and so require no environmental impact assessments, conservationists say. But their small scale often precludes budgets for mitigation measures and allows arrays of turbines to be placed at intervals along waterways, causing what WWF calls “severe cumulative impacts”.

      Beyond aquatic life, the dam boom may also be threatening humans too.

      Since 2012, property conflicts between big energy companies and small farmers have led to one murder and an attempted murder, according to an EU-funded study. The paper logged three work-related deaths, and dozens of arrests linked to Albania’s wave of hydropower projects.

      Albania is a regional hotspot with 81 dams under construction but Serbia, Macedonia, and Bosnia and Herzegovina are also installing 71 hydro plants, and Serbia has a further 800 projects on the drawing board.

      Gjiknuri said the Albanian government was committed to declaring a national park on a portion of the Vjosa upstream from the planned 50m-high Kalivaçi dam, preventing further hydro construction there.


      https://www.theguardian.com/environment/2017/nov/27/balkan-hydropower-projects-soar-by-300-putting-wildlife-at-risk-researc
      https://www.theguardian.com/environment/2017/nov/27/balkan-hydropower-projects-soar-by-300-putting-wildlife-at-risk-researc
      signalé par @odilon il y a quelques temps:
      https://seenthis.net/messages/648548

    • Serbie : mobilisation citoyenne contre les centrales hydroélectriques dans la #Stara_planina

      L’État serbe a donné le feu vert aux investisseurs pour la construction de 58 centrales hydroélectriques sur plusieurs rivières dans la Stara planina. S’étalant à l’est de la Serbie, ce massif montagneux constitue la frontière naturelle entre la Serbie et la Bulgarie et continue jusqu’à la mer Noire. Cette zone protégée est l’une des plus grandes réserves naturelles de Serbie.


      https://www.courrierdesbalkans.fr/Serbie-mobilisation-citoyenne-contre-les-centrales-hydroelectriqu

    • Le #Monténégro se mobilise contre les mini-centrales hydroélectriques

      Quand les directives européennes sur les énergies renouvelables servent les intérêts des mafieux locaux... Après l’Albanie, la Bosnie-Herzégovine, la Croatie ou la Serbie, c’est maintenant le Monténégro qui entre en résistance contre les constructions de mini-centrales hydroélectriques. 80 projets sont prévus dans le pays, avec de très lourdes conséquences pour l’environnement et les communautés rurales.

      https://www.courrierdesbalkans.fr/Centrales-hydroelectrique-au-Montenegro

    • In Bosnia ed Erzegovina le comunità locali combattono per i propri fiumi

      Sono 122 i mini-impianti idroelettrici già in funzione e altri 354 sono in fase di realizzazione. Molti sono finanziati da società di altri Paesi europei che sfruttano scarsi controlli e corruzione. Ma le lotte stanno cambiando le cose

      Nella periferia di Sarajevo c’è un grande parco che richiama centinaia di turisti attirati da un intreccio di ruscelli e cascatelle. È la sorgente della Bosna, il fiume da cui la Bosnia ed Erzegovina prende il nome. Non è un caso che sia un corso d’acqua a ispirare il toponimo di questo Paese, che da sempre vive un legame strettissimo con i suoi fiumi. Che fluiscono, con un andamento spesso selvaggio, per un’estensione di oltre 11mila chilometri.

      A partire dagli anni Duemila, però, decine di centrali idroelettriche hanno iniziato a sorgere lungo questo reticolo per sfruttarne il potenziale energetico. In Bosnia ed Erzegovina le chiamano Mhe (sigla che sta per mini-hidroelektrane): piccoli impianti con una potenza installata inferiore ai dieci MegaWatt (MW). “Sono 108 i fiumi, in particolare piccoli torrenti di montagna, su cui sono state costruite delle centrali”, spiega Muriz Spahić, ex presidente dell’Associazione dei geografi bosniaci. Oggi in pensione, Spahić è uno degli scienziati che ha contribuito a definire gli impatti negativi delle Mhe sulla vita che si sviluppa dentro e intorno ai fiumi: “L’acqua che viene immessa nelle tubature diventa una creazione artificiale, in cui la vita animale sparisce”. A soffrirne sono ad esempio i pesci a causa della mancanza di percorsi dedicati per superare gli sbarramenti. Spahić denuncia inoltre come prelievi idrici eccessivi lascino spesso i letti in secca, soprattutto in estate.

      Oggi, secondo i dati dell’Ong Eko akcija sono 122 le Mhe in funzione e 354 quelle in fase di progettazione o costruzione. Un dato che include gli impianti della Federazione di Bosnia ed Erzegovina (FBiH) e della Republika Srpska, le due entità che, insieme al distretto autonomo di Brčko, compongono l’ossatura amministrativa del Paese. In totale, nel 2022, tutte le Mhe hanno generato circa il 2,7% della produzione elettrica nazionale, come rilevato dalla Commissione statale per l’energia. “Oltre ai danni ai fiumi, spesso abbiamo assistito a ingenti opere di disboscamento per permettere la costruzione delle strade d’accesso”, sostiene Jelena Ivanić del Centro per l’ambiente di Banja Luka, la principale associazione ambientalista della Republika Srpska.

      Accanto alla scrivania, una pila di dossier e libri raccoglie le lotte contro l’ipersfruttamento idrico che il centro porta avanti dal 2004. “Eppure, le Mhe erano state presentate come una soluzione meno invasiva rispetto ai grandi impianti”, afferma. In Bosnia ed Erzegovina, secondo i dati del think thank energetico Ember, dal 2000 il carbone genera oltre il 50% della produzione nazionale di elettricità. Il reticolo fluviale è diventato una risorsa appetibile dal 2005, quando la repubblica balcanica ha aderito all’Energy community treaty. Con l’accordo (che punta ad allineare le politiche energetiche di nove Paesi dell’Europa Sud-orientale a quelle dell’Ue) si rendono necessari nuovi investimenti per l’energia pulita. Un fattore che, anche grazie a generose sovvenzioni, stimola “una vera e propria corsa alla costruzione di questi piccoli impianti”, incalza Ivanić.

      “Sono 108 i fiumi, in particolare piccoli torrenti di montagna, su cui sono state costruite delle centrali” – Muriz Spahić

      Tuttavia, il boom di Mhe non passa inosservato, soprattutto nelle aree rurali dove le persone si erano abituate nei secoli a utilizzare i corsi d’acqua per i propri bisogni primari. Si diffonde così a macchia d’olio un movimento dal basso, capillare e interetnico, per la protezione dei fiumi. Nel 2016 più di 40 associazioni locali si sono unite in una coalizione nazionale, dimostrando un legame intimo tra uomini e acqua, che va oltre il semplice uso della risorsa.

      “Per 505 giorni abbiamo presidiato questo ponte, giorno e notte”, racconta Tahira Tibolt. Indica un cartello sul ciglio della strada: “Il ponte delle coraggiose donne di Kruščica”. Dal 2017 questo gruppo locale ha ostacolato l’accesso al fiume del proprio villaggio per bloccare un progetto idroelettrico, nonostante gli arresti, le minacce e alcuni violenti scontri con la polizia. Nel 2021, tutti i permessi sono stati annullati e le donne di Kruščica hanno vinto il Goldman Environmental Prize, una sorta di premio “Nobel per l’ambiente”. Tibolt ricorda come quei 505 giorni siano stati un momento di vera comunità: “Siamo state l’esempio che ci si può contrapporre con il corpo se non è possibile farlo per vie legali”.

      “Oltre ai danni ai fiumi, spesso abbiamo assistito a ingenti opere di disboscamento per permettere la costruzione delle strade d’accesso” – Jelena Ivanić

      Molte persone hanno anche subito danni diretti dalle Mhe. Meno di venti metri separano la mini-centrale di Kaćuni dalla camera da letto di Salko e Namira Hodžić. “Ancora ricordo i giorni della costruzione -lamenta l’uomo-. È stato un inferno: le ruspe hanno lavorato per 43 giorni, gli esplosivi usati per sbancare la roccia hanno crepato la casa e ci hanno costretti a rifarne una parte. Tra lavori e spese processuali abbiamo perso tra i 25 e i 35mila euro”. Oggi, per la coppia, il problema è il ronzio costante della centrale. “Quando tornano a trovarci, i nostri figli non vogliono più rimanere a dormire. Preferiscono andare in hotel”, racconta l’uomo, che ha denunciato i proprietari dell’impianto. La sua non è l’unica battaglia legale in corso. Al crescere dell’opposizione di associazioni e cittadini, sono aumentate anche le contromisure degli investitori. Attualmente sono più di trenta le cause aperte dall’Aarhus centar BiH, organizzazione che fornisce supporto legale gratuito ai movimenti ambientalisti.

      Come nel caso della querela temeraria che ha coinvolto due giovani attiviste di Sarajevo Est: Sara Tuševljak e Sunčica Kovačević. “Eravamo qui quando hanno costruito queste strade d’accesso alle Mhe. Abbiamo sentito le esplosioni, fotografato i detriti e gli alberi franati giù nel letto del fiume”, racconta Kovačević da una roccia a picco sul fiume Kasindolska. Sul suo telefono, mostra le foto dello stesso torrente secco e ricoperto di detriti. Nel 2022, quando le attiviste denunciano pubblicamente il potenziale rischio ambientale di questa situazione, arriva una chiamata dall’amministratore delegato di Green Invest, l’azienda belga a capo del progetto, che chiede loro di ritrattare. Un mese dopo, la compagnia Buk doo -di proprietà della società belga- presenta la prima di tre querele per diffamazione.

      “I permessi si ottengono molto velocemente e i controlli quasi non esistono. Agli investitori conviene di più pagare le multe che adeguarsi alla legge” – Nina Kreševljaković

      Anche Amnesty International ha considerato il provvedimento come un’azione strategica contro la partecipazione pubblica. Green Invest è solo una delle aziende europee che partecipano, a vario titolo, ai 95 progetti di Mhe censiti da Eko akcija in tutto il Paese. Quelli in cui sono coinvolte imprese italiane sono 14, tra cui la Sol Spa che ne conta ben cinque. “Ci si può chiedere cosa abbia attratto tutti questi investitori stranieri -incalza l’avvocata dell’Aarhus centar BiH, Nina Kreševljaković-. La risposta è molto semplice: qui regna l’anarchia”. Dal suo studio di Sarajevo elenca i vari problemi legati a questo settore: “I permessi si ottengono molto velocemente e i controlli quasi non esistono. Ci sono stati casi di corruzione, e agli investitori conviene di più pagare le multe che adeguarsi alla legge”.

      Un sistema, quello delle Mhe, che a lungo si è appoggiato alle feed-in tariffs, un piano agevolato attraverso il quale agli investitori veniva garantito l’acquisto di energia a un prezzo fino a quattro volte maggiore rispetto a quello di mercato, per un periodo di tempo tra i 12 e i 15 anni. “Dopo anni di lotte, grazie alla pressione di associazioni e Ong, nel 2022 il parlamento della FBiH ha adottato una legge che vieta la costruzione di nuove mini-centrali”, prosegue l’avvocata. Nella Republika Srpska il sistema delle Mhe è stato invece fortemente ridimensionato con una norma che vieta alle istituzioni di finanziarne di nuove. “Negli anni il movimento ha raggiunto grandi risultati -racconta Ulrich Eichelmann, direttore di RiverWatch, una delle Ong di conservazione ambientale più attive nei Balcani-. Il numero dei progetti di Mhe è diminuito drasticamente, anche perché ormai gli investitori sanno che la consapevolezza dei cittadini sul tema è cresciuta”.

      Il problema, ora, si sta spostando su nuove grandi opere energetiche come il “Gornji Horizonti” attualmente in costruzione in Erzegovina: un massiccio sistema di dighe, canali e sbarramenti concepito in epoca jugoslava e oggi ripreso in mano dal gruppo cinese Gezhouba. Il progetto, denuncia RiverWatch, muterà il corso di diversi fiumi con una portata impossibile da calcolare per la natura inesplorata del territorio. “Bisogna vedere come le persone affronteranno questi nuovi problemi -conclude Eichelmann- ma la radice di tutto ciò risiede in una visione che considera ogni risorsa naturale semplicemente come una risorsa per fare più soldi”.

      https://altreconomia.it/in-bosnia-ed-erzegovina-le-comunita-locali-combattono-per-i-propri-fium

      #Mhe