• L’8 marzo “clandestino” delle donne afghane che resistono ai Talebani

    Nonostante le difficoltà e le minacce, le attiviste celebrano la giornata per ricordare che il cambiamento è sempre possibile. Anche in un Paese dove oggi violenze domestiche e persino l’uccisione di una figlia non vengono puniti.

    Buio. Temperature polari, neve, fango e ancora buio. Di sera la città scompare nell’oscurità. L’elettricità c’è raramente. Le luci stradali e quelle dentro le case sono spente. I passi incerti degli uomini per strada, come fantasmi. Resti di una vita che non c’è più. Miliziani ovunque, posti di blocco. Sono vestiti meglio i Talebani: buone divise, mezzi potenti, armi efficienti, ereditati dall’esercito e dagli americani. È questa la Kabul che ritrova Rehana, militante della Revolutionary association of the women of Afghanistan (Rawa) dopo una lunga assenza. Nemmeno nelle case si sta al sicuro. I miliziani arrivano, sono una cinquantina. Circondano un quartiere, chiudono le strade. Poi entrano nelle abitazioni e perquisiscono, buttano all’aria tutto. Dicono di cercare armi ma rovistano anche nella biancheria delle donne. Alcune tra le nostre amiche attiviste hanno subito questa avventura. Se sei da sola in casa, convocano un testimone maschio altrimenti non potrebbero entrare. Mostrano a tutti che hanno il controllo del Paese, seminano paura. E ci riescono benissimo.

    La paura è entrata infatti nella pelle di tutti. Rehana racconta di averla davanti agli occhi ogni giorno quando prende l’autobus. Ha tempo di osservare dalla sua postazione di donna, schiacciata con le altre, in fondo. I posti buoni sono per gli uomini. Uomini spenti, sguardi opachi. Ascolta la desolazione, l’avvilimento, le storie delle donne. Si scambiano lo sconforto. Non c’è lavoro, non c’è da mangiare, niente per scaldarsi, non possono comprare nemmeno un pezzo di sapone per lavarsi. Le mamme si preoccupano per le figlie. Troppo vuoto nella mente. I disturbi psichici aumentano. Non c’è scuola, né lavoro, né distrazioni, né vita sociale. I Talebani si sono mangiati i loro sogni. Chiuse in casa, spesso una sola stanza, da mesi non possono uscire. È pericoloso: i miliziani possono portarsele via.

    Dopo il devastante terremoto che ha colpito Turchia e Siria il 6 febbraio molti hanno preso d’assalto l’aeroporto di Kabul, con l’obiettivo di salire sugli aerei che partono per portare soccorso: file di automobili come nell’agosto 2021, tanti venivano anche da altre province. La Turchia è la meta da raggiungere a qualsiasi costo: i Talebani sono spiazzati, fanno fatica ad arginare l’assalto, si spara fino a tarda sera. La gente, in città, pensa che ci sia stato un attentato. Khader non è riuscito a partire: “Comunque qui si muore. Preferisco perdere la vita sotto le macerie di un terremoto che qui”.

    Nel buio delle strade succede di tutto e al mattino si trovano i cadaveri. Il 9 febbraio, i Talebani hanno dichiarato di averne raccolti 148 nel corso del mese precedente. Si muore di freddo, di fame, di droga, per mano talebana, per l’aggressione da parte di un criminale, per omicidio, per attacchi suicidi.

    La stessa cupa prigione è saldamente installata nella mente degli uomini. Sahar, insegnante, racconta cos’è successo nel suo quartiere a una famiglia che conosce di vista. Un padre, Faiz, ama sua figlia quindicenne (così dice): bella, istruita, allegra, ne è fiero. La sorveglia costantemente: lei è preziosa, il suo migliore affare. La vende in sposa, con suo grande profitto, a un suo collega, un uomo rispettabile, più anziano di lui.

    Lei, Zahra, invece, ha altri progetti. È innamorata e si vede di nascosto con il suo fidanzato Amid, progettano la fuga. Ora che il padre l’ha promessa, non esce più. Il ragazzo di notte riesce a entrare nella sua stanza, vuole vederla. Sono vicini, si tengono le mani. Faiz, padre che ama sua figlia, controlla. La vita di Zahra gli appartiene, l’affare è già combinato. Tutta la casa controlla, anche i muri, gli scricchiolii, i pavimenti: tutte spie di Faiz. Allarmato, entra nella stanza, Amid scappa dalla finestra. Faiz prende il suo fucile e gli spara, ma ormai il ragazzo è sparito nel buio.

    Così, si gira, con la furia negli occhi, mentre la figlia gli urla che vuole sposare Amid, solo lui. Non ci pensa molto, riempie il corpo della sua bambina di pallottole. Zahra viene uccisa. Il padre solleva il cadavere, così leggero e lo getta nel cortile. I vicini si affacciano, le donne urlano. Faiz è ancora lì, con il fucile in mano e spinge via con i piedi il corpo della figlia. I vicini, spaventati, denunciano l’omicidio alle autorità. Eccoli, i “giudici”, con il turbante di traverso, armati fino ai denti. Gli occhi accesi da chissà quale delirio. Vedono il corpo della ragazza, nessuno ha osato spostarlo. Entrano in casa dove la madre non smette di singhiozzare. Parlano con Faiz. Ascoltano, annuiscono. I vicini spiano dalle finestre. Escono nel cortile per assistere alla “giustizia talebana”’. Ecco, ora sarà frustato, arrestato, ucciso, si dicono. Se lo porteranno via. Se lo merita. Ma i Talebani si complimentano con lui, gli danno pacche sulle spalle, lo lodano senza ritegno: “Hai fatto il tuo dovere. Ora il tuo onore è salvo e la sharia rispettata. Tua figlia era una puttana”. Giustizia è fatta.

    Oggi, in Afghanistan, i reati contro le donne non hanno nemmeno la dignità di essere delitti, sono comportamenti governati dalla sharia. Giustificati, accettati, accolti dentro la vita di ogni giorno. I codici cambiano e sono i Talebani a dettarli. La giustizia è sprofondata nel fanatismo. Oggi, nel silenzio del mondo, i Talebani fanno quello che vogliono. Impongono le loro pene: amputazioni, lapidazioni, frustate. E la voce delle donne, inascoltata, perde forza e si prosciuga. Sulle leggi che proteggevano le donne i Talebani non si esprimono nemmeno: per loro non sono mai esistite. Basta la sharia. Copre ogni caso sottoposto alla giustizia. La violenza degli uomini non è più un crimine, tanto meno quella domestica, non è oggetto di alcuna sanzione, è colpa delle donne che non hanno saputo servire bene i loro mariti. L’impunità nutre gli abusi, si annida nelle case, diventa a poco a poco la regola, un tarlo, una malattia. Il triste potere di annichilire devasta il cervello e l’anima degli uomini. Imprigiona la loro mente più del corpo delle donne.

    “Per i Talebani le donne non valgono nulla e tutte le decisioni vengono prese in loro assenza, in corti improvvisate, alla presenza degli anziani della tribù e della famiglia, solo maschi. Sono le vittime a rischiare: sanzioni, prigione o violenze sessuali da parte dei giudici”
    – Mirwais, avvocato penalista

    Chi ha difeso le donne è sotto tiro: avvocate, giudici, procuratrici, vivono nascoste sotto continua minaccia di morte. Sono conosciute e rischiano molto. Non basta impedire loro di lavorare, per i Talebani vanno eliminate. Soprattutto per quei padri e quei mariti che, a causa loro, erano stati imprigionati. Questi uomini sono stati tutti liberati dai Talebani, già nella loro corsa verso Kabul nell’agosto 2021. Ex prigionieri e combattenti hanno saccheggiato le case di donne giudici. E vogliono la loro vendetta. “Pochissime si rivolgono alle corti talebane per i loro problemi -dice Mirwais, avvocato penalista-. Per i nuovi governanti le donne non valgono nulla e tutte le decisioni vengono prese in loro assenza, in corti improvvisate, alla presenza degli anziani della tribù e della famiglia, solo maschi. Sono le vittime a rischiare: sanzioni, prigione o violenze sessuali da parte dei giudici”. La stampa non c’è più ma qualche notizia sulla “giustizia talebana” filtra sui social network. Ci sono state donne lapidate in diverse province, in quella di Badakhshan in particolare. A Ghowr una donna si è suicidata per sfuggire a questa crudele esecuzione. Nella provincia di Takhar, 40 giovani sono stati frustati in mezzo alla strada e messi in prigione per non aver osservato le prescrizioni su hijab e barbe. Scendere in strada è come andare in guerra.

    L’8 marzo in Afghanistan non c’è nulla da festeggiare. Non c’era nemmeno nei vent’anni passati quando, tranne poche eccezioni, la giustizia per le donne restava una chimera. Ma le militanti afghane che si battono per i diritti delle loro sorelle ci tengono molto a celebrare questa festa. Per loro è sempre stato un giorno importante e lo è ancora. “Serve a ricordarci le vittorie delle donne -dice Gulnaz, militante di Rawa-. Se loro ce l’hanno fatta, ce la faremo anche noi. Ci vorrà molto tempo ma le cose cambieranno. Oggi sappiamo che continueremo a combattere, con le armi della consapevolezza, dell’istruzione, della cura, della resistenza e con la forza della vita stessa. È questa che dobbiamo celebrare oggi”. Rawa e le altre associazioni di donne continuano a lottare. Trovano ogni escamotage per realizzare quello che serve: scuole, rifugi, ambulatori. Tutto segreto, per una vita che non si fa schiacciare. Continuano a inventare e a dare speranza alle donne. Rawa ci sarà l’8 marzo: le militanti arriveranno per l’occasione addirittura da altre province. Nonostante tutto, nei modi più fantasiosi, riusciranno ad affermare la certezza che qualcosa si può sempre fare per arginare l’orrore e nutrire la forza delle donne. Un giorno di coraggio che, ancora, i Talebani e gli altri tagliagole non sono riusciti a devastare.

    https://altreconomia.it/l8-marzo-clandestino-delle-donne-afghane-che-resistono-ai-talebani
    #Afghanistan #femmes #résistance #Revolutionary_association_of_the_women_of_Afghanistan (#Rawa) #Kaboul #peur #justice

  • #curious_about « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde »
    En finir avec une sentence de mort
    , de Pierre Tevanian & Jean-Charles Stevens

    Éditeur :

    « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde » : qui n’a jamais entendu cette phrase au statut presque proverbial, énoncée toujours pour justifier le repli, la restriction, la fin de non-recevoir et la #répression ? Dix mots qui tombent comme un couperet, et qui sont devenus l’horizon indépassable de tout débat « raisonnable » sur les migrations. Comment y répondre ? C’est toute la question de cet essai incisif, qui propose une lecture critique, mot à mot, de cette sentence, afin de pointer et réfuter les sophismes et les contre-vérités qui la sous-tendent. Arguments, chiffres et références à l’appui, il s’agit en somme de déconstruire et de défaire une « #xénophobie autorisée », mais aussi de réaffirmer la nécessité de l’#hospitalité.

    L’avis des libraires

    « Indispensable, achetez-le ! »

    Aurélie Garreau, Le Monte-en-l’air, Paris

    « Ça y est LE livre de la rentrée est arrivé. C’est un tout petit livre à 5 euros. « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde ». En finir avec une sentence de mort est pour toutes celles et ceux que cette phrase, entendue à propos de l’accueil de l’#immigration, a un jour fait bouillir de rage. C’est de l’outillage pour la pensée, c’est affûté, frondeur, indestructible. »

    Andreas Lemaire, Librairie Myriagone, Angers

    « Encore un texte brillant, outil formidable pour comprendre le monde et mettre en lumière ses contradictions qui toujours écrasent les plus faibles. Et toujours les formidables #éditions_Anamosa qui offrent aux auteurices la place pour écrire, pour dire nos sociétés et en disséquer les mécanismes, qui ont cette qualité non négligeable d’une ligne éditoriale cohérente, exigeante, à hauteur de tous, d’une finesse rare, ce qui entre nous soit dit, mérite d’être souligné. »

    Anaïs Ballin, Bruxelles

    « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde… mais quand on veut, on peut ! En déconstruisant cette terrible sentence, #Pierre_Tevanian et #Jean-Charles_Stevens nous proposent une autre vision du monde où la solidarité aurait enfin toute sa place. Un livre à partager, assurément ! »

    Emmanuel Languille, Fnac Nantes

    « Un texte court et efficace qui remet les pendules à l’heure. »

    Morgane Nedelec, Librairie Nordest, Paris

    « Petit essai d’à peine 5 euros (vous pouvez l’offrir à tous ceux qui disent encore « mais cette phrase a été amputée de sa fin ») qui est une forte analyse sémantique de cette phrase prononcée par #Michel_Rocard en 1989 et à plusieurs reprises. Pierre Tevanian et Jean-Charles Stevens interrogent notre humanité, notre capacité » à défaire ces esquives qui nous déconnectent de nos propres affects et de notre propre capacité de penser « .
    C’est brillantissime, comme très souvent avec Pierre Tevanian. »

    Sabrina Buferne, Librairie Les Traversées, Paris

    « Un texte instructif, pédagogique et sourcé, qui dénonce la xénophobie sous-tendue par cette sentence et rappelle la réalité de la question et des #enjeux_migratoires. »

    Mylène Ribereau, Librairie Georges, Talence

    « Une lecture critique, intelligente et implacable d’efficacité pour déconstruire la xénophobie institutionnalisée. PETIT TEXTE, GRANDE IMPORTANCE ! »

    Anne, Librairie de Paris, Paris

    « Envoyer au tapis les stéréotypes sur les demandeur·e·s d’#asile en 80 pages, il fallait le faire. En séquençant cette « sentence de mort » empreinte de la plus grande #violence, ce livre nous soulève et nous relève en collectif. Plus petit qu’un titre d’identité, plus percutant qu’un long discours, diffusons-le pour que s’effritent les murs de #haine, de #peur et de #mépris. »

    Anaïs, Librairie Passages, Lyon

    Pierre Tevanian et Jean-Charles Stevens dissèquent, mot par mot, avec rigueur et en s’appuyant sur les faits et les #chiffres de l’actualité du #mouvement_migratoire, cet aphorisme-piège, montrant comment derrière le « sens commun » dont cette phrase serait l’expression se cachent xénophobie et mépris, comment une telle « sentence de mort » prétend justifier la « stratégie du laisser-mourir en mer » et la multiplication des violences, humiliations et chicaneries administratives, subies par les migrants quand ils arrivent chez nous… Un petit texte à garder en mémoire pour contrer tous les pseudo-arguments, un livre à mettre entre toutes les mains de nos dirigeants et représentants… Ah, j’entends des ricanements… ah bon, vous vous demandez s’ils lisent encore ? Petits insolents ! »

    Vincent Gloeckler, Librairie Lafontaine, Privas

  • Qu’est-ce qu’on a fait pour avoir autant de poncifs sur l’immigration ?

    Depuis le début du XXIème siècle, les flux migratoires s’intensifient et ce au niveau mondial. Mais, en Europe, la France est loin d’accueillir le nombre de migrants que sa taille lui permet. Alors, pourquoi cette #exagération permanente ? Où est le #fantasme dans le débat migratoire ?

    Avec François Héran Sociologue et professeur au collège de France

    Les années passent et se ressemblent terriblement. En tout cas sur certains sujets… comme, par exemple, au hasard : l’#immigration ! Des lois à tire-larigot, des débats à tout bout de champ, des récits à qui mieux mieux.
    Ce n’est pas l’immigration que augmente, ce sont nos fantasmes qui prolifèrent. Pourquoi l’immigration suscite-t-elle autant de poncifs, de peurs et de #déni ? Et pourquoi, malgré les chiffres et les circulaires, on s’éloigne pourtant toujours de la réalité des mouvements migratoires ?
    Quelles vagues migratoires en France ?

    “Dans les années d’après-guerre, il y a énormément de reconstruction à réaliser. On a donc recours à de la main-d’œuvre étrangère à partir des années 1950. Le pourcentage d’immigrés, c’est-à-dire de personnes étrangères ou ayant acquis la nationalité française, stagne autour de 7% à partir des années 1970, les vagues migratoires ayant été limitées du fait du ralentissement économique lié aux chocs pétroliers. Depuis 2000, les mouvements migratoires augmentent d’environ 35% ou 40% en France, et de 60% au niveau mondial. Le flux s’étant le plus intensifié au XXIème siècle est celui des migrations d’étudiants internationaux.” François Héran

    Un bilan comptable de l’immigration ?

    “La #résistance à l’immigration vient notamment du sentiment de peur de manquer de ressources, d’abord d’emplois, maintenant de prestations sociales ou d’argent public. Présent depuis quelques années, le Front National a largement contribué à populariser l’idée que nous devons choisir entre le plein-emploi et la protection sociale, et l’accueil des immigrés. Mais cette idée n’est pas vraie. D’après l’OCDE, les immigrés sont surreprésentés dans les catégories actives et de par la consommation, leur travail et leurs cotisations nous coûtent moins qu’ils ne nous rapportent. Malheureusement, ce discours est inaudible.” François Héran

    Comment nommer les populations issues de l’immigration ?

    “Dans les années 1960-1970, on parlait de travailleurs immigrés car on nourrissait l’idée que ces migrations étaient temporaires et non pas celle que les familles allaient rejoindre les travailleurs en France. Lorsque les effectifs d’étudiants, de familles se sont multipliés, on a changé de termes pour parler d’immigrés. Dans le #vocabulaire courant, le mot ’immigré’ a pris une connotation extrêmement négative. Donc dans les enquêtes qu’on réalise auprès de populations issues de l’immigration, on ne peut utiliser les termes d’’immigration’ ou même d’’intégration’, puisque dans l’immense majorité du débat public les termes sont utilisés de façon discriminante.” François Héran

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/sans-oser-le-demander/qu-est-ce-qu-on-a-fait-pour-avoir-autant-de-poncifs-sur-l-immigration-71

    #migrations #peur #François_Héran #asile #réfugiés #mots #histoire #histoire_migratoire #statistiques #gâteau #gâteau_à_part_fixes #coût #économie #idées_reçues #Etat_social #ressources_pédagogiques #regroupement_familial #immigration_de_travail #immigration_familiale #immigration_choisie #immigration_subie

    via @karine4

  • Santiago, Italia

    Le documentaire rend compte à travers des documents d’époque et des témoignages, de l’activité de l’ambassade Italienne à Santiago lors des mois qui ont suivi le coup d’état de Pinochet le 11 septembre 1973 mettant fin au régime démocratique de Salvador Allende2. L’ambassade a donné refuge à des centaines d’opposants au régime du général Pinochet, leur permettant ensuite de rejoindre l’Italie3.

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Santiago,_Italia
    #film #documentaire #film_documentaire

    #Chili #Santiago #Unidad_Popular #Allende #histoire #mémoire #socialisme_humaniste_et_démocratique #marxisme #cuivre #nationalisme #prix_bloqués #médias #démocratie #coup_d'Etat #dictature #témoignage #terreur #climat_de_peur #peur #enfermement #MIR #torture #stade #Villa_Grimaldi #disparitions #ambassade_d'Italie #ambassades #réfugiés #réfugiés_chiliens #solidarité

  • #Russie, le poison autoritaire

    « Poutine et sa bande, au tribunal ! » Les Russes, et surtout les Moscovites, ont été toujours plus nombreux à défiler ces derniers mois contre un pouvoir jugé liberticide. Plus que jamais, la Russie apparaît comme une nation divisée entre ceux qui font profil bas devant l’autoritarisme de Poutine, voire le soutiennent, et ceux qui le combattent, souvent au péril de leur liberté. La répression policière s’est en effet nettement accrue, tandis qu’une justice aux ordres d’une machine étatique programmée pour détruire toute velléité contestataire couvre les arrestations arbitraires et souvent absurdes, les séjours en prison et les mises au ban de la société. Mais qui sont ces citoyens ordinaires qui font trembler l’autocrate du plus grand pays du monde et prennent tous les risques, jusqu’à devoir s’exiler, pour réclamer une Russie à visage humain ?
    Pendant près d’un an, le réalisateur Stéphane Bentura a suivi ceux qui, souvent jeunes et instruits, ont fait leur figure de proue d’Alexeï Navalny, empoisonné puis emprisonné dès son retour surprise à Moscou en janvier 2021. Journaliste pourchassée, simple manifestante d’un jour, prisonniers politiques victimes de tortures ou économiste en exil, ils racontent comment ils sont ou ont été la cible d’un matraquage qui va crescendo, sous couvert d’une application stricte de la loi et de l’ordre. « C’est une dictature postmoderne, avec une façade pseudo-démocratique, des parodies d’élections et de procès », assène Vladimir Kara-Murza, vice-président du mouvement Russie ouverte, victime de deux tentatives d’empoisonnement. Pour beaucoup, cette férocité répressive vise à masquer l’ampleur de la corruption, le gaspillage de l’argent du gaz russe et les promesses socio-économiques non tenues de Vladimir Poutine. Des témoignages clés qui aident à dissiper le mirage de la nouvelle puissance russe.

    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/31203_0
    #film #documentaire #film_documentaire
    #Poutine #résistance #empoisonnement #autoritarisme #répression #opposition #élection #Vladimir_Kara-Mourza #emprisonnement #prisonniers_politiques #Alexeï_Navalny #corruption #manifestation #propagande #peur #justice #exil #torture #réfugiés_russes #nationalisme #persécution #dictature_post-moderne #dictature

  • #Chine : le drame ouïghour

    La politique que mène la Chine au Xinjiang à l’égard de la population ouïghoure peut être considérée comme un #génocide : plus d’un million de personnes internées arbitrairement, travail forcé, tortures, stérilisations forcées, « rééducation » culturelle des enfants comme des adultes…
    Quel est le veritable objectif du parti communiste chinois ?

     
    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/64324

    #Ouïghours #Xinjiang #camps_d'internement #torture #stérilisation_forcée #camps_de_concentration #persécution #crimes_contre_l'humanité #silence #matières_premières #assimilation #islam #islamophobie #internement #gaz #coton #charbon #route_de_la_soie #pétrole #Xi_Jinping #séparatisme #extrémisme #terrorisme #Kunming #peur #état_policier #répression #rééducation #Radio_Free_Asia #disparition #emprisonnement_de_masse #images_satellites #droits_humains #zone_de_non-droit #propagande #torture_psychique #lavage_de_cerveau #faim #Xinjiang_papers #surveillance #surveillance_de_masse #biométrie #vidéo-surveillance #politique_de_prévention #surveillance_d'Etat #identité #nationalisme #minorités #destruction #génocide_culturel #Ilham_Tohti #manuels_d'école #langue #patriotisme #contrôle_démographique #contrôle_de_la_natalité #politique_de_l'enfant_unique #travail_forcé #multinationales #déplacements_forcés #économie #colonisation #Turkestan_oriental #autonomie #Mao_Zedong #révolution_culturelle #assimilation_forcée #Chen_Quanguo #cour_pénale_internationale (#CPI) #sanctions

    #film #film_documentaire #documentaire

  • L’instant même où le regard devient notre bel aujourd’hui

    Peinture et visuel, point de vue et image, décrire et mettre en mots « Décrire une image consiste à la mettre en mots, et puisque ces mots ont leur histoire et leur vie propre, qu’ils pensent avec et contre nous mais le plus souvent derrière notre dos et sans nous, c’est dans cette opération apparemment transparente que s’immisce la catégorisation qui, par la suite, contraint la lecture ».

    Palais communal de Sienne, des peintures se déployant sur trois murs, Ambrogio Lorenzetti, tout simplement un lieu.

    note sur : Patrick Boucheron : Conjurer la peur
    Sienne, 1338
    Essai sur la force politique des images

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2016/12/13/linstant-meme-ou-le-regard-devient-notre-bel-a

    #histoire #image #peur

  • La #peur de l’isolement de la #recherche_suisse

    Des chercheurs s’en vont, des professeurs hésitent à travailler dans les universités suisses, des étudiants suisses subissent des préjudices : le secteur suisse de la recherche vit une époque difficile. La raison ? Le flou qui règne dans les relations entre la Suisse et l’UE. Dans la recherche européenne, la Suisse est devenue un « #pays_tiers » sans privilèges.

    « Nous sommes un petit pays, qui s’est toujours appuyé sur le recrutement de chercheurs étrangers », indique Michael Hengartner, président du Conseil des EPF. C’est pourquoi, dit-il, toutes les hautes écoles suisses baignent dans une atmosphère internationale, qui est favorable à l’intégration des personnes venues de l’étranger.
    Un écosystème pour la recherche de pointe

    Le savoir et la formation font partie des principales ressources de la Suisse. Cela se reflète dans un système de formation performant, une infrastructure de premier ordre et des hautes écoles qui arrivent régulièrement en tête des classements internationaux. Michael Hengartner parle d’un véritable « écosystème », qui stimule la recherche de pointe et dispose d’un système de financement solide, flexible et concurrentiel à la fois. « Naturellement, nous sommes également en mesure d’offrir de très bonnes conditions de travail », complète Martin Vetterli, président de l’EPFL. Ainsi, la densité de scientifiques renommés en Suisse est bien supérieure à la moyenne, ce qui permet d’attirer des jeunes talents dans notre pays, note Martin Vetterli. Ou devrait-on plutôt dire « permettait » ?

    La Suisse perd l’accès à la « ligue des champions »

    L’abandon des négociations avec l’UE sur un accord-cadre est lourd de conséquences pour la recherche. Dans son programme-cadre de recherche, l’UE a dégradé la Suisse au rang de « pays tiers non associé ». Dans le cadre d’Horizon Europe, la Suisse perd ainsi la position qu’elle occupait et l’influence qu’elle avait jusqu’ici. Or, Horizon Europe est le plus grand programme au monde pour la recherche et l’innovation, avec un budget de près de 100 milliards d’euros pour une période de sept ans (2021-2027). Sa dotation financière a encore nettement augmenté par comparaison aux 79 milliards d’euros du programme précédent, Horizon 2020, au sein duquel la Suisse était encore partenaire associée.

    Certes, la Suisse n’est pas totalement exclue de la collaboration avec son principal partenaire de recherche. Toutefois, les chercheurs suisses ne peuvent plus diriger de grands projets de coopération et ne reçoivent plus de subventions du Conseil européen de la recherche (ERC). Michael Hengartner décrit ces bourses de l’ERC comme la « ligue des champions de la recherche ». Le président de l’EPFL, Martin Vetterli, les connaît bien : « Sans la subvention de l’ERC, qui s’élevait à près de deux millions d’euros sur cinq ans, je n’aurais pas pu mener aussi loin que je l’ai fait ma recherche sur le traitement numérique des signaux ». Yves Flückiger, président des universités suisses (swissuniversities), ajoute que les chercheurs suisses sont entièrement exclus de plusieurs domaines de recherche importants. Il mentionne l’initiative phare sur les technologies quantiques, qui a une importance stratégique pour le développement de la numérisation, la construction du réacteur à fusion nucléaire international ITER, un projet que la Suisse copilotait depuis 2007, et le programme pour une Europe numérique (Digital Europe), axé sur le calcul de haute performance, l’intelligence artificielle et la cybersécurité.

    L’érosion a déjà commencé

    D’après Martin Vetterli, la Suisse faisait jusqu’ici partie des pays associés les plus actifs de la recherche européenne, essentiellement dans les domaines de la santé, de l’environnement, du climat et de la technologie quantique. Depuis plus d’un an, elle est mise hors jeu malgré les efforts financiers de la Confédération, qui est intervenue par un financement transitoire s’élevant à 1,2 milliard de francs. Martin Vetterli relate l’histoire de start-up qui ont été créées sur le campus de l’EPFL et qui ouvrent à présent des bureaux en Europe pour s’assurer qu’elles pourront continuer d’attirer des talents et de profiter des fonds européens. Yves Flückiger connaît de premiers chercheurs qui ont quitté la Suisse pour la France, l’Autriche et la Belgique avec leurs bourses de l’ERC. Et Michael Hengartner constate que les candidats aux postes de professeurs dans les deux EPF posent désormais tous la même question : la Suisse a-t-elle des chances de se voir réassociée bientôt aux programmes de l’UE ?

    Il y va de la prospérité de la Suisse

    Travailler dans son coin ? Dans le monde de la recherche, c’est impensable. Tout comme dans celui de l’innovation : en réaction à la non association de la Suisse, la célèbre entreprise genevoise ID Quantique (voir en bas) a ouvert une filiale à Vienne pour conserver son accès à Horizon Europe. Yves Flückiger note que la centaine d’emplois qui auraient été créés en Suisse se trouvent à présent à Vienne. Pour la Suisse, l’enjeu d’Horizon Europe n’est pas seulement la recherche et les chercheurs, qui craignent pour leurs positions de pointe. C’est aussi les étudiants et les professeurs, qui hésitent désormais à venir en Suisse. Horizon Europe permet également le transfert de technologies, qui débouche sur la fondation de start-up et de PME et sur la création d’emplois dans la recherche et les entreprises. En dernier ressort – les représentants des hautes écoles sont unanimes à ce sujet –, Horizon Europe est crucial pour la place économique et la prospérité de la Suisse.

    Yves Flückiger juge que le Conseil fédéral ne devrait pas se concentrer maintenant sur de nouveaux partenariats de recherche hors de l’UE : la compétition, en matière de recherche, se joue entre l’UE, les États-Unis et la Chine. Par conséquent, la non-association de la Suisse reste selon lui le véritable problème.

    Interrogée sur cette question, la délégation européenne déclare que les chercheurs suisses ont toujours été des partenaires bienvenus et appréciés dans les programmes de recherche de l’UE. Et qu’ils le restent : « Les chercheurs suisses sont autorisés à participer aux projets d’Horizon Europe aux conditions qui s’appliquent aux États tiers non associés. Pour une association à part entière, incluant notamment le droit de bénéficier de fonds européens, le règlement de l’UE exige que les États tiers concluent un accord-cadre qui fixe les conditions et les modalités de l’association. Les prochaines évolutions concernant cette question doivent être considérées dans le contexte des relations globales entre l’UE et la Suisse. »

    L’UE presse donc la Suisse de clarifier ses relations avec ses voisins européens. Jusque-là, elle ne voit aucune raison d’accorder des privilèges à la recherche suisse. Et ni les efforts de la diplomatie, ni l’appel lancé par les chercheurs n’ont jusqu’ici rien changé à cela. Le président du Conseil des EPF, Michael Hengartner, souligne que cette situation n’est pas seulement défavorable pour les chercheurs suisses, mais aussi pour la recherche européenne elle-même : « Tout le monde est incontestablement perdant. »

    https://www.swisscommunity.org/fr/nouvelles-et-medias/revue-suisse/article/la-peur-de-lisolement-de-la-recherche-suisse

    #recherche #suisse #isolement #université #EU #UE #Union_européenne

  • La #peur des #étrangers

    Et si plutôt que de laisser place aux délires de ceux qui s’imaginent bientôt grandremplacés, on se penchait sur la peur éprouvée au quotidien par les sans-papiers ? C’est ce qu’ont fait l’anthropologue Stefan Le Courant et les réalisateurs Vincent Gaullier et Stefan Le Courant.

    Que m’est-il permis d’espérer ? C’est cette phrase d’Emmanuel Kant que les réalisateurs Vincent Gaullier et Raphaël Girardot ont choisi pour titre de leur nouveau film qui documente les quelques jours que passent des migrants tout juste arrivés dans un centre d’accueil humanitaire du Nord de Paris. Ils nous rejoindront en seconde partie d’émission, après que nous ayons entendu l’anthropologue Stefan Le Courant nous parler d’une enquête menée dans une temporalité beaucoup plus longue auprès de sans-papiers de la région parisienne.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/la-suite-dans-les-idees/la-peur-des-etrangers-6348132

    #podcast #migrations #sans-papiers #Stefan_Le_Courant #Le_Courant

    ping @_kg_

    • Sans-papiers : étranges étrangers

      Ouvriers pour les JO de Paris 2024, livreurs, cuisiniers... Les sans-papiers qui vivent et travaillent en France sont sous la menace permanente d’une arrestation, d’un placement en centre de rétention, d’une expulsion. Quelles conséquences ce contexte a-t-il sur les personnes qui le subissent ?

      Mieux contrôler nos frontières, reconduire plus efficacement ou conditionner les visas et aides au développement à des accords de réadmission… Voilà ce que le candidat-président Emmanuel Macron portait comme proposition dans l’entre-deux-tours de la présidentielle.

      Migrants économiques, clandestins ou sans papiers… Depuis la crise de 2015 et les arrivées de réfugiés syriens aux portes de notre continent, la figure de l’étranger est devenue encore plus centrale dans l’espace politique et médiatique européen.

      Pourtant, ces hommes et ces femmes, certes sans existence légale, occupent des emplois, des logements, paient parfois des impôts… Et ils reviennent dans les lumières de l’actualité parfois, au gré d’un fait divers, ou d’une action collective.

      Cette semaine par exemple, plusieurs manifestations ont eu lieu, pour réclamer des régularisations massives pour ces employés sans-papiers de Derichebourg, sous-traitant de Chronopost… La semaine dernière, ce sont une dizaine d’ouvriers des chantiers des sites des JO 2024 qui ont été régularisés suite à une action syndicale…

      Qui sont ces condamnés à la clandestinité ? Comment vit-on dans la peur quotidienne d’un contrôle, d’une arrestation, d’une expulsion ? Pourquoi sont-ils au cœur des débats ?

      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/sous-les-radars/sans-papiers-etranges-etrangers-4429280

    • Vivre sous la menace. Les sans-papiers et l’Etat

      La politique de contrôle migratoire ne s’exerce pas uniquement aux frontières, sur le territoire national elle continue d’œuvrer en séparant celles et ceux qui bénéficient d’un séjour régulier des autres qui en sont dépourvus. Elle trace des démarcations intérieures invisibles et implacables quand le spectre de la frontière hante le quotidien des personnes qui chaque jour risquent l’expulsion. En ethnographe, Stefan Le Courant tente de saisir les conséquences intimes de ce gouvernement par la menace.
      Après une enquête de plusieurs années auprès d’une quarantaine de sans-papiers, l’auteur restitue avec humanité leur expérience ; il raconte des vies façonnées par la crainte de l’arrestation ou de la dénonciation. Si la menace est, pour celui qui l’exerce, une manifestation de son pouvoir de nuire sans exécution immédiate, pour celui qui y est exposé, elle se traduit par une conscience aiguë et permanente du danger. Obsédante, cette menace pousse à privilégier la solitude et la méfiance ; elle transforme l’environnement proche en un monde de signes potentiellement redoutables : le ton d’une voix, la couleur d’un uniforme, la question d’un camarade de chambre, tout peut être un indice qu’il devient crucial de savoir exploiter. En cherchant à appréhender cette présence qui se dérobe, à vivre la vie d’un sans-papier, l’auteur livre un récit immersif aussi original qu’inédit.

      https://www.seuil.com/ouvrage/vivre-sous-la-menace-stefan-le-courant/9782021364972
      #livre

  • #Sémiologie : la #police dans l’épicentre de la #violence

    Compte tenu des preuves et des liens de ces mêmes #symboles avec les milieux extrémistes et violents, la négligence du gouvernement et de la hiérarchie s’accorde dans une résolution ; celle de l’acceptation de la violence et l’#extrémisme chez la police républicaine.

    Le pouvoir d’un symbole réside dans sa capacité à produire du sens et à communiquer ce sens. Loin d’être une entité floue, le sens réfère à quelque chose d’extérieur à soi, plus exactement un objet, qui devient existant par le truchement d’une relation interpersonnelle.

    C’est au travers d’une large panoplie de #signes, #insignes, symboles, #slogans, etc, que des policier·ères visiblement sans honte ni crainte de leur hiérarchie, affichent publiquement, leur amour de la violence, du thème de la vengeance, et parfois, du racisme, de la mort, voire des idéologies fascistes ou nazis.

    Dans le monde des images, certaines nous font sourire, d’autres nous font pleurer, provoquent le choc, la peur, l’incompréhension ou l’amour et l’espoir. La sémiologie a pour objectif de cerner le sens général qui se dégage quand on voit un logo, un insigne, et de prévoir les réactions sensorielles ou émotionnelles occasionnées.

    Les expert·es s’appuient sur le fait que les symboles ne viennent pas de nulle part, ils portent une histoire. Ces armoiries, logos, blasons, symboles, drapeaux, couleurs et formes, ont été depuis la nuit des temps, un moyen de communication, chargés d’une puissance conceptuelle mais aussi émotionnelle dont émanent valeurs éthiques et morales.

    La production et la circulation de formes symboliques constituent des phénomènes centraux dans la recherche en sciences sociales et les psychologues sociaux ont plus particulièrement étudié les processus par lesquels le sens est construit, renforcé et transformé dans la vie sociale.

    L’intérêt pour la fonction symbolique a permis l’émergence de nouveaux courants de recherche conceptuel et empirique dédiés à la compréhension de l’engagement des individus quand ils construisent du sens sur le monde dans lequel ils vivent et communiquent avec d’autres à ce sujet.

    Ces écussons, comme celui dans l’image suivante, en contact avec les citoyenne·s, se traduisent par un réflexe inconscient pour la majorité et un terrible constat pour les plus informés. D’une manière ou d’une autre, une signification se crée automatiquement, malgré la volonté de chacun·e.

    En rapport à la politique des symboles, chez le·a policier·ère tout est une représentation. Selon l’écrivain Arnaud-Dominique Houte "Au-delà de l’utilité pratique du costume, policiers et gendarmes affichent une prestance militaire qui renforce leur prestige. Mais ils montrent aussi qu’ils travaillent en toute transparence, en assumant leurs actes et en se plaçant au service du public". Le code vestimentaire du policier, son armement et sa posture font état d’une logique d’autorité et d’obéissance à la loi. Juger le port de ces écussons qui "appellent à la mort" comme inoffensifs ou insignifiants, comme l’excuse parfois la hiérarchie, révèle de la négligence politique. Si chaque interaction entre le public et la police "doit être conçue comme une expérience socialisatrice" contribuant à consolider la confiance et la légitimité de l’action policière, en quoi le port de tels symboles additionne un point positif à l’équation ?

    Devoir d’obéissance bafoué ou négligence de la hiérarchie ?

    La loi est précise. Néanmoins des policiers continuent à exhiber dans l’exercice de leurs fonctions et sur la place publique, leur affection aux "symboles repères" associés aux néo-nazis et à l’extrême droite. Au cours des dernières années, à plusieurs reprises, la police a été dans le collimateur de l’opinion publique consécutivement à la quantité importante de scandales qui ont émergés dans les médias et les réseaux sociaux. Comme pour les violences policières, de plus en plus de citoyens et de journalistes commencent à capter des images des insignes qui ornent parfois l’équipement de la police.

    Au large dossier des photos de cagoules/foulards tête-de-mort, écussons, tatouages, locutions, s’ajoutent les enquêtes de StreetPress ou Mediapart qui ont révélé, l’existence de groupes Facebook ou Whatsapp, où des policiers pour se divertir, nourrissent la violence virtuelle et propagent du racisme et du suprémacisme blanc à travers les réseaux sociaux. Le port de ces symboles pendant le temps de travail devient-il un prolongement des convictions politiques quotidiennes de certains policiers ?

    Selon la terminologie gouvernementale, ce sont des "signes faibles" d’une tendance vers "l’idéologie de la violence" qui s’intensifie dans la police et qui, coïncidence ou pas, s’aligne sur un mandat répressif, l’escalade de la violence, la logique punitive et liberticide. Une tendance politique favorisée et propagée par la Macronie ou des syndicats de police, synchrone aux logiques d’extrême droite, et qui malheureusement, modèle la doctrine des forces de l’ordre, ses intérêts et ses croyances. Enfin, elle matérialise un nouveau monde libéral, où légitimer la violence apparaît être plus qu’une nécessité mais une obligation.

    A la vue du défilé de scandales associés aux symboles d’extrême droite dans la police, il est difficile de croire que les policier·ères concerné·es puissent utiliser ces symboles par pure naïveté. Une simple recherche sur internet et il est possible de trouver facilement des informations qui attestent de l’utilisation de ces mêmes symboles par l’extrême droite, en France et notamment aux États-Unis. Frédéric Lambert, Professeur des universités et de l’Institut français de presse, également chercheur en Sémiologie et sémiotique des images d’information et de communication, nous explique très pragmatiquement que :

    « Les représentants de la loi et les professionnels qui doivent faire appliquer la loi, dont les policiers, travaillent pour l’État français. À ce titre, ils doivent porter les signes de l’institution qu’ils représentent, un uniforme réglementaire. Si certains policiers s’autorisent d’ajouter à leur tenue de service des signes qui ne sont pas autorisés, ils deviennent hors-la-loi eux-mêmes.

    Hélas cette dérive a pu s’observer en France, et l’on a vu des policiers municipaux porter le symbole du Punisher, héros de bande dessinée, puis insigne de certains groupe militarisés nazis, adopté par certains policiers aux États Unis. Deux remarques : les récits fictionnels envahissent nos réalités sociales, et il faudrait à ces policiers et à leur tutelle revenir dans la réalité de la justice sociale. La République française peut rêver mieux que de voir ses représentants porter des menaces en forme de tête de mort. Les signes au sein de la vie sociale sont bien trop importants pour que des policiers même municipaux s’en saisissent avec arrogance. »

    A chaque scandale, un rappel à la loi. Des policier·ères de différentes compagnies (police nationale, CRS ou BAC) se sont vus demander de respecter le code de déontologie et de retirer leurs écussons non-réglementaires. Néanmoins, malgré tous ces rappels et articles de presse, le Ministre de l’Intérieur et les préfets de police, n’arrivent pas à purger ces agents qui méprisent les principes de la neutralité politique.

    Le ministère de l’Intérieur Christophe Castaner en 2018, interpellé par Libération, au sujet d’un écusson ΜΟΛΩΝ ΛΑΒΕ, du grec - "viens prendre" sur l’uniforme d’un policier, clarifie.

    « Le RGEPN (règlement de la police nationale, ndlr) prohibe le port sur la tenue d’uniforme de tout élément, signe, ou insigne, en rapport avec l’appartenance à une organisation politique, syndicale, confessionnelle ou associative. On ne sait pas à quelle référence l’insigne renvoie, mais il ne devrait pas figurer sur l’uniforme du CRS. »

    Ces dérives ne devraient pas exister. Cependant, depuis 2018, nous avons recensé plus d’une vingtaine de cas où les policiers affichent explicitement des insignes, signes, drapeaux, cagoules ou écussons à têtes de mort, tee-shirts BOPE (Batalhão de Operações Policiais Especiais - Brazil), etc ; symboles de référence majoritairement chez l’extrême droite, mais aussi chez les nationalistes, intégristes, militaristes, hooligans, etc.

    La tête de mort Punisher, le Totenkopf moderne.

    Le Punisher est un héros issu des comics Marvel, ancien soldat du corps des Marines, consumé par le désir de vengeance suite à l’assassinat de sa famille dans le Central Park. Il fut créé par le scénariste Gerry Conway en 1974.

    Le crâne ou tête-de-mort, a été utilisé dans plusieurs domaines depuis la Grèce antique soit dans le milieu littéraire, où il était associé à la sagesse, ou dans le milieu médical, funèbre, etc. L’un des premiers récits enregistré du "crâne et des os croisés" remonte à l’histoire militaire allemande et à la guerre de Trente Ans, lorsque les soldats bavarois, connus sous le nom "d’Invincibles", portaient des uniformes noirs avec des Totenkopfs blancs sur leurs casques.

    La tête-de-mort sera utilisée ainsi par les forces militaires allemandes à partir du XVIIe siècle jusqu’aux Nazis, où elle sera reconnue comme un "symbole de terreur", inscrit dans l’histoire de la Seconde Guerre mondiale.

    Dans un monde belliqueux dédié à la violence et à la mort, les symboles qui visent à inspirer la peur, l’horreur et la terreur, passent de main en main, d’époque en époque, et se répandent dans les forces militaires en guerre partout dans le monde.

    Le surprenant by-pass est que les forces militaires post-WorldWar II (en ce qui touche le War-Comics comme source de moral pour le troupes), éviteront de s’inspirer directement de la Totenkopf Nazie "crâne et des os croisés" étant donnée la charge historique ; mais le feront sous la forme de la tête-de-mort symbole du Punisher. Un malheureux choix, car elle aussi s’inspire de la Totenkopf Nazie, comme l’a révélé le magazine Forbes dans l’article :The Creator Of ‘The Punisher’ Wants To Reclaim The Iconic Skull From Police And Fringe Admirers.

    Parallèlement, la tête de mort nazie, continuera à être utilisé par des groupuscules extrémistes de droite et néo-nazis aux États-Unis, comme l’a démontré l’organisation ADL (Anti-Defamation League, créée 1913) dans une de ses enquêtes Bigots on Bikes-2011.

    Ce processus de récupération des symboles des personnages DC Comics et Marvel par des forces militaires pendant les guerres d’Irak et d’Afghanistan, appelés "Morale Patches non-réglementaires", fascine et donne encore aujourd’hui lieu à des thèses et des mémoires universitaires.

    Dans une étude pour la Loyola University of Chicago, Comics and Conflict : War and Patriotically Themed Comics in American Cultural History From World War II Through the Iraq War ; Cord A. Scott, cerne le moment ou la tête de mort Punisher commence à décorer les uniformes militaires pendant la guerre en Irak.

    (en 2003, NDLR), une unité de Navy SEAL en Irak a conçu des patchs avec l’emblème du crâne au centre, avec le slogan “God will judge our enemies we’ll arrange the meeting – Dieu jugera nos ennemis, nous organiserons la réunion.” Cela était cohérent avec le rôle original du personnage : comme une arme pour punir les coupables de leurs crimes contre la société, une mission qui reste la même qu’ils soient mafieux ou fedayin.

    Au fil de l’histoire, l’utilisation de la tête-de-mort Punisher ne se restreint pas aux forces militaires mais, au contraire, elle va se propager d’abord chez l’extrême droite puis dans la police américaine.

    Le phénomène s’extrapole en Europe vers 2010 et les premières photos de policier·ères français·es portant la tête de mort, datent de 2014, à Nantes. Cependant, des dizaines de policier·ères furent photographié depuis, affichant l’écusson, des foulards ou t-shirts avec la tête-de-mort Punisher.

    Récemment, dans une interview pour le Huffingtonpost, Gerry Conway l’auteur du comic Punisher, regrette le fait que cet insigne soit utilisé par les forces de police en France. Il explique pourquoi :

    “C’est assez dérangeant pour moi de voir les autorités porter l’emblème de ‘Punisher’ car il représente l’échec du système judiciaire. Ce symbole, c’est celui de l’effondrement de l’autorité morale et sociale. Il montre que certaines personnes ne peuvent pas compter sur des institutions telles que la police ou l’armée pour agir de manière juste et compétente”.

    Il est important de reconnaitre que la symbolique derrière ces insignes est très méconnue d’une grande partie de la population. Dans une situation où la police intervient, le calme, le respect et la neutralité religieuse, politique, de genre, sont des valeurs exigées pour éviter l’escalade de la violence. Lorsqu’un·e citoyen·ne face à la police aperçoit une tête-de-mort sur la tenue d’uniforme du policier et la locution « Le pardon est l’affaire de Dieu - notre rôle est d’organiser la rencontre » , que peut-ielle interpréter ? Une menace, un appel à la mort ?

    Le port de cet écusson bafoue le principe constitutionnel de neutralité auquel sont astreints tous les agents publics, ainsi que le code de la sécurité intérieure, lequel précise à son article R515-3 : « Les agents de police municipale s’acquittent de leurs missions dans le respect de la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, de la Constitution, des conventions internationales et des lois. ». De plus,L’affirmation « nous organisons la rencontre » est extrêmement inquiétante.

    Notre histoire, nos symboles, le ressort du repli identitaire.

    Le rapprochement entre la tête-de-mort Punisher et l’ancienne locution du commandant Arnaud-Amalric en 1209, " Tuez-les. Le Seigneur connaît ceux qui sont les siens", reprise et modifiée en "Dieu jugera nos ennemis, nous organisons la rencontre" n’est pas une coïncidence. Ces deux cultures qui semblent complètement éloignées, s’unissent dans un univers commun, celui du suprémacisme blanc, du nationalisme, du pan-européanisme et de la guerre des religions.

    Retrouvé, le fil perdu, l’histoire de ce "Morale Patche" Punisher avec sa locution qui fait référence aux croisades, se construit d’abord par la croissante islamophobie après les attentats de 2001 en Amérique. Puis il se matérialise pendant les incursions militaires en Irak et en Afghanistan. Dans l’image suivante, issue du magazine 1001mags-2009-Afganistan 2005, une panoplie d’écussons racistes, suprémacistes, font revivre à nouveau les croisades au Moyen Orient.

    L’affection identitaire aux Templiers et l’éloge des croisades catholiques au cœur de l’extrême droite sont bien connus. L’aspect inquiétant et qui semble de plus en plus une preuve que l’extrême droite s’investit dans les rangs policiers se dessine lorsque que nous corroborons que les deux idolâtrent les mêmes symboles.

    La dernière tragédie qui a frappé les agents de la paix doit sans l’ombre d’un doute interroger le Ministre de l’Intérieur sur l’utilisation de ce type de écussons. Un templier sur le bras d’un policier et un homme qui les attaque et leur crie "Allah Akbar", ne sont pas une pure coïncidence. La hiérarchie de police est responsable pour ce genre de dérives.

    A Paris, un agent de la BAC se balade comme un gangster à côté des manifestants, avec son holster super personnalisé et son tatouage représentant le bouclier du Captain America. Ce dernier renvoie d’abord à l’identité chrétienne puis au nationalisme. Historiquement, les guerriers Templiers ont anéanti la menace musulmane en Europe et au Moyen-Orient et ont permis au christianisme de se renouveler. Mais, ce policier ignore-t-il que les croisades ont fauché quelques 3.000.000 de vies en près de 200 ans ? Les croisades sont-elles vraiment un événement à glorifier et faire valoir dans la police ? Sommes-nous là devant un policier islamophobe ?

    A Marseille à l’été 2019, un autre policier de la BAC, qui au-delà de porter ses grenades (CS et GMD) dans les poches arrières de son pantalon, de manière non-réglementaire, exhibe ses tatouages. Le tatouage sur son bras droit est un des symboles les plus connus du christianisme, le Chrisme ("le Christ") avec l’Α-Alpha et l’Ω-Omega (le Christ est le début et la fin).

    Lorsqu’un.e citoyen.ne face à la police aperçoit le holster avec un guerrier templier, ou des tatouages chrétiens, cela peut être choquant et déclencher la peur. Encore pire, pour les communautés musulmanes en France, les réfugié·es, les sans-papiers, les gens du voyage, souvent victimes de contrôles au faciès par la police.

    Pour conclure ce sujet, qu’il s’agisse des Templiers ou du Punisher, tous deux exacerbent la violence, la vengeance, la suprématie blanche, des valeurs religieuses et l’éthique occidentale. Un code de conduite qui a été dans l’histoire imposé au monde à travers la violence, la mort, la colonisation et évidemment l’assimilation. En fin de compte, la grande question reste : quel est l’objectif de ces forces de l’ordre qui portent ces symboles dans la police républicaine ?

    Spartiates, les gardiens de la paix se trompent

    Ces agents de la police aveuglé·es par le repli identitaire, deviennent des Templiers mais aussi des Spartiates. Le "Force et Honneur" répondant à l’inspiration romaine, le “si vis pacem para bellum”, le ΜΟΛΩΝ ΛΑΒΕ et d’autres slogans repris depuis longtemps par l’extrême droite, débordent au sein de la police. D’autres agents arborent aussi la fleur de lys, symbole de la monarchie française et de la chrétienté.

    Pendant l’année de 2018, plusieurs symboles associés à l’Antiquité seront identifiés sur la tenue d’uniforme de policier·ères. En mai, sur une photo du journaliste Taha Bouhafs, on voit un CRS qui décore son uniforme avec l’insigne, ΜΟΛΩΝ ΛΑΒΕ, du grec - "viens prendre", référence à la bataille des Thermopyles. Un insigne, comme le "Lambda", très en vogue chez les groupuscules d’extrême droite comme la "Génération Identitaire".

    Dans le cas des écussons décorés avec le casque spartiate et qui définissent les unités d’intervention, ils sont pour la plupart réglementés et autorisées par les services de police. L’amalgame est plus insidieux, puisque le casque spartiate est utilisé en Grèce par les forces militaires, mais aussi par la police depuis plusieurs siècles. Le problème que pose l’utilisation de ce symbole nationaliste est que ces signes et insignes sont devenues depuis une cinquantaine d’années des slogans du lobby pro-arme américain, le symbole de milices, mais est aussi très répandu dans l’extrême droite haineuse.

    Le portrait plus angoissant et pervers de cet amour aux symboles est la violence que va avec. La hiérarchie se trompe et les gardiens de la paix aussi, quand ils acceptent de porter ce genre de symboles sans les questionner.

    La création de l’uniforme et des insignes, avaient comme objectif primaire le renforcement de l’image sociale et psychologique des anciens Sergents ou la Maréchaussée, et à partir du XIXe siècle des policiers, dans l’office de la répression et obéissance à la loi. Porter un écusson du roi était un symbole d’autorité, de la même façon que porter la Totenkopf dans le nazisme aspirait à la terreur.

    L’insigne officiel d’une des compagnies présentes le jour où les lycéen·nes de Mantes la Jolie ont été mis à genoux, portait l’écusson avec le casque spartiate. Effectivement, on parle de violence et de punition "in situ ", valeurs très éloignées de l’idée de gardien de la paix.

    Sur Checknews de Libération, au sujet du casque spartiate : “Rien d’étonnant à cela, puisque selon la préfecture des Yvelines, il s’agit « depuis très longtemps » de l’insigne officiel de la CSI (compagnie de sécurisation et d’intervention) du département, qui est intervenue hier. « C’est une compagnie de maintien de l’ordre, ils travaillent parfois avec des casques. Ils ont un casque sur leur uniforme, quel est le problème ? », dit la préfecture.”

    Un autre article du Figaro, Une petite ville bretonne s’inquiète d’une possible réunion néonazie, qui touche le sujet des franges radicales de l’extrême droite, identifie le même casque spartiate comme symbole de la “division nationaliste“.

    En Amérique, le mouvement suprémaciste blanc Identity Evropa, n’échappe pas au scan de PHAROS. Lors des manifestations de Berkeley en avril 2017, la plate-forme colaborative PHAROS (espace où les érudits et le public en général, peuvent s’informer sur les appropriations de l’antiquité gréco-romaine par des groupes haineux) explique que ces symboles sont utilisés par “les partisans de la théorie du « génocide blanc », soutenant des opinions anti-gay, anti-immigrés, antisémites et anti-féministes”., sont les mêmes symboles ou le même drapeau raciste “confédéré” affiché par des agents de police en France.

    Si dans le passé ces écussons spartiates avaient un sens, aujourd’hui leur utilisation parait complètement réactionnaire, et même dangereuse. Permettre que ce genre de concepts violents soit associé au travail des "gardiens de la paix" reflète un énorme manque de respect pour la profession, mais aussi pour la population française.

    Compte tenu des preuves et des liens de ces mêmes symboles avec les milieux extrémistes et violents, la négligence du gouvernement et de la hiérarchie s’accorde dans une résolution ; celle de l’acceptation de la violence et de l’extrémisme au sein de la police républicaine.

    Article sur : https://www.lamuledupape.com/2020/12/09/semiologie-la-police-dans-lepicentre-de-la-violence

    https://blogs.mediapart.fr/ricardo-parreira/blog/091220/semiologie-la-police-dans-l-epicentre-de-la-violence

    #vengeance #mort #tête_de_morts #racisme #fascisme #nazisme #écussons #signification #politique_des_symboles #légitimité #confiance #loi #code_vestimentaire #symboles_repères #néo-nazis #extrême_droite #suprémacisme_blanc #signes_faibles #idéologie #forces_de_l'ordre #France #dérive #Punisher #CRS #BAC #police_nationale #déontologie #neutralité_politique #uniforme #ΜΟΛΩΝ_ΛΑΒΕ #RGEPN #dérives #Batalhão_de_Operações_Policiais_Especiais (#BOPE) #Totenkopf #Marvel #Gerry_Conway #crâne #peur #horreur #terreur #Anti-Defamation_League (#ADL) #Morale_Patches_non-réglementaires #escalade_de_la_violence #Templiers #croisades #Captain_America #tatouages #Chrisme #Α-Alpha #Ω-Omega #contrôles_au_faciès #Spartiates #Force_et_Honneur #slogans #Lambda #génération_identitaire #nationalisme

    ping @karine4

    déjà signalé en 2020 par @marielle :
    https://seenthis.net/messages/890630

  • De la #démocratie en #Pandémie. #Santé, #recherche, #éducation

    La conviction qui nous anime en prenant aujourd’hui la parole, c’est que plutôt que de se taire par peur d’ajouter des polémiques à la confusion, le devoir des milieux universitaires et académiques est de rendre à nouveau possible la discussion scientifique et de la publier dans l’espace public, seule voie pour retisser un lien de confiance entre le savoir et les citoyens, lui-même indispensable à la survie de nos démocraties. La stratégie de l’omerta n’est pas la bonne. Notre conviction est au contraire que le sort de la démocratie dépendra très largement des forces de résistance du monde savant et de sa capacité à se faire entendre dans les débats politiques cruciaux qui vont devoir se mener, dans les mois et les années qui viennent, autour de la santé et de l’avenir du vivant.

    https://www.gallimard.fr/Catalogue/GALLIMARD/Tracts/De-la-democratie-en-Pandemie

    –-

    Et une citation :

    « La conviction qui nous anime en prenant aujourd’hui la parole, c’est que plutôt que de se taire par peur d’ajouter des #polémiques à la #confusion, le devoir des milieux universitaires et académiques est de rendre à nouveau possible la discussion scientifique et de la publier dans l’espace public, seule voie pour retisser un lien de confiance entre le #savoir et les citoyens, lui-même indispensable à la survie de nos démocraties. La stratégie de l’ _#omerta_ n’est pas la bonne. Notre conviction est au contraire que le sort de la démocratie dépendra très largement des forces de résistance du monde savant et de sa capacité à se faire entendre dans les débats politiques cruciaux qui vont devoir se mener, dans les mois et les années qui viennent, autour de la santé et de l’avenir du vivant. »

    #syndémie #désert_médical #zoonose #répression #prévention #confinement #covid-19 #coronavirus #inégalités #autonomie #état_d'urgence #état_d'urgence_sanitaire #exception #régime_d'exception #Etat_de_droit #débat_public #science #conflits #discussion_scientifique #résistance #droit #santé #grève #manifestation #déni #rationalité #peur #panique #colère #confinement #enfermement #défiance #infantilisation #indiscipline #essentiel #responsabilité #improvisation #nudge #attestation_dérogatoire_de_déplacement #libéralisme_autoritaire #autoritarisme #néolibéralisme #colloque_Lippmann (1938) #économie_comportementale #Richard_Thaler #Cass_Sunstein #neuroscience #économie #action_publique #dictature_sanitaire #consentement #acceptabilité_sociale #manufacture_du_consentement #médias #nudging #consulting #conseil_scientifique #comité_analyse_recherche_et_expertise (#CARE) #conseil_de_défense #hôpitaux #hôpital_public #système_sanitaire #éducation #destruction #continuité_pédagogique #e-santé #université #portefeuille_de_compétences #capital_formation #civisme #vie_sociale #déconfinement #austérité #distanciation_sociale #héroïsation #rhétorique_martiale #guerre #médaille_à_l'engagement #primes #management #formations_hybrides #France_Université_Numérique (#FUN) #blended_learning #hybride #Loi_de_programmation_de_la_recherche (#LPR ou #LPPR) #innovation #start-up_nation #couvre-feu #humiliation #vaccin #vaccination
    #livre #livret #Barbara_Stiegler

    • secret @jjalmad
      https://twitter.com/jjalmad/status/1557720167248908288

      Alors. Pour Stiegler je veux bien des ref si tu as ça, j’avais un peu écouté des conf en mode méfiance mais il y a un moment, sans creuser, et je me disais que je devais pousser parce qu’en effet grosse ref à gauche

      @tapyplus

      https://twitter.com/tapyplus/status/1557720905828253698

      Check son entretien avec Desbiolles chez les colibris par ex. T’as aussi ses interventions à ASI, son entretien avec Ruffin, etc. C’est une philosophe médiatique, on la voit bcp. Et elle dit bien de la merde depuis qq tps. Aussi un live de la méthode scientifique avec Delfraissy

      Je suis pas sur le PC mais je peux te lister pas mal de sources. D’autant plus pbtk parce que « réf » à gauche. Mais dans le détail elle dit de la merde en mode minimiser le virus + méconnaissance de l’antivaccinisme. Et du « moi je réfléchit » bien claqué élitiste et méprisant.

      Quelques interventions de B Stiegler (en vrac) :
      Alors la première m’avait interpellée vu qu’elle était partie en HS complet à interpeller Delfraissy sur les effets secondaires des vaccins : https://radiofrance.fr/franceculture/podcasts/la-methode-scientifique/et-maintenant-la-science-d-apres-8387446
      (le pauve N Martin se retrouvait sur un débat complètement HS)

      Il y a d’une part la critique politique (rapport à la démocratie en santé publique), mais pour Stiegler outre la position « le gvt en fait trop, c’est des mesures autoritaires inutiles » elle se positionne par ailleurs sur des choix

      Parler des EI des vaccins sans balancer avec les effets de la maladie. Utilisation de la santé mentale des enfants pour critiquer le port du masque à l’école, lecture de la situation où il n’y aurait que gvt vs libertay, et en omettant complètement toutes les positions développées par l’autodéfense sanitaire et les militants antivalidistes et de collectifs de patients (immunodéprimés, covid long, ...) quand ils ne vont pas dans son narratif.

      Elle met de côté toutes les lectures matérialistes de la situation et sort clairement de son champ de compétence sur certains points, tout en ne donnant que très peu de sources et de points de référence pour étayer ses propos.

      Genre elle critique la pharmacovigilance et les EI mais elle ne donne jamais aucune source ni aucune information sur les outils, méthodes et acteurs qui travaillent ces sujets. Pareil quand elle dit découvrir les critiques des vaccination. Il y a de quoi faire avec les travaux historique sur la #santé_publique et la vaccination. A t elle interrogé des spécialiste de ces sujets, notamment les spécialistes qui ne vont pas que dans le sens de son propos. Elle semble manquer cruellement de référence historique sur le sujet alors qu’elle s’en saisit et qu’elle a une aura d’#intellectuelle_de_gauche, donc plein de monde lui accorde une confiance et trouve qu’elle est très pertinente sur certains sujets. Mais sur le traitement des points techniques elle me semble plutôt à la ramasse et ce qui ne va pas dans son sens est renvoyé à la doxa gouvernementale ou technoscientiste liberale, sans apparemment regarder les contenus eux même. Et Desbiolles c’est pareil. Alla je connais moins et je l’ai entendu dire qq trucs pertinents (sur les profils des non vaccines par exemple) mais le fait qu’il cite Desbiolles devant l’opecst, alors que celle ci racontait des trucs bien limites sur les masques et les enfants, ça me met des warnings.

      Je rajouterai 2 points : 1) il y a des sujets super intéressants à traiter de trouver comment on construit une position collective sur des questions de santé publique, ni individualiste ni subissant l’autorité de l’état. Genre comment penser une réflexions sur les vaccinations (en général, pas spécifiquement covid) dans une perspective émancipatrice et libertaire, comment on fait collectif, comment on mutualise des risques, comment on se donne des contraintes individuelles pour soutenir celles et ceux qui en ont plus besoin.

      Stiegler ne fait que critiquer l’autoritarisme d’état, parle de démocratie, mais ne propose aucune piste concrète ni axe de réflexion pour développer cela. D’autres personnes le font et développent cela, et c’est des sujets non triviaux sur lesquels il est important de délibérer.

      2) Un autre point c’est son discours, comme ceux d’autres intellectuels, est surtout axé sur la partie « choix libre » de la phrase « choix libre et éclairé », et n’évoquent pas vraiment la manière dont on construit collectivement la partie « éclairé »

      Il y a des sujets super importants à traiter sur le rapport aux paroles d’expert, de la place des scientifiques dans un débat public, de la dialectique entre connaissance scientifique et choix politiques et éthiques, bref plein d’enjeux d’éducation populaire

      Ah et aussi dernier point que j’ai déjà évoqué par le passé : l’axe « liberté » sur les questions de vaccination, c’est un argument central des discours antivaccinaux, qui axent sur le fait que les individus peuvent choisir librement etc. C’est assez documenté et c’est par exemple un registre argumentaire historique de la Ligue Nationale Pour la Liberté de Vaccination (LNPLV), qui défend le rapport au choix, défendant les personnes qui ont refusé les vaccinations obligatoires. Mais sous couvert de nuance et de démocratie, ce sont des positions antivaccinales assez claires qui sont défendues. Ce truc de la nuance et de la liberté, tu la retrouves par exemple également chez les anthroposophes (j’en parlais récemment dans un thread).

      j’ai enfin compris pourquoi on dit intellectuel de gauche : c’est pour indiquer avec quel pied leur marcher dessus.

  • Plus beaux, plus blancs, plus polluants… Caroline Montpetit
    https://www.ledevoir.com/lire/722133/coup-d-essai-plus-beaux-plus-blancs-plus-polluants

    Ils ont atterri dans nos poubelles, portés par la publicité et ses mirages de propreté et d’individualité. Pourtant, paradoxalement, plus ils sont beaux et blancs, plus ils sont polluants. Ce sont ces objets jetables, gobelets, mouchoirs, téléphones, bâtons de déodorant, dont la philosophe française Jeanne Guien retrace l’histoire dans son dernier livre Le consumérisme à travers ses objets.


    Photo : Tobias Steinmaurer / APA via Agence France-Presse Le gobelet jetable est apparu aux États-Unis au milieu du XXe siècle, dans un contexte où les tasses communes étaient soupçonnées de transmettre des germes.

    À travers cette histoire, ce sont les fondements de notre consumérisme qu’elle traque, tels qu’ils sont conçus par une industrie sans cesse en quête de profits. Pour les atteindre, c’est l’individu qu’elle vise au cœur de son intimité. Et cette pseudo-propreté individuelle, du jetable et du parfumé, se fait trop souvent, on le voit avec la crise environnementale, au prix de la santé et du bien-être collectif.

    « Le consumérisme est quelque chose de très individuel, confirme-t-elle en entrevue. C’est d’abord l’individu qui agit. » La publicité s’adresse à « vous, à votre corps, à votre famille », et non à la société dans son ensemble. « Dans un monde comme cela, la pensée politique devient individualité. »

    Pour Jeanne Guien, le consumérisme n’est cependant pas « tant le vice moral de sociétés gâtées qu’une affaire de production et de conception ». Et c’est en décryptant comment le marché et la publicité ont créé ces besoins qu’elle laisse voir la possibilité de s’en libérer.

    Pour chaque objet analysé, l’autrice retrace les contextes et surtout les peurs qui ont porté son apparition, puis sa consommation.

    Le gobelet jetable, par exemple, est apparu aux États-Unis au milieu du XXe siècle, dans un contexte où les tasses communes, qui étaient accrochées par exemple aux fontaines d’eau, étaient soupçonnées de transmettre des germes.

    En 1910, l’Individual Drinking Cup Company (IDCC) lance d’abord le « gobelet public », puis le « gobelet individuel », puis le « gobelet sanitaire », prisé durant l’épidémie de grippe espagnole. « Toujours plus de propreté impliquait toujours plus de matière : des gobelets jetables, des pailles jetables, des emballages jetables », écrit-elle.

    Des besoins inventés
    Ce que Jeanne Guien démontre, c’est qu’il n’y avait pas de demande préexistante à l’apparition de ces objets. En France, au XVIIe siècle, « le peuple se mouchait avec ses doigts ou sa manche, les nobles avec un foulard ». Le mouchoir jetable, ancêtre du Kleenex, a pour sa part été conçu au Japon. Les nobles s’y mouchaient en effet dans du papier de soie dès le IXe siècle, nous dit-elle.

    En 1930, une publicité américaine de Kleenex affirme que « Kleenex remplace les mouchoirs en tissu chez les gens progressistes ». Après avoir ciblé les femmes riches qui se servaient des mouchoirs jetables pour se démaquiller, Kleenex lance son Mansize, pour conquérir le marché masculin. Et puis, pourquoi reculer devant la manne d’un public plus large ? Les mouchoirs jetables sont désormais présentés comme des produits « “pratiques et essentiels”, comme des objets quotidiens dans toutes les maisons ».

    Plus encore que la nécessité, c’est la peur qui est souvent mise en avant pour justifier la vente d’un nouveau produit. En entrevue, Jeanne Guien cite en exemple le cas des déodorants. En 1912, à une époque où les gens considéraient que le fait de se laver avec de l’eau était amplement suffisant comme mesure d’hygiène, une agence de publicité a l’idée de convaincre les femmes qu’elles pourraient faire souffrir leur entourage de l’odeur de leur transpiration sans s’en rendre compte.

    « Ce type de publicité, surnommé “campagne de la honte” ou “de la peur” devint un modèle par la suite : à travers le monde, on le retrouve dans les publicités pour le savon, le dentifrice, les déodorants vaginaux et même le papier à lettres… », écrit-elle.

    Indispensables téléphones
    Sans être immédiatement jetables, mais au moins aussi polluants, les téléphones intelligents ont fait l’objet d’une « diffusion rapide et massive, à un point unique dans l’histoire des techniques ». Grâce à l’effet de réseau systémique, « l’objet devient en soi un moyen d’intégration, ou d’exclusion ».

    « Dans certains pays, comme en Chine, il est nécessaire d’avoir un téléphone intelligent pour prendre les transports en commun », relève-t-elle.

    Experte de l’obsolescence programmée, Jeanne Guien met le lecteur en garde contre les multiples voies d’évitement en matière de réduction de la surconsommation.

    Prévient-on vraiment la surconsommation, par exemple, en mettant en marché un steak végétarien ? Soigne-t-on vraiment l’environnement en remplaçant, comme l’a fait McDonald’s dans les années 1990, le polystyrène par du carton ? Pourquoi ne pas carrément réduire l’usage du plastique plutôt que de compter sur son recyclage ? Les lois sur l’obsolescence programmée, comme celle qui est en vigueur en France, devraient-elles être plus largement appliquées ?

    Le greenwashing , largement pratiqué par les entreprises pour obtenir une acceptabilité environnementale douteuse, mériterait également d’être condamné, dit-elle. « Kleenex et Pornhub ne pourront jamais remplacer une forêt boréale en plantant des monocultures arboricoles. Ce discours est d’autant plus absurde que ces monocultures servent en général à la production », écrit-elle à titre d’exemple. Autre exemple ; un déodorant dit « bio efficace », qui a échoué au test d’innocuité « pour les femmes enceintes, les adultes, enfants et les adolescents, autrement dit pour tout le monde », écrit-elle.

    « Il faudrait pouvoir légiférer sur les contenus publicitaires », dit-elle en entrevue. « S’il n’y a pas de loi, les entreprises ne feront pas les choses par elles-mêmes. » Dans ce rapport publicitaire qui lie directement les entreprises et le grand public, les forces en cause sont pour l’instant déséquilibrées, et les intermédiaires ne sont pas au rendez-vous.

    #jetables #consumérisme #publicité #kleenex #peurs #déodorants #smartphones #obsolescence_programmée #surconsommation #plastiques #greenwashing #bio_efficace

    • Le consumérisme à travers ses objets Jeanne Guien
      https://www.editionsdivergences.com/livre/le-consumerisme-a-travers-ses-objets

      Qu’est ce que le consumérisme ? Comment s’habitue-t-on à surconsommer, au point d’en oublier comment faire sans, comment on faisait avant, comment on fera après ? Pour répondre à ces questions, Jeanne Guien se tourne vers des objets du quotidien : gobelets, vitrines, mouchoirs, déodorants, smartphones. Cinq objets auxquels nos gestes et nos sens ont été éduqués, cinq objets banals mais opaques, utilitaires mais surchargés de valeurs, sublimés mais bientôt jetés. En retraçant leur histoire, ce livre entend montrer comment naît le goût pour tout ce qui est neuf, rapide, personnalisé et payant. Car les industries qui fabriquent notre monde ne se contentent pas de créer des objets, elles créent aussi des comportements. Ainsi le consumérisme n’est-il pas tant le vice moral de sociétés « gâtées » qu’une affaire de production et de conception. Comprendre comment nos gestes sont déterminés par des produits apparemment anodins, c’est questionner la possibilité de les libérer.


      JEANNE GUIEN , ancienne élève de l’École normale supérieure, est docteure en philosophie et agrégée. En 2019, elle a soutenu une thèse à l’université Paris 1 Panthéon-Sorbonne consacrée à la notion d’obsolescence, étudiant l’histoire des débats autour de la durée de vie des moyens de production et des biens de consommation. Membre du CETCOPRA et du LISRA, co-organisatrice du séminaire Deuxième vie des objets (Mines, EHESS), elle conduit également des expériences de recherche-action concernant les biffins (récupérateurs de rue en Ile-de-France), le freeganisme (récupération alimentaire), la collecte municipale des déchets et l’antipub. Elle anime également une émission radio et un blog sur médiapart afin de médiatiser certains enjeux sociaux et politiques liés au déchet : condition de travail des éboueurs et des biffins, politiques d’ « économie circulaire », injustices environnementales en France, répartition inégale de l’étiquette « écologiste » dans les luttes et les mouvements sociaux.

  • REPRENDRE LA TERRE AUX MACHINES en région Grenobloise !
    https://www.latelierpaysan.org/REPRENDRE-LA-TERRE-AUX-MACHINES-en-region-Grenobloise

    RENCONTRE ENTRE PAYSANNES ET PAYSANS, ACTEURS ET ACTRICES SOCIAUX ENGAGÉS les 20 et 21 mai Appel et programme complet ici : Attention réservation obligatoire ! => formulaire d’inscription en cliquant ici Journées à prix libre

    Restauration prévue et possibilité d’hébergement solidaire

    (voir le formulaire d’inscription) Contact

    pepsisere@gmail.com

    06 47 98 45 58 Actualités

    https://framaforms.org/rencontres-reprendre-la-terre-aux-machines-grenoble-20-21-mai-2022-16511

  • Stress, peur, pression : le difficile quotidien des salariés du réacteur nucléaire Iter
    https://reporterre.net/Stress-peur-pression-le-difficile-quotidien-des-salaries-du-reacteur-nuc

    « L’Organisation #Iter a instauré une gestion par la peur », a déclaré ce lundi 28 février Michel Claessens, directeur de la communication de 2011 à 2015 et « ITER policy officer » à la Commission européenne de 2016 à 2021. « Mes collègues subissent un stress insupportable, une peur omniprésente, la peur de parler. Il y a dans ce projet de pointe une omerta scientifique. Elle conduit à des dérives inacceptables concernant le personnel et la radioprotection. » Il était entendu lors d’une réunion exceptionnelle consacrée au projet Iter par la Commission de contrôle budgétaire du Parlement européen. Bernard Bigot, directeur de l’Organisation d’Iter, a annulé sa participation à la réunion au Parlement européen, expliquant dans un message qu’« il ne souhaitait pas s’exprimer en présence de Michel Claessens ». Cette rencontre a été organisée suite au rapport accablant de cet ancien directrice de la communication, spécialiste de la fusion, et au suicide en mai 2021 d’un ingénieur italien de 38 ans au sein de l’agence Fusion 4 Energy de Barcelone, qui coordonne le projet Iter au niveau européen.

    #nucléaire

  • Pas d’#or pour #Kalsaka

    Dans les années 2000, l’Etat burkinabé délivre plusieurs permis d’exploitation minière à des sociétés multinationales, c’est le début du boom minier, ou « la ruée vers l’or ». La première mine d’or d’exploitation industrielle à ciel ouvert est construite en juin 2006 à Kalsaka par la société anglaise Kalsaka Mining SA pour exploiter 18 tonnes en 10 ans.
    Mais « l’or n’a pas brillé pour Kalsaka » car en 2013 après 6 années d’exploitation, la mine ferme ses portes et laisse dernière elle un héritage inestimable de catastrophes sociales et environnementales. Une petite ville de campagne sans infrastructures sociales de base, une population socialement désorganisée par le niveau de vie acquis pendant le fonctionnement de la mine.


    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/55442_1

    #Burkina_Faso #extractivisme #mines #Boueré_Dohoun_Gold_Operation_SA #Boueré #or #Thiou #Kalsaka_Mining #exploitation #terres #accaparement_des_terres #orpaillage #développement_local #balance_des_paiements #promesse #promesses #indemnisation #exploitation_minière #mines_industrielles #dépossession #BCM #Séguénéga #emploi #travail #privatisation #peur #eau #eau_potable #pollution #nappe_phréatique #dynamitage
    #film #film_documentaire

  • Oui, des gauchistes et même des anarchistes tombent dans un complotisme facile, ce qui n’est finalement pas nouveau, mais des gauchistes et même des anarchistes trainent dans un anticomplotisme ridicule où devient taboue la critique des technologies vaccinales, de la 5G et des lobbys pharmaceutiques ce qui fait aussi le jeu du gouvernement et du Capital. Il faut aller au bout du processus consistant à mettre dos à dos complotistes et anticomplotistes – devenus irrationnels à force de rationalité. Dans le cas où c’est la peur du virus et de la maladie qui parle chez nos ami.e.s et qui est seule légitime, ce qu’il y a de particulièrement dangereux c’est que le pouvoir et ses solutions biopolitiques peuvent apparaître comme désirables. Non seulement les mesures gouvernementales ont été massivement acceptées mais également désirées jusque chez les radicaux et les anti-système.

    https://lundi.am/Toujours-sur-la-catastrophe-et-comment-en-sortir

    #covid #anticomplotisme

    • N’oublions pas que la convergence objective entre la droite « libérale », qui a toujours été séduite par la vision anglo-saxonne d’un Etat minimal réduit à ses fonctions régaliennes, et une gauche « libertaire » qui rejette toute institution répressive est une réalité.


    • « J’ai lu l’article Sur la catastrophe en cours et comment en sortir, et j’étais trop content de lire un truc sur tout ça, parce que dans nos collectifs, c’est le déni de la situation qui prévaut et l’évitement des débats ! Il faut foutre un coup de pied dans la fourmilière. Après j’étais pas d’accord avec tout, et j’ai eu grave envie d’y répondre, ça a pris la forme d’un article qui est à la fois une réponse et une continuité, qui participe à la réflexion en cours, mais je sais pas... en tout cas ça donne envie de lancer une vraie réflexion collective : quelles positions radicales dans ce bordel ? »

      Un tel texte est nécessaire et désirable car depuis deux ans nous flottons dans une confusion et une stupeur qui suspend les mouvements de la réflexion. Recouvert par la fureur des médias, pris au piège dans les dualismes et les mots de l’ennemi, notre pensée stagne et ne parvient plus à trouver les chemins du dépassement. Dans une telle période historique des franchissements « ne pas savoir » est sûrement une marque de bon sens, mais dernièrement les affects entourant la question de la catastrophe, des vaccins, étaient tellement intenses et virulents que des formes de déni et d’évitement des débats ont pu avoir lieu, il est temps d’y mettre fin. Ouvrir les questions que posent l’époque, nourrir les conflits, déplacer les certitudes, mettre à l’épreuve les théories, voilà ce à quoi nous aimerions participer, voilà la recherche d’une théorie radicale : comment s’en sortir.

      Premier point : les complotistes et les anti-complotistes font dispositif, ces deux postures trempent dans l’impuissance et la dénonciation. Mais d’une certaine manière, la posture complotiste est déjà connue et bien documentée ; c’est le complot des anticomplotistes qui passe pour un phénomène exotique. Cette nouvelle raison d’être de la #gauche_bourgeoise, nouveau détour dans la mésaventure de la #pensée-critique, prend peut-être son essor avec l’hystérie anti-Trump. Cela n’est pas assez souligné dans le premier texte, mais l’anticomplotiste est un ennemi de premier ordre, l’évolution monstrueuse du flic-citoyen trop heureux de montrer son pass sanitaire comme preuve de sa bonne moralité. Et puis oui : les complots existent. Le piège grossier de l’attaque sémantique anticomplotiste est évidement de nous cantonner à une #critique-réformiste où l’on ne pourrait plus dénoncer les complots bien réels et historiques des dominants dans leur systématicité et dans leur existence terrestre.

      Bien que les rapports sociaux soient complexes et que la domination est toujours structurelle, il est vital pour les révolutionnaires de pouvoir la contester dans ses incarnations humaines et pas seulement dans le ciel des structures sinon le camp des révolutionnaires se limite aux seules personnes ayant suffisamment de conscience politique et se condamne à un avant-gardisme néfaste. « Quiconque attend une #révolution-pure ne vivra jamais assez longtemps pour la voir », ce n’est pas un spontanéiste qui parle mais bien Lénine lui-même à propos de la révolution de 1905 : « il y avait des masses aux préjugés les plus barbares, luttant pour des objectifs les plus vagues et les plus fantastiques, il y avait de groupuscules qui recevaient de l’argent japonais, il y avait des spéculateurs et des aventuriers, etc. […] sans cette participation, la lutte des masse n’est pas possible. Et tout aussi inévitablement, ils apporteront au mouvement leurs fantaisies réactionnaires, leurs faiblesses et leur erreurs. Mais objectivement ils s’attaqueront au Capital. »

      La période est révélatrice : les anticomplotistes préférant ne pas se compromettre avec de mauvais alliés en viennent à se cantonner dans la critique des structures et passent à côté de tous les sursauts de résistance des populations. Ces deux dernières années on a vu l’ultragauche déserter la critique des mesures sanitaires et autoritaires en laissant le champ entier de la défense des libertés aux droites.

      Finalement, l’ennemi ultime est peut-être un rapport social, mais ce rapport s’incarne dans des institutions, des habitudes, des objets, voire des personnes. Il ne suffit pas de dénoncer la police et imaginer comment s’en passer, il faut aussi parfois lui jeter des pavés, alors même qu’existe le risque de la fétichiser et de rester bloqué dans une lutte contre la répression. De la même façon, il ne faut pas caricaturer le pouvoir au point de croire en sa toute puissance et de devoir inventer des forces surnaturelles pour l’expliquer, mais il faut bien donner des responsables concrets et dénoncer les chiens de garde du rapport social : pour Stengers, par exemple, il est important de rendre les petites mains capitalistes responsables du capitalisme, s’en prendre à elles et pas seulement dénoncer « le système ».

      Il y a une tendance humaniste dans la gauche à considérer qu’il n’y a pas de véritables ennemis. Le fait de nommer des ennemis est certes une mauvaise habitude mais « une mauvaise habitude de révolutionnaire » où la politique redevient cette capacité à « reconstituer de nouvelles communautés antagonistes, des lignes de partage, des divisions sans possibilité de synthèse : #destitution ». Donc d’un côté la dénonciation des structures « qui ne descendent pas dans la rue » et de l’autre « le camp des amis de la politique antagoniste ».

      Un grosse erreur, la stupeur mise de côté, fut de ne pas parvenir à se saisir de tous les enjeux quotidiens pour ancrer notre position destituante : pendant deux ans, il n’exista que très peu de discours radicaux sur la catastrophe capables de s’ancrer dans ce que nous vivions pourtant tous – au moins partiellement – comme une rupture de l’ordre et de la réalité capitaliste.

      Deuxième point : la peur n’est pas à fuir, il faut partir d’elle. Nous le saurons pour la prochaine, dans la catastrophe la peur est une émotion partagée et qui partage : que ce soit la #peur-du-virus ou la #peur-de-la-gestion-biopolitique qui domine, notre réaction ne sera pas la même et on se trouvera pris au piège à des endroits différent des dualismes : pro et anti. La peur est généralement cachée, infusant inconsciemment dans les débats – surtout chez les rationalistes. La peur est à la fois ce par quoi on nous gouverne et ce par quoi, si elle est mise en commun et dépassée, on se révolte. Mais la peur est un affect qui pousse à s’organiser si et seulement si on la dépasse collectivement, dans le cas contraire elle n’est qu’une fuite qui mène dans les bras « du premier charlatan ou sauveur auto-proclamé », qu’il soit officiel ou officieux, que ce soit la tisane au miel ou le vaccin magique.

    • Une part du mouvement antivax, certains complotistes, comme d’autres fascistes, surfent sur la peur en roue libre, peur de la science, des autres, du savoir, de la vérité, du virus, qui peut aussi se convertir en peur irrationnelle des étrangers ou du vaccin. Mais la peur est commune à tous, c’est aussi le provax convaincu, militant de « la suspension critique » qui parfois sans le dire, charrie sa peur de la maladie, du virus et qu’il reporte sur les pauvres, les marginaux, ceux qui ne comprennent rien etc.

      La peur paranoïaque est le dénominateur commun de l’époque, il se trouve aussi du côté de ceux qui ont peur de la maladie parce qu’ils ont peur de la mort – peur de la vie qui englobe fatalement la mort et la maladie. On peut certes vouloir être soigné par un robot ultra technologique mais on peut aussi préférer mourir comme Illich. La question n’est pas de savoir ce qui est mieux, ce serait stupide puisque derrière nos préoccupations théoriques, ce sont nos affects qui agissent et qu’on se fout pas mal de savoir comment chacun s’arrange individuellement avec les chantages de l’Empire ...

      ... Si nous sommes assez honnêtes c’est bien là où nous en sommes : à devoir construire une connaissance approchée de la catastrophe en cours. Et dans ces temps de redéfinition une question que l’on se pose est celle que toute politique suppose : quels ennemis, quels amis ? Au delà des choix individuels de se faire ou non vacciner : avec qui pouvons nous construire une santé communiste ?

      [ Cette construction ] pose d’ores et déjà un certain nombre de questions :

      -- Il est inacceptable que le monde de l’économie poursuive son exploitation en temps de pandémie mondiale alors même qu’il en est à l’origine. Comment en témoigner ?

      -- Il est assez évident que la crise du coronavirus est une répétition générale de la fin du monde, que les catastrophes vont continuer à s’enchaîner, la question étant comment tenir une position communiste dans cette époque, en quoi la pandémie aura-t-elle ou pas remis en question les théories de la destitution et ses présupposés ?

      -- Que veut dire matériellement, économiquement et énergétiquement cette ultime alliance technocratique opportuniste de la crise : sommes nous en train d’assister à une transformation profonde du capitalisme ? Quels en sont les contradictions et les faiblesses ?

      -- Stratégiquement, faut-il appuyer la gravité de la pandémie en démontrant les manques de l’État – au risque d’être dans une demande d’État contre-productive et pris au piège dans les règles du jeu sémantique des dirigeants – ou bien refuser la Pandémie comme nouveau paradigme et, sans nier l’existence d’une épidémie de covid 19, s’opposer à l’instrumentalisation par l’État de la crise sanitaire ?

      Rendons cette réflexion collective, car nous aurons besoin de toutes les ressources radicales pour parvenir à une théorie digne de l’époque.

    • Ce texte mérite d’être mis en valeur beaucoup mieux que vous ne l’avez fait, cf le messages/944728 (message un peu fourretout, avec des commentaires du type : En ce 24 janvier, l’organe du Horsolistan persiste dans le n’imp )
      Je suis en train de tenter de « l’analyser » sans prétention :) et de le comprendre en profondeur si on peut dire, d’essayer de faire le tri, et de le taguer.
      Il me semble que Cristina del Biaggio procède très souvent de cette façon en raison de sa profession et j’aimerais pour une fois avoir la liberté de faire de même sans avoir à subir les remarques de la « modération » @rastapopoulos :)

      Maintenant si cela dérange @deun je supprime tout.

  • Sur la catastrophe en cours et comment en sortir - Serge Quadruppani & Jérôme Floch
    https://lundi.am/Sur-la-catastrophe-en-cours-et-comment-en-sortir

    Il y a tout de même pas mal de choses intéressantes dans cet article de Quadruppani (qu’on sait déjà mais dites au public antibiopolitique).

    On a pourtant aussi toutes les raisons d’écouter le cri de rage d’un ami infirmier, à qui j’ai fait lire l’interview de Lamarck : « Je voudrais surtout pas tomber dans le pathos, mais le subjectif est là, et je vais pas le refouler : quand tu as vu des personnes âgées qui ont un nom : Marthe, Francis, Suzanne, Mario, Huguette , Gilberte et tant d’autres, magnifiques, qui ne demandaient qu’à finir leurs vies tranquilles, sereines et entourées, partir en 24 heures, emballées dans des housses mortuaires, sans préparation, sans que leurs proches ne puissent les voir, ne serait-ce qu’une dernière fois, quand tu as vu tes collègues infirmières et aides-soignantes, pourtant pleines d’expérience, et qui savent tenir la « bonne distance » professionnelle avec la mort, te tomber dans les bras et pleurer de détresse, que tu as vu toute l’équipe soignante aller au tapis, frappée de plein fouet par le virus, et les rares soignantes encore valides rester à poste 18h sur 24, que tu as vu le quart des personnes prises en charge mourir en une semaine, les poumons bouffés par le virus, et qu’il s’en fallait à peine d’un mois pour que des vaccins soient disponibles... alors le gus qui te déclare, du haut de son Olympe conceptuel : « c’est la porte ouverte à la modification moléculaire de l’humain », tu as juste envie de lui hurler : « ta gueule, connard ! Tu n’as aucune idée de ce dont tu parles... ! » C’est con, hein ? »

    Non, c’est pas con, et d’autant moins que c’est assorti d’une critique des affirmations lamarckienne qui peut s’avérer fort utile pour dissiper les fantasmes attachés à ce vaccin à ARNm souvent au cœur des argumentaires antivax. « Bien, alors le truc affreux [d’après Lamarck] ce serait ces vaccins à ARN messager modifié « enrobés dans un vecteur complètement artificiel ». Le mot est lâché : « artificiel », sûrement opposé à « naturel ». Ne relevons même pas que bien des produits artificiels se sont révélés forts utiles, et que nombre de produits naturels peuvent être extrêmement nocifs. Le truc ici consiste à faire peur : c’est « artificiel » ! Pas bon ça ! Le vecteur en question est une microparticule avec 4 lipides (dont du cholestérol), 4 sels (chlorures de sodium, de potassium, dihydrogénophosphates de sodium, de potassium), du sucre (saccharose) et de l’eau... (c’est presque Bio !) Non, faut que ça fasse peur ! Car nous disent-ils tout ça « est injecté massivement depuis décembre 2020 sans tests cliniques suffisants tant sur l’innocuité que sur l’efficacité ». C’est évidement faux, les essais de phase I, II, et III ont bien eu lieu, et si la phase III se poursuit c’est pour étudier les effets secondaires inattendus, la durée de protection induite par la production d’anticorps et la mémoire immunitaire induite, et d’envisager le calendrier vaccinal de rappels le cas échéant … à ce jour près de 8 milliards de doses de vaccins contre la Covid ont été administrées, et près de 55% de la population mondiale a reçu au moins une dose (dont seulement 6% dans les pays pauvres). Jamais dans l’histoire des traitements et vaccins il n’y a eu une telle surveillance de pharmacovigilance. »

    Et jamais peut-être il n’a été aussi important d’éclaircir nos rapports avec la science en général, et avec la science médicale en particulier. L’humeur antivax est ancienne, en particulier dans des milieux où les ennemis du capitalisme se recrutent en grand nombre. Au risque de déplaire à bien des amis ou des alliés, disons-le sans détour : cette humeur repose pour l’essentiel sur des fantasmes sans fondement. Deux reproches principaux ont alimenté longtemps le refus de la vaccination, et, malgré tous les démentis, ont resurgi à la faveur de celle contre le Covid : son lien avec l’autisme et les accidents consécutifs à la présence d’aluminium. La première rumeur, qui eut d’abord les honneurs du Lancet, a ensuite été démentie et il s’est avéré que celui qui l’avait lancée était un escroc. Quant à la seconde, s’il est vrai que de l’aluminium a bien été ajouté à certains vaccins pour les booster, et que ce métal a, dans quelques cas, déclenché des réactions locales à l’endroit de l’injection, il n’a jamais entraîné d’accidents graves.

    […]

    On se gardera pourtant de reprendre à notre compte le vocable de « Big Pharma ». Pas seulement parce qu’on le retrouve systématiquement dans des bouches qui ont très mauvaise haleine, — est-ce un hasard ? — mais parce qu’il charrie une vision simpliste de ce à quoi nous faisons face et ne permet donc pas d’en saisir la complexité, les dynamiques et les rouages. « Big Pharma » est à l’ère des gouvernements biopolitiques revendiqués ce qu’était le mythe des deux cents familles au XIXe siècle. Il n’y a pas plus de gouvernement mondial secret que de Big Pharma, ce à quoi nous faisons face c’est à une coalition d’intérêts qui opèrent et prospèrent au sein d’un ordre du monde et d’une organisation sociale organisés par et pour eux. Il y a donc fort à parier que, à l’instar de toutes les structures étatiques, l’INSERM ne soit pas à l’abri de du lobbying général des grandes compagnies pharmaceutiques comme de l’influence de telle ou telle d’entre elles. Mais c’est justement parce qu’il s’agit d’une coalition d’intérêts particuliers et non pas d’une entité monolithique, qu’on peut compter sur l’existence de contradictions en son sein. Peut-on imaginer que s’il existait le moindre soupçon d’effets secondaires néfastes avec l’ARN, Johnson&Johnson et Astrazeneca, les concurrents sans ARN, épargneraient leurs rivaux d’une intense campagne de lobbying pour effrayer la population et récupérer tout le marché ? Et comment s’expliquer, sous le règne omnipotent de « Big Pharma » et du déjà un peu ancien « nouvel ordre mondial » que les stratégies sanitaires, idéologiques et politiques aient été aussi radicalement différentes des Etats-Unis à la France, d’Israël au Brésil, de la Suède à la Chine ?

    […]

    La vérité est à la fois beaucoup plus simple et complexe. Face à la pandémie, à la profondeur de ce qu’elle venait remettre en cause et au risque qu’elle faisait peser soudainement sur l’économie mondiale, les gouvernants ont paniqué. Et c’est cela que leurs litanies de mensonges devaient recouvrir, alors que tout leur pouvoir repose sur leur prétention à gérer et anticiper, ils ont dû bricoler, dans un premier temps du moins. Non pas pour sauver des vies mais pour préserver leur monde de l’économie. Au moment même où les appareils gouvernementaux de toutes les plus grandes puissances mondiales connaissaient leur plus grande crise de légitimité, certains ont voulu y voir le complot de leur toute puissance. Le complotiste aime les complots, il en a besoin, car sans cela il devrait prendre ses responsabilités, rompre avec l’impuissance, regarder le monde pour ce qu’il est et s’organiser.

    […]

    Dans la vidéo « La Résistance », dont le titre est illustré sans honte par des images de la seconde guerre mondiale, le Chant des Partisans en ouverture et Bella Ciao à la fin, on voit défiler les gourous anti-vax sus-cités. Renard Buté y nomme l’ennemi suivant le vocabulaire typique de QAnon : c’est l’ « Etat profond » et les « sociétés secrètes », il nous dit que le vaccin tue, que c’est un génocide qui est en cours, et qu’il faut s’y opposer par toutes sortes de moyens. La vidéo semble vouloir rallier les différentes chapelles antivax, de Réinfocovid au CNTf (organisation délirante, mêlant islamophobie, revendication du revenu garanti et permaculture, et partisane de rapatrier les troupes françaises pour… surveiller les frontières contre la « crise migratoire » et les banlieues), et après un appel à la fraternisation avec l’armée et la police (thème de prédilection du CNTf) débouche sur un autre appel… à la constitution d’une nouvelle banque qui serait entre les mains du peuple. Tout cela se mêle à des thèmes qui peuvent paraître pertinents aux yeux d’opposants radicaux au capitalisme : l’autonomie comme projet de vie, la manière de s’organiser et de faire des manifestations moins contrôlables, la démocratie directe… autant de thèmes et revendications qui pourraient sortir de bouches amies, voire des nôtres. Que ce genre de salmigondis touche pas mal de gens qui pourraient être des alliés, et que des amis proches puissent éventuellement avoir de l’indulgence pour ce genre de Renard fêlé, nous paraît un signe de l’ampleur de la secousse que la crise du Covid a provoquée dans les cerveaux.

    […]

    On a tendance, dans notre tradition très hégélienne de l’ultragauche à considérer que tout ce qui est négatif est intrinsèquement bon. Comme si par la magie de l’Histoire, la contestation de l’ordre des choses produisait automatiquement et mécaniquement la communauté humaine disposée à un régime de liberté supérieur. Pourtant, lorsque l’on se penche sur la nébuleuse anti-vaccin, c’est-à-dire sur les influenceurs et porte-paroles qui captent l’attention sur les réseaux sociaux, organisent et agrègent les énoncés et les rassemblements, on s’aperçoit qu’une écrasante majorité baigne depuis de longues années dans l’extrême droite la plus bête et la plus rance. Militaires à la retraite, invités hebdomadaires de radio courtoisie, lobbyistes contre les violences féminines (oui, oui...), il suffit de passer une heure à « googliser » ces porte-paroles autoproclamés pour avoir une idée assez précise des milieux dans lesquels ils grenouillent. Certes, on pourrait être magnanimes et essayer d’imaginer que l’épidémie de Covid ait pu transformer de telles raclures en généreux camarades révolutionnaires mais comment s’expliquer que les seules caisses de résonances que trouvent leurs théories alternatives sur le virus et l’épidémie soient Egalité et Réconciliation, Sud Radio, France Soir, Florian Phillipot, on en passe et des pires ? En fait, si on se peut se retrouver d’accord sur des énoncés formels, on bute bien vite sur un point fondamental, c’est-à-dire éthique : la manière dont on est affecté par une situation et à la façon que l’on a de se mouvoir en son sein. En l’occurrence, ce qui rend tous ces « rebelles » anti-macron aussi compatibles avec la fange fasciste c’est l’affect de peur paranoïaque qu’ils charrient et diffusent et qui sans surprise résonne absolument avec une longue tradition antisémite, xénophobe, etc. Et c’est là que l’on peut constater une différence qualitative énorme avec le mouvement gilets jaunes. Eux, partaient d’une vérité éprouvée et partagée : leur réalité matérielle vécue comme une humiliation. C’est en se retrouvant, sur les réseaux sociaux puis dans la rue, qu’ils ont pu retourner ce sentiment de honte en force et en courage. Au cœur du mouvement antivax se loge une toute autre origine affective, en l’occurrence la peur, celle qui s’est distillée des mois durant. La peur d’être contaminé, la peur d’être malade, la peur de ne plus rien comprendre à rien ; que cette peur du virus se transforme en peur du monde puis du vaccin, n’a finalement rien de surprenant. Mais il nous faut prendre au sérieux cette affect particulier et la manière dont il oriente les corps et les esprits. On ne s’oriente pas par la peur, on fuit un péril opposé et supposé, quitte à tomber dans les bras du premier charlatan ou sauveur auto-proclamé. Il n’y a qu’à voir les trois principales propositions alternatives qui agrègent la galaxie antivax : Didier Raoult et l’hydroxychloroquine, Louis Fouché et le renforcement du système immunitaires, l’Ivermectine et le présumé scandale de son efficacité préventive. Le point commun de ces trois variantes et qui explique l’engouement qu’elles suscitent, c’est qu’elles promettent d’échapper au virus ou d’en guérir. Toutes disent exactement la même chose : « Si vous croyez en moi, vous ne tomberez pas malade, je vous soignerai, vous survivrez. » Mot pour mot la parole biopolitique du gouvernement, dans sa mineure.

    […]
    Dans la soirée évoquée, ce n’est pas « quelqu’un du public » mais bien Matthieu Burnel lui-même qui avait ironisé sur les suceurs de cailloux !

    Parce que le pouvoir n’a jamais été aussi technocratique, livide et inhumain, certains tendent une oreille bienveillante aux premiers charlatans venus leur chanter « le vivant ». Mais l’engrenage est vicieux et une fois qu’on a adhéré à une supercherie du simple fait qu’elle prétende s’opposer au gouvernement, on a plus d’autre choix que de s’y enferrer et d’y croire. Lors d’une discussion un lundisoir, une personne du public avait commis quelques blagues peu finaudes à propos d’antivax qui lécheraient des pierres pour se soigner du cancer, et cela a apparemment provoqué quelques susceptibilités. Le problème en l’occurrence, c’est que cette plaisanterie n’était caricaturale que dans sa généralisation certainement abusive. Il n’en est pas moins vrai qu’Olivier Soulier, cofondateur de Réinfocovid assure soigner l’autisme et la sclérose en plaque par des stages de méditation et de l’homéopathie, que ce même réseau promulguait des remèdes à base de charbon aux malheureux vaccinés repentis pour se « dévacciner ». Autre nom, autre star, Jean-Dominique Michel, présenté comme l’un des plus grands experts mondiaux de la santé, il se propulse dès avril 2020 sur les devants de la scène grâce à deux vidéos sur youtube dans lesquelles il relativise l’importance et la gravité de l’épidémie, soutient Raoult et son élixir, et dénonce la dictature sanitaire à venir. Neurocoach vendant des séances de neurowisdom 101, il est membre d’honneur de la revue Inexploré qui assure soigner le cancer en buvant l’eau pure de l’une des 2000 sources miraculeuses où l’esprit des morts se pointe régulièrement pour repousser la maladie. Depuis, on a appris qu’il ne détenait aucun des diplômes allégués et qu’il s’était jusque-là fait remarquer à la télévision suisse pour son expertise en football et en cartes à collectionner Panini. Ses « expertises » ont été partagées par des millions de personnes, y compris des amis et il officie désormais dans le Conseil Scientifique Indépendant, épine dorsale de Réinfocovid, première source d’information du mouvement antivax. Ces exemples pourraient paraître amusants et kitchs s’ils étaient isolés mais ils ne le sont pas.

    […]

    Historiquement, ce qui a fait la rigueur, la justesse et la sincérité politique de notre parti, - et ce qui fait qu’il perdure-, c’est d’avoir toujours refusé de se compromettre avec les menteurs et les manipulateurs de quelque bord qu’ils soient, de s’être accrochés à une certaine idée de la vérité, envers et contre tous les mensonges déconcertants. Que le chaos de l’époque nous désoriente est une chose, que cela justifie que nous perdions tout repère et foncions tête baissée dans des alliances de circonstances en est une autre. Il n’y a aucune raison d’être plus intransigeant vis-à-vis du pouvoir que de ses fausses critiques.

    […]

    Au moment où l’idée même que l’on se faisait de la vie se trouvait acculée à être repensée et réinventé, on a critiqué les politiciens. Quand le gouvernement masquait si difficilement sa panique et son incapacité à exercer sa fonction fondamentale et spirituelle, prévoir, on a entendu certains gauchistes même anarchistes caqueter : si tout cela arrive, c’est qu’ils l’ont bien voulu ou décidé. Ironie cruelle, même lorsque l’État se retrouve dans les choux avec le plus grand mal à gouverner, il peut compter sur ses fidèles contempteurs pour y déceler sa toute puissance et s’en sentir finauds.

    Faire passer des coups de force, de l’opportunisme et du bricolage pour une planification méthodique, maîtrisée et rationnelle, voilà le premier objectif de tout gouvernement en temps de crise. En cela, il ne trouve pas meilleur allié que sa critique complotiste, toujours là pour deviner ses manœuvres omnipotentes et anticiper son plein pouvoir. C’est en cela que le gouvernant a besoin du complotiste, il le flatte.

    #Serge_Quadruppani #covid #antivax #gauche #émancipation #réflexion #science

  • D’un chaman à l’autre : théories du complot et impasses du debunking - AOC media - Analyse Opinion Critique
    https://aoc.media/analyse/2021/12/29/dun-chaman-a-lautre-theories-du-complot-et-impasses-du-debunking-2/?loggedin=true

    D’un chaman à l’autre : théories du complot et impasses du debunking
    Par Nicolas Guilhot
    Historien
    Si Internet et les réseaux sociaux jouent un rôle majeur dans la diffusion des théories du complot cela ne signifie pas pour autant que celles-ci se réduisent à une question d’information, ni que nous ayons affaire à un phénomène nouveau : ce qui frappe, à y regarder de plus près, c’est, au contraire, l’impression de déjà vu. Rediffusion du 9 novembre 2021

    Comme pour le jour de la photo de classe, la marche du 6 janvier sur le Capitole à Washington consistait à porter sa plus belle tenue. Si le tout-venant s’était contenté de l’uniforme de rigueur – de robustes vêtements de travail et une casquette MAGA (pour Make America Great Again) –, les plus exubérants avaient opté pour des costumes de super-héros, des toges romaines, des peaux d’animaux ou des tenues mimétiques. Les apparences étaient d’autant plus importantes qu’il n’y avait pas grand-chose d’autre en jeu.

    En l’absence d’un programme politique défini et d’une réelle organisation, la pose a pris inévitablement le pas sur la politique : il s’agissait avant tout de faire acte de présence et de se faire remarquer. Seule la violence a sauvé cette fanfaronnade du ridicule. Décidée à reprendre le pays par la force, une foule un peu déphasée est sortie de l’épreuve de force avec un pupitre et quelques souvenirs de procédure parlementaire. Les véritables trophées de la journée furent les selfies.
    La vedette du jour ? Un homme, torse nu, coiffe en fourrure de coyote et cornes de bison, le visage peint aux couleurs du drapeau américain, la poitrine ornée de tatouages néo-païens. Véritable aimant pour les objectifs des caméras et des appareils photo, il est partout dans la couverture médiatique de l’événement : on le voit gonfler ses biceps sur l’estrade de la Chambre du Sénat, brandir une lance, déambuler dans les couloirs vides du pouvoir, inspecter un bureau encore jonché du fouillis d’une évacuation précipitée, s’adresser à des policiers interloqués.
    Devenu instantanément viral, l’homme a inspiré toute une série de comparaisons, du chanteur pop britannique Jamiroquai à Chewbacca de la Guerre des étoiles. Quelques jours à peine après l’émeute, il était possible d’acheter son effigie auprès d’un fabricant argentin de poupées de collection. Et il a fait des émules : en avril dernier, lors d’une manifestation contre la fermeture des restaurants à Rome, un ancien vendeur de lampes à bronzer, propriétaire d’une pizzeria à Modène, a pris part à l’émeute en arborant cornes et fourrure, le visage barbouillé du tricolore.
    Figure emblématique du 7 janvier, l’homme est connu sous le nom de « Q Shaman », en référence à la mouvance QAnon, dont les adeptes sont convaincus que le monde est gouverné par une cabale de pédophiles. Pour l’état civil, il s’agit de Jacob Chansley, un supporteur de Trump âgé de 33 ans et originaire de Phoenix, Arizona. Avant même de devenir le visage public de l’émeute du 6 janvier, les frasques politiques et le sens vestimentaire de Chansley lui avaient déjà valu l’attention de la presse locale. En 2019 et 2020, il assistait régulièrement aux rassemblements organisés par Trump et on pouvait, de temps à autre, le trouver faisant les cent pas devant le Capitole de l’Arizona et dispensant bruyamment la bonne parole de QAnon au rythme d’un tambourin chamanique.
    À la suite du 6 janvier et de l’arrestation de notre homme, des détails biographiques sont venus définir les contours d’une vie par ailleurs banale : une expulsion pour loyers impayés, suite à laquelle Chansley était retourné vivre avec sa mère ; quelques années d’université pendant lesquelles il avait étudié la religion, la psychologie et la céramique ; un passage dans la marine en tant qu’apprenti commis à l’approvisionnement sur un porte-avions ; des velléités rapidement déçues de faire une carrière d’acteur ; et deux ouvrages publiés à compte d’auteur, un essai et un roman, disponibles à la demande sur Amazon.
    Écrit sous le nom de plume de Jacob Angeli, One Mind At A Time (Un esprit à la fois) livre au lecteur les nombreuses opinions de Chansley sur le monde dans un flux ininterrompu et informel qui évoque l’équivalent stylistique de l’incontinence. L’ouvrage contient quelques autres éléments d’informations biographiques. On y apprend qu’adolescent, il se considérait un fervent partisan de George W. Bush, qu’il était indifférent aux questions environnementales, favorable à l’invasion de l’Irak et convaincu que les États-Unis étaient en droit d’exporter la liberté à coups de missiles de croisière – cela jusqu’à ce qu’il cesse de croire les médias grand public et voie la lumière, notamment grâce à « plusieurs expériences de dissolution des frontières […] à base de plantes psychédéliques ». Depuis lors, Chansley se considère comme un guérisseur et un praticien du chamanisme.
    L’attachement que Chansley voue à QAnon et sa participation à l’émeute du 6 janvier ont façonné notre manière d’interpréter politiquement ses gestes et sa personne. Certains commentateurs ont noté que ses tatouages sont des symboles de la mythologie nordique récupérés de longue date par les groupes suprématistes blancs. Et si cela peut sembler incompatible avec un attirail chamanique et une tenue qui évoque davantage une session de Fortnite qu’un penchant pour le look Waffen-SS, il est vrai qu’à ses débuts, le Ku Klux Klan aussi ressemblait à un carnaval qui aurait mal tourné, une sorte de pride macabre avec cosplay et kazoos, avant d’opter pour la sobriété de ce que James Thurber a appelé « la literie d’apparat ».
    L’extrême-droite contemporaine absorbe les répertoires contestataires progressistes et les schémas de la contre-culture pour les canaliser dans une direction réactionnaire.
    Même s’il est tentant de faire de Chansley un fasciste parmi d’autres, la reductio ad Hitlerum atteint rapidement ses limites heuristiques. Il ne fait aucun doute que les diatribes de Chansley recoupent pleinement les vues conspirationnistes de l’extrême-droite : « Q consiste à reprendre le pays aux mondialistes et aux communistes […] qui ont infiltré les médias […], le divertissement[…], la politique », a-t-il par exemple déclaré dans un entretien. Pourtant, à ne prêter attention qu’à ce qui renvoie aux fascismes du passé, on risque de passer à côté de ce qui est nouveau et singulier – et plus immédiatement pertinent.
    Dans son reportage sur les événements du 6 janvier pour le New Yorker, Luke Mogelson a observé que de nombreux participants aux précédentes manifestations contre le confinement « se percevaient comme des gardiens de la tradition du mouvement des droits civiques », et que certains d’entre eux allaient jusqu’à se comparer à Rosa Parks.
    Les adeptes de QAnon comptent dans leurs rangs d’anciens centristes et autres liberals désenchantés : certains ont voté pour Obama, d’autres viennent de familles pro-Hillary ou pro-Bernie. Ce n’est vraisemblablement pas le cas de Chansley, même si certaines de ses convictions pourraient fort bien figurer dans un pedigree progressiste.
    Dans One Mind At A Time, il décrit le monde qui émergera une fois vaincu le « fascisme d’entreprise militarisé » de l’État profond : les prisons seront « progressivement éliminées » et la peine de mort abolie ; les frontières disparaîtront et tout le monde pourra se déplacer librement ; il y aura « beaucoup d’argent pour que les enseignants soient mieux payés, pour que les soins de santé soient couverts pour tous les citoyens, pour que les sans-abri aient un toit et qu’aucun humain ou animal ne souffre de la faim ou de maltraitance ». Sans oublier le chanvre qui remplacera le bois et les colonies d’abeilles de l’Amazonie qui échapperont finalement aux méfaits de la déforestation.
    Il est facile de ne voir dans ces propos que les élucubrations d’un esprit confus – ce qui est le cas. Mais ce bric-à-brac idéologique incohérent – composé de diatribes enragées contre le mondialisme, d’idées qui ne dépareraient pas dans les manifestes Black Lives Matter (« defund the police »), voire dans le matériel de campagne d’un Bernie Sanders – reflète la capacité de l’extrême-droite contemporaine à absorber des répertoires contestataires progressistes et des schémas de la contre-culture pour les canaliser dans une direction réactionnaire.
    Si l’on doit parler de fascisme, c’est moins dans le sens d’une menace extérieure qui pèserait sur les institutions de la démocratie libérale, comme le suggèrent les images du 6 janvier, que dans celui d’un délitement interne de celles-ci. Il ne s’agit pas d’une idéologie codifiée dans le passé, mais d’un mouvement qui préempte et désamorce la nécessité du changement social en faveur du statu quo, un mouvement composé de magnats de l’industrie et d’ouvriers au chômage, de patrons de casinos et de concierges, de marchands de sommeil et de locataires expulsés, un mouvement qui a trouvé dans un escroc de l’immobilier le meilleur porte-drapeau possible.
    Ce qui importe n’est pas tant de savoir si des échos des brasseries des années 1930 résonnent dans les déclarations de Chansley, mais de comprendre pourquoi un éco-guerrier New Age de l’Arizona qui appelle de ses vœux une sécurité sociale à couverture universelle participe à une parodie de putsch aux côtés de néo-nazis et de soccer moms, pour finalement devenir le visage du fascisme gonzo du XXIe siècle. Une partie de la réponse, semble-t-il, est liée aux théories du complot.
    QAnon s’est construit à partir d’une rumeur plus ancienne, connue sous le nom de « Pizzagate », selon laquelle Hillary Clinton était à la tête d’un réseau pédophile opérant depuis le sous-sol de Comet Ping Pong, une célèbre pizzeria de Washington D.C. Même après qu’un adepte lourdement armé eut pris d’assaut les lieux pour ne rien trouver d’autre qu’une arrière-cuisine dans laquelle le personnel de l’établissement s’affairait à pétrir de la pâte à pizza, la rumeur ne s’est pas éteinte. Elle continua à se répandre sous la forme de prophéties cryptiques postées en ligne par un mystérieux contributeur qui signait ses missives de la lettre « Q », en référence à un niveau d’habilitation sécurité-défense du ministère de l’Énergie des États-Unis.
    Pour la communauté en ligne des fidèles, ces « Q drops » suggéraient que Trump était en train de mener une guerre secrète contre le réseau pédophile mondial niché au cœur de l’État profond. Le combat final aurait lieu au grand jour, bien que sous un éclairage crépusculaire, lorsque Trump ordonnerait à diverses branches des forces de sécurité de rafler les membres de la cabale – un événement baptisé « The Storm » (« La Tempête ») dans le folklore QAnon.
    Dans son célèbre essai sur la pensée complotiste, Le Style paranoïaque : théories du complot et droite radicale en Amérique (1964), Richard Hofstadter suggérait que ce qui caractérise l’esprit paranoïaque n’est pas seulement la croyance dans telle ou telle théorie du complot, mais le fait de considérer l’histoire elle-même comme une vaste conspiration. Pour Chansley, QAnon n’est pas seulement une théorie concernant l’establishment politique de Washington mais le canevas même de l’histoire américaine, dans la trame duquel chaque pièce du puzzle trouve sa place, des ovnis et de l’assassinat de John F. Kennedy aux récentes fusillades dans les écoles.
    Il est difficile de résumer les élucubrations de Chansley, à côté desquelles les divers épisodes d’Indiana Jones font l’effet d’un documentaire soporifique sur Arte. En résumé, la conviction que l’élite mondiale s’adonne au trafic d’êtres humains et au viol d’enfants n’est que la couche externe d’un complot bien plus vaste, complot dont les membres sont cooptés précisément du fait de leur dépravation, laquelle permet à l’État profond de s’assurer de leur docilité par la biais du chantage.
    Mais, dans ce cas, qu’est-ce que l’État profond, se demandera-t-on ? Au lendemain de la Seconde Guerre mondiale, explique Chansley, les États-Unis ont secrètement absorbé le réseau de renseignements nazi et, partant, les technologies de pointe allemandes, qui n’étaient pas toutes d’origine humaine : dans leur quête de suprématie, les nazis étaient entrés en possession de savoirs ésotériques, peut-être lors de leurs expéditions secrètes en Antarctique et en Asie, où ils seraient vraisemblablement entrés en contact avec des civilisations extraterrestres (d’où les mystérieux « Foo Fighters » de la fin de la Seconde Guerre Mondiale).
    Transplantés aux États-Unis, accompagnés peut-être de leurs collègues extraterrestres, les scientifiques nazis ont poursuivi leurs expériences médicales sur des sujets humains, ainsi que le développement de technologies extraterrestres secrètes (d’où les événements de Roswell). Cette vaste opération de camouflage se poursuit encore aujourd’hui : le sous-sol de la masse continentale nord-américaine est sillonné par un réseau de cavernes connues sous le nom de « Deep Underground Military Bunkers », ou DUMBs, « reliés par de grands tunnels qui utilise [sic] un train à sustentation magnétique se déplaçant à la vitesse Mach d’une base à l’autre ». Certains de ces bunkers souterrains abritent des installations militaires secrètes ou sont interdits d’accès, d’autres ont été maquillés en infrastructures civiles.
    De courageux chercheurs de vérité ont parfois exposé ces dernières : il est par exemple évident que l’aéroport international de Denver cache un DUMB s’enfonçant dans les entrailles de la terre sur huit niveaux, car comment expliquer autrement la disposition en forme de croix gammée de ses pistes, si ce n’est en guise de clin d’œil à son rôle de plaque tournante pour les fonctionnaires nazis de l’État profond ? Est-ce une coïncidence si l’existence d’un monde souterrain habité par des créatures non humaines soit attestée dans un certain nombre de civilisations anciennes ? Et que se passe-t-il au juste dans les cryptes de cet autre repaire de violeurs qu’est le Vatican ?
    Partout, de Comet Ping Pong à la salle d’embarquement de Denver, des gens sont enlevés pour servir de cobayes dans le cadre d’expériences de transformation génétique, de contrôle mental et de pouvoirs surnaturels, tandis que des enfants sont jetés ici et là en pâture à l’élite pédophile dont le rôle est de tenir l’État profond à l’abri des regards.
    Chansley, lui, a regardé droit dans les ténèbres et n’a pas bronché : « Quand j’ai découvert que 800 000 enfants et 600 000 adultes sont portés disparus chaque année rien qu’aux États-Unis, j’ai eu la Chair de poule [sic] ! » La fluoration des eaux municipales ainsi que le lavage de cerveau idéologique opéré via le système scolaire et les médias grand public garantissent la soumission de la population générale, tandis que des pouvoirs de contrôle mental permettent à l’État profond de commanditer des tueurs programmés et de fomenter des fusillades dans les écoles, et ce dans le but de désarmer les patriotes qui seraient tentés de vouloir libérer la population souterraine d’esclaves sexuels. Et puis, il y a les victimes dont personne ne parle : de mèche avec des sociétés maléfiques comme Monsanto, l’État profond se livre à un « écocide » et massacre non seulement des enfants innocents, mais aussi des millions de nos frères bovins. Où sont nos enfants ? Où sont nos bisons ?
    Les réseaux sociaux jouent un rôle majeur dans la diffusion des théories du complot, mais cela ne signifie pas pour autant que celles-ci se réduisent à une question d’information.
    Il existe de manière assez répandue, chez les universitaires, les responsables des politiques publiques et les chiens de garde de l’information, une tendance à considérer les théories du complot comme des théories, c’est-à-dire des affirmations sur le monde susceptibles d’être vraies ou fausses. Dans la mesure où elles sont typiquement fausses, nous les traitons comme des explications sociologiques erronées, fondées sur des incohérences logiques ou des vices de preuve.
    C’est après tout à un philosophe des sciences que nous devons le concept de « théorie du complot » : lorsque l’expression voit le jour en 1948 sous la plume de Karl Popper, elle désigne l’incapacité à interpréter les événements sociaux comme la résultante d’une myriade de processus interdépendants ; au lieu de cela, ils se trouvent réduits à l’expression d’une volonté unique et omnipotente émanant d’entités collectives invisibles (Popper mentionne pêle-mêle les capitalistes, les impérialistes, les sages de Sion…).
    La « théorie sociologique du complot », écrit Popper, s’apparente à « un type assez primitif de superstition ». Cette vision est restée prédominante depuis lors : dans un article influent publié il y a dix ans, deux juristes de Harvard – Cass Sunstein et Adrian Vermeule – parlent ainsi d’« épistémologies boîteuses ».
    Dès lors que les théories du complot sont considérées comme un problème de nature cognitive, elles deviennent aussi un problème d’ordre purement individuel. Si elles ne nous disent certes rien sur la société, elles nous parlent en revanche des personnes qui y adhèrent. Même lorsque le diagnostic se fait en des termes vaguement sociologiques (faible niveau d’éducation, classes populaires, etc.), les théories du complot deviennent le symptôme d’une déficience de la pensée, d’une incapacité à s’orienter dans l’environnement informationnel.
    En somme, nous avons réduit les théories du complot à de l’information, et ceux qui y croient à de médiocres processeurs d’information. On ne s’étonnera pas si de nombreux observateurs en viennent désormais à considérer les théories du complot contemporaines comme une forme d’analphabétisme propre à l’ère digitale : le « nouveau conspirationnisme », selon eux, ne se rapporterait à aucun événement réel (rien ne se passe à Comet Ping Pong contrairement, par exemple, à l’assassinat de Kennedy) et se réduirait à de l’air chaud généré par les serveurs de Facebook. Pour ces mêmes observateurs, QAnon est un phénomène qui jamais n’aurait été possible « ne serait-ce qu’au début de ce siècle ».
    Il est indéniable qu’Internet et les réseaux sociaux jouent un rôle majeur dans la diffusion des théories du complot, mais cela ne signifie pas pour autant que celles-ci se réduisent à une question d’information, ni que nous ayons affaire à un phénomène nouveau : ce qui frappe, à y regarder de plus près, c’est, au contraire, l’impression de déjà vu.
    Nous avons remplacé les conditions sociales et économiques par des biais cognitifs.
    En mai 1969, une rumeur se répand comme une traînée de poudre dans la ville d’Orléans : des jeunes femmes disparaissent mystérieusement dans les salons d’essayage de six boutiques de la ville. Les victimes sont droguées et enlevées via des tunnels souterrains afin d’être vendues à des réseaux internationaux de prostitution. Le fait que les propriétaires des magasins incriminés soient juifs n’est certainement pas un hasard.
    Au fur et à mesure que la rumeur prend de l’ampleur, le silence des médias locaux devient suspect et finit par se fondre dans la trame de la conspiration : la presse est achetée – fake news ! – et les autorités publiques sont de mèche. Le 31 mai, alors que de nombreux Orléanais font leur marché, des petits groupes se rassemblent devant les magasins incriminés dans une atmosphère volatile. Seule la fin du marché et le début du second tour de l’élection présidentielle désamorcent une situation explosive, dans laquelle il n’aurait pas été impensable que la rumeur pousse quelqu’un à l’action, comme ce fut le cas cinquante plus tard à Comet Ping Pong.
    Ce qui frappe dans l’incident d’Orléans, ce sont les similitudes avec les théories du complot actuelles : l’horreur cachée derrière la devanture d’un commerce populaire, le trafic sexuel mondial, les tunnels secrets, la collusion des médias et de l’élite politique. A une différence près : l’absence d’Internet.
    Au lendemain de la rumeur, le sociologue Edgar Morin s’était rendu à Orléans avec plusieurs de ses collègues afin de comprendre l’origine et la diffusion de la théorie du complot. Publié à chaud, La Rumeur d’Orléans est le récit de cette enquête de terrain. A ma connaissance, aucune analyse du phénomène QAnon n’a fait référence à cet ouvrage, pourtant traduit en anglais dès 1971.
    À le relire aujourd’hui, on est frappé par deux choses : la relative stabilité dans le temps des schémas complotistes, et, à l’inverse, la transformation radicale de notre façon de les analyser. Ne pouvant en attribuer la responsabilité à l’information en ligne, Edgar Morin identifia des facteurs sociaux, économiques et culturels plutôt que des mécanismes cognitifs ou des logiques d’information.
    Il tenta de déchiffrer la panique morale à l’origine des rumeurs antisémites en relation avec l’évolution de la structure démographique de la ville, les nouvelles identités de genre, le rôle des femmes sur le marché du travail, les processus de modernisation économique qui perturbaient le tissu social et les codes moraux de la ville, ainsi qu’un lent processus de déclin qui voyait une ancienne capitale médiévale se transformer en grande banlieue parisienne. Pour le dire brièvement, Morin s’est efforcé de comprendre la situation historique dans laquelle un mythe avait resurgi, et non une erreur d’inférence ou une épistémologie boîteuse.
    Le debunking s’avère être, en définitive, une défense du statu quo.
    Ce qui est remarquable, cinquante ans plus tard, c’est à quel point ce monde réel a disparu de nos réflexions sur les théories du complot. Nous avons remplacé les conditions sociales et économiques par des biais cognitifs, les mythologies politiques et religieuses par des erreurs étiologiques, l’histoire par des préjugés ataviques. Ce n’est pas seulement que nous avons projeté les causes du complotisme dans les profondeurs du cerveau humain : nous partons du principe que ces profondeurs sont plus faciles à sonder que le monde qui nous entoure, et plus faciles, aussi, à réformer.
    Ni les partisans de la démystification (debunking), ni les nouveaux justiciers de l’information ne considèrent la possibilité que la cause profonde des théories du complot puisse se situer en dehors de l’esprit, et nécessiter un réexamen du monde socio-économique qui est le nôtre. Il y a là un quiétisme implicite : ce qui est en cause, ce n’est pas le monde, mais les esprits individuels qui semblent ne pas le voir pour ce qu’il est.
    Il s’agit dès lors d’amener les gens à s’aligner sur une réalité qu’ils ne mesurent pas. Steven Pinker, l’un des paladins de la vérité et de la rationalité, suggère de mettre en œuvre rien moins que des programmes de « débiaisage » qui consisteraient à aider les gens à voir que le monde va bien et que tout se passera au mieux si nous laissons les responsables politiques et économiques continuer à s’en occuper sans leur faire entrave.
    Il s’agit de s’adapter au monde tel qu’il est et de résister à toute tentation de le transformer. Le debunking s’avère être, en définitive, une défense du statu quo – non pas parce que les théories du complot seraient vraies, mais parce que les tenants de la démystification les utilisent pour restreindre un peu plus la place accordée au politique. Par-delà leur opposition, le debunking et les théories du complot sont deux formes d’anti-politique.
    S’il fallait désigner un coupable de cette tendance à faire des théories du complot un problème de psychologie et de rationalité individuelles, ce serait Hofstadter. Selon les commentaires éditoriaux élogieux qui ont accueilli la récente réédition aux États-Unis de The Paranoid Style dans la prestigieuse collection Library of America, les travaux de Hofstadter sur « l’irrationalisme, la démagogie et la pensée complotiste » constituent une « pierre de touche pour donner un sens aux événements de 2020 ».
    Ces éloges ne témoignent pas seulement de l’importance d’Hofstadter pour la culture politique américaine : elles rendent aussi hommage à un historien qui voyait dans les théories du complot l’expression d’un atavisme, une sorte de monstre lacustre qui referait épisodiquement surface dans l’histoire américaine mais que l’on ne peut comprendre qu’en termes de « psychologie des profondeurs ».
    Paradoxalement, Hofstadter a doté de toute le prestige que confère un prix Pulitzer l’idée selon laquelle l’histoire a relativement peu à nous apprendre sur ce qui est en réalité une mentalité archaïque, parfois réveillée par les soubresauts de la modernité mais en dernière instance imperméable à cette dernière. Il ne faut pas s’étonner que le regain d’intérêt pour son essai sur le style paranoïaque ait lieu à l’époque des sciences cognitives et des politiques paternalistes du « nudging ».
    On a prêté beaucoup moins d’attention aux allusions répétées d’Hofstadter à l’Apocalypse. Le porte-parole paranoïaque, écrit Hofstadter, voit le monde « en termes apocalyptiques ». Il lance des « avertissements apocalyptiques » et « trafique la naissance et la mort de mondes entiers […]. Comme les millénaristes religieux, il exprime l’angoisse de ceux qui vivent les derniers jours et il est parfois disposé à fixer une date pour l’apocalypse ».
    Dans la tradition chrétienne, l’Apocalypse offre la première conception complotiste de l’histoire, dont la trame doit culminer dans une épreuve de force finale. Il s’agit d’une histoire d’imposture et d’usurpation. Dans le rôle principal, on trouve généralement l’Antéchrist, ou une version de celui-ci : un imitateur qui prend la place du Christ, il est le « crisis actor » (acteur de crise) et le « false flag » (faux drapeau) originel. Un usurpateur qui prétend unifier l’humanité dans le Royaume tout en installant en réalité sa tyrannie, il est le premier mondialiste et le stigmate qui pèse sur tous les mondialismes ultérieurs. Des anciens millénarismes aux élucubrations de Pat Robertson sur le « nouvel ordre mondial », il fait figure de modèle dans la plupart des théories du complot.
    QAnon aussi est une variation à peine laïcisée de l’Apocalypse : un récit sur le mal absolu paradant dans le monde sous l’apparence d’une dispensation libérale ; une variation sur la dépravation morale d’un globalisme nécessairement trompeur ; une pression eschatologique liée à l’imminence d’un jugement final, assorti du traditionnel avis de tempête.
    Comme l’a brillamment suggéré le critique littéraire Frank Kermode, l’Apocalypse est un récit qui nous permet de donner un sens à la finitude de notre monde, en projetant une cohérence liant sa fin à ce qui la précède. Sa structure profonde est la récapitulation : la fin reprend les événements passés sous la forme de la concordance, tout se vérifie parce que tout était lié dès le début d’une manière qui se révèle enfin. L’Apocalypse répond à un besoin profond de cohérence lorsqu’il s’agit d’appréhender l’idée de la fin ; il n’est pas étonnant que dès les années 1920 la psychiatrie ait fait la part belle à l’expérience de la fin du monde (« Weltuntergangserlebnis ») dans l’analyse de la paranoïa, ni qu’elle revienne sans cesse sous la plume d’un Hofstadter. Face à une échéance sans cesse reportée et à des réfutations répétées, elle doit être continuellement réinventée : « L’image de la fin », a souligné Kermode, « ne peut jamais être réfutée de façon permanente. »
    Cela devrait donner à réfléchir aux partisans du debunking. Non seulement les théories du complot s’appuient sur des modèles culturels fondamentaux qui ne sont pas faciles à déraciner, mais les religions établies sont elles aussi des « épistémologies boîteuses », pour reprendre l’expression de Sunstein et Vermeule. L’implication n’a pas échappé aux adeptes de QAnon : « Si Jésus revenait sur terre aujourd’hui, pensez-vous que vous le reconnaîtriez en raison de ses miracles ? », écrit l’un d’entre eux, « ou le qualifieriez-vous de théoricien du complot ? »
    Les théories du complot reposent sur la foi en ce que le temps tient en réserve. La « vérité » qu’elles défendent est définie par la révélation de ce qui est à venir, et non par une démonstration logique. Non seulement la démystification est impuissante dans ces cas-là, mais c’est précisément dans la persévérance face à l’adversité et aux preuves du contraire que se révèle la foi. Parce qu’elles s’articulent autour d’un sens apocalyptique du temps, les théories du complot ne sont pas seulement des idées erronées : elles sont, aussi, une manière spécifique d’être au monde.
    Hofstadter était trop occupé à faire passer une prise de position politique pour un diagnostic psychanalytique et à assimiler son tiède libéralisme à l’idée même de rationalité pour s’intéresser davantage aux métaphores apocalyptiques qu’il affectionnait. C’est à l’anthropologue des religions Ernesto De Martino que revient le mérite d’avoir exploré les affinités entre l’esprit paranoïaque et l’apocalypse dans un essai publié la même année que The Paranoid Style dans la revue italienne Nuovi argomenti et intitulé « Apocalypses culturelles et apocalypses psychopathologiques ».
    Rien n’indique qu’Hofstadter et De Martino avaient connaissance de leurs travaux respectifs, mais tous deux affrontaient la crise du progressisme libéral – Hofstadter avec le ton posé d’un porte-parole, en présentant ses mécontents comme un atavisme folklorique, et De Martino en développant une analyse historique et anthropologique plus critique. Ce dernier partait d’un diagnostic culturel pour lequel l’épuisement des idéologies du progrès et le déclin du religieux rendaient l’humanité incapable d’affronter autrement que sur un mode pathologique et paralysant les scénarios apocalyptiques que l’arme nucléaire rendait actuels.
    Pour De Martino, les visions rédemptrices de la fin du monde – ce qu’il appelle les « apocalypses culturelles » – constituent un phénomène universel. Si tout risque de se dissoudre dans le néant, ou est voué, de toute façon, à disparaître, l’élan productif qui soutient la vie collective disparaît. Ce n’est qu’en mettant de côté ce risque que les sociétés humaines ont pu donner une valeur à leur existence mondaine et se projeter dans l’histoire. Lorsque les premiers chrétiens de Thessalonique se sont persuadés de l’imminence des derniers jours et ont sombré dans une stupeur oisive, il a fallu toute la verve apocalyptique d’un Saint Paul pour transformer l’angoisse paralysante en promesse d’un monde meilleur autour duquel une communauté chrétienne pouvait organiser sa vie ici et maintenant.
    Les apocalypses culturelles, cependant, ne sont pas forcément religieuses ni ne signifient nécessairement la fin de l’existence terrestre en tant que telle. Elles peuvent aussi se manifester sous la forme de « l’aspect social et politique de la fin d’un monde historique donné » (De Martino s’est particulièrement intéressé aux mouvements millénaristes déclenchés par la fin de la domination coloniale en Afrique, mais aussi à la fin de la société capitaliste bourgeoise promise par le marxisme) ou d’un événement particulier dans la vie d’un individu ou d’une communauté. À chacun de ces moments critiques, les cérémonies religieuses, les rituels profanes, les idéologies progressistes ou révolutionnaires atténuent l’idée d’un effondrement final et révèlent à nouveau la possibilité d’une existence collective et porteuse de sens. Fondamentalement, les cultures apocalyptiques se résument au proverbial Keep Calm and Carry On du blitz anglais.
    En l’absence de ces médiations culturelles, les peurs apocalyptiques prennent une tournure strictement individuelle et, par conséquent, pathologique : l’effondrement du monde devient une expérience solitaire, privée, voire intime, et le sentiment de perte est détaché de toute communauté culturelle. L’individu se retrouve submergé par un sentiment d’aliénation et de passivité. En s’effondrant, le monde emporte avec lui la possibilité d’une présence au monde. Le familier devient étrange et inquiétant, comme si le monde qui figurait à l’arrière-plan du quotidien cédait soudainement et les relations stables et objectives entre les choses se dénouaient au profit de leurs connexions occultes. Le monde devient « un réseau de menaces diffuses, de forces hostiles, d’obscurs complots ourdis à nos dépens ».
    L’apocalypse psychopathologique, en définitive, est une forme paroxystique et existentielle de l’angoisse du statut dont Hofstadter avait fait le fondement psychologique de l’esprit paranoïaque. À une différence près, qui est de taille : là où Hofstadter croyait avoir circonscrit un problème de psychologie collective, De Martino voyait le résultat d’un échec culturel.
    Dans un livre plus ancien, De Martino s’était intéressé à ceux qui, dans le monde archaïque, conjuraient ces risques apocalyptiques : les chamans. Sa grande intuition était que le monde que nous considérons comme acquis, et qui constitue l’arrière-plan stable de nos vies, n’est pas une donnée mais une conquête historique et culturelle, dont dépend notre sentiment d’autonomie.
    Dans les sociétés primitives, il a fallu arracher ce monde à un environnement peuplé d’esprits invisibles et de forces magiques, auxquels l’individualité, encore balbutiante, risquait à tout moment de succomber. De peur qu’il n’anéantisse l’individu et ne menace la communauté tout entière – comme dans le cas des Thessaloniciens –, ce risque devait être contenu.
    Ne pouvant entièrement l’écarter, les chamans faisaient de ce risque d’effondrement de la présence au monde le point de départ de leurs rituels pour en transformer le sens : au lieu d’y succomber passivement, ils le provoquaient afin de contrôler les forces occultes de leurs cosmogonies. En apprivoisant les esprits invisibles et en les soumettant à leur emprise, ils recouvraient pour toute la communauté « le monde qui [était] sur le point d’être perdu », écartant ainsi le risque psychopathologique et enchâssant de manière pérenne l’expérience apocalyptique dans un tissu culturel collectif. Saint Paul n’était rien d’autre que le chaman du christianisme primitif.
    Les théories du complot évitent la chute dans la paranoïa individuelle et transforment les sentiments apocalyptiques en composantes pour la construction de communautés alternatives.
    Will & Power : Inside the Living Library est le roman que Chansley a publié en 2018 sous le pseudonyme de Loan Wold. Il y est question, là aussi, de chamanisme, et d’un monde perdu et retrouvé. Comme pour son essai, il s’agit d’une lecture qui met la bonne volonté du lecteur à l’épreuve. Le personnage principal, qui n’est pas sans rappeler l’auteur de l’ouvrage, part camper après s’être séparé de sa petite amie et avoir perdu son travail dans un magasin de jardinage.
    Au fond des bois, il rencontrer une créature d’une autre planète, semblable à un Sasquash, qui l’initie à une sagesse ancienne appelée « Shama » et lui enseigne à exploiter les pouvoirs du champ magnétique terrestre et à communiquer avec les esprits animaux et végétaux qui peuplent le monde. Bien qu’ils soient accessibles à tous les humains, les pouvoirs du chamanisme ont été gardés secrets et pervertis pour servir les desseins des « Seigneurs Noirs », une race maléfique de colonisateurs extraterrestres qui se dissimulent sous une apparence humaine.
    Il n’est pas nécessaire de s’attarder sur les détails embarrassants de l’intrigue, donnée à lire dans le style d’un SMS et la gamme sentimentale d’une palette d’emojis. La croyance dans le magnétisme animal n’a rien de nouveau et, depuis son origine au XVIIIe siècle sous la plume de Franz Mesmer, elle a été associée à l’idée d’action à distance et, souvent, à des théories du complot.
    Chansley donne toutefois à ces vieux thèmes une tournure contemporaine et technologique : ces flux d’énergie invisibles deviennent le « Life-Net », réseau par lequel les plantes et les créatures échangent « toutes sortes d’informations ». Les événements locaux sont « téléchargés » sur ce réseau et accessibles de partout dès lors que le nouvel initié au chamanisme s’y connecte. Le monde devient ainsi une « bibliothèque vivante » où chaque créature, chaque être est connecté à tout ce qui l’entoure : une dense forêt d’hyperliens dans laquelle on peut « surfer » indéfiniment.
    Le monde apocalyptique du paranoïaque, selon De Martino, se caractérise par un « excès de sens », une surcharge de signification qui fait que rien n’est exactement conforme aux apparences. Les choses sont insaisissables et mystérieuses, leurs liens sont obscurs, et la rencontre avec la réalité sans cesse repoussée. Les deux livres de Chansley traitent d’un monde tellement saturé de sens qu’il craque aux entournures.
    Dans son essai, il est question d’un univers désorientant, dans lequel aucune vie active n’est possible : une sorte de palais des glaces dans lequel on ne peut que courir après des points de fuite et se sentir impuissant, en proie aux forces menaçantes de l’État profond, et dépossédé de sa liberté.
    Dans son récit consacré au chamanisme, la même expérience de ces couches de sens infinies devient libératrice. Ce qui était auparavant un réseau mystérieux et insaisissable de connexions occultes devient une extension illimitée des pouvoirs individuels. L’étrange sentiment que « rien n’est exactement ce qu’il y paraît » se transforme en une prise de conscience stimulante que « tout est lié ». Le monde de la théorie du complot se retourne sur lui-même, comme un gant. En s’abandonnant aux forces invisibles de l’univers pour mieux les dominer, le « Q Shaman » recouvre lui aussi le monde perdu de la liberté humaine.
    Un chaman aux pouvoirs étendus, qui restitue aux autres leur puissance d’agir : la folie des grandeurs est bien sûr un symptôme classique de la paranoïa de persécution. De ce point de vue, le chamanisme de Chansley est risible. Ses pitreries bruyantes et son accoutrement prétentieux sont aussi authentiques sur le plan culturel que les canaux vénitiens à Las Vegas. Ses expériences avec les psychotropes sont des trips privés sans lien aucun avec quelque tradition vivante que ce soit. Et pourtant, ce chamanisme de pacotille traduit quelque chose de fondamental quant aux théories du complot, quelque chose que les considérations psychologiques ou cognitives, pour ne pas parler des dissertations épistémologiques ou des théories de l’information, ne parviennent pas à saisir. Il vise à exorciser l’emprise paralysante des angoisses apocalyptiques et à restaurer la perspective d’un monde commun. Pour le dire autrement : il esquisse ce que De Martino a appelé une apocalypse culturelle.
    Le « Q Shaman » est le reflet de quelque chose qui traverse, voire définit QAnon et tous les mouvements contemporains qui capitalisent sur la pensée conspirationniste : en prenant de l’ampleur, les théories du complot évitent la chute dans la paranoïa individuelle et cherchent à transformer les sentiments apocalyptiques en composantes de base pour la construction de communautés alternatives, qu’elles soient culturelles ou politiques.
    Si le chamanisme a disparu ou se retrouve désormais réduit au rang de survivance archaïque, ce n’est pas le cas de l’expérience apocalyptique que les chamans cherchaient à canaliser. Pour De Martino, ce « drame existentiel » est susceptible se manifester dans les sociétés modernes, en particulier dans des situations de « souffrance et de dénuement », comme les guerres ou les famines, qui placent l’individu dans une situation de détresse insoutenable.
    Ces situations dans lesquelles la présence au monde ne va plus de soi ne sont plus marginales : le dérèglement climatique et son cortège d’extinctions, la destruction d’écosystèmes d’ampleur continentale, le déracinement de communautés entières fuyant les ravages de guerres sans fin ou la dégradation irréversible de leur habitat, une pandémie mondiale qui ravage les plus vulnérables, des inégalités sociales et économiques sans précédents qui font que, pour des millions de personnes, la fin du mois fait parfois figure de fin du monde.
    Jamais auparavant notre existence en tant qu’individus et en tant qu’espèce n’a semblé aussi précaire. Jamais notre monde n’a semblé aussi fragile. Notre capacité à nous projeter dans l’avenir s’est considérablement réduite. Même les exploits spatiaux, autrefois considérés comme des pas de géant pour l’humanité, ressemblent aujourd’hui à des exercices d’évacuation pour les cabines de première classe. Les capsules de sauvetage privées qui mettent des milliardaires en orbite n’annoncent aucun progrès : elles confirment seulement qu’il est minuit moins une.
    Pourtant, la vie continue comme si de rien n’était. On cherche en vain les ressources culturelles et politiques qui nous aideraient à percer les brumes apocalyptique du présent pour discerner la lueur d’un nouveau jour qui serait aussi un jour meilleur. Dans cette situation schizophrénique, la dissonance cognitive ne peut que devenir la norme—et ce qui est peut-être étonnant n’est pas tant la diffusion des théories du complot que le fait qu’elles ne soient pas plus répandues encore.
    Dans son analyse de la rumeur d’Orléans, Edgar Morin soulignait que l’un des facteurs permettant à des mythologies dangereuses de s’imposer à une ville entière était la « sous-politisation ». La prolifération des théories du complot reflète la pauvreté d’une culture politique qui n’a rien à offrir à des millions d’individus confrontés à la disparition de leur monde. Parce qu’elles sont une tentative désespérée et indigente de donner du sens à la dimension catastrophique du présent lorsque les ressources culturelles disponibles n’y suffisent plus, les théories du complot sont une excroissance directe de ce vide politique.
    Fin observateur, Morin s’en prenait également à « l’incapacité de l’intelligentsia à aborder ces problèmes ». Rien n’a changé : ce n’est que depuis une position privilégiée où la certitude de leur monde est acquise que les experts d’aujourd’hui peuvent considérer les théories du complot comme des déficiences cognitives à corriger, et rester sourds à la crise existentielle qu’elles expriment.
    Si la propagation des théories du complot nous préoccupe, nous devons nous rendre compte que le debunking est une distraction, un passe-temps pour fact-checkers et chiens de garde de l’information. Nous devons nous pencher sur le manque de vision politique dont se nourrit le complotisme, et dont les commissions gouvernementales censées le combattre ne sont que les cache-misère.
    La politique a fondamentalement à voir avec le temps, et elle échoue lorsqu’elle s’apparente à l’administration des derniers jours. Repousser à plus tard la fin du monde a toujours été la justification conservatrice du maintien de l’ordre et de la préservation du statu quo. Quant à l’accélérationnisme aveugle qui fait aujourd’hui figure d’alternative, il n’est en réalité qu’une stratégie différente au service des mêmes objectifs. La seule et véritable alternative consiste à retrouver une capacité politique, à jeter des ponts par-delà un présent cataclysmique, à reconstruire la vision d’un monde commun et d’un avenir inclusif pour tous ceux qui sont en train de perdre le leur.
    À défaut, les théories du complot continueront de prospérer et d’occuper la place qui était autrefois celle des idéologies. Il est déjà clair que les politiciens tentés de les exploiter jouent à l’apprenti sorcier, pour ne pas dire à l’apprenti chaman. Et comme chacun le sait, leur heure vient quand sonnent les douze coups de minuit.

    Nicolas Guilhot
    Historien, professeur d’histoire intellectuelle à l’Institut universitaire européen de Florence

    Traduit de l’anglais par Hélène Borraz

    #complotisme #théories_du_complot #Qanon #Edgar_Morin #debunking #démystification

    • #rumeur_d'Orléans

      Au lendemain de la rumeur, le sociologue Edgar Morin s’était rendu à Orléans avec plusieurs de ses collègues afin de comprendre l’origine et la diffusion de la théorie du complot. Publié à chaud, La Rumeur d’Orléans est le récit de cette enquête de terrain. A ma connaissance, aucune analyse du phénomène QAnon n’a fait référence à cet ouvrage, pourtant traduit en anglais dès 1971.

      À le relire aujourd’hui, on est frappé par deux choses : la relative stabilité dans le temps des schémas complotistes, et, à l’inverse, la transformation radicale de notre façon de les analyser. Ne pouvant en attribuer la responsabilité à l’information en ligne, Edgar Morin identifia des facteurs sociaux, économiques et culturels plutôt que des mécanismes cognitifs ou des logiques d’information.

      Il tenta de déchiffrer la panique morale à l’origine des rumeurs antisémites en relation avec l’évolution de la structure démographique de la ville, les nouvelles identités de genre, le rôle des femmes sur le marché du travail, les processus de modernisation économique qui perturbaient le tissu social et les codes moraux de la ville, ainsi qu’un lent processus de déclin qui voyait une ancienne capitale médiévale se transformer en grande banlieue parisienne. Pour le dire brièvement, Morin s’est efforcé de comprendre la situation historique dans laquelle un mythe avait resurgi, et non une erreur d’inférence ou une épistémologie boîteuse.

    • « L’être de l’homme, non seulement ne peut être compris sans la folie, mais il ne serait pas l’être de l’homme s’il ne portait en lui la folie comme limite de sa liberté » , Jacques Lacan, journées psychiatriques de Bonneval, 1946.

      Un très grand merci, @sombre pour cet article. De quoi m’inciter à la lecture (trop retardée...) de la thèse de François Tosquelles, Le vécu de la fin du monde dans la folie. Le témoignage de Gérard de Nerval et de La fin du monde. Essai sur les apocalypses culturelles, de De Martino (auquel les textes de Wu Ming sur ces choses doivent tant).

      #vide_politique #anthropologie #apocalypses_culturelles #apocalypses_psychopathologiques #peur_apocalyptique #effondrement #psychopathologie #messianisme #millénarisme #Ernesto_De_Martino #QAnon

    • Et bien, disons que c’était mon cadeau pour la nouvelle année. :-))

      Je me plonge dès maintenant dans un long article de chez Cairn.info pour m’instruire sur l’aspect historique du #fact_checking et de ses méthodes d’investigation depuis son apparition aux États-Unis dans les années 1920.

    • bon, j’explicite rapido mon post précédent du coup. ce que je préfère de ce papier, c’est pas tant l’arrimage au raisonnement sociologique (Morin, et l’auteur), bien insuffisant à mes yeux (l’auteur le montre lui aussi lorsqu’il évoque la composition sociale hétérogène des QAnon) que l’analyse des enjeux subjectifs et politiques en tant que tels (le nouage psyche/angoisse/paranoïa et socius)

      La Fin du monde. Essai sur les apocalypses culturelles (extraits)
      https://journals.openedition.org/elh/605

    • En ce sens que l’analyse des théories du complot au crible de la sociologie ne serait que la partie émergée d’un processus qui prend forme dans l’interconnexion entre le « psychopathologique » type paranoïa et le parcours sociopolitique du sujet ?
      Une approche plus anthropologique en somme.

    • oui, ne pas en rester au raisonnement sociologique. histoire, socio, anthropo, rien n’est de trop, et trouver moyen d’explorer les subjectivités, sans psychologie.

      une société qui sépare en individus accroit l’impuissance, voilà une condition bien pathogène. les historiens le savent d’avoir observé, par exemple, la diminution du nombre de suicides lors de la Révolution française.

      autre temps, Nicolas Guilhot :

      Les théories du complot évitent la chute dans la paranoïa individuelle et transforment les sentiments apocalyptiques en composantes pour la construction de communautés alternatives.

      et il y a évidemment bien des communautés terribles :)

      comme en écho au " conspirer, c’est respirer ensemble" (avec des ffp2 !) que l’on pouvait entendre sur radio Alice à Bologne en 1977, avant l’arrivée des chars dans la ville (ce fut seule intervention militaire de ce type en europe occidentale), un livre à paraître

      Manifeste conspirationniste, Anonyme
      https://www.leslibraires.fr/livre/20145297-manifeste-conspirationniste-anonyme-seuil

      Le conspirationnisme procède de l’anxiété de l’individu impuissant confronté à l’appareil gigantesque de la société technologique et un cours historique inintelligible. Il ne sert donc à rien de balayer le conspirationnisme comme faux, grotesque ou blâmable ; il faut s’adresser à l’anxiété d’où il sourd en produisant de l’intelligibilité historique et indiquer la voie d’une sortie de l’impuissance.

      On peut bien s’épuiser à tenter d’expliquer aux « pauvres en esprit » pourquoi ils se trompent, pourquoi les choses sont compliquées, pourquoi il est immoral de penser ceci ou cela, bref : à les évangéliser encore et toujours. Les médias peuvent bien éructer d’anathèmes. C’est le plus généralement sans effet, et parfois contre-productif.

      La vérité est qu’il y a dans le conspirationnisme une recherche éperdue de vérité, un refus de continuer à vivre en esclave travaillant et consommant aveuglément, un désir de trouver un plan commun en sécession avec l’ordre existant, un sentiment inné des machinations à l’œuvre, une sensibilité au sort que cette société réserve à l’enfance, au caractère proprement diabolique du pouvoir et de l’accumulation de richesse, mais surtout un réveil politique qu’il serait suicidaire de laisser à l’extrême-droite.

  • Tweet de #Julie_Oudet sur #covid et situation dans les #hôpitaux français

    Dimanche 26 décembre 2021.
    Derniers moments off après 2 jours de repos, la boule au ventre à l’idée de retourner bosser.
    Le thread fouilli que t’es absolument pas obligé de lire

    Pour ceux qui me connaissent pas, je suis bucheronne H24, ascendant urgentiste.
    C’est pas que je sois dure à cuire, c’est juste que ma zone de confort est l’aorte fissurée à 80 km de l’hosto. (Pour les moldus : le plus gros vaisseau du corps humain)
    En termes de chouineries de frêles docteurs, disons que j’aime la régulation (que la plupart des urgentistes détestent), surtout quand c’est le bordayl (bah quoi ?), et globalement quand il y a du sang partout et l’intensité humaine des drames à affronter.
    Une chochotte, quoi.
    Mon job est une drogue, parce que l’adrénaline, parce que le sentiment de faire de mon mieux et le corollaire qu’est la paix que me fout ma conscience.
    Et plus c’est l’enfer, plus j’aime ça.
    Raison pour laquelle j’ai appris et adoré la médecine de catastrophe.
    A mon actif aussi, en plus d’avoir le pire karma aortique imaginable ever, j’ai enfanté le plus grand vaccinodrome d’Europe.
    Entre autres.
    Donc demain je retourne bosser après ces 2 jours de repos de nantie.
    Et j’ai peur.
    Peur comme j’ai jamais eu.
    De pas tenir. Ni moi, ni mes collègues soignants, face à cette 5e-6e vague.
    Pour rappel nous étions, le système de santé, exsangues et crevards d’épuisement professionnel, avant la 1ere vague.
    Et depuis nous avons encaissé, encaissé, encaissé.
    Donné tout ce qu’on pouvait. Tout.
    Je sais pas comment au juste, nous avons pu, collectivement, faire face.
    Il le fallait.
    Nous étions épuisés, et las.
    Crescendo.
    Il le faut toujours. Mais je ne sais pas si nous y arriverons encore, je ne sais pas si j’y arriverai encore.
    Y’a des fois où je me suis retenue de m’effondrer parce que je savais qu’autour des moi, des collègues et amis tomberaient comme un château de cartes.
    Y’a des fois où si des collègues et amis n’avaient pas tenus, je me serais effondrée.
    J’ai choisi de m’investir corps et âme dans la mission vaccinale, en plus du reste, parce que c’est une façon de garder les yeux rivés vers la lumière dans l’obscurité qu’est cette crise.
    Cela a beau être éreintant, à ce niveau là d’investissement, ce n’est pas ce qui me pèse moralement.
    Grâce aux équipes (cc @ModoPioupiou & @vaccinatine), grâce au fait que ça soit la lumière dans ce tunnel.
    Non. C’est au titre de mon job adoré, celui d’urgentiste, que je suis terrifiée.
    Pour plein de raisons.
    [c’est clairement le moment de m’unfollow parce que je compte pas vider mon sac avec des pincettes]
    Pour nous autres urgentistes, la 6e vague s’annonce épouvantable.
    Oui, la vague « han mais omicron est juste un rhume ».
    Épouvantable.
    Déjà parce que même avec une morbi-mortalité soi disant bien moindre (et vraiment j’espère que c’est le cas), très peu x énormément = beaucoup. Beaucoup trop.
    100 000 nouveaux cas par jour, bordayl.
    J’en peux plus des gens qui ont manifestement dormi au fond de la classe en CE2 pendant le cours sur les multiplications, et qui disent que tout va bien aller parce qu’omicron serait gentil tout plein.
    J’en peux plus de ceux qui voient pas le problème en deçà de 60 % de saturation des réas.
    Pour lesquels en deçà, il est pas justifié de lever leur cul de leur canapé où ils pérorent sans rien y piger, pour ouvrir la fenêtre et aérer bordayl.
    Passons sur le fait que les mêmes qui supportent pas le masque ouin ouin et ont pas confiance en la vaccination (expression trendy pour dire « peur des piqures ») sont ceux qui engorgent les cabinets médicaux, la ligne 15 et les services d’urgence quand ils ont un rhume.
    Tout, tout de suite, pour eux seuls, sans aucune considération pour le fait qu’il y ait d’autres citoyens dont le cas est substantiellement plus sévère.
    Je sais pas pour mes collègues de France et de Navarre, mais j’en ai vu des caisses.
    Non vaccinés, 1er jour des symptômes, aux urgences « donnez moi de la morphine tout de suite j’ai trop mal à la tête », bien sûr en omettant malencontreusement de se signaler comme covid + et en gardant le masque sous le nez.
    Des caisses.
    Donc même si omicron n’était qu’un gros rhume dans 100 % des cas, je serais pas très rassurée, dans cette société, de l’arrivée fracassante de ce variant avec le nombre de contaminations journalières inhérentes.
    Je vais vous dire comment ça se passe concrètement aux urgences.
    On a des box. Isolés.
    Et un couloir, genre hall de gare mais sans la voix sympathique de Simone Herault.
    Une zone d’accueil.
    Et un « aval » (terme consacré) aka des chambres d’hospitalisation.
    A l’accueil, perso, les covid qui nécessitent pas d’oxygène immédiatement, ils rentrent chez eux.
    Sans prise de sang ni scanner ni rien. Je m’expose sur le plan médico-légal et ce malgré le « revenez si ça se dégrade » systématique, hein, mais j’ai pas le choix.
    De l’aval ? Bah l’hôpital est plein. Pour les patients covid comme pour les patients ayant d’autres pathologies, vous savez, les patients si nombreux déjà avant la crise que c’était déjà l’enfer.
    Donc l’aval c’est au compte goutte même quand en face de nous arrive un tsunami.
    Alors les patients covid nécessitant de l’oxygène on les met dans les box. Isolés.
    Et les autres, quand le covid sature les box ? Dans le couloir. Le hall de gare. Sous les néons.
    Donc la semaine dernière déjà, le patient non covid de 80 ans avec une hémorragie digestive, vous savez où il a passé de très (trop) nombreuses heures, parce que dans les box c’était covid covid covid ? Dans le couloir, sur un brancard inconfortable au possible.
    J’en peux plus.
    Son voisin d’infortune c’était un patient dont la pathologie a souffert du retard engendré par les déprogrammations successives, à cause du covid.
    Il n’en mourra pas (pas lui) mais ça lui fait mal, tous les jours, et ça le handicape.
    Et dans les box ? Covid non vaccinés. Ayant besoin d’oxygène. De tous âges. Avec antécédents ou absolument sans aucune comorbidités.
    C’est devenu terrifiant.
    Le fait de ne pas être vacciné est devenu, de façon écrasante - par écrasant je vous prie de bien visualiser ce que subissent les patients non covid et l’ensemble du système de soins - la pire des comorbidités ever.
    Or l’âge on peut pas lutter.
    Les pathologies préexistantes bah elles sont là, ça veut pas dire que c’est peine perdue de les prévenir ou les traiter, hein. C’est juste qu’elles sont là, à l’instant t de la contamination.
    Mais bon sang, la vaccination. Le masque. L’aération.
    « Gnagnagna on sait pas ce qu’il y a dedans [le vaccin] » : oui alors primo on en reparle quand vous cesserez de bouffer et fumer n’importe quoi ; secundo si si, on sait ce qu’il y a dedans et c’est pour ça que l’immense majorité des médecins s’est ruée vers la vaccination.
    Au passage, puisque c’est un thread exutoire ; les médecins qui déconseillent à leurs patients de se faire vacciner, sans aucun argument scientifique (je parle pas des rarissimes patients authentiquement contre indiqués) : je vous honnis.
    Les médecins qui sans le moindre argument scientifique disent que « le moderna c’est de la merde » et autres stupidités, pour saccager la confiance des patients en effet c’est top, mais je vois pas l’intérêt de pérorer nawak quand on en sait pas plus que le palefrenier du coin.
    Les journalistes qui continuent d’écouter exclusivement Blachier, le mec qui incarne la boussole épidémiologique indiquant le sud, c’est quoi votre problème ? Un pari perdu vous condamnant à ridiculiser vos rédactions pendant des mois et des mois ?
    Il y a qq jours, il nous a fallu, à ma collègue de réa et moi, expliquer à un couple de patients covid non vaccinés que seul l’un des deux irait en réa
    Les deux graves. Scanners apocalyptiques, à se demander comment ils respiraient avec ça.
    Une seule place en réa.
    Pendant ce temps, les rassuristes et les négationnistes, bref les jepensequamagueuliste ayant conjointement peur des piqûres + des fenêtres ouvertes + d’un bout de tissu devant le nez, nous traitent de chochottes.
    Han.
    Vous êtes mal tombés, les gars.
    Mon fond de commerce c’est l’arrêt cardiaque, et ma zone de confort le plus gros vaisseau du corps humain, qui encaisse 5 litres de sang par minutes, subexplosant à Perpette les Olivettes. Dont l’annoncer sans ciller aux familles.
    Une chochotte.
    La chochotte sus-décrite vous dit qu’elle a peur.
    À quel moment, dans un avion dont les ailes brûlent, vous gardez confiance en votre voisin aviné qui dit que tout va bien, tandis que le personnel navigant, rompu à tous types d’avaries, est terrifié ?
    À quel moment vous continuez de penser que le doctorat en épidémiologie que vous n’avez d’ailleurs pas est la clé pour nier ce que vous disent les gens qui voient les malades au quotidien ?
    Signe que l’on en peut plus : de très nombreux soignants (je m’inclus) peinent de plus en plus à demeurer empathiques avec les covid non vaccinés non masqués etc.
    On parle de gens qui soulagent la douleur du type blessé après avoir conduit ivre.
    Vous n’imaginez pas.
    Oui mais voilà.
    Massivement, le mépris pour les autres malades (oui oui, vous savez, les pathologies qui existaient déjà avant le covid, infarctus / cancer / etc), le mépris pour les soignants exténués, le fait de se mettre danger soi même. On ne supporte plus.
    Ce soir j’ai voulu regarder les chiffres d’hospit covid dans mon département, songeant qu’ils seraient moins pire que mes craintes, pour me rassurer.
    Pour dissoudre cette boule au ventre.
    J’aurais pas du.
    D’un nombre déjà effarant le 24, il y a 2 jours, on est passé à largement plus que ce que mon esprit pessimiste pouvait envisager.
    « Omicron n’est qu’un rhume ».
    J’t’en foutrais, des rhumes qui ont besoin de 60 litres d’oxygène par minute pour pas crever.

    https://twitter.com/JulieOudet/status/1475197820747628548

    #santé_publique #coronavirus #vaccination #vaccins #témoignage #ras-le-bol #peur

    ping @simplicissimus @olaf @fil

  • La puissance politique du sucre, entre délices et dominations
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/12/24/la-puissance-politique-du-sucre-entre-delices-et-dominations_6107186_3232.ht

    C’est l’un des effets collatéraux de l’épidémie de Covid-19. Entre le début du confinement et la fin du mois de mai 2020, les ventes de sucre ont bondi de 30 % en France, avec une prime au sucre en poudre (+ 56 %) et plus encore au sucre à confiture (+ 80 %). La peur de la pénurie a sans nul doute joué un rôle dans cette ruée. Mais une enquête menée par le Centre des sciences du goût et de l’alimentation, à Dijon, montre aussi que la période a favorisé, notamment chez l’enfant, ce que les auteurs de l’étude appellent le « manger émotionnel ». Dans le huis clos de nos vies confinées, nous avons été nombreux à noyer nos angoisses de fin du monde dans la douceur réconfortante de desserts faits maison.

    Valeur refuge au cœur des crises, ingrédient incontournable des fêtes ou plaisir solitaire et parfois coupable, le sucre raconte, à sa façon, la part intime de l’histoire des hommes et des femmes, de leurs joies et de leurs détresses, de leurs peurs et de leurs espoirs. Il est aussi, aux côtés des céréales, l’un des produits qui, à travers les siècles, décrit le mieux l’histoire des peuples, la violence des empires et la naissance d’une mondialisation dont il est un acteur central.

    Derrière #paywall #sucre #histoire #alimentation

  • Pour le pire

    En France, en 2019, 146 femmes ont été tuées par leur conjoint ou leur ex-compagnon. Au travers de trois affaires, une mise en lumière glaçante des mécanismes du féminicide, symptôme d’un dysfonctionnement de la société.

    En France, 84 % des victimes des 173 homicides conjugaux commis en 2019 étaient des femmes. Mais quelle réalité se cache derrière ces chiffres effrayants, que les collectifs féministes contribuent à rendre visibles ? Qui sont ces femmes dont on ne connaît souvent que le prénom, l’âge et les circonstances du décès ? Sindy, 34 ans et enceinte, a été abattue en septembre 2017 sur le quai de la gare de Noyon, avec deux de ses enfants, par son conjoint policier, à qui elle venait d’annoncer sa décision de le quitter. À Corbas, en juillet 2017, les gendarmes ont découvert dans leur appartement les corps en état de décomposition avancée de Michèle, 44 ans, et de sa fille de 18 ans, poignardées par Laurent, le père de famille, chômeur alcoolique qui menait une double vie. La même année, à Toulon, Dorothée a succombé aux coups de couteau portés par son mari au cours du déjeuner de Noël, malgré la tentative d’interposition de leurs enfants.

    Défaillances
    Pour tenter de saisir la mécanique des féminicides, qui surviennent souvent au moment d’une rupture, Aurélia Braud s’est plongée dans des affaires datant de 2017, qu’elle reconstitue au travers des témoignages d’amis et voisins des trois couples, de gendarmes, d’avocats, d’un journaliste ou d’une responsable associative. Alors que 40 % des femmes tuées par leur conjoint ont subi des violences physiques ou psychologiques avant le drame, dans la majorité des cas, l’entourage et la société tout entière n’ont pas su ou pu déceler les signaux d’alerte. Une immersion glaçante dans la violence de ces drames à huis clos, symptômes d’un dysfonctionnement de la société, dont les enfants constituent les victimes collatérales invisibles.

    https://www.arte.tv/fr/videos/090005-000-A/pour-le-pire
    #film #film_documentaire #documentaire

    #féminicide #féminicides #femmes #violences_conjugales #violences_domestiques #France #stéréotypes_de_genre #impunité #rapports_de_domination #domination #discrétion #silence #peur #terrorisme_intra-familial #terrorisme_infra-familial #emprise #isolement #empathie #éducation #déconstruction_du_passage_à_l'acte

  • « Nos femmes ont peur de leur liberté, et nous aussi »
    Augusta Conchiglia > Michael Pauron > 11 octobre 2021
    https://afriquexxi.info/article4867.html

    Document sonore · En juillet 1984, à la veille du premier anniversaire de la révolution, le dirigeant de ce qui deviendra quelques jours plus tard le Burkina Faso accorde une interview au célèbre cinéaste René Vautier. Cet échange était tombé dans l’oubli. Afrique XXI le dévoile alors que s’ouvre, le 11 octobre, le procès des assassins de Sankara et de douze de ses camarades. Cette première partie est consacrée à la condition des femmes, à l’impérialisme culturel et à la puissance des médias. (...)

    #Thomas_Sankara

  • Défense et illustration des libertés académiques : un eBook gratuit

    Mediapart propose sous la forme d’un livre numérique téléchargeable gratuitement les actes du colloque de défense des libertés académiques organisé par #Éric_Fassin et #Caroline_Ibos. Témoignant d’une alliance entre #journalistes et #intellectuels face à l’#offensive_réactionnaire contre le droit de savoir et la liberté de chercher, il sera présenté lors du débat d’ouverture de notre Festival, samedi 25 septembre.

    Dans un passage trop ignoré de ses deux conférences de 1919 réunies sous le titre Le Savant et le Politique, Max Weber plaide pour une sociologie compréhensive du #journalisme. Lui faisant écho à un siècle de distance, ce livre numérique à l’enseigne de La savante et le politique témoigne d’une alliance renouvelée entre intellectuels et journalistes, dans une #mobilisation commune en défense du #droit_de_savoir et de la #liberté_de_dire, de la #liberté_de_chercher et du #droit_de_déranger.

    Constatant que le journaliste, échappant « à toute classification sociale précise », « appartient à une sorte de #caste de #parias que la “société” juge toujours socialement d’après le comportement de ses représentants les plus indignes du point de vue de la #moralité », Max Weber en déduisait, pour le déplorer, que « l’on colporte couramment les idées les plus saugrenues sur les journalistes et leur métier ». Dans une réminiscence de son projet inabouti de vaste enquête sur la #presse, présenté aux « Journées de la sociologie allemande » en 1910, il poursuit : « La plupart des gens ignorent qu’une “œuvre” journalistique réellement bonne exige au moins autant d’“intelligence” que n’importe quelle autre œuvre d’intellectuels, et trop souvent l’on oublie qu’il s’agit d’une œuvre à produire sur-le-champ, sur commande, à laquelle il faut donner une efficacité immédiate dans des conditions de création qui sont totalement différentes de celles des autres intellectuels ».

    Ce plaidoyer en défense de l’artisanat du métier n’empêchait pas la lucidité sur les corruptions de la profession, avec un constat sans âge qui peut aisément être réitéré et actualisé : « Le #discrédit dans lequel est tombé le journalisme, ajoutait en effet Weber, s’explique par le fait que nous gardons en mémoire les exploits de certains journalistes dénués de tout sens de leurs #responsabilités et qui ont souvent exercé une influence déplorable. » De tout temps, le journalisme est un champ de bataille où s’affrontent l’idéal et sa négation, où la vitalité d’une discipline au service du public et de l’#intérêt_général se heurte à la désolation de sa confiscation au service d’intérêts privés ou partisans, idéologues ou étatiques. Tout comme, dressée contre les conservatismes qui voudraient l’immobiliser et la figer dans l’inéluctabilité de l’ordre établi, la République elle-même ne trouve son accomplissement véritable que dans le mouvement infini de l’émancipation, dans une exigence démocratique et sociale sans frontières dont l’égalité naturelle est le moteur.

    C’est ce combat qui réunit ici des journalistes et des intellectuels, le journal en ligne que font les premiers et le colloque qu’ont organisé les seconds. Si Mediapart publie en eBook, après l’avoir diffusé dans son Club participatif, les actes du colloque La savante et le politique organisé les 7-10 juin 2021 par Éric Fassin et Caroline Ibos, c’est tout simplement parce qu’à travers des métiers différents, avec leurs légitimités propres, leurs procédures universitaires pour les uns et leurs écosystèmes économiques pour les autres, intellectuels et journalistes sont aujourd’hui confrontés à la même menace : la fin de la #vérité. De la vérité comme exigence, recherche et audace, production et #vérification, #confrontation et #discussion. L’#assaut lancé contre les libertés académiques, sous prétexte de faire la chasse aux « pensées décoloniales » et aux « dérives islamo-gauchistes », va de pair avec l’offensive systématique menée contre l’#information indépendante pour la marginaliser et la décrédibiliser, la domestiquer ou l’étouffer.

    Les adversaires que nous partageons, qui voudraient nous bâillonner ou nous exclure en nous attribuant un « #séparatisme » antinational ou antirépublicain, sont en réalité les vrais séparatistes. Faisant sécession des causes communes de l’#égalité, où s’épanouit l’absence de distinction de naissance, d’origine, de condition, de croyance, d’apparence, de sexe, de genre, ils entendent naturaliser les #hiérarchies qui légitiment l’#inégalité de #classe, de #race ou de #sexe, ouvrant ainsi grand la porte aux idéologies xénophobes, racistes, antisémites, ségrégationnistes, suprémacistes, sexistes, homophobes, négrophobes, islamophobes, etc., qui désormais ont droit de cité dans le #débat_public. S’ils n’en ont pas encore toutes et tous conscience, nul doute que la nécrose des représentations médiatique et politique françaises à l’orée de l’élection présidentielle de 2022 leur montre déjà combien ils ont ainsi donné crédit aux monstres de la #haine et de la #peur, de la guerre de tous contre tous.

    Pour entraver ce désastre, nous n’avons pas d’autre arme que notre liberté, et la #responsabilité qui nous incombe de la défendre. Liberté de penser, d’informer, de chercher, de dire, de révéler, d’aller contre ou ailleurs, d’emprunter des chemins de traverse, de réfléchir en marge ou en dehors, de créer sans dogme, d’imaginer sans orthodoxie. Si la chasse aux dissidences et aux mal-pensances est le propre des pouvoirs autoritaires, elle est aussi l’aveu de leur faiblesse intrinsèque et de leur fin inévitable, quels que soient les ravages momentanés et désastres immédiats de leurs répressions.

    La richesse, la vitalité et la force des contributions de ce livre numérique ne témoignent pas seulement d’une résistance au présent. Elles proclament ce futur de l’#émancipation qui germe sur les ruines d’un ordre agonisant.

    Pour télécharger l’eBook :
    https://static.mediapart.fr/files/defense_et_illustration_des_libertes_academiques.epub

    https://blogs.mediapart.fr/edwy-plenel/blog/230921/defense-et-illustration-des-libertes-academiques-un-ebook-gratuit

    #livre #Caroline_Ibos #livre #liberté_académique #libertés_académiques #recherche #université #ESR #islamo-gauchisme