• Quand on entend un #présentateur_tv / une #présentatrice_tv, sourire niais, complètement déconnecté(e)s parler... (...) Les lignes #primaires, c’est la #banlieue_parisienne ? Apparemment, ça vaut pas mieux...

     :-D :-D :-D

    #médias #information #piège_à_cons #intox #politique #neuneu #communication #transports #lignes_secondaires #France #circulation #c'est_possible #médias #seenthis #vangauguin

    " « On a l’impression d’être la France de seconde zone ! » : dans l’enfer des usagers de la ligne Clermont-Paris /

    #Retards quotidiens, #suppressions de #trains, #vétusté des #infrastructures ferroviaires… La ligne Clermont-Paris a encore une fois fait parler d’elle ce samedi puisque 700 passagers ont été contraints de la nuit dans le train à cause d’une panne. Depuis plusieurs années, les usagers alertent sur la dégradation du service. (...)"

    https://www.marianne.net/societe/on-a-l-impression-d-etre-la-france-de-seconde-zone-dans-lenfer-des-usagers

  • L’homme d’#affaires le plus riche d’#Afrique a perdu plusieurs milliards de dollars en 2023

    Comme quoi la taille de la #teub et la taille du #cerveau n’ont rien à voir...

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    #économie #politique #finance #Monde #mondialisation #piège_à_cons #société #alternatives #seenthis #vangauguin #t_as_pas_cent_balles

    « Le milliardaire nigérian #Aliko_Dangote a vu sa #fortune chuter de 3,6 milliards de dollars au cours des 12 mois écoulés, selon l’indice Bloomberg Billionaires.
    Le coût des actifs d’Aliko Dangote, fondateur et propriétaire du groupe éponyme, a enregistré une baisse 3,6 milliards de dollars depuis le début de l’année, relate Bloomberg dans son classement des milliardaires Billionaires Index.
    Malgré une forte reprise l’année précédente, en 2023, la valeur nette du milliardaire nigérian a baissé de 18,7 milliards de dollars (à la date du 31 décembre 2022) à 15,1 milliards au 31 décembre 2023. (...) »

    https://fr.sputniknews.africa/20231231/lhomme-daffaires-le-plus-riche-dafrique-a-perdu-plusieurs-milliar

  • Il #Friuli_Venezia_Giulia vuole usare le “fototrappole” per i migranti al confine

    Sono fotocamere che scattano quando rilevano un movimento, ma ci sono dubbi sulla loro efficacia per limitare gli arrivi.

    Entro la fine della settimana la Regione Friuli Venezia Giulia consegnerà alle forze dell’ordine 65 fotocamere acquistate lo scorso anno per individuare i migranti che tentano di oltrepassare i confini tra la Slovenia, la Croazia e l’Italia attraverso la cosiddetta “rotta balcanica”, percorsa ogni anno da migliaia di persone nonostante il rafforzamento dei controlli.

    Le #fotocamere, che nella delibera della Regione vengono definite “fototrappole”, sono dispositivi che scattano una foto quando rilevano un movimento: verranno posizionate soprattutto nei boschi e sui sentieri percorsi dai migranti sull’altopiano del Carso, al confine tra la Slovenia, la Croazia e le province di Trieste e Gorizia. Solitamente le fototrappole vengono utilizzate per osservare il passaggio di animali, in particolare orsi e lupi, sulle montagne o comunque in zone impervie.

    Cinquanta di queste fotocamere saranno consegnate alle forze dell’ordine in provincia di Trieste: 20 alla questura, 10 al comando provinciale dei Carabinieri, 10 al comando della Guardia di Finanza e 10 alla Polizia locale. Le altre 15 saranno consegnate alla questura di Gorizia. Non si sa ancora quante saranno date alla polizia di frontiera, che ha il compito di presidiare i confini. Il questore di Trieste, #Pietro_Ostuni, ha detto che soltanto una parte sarà destinata allo scopo per cui la Regione le ha acquistate. «Essendo fotocamere mobili potranno essere spostate a seconda delle necessità del momento», ha detto Ostuni. «In realtà saranno preziose per l’attività di polizia nel suo complesso».

    L’acquisto delle fotocamere era stato annunciato nel 2020 ed è poi avvenuto nel 2021 a un costo di 50mila euro, ma finora i dispositivi non erano stati installati principalmente perché non era chiaro se fosse legittimo utilizzarli per controllare i confini.

    Secondo la Regione le fotocamere serviranno a individuare i passeur, cioè i trafficanti che assicurano il passaggio delle frontiere a pagamento, e le fotografie scattate potranno per esempio essere utilizzate in eventuali processi. Un altro obiettivo dell’amministrazione è sapere con certezza chi ha passato il confine, così che possa essere rimpatriato in un secondo momento. Infine, il collegamento in tempo reale con il comando della polizia di frontiera consente di presidiare parti di territorio oggi completamente sguarnite, per intervenire più velocemente rispetto a come avviene ora. «Riuscire a intercettare i percorsi che compie l’immigrazione irregolare e a intercettare i passeur è un contrasto importante e devo dire molto deciso a chi tratta carne umana e a chi guadagna sul traffico di esseri umani», ha detto il presidente della Regione, Massimiliano Fedriga.

    Negli ultimi tre anni altri stati dell’Unione Europea si sono dotati di tecnologie molto più avanzate delle fototrappole per impedire ai richiedenti asilo di entrare nel loro territorio. La Croazia ha acquistato telecamere termiche e a infrarossi e tecnologie per rilevare il battito cardiaco che utilizza soprattutto sul suo confine, e una partita di droni da 2,3 milioni di euro, ciascuno in grado di individuare una persona a chilometri di distanza, anche di notte.

    La Romania è un altro paese che dispone di tecnologie simili: ha comprato alla propria guardia di frontiera 24 veicoli con visuale notturna per circa 13 milioni di euro. In Ungheria la spesa pubblica per la gestione dei migranti non viene comunicata per via di un’apposita legge del governo di Viktor Orbán, ma si ritiene che sia al livello degli altri paesi.

    La militarizzazione dei confini ha contribuito a far calare gli ingressi via terra, ma non a bloccarli completamente. Anzi, nel 2022 il numero di migranti e richiedenti asilo che percorrono la rotta balcanica per entrare nell’Unione Europea è aumentato rispetto agli anni precedenti. Secondo i calcoli preliminari di Frontex, l’agenzia dell’Unione Europea che svolge le funzioni di guardia di frontiera e costiera, sono stati segnalati 145.600 attraversamenti sulla rotta balcanica, il 136 per cento in più rispetto al 2021. Questi dati sono relativi ai tentativi di attraversamento e non corrispondono agli arrivi, visto che una persona può tentare di attraversare il confine più volte.

    Secondo i dati diffusi dal prefetto di Trieste, Pietro Signoriello, anche in Friuli Venezia Giulia gli arrivi di migranti in Italia dalla rotta balcanica sono aumentati in modo significativo rispetto all’anno precedente, nonostante l’aumento della dotazione tecnologica da parte degli altri paesi sulla rotta balcanica. Negli ultimi tre mesi del 2021 sono state 1.194 le persone che si erano presentate spontaneamente alla questura di Trieste dopo aver passato illegalmente il confine, mentre nello stesso periodo del 2022 sono state 5.690. Il flusso, che riguarda soltanto una parte delle persone che entrano illegalmente in Italia, è in crescita anche a gennaio e febbraio del 2023.

    Già nel 2020, quando la Regione annunciò l’intenzione di acquistare le fotocamere, alcune associazioni che si occupano di accogliere e gestire i migranti dissero che i dispositivi sarebbero serviti a poco. «Le pattuglie italo-slovene sul confine, i droni e le fototrappole sono tutti rimedi che non risolvono affatto il problema dell’immigrazione, che invece avrebbe bisogno di ben altre politiche», spiegò don Alessandro Amodeo, direttore della Caritas di Trieste. «L’accoglienza diffusa di cui siamo testimoni ha dato in questi anni ben altri risultati».

    L’ICS, il consorzio italiano di solidarietà, un’associazione che si occupa dell’accoglienza in Friuli Venezia Giulia, sostiene che l’installazione delle fotocamere sia illegittima perché il controllo delle frontiere e delle migrazioni è competenza esclusiva dello Stato. L’ICS inoltre esprime dubbi su un altro obiettivo regionale, cioè l’individuazione delle persone per eventuali riammissioni nel paese da dove hanno passato il confine.

    «L’istituto della riammissione, già in sé alquanto dubbio nella sua legittimità giuridica, in ogni caso non trova alcuna applicazione nei casi di migranti che richiedono protezione internazionale», ha spiegato l’ICS in una nota. «Va applicato invece solo il cosiddetto Regolamento Dublino III che non prevede alcuna riammissione nel paese più vicino bensì la formalizzazione della domanda di asilo in Italia e la verifica, caso per caso, della condizione di ogni richiedente asilo al fine di verificare se la competenza all’esame della domanda di asilo è dell’Italia, della Slovenia o di altri paesi UE».

    È una perplessità condivisa anche dal questore di Gorizia, Paolo Gropuzzo, che ha sottolineato come le fototrappole permettano soltanto di documentare il passaggio delle persone migranti, non di riportarle nei paesi da cui provengono. Se queste persone chiedono asilo in Italia, ha detto Gropuzzo, la situazione giuridica resta invariata, «tanto più tenendo presente che la Slovenia si è chiusa a riccio sul tema delle riammissioni».

    https://www.ilpost.it/2023/03/21/friuli-venezia-giulia-fototrappole-migranti

    #fototrappole #fototrappola #frontières #asile #migrations #réfugiés #Slovénie #Italie #frontière_sud-alpine #militarisation_des_frontières #piège_photographique #pièges_photographiques

    voir aussi:
    https://seenthis.net/messages/830239

    Caterina Bove en parle ici (à partir de la min 26’00):
    https://www.youtube.com/watch?v=o_vrUvg-8iU

    • Italy: Anti-migrant cameras to be set up on Slovenia border

      New items of surveillance equipment known as ’camera traps’ are to be installed along the border between Slovenia and Italy. The devices will be used to detect undocumented migrants and smugglers on this part of the so-called Balkans route.

      A total of 65 cameras, bought by the Friuli Venezia Giulia regional government in 2021, are to be delivered to local police in Trieste. They will then be distributed to other security forces: 59 to the regional capital (20 to the police headquarters, 10 to the provincial command of the carabinieri, 10 to the financial police and the rest to the local police). Some of the remaining 15 will be given to the Gorizia police headquarters.

      Not just to stop undocumented migrants

      The equipment is intended to counter undocumented migration and facilitate readmission into Slovenia, once it has been proved that the migrant entered Italy in an undocumented manner from the bordering country. However, the devices will probably not be used only in the forested areas of the border crossing, as they can be moved easily and have solar-powered batteries, and thus will also be used for other police functions.

      Trieste police commissioner Pietro Ostuni has said that the cameras might also be entrusted to the flying squad, the general prevention office and police stations with the aim of countering crimes including theft and drug trafficking. They might also be used to counter such things as littering and vandalism.

      Opposing views

      Friuli Venezia Giulia regional president #Massimiliano_Fedriga noted in relation to the cameras that “managing to intercept the routes of undocumented migration and smugglers is important and, I must say, a determined step against those involved in human trafficking and those making money from it.”

      Gorizia police commissioner Paolo Gropuzzo agreed, but he noted that while the cameras make it possible to document the crossing of migrants, if they ask for asylum, from a legal point of view, there will be no change from what is happening now. The regional security councillor Pierpaolo Roberti, a staunch backer of the initiative, expressed his approval.

      However, an NGO supporting refugees and asylum seekers, Italian Consortium of Solidarity (ICS), was sceptical. “It has yet to be shown that this will help identify the traffickers,” a spokesperson said. “Often, the migrants arrive in cars or vans and do not go through the woods,” he added.

      https://www.infomigrants.net/en/post/47672/italy-antimigrant-cameras-to-be-set-up-on-slovenia-border

      #Fedriga

  • Ce #choc_énergétique qui vient

    #Pétrole, #gaz, #électricité… les #prix des énergies en Europe explosent depuis l’invasion de l’#Ukraine par la #Russie. Les marchés paniquent. Et l’Europe commence à mesurer l’ampleur du #piège_russe dans lequel elle s’est laissé enfermer. Le #choc_économique qui s’annonce pourrait être de la même ampleur que celui de 1973.

    https://www.mediapart.fr/journal/economie/030322/ce-choc-energetique-qui-vient
    #Europe #OPEP #sanctions #production_pétrolière #inflation #Brent #WTI #pouvoir_d'achat #économie #récession #AIE #stocks_stratégiques #essence #prix #dépendance

  • Une toute nouvelle Tesla « Plaid » prend feu avec le conducteur au volant

    Une toute nouvelle Tesla Model S « Plaid » a pris feu en Pennsylvanie aux Etats-Unis, avec son conducteur au volant, lequel a eu du mal à sortir du véhicule, selon les autorités et les avocats de l’automobiliste. L’accident s’est passé mardi soir à Haverford, non loin de Philadelphie, ont détaillé dans un communiqué vendredi les pompiers de Lower Merion.

    « En raison de l’ampleur du feu et du type de véhicule impliqué » , plusieurs compagnies ont été dépêchées sur place, ont précisé les pompiers qui ont dû arroser la voiture pendant plus de deux heures pour éteindre l’incendie. Selon des avocats affirmant représenter le conducteur, ce dernier était au volant lorsque le véhicule s’est spontanément embrasé. Il a temporairement été coincé à l’intérieur avant de pouvoir en sortir. L’essentiel de la carrosserie et de l’intérieur du véhicule ont brûlé, montrent des photos postées sur le site des pompiers. . . . . . . .

    Dans un message transmis à l’AFP, Mark Geragos du cabinet Geragos & Geragos, qui dit représenter le conducteur, a estimé qu’il s’agissait d’une situation « effrayante » et « d’un problème majeur évident ».

    La suite : https://www.rtbf.be/info/monde/detail_une-toute-nouvelle-tesla-plaid-prend-feu-avec-le-conducteur-au-volant?id
    #tesla #piege_à_cons #elon_musk #baudruche #Actualités_High-Tech #High_Tech #voiture_électrique #IA #algorithme #intelligence_artificielle #technologisme

  • En Californie, accident mortel avec une Tesla apparemment sans conducteur
    https://www.rts.ch/info/monde/12133551-en-californie-accident-mortel-avec-une-tesla-apparemment-sans-conducteu

    Deux hommes sont morts au Texas dans l’accident d’une Tesla à bord de laquelle il n’y avait apparemment personne derrière le volant, ont indiqué dimanche le Wall Street Journal et la chaîne de télévision locale KPRC2.
    Le véhicule roulait à vive allure quand il s’est écrasé samedi soir contre un arbre et a pris feu, selon ces médias. Les autorités n’ont retrouvé que deux individus, l’un à la place du passager et l’autre sur le siège arrière.

    https://www.rts.ch/2021/04/19/04/13/12133544.image?w=1280&h=720
    « Les premiers éléments de l’enquête, qui n’est pas encore terminée, montrent qu’il n’y avait personne au volant du véhicule », a indiqué un responsable de la police du comté de Harris, Mark Herman, au Wall Street Journal.

    Ils n’avaient pas encore déterminé dimanche si l’airbag du siège du conducteur s’était déployé et si le système d’assistance à la conduite du véhicule était enclenché au moment de la collision.

    Un véhicule pas encore autonome, selon Tesla
    Sur son site internet, Tesla prévient que les systèmes d’assistance à la conduite qu’ils proposent ne rendent pas le véhicule autonome et que la supervision active d’un conducteur reste nécessaire.

    Mais des vidéos montrent régulièrement des Tesla avec des conducteurs endormis ou sans les mains sur le volant pendant un temps prolongé.
    ats/ther
    #tesla #piege_à_cons #elon_musk #baudruche #Actualités_High-Tech #High_Tech #voiture_électrique #IA #algorithme #intelligence_artificielle #technologisme

    • Les géants du numérique nous prennent-ils pour des idiots ? Anouch Seydtaghia

      Deux Américains sont morts dans l’accident d’une Tesla Model S au Texas. D’après les forces de police, il n’y avait personne au volant au moment des faits. Sommes-nous devenus naïfs face à la technologie ou est-ce la faute des géants de la tech ?

      Un accident mortel lors duquel personne ne conduisait la Tesla Model S, semble-t-il. La voiture est sortie de la route et a heurté un arbre avant de prendre feu. Dans un tweet publié le 18 avril toutefois, le PDG de Tesla, Elon Musk, est formel. Selon lui, l’Autopilot n’était pas en marche au moment de l’accident et il assure que le « Full-Driving System » n’avait pas été acheté pour ce véhicule.

      Est-ce de la faute de Tesla, qui joue sans cesse avec les mots en affirmant que ses voitures sont presque autonomes ? Ou est-ce la faute des occupants du véhicule, qui ont mis leur destin entre les mains d’une technologie non aboutie ?

      Même si ce type d’accident est extrêmement rare, il met en lumière certaines de nos faiblesses, dont celle de trop faire confiance à la technologie.

      Reconnaissance vocale
      Aujourd’hui, les systèmes de reconnaissance vocale sur smartphone font des merveilles. Nous passons de plus en plus de temps, dans les voitures, à dicter nos messages en roulant. Même si nous gardons les yeux sur la route, c’est une source de distraction.
      Plus la technologie évolue, plus la tentation d’aller plus loin est grande, comme de participer à une vidéoconférence depuis son véhicule. Il semblerait que certains installent leur téléphone sur le tableau de bord, ce qui est un comportement illégal et irresponsable.
      Quand les services sont performants et la qualité de connexion puissante, il est difficile, pour certains, de résister à l’envie de pousser de nouvelles limites, quitte à adopter des comportements dangereux.

      Lève la tête avec Google
      Certains géants du numérique pensent alors que les utilisateurs ont besoin d’une application pour que notre téléphone nous enjoigne à regarder autour de nous dans l’espace public. C’est ce qu’estime Google avec l’application « Heads up » qui incitera à regarder devant nous si un mouvement de marche est détecté par le téléphone. Pour l’instant, cette fonctionnalité n‘est disponible que sur les smartphones Pixel de Google.

      En d’autres mots, la société qui nous a rendu accro aux smartphones nous fournit un outil pour éviter de se cogner contre un lampadaire.

      Bien sûr, la technologie permet d’accomplir des choses extraordinaires, mais il faudrait évaluer ce que la technologie nous apporte concrètement, sans « avaler » toutes les innovations comme des moutons. Il est temps d’être un peu plus critique, un peu plus responsable et surtout… un peu moins connecté.

      Source : https://www.rts.ch/info/culture/12152127-les-geants-du-numerique-nous-prennentils-pour-des-idiots.html

  • Une Tesla prend feu dans le zoning de Courcelles, plusieurs camions ont brûlé
    https://www.lalibre.be/regions/hainaut/une-tesla-prend-feu-dans-le-zoning-de-courcelles-plusieurs-camions-ont-brule

    Vers 21 heures, les pompiers de la zone Hainaut-Est ont été requis à Courcelles dans le zoning de la Glacerie. Au départ on leur signalait un bâtiment en feu, la fumée était visible à des dizaines de kilomètres.

    Mais sur place, il s’avère que c’était une Tesla qui avait pris feu, signale notre correspondant en contact avec les secours sur place. L’origine n’est pas clairement établie mais il semble bien que ça soit le véhicule qui se soit embrasé, comme déjà vu par ailleurs (en France https://www.dhnet.be/conso/auto-moto/une-voiture-tesla-prend-feu-lors-d-un-essai-dans-le-sud-ouest-de-la-france-57b et à Anvers https://www.dhnet.be/conso/auto-moto/une-voiture-electrique-tesla-prend-feu-alors-qu-elle-etait-en-train-de-charger , par exemple).

    L’impressionnant incendie s’est ensuite communiqué à plusieurs camions à proximité, ce qui explique l’épaisse fumée noire, très visible. Les pompiers de Jumet sont intervenus avec un renfort de Fleurus pour une citerne. Il ne reste rien de la carcasse de la Tesla.

    La police locale de la zone des Trieux a indiqué avoir ouvert une enquête pour établir avec certitude la cause de l’incendie.

    #tesla #piege_à_cons #elon_musk #baudruche #Actualités_High-Tech #High_Tech #voiture_électrique #incendie

  • Mi smo tu / Noi siamo qui : sul confine tra l’Isonzo e la Balkan route

    Questo post nasce dopo un’escursione sul #Carso triestino seguendo i sentieri percorsi dai migranti. A spingerci la retorica sull’invasione e le continue richieste di provvedimenti straordinari e strumenti tecnologici (ultimo caso, l’ipotetico ricorso alle #fototrappole) a fare da argine ai passaggi di persone attraverso i confini.

    Nel frattempo l’escalation di violenza di questi giorni – caratterizzata dall’ipocrisia della faccia moderata dell’Unione europea, più fascista dei fasci stessi, come abbiamo visto in Grecia dove del resto anche i fascisti sono impegnati, Alba dorata in testa, nella caccia al migrante – ha spostato su un piano se possibile ancora più deteriore e repressiva la politica verso i migranti.

    È domenica mattina, il cielo è coperto e noi quattro stiamo per percorrere una delle tratte finali della “Balkan Route” al contrario. Attraverseremo la frontiera dal bosco, perché oggi noi possiamo farlo. Cammineremo un passo dopo l’altro lungo una delle vie di entrata in Europa su cui hanno mosso i loro passi migliaia di persone in fuga da guerre, violenza, repressione politica, o semplicemente in cammino, vive, con lo sguardo aperto verso ciò che verrà.
    “Quando senti parlare del Carso ti immagini un territorio lunare, un cumulo di pietre scaricato dagli dei sulla terra Kras”, dice Davide, che del Carso conosce ogni piega, ogni pietra, sentiero e anfratto. E ogni singolo accento della lingua locale, che è anche la sua.

    Il Carso terreno duro, aspro, a tratti gentile. Un territorio brutalmente lacerato dalle XII battaglie dell’Isonzo e poi dalla Seconda guerra mondiale che ha lasciato molte ferite aperte. Alcune come in questi giorni si riaprono nel giorno in cui i fascisti carnefici si mascherano da vittime. Una striscia di terra, questa, che ha dato aiuto alla resistenza partigiana, quella che da est ha liberato queste terre dal nazifascismo affermando: “Mi smo tu” (noi siamo qui), come riecheggia in un inno dei partigiani del Litorale che viene tuttora cantato ogni anno alla Risiera di San Sabba il 25 aprile.

    Una terra divisa in due da un confine invisibile, alberi e rocce calcaree, taglienti come lame, prati e voragini che si aprono all’improvviso, fiumi sotterranei che continuano per chilometri unendo un territorio che la politica ha diviso e continua a farlo. Un frontiera invisibile che riprende forma con le resistenze di oggi, quelle dei migranti che attraversano questi boschi e camminano su queste pietre, le stesse su cui camminiamo noi, respirando libertà.

    Le prime vittime del “viaggio” di cui possiamo ricordarci risalgono agli anni Settanta. Morirono in tre. Congelati sulle pietre del gelido Carso. Trovarono pace grazie al sindaco partigiano che di morti in cerca di libertà ne aveva visti molti.
    Una storia ormai molto lontana, ma qui si continua a passare, sperare, morire… L’ultima delle vittime è caduta poche settimane fa, all’alba del primo giorno di questi anni Venti. Si tratta di Sid Ahmed Bendisari, precipitato da venti metri di altezza in fondo ad un burrone sotto il monte Carso poco distante dal castello di San Servolo. Un errore nel percorso, la stanchezza, forse un inciampo e scivola giù. Avrebbe compiuto trent’anni il prossimo 8 novembre. Impossibile trovare il suo nome sulla stampa nella consueta damnatio memorie riservata alle morti dei migranti. Morte di un padre. Sua moglie era con lui. Loro figlio attendeva ad Aïn Témouchent in Algeria a neanche trecento chilometri da Melilla, Spagna, Europa. Per tentare di raggiungerla sua mamma e suo papà dopo aver attraversato il nord Africa hanno proseguito il viaggio fino alla Turchia, quindi ai Balcani e quindi la morte a Trieste in una sorta di circumnavigazione terrestre del Mediterraneo per evitare un muro.

    *

    Vogliamo cercare di capirne qualcosa di più, per questo ci siamo detti, la cosa migliore è andare, muovere i nostri passi tra questi boschi e queste rocce. La nostra storia parte a pochi chilometri da Trieste, da Boršt, tradotto, chissà perché, Sant’Antonio in Bosco, frazione del comune di Dolina, San Dorligo della Valle come era stato goffamente italianizzato. In una giornata uggiosa di inizio febbraio ci avventuriamo nella landa carsica avvelenata dai nuvoloni neri che come ogni anno imperversano sopra Bazovica/Basovizza il 10 del mese. Questo febbraio, come non accadeva da almeno trent’anni, nazionalisti e ultradestra hanno perfino organizzato, senza nessuno che vi si opponesse come in passato, un corteo per le vie del paese: un reflusso di putrefazione e morte aliene alla terra che calpestiamo.

    Ci incamminiamo – Elena, Alessandro, Luca e Davide – percorrendo una delle vie dove i migranti sognano la libertà ma molto spesso cadono nelle trappole della paranoia creata dai politicanti per avere un consenso politico. Tutto qui si trasforma in futuri voti per il lato marcio della nostra società, i politici saldamente ancorati sulle loro sedie e quelli che da loro si aspettano dei favori.
    Il Carso di oggi è un misto di elementi diversi non solo umani: animali, vegetali e perfino minerali qui convivono senza l’assurda pretesa di affermare “questo è il mio territorio”, cosa che noi bipedi pensanti non capiremo mai. Nel bosco ci sono diverse varietà: querce, frassini, carpini e pini.

    E proprio il pino nero, ci diciamo, è un migrante della prima ora: piantato centinaia di anni fa per il rimboschimento del Carso e non autoctono, ora guardalo, come si trova a proprio agio in un territorio che nel bene o nel male lo ha ospitato. Sul pino nero le processionarie nidificano per poi liberare dei bruchi che in fila partono alla ricerca di un rifugio dove trasformarsi. Il loro incolonnamento ci fa pensare alla storia di queste terre, alle guardie di confine che si notavano durante la Guerra fredda, su e giù tra i boschi. Ora i migranti, anche loro in fila, per non perdersi, nella boscaglia e su questo terreno impervio. Dei confini di allora rimangono solo dei cartelloni tra gli alberi che avvertono la fine di uno stato e l’inizio di un altro. Era un territorio libero dalle ideologie e nazionalismi che in questi giorni vengono rimarcati nel giorno del vittimismo fascista, quello che ha lacerato con odio e intolleranza per sempre queste terre.

    Ci guardiamo un po’ in giro per scovare le fototrappole tanto sbandierate dai gerarchi leghisti, uno dei motivi per cui ci siamo messi in cammino. Non ne troviamo traccia delle scatole malefiche, che non verranno mai usate contro chi getta rifiuti nei boschi. Di rifiuti, purtroppo, ce ne sono in abbondanza. Chissà se chi li ha lasciati poi nelle città predica il decoro, chissà se si indigna per quelle due cose abbandonate dai migranti in fuga da guerre e fame.
    Nel grigiore dell’inverno che non c’è si notano le postazioni dei cacciatori, quelli che non accettano animali e mal sopportano i forestieri in cerca di pace, diventando i nuovi guardiani del confine nei tempi della evocata caccia ai migranti. Ne incontriamo un paio con il cane al guinzaglio. Ci guardano in maniera diffidente, sembrano non accettare le nostre ombre e il nostro cane che corre libero intontito dagli odori della natura e per nulla interessato alle regole di noi umani.

    Con passo lento si continua sulla strada del ritorno e all’arrivo davanti ad una birra ci confrontiamo su una giornata decisamente molotov.

    *

    Andando il corpo si attiva, e si attivano pensieri e riflessioni che condividiamo tra noi. Alessandro raccoglie le voci, vede le tracce, ascolta i racconti di chi attraversa l’altipiano, lui che vive qui, nella sua casa in pietra lontana dal traffico della città. È lui a guidarci nella ricostruzione di queste due storie, mentre camminiamo.

    Molti anni fa, 47 per la precisione. Sera del 12 novembre, anno 1973. Bora forte e novembre freddo – una volta era così! – in località Boršt/Sant’Antonio in Bosco, pochi chilometri da Trieste e altrettanti dal ciglione carsico con relativo confine. Cinque persone provenienti dal Mali bussano alla porta di una casa ai margini del paese. Erano arrivati in aereo a Spalato, poi in bus sino a Fiume. Volevano raggiungere Venezia, per poi recarsi in Francia, con la promessa di un lavoro, in nero si scoprirà in seguito.
    Qualcuno disse che dietro a tutto questo poteva esserci un’organizzazione che gestiva un traffico illegale di potenziali lavoratori da sistemare in Europa, le indagini successive non hanno portato a niente di rilevante. In ogni caso, qualcosa deve essere andato storto ai cinque ragazzi, forse non erano riusciti ad avere un visto, non lo sappiamo. Di certo erano in Jugoslavia, e per muoversi da li rimaneva come unica soluzione quella di andare a piedi a correggere la fortuna, verso un sogno occidentale. Erano a piedi quando arrivarono a Boršt, bussarono a una porta, avevano fame e freddo, molto freddo. Ma nessuno gli aprì.
    I cinque trascorsero la notte nei paraggi del casello ferroviario in disuso. Tre persone su cinque morirono assiderate, una persona seppur in gravi condizioni riuscì a salvarsi, mentre un’altra riuscì a richiamare l’attenzione di un abitante del luogo.
    Arrivarono i soccorsi, troppo tardi purtroppo. Persero la vita #Seydou_Dembele, anni 22, #Mamdor_Niakhate, anni 19, e #Diambou_Lassana, anni 27. Dopo quasi un mese venne ritrovato un altro corpo, quello di #Djibi_Somaili, anni 25; lui veniva dalla Mauritania.

    Si fanno molte supposizioni circa la loro presenza e la loro morte, alla fine la realtà emerge nuda e cruda, sono morti per assideramento. E per fame.
    La comunità del luogo rimase molto colpita, il piccolo paese di Boršt/Sant’Antonio in Bosco, fa parte del comune di San Dorligo, non del comune di Trieste, e nella tragedia di quel freddo inverno la piccola comunità si è stretta attorno a quei poveri migranti in fuga per una vita migliore donandogli pace nel cimitero del paese.
    Un paese che, già prima della Seconda guerra mondiale, ha conosciuto i valori della fratellanza e della solidarietà: qui è nato Drago Žerjal tra i fondatori nel 1927 della triestina Borba (Lotta in sloveno), organizzazione che aveva come obiettivo la “lotta senza compromessi contro il fascismo e per l’annessione del Litorale e dell’Istria alla Jugoslavia”.
    Si decide allora di procedere ad una sepoltura delle quattro persone nel piccolo cimitero del paese, in un luogo dello stesso cimitero esposto al sole, dove ogni anno vengono ricordati e commemorati.
    Partecipano in tanti al funerale, in pratica l’intera comunità e le tombe sono sempre curate e ricoperte di fiori freschi, su una lapide un braccialetto africano messo di recente. Oltre il muro di quel cimitero si vedono il monte Carso e, dall’altro lato, il mare.

    Ci guardiamo, non si sa se siamo più tristi o incazzati. Una disgrazia quella di Boršt: il freddo, la notte e la paura forse l’hanno generata. Chissà chi c’era dietro a quella porta che non è stata aperta. Forse una parte di ciascuna e ciascuno di noi.

    La seconda ricostruzione ci porta indietro solo di qualche settimana da oggi, al primo gennaio, anno bisesto 2020. È sempre Alessandro a parlare. Un uomo percorre a piedi, da solo, ci dice, la strada che dai pressi del Castello di San Servolo, sul confine tra Slovenia e Italia, porta alla stazione centrale ferroviaria di Trieste. Non so quanto sia la distanza in chilometri, so che è lunga, in particolar modo per chi viene da lontano e di questi luoghi non conosce niente. Non so se sia arrivato di corsa, quante strade abbia sbagliato, quante voci lo abbiano ignorato. Quanta forza e rabbia abbia avuto dentro sé.
    Entra in un bar, uno all’interno conosce il suo dialetto e capisce. Chiede aiuto, dice che un uomo, un suo amico, è precipitato nel vuoto “in montagna”. Per fortuna gli credono, lo caricano in macchina e lui li porta nel posto dove tutto questo si è verificato, su uno dei ciglioni della Val Rosandra.
    Poche ore prima, sul far del mattino, mentre tanti ancora dormivano per i fasti della nottata di Capodanno, un uomo di 29 anni, stava attraversando il confine assieme alla moglie di 27 anni e un amico, non conoscendo affatto la conformità del terreno carsico e il territorio circostante. Vengono dall’Algeria, sono arrivati qui attraverso la rotta balcanica e non passando per Gibilterra, più vicina al suo paese ma presidiata oltremodo per impedire il passaggio dei migranti.
    Hanno un figlio di 6 mesi, rimasto con i nonni in Algeria. La maggior parte dei migranti arriva attraverso la rotta balcanica partendo dal Pakistan, dall’Afghanistan e dall’Algeria.
    A pochi metri dalla moglie, all’improvviso, l’uomo scivola in un dirupo, venti metri più in basso. Impossibile raggiungerlo e cercare di dargli aiuto. L’amico poco distante dal luogo della tragedia non esita e si lancia in discesa senza sapere dove andare, verso un paese, in cerca di aiuto.
    Quando arrivano i soccorsi, il Soccorso Alpino di Trieste e i Vigili del Fuoco, per il giovane migrante non c’è più niente da fare. La moglie, in evidente e comprensibile stato di choc, sarà assistita dalla Caritas Diocesana di Trieste e richiederà asilo politico in Italia.
    Quanta strada hanno percorso viaggiando a piedi tra deserti, attraversando mari, rischiando in ogni giorno la vita nell’attraversare frontiere spesso invisibili senza capire dove realmente sarebbero arrivati. Quanti di noi sarebbero disposti a fare qualcosa del genere in cerca di un posto dove poter vivere liberi. Loro lo hanno fatto. Erano vicini alla meta, una meta alta venti ripidi metri di roccia calcarea. Nessuna targa, nessun ricordo per loro.

    In questo presente rosso sangue, non potevano mancare “i migliori”. La notizia di questa tragedia, data in pasto nei ritrovi delle carogne, metteva in luce quello che possiamo poi osservare ogni giorno, purtroppo, con commenti di questo genere:

    Niente ferie per i coglioni con tastiera, nessuna pausa per i cervelli in pausa. Poi fa niente se non venivano dal Marocco, fa niente se il reddito di cittadinanza non ci azzecca per un cazzo.

    *

    La zona della Val Rosandra è una delle tante vie di accesso che dalla Slovenia scendono verso Trieste e i suoi mezzi di trasporto, verso Milano o ancora oltre verso la Germania, la Francia e il resto d’Europa. Non è raro trovare mucchi di abiti, zaini, sacchi a pelo, documenti nei sentieri della Valle, battuti anche dalle centinaia di turisti e camminatori delle domeniche fuori porta. Da Draga a Boršt, nei pressi delle falesie dove arrampicava Comici, si snoda un nuovo crocevia di sentieri verso la speranza di un avvenire.

    Va a periodi, dipende anche dal tempo, se piove è più probabile, ci dice Alessandro. Nei mesi estivi di pomeriggio, nei mesi freddi al mattino. Non sono statistiche provate, è la mia esperienza. Passano anche quando tira vento forte, e la gente di norma sta chiusa in casa.

    Li incontro spesso, passano in pratica davanti casa. Non sono mai soli, generalmente in gruppi da 5 a 10 persone. Finora tra le persone che ho incontrato c’erano solamente uomini, anche se sarebbe più corretto definirli ragazzi. Non hanno in genere, credo, più di 20 anni, molti direi erano minori, anche se l’idea di minore per noi non coincide con quella dei paesi da dove provengono.
    Come siano potuti arrivare al confine che non c’è, quello tra Slovenia e Italia, non lo so e nemmeno ho mai pensato di chiederglielo. Non avrebbe senso e perché poi dovrebbero dirlo proprio a me.
    Non è poi così complicato parlare con alcuni di loro, superata una prima, doverosa, diffidenza. Non chiedono nulla, e non si aspettano nulla da noi “locali”. Di solito almeno uno in ciascun gruppo parla l’ inglese, e così può iniziare un dialogo per loro insperato.
    Non vogliono né acqua né cibo; non hanno nulla, né borse né zaini. Chiedono soltanto come arrivare alla stazione ferroviaria, ma non sanno esattamente dove si trovano. Alla faccia dei GPS e dei navigatori satellitari, non sanno nulla. Chi racconta il contrario racconta cazzate.
    Alcuni aspetti di questi incontri li tralascio. I telefoni in loro possesso, a volte tutt’altro che moderni, non funzionano, necessitano di una scheda diciamo “europea”. Che non hanno con sé e non sanno dove acquistare.

    Mi è capitato di incontrarli in giornate di pioggia, completamente fradici, forse avevano un cambio di indumenti, forse no, ma non mi hanno chiesto nulla, nemmeno di potersi in qualche modo asciugare.
    Mi sono chiesto quale strada o meglio sentiero percorrano, con quale logica. L’impressione è che vengano abbandonati a se stessi, ad un certo punto, qualche volta addirittura a ridosso della superstrada, delimitata da reti piuttosto alte e con i rischi che ne possono conseguire.
    Per la mia esperienza, superato il primo momento, e forse il timore legittimo di fronte a uno sconosciuto, l’aiuto offerto viene di buon grado accettato, sono già contenti e sorpresi che qualcuno gli parli senza chiedere nulla in cambio.
    Non mi è capitato di incrociare nessuno che avesse come obiettivo quello di rimanere qui. Cercano la stazione e il modo di arrivarci. Tutti i fenomeni che sostengono il contrario semplicemente non ci hanno mai scambiato parola, per paura o chissà ché. Questo è un fatto importante, che rende bene l’idea di quanto stupidità mista a ignoranza vi sia nel giudicare questa, a volte tragica, migrazione.

    Ci sono più o meno 5.500 chilometri tra Pakistan e Italia, mi sembrerebbe assurdo che questi ragazzi si sobbarchino un viaggio come questo avendo come meta… Trieste! Con tutto il rispetto, ma davvero sembra poco plausibile. Eppure ne avanza di gente che sui social media dice questo, chissà poi su quali basi.
    Per quanto ho potuto capire io, questi ragazzi sanno dove vogliono arrivare, il problema è che spesso usciti dai boschi non sanno dove si trovano e tanto meno come proseguire. La prima sfida è spiegare come prendere un mezzo pubblico, cos’è una obliteratrice (!), e che il biglietto a bordo non si può fare. Ecco, si inizia da qui.
    Da molti non sono ben visti, quando transitano per le stradine dei paesi, quando camminano semplicemente lungo la strada provinciale. Difficile che qualcuno gli rivolga la parola. La sensazione è che ci sia una sorta di paura non qualificabile che pervade gli abitanti del posto, anche coloro che molti anni fa erano trattati da chi risiedeva in città come un popolo da civilizzare, un popolo da educare alle buone maniere, da far mangiare con le posate…

    Ho assistito di persona a comportamenti schizofrenici da parte dei locali, a invocazioni di giustizia sommaria e di interventi immediati e risolutivi da parte dell’autorità. Stavano osservando solo persone che camminavano, che stavano seduti a terra. La gratitudine nei loro occhi invece io non la scordo e non la scorderò facilmente osservandoli nel momento in cui associano nei miei confronti e nei confronti della mia compagna un senso di fratellanza e solidarietà, espresso e condiviso senza dover dare niente in cambio.
    Un aiuto sostanziale, importante quanto una parola e un sorriso, un consiglio circa la strada da percorrere e la distanza dal primo treno a disposizione, un biglietto dell’autobus visto come un miraggio e l’imitazione del rumore dell’obliteratrice per azzerare i sospetti del guidatore e farlo star tranquillo.

    *

    Mentre continuiamo a camminare, riflettiamo sulla tratta migratoria balcanica, e su come, a differenza del tratto di mare tra nord Africa e Lampedusa su cui sono stati scritti libri e fatti film anche di successo, si faccia fatica a produrre una narrazione – e quindi un immaginario – diverso da quello prodotto dalla stampa, che vada oltre la cronaca dei giornali.

    Sono ancora troppo pochi i documenti video che raccontino le difficoltà, la violenza, l’abuso di potere sofferti da migliaia di persone ogni anno lungo la via balcanica. Almeno 50 mila nel 2019, secondo l’UNHCR. Tra i documenti più completi e recenti c’è quello offerto da Hassan Fazili e Fatima Hussaini, marito e moglie, afgani, registi, che con le loro due figlie Nargis e Zahra sono partiti per il viaggio per fuggire dalla pena di morte decisa dai talebani, che dal 2015 pendeva sulla testa di Hassan. Dopo una prima fuga in Tagikistan, e svariate richieste di asilo, la coppia decide di giocarsi l’ultima e la più pericolosa delle carte nelle loro mani: mettersi nelle mani dei trafficanti per arrivare in Germania, attraverso la Balkan Route. Raccontando la loro storia con i tre cellulari che avevano con loro. Dopo tre anni di viaggio “in cui a ogni passo avanti ci sembrava di cadere sempre più in basso”, la famiglia ce l’ha fatta. Il racconto e la denuncia di questo viaggio sono diventati Midnight Traveler, un documentario presentato al Festival di Berlino nel 2019.

    *

    Non è facile trovare e seguire le tracce. Cosa da animali da fiuto – come Lars, il compagno a quattro zampe che ci accompagna – o da nativi, anche se qui non è la pelle ad essere rossa ma il cuore.
    L’estrema difficoltà del controllo di questo territorio poroso e selvatico è ben chiaro a chi vuole imporre la rigida sorveglianza su tutto ciò che si muove.

    La Croazia ha fatto scuola. Oltre alla violenza, gli strumenti di repressione e controllo, là fanno ampio uso della tecnologia che ora si vorrebbe importare sul Carso. L’idea di controllare questo altipiano e coloro che ci vivevano e lo attraversavano ha iniziato ad essere una specie di ossessione dagli anni Venti del secolo scorso del resto, durante il fascismo, anche se molti qui ora si sono dimenticati della discriminazione subita dai propri nonni.
    In Croazia, oltre a filo spinato e agenti robocop, vengono impiegati anche un piccolo aeroplano, droni e fototrappole.

    La proposta di un muro con cui chiudere l’altipiano carsico, non molto originale, lanciata dal governatore della Regione Friuli Venezia giulia Fedriga ha fatto molto parlare, ma vista l’impossibilità della sua realizzazione è caduta nel vuoto.
    «Un muro sul Carso è come frustare il mare» ha scritto Adriano Sofri parafrasando Erodoto (Il martire fascista, Sellerio editore, p. 27).
    L’idea di usare dei droni a scopo di controllo anti migranti invece nasce dall’Agenzia di Confine e Guardia Costiera Europea, Frontex, ed è stato usato nel tratto di mare a sud di Lampedusa.
    Da noi, dopo essere stato proposto insieme al dispiegamento dell’esercito da parte del post fascista Scoccimarro, a breve diventerà realtà grazie alla iniziativa della sindaca sceriffa di Monfalcone Anna Maria Cisint (che del resto lo vuole usare a 360° per preservare – e lo ripete come un mantra – “decoro e sicurezza”, ma si dovrebbe ormai essere capito che i dispositivi messi in atto contro i migranti presto o tardi si ritorcono contro tuttx). Bisogna fare notare come il comune di Monfalcone, il cui limite nord orientale è sì segnato dalle prime propaggini del Carso ma, per quanto vicino al confine, non è interessato da transiti di migranti né da sconfinamenti. In ogni caso ai cittadini di Monfalcone (o sudditi visto come vengono trattati?) toccherà pagare 10.000 € per un drone di ultima generazione con faretto con cui illuminare dall’alto una parte del territorio, visore notturno e telecamera termica utilissima anche per controllare le pisciate fatte per strada (uno dei problemi che affligge la cittadina a quanto pare).

    La proposta sempre da parte del governatore Fedriga di utilizzare delle fototrappole invece è piuttosto recente, arrivata neanche due settimane dopo la morte del giovane algerino in Val Rosandra.
    Non è chiaro se questa proposta, come per il muro, resterà lettera morta o se, come il drone di Cisint, possa effettivamente venire messo in pratica magari tramite i medesimi fondi elargiti sotto forma di contributi per la sicurezza.
    Di certo sul Carso le fototrappole già ci sono. Sono quelle usate a fini naturalistici o venatori. Questi apparecchi diffusi lungo tutto l’altopiano ci risulta abbiano già intercettato e fotografato persone di passaggio… Ma pensare di usare le foto trappole per il controllo dei migranti ci sembra sia una trovata assurda, oltre che irrealizzabile dal punto di vista legale. Ci sembra di capire che l’uso di fototrappole sia regolato dal punto di vista giuridico, dalla legge sulle intercettazioni telefoniche. Ovvero le forze dell’ordine possono utilizzarle a fronte di un mandato verso una persona specifica [non sembra sia consentito dalla legge un uso, diciamo così, generalizzato]. Ad esempio la guardia forestale, quando trova uno scarico abusivo di rifiuti, può attivare solo una denuncia contro ignoti, non può usare le fototrappole per monitorare l’area perché si tratta di un reato non imputabile a un responsabile specifico. Idem per le azioni contro il bracconaggio. E per tracciare il passaggio dei migranti quindi?

    *

    Ma quando e dove passano i migranti che attraversano a piedi il confine per arrivare a Trieste, si chiedono Luca ed Elena mentre procede la nostra escursione. Le tratte sono molte, i boschi sono un reticolo di sentieri e di passaggi, avventurarsi da soli sarebbe troppo rischioso. Ma non sono sempre così rischiosi i percorsi se ci si affida a chi li conosce. Difficile credere nello spirito umanitario di chi si presta, e chi lo facesse riceverebbe minacce di delazione ed insulti.

    I passaggi avvengono spesso al primo mattino, spesso di domenica nella illusione che ci siano minori controlli. A quanto abbiamo potuto vedere invece si direbbe che nelle prime ore del mattino dei giorni festivi ci sia nei pressi del confine una maggiore concentrazione di militari e forze dell’ordine che non sono spiegabili altrimenti che in un impiego che funzioni da controllo e da filtro.
    Parlando tra noi, l’ipotesi che le uscite insensate dei fascio-leghisti locali sulle fototrappole voglia essere una risposta alle pance del loro elettorato, per dire che anche in regione ci stiamo attrezzando per creare “dei disincentivi al passaggio”, è quella che si fa più strada. D’altronde alcuni dei passaggi attraverso i nostri boschi sono assolutamente sconosciuti alla massa degli escursionisti della domenica, lasciando libertà di azione ai militari che si posizionassero qui, e che volessero seguire i loro colleghi oltreconfine nella pratica illegale dei pushback. Una pratica già denunciata in passato su questo confine, come raccontato da Avvenire, con il presunto coinvolgimento della polizia italiana. Non c’è stato modo di capire se il governo abbia deciso di aprire o meno un’indagine sulla scorta della denuncia delle persone respinte.

    I pushback e le annesse violenze sono purtroppo all’ordine del giorno sul confine tra Bosnia e Croazia, anche se alcune delle denunce raccolte dagli attivisti di No Names Kitchen ci dicono che si contano dei casi anche nei pressi del confine italiano. L’ultima denuncia è di un anno fa, il respingimento sarebbe avvenuto a danno di cinque persone provenienti dalla Tunisia, appena a qualche chilometro da dove siamo noi oggi.

    Nella nostra passeggiata passiamo sotto l’autostrada e sbuchiamo nei pressi di uno dei valichi confinari più trafficati. Nel sottopasso tracce del transito di migranti: cumuli di vestiti, un sacco a pelo lacero, scarpe rotte. Molte le scritte sui muri in caratteri arabi o urdu: sono nomi di persone. Ahmed un nome tra i tanti, di “uno dei tanti figli di figli” che ritorna in questa storia.
    Qui vicino, ce ne accorgiamo dal passaggio di un paio di ragazzi punjabi di ritorno dal supermercato del paese, c’è Casa Malala, un centro di accoglienza collettivo di recente passato di gestione al gruppo Ors, costola dell’agenzia interinale Adecco e con casa madre a Zurigo in Svizzera.
    Questa è una delle conseguenze dei “decreti sicurezza” sui bandi per la gestione di centri di accoglienza: lo smantellamento dell’accoglienza diffusa e il conferimento della conduzione a organizzazioni distanti dai territori e dai bisogni di tuttx, da un lato e dall’altro delle porte dei centri di accoglienza. E anche di cattiva accoglienza si muore.

    Ai piedi dell’altra estremità del Carso, oltre il fiume Isonzo – che in quel tratto divide Friuli e Bisiacaria – c’è il CARA, Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo, un grande campo per persone in attesa di definizione della propria domanda di richiesta di protezione internazionale. Le persone che lì vengono fatte vivere possono uscire e lo fanno per sfuggire ai ritmi istituzionali, ma anche ai gusti e alle mura che sono condivise in parte con quelle del Centro Per il Rimpatrio (CPR). Il primo richiedente asilo ad annegare nelle limpide acque turchesi della Soča, come suona al femminile in sloveno, è stato Taimur Shinwari che il 7 agosto 2015 è morto di mancata accoglienza dopo solo quattro giorni dal sua arrivo in Italia. A luglio 2016 è stata la volta di Zarzai Mirwais, afghano. Negli ultimi mesi altri sono scomparsi in quelle acque: il 14 giugno scorso ha deciso di troncare la sua esistenza Sajid Hussain che con lo smantellamento dell’accoglienza diffusa – piccoli appartamenti indipendenti con ampi spazi di autonomia per chi ci vive – è stato condotto al CARA. Qui viveva nella speranza di ottenere un rientro in Pakistan da moglie e figlio in tempi brevi, dal momento che aveva richiesto di essere inserito nei programmi di rimpatrio volontario. Rimpatrio che poi per lui è arrivato solo dentro a una bara. Pochi giorni dopo la morte di Sajid un altro suo connazionale ha tentato il suicidio gettandosi in quel fiume. Atif invece nel fiume ci è scivolato per sbaglio e nessuno lo ha più ritrovato: era il 18 dicembre. Esattamente un mese dopo, il 18 gennaio, a Gradisca d’Isonzo è morto, a quanto riferito dopo un pestaggio da parte delle forze dell’ordine, Vakhtang Enukidze, georgiano di 38 anni. Era rinchiuso tra le mura del CPR come un carcerato in base al malsano concetto di “detenzione amministrativa”. Lui l’Isonzo probabilmente non lo ha mai neppure visto.

    Fiumi, confini e migrazioni hanno un profondo legame. Spesso i confini vengono tracciati in corrispondenza di barriere naturali: monti, deserti e, appunto, fiumi. La rotta balcanica ce lo dimostra: dall’Evros che segna il confine tra Grecia e Turchia dove in questi giorni si spara contro i migranti, al Suva Reka tra Grecia e Macedonia, il fiume Kolpa in Slovenia che si dice Kupa sul versante croato, fino al Mura tra Slovenia, Austria e Ungheria. Questo naturalizza il regime delle frontiere conducendo ad una visione del migrante come figura deviante. Un agente patologico o virale che infrange quanto si vuole come naturale. Nei tempi del Corona virus la cosa raggiunge il parossismo (si veda il box a lato).
    Ma il cammino della rotta balcanica è tagliato dai molti torrenti e piccoli corsi d’acqua di Bosnia e Croazia fino a quelli pieni di storia come il Danubio, la Drava o l’Isonzo. Ci vorrebbe un Ungaretti a ricantare questi fiumi colmi di sangue e il loro legame con guerra, morte e migrazioni.

    http://www.alpinismomolotov.org/wordpress/2020/03/09/mi-smo-tu-noi-siamo-qui-sul-confine-tra-lisonzo-e-la-balkan-route
    #frontières #asile #migrations #réfugiés #Alpes #montagne #frontière_sud-alpine #Italie #Slovénie #histoire

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    Dans cet article une partie est dédiée à 4 personnes migrantes mortes dans ces montagnes carstiques dans les années 1970...

    Molti anni fa, 47 per la precisione. Sera del 12 novembre, anno 1973. Bora forte e novembre freddo – una volta era così! – in località #Boršt / #Sant’Antonio_in_Bosco, pochi chilometri da Trieste e altrettanti dal ciglione carsico con relativo confine. Cinque persone provenienti dal Mali bussano alla porta di una casa ai margini del paese. Erano arrivati in aereo a Spalato, poi in bus sino a Fiume. Volevano raggiungere Venezia, per poi recarsi in Francia, con la promessa di un lavoro, in nero si scoprirà in seguito.
    Qualcuno disse che dietro a tutto questo poteva esserci un’organizzazione che gestiva un traffico illegale di potenziali lavoratori da sistemare in Europa, le indagini successive non hanno portato a niente di rilevante. In ogni caso, qualcosa deve essere andato storto ai cinque ragazzi, forse non erano riusciti ad avere un visto, non lo sappiamo. Di certo erano in Jugoslavia, e per muoversi da li rimaneva come unica soluzione quella di andare a piedi a correggere la fortuna, verso un sogno occidentale. Erano a piedi quando arrivarono a Boršt, bussarono a una porta, avevano fame e freddo, molto freddo. Ma nessuno gli aprì.
    I cinque trascorsero la notte nei paraggi del casello ferroviario in disuso. Tre persone su cinque morirono assiderate, una persona seppur in gravi condizioni riuscì a salvarsi, mentre un’altra riuscì a richiamare l’attenzione di un abitante del luogo.
    Arrivarono i soccorsi, troppo tardi purtroppo. Persero la vita #Seydou_Dembele, anni 22, #Mamdor_Niakhate, anni 19, e #Diambou_Lassana, anni 27. Dopo quasi un mese venne ritrovato un altro corpo, quello di #Djibi_Somaili, anni 25; lui veniva dalla Mauritania.


    Si fanno molte supposizioni circa la loro presenza e la loro morte, alla fine la realtà emerge nuda e cruda, sono morti per assideramento. E per fame.
    Si decide allora di procedere ad una sepoltura delle quattro persone nel piccolo cimitero del paese, in un luogo dello stesso cimitero esposto al sole, dove ogni anno vengono ricordati e commemorati.
    Partecipano in tanti al funerale, in pratica l’intera comunità e le tombe sono sempre curate e ricoperte di fiori freschi, su una lapide un braccialetto africano messo di recente. Oltre il muro di quel cimitero si vedono il monte Carso e, dall’altro lato, il mare.

    #cimetière #morts #décès #mourir_aux_frontières #fototrappola #piège_photographique

    Sur les #pièges_photographiques, voir aussi :
    Il #Friuli_Venezia_Giulia vuole usare le “fototrappole” per i migranti al confine
    https://seenthis.net/messages/995446

  • #MDR : Voler une tesla avec un bout de câble electrique
    http://www.lessentiel.lu/fr/news/insolites/story/leur-technique-folle-pour-voler-une-tesla-garee-28866660

    Deux voleurs ont utilisé une étonnante technique pour voler une voiture électrique garée devant un pavillon au Royaume-Uni. Ils ont été filmés.

    https://www.youtube.com/watch?time_continue=13&v=hj3ZRv9cMBw

    . . . .
    il n’aura fallu qu’une trentaine de secondes, pour que deux voleurs s’emparent de sa voiture, garée devant son domicile, dans la nuit de mardi à mercredi.

    L’homme a pu revoir toute la scène grâce aux images de surveillance capturées par sa sonnette connectée Ring. Elles montrent un homme s’approcher de la porte d’entrée de l’habitation et sortir de son sac une sorte de long câble électrique servant de système relais. Sans toucher le véhicule, la Model S se déverrouille après quelques secondes permettant à un complice de repartir au volant de la voiture valant plus de 90 000 pounds (99 000 euros) .
    En pratique, les malfrats ont étendu le signal de la clef électronique de la voiture en misant sur le fait que la victime l’avait laissée près de la porte d’entrée.
    . . . . .

    #tesla #piege_à_cons #elon_musk #baudruche #Actualités_High-Tech #High_Tech #voiture_électrique #vol

  • Vous prenez la Tesla, vous la plongez dans l’eau entre 3 jours et une semaine ! #MDR

    Une voiture électrique Tesla prend feu alors qu’elle était en train de charger à Anvers - Belga - 2 Juin 2019
    https://www.rtbf.be/info/economie/detail_une-voiture-electrique-tesla-prend-feu-a-anvers-alors-qu-elle-etait-en-t

    Une voiture électrique de la marque Tesla est partie en fumée dans la nuit de samedi à dimanche alors qu’elle était reliée à une station de recharge à Anvers. Celle-ci a d’ailleurs également pris feu, ont indiqué les pompiers.


    Illustration Turbo.fr

    Un problème technique au véhicule pourrait expliquer cet incendie, qu’ont pu rapidement circonscrire les pompiers. Pour éviter que la voiture ne reprenne feu, elle a été immergée dans un conteneur rempli d’eau. « Il faut beaucoup de temps pour refroidir correctement la batterie d’une telle voiture électrique. L’expérience de nos corps de pompiers et d’autres nous apprend qu’immerger complètement le véhicule dans l’eau est le moyen le plus efficace », expliquent les hommes du feu anversois.

    La procédure en vigueur prévoit que la voiture reste durant 24 heures dans le conteneur rempli d’eau. Le véhicule en sera ensuite sorti et les pompiers utiliseront une caméra thermique pour voir si la batterie est complètement refroidie. Si ce n’est pas le cas, il retournera dans l’eau. _ « Lors de précédents incendies, il a parfois fallu entre trois jours et une semaine pour que la batterie soit complètement refroidie  », _ a-t-on jouté de même source.

    #tesla #piege_à_cons #elon_musk #baudruche #batteries #électricité #Actualités_High-Tech #High_Tech #voiture_électrique #incendie

  • La logique de « #Dublin » appliquée aux mineurs

    En prévoyant la collecte par les autorités départementales de la photographie et des empreintes des #mineurs_isolés_étrangers sollicitant une protection au titre de l’#Aide_sociale_à_l’enfance, la #loi_sur_l’asile_et_l’immigration du 10 septembre 2018, dite « #loi_Collomb », vise à ce que soit désigné de facto un #département – et un seul – responsable de la demande de protection. Un enfant considéré comme majeur par un département ne pourra plus solliciter la protection d’un autre département. Le parallèle avec le règlement « Dublin » qui interdit aux demandeurs d’asile de choisir l’État dans lequel ils souhaitent trouver refuge est frappant : le #fichage des mineurs a le même objectif que le fichage des demandeurs d’asile dans #Eurodac ; il s’agit de piéger sur un territoire donné la personne en demande de protection. À défaut de pouvoir obliger les départements à harmoniser leurs pratiques en matière d’évaluation de la minorité et de l’isolement, de la même manière que les institutions européennes ont échoué à harmoniser les procédures d’asile en Europe, le gouvernement a ainsi trouvé le moyen d’empêcher les mineurs d’aller chercher ailleurs la protection qu’on leur dénie ici.

    À l’annonce de cette mesure, plusieurs organisations, parmi lesquelles le Gisti, ont dénoncé « une mesure disproportionnée » dont elles ont demandé le retrait [1]. Cette mesure revient à créer une présomption de fraude à l’encontre des « ressortissants étrangers se déclarant mineurs privés temporairement ou définitivement de la protection de leur famille » et entre en contradiction avec les principes constitutionnels d’égalité devant la loi et de non-discrimination dans l’accès à un droit. On sait bien, pourtant, que le caractère aléatoire des évaluations de minorité conduit à ce qu’une personne déclarée mineure dans un département soit déclarée majeure dans un autre, preuve de l’absence de fiabilité de la procédure d’évaluation et de la disparité des pratiques [2].

    À l’occasion de la saisine du Conseil constitutionnel par les parlementaires, le Gisti et la Ligue des droits de l’Homme ont essayé d’attirer son attention sur cette question [3]. Dans sa décision du 6 septembre, le Conseil constitutionnel a toutefois choisi de ne pas se prononcer, de sorte que la question de la constitutionnalité de cette mesure reste entière.

    Votée à l’occasion d’une réforme du code des étrangers, la création de ce fichier confirme que les pouvoirs publics considèrent les mineurs isolés avant tout comme des migrants dont il faut se défier plutôt que comme des enfants qu’il faut protéger. Elle s’inscrit, parallèlement, dans une tendance au fichage généralisé de la population dont la population étrangère est la cible prioritaire.

    Pour disqualifier le maximum de demandes de protection émanant de mineurs isolés, les départements reprennent la même recette que celle utilisée par l’État contre les demandeurs d’asile. Par la magie du verbe, l’immense majorité des réfugiés deviennent des « migrants économiques » et les enfants, des adultes. La même recette et parfois les mêmes méthodes, consistant, par exemple, à déléguer à des associations gestionnaires le « sale boulot » : ici, créer des files d’attente interminables pour distribuer au compte-gouttes des rendez-vous aux demandeurs d’asile ; là, gérer des cellules d’évaluation remettant en cause quasi systématiquement l’âge déclaré par les mineurs isolés.

    Fichage et suspicion, deux moyens qui ont largement fait leur preuve pour discréditer la plupart des demandeurs d’asile et qui trouvent maintenant à s’appliquer aux mineurs isolés considérés, comme d’autres avant eux, comme des étrangers « indésirables ». À qui le tour ?

    http://www.gisti.org/spip.php?article6001
    #règlement_dublin #asile #migrations #réfugiés #mineurs #enfants #enfance #MNA #empreintes_digitales #France #piège #piège_territorial

  • À propos de ces youtubeurs qui font la promotion de l’#écologie capitaliste (par Nicolas Casaux) – Le Partage
    http://partage-le.com/2018/09/a-propos-de-ces-youtubeurs-qui-font-la-promotion-de-lecologie-capitalist

    Considérer qu’un mouvement de défense du monde naturel pourrait être composé d’une branche capitalo-compatible et d’une autre anticapitaliste, cela revient à croire qu’un mouvement pour l’émancipation des femmes pourrait se construire avec des hommes masculinistes, ou qu’un mouvement pour l’émancipation des Noirs pourrait se construire avec des membres du Ku Klux Klan, ou qu’un mouvement pour l’émancipation des travailleurs pourrait se construire avec le Medef. C’est simplement absurde.

  • Migrants : l’irrationnel au pouvoir ?

    Les dispositifs répressifs perpétuent le « problème migratoire » qu’ils prétendent pourtant résoudre : ils créent des migrants précaires et vulnérables contraints de renoncer à leur projet de retour au pays.
    Très loin du renouveau proclamé depuis l’élection du président Macron, la politique migratoire du gouvernement Philippe se place dans une triste #continuité avec celles qui l’ont précédée tout en franchissant de nouvelles lignes rouges qui auraient relevé de l’inimaginable il y a encore quelques années. Si, en 1996, la France s’émouvait de l’irruption de policiers dans une église pour déloger les grévistes migrant.e.s, que de pas franchis depuis : accès à l’#eau et distributions de #nourriture empêchés, tentes tailladées, familles traquées jusque dans les centres d’hébergement d’urgence en violation du principe fondamental de l’#inconditionnalité_du_secours.

    La #loi_sur_l’immigration que le gouvernement prépare marque l’emballement de ce processus répressif en proposant d’allonger les délais de #rétention administrative, de généraliser les #assignations_à_résidence, d’augmenter les #expulsions et de durcir l’application du règlement de #Dublin, de restreindre les conditions d’accès à certains titres de séjour, ou de supprimer la garantie d’un recours suspensif pour certain.e.s demandeur.e.s d’asile. Au-delà de leur apparente diversité, ces mesures reposent sur une seule et même idée de la migration comme « #problème ».

    Cela fait pourtant plusieurs décennies que les chercheurs spécialisés sur les migrations, toutes disciplines scientifiques confondues, montrent que cette vision est largement erronée. Contrairement aux idées reçues, il n’y a pas eu d’augmentation drastique des migrations durant les dernières décennies. Les flux en valeur absolue ont augmenté mais le nombre relatif de migrant.e.s par rapport à la population mondiale stagne à 3 % et est le même qu’au début du XXe siècle. Dans l’Union européenne, après le pic de 2015, qui n’a par ailleurs pas concerné la France, le nombre des arrivées à déjà chuté. Sans compter les « sorties » jamais intégrées aux analyses statistiques et pourtant loin d’être négligeables. Et si la demande d’asile a connu, en France, une augmentation récente, elle est loin d’être démesurée au regard d’autres périodes historiques. Au final, la mal nommée « #crise_migratoire » européenne est bien plus une crise institutionnelle, une crise de la solidarité et de l’hospitalité, qu’une crise des flux. Car ce qui est inédit dans la période actuelle c’est bien plus l’accentuation des dispositifs répressifs que l’augmentation de la proportion des arrivées.

    La menace que représenteraient les migrant.e.s pour le #marché_du_travail est tout autant exagérée. Une abondance de travaux montre depuis longtemps que la migration constitue un apport à la fois économique et démographique dans le contexte des sociétés européennes vieillissantes, où de nombreux emplois sont délaissés par les nationaux. Les économistes répètent qu’il n’y a pas de corrélation avérée entre #immigration et #chômage car le marché du travail n’est pas un gâteau à taille fixe et indépendante du nombre de convives. En Europe, les migrant.e.s ne coûtent pas plus qu’ils/elles ne contribuent aux finances publiques, auxquelles ils/elles participent davantage que les nationaux, du fait de la structure par âge de leur population.

    Imaginons un instant une France sans migrant.e.s. L’image est vertigineuse tant leur place est importante dans nos existences et les secteurs vitaux de nos économies : auprès de nos familles, dans les domaines de la santé, de la recherche, de l’industrie, de la construction, des services aux personnes, etc. Et parce qu’en fait, les migrant.e.s, c’est nous : un.e Français.e sur quatre a au moins un.e parent.e ou un.e grand-parent immigré.e.

    En tant que chercheur.e.s, nous sommes stupéfait.e.s de voir les responsables politiques successifs asséner des contre-vérités, puis jeter de l’huile sur le feu. Car loin de résoudre des problèmes fantasmés, les mesures, que chaque nouvelle majorité s’est empressée de prendre, n’ont cessé d’en fabriquer de plus aigus. Les situations d’irrégularité et de #précarité qui feraient des migrant.e.s des « fardeaux » sont précisément produites par nos politiques migratoires : la quasi-absence de canaux légaux de migration (pourtant préconisés par les organismes internationaux les plus consensuels) oblige les migrant.e.s à dépenser des sommes considérables pour emprunter des voies illégales. La #vulnérabilité financière mais aussi physique et psychique produite par notre choix de verrouiller les frontières est ensuite redoublée par d’autres pièces de nos réglementations : en obligeant les migrant.e.s à demeurer dans le premier pays d’entrée de l’UE, le règlement de Dublin les prive de leurs réseaux familiaux et communautaires, souvent situés dans d’autres pays européens et si précieux à leur insertion. A l’arrivée, nos lois sur l’accès au séjour et au travail les maintiennent, ou les font basculer, dans des situations de clandestinité et de dépendance. Enfin, ces lois contribuent paradoxalement à rendre les migrations irréversibles : la précarité administrative des migrant.e.s les pousse souvent à renoncer à leurs projets de retour au pays par peur qu’ils ne soient définitifs. Les enquêtes montrent que c’est l’absence de « papiers » qui empêche ces retours. Nos politiques migratoires fabriquent bien ce contre quoi elles prétendent lutter.

    Les migrant.e.s ne sont pas « la #misère_du_monde ». Comme ses prédécesseurs, le gouvernement signe aujourd’hui les conditions d’un échec programmé, autant en termes de pertes sociales, économiques et humaines, que d’inefficacité au regard de ses propres objectifs.

    Imaginons une autre politique migratoire. Une politique migratoire enfin réaliste. Elle est possible, même sans les millions utilisés pour la rétention et l’expulsion des migrant.e.s, le verrouillage hautement technologique des frontières, le financement de patrouilles de police et de CRS, les sommes versées aux régimes autoritaires de tous bords pour qu’ils retiennent, reprennent ou enferment leurs migrant.e.s. Une politique d’#accueil digne de ce nom, fondée sur l’enrichissement mutuel et le respect de la #dignité de l’autre, coûterait certainement moins cher que la politique restrictive et destructrice que le gouvernement a choisi de renforcer encore un peu plus aujourd’hui. Quelle est donc sa rationalité : ignorance ou électoralisme ?

    http://www.liberation.fr/debats/2018/01/18/migrants-l-irrationnel-au-pouvoir_1623475
    Une tribune de #Karen_Akoka #Camille_Schmoll (18.01.2018)

    #irrationalité #rationalité #asile #migrations #réfugiés #préjugés #invasion #afflux #répression #précarisation #vulnérabilité #France #économie #coût

    –—

    ajouté à la métaliste sur le lien entre #économie (et surtout l’#Etat_providence) et la #migration... des arguments pour détruire l’#idée_reçue : « Les migrants profitent (voire : viennent POUR profiter) du système social des pays européens »... :

    https://seenthis.net/messages/971875

    • Karine et Camille reviennent sur l’idée de l’économie qui ne serait pas un gâteau...
      #Johan_Rochel a très bien expliqué cela dans son livre
      Repenser l’immigration. Une boussole éthique
      http://www.ppur.org/produit/810/9782889151769

      Il a appelé cela le #piège_du_gâteau (#gâteau -vs- #repas_canadien) :

      « La discussion sur les bienfaits économiques de l’immigration est souvent tronquée par le piège du gâteau. Si vous invitez plus de gens à votre anniversaire, la part moyenne du gâteau va rétrécir. De même, on a tendance à penser que si plus de participants accèdent au marché du travail, il en découlera forcément une baisse des salaires et une réduction du nombre d’emplois disponible.
      Cette vision repose sur une erreur fondamentale quant au type de gâteau que représente l’économie, puisque, loin d’être de taille fixe, celui-ci augmente en fonction du nombre de participants. Les immigrants trouvant un travail ne osnt en effet pas seulement des travailleurs, ils sont également des consommateurs. Ils doivent se loger, manger, consommer et, à ce titre, leur présence stimule la croissance et crée de nouvelles opportunités économiques. Dans le même temps, cette prospérité économique provoque de nouvelles demandes en termes de logement, mobilité et infrastructure.
      L’immigration n’est donc pas comparable à une fête d’anniversaire où la part de gâteau diminuerait sans cesse. La bonne image serait plutôt celle d’un repas canadien : chacun apporte sa contribution personnelle, avant de se lancer à la découverte de divers plats et d’échanger avec les autres convives. Assis à cette table, nous sommes à la fois contributeurs et consommateurs.
      Cette analogie du repas canadien nous permet d’expliquer pourquoi un petit pays comme la Suisse n’a pas sombré dans la pauvreté la plus totale suite à l’arrivée de milliers d’Européens. Ces immigrants n’ont pas fait diminuer la taille du gâteau, ils ont contribué à la prospérité et au festin commun. L’augmentation du nombre de personnes actives sur le marché du travail a ainsi conduit à une forte augmentation du nombre d’emplois à disposition, tout en conservant des salaires élevés et un taux de chômage faible.
      Collectivement, la Suisse ressort clairement gagnante de cette mobilité internationale. Ce bénéfice collectif ’national’ ne doit cependant pas faire oublier les situations difficiles. Les changements induits par l’immigration profitent en effet à certains, tandis que d’autres se retrouvent sous pression. C’est notamment le cas des travailleurs résidents dont l’activité ou les compétences sont directement en compétition avec les nouveaux immigrés. Cela concerne tout aussi bien des secteurs peu qualifiés (par exemple les anciens migrants actifs dans l’hôtellerie) que dans les domaines hautement qualifiés (comme le management ou la recherche).
      Sur le plan éthique, ce constat est essentiel car il fait clairement apparaître deux questions distinctes. D’une part, si l’immigration profite au pays en général, l’exigence d’une répartition équitable des effets positifs et négatifs de cette immigration se pose de manière aiguë. Au final, la question ne relève plus de la politique migratoire, mais de la redistribution des richesses produites. Le douanier imaginaire ne peut donc se justifier sous couvert d’une ’protection’ générale de l’économie.
      D’autre part, si l’immigration met sous pression certains travailleurs résidents, la question de leur éventuelle protection doit être posée. Dans le débat public, cette question est souvent présentée comme un choix entre la défense de ’nos pauvres’ ou de ’nos chômeurs’ face aux ’immigrés’. Même si l’immigration est positive pour la collectivité, certains estiment que la protection de certains résidents justifierait la mise en œuvre de politiques migratoires restrictives » (Rochel 2016 : 31-33)

    • People on the move : migration and mobility in the European Union

      Migration is one of the most divisive policy topics in today’s Europe. In this publication, the authors assess the immigration challenge that the EU faces, analyse public perceptions, map migration patterns in the EU and review the literature on the economic impact of immigration to reflect on immigration policies and the role of private institutions in fostering integration.

      http://bruegel.org/wp-content/uploads/2018/01/People_on_the_move_ONLINE.pdf
      #travail #économie #éducation #intégration #EU #UE #asile #invasion #afflux #préjugés #statistiques #chiffres

      Je copie-colle ici deux graphiques.

      Un sur le nombre de #immigrants comparé au nombre de #émigrants, où l’on voit que le #solde_migratoire (en pourcentage de la population) est souvent négatif... notamment en #France et en #Italie :

      Et un graphique sur les demandes d’asile :

    • The progressive case for immigration

      Whatever politicians say, the world needs more immigration, not less.

      “WE CAN’T restore our civilisation with somebody else’s babies.” Steve King, a Republican congressman from Iowa, could hardly have been clearer in his meaning in a tweet this week supporting Geert Wilders, a Dutch politician with anti-immigrant views. Across the rich world, those of a similar mind have been emboldened by a nativist turn in politics. Some do push back: plenty of Americans rallied against Donald Trump’s plans to block refugees and migrants. Yet few rich-world politicians are willing to make the case for immigration that it deserves: it is a good thing and there should be much more of it.

      Defenders of immigration often fight on nativist turf, citing data to respond to claims about migrants’ damaging effects on wages or public services. Those data are indeed on migrants’ side. Though some research suggests that native workers with skill levels similar to those of arriving migrants take a hit to their wages because of increased migration, most analyses find that they are not harmed, and that many eventually earn more as competition nudges them to specialise in more demanding occupations. But as a slogan, “The data say you’re wrong” lacks punch. More important, this narrow focus misses immigration’s biggest effects.

      Appeal to self-interest is a more effective strategy. In countries with acute demographic challenges, migration is a solution to the challenges posed by ageing: immigrants’ tax payments help fund native pensions; they can help ease a shortage of care workers. In Britain, for example, voters worry that foreigners compete with natives for the care of the National Health Service, but pay less attention to the migrants helping to staff the NHS. Recent research suggests that information campaigns in Japan which focused on these issues managed to raise public support for migration (albeit from very low levels).

      Natives enjoy other benefits, too. As migrants to rich countries prosper and have children, they become better able to contribute to science, the arts and entrepreneurial activity. This is the Steve Jobs case for immigration: the child of a Muslim man from Syria might create a world-changing company in his new home.

      Yet even this argument tiptoes around the most profound case for immigration. Among economists, there is near-universal acceptance that immigration generates huge benefits. Inconveniently, from a rhetorical perspective, most go to the migrants themselves. Workers who migrate from poor countries to rich ones typically earn vastly more than they could have in their country of origin. In a paper published in 2009, economists estimated the “place premium” a foreign worker could earn in America relative to the income of an identical worker in his native country. The figures are eye-popping. A Mexican worker can expect to earn more than 2.5 times her Mexican wage, in PPP-adjusted dollars, in America. The multiple for Haitian workers is over 10; for Yemenis it is 15 (see chart).

      No matter how hard a Haitian worker labours, he cannot create around him the institutions, infrastructure and skilled population within which American workers do their jobs. By moving, he gains access to all that at a stroke, which massively boosts the value of his work, whether he is a software engineer or a plumber. Defenders of open borders reckon that restrictions on migration represent a “trillion dollar bills left on the pavement”: a missed opportunity to raise the output of hundreds of millions of people, and, in so doing, to boost their quality of life.
      We shall come over; they shall be moved

      On what grounds do immigration opponents justify obstructing this happy outcome? Some suppose it would be better for poor countries to become rich themselves. Perhaps so. But achieving rich-world incomes is the exception rather than the rule. The unusual rapid expansion of emerging economies over the past two decades is unlikely to be repeated. Growth in China and in global supply chains—the engines of the emerging-world miracle—is decelerating; so, too, is catch-up to American income levels (see chart). The falling cost of automating manufacturing work is also undermining the role of industry in development. The result is “premature deindustrialisation”, a phenomenon identified by Dani Rodrik, an economist, in which the role of industry in emerging markets peaks at progressively lower levels of income over time. However desirable economic development is, insisting upon it as the way forward traps billions in poverty.

      An argument sometimes cited by critics of immigration is that migrants might taint their new homes with a residue of the culture of their countries of origin. If they come in great enough numbers, this argument runs, the accumulated toxins could undermine the institutions that make high incomes possible, leaving everyone worse off. Michael Anton, a national-security adviser to Donald Trump, for example, has warned that the culture of “third-world foreigners” is antithetical to the liberal, Western values that support high incomes and a high quality of life.

      This argument, too, fails to convince. At times in history Catholics and Jews faced similar slurs, which in hindsight look simply absurd. Research published last year by Michael Clemens and Lant Pritchett of the Centre for Global Development, a think-tank, found that migration rules tend to be far more restrictive than is justified by worries about the “contagion” of low productivity.

      So the theory amounts to an attempt to provide an economic basis for a cultural prejudice: what may be a natural human proclivity to feel more comfortable surrounded by people who look and talk the same, and to be disconcerted by rapid change and the unfamiliar. But like other human tendencies, this is vulnerable to principled campaigns for change. Americans and Europeans are not more deserving of high incomes than Ethiopians or Haitians. And the discomfort some feel at the strange dress or speech of a passer-by does not remotely justify trillions in economic losses foisted on the world’s poorest people. No one should be timid about saying so, loud and clear.

      https://www.economist.com/finance-and-economics/2017/03/18/the-progressive-case-for-immigration?fsrc=scn/fb/te/bl/ed/theprogressivecaseforimmigrationfreeexchange?fsrc=scn/tw/te/bl/ed/theprogressivecaseforimmigrationfreeexchange

    • #Riace, l’economia e la rivincita degli zero

      Premessa

      Intendiamoci, il ministro Salvini può fare tutto quello che vuole. Criminalizzando le ONG può infangare l’operato di tanti volontari che hanno salvato migliaia di persone dall’annegamento; può chiudere i porti ai migranti, sequestrarli per giorni in una nave, chiudere gli Sprar, ridurre i finanziamenti per la loro minima necessaria accoglienza; può togliere il diritto ai migranti di chiedere lo stato di rifugiato, può cancellare modelli di integrazione funzionanti come Riace, può istigare all’odio razziale tramite migliaia di post su facebook in una continua e ansiosa ricerca del criminale (ma solo se ha la pelle scura). Al ministro Salvini è permesso tutto: lavorare sulle paure delle persone per incanalare la loro frustrazione contro un nemico inventato, può persino impedire a dei pullman di raggiungere Roma affinché le persone non possano manifestare contro di lui. Può prendersela con tutti coloro che lo criticano, sdoganare frasi del cupo ventennio fascista, minacciare sgomberi a tutti (tranne che a casapound) e rimanendo in tema, può chiedere il censimento dei ROM per poterli cacciare. Può fare tutto questo a torso nudo, tramite una diretta facebook, chiosando i suoi messaggi ai suoi nemici giurati con baci e abbracci aggressivo-passivi, o mostrandosi sorridente nei suoi selfie durante le tragedie che affliggono il nostro paese. Al ministro Salvini è permesso di tutto, non c’è magistratura o carta costituzionale che tenga.

      Ma una cosa è certa: il ministro Salvini non può vietare alle persone di provare empatia, di fare ed essere rete, di non avere paura, di non essere solidale. E soprattutto, il ministro Salvini, non può impedirci di ragionare, di analizzare lo stato dell’arte tramite studi e ricerche scientifiche, capire la storia, smascherare il presente, per provare a proporre valide alternative, per un futuro più aperto ed inclusivo per la pace e il benessere delle persone.

      Tutto questo è lo scopo del presente articolo, che dedico a mio padre. Buona lettura.

      I migranti ci aiutano a casa nostra

      In un mio precedente post, sempre qui su Econopoly, ho spiegato -studi alla mano- come fosse conveniente, anche e soprattutto dal punto di vista economico, avere una politica basata sull’accoglienza: la diversità e la relativa inclusione conviene a tutti. Molti dei commenti critici che ho avuto modo di leggere sui social, oltre alle consuete offese degli instancabili haters possono riassumersi in un solo concetto: “gli altri paesi selezionano i migranti e fanno entrare solo quelli qualificati, mentre in Italia accogliamo tutti”. Premesso che non è così, che l’Italia non è l’unico paese ad offrire ospitalità a questo tipo di migranti, e che non tutte le persone disperate che raggiungono le nostre coste sono poco istruite, non voglio sottrarmi alla critica e voglio rispondere punto su punto nel campo di gioco melmoso e maleodorante da loro scelto. Permettetemi quindi di rivolgermi direttamente a loro, in prima persona.

      Prima di tutto mi chiedo come si possa sperare di attirare migranti “qualificati” se non riusciamo neanche a tenerci le nostre migliori menti. Il nostro problema principale è infatti l’emigrazione, non l’immigrazione: più di 250mila italiani emigrano all’estero, perché l’Italia non è più capace di offrire loro un futuro dignitoso. Ma tutto questo evidentemente non rientra tra le priorità del governo del cambiamento.

      Tolti i migranti “qualificati”, ci rimangono quindi quelli che gli anglosassoni definiscono “low skilled migrants”, e le obiezioni che i nostri amici rancorosi ci pongono sono sempre le stesse: “per noi sono solo un costo”, “prima gli italiani che non arrivano alla fine del mese”, “ospitateli a casa vostra”, e così via vanverando. Proviamo a rispondere con i numeri, con i dati, sempre che i dati possano avere ancora un valore in questo paese in perenne campagna elettorale, sempre alla ricerca del facile consenso. Correva l’anno 2016, un numero record di sbarchi raggiungeva le nostre coste e lo stato spendeva per loro ben 17,5 miliardi di spesa pubblica. Bene, prima che possiate affogare nella vostra stessa bava, senza che nessuna ONG possa venirvi a salvare, sappiate che gli introiti dello Stato grazie ai contributi da loro versati, nelle varie forme, è stato di 19,2 miliardi: in pratica con i contributi dei migranti lo stato ha guadagnato 1,7 miliardi di euro. Potete prendervela con me che ve lo riporto, o magari con il centro studi e ricerche Idos e con il centro Unar (del dipartimento delle pari opportunità) che questo report lo hanno prodotto, ma la realtà non cambia. Forse fate prima a cambiare voi la vostra percezione, perché dovremmo ringraziarli quei “low skilled migrants”, visto che con quel miliardo e sette di euro ci hanno aiutato a casa nostra, pagando -in parte- la nostra pensione, il nostro ospedale, la nostra scuola.

      Studi confermano che i migranti contribuiscono al benessere del paese ospitante

      Prima di andare avanti in questo discorso, vale la pena di menzionare un importante e imponente studio di Giovanni Peri e Mette Foged del 2016: i due autori hanno esaminato i salari di ogni singola persona in Danimarca per un periodo di ben 12 anni, nei quali vi era stato un forte afflusso di migranti. Il governo danese distribuì i rifugiati per tutto il territorio, fornendo agli economisti tutti i dati necessari per permettere a loro di analizzarli. Da questi dati emerse che i danesi che avevano i rifugiati nelle vicinanze, avevano visto i propri salari crescere molto più velocemente, rispetto ai connazionali senza rifugiati. Questo si spiega perché i low skilled migrants essendo poco istruiti, generalmente vanno a coprire quei lavori che non richiedono particolari competenze, permettendo -per contrasto- ai locali di specializzarsi nei lavori che invece sono meglio pagati, perché più produttivi.

      Quando i migranti non convengono e sono solo un costo

      Tuttavia i migranti, per poter versare i propri contributi allo stato, devono -ovviamente- essere messi in grado di lavorare. Non sto dicendo che si debba trovare loro un lavoro, perché sono capaci di farlo da soli, ma semplicemente di dare a loro i necessari permessi burocratici per poter vivere, lavorare, consumare, spendere. Questo alimenterebbe un mercato del lavoro -che molti italiani ormai disdegnano- e aumenterebbe l’indotto delle vendite di beni di consumo ai “nostri” piccoli commercianti italiani e non.

      “Potrebbe sembrare controintuitivo, ma i paesi che hanno politiche più severe e restrittive nei confronti dei rifugiati, finiscono per avere un costo maggiore per il mantenimento dei migranti”, afferma Erik Jones, professore alla Johns Hopkins University School. Quindi paradossalmente (ma neanche tanto), più rinchiudiamo i migranti nei centri di accoglienza senza permettere a loro di avere una vita e un lavoro, più sale il loro costo a spese dei cittadini italiani.

      Le conseguenze del decreto sicurezza

      Stranamente è proprio questa la direzione che il ministro Salvini ha deciso di intraprendere con il suo “decreto sicurezza”: togliendo lo SPRAR ai migranti e rendendo più difficoltosa la possibilità di richiedere asilo, verrà impedito a loro di integrarsi nel tessuto sociale del nostro paese, di lavorare, di produrre ricchezza. Insomma questo decreto finiranno per pagarlo caramente gli italiani, che per il ministro Salvini, sarebbero dovuti “venire prima” (forse intendeva alla cassa).

      Non è un caso se al momento in cui scrivo città come Torino, Bergamo, Bologna e Padova hanno espresso forti preoccupazioni nel far attuare il cosiddetto “decreto sicurezza” firmato da Salvini. Il fatto che a Torino governi il m5s che siede nei banchi di governo insieme al ministro degli interni, ha provocato non pochi mal di pancia dentro la maggioranza e conferma quanto questo decreto sia in realtà molto pericoloso per gli italiani stessi. «Io capisco che siamo in campagna elettorale permanente – ha concluso Sergio Giordani ma non si possono prendere decisioni sulla pelle delle persone. Che si scordino di farlo su quella dei padovani», ha affermato il sindaco di Padova. Non è un lapsus, ha proprio detto “sulla pelle dei padovani”, non dei migranti.

      Perché il modello Riace ha funzionato

      Un interessante studio, diretto dal Prof. Edward Taylor, per la Harvard Business Review, ci spiega quali sono le giuste modalità che permettano ai migranti di sostenere l’economia del paese ospitante, e lo fa spiegandoci due importanti lezioni che ha imparato dopo aver studiato attentamente i costi economici e i benefici di tre campi in Rwanda gestiti dall’UNCHR:
      1. Give cash, not food. La prima lezione imparata è quella di fornire direttamente i soldi ai migranti per comprarsi il cibo e di non dare a loro direttamente il cibo. Questo serve ad alimentare il mercato locale, aiutando in un’ottica win-win i contadini locali e i piccoli commercianti del posto
      2. Promote long-term integration. La seconda lezione imparata che ci spiega il prof. Edward Taylor, riguarda il necessario tempo di integrazione che si deve concedere ai migranti, al fine di permettere un importante ritorno economico al paese ospitante: in poche parole i migranti devono avere il tempo di sistemarsi, di creare una forza lavoro locale, di integrarsi nel tessuto sociale del luogo ospitante

      Quando ho letto questo studio non ho potuto fare altro che pensare all’esperienza di Riace, considerata giustamente un modello vincente di integrazione, diventato famoso in tutto il mondo: infatti quello che consiglia il Prof Taylor è esattamente ciò che ha fatto il sindaco Domenico Lucano nel suo paese! La ricetta è talmente la stessa, che ad un certo punto ho pensato di aver letto male e che il Prof. Taylor si riferisse, in realtà, all’esperienza del paesino calabrese, non a quella del Rwanda.

      Per quanto riguarda il primo punto, il sindaco Lucano si è dovuto inventare una moneta locale per permettere ai migranti di essere indipendenti e di spenderli nel territorio ospitante, promuovendo ed aiutando l’economia dell’intero paese; per quanto riguarda il secondo punto, Lucano ha trasformato la natura dei fondi dello SPRAR, che in realtà prevedono una sistemazione del migrante in soli sei mesi, in una integrazione a medio e lungo termine. Per permettere ai migranti di ritornare un valore (anche economico), è necessario del tempo, ed è obiettivamente impossibile immaginarlo fattibile nel limite temporale dei sei mesi. E’ importante sottolineare come le accuse che gli vengono mosse dalla magistratura, che gli sta attualmente impedendo di tornare nella sua Riace, nascano proprio da questo suo approccio ben descritto nelle due lezioni del Prof. Taylor. Altro concetto importante da ribadire è che all’inizio, il sindaco Lucano, si è mosso in questa direzione principalmente per aiutare i suoi compaesani italiani, visto che il paese si stava spopolando. Ad esempio, l’asilo era destinato a chiudere, ma grazie ai figli dei migranti questo non è accaduto.

      Tutto questo mi ha fatto pensare al sindaco di Riace, come ad un vero e proprio manager illuminato, oltre che ad una persona di una generosità smisurata, non certamente ad un criminale da punire ed umiliare in questo modo.

      Lunga vita a Riace (grazie alla rete)

      Dovremmo essere tutti riconoscenti al sindaco Riace, ma non solo esprimendogli solidarietà con le parole. Ho pertanto deciso di concludere questo articolo con delle proposte concrete che possano aiutare Lucano, i riacesi e i migranti che vi abitano. Ognuno può dare il proprio “give-back” al Sindaco Lucano, in base al proprio vissuto, ai propri interessi, alle proprie competenze. Ad esempio, per il lavoro che faccio, a me viene facile pensare che la Digital Transformation che propongo alle aziende possa aiutare in modo decisivo Riace e tutte le “Riaci del mondo” che vogliano provare ad integrare e non a respingere i migranti. Penso ad esempio che Riace meriti una piattaforma web che implementi almeno tre funzioni principali:
      1. Funzione divulgativa, culturale. E’ necessario far conoscere le storie delle persone, perché si è stranieri solo fino a quando non ci si conosce l’un l’altro. Per questo penso, ad esempio, ad una web radio, magari ispirata all’esperienza di Radio Aut di Peppino Impastato, visto che Mimmo lo considera, giustamente, una figura vicina alle sue istanze. Contestualmente, sempre attraverso la piattaforma web farei conoscere, tramite dei video molto brevi, le storie e le testimonianze dei singoli migranti
      2. Funzione di sostentamento economico. Ogni migrante infatti potrebbe avere un profilo pubblico che potrebbe permettere a tutti noi non solo di conoscere la sua storia ma anche di aiutarlo economicamente, comprando i suoi prodotti, che possano essere di artigianato o di beni di consumo come l’olio locale di Riace. Insomma, una piattaforma che funzionerebbe da e-commerce, seppur con una forte valenza etica. Infatti il “made in Riace”, potrebbe diventare un brand, la garanzia che un commercio equo e solidale possa essere veramente possibile, anche in questo mondo
      3. Funzione di offerta lavoro. La piattaforma potrebbe ospitare un sistema che metta in comunicazione la domanda con l’offerta di lavoro. Penso ai tanti lavori e lavoretti di cui la popolazione locale potrebbe avere bisogno, attratta magari dai costi più bassi: il muratore, l’elettricista, l’idraulico, etc. Per non parlare di professioni più qualificanti, perché spesso ad imbarcarsi nei viaggi della speranza ci sono anche molti dottori e professionisti

      Ed infine, sempre grazie alla rete, i migranti di un paesino sperduto come Riace, potrebbero tenere lezioni di inglese e francese, tramite skype, a milioni di italiani (che ne hanno veramente bisogno). Credo infine che -rimanendo in tema- potrebbero nascere a Riace, come in tanti altri paesi del nostro belpaese, anche dei laboratori di informatica visto che attualmente moltissime società per trovare un programmatore disponibile sono costrette a cercarlo fuori Italia, data la spropositata differenza tra la domanda e l’offerta in questo settore in continua evoluzione.

      Se al sindaco Lucano interessa, il mio personale give-back è tutto e solo per lui.

      Conclusioni

      Il ministro Salvini, che può tutto, ha definito il sindaco di Riace “uno zero”, pensando di offenderlo ma è evidente che non lo conosce affatto. Come non conosce affatto le dinamiche della rete, nonostante il suo entourage social si vanti di aver creato il profilo pubblico su facebook con più followers. Ma é proprio questo lo sbaglio di fondo, il grande fraintendimento: la rete non è mai stata pensata in ottica di “followers e following”, questa è una aberrazione dei social network che nulla ha a che fare con la rete e le sue origini. La rete è nata per condividere, collaborare, comunicare, contaminare. Ricordiamoci che grazie alla rete, in pochissimi giorni, si sono trovati i fondi per permettere ai figli dei migranti di usufruire della mensa scolastica dei propri bambini, che leghista di Lodi gli aveva tolto. Siamo tutti degli zero, ministro Salvini, non solo il sindaco Riace. Ma lei, sig. ministro, non ha minimamente idea di cosa siano capace di fare gli zero, quando si uniscono con gli uni, se lo faccia dire da un informatico. La rete è solidale by design.

      https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2018/11/11/riace-economia-rivincita-degli-zero/?refresh_ce=1

    • L’immigration rapporte 3 500 euros par individu chaque année

      D’après un rapport de l’OCDE dévoilé par La Libre Belgique, l’immigration « rapporterait » en moyenne près de 3.500 euros de rentrées fiscales par individu par an . Toutefois, l’insertion d’une partie d’entre eux ferait toujours l’objet de discrimination : un véritable gâchis pour les économistes et les observateurs.

      https://www.levif.be/actualite/belgique/l-immigration-rapporte-3-500-euros-par-individu-chaque-annee/article-normal-17431.html?cookie_check=1545235756

      signalé par @kassem :
      https://seenthis.net/messages/745460

    • The progressive case for immigration. Whatever politicians say, the world needs more immigration, not less

      “WE CAN’T restore our civilisation with somebody else’s babies.” Steve King, a Republican congressman from Iowa, could hardly have been clearer in his meaning in a tweet this week supporting Geert Wilders, a Dutch politician with anti-immigrant views. Across the rich world, those of a similar mind have been emboldened by a nativist turn in politics. Some do push back: plenty of Americans rallied against Donald Trump’s plans to block refugees and migrants. Yet few rich-world politicians are willing to make the case for immigration that it deserves: it is a good thing and there should be much more of it.

      Defenders of immigration often fight on nativist turf, citing data to respond to claims about migrants’ damaging effects on wages or public services. Those data are indeed on migrants’ side. Though some research suggests that native workers with skill levels similar to those of arriving migrants take a hit to their wages because of increased migration, most analyses find that they are not harmed, and that many eventually earn more as competition nudges them to specialise in more demanding occupations. But as a slogan, “The data say you’re wrong” lacks punch. More important, this narrow focus misses immigration’s biggest effects.

      Appeal to self-interest is a more effective strategy. In countries with acute demographic challenges, migration is a solution to the challenges posed by ageing: immigrants’ tax payments help fund native pensions; they can help ease a shortage of care workers. In Britain, for example, voters worry that foreigners compete with natives for the care of the National Health Service, but pay less attention to the migrants helping to staff the NHS. Recent research suggests that information campaigns in Japan which focused on these issues managed to raise public support for migration (albeit from very low levels).

      Natives enjoy other benefits, too. As migrants to rich countries prosper and have children, they become better able to contribute to science, the arts and entrepreneurial activity. This is the Steve Jobs case for immigration: the child of a Muslim man from Syria might create a world-changing company in his new home.

      Yet even this argument tiptoes around the most profound case for immigration. Among economists, there is near-universal acceptance that immigration generates huge benefits. Inconveniently, from a rhetorical perspective, most go to the migrants themselves. Workers who migrate from poor countries to rich ones typically earn vastly more than they could have in their country of origin. In a paper published in 2009, economists estimated the “place premium” a foreign worker could earn in America relative to the income of an identical worker in his native country. The figures are eye-popping. A Mexican worker can expect to earn more than 2.5 times her Mexican wage, in PPP-adjusted dollars, in America. The multiple for Haitian workers is over 10; for Yemenis it is 15 (see chart).

      No matter how hard a Haitian worker labours, he cannot create around him the institutions, infrastructure and skilled population within which American workers do their jobs. By moving, he gains access to all that at a stroke, which massively boosts the value of his work, whether he is a software engineer or a plumber. Defenders of open borders reckon that restrictions on migration represent a “trillion dollar bills left on the pavement”: a missed opportunity to raise the output of hundreds of millions of people, and, in so doing, to boost their quality of life.
      We shall come over; they shall be moved

      On what grounds do immigration opponents justify obstructing this happy outcome? Some suppose it would be better for poor countries to become rich themselves. Perhaps so. But achieving rich-world incomes is the exception rather than the rule. The unusual rapid expansion of emerging economies over the past two decades is unlikely to be repeated. Growth in China and in global supply chains—the engines of the emerging-world miracle—is decelerating; so, too, is catch-up to American income levels (see chart). The falling cost of automating manufacturing work is also undermining the role of industry in development. The result is “premature deindustrialisation”, a phenomenon identified by Dani Rodrik, an economist, in which the role of industry in emerging markets peaks at progressively lower levels of income over time. However desirable economic development is, insisting upon it as the way forward traps billions in poverty.

      An argument sometimes cited by critics of immigration is that migrants might taint their new homes with a residue of the culture of their countries of origin. If they come in great enough numbers, this argument runs, the accumulated toxins could undermine the institutions that make high incomes possible, leaving everyone worse off. Michael Anton, a national-security adviser to Donald Trump, for example, has warned that the culture of “third-world foreigners” is antithetical to the liberal, Western values that support high incomes and a high quality of life.

      This argument, too, fails to convince. At times in history Catholics and Jews faced similar slurs, which in hindsight look simply absurd. Research published last year by Michael Clemens and Lant Pritchett of the Centre for Global Development, a think-tank, found that migration rules tend to be far more restrictive than is justified by worries about the “contagion” of low productivity.

      So the theory amounts to an attempt to provide an economic basis for a cultural prejudice: what may be a natural human proclivity to feel more comfortable surrounded by people who look and talk the same, and to be disconcerted by rapid change and the unfamiliar. But like other human tendencies, this is vulnerable to principled campaigns for change. Americans and Europeans are not more deserving of high incomes than Ethiopians or Haitians. And the discomfort some feel at the strange dress or speech of a passer-by does not remotely justify trillions in economic losses foisted on the world’s poorest people. No one should be timid about saying so, loud and clear.

      https://www.economist.com/finance-and-economics/2017/03/18/the-progressive-case-for-immigration?fsrc=scn/tw/te/bl/ed
      #USA #Etats-Unis

    • Migrants contribute more to Britain than they take, and will carry on doing so. Reducing immigration will hurt now, and in the future

      BRITAIN’S Conservative Party has put reducing immigration at the core of its policies. Stopping “uncontrolled immigration from the EU”, as Theresa May, the prime minister, put it in a speech on September 20th, appears to be the reddest of her red lines in the negotiations over Brexit. Any deal that maintains free movement of people, she says, would fail to respect the result of the Brexit referendum.

      In her “Chequers” proposal, Mrs May outlined her vision of Britain’s future relationship with the block, which would have placed restrictions on immigration from the EU. But the block rejected it as unworkable, and the stalemate makes the spectre of a chaotic Brexit next March without any agreement far more likely.

      Even if she were to manage to reduce migration significantly, however, Mrs May’s successors might come to regret it. According to the government’s latest review on immigration, by the Migration Advisory Committee (MAC), immigrants contribute more to the public purse on average than native-born Britons do. Moreover, European newcomers are the most lucrative group among them. The MAC reckons that each additional migrant from the European Economic Area (EEA) will make a total contribution to the public purse of approximately £78,000 over his or her lifetime (in 2017 prices). Last year, the average adult migrant from the EEA yielded £2,370 ($3,000) more for the Treasury than the average British-born adult did. Even so, the MAC recommended refining the current immigration system to remove the cap on high-skilled migrants and also said that no special treatment should be given to EU citizens.

      With Britain’s population ageing, the country could do with an influx of younger members to its labour force. If net migration were reduced to the Tories’ target of fewer than 100,000 people per year by 2030, every 1,000 people of prime working age (20-64) in Britain would have to support 405 people over the age of 65. At the present level of net migration, however, those 1,000 people would have to support only 389. This gap of 16 more pension-aged people rises to 44 by 2050. The middle-aged voters who tend to support the Conservatives today are the exact cohort whose pensions are at risk of shrinking if their desired immigration policies were put into practice.

      https://www.economist.com/graphic-detail/2018/09/26/migrants-contribute-more-to-britain-than-they-take-and-will-carry-on-doing-so?fsrc=scn/tw/te/bl/ed/migrantscontributemoretobritainthantheytakeandwillcarryondoingsodailychar
      #UK #Angleterre

    • Étude sur l’impact économique des migrants en Europe : « Les flux migratoires sont une opportunité et non une charge »

      Pour #Ekrame_Boubtane, la co-auteure de l’étude sur l’impact positif de la migration sur l’économie européenne (https://seenthis.net/messages/703437), « les flux migratoires ont contribué à améliorer le niveau de vie moyen ».

      Selon une étude du CNRS, les migrants ne sont pas une charge économique pour l’Europe. L’augmentation du flux de migrants permanent produit même des effets positifs. C’est ce que démontre Ekrame Boubtane, économiste, maître de conférence à l’Université Clermont Auvergne, co-auteure de l’étude sur l’impact positif de la migration sur l’économie européenne.

      Cette étude intervient alors que la Hongrie, dirigée par Viktor Orban, met en place une nouvelle loi travail qui autorise les employeurs à demander à leurs salariés 400 heures supplémentaires par an, payées trois ans plus tard. Cette disposition, adoptée dans un contexte de manque de main d’oeuvre, est dénoncée par ses opposants comme un « droit à l’esclavage » dans un pays aux salaires parmi les plus bas de l’UE

      500 000 Hongrois sont partis travailler à l’Ouest ces dernières années, là où les salaires sont deux à trois fois plus élevés. La nouvelle loi travail portée par le gouvernement hongrois est-elle une solution au manque de main d’oeuvre dans le pays selon vous ?

      Ekrame Boubtane : C’est un peu curieux de répondre à un besoin de main d’oeuvre en remettant en cause les droits des travailleurs qui restent en Hongrie. Je pense que c’est un mauvais signal qu’on envoie sur le marché du travail hongrois en disant que les conditions de travail dans le pays vont se détériorer encore plus, incitant peut-être même davantage de travailleurs hongrois à partir dans d’autres pays.

      Ce qui est encore plus inquiétant, c’est que le gouvernement hongrois a surfé politiquement sur une idéologie anti-immigration [avec cette barrière à la frontière serbe notamment où sont placés des barbelés, des miradors...] et aujourd’hui il n’a pas une position rationnelle par rapport au marché du travail en Hongrie. Proposer ce genre de mesure ne semble pas très pertinent du point de vue de l’ajustement sur le marché du travail.

      En Hongrie, six entreprises sur dix sont aujourd’hui en situation de fragilité. La pénurie de main d’oeuvre dans certains secteurs en tension pourrait-elle être compensée par l’immigration aujourd’hui ?

      Je suppose que la législation hongroise en matière de travail est très restrictive pour l’emploi de personnes étrangères, mais ce qu’il faut aussi préciser c’est que les Hongrois qui sont partis travailler dans les autres pays européens n’ont pas forcément les qualifications ou les compétences nécessaires dans ces secteurs en tension. Ce sont des secteurs (bâtiment, agroalimentaire) qui ont besoin de main d’oeuvre. Ce sont des emplois relativement pénibles, payés généralement au niveau minimum et qui ne sont pas très attractifs pour les nationaux.

      Les flux migratoires sont une source de main d’oeuvre flexible et mobile. L’Allemagne comme la France ont toujours eu un discours plutôt rationnel et un peu dépassionné de la question migratoire. Je pense à une initiative intéressante en Bretagne où le secteur agroalimentaire avait des difficultés pour pourvoir une centaine de postes. Le pôle emploi local n’a pas trouvé les travailleurs compétents pour ces tâches-là. Le Conseil régional Bretagne et Pôle Emploi ont donc investi dans la formation de migrants, principalement des Afghans qui venaient d’avoir la protection de l’Ofpra [Office français de protection des réfugiés et apatrides]. Ils les ont formés, et notamment à la maîtrise de la langue, pour pourvoir ces postes.

      Les flux migratoires peuvent donc être une chance pour les économies européennes ?

      C’est ce que démontrent tous les travaux de recherches scientifiques. Lorsque l’on va parler de connaissances ou de savoir plutôt que d’opinions ou de croyances, les flux migratoires dans les pays européens sont une opportunité économique et non pas une charge. Lorsqu’on travaille sur ces questions-là, on voit clairement que les flux migratoires ont contribué à améliorer le niveau de vie moyen ou encore le solde des finances publiques.

      On oublie souvent que les migrants - en proportion de la population - permettent de réduire les dépenses de retraite donc ils permettent de les financer. Généralement on se focalise sur les dépenses et on ne regarde pas ce qui se passe du côté des recettes, alors que du côté des recettes on établit clairement que les migrants contribuent aussi aux recettes des administrations publiques et donc, finalement, on a une implication des flux migratoires sur le solde budgétaire des administrations publiques qui est positif et clairement identifié dans les données.

      https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/migrants/etude-sur-l-impact-economique-des-migrants-en-europe-les-flux-migratoir

    • Une étude démontre que les migrants ne sont pas un fardeau pour les économies européennes

      Le travail réalisé par des économistes français démontre qu’une augmentation du flux de migrants permanents à une date donnée produit des effets positifs jusqu’à quatre ans après.

      Une étude réalisée par des économistes français et publiée dans le magazine Sciences advences, mercredi 20 juin, démontre que les migrants ne sont pas un fardeau pour les économies européennes. Les trois chercheurs du CNRS, de l’université de Clermont-Auvergne et de Paris-Nanterre se sont appuyés sur les données statistiques de quinze pays de l’Europe de l’Ouest, dont la France. Les chercheurs ont distingué les migrants permanents des demandeurs d’asile, en situation légale le temps de l’instruction de leur demande et considérés comme résidents une fois leur demande acceptée.

      Pendant la période étudiée entre 1985 et 2015, l’Europe de l’Ouest a connu une augmentation importante des flux de demandeurs d’asile à la suite des guerres dans les Balkans et à partir de 2011, en lien avec les Printemps arabes et le conflit syrien. Les flux de migrants, notamment intracommunautaires, ont eux augmenté après l’élargissement de l’Union européenne vers l’Est en 2004.
      Une hausse du flux de migrants produits des effets positifs

      L’étude démontre qu’une augmentation du flux de migrants permanents à une date donnée produit des effets positifs jusqu’à quatre ans après : le PIB par habitant augmente, le taux de chômage diminue et les dépenses publiques supplémentaires sont plus que compensées par l’augmentation des recettes fiscales. Dans le cas des demandeurs d’asile, les économistes n’observent aucun effet négatif. L’impact positif se fait sentir au bout de trois à cinq ans, lorsqu’une partie des demandeurs obtient l’asile et rejoint la catégorie des migrants permanents.

      « Il n’y a pas d’impacts négatifs. Les demandeurs d’asile ne font pas augmenter le chômage, ne réduisent pas le PIB par tête et ils ne dégradent pas le solde des finances publiques. Il y a des effets positifs sur les migrations qui sont un petit peu polémiques parce que tout le monde n’y croit pas. Ce qui est intéressant, c’est de voir que cela ne dégrade pas la situation des finances publiques européennes » a expliqué, jeudi 21 juin sur franceinfo, Hippolyte d’Albis, directeur de recherche au CNRS, professeur à l’École d’économie de Paris et co-auteur de l’étude sur l’impact des demandeurs d’asile sur l’économie.
      Investir pour rapidement intégrer le marché du travail

      « Trente ans d’accueil de demandeurs d’asile dans les quinze principaux pays d’Europe nous révèlent qu’il n’y a pas eu d’effets négatifs, explique Hippolyte d’Albis. Evidemment il y a un coût, ces personnes vont être logées, parfois recevoir une allocation, mais cet argent va être redistribué dans l’économie. Il ne faut pas voir qu’un côté, nous on a vu le côté des impôts et on a vu que ça se compensait. L’entrée sur le marché du travail, donc la contribution à l’économie va prendre du temps et ce n’est pas efficace. Il vaut mieux investir pour qu’il puisse rapidement intégrer le marché du travail. »

      En 2015, un million de personnes ont demandé l’asile dans l’un des pays de l’Union européenne selon le Haut-commissariat des Nations unies pour les réfugiés, ce qui est un record. Les chercheurs estiment donc qu’il est peu probable que la crise migratoire en cours soit une charge économique pour les économies européennes. Elle pourrait être au contraire une opportunité.

      https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/migrants/une-etude-demontre-que-les-migrants-ne-sont-pas-un-fardeau-pour-les-eco

    • L’impact économique positif des réfugiés sur les économies européennes

      En cette journée mondiale des réfugiés, la Bulle Economique s’intéresse à leur impact économique dans les pays d’Europe. Une étude récente montre qu’ils sont loin d’être un « fardeau ». Au contraire.

      Dans un récent tweet, la présidente du Rassemblement National se scandalisait de lire que les comptes de la Sécurité sociale allaient être sérieusement grevés par les mesures destinées aux gilets jaunes. « Incroyable de lire ça, écrit Marine Le Pen, et l’AME ça ne creuse pas le trou de la Sécu ? »

      L’AME, c’est l’Aide Médicale d’Etat, proposée aux étrangers en situation irrégulière pour leur permettre d’accéder aux soins, et abondé non pas par le budget de la sécurité sociale, mais par celui de l’Etat. Une erreur rapidement pointée du doigt par des députés, qui ont ironiquement proposé à Marine Le Pen de s’intéresser de plus près à ces deux budgets discutés tous les ans au Parlement.

      Mais au delà de cette question démagogique proposée au détour d’un tweet, la présidente du parti d’extrême droite réutilise l’argument de l’impact économique soi disant trop lourd qu’auraient les réfugiés sur les finances publiques de la France. Argument remis en cause par trois économistes du CNRS dont les travaux ont été publiés il y a un an tout juste dans la revue Sciences. Une étude à retrouver en cliquant ici.
      Un regard macro-économique

      Hippolyte d’Albis, Ekrame Boubtane et Dramane Coulibaly ont appliqué aux flux migratoires des réfugiés, les méthodes traditionnellement utilisées pour mesurer l’impact macro-économique des politiques structurelles. Ils l’ont fait pour 15 pays européens depuis 1985 jusqu’en 2015, des données statistiques qui permettent de mesurer l’effet de ces flux sur les finances publiques, le PIB par habitant et le taux de chômage. On parle ici de personnes ayant fait une demande d’asile, et présentes sur le territoire le temps de l’instruction de cette demande. Période pendant laquelle ils n’ont pas le droit de travailler. Soit, pour la France une moyenne de 20 000 entrées sur le territoire par an environ, contre 200 000 migrations de travail légales.

      Au total ces 30 ans de données statistiques font apparaître que les dépenses publiques causées par ces réfugiées sont plus que compensées par les gains économiques induits par ces mêmes réfugiés. Les auteurs font ainsi valoir que les chocs d’immigration comme a pu en connaitre l’Europe au moment de ce qu’on a appelé la crise des réfugiés, dont le pic a été atteint en 2015, ces chocs ont eu des effets positifs : ils ont augmenté le PIB par habitant, ont réduit le taux de chômage, et amélioré les finances publiques.

      S’il est vrai qu’ils induisent des dépenses publiques supplémentaires pour les accueillir, les accompagner ou les soigner le cas échéant, ce qu’ils rapportent en revenus supplémentaires, notamment fiscaux, compensent, parfois largement, leur coût. Cet impact globalement positif dure longtemps : parfois 3 à 7 années après leur arrivée, selon les auteurs de l’étude.

      Les auteurs, mais aussi d’autres chercheurs dans d’autres études qui vont dans le même sens (notamment cette étude de Clemens, Huang et Graham qui montre que les réfugiés peuvent être d’une immense contribution économique dans les pays dans lesquels ils s’installent) font remarquer que plus les états investissent tôt dans l’accueil, la formation et l’accompagnement des réfugiés, meilleure sera leur intégration et leur bénéfice économique final.
      L’Europe de mauvaise volonté

      Ce qui ressort de cette étude, c’est que l’Europe peut tout à fait se permettre d’accueillir ces demandeurs d’asile, car leur flux est quoiqu’on en dise très limité, comparé par exemple aux afflux de populations réfugiées qu’ont à supporter des pays comme le Jordanie ou le Liban.

      Le Liban dont les 4 millions d’habitants ont vu affluer un million et demi de réfugiés syriens. Les conséquences de ce « choc d’immigration » ( et dans ce cas l’expression est juste) pour un petit Etat comme le Liban, sont très différentes : le taux de chômage a augmenté, la pauvreté s’est répandue, notamment à cause d’une plus grande concurrence sur le marché du travail selon le FMI, la croissance a ralenti, quand la dette du Liban s’est alourdie à 141 % du PIB. A tel point que la communauté internationale s’est engagée à soutenir l’économie libanaise, qui a supporté, à elle seule, la plus grande partie du flux de réfugiés syriens.

      Rien que pour cela, constate l’un des auteurs de l’étude du CNRS, l’Europe, qui fournit un quart du PIB mondial, devrait modérer ses discours parfois alarmistes. En parlant de « crise des réfugiés », elle accrédite le fait que leur afflux serait un danger économique, s’exonérant par là d’autres impératifs, humanitaires et moraux.*

      https://www.franceculture.fr/emissions/la-bulle-economique/limpact-economique-positif-des-refugies-sur-les-economies-europeennes

    • La « crise migratoire », une opportunité économique pour les pays européens

      S’il est une question qui divise nombre d’Etats européens depuis plusieurs années, c’est bien celle de l’accueil des migrants, à l’aune de l’impact économique des flux migratoires, objet de nombreux désaccords, voire de fantasmes. Alors, qu’en est-il réellement ? Une récente étude orchestrée notamment par le CNRS vient tordre le cou aux clichés, montrant qu’une augmentation de flux de migrants permanents est synonyme d’augmentation de PIB par habitant et de diminution du taux de chômage.

      L’accueil des migrants et leur intégration constitue-t-il une charge pour les économies européennes ? La réponse est non, selon une étude réalisée notamment par #Hippolyte_d’Albis, directeur de recherches au CNRS (centre national de la recherche scientifique). Dans cette étude effectuée avec ses collègues #Ekrame_Boubtane, enseignant-chercheur à l’Université de Clermont-Auvergne et #Dramane_Coulibaly, enseignant-chercheur à l’Université de Paris-Nanterre, l’accent est mis sur les impacts macro-économiques de l’immigration en Europe et en France de 1985 à 2015.

      « L’essentiel de l’économie repose sur l’interaction entre les gens »

      Leur travail suggère que l’immigration non européenne a un effet positif sur la #croissance_économique, et cela se vérifie plus particulièrement encore dans le cas de la migration familiale et féminine.

      En 2015, plus d’un million de personnes ont demandé l’asile dans l’un des pays de l’Union européenne, ce qui en fait une année record. Des arrivées qui ont provoqué nombre d’interprétations et de fantasmes.

      Pour y répondre, des études s’étaient déjà penchées sur la question. Mais, avec celle qui nous intéresse, le modus operandi est nouveau. Il diffère en effet des approches classiques : ces dernières comparent les #impôts payés par les immigrés aux transferts publics qui leur sont versés, mais ne tiennent pas compte des interactions économiques. « Pour évaluer l’immigration, les méthodes sont souvent d’ordre comptable. Mais l’essentiel de l’économie est fait d’interactions entre les gens. Nous souhaitions intégrer cette approche dans l’évaluation », explique Hippolyte d’Albis.

      Quid du mode opératoire ?

      Les chercheurs ont eu recours à un modèle statistique introduit par Christopher Sims, lauréat en 2011 du prix de la Banque de Suède en sciences économiques en mémoire d’Alfred Nobel. Très utilisé pour évaluer les effets des politiques économiques, il laisse parler les données statistiques en imposant très peu d’a priori et permet d’évaluer les effets économiques sans imposer d’importantes restrictions théoriques.

      Les données macroéconomiques et les données de flux migratoires utilisées proviennent d’Eurostat et de l’OCDE, pour concerner quinze pays d’Europe de l’Ouest, dont l’Allemagne, l’Autriche, l’Espagne, la France, l’Italie et le Royaume-Uni.

      Les chercheurs ont distingué les flux des demandeurs d’asile de ceux des autres migrants. Ils ont évalué les flux de ces derniers par le solde migratoire, qui ne prend pas en compte les demandeurs d’asile.

      Les flux de demandeurs d’asile concernent des personnes en situation légale le temps de l’instruction de leur demande dans le pays d’accueil, qui ne les considérera comme résidents que si leur demande d’asile est acceptée.
      Augmentation du PIB par habitant, diminution du taux de chômage…

      L’étude montre qu’un accroissement de flux de migrants permanents (hors demandeurs d’asile) à une date donnée produit des #effets_positifs jusqu’à quatre ans après cette date : le #PIB par habitant augmente, le taux de #chômage diminue.

      Ainsi, en Europe de l’Ouest, avec un migrant pour 1.000 habitants, le PIB augmente immédiatement de 0,17 % par citoyen. Un pourcentage qui monte jusqu’à 0,32 % en année 2. Le #taux_de_chômage, lui, baisse de 0,14 points avec un effet significatif jusqu’à trois ans après.

      En résumé, les #dépenses_publiques supplémentaires entraînées par l’augmentation du flux de migrants permanents s’avèrent au final bénéfiques. Les dépenses augmentent, mais elles sont plus que compensées par l’augmentation des #recettes_fiscales. Dans le cas des demandeurs d’asile, aucun effet négatif n’est observé et l’effet devient positif au bout de trois à cinq ans, lorsqu’une partie des demandeurs obtient l’asile et rejoint la catégorie des migrants permanents.

      Comment expliquer cela ? Les demandeurs d’asile rentrent plus tardivement sur le #marché_du_travail, car ils n’y sont généralement pas autorisés lorsque leur demande d’asile est en cours d’instruction. Leur impact semble positif lorsqu’ils obtiennent le statut de résident permanent.

      Et Hippolyte d’Albis d’insister : « les résultats indiquent que les flux migratoires ne sont pas une charge économique sur la période étudiée. En moyenne, pour les quinze pays européens considérés, nous identifions des effets positifs des flux migratoires ».

      De l’urgence de réorienter le débat

      Evidemment, l’#accueil a un #coût, rappelle le chercheur. Mais, l’accueil des demandeurs d’asile n’a pas dégradé la situation financière des Etats. Cela corrobore une intuition de l’Histoire, pour Hippolyte d’Albis. « Les économies ont toujours été fortement impactées par des guerres, des crises financières ou autres… Mais historiquement, les migrations n’ont jamais détruit les économies des pays riches. C’est une fausse idée de croire cela. Certes, il y a beaucoup d’enjeux autour des migrations. Mais nous avons envie de dire aux gouvernements de se concentrer sur les questions diplomatiques et territoriales, sans s’inquiéter d’hypothétiques effets négatifs sur l’économie ».

      En résumé, « la crise migratoire en cours pourrait être une opportunité économique pour les pays européens ». Y compris dans l’Hexagone où les effets bénéficient aux revenus moyens, et ce, bien que l’immigration en France ait une caractéristique particulière : 50 % du flux migratoire est d’ordre familial. 25 % de personnes viennent pour étudier et 10 % pour le travail.

      https://guitinews.fr/data/2019/10/29/la-crise-migratoire-une-opportunite-economique-pour-les-pays-europeens

      –-------------

      L’étude dont on parle dans cet article :
      Macroeconomic evidence suggests that asylum seekers are not a “burden” for Western European countries

      This paper aims to evaluate the economic and fiscal effects of inflows of asylum seekers into Western Europe from 1985 to 2015. It relies on an empirical methodology that is widely used to estimate the macroeconomic effects of structural shocks and policies. It shows that inflows of asylum seekers do not deteriorate host countries’ economic performance or fiscal balance because the increase in public spending induced by asylum seekers is more than compensated for by an increase in tax revenues net of transfers. As asylum seekers become permanent residents, their macroeconomic impacts become positive.

      https://advances.sciencemag.org/content/4/6/eaaq0883.full

    • The Death of Asylum and the Search for Alternatives

      Une réflexion à partir du livre de Hansen: "A Modern Migration Theory. An Alternative Economic Approach to Failed EU Policy"

      Hansen documents what happened next in Sweden. First, the Swedish state ended austerity in an emergency response to the challenge of hosting so many refugees. As part of this, and as a country that produces its own currency, the Swedish state distributed funds across the local authorities of the country to help them in receiving the refugees. And third, this money was spent not just on refugees, but on the infrastructure needed to support an increased population in a given area – on schools, hospitals, and housing. This is in the context of Sweden also having a welfare system which is extremely generous compared to Britain’s stripped back welfare regime.

      https://seenthis.net/messages/912640

    • Les demandeurs d’asile ne sont pas un « fardeau » pour les économies européennes

      L’arrivée de demandeurs d’asile entraîne-t-elle une dégradation des performances économiques et des finances publiques des pays européens qui les accueillent ? La réponse est non, selon des économistes du CNRS, de l’Université Clermont-Auvergne et de l’Université Paris-Nanterre 1, qui estiment un modèle statistique dynamique à partir de 30 ans de données de 15 pays d’Europe de l’Ouest. Au contraire, l’impact économique tend à être positif lorsqu’une partie d’entre eux deviennent résidents permanents. Cette étude est publiée dans Science Advances le 20 juin 2018.

      Plus d’un million de personnes ont demandé l’asile dans l’un des pays de l’Union européenne en 2015, ce qui en fait une année record. Quel est l’impact économique et fiscal des flux migratoires ? Cette étude n’est pas la première à se pencher sur la question 2, mais la méthode utilisée est nouvelle. En effet, les approches traditionnelles sont principalement comptables : elles comparent les impôts payés par les immigrés aux transferts publics qui leur sont versés mais ne tiennent pas compte des interactions économiques 3.

      Les chercheurs ont eu recours à un modèle statistique introduit par Christopher Sims, lauréat en 2011 du prix de la Banque de Suède en sciences économiques en mémoire d’Alfred Nobel. Très utilisé pour évaluer les effets des politiques économiques, il laisse parler les données statistiques en imposant très peu d’a priori. Les données macroéconomiques et les données de flux migratoires utilisées proviennent d’Eurostat et de l’OCDE et concernent 15 pays d’Europe de l’Ouest : Allemagne, Autriche, Belgique, Danemark, Espagne, Finlande, France, Irlande, Islande, Italie, Norvège, Pays-Bas, Portugal, Royaume-Uni et Suède.

      Les chercheurs ont distingué les flux de demandeurs d’asile de ceux des autres migrants. Ils ont évalué les flux de ces derniers par le solde migratoire, qui ne prend pas en compte les demandeurs d’asile. Les flux de demandeurs d’asile concernent des personnes en situation légale le temps de l’instruction de leur demande dans le pays d’accueil, qui ne les considèrera comme résident que si leur demande d’asile est acceptée.

      Au cours de la période étudiée (1985-2015), l’Europe de l’Ouest a connu une augmentation importante des flux de demandeurs d’asile suite aux guerres dans les Balkans entre 1991 et 1999 et à partir de 2011 à la suite des Printemps arabes et du conflit syrien. D’autre part, les flux de migrants, notamment intracommunautaires, ont augmenté après l’élargissement de l’UE vers l’est en 2004. Autant d’occasions de tester les conséquences d’une augmentation non anticipée des flux migratoires sur le PIB par habitant, le taux de chômage et les finances publiques.

      Les chercheurs montrent qu’une augmentation de flux de migrants permanents (c’est-à-dire hors demandeurs d’asile) à une date donnée produit des effets positifs jusqu’à quatre ans après cette date : le PIB par habitant augmente, le taux de chômage diminue et les dépenses publiques supplémentaires sont plus que compensées par l’augmentation des recettes fiscales. Dans le cas des demandeurs d’asile, aucun effet négatif n’est observé et l’effet devient positif au bout de trois à cinq ans, lorsqu’une partie des demandeurs obtient l’asile et rejoint la catégorie des migrants permanents.

      Selon ces résultats, il est peu probable que la crise migratoire en cours soit une charge pour les économies européennes : au contraire, elle pourrait être une opportunité économique.

      https://www.cnrs.fr/fr/les-demandeurs-dasile-ne-sont-pas-un-fardeau-pour-les-economies-europeennes

  • Des réfugiés, piégés par la neige, meurent de froid

    Une dizaine de réfugiés syriens — dont des femmes et des enfants — ont péri dans les montagnes libanaises enneigées.


    https://www.lematin.ch/monde/refugies-pieges-neige-meurent-froid/story/21301145
    #Liban #violent_borders #frontières #montagne #neige #mourir_de_froid #mourir_aux_frontières #réfugiés_syriens #asile #migrations #réfugiés #morts #décès #Syrie

    Petit commentaire sur qui est l’ultime #responsable dans cette histoire... certainement pas la neige, ni le froid ni la montagne, mais bien le régime migratoire, donc tous les Etats nations qui ferment les frontières.
    Ils ne sont pas piégés par la neige, mais par les frontières fermées !

    #piège_territorial

  • 10 reasons why borders should be opened | #François_Gemenne | TEDxLiège
    https://www.youtube.com/embed/RRcZUzZwZIw
    #frontières #ouverture_des_frontières #migrations #asile #réfugiés #libre_circulation

    Les raisons :
    1. raisons humanitaires
    2. raison pragmatique pour combattre les passeurs et les trafiquants
    3. car les fermer, c’est inutile et inefficace
    4. raison économique
    5. pour contrer la migration illégale
    6. raison sociale : moins de travailleurs travaillant en dessous du minimum salarial
    7. raison financière : les frontières fermées sont un gaspillage d’argent
    8. raison #éthique : déclaration universellle des droits de l’homme (art. 13) —>jamais implementé à cause des frontières fermées... c’est quoi le point de quitter un pays si on ne peut pas entrer dans un autre ? En ouvrant les frontières, on reconnaîtrait que la migration est un droit humain —> c’est un projet de #liberté
    9. raison éthique : #injustice dans le fait que le destin d’une personne est déterminée par l’endroit où elle est née —> ouverture des frontières = projet d’#égalité
    10. raison éthique : nous sommes coincés par un « paradigme d’immobilité » (migration est un phénomène structurel et fondamental dans un monde globalisé). On continue à penser aux frontières comme à un manière de séparer « nous » de « eux » comme si ils n’étaient pas une humanité, mais seulement une addition de « nous » et « eux » #cosmopolitisme #fraternité #TedX

    • zibarre cte article !

      Exemple : moins de travailleurs travaillant en dessous du minimum salarial  ? ? ? ? ? ?
      L’exemple des travailleurs détachés, travaillant en dessous du minimum salarial, en France c’est bien la conséquence de l’ouverture des frontières ! Non ?

      L’importation d’#esclaves étrangers n’était pas suffisante pour l’#union_européenne.

      Je suppose que pour #François_Gemenne la fraude fiscale internationale est une bonne chose. L’importation des #OGM, des médicaments frelatés, et autres #glyphosates, aussi.

    • Ouvrir les frontières aux humains, une évidence. Comparer ça aux effets de la directive Bolkestein est scandaleux et amoral. #seenthis permet l’effacement des messages, n’hésitez pas.

    • Sur cette question d’ouverture de frontières, il y a aussi un livre d’éthique que je recommande :


      http://www.ppur.org/produit/810/9782889151769

      Dont voici un extrait en lien avec la discussion ci-dessus :

      « La discussion sur les bienfaits économiques de l’immigration est souvent tronquée par le piège du gâteau. Si vous invitez plus de gens à votre anniversaire, la part moyenne du gâteau va rétrécir. De même, on a tendance à penser que si plus de participants accèdent au marché du travail, il en découlera forcément une baisse des salaires et une réduction du nombre d’emplois disponible.
      Cette vision repose sur une erreur fondamentale quant au type de gâteau que représente l’économie, puisque, loin d’être de taille fixe, celui-ci augmente en fonction du nombre de participants. Les immigrants trouvant un travail ne osnt en effet pas seulement des travailleurs, ils sont également des consommateurs. Ils doivent se loger, manger, consommer et, à ce titre, leur présence stimule la croissance et crée de nouvelles opportunités économiques. Dans le même temps, cette prospérité économique provoque de nouvelles demandes en termes de logement, mobilité et infrastructure.
      L’immigration n’est donc pas comparable à une fête d’anniversaire où la part de gâteau diminuerait sans cesse. La bonne image serait plutôt celle d’un repas canadien : chacun apporte sa contribution personnelle, avant de se lancer à la découverte de divers plats et d’échanger avec les autres convives. Assis à cette table, nous sommes à la fois contributeurs et consommateurs.
      Cette analogie du repas canadien nous permet d’expliquer pourquoi un petit pays comme la Suisse n’a pas sombré dans la pauvreté la plus totale suite à l’arrivée de milliers d’Européens. Ces immigrants n’ont pas fait diminuer la taille du gâteau, ils ont contribué à la prospérité et au festin commun. L’augmentation du nombre de personnes actives sur le marché du travail a ainsi conduit à une forte augmentation du nombre d’emplois à disposition, tout en conservant des salaires élevés et un taux de chômage faible.
      Collectivement, la Suisse ressort clairement gagnante de cette mobilité internationale. Ce bénéfice collectif ’national’ ne doit cependant pas faire oublier les situations difficiles. Les changements induits par l’immigration profitent en effet à certains, tandis que d’autres se retrouvent sous pression. C’est notamment le cas des travailleurs résidents dont l’activité ou les compétences sont directement en compétition avec les nouveaux immigrés. Cela concerne tout aussi bien des secteurs peu qualifiés (par exemple les anciens migrants actifs dans l’hôtellerie) que dans les domaines hautement qualifiés (comme le management ou la recherche).
      Sur le plan éthique, ce constat est essentiel car il fait clairement apparaître deux questions distinctes. D’une part, si l’immigration profite au pays en général, l’exigence d’une répartition équitable des effets positifs et négatifs de cette immigration se pose de manière aiguë. Au final, la question ne relève plus de la politique migratoire, mais de la redistribution des richesses produites. Le douanier imaginaire ne peut donc se justifier sous couvert d’une ’protection’ générale de l’économie.
      D’autre part, si l’immigration met sous pression certains travailleurs résidents, la question de leur éventuelle protection doit être posée. Dans le débat public, cette question est souvent présentée comme un choix entre la défense de ’nos pauvres’ ou de ’nos chômeurs’ face aux ’immigrés’. Même si l’immigration est positive pour la collectivité, certains estiment que la protection de certains résidents justifierait la mise en œuvre de politiques migratoires restrictives. »

    • « Bart De Wever a raison : il faut discuter de l’ouverture des frontières », pour François Gemenne

      La tribune publiée ce mercredi dans De Morgen par le président de la N-VA est intéressante – stimulante, oserais-je dire – à plus d’un titre. En premier lieu parce qu’elle fait de l’ouverture des frontières une option politique crédible. Jusqu’ici, cette option était gentiment remisée au rayon des utopies libérales, des droits de l’Homme laissés en jachère. En l’opposant brutalement et frontalement à la préservation de la sécurité sociale, Bart De Wever donne une crédibilité nouvelle à l’ouverture des frontières comme projet politique. Surtout, elle place la question de la politique migratoire sur le terrain idéologique, celui d’un projet de société articulé autour de la frontière.

      La tribune publiée ce mercredi dans De Morgen par le président de la N-VA est intéressante – stimulante, oserais-je dire – à plus d’un titre. En premier lieu parce qu’elle fait de l’ouverture des frontières une option politique crédible. Jusqu’ici, cette option était gentiment remisée au rayon des utopies libérales, des droits de l’Homme laissés en jachère. En l’opposant brutalement et frontalement à la préservation de la sécurité sociale, Bart De Wever donne une crédibilité nouvelle à l’ouverture des frontières comme projet politique. Surtout, elle place la question de la politique migratoire sur le terrain idéologique, celui d’un projet de société articulé autour de la frontière.
      L’ouverture des frontières menace-t-elle la sécurité sociale ?

      Bart De Wever n’a pas choisi De Morgen, un quotidien de gauche, par hasard : pour une partie de la gauche, les migrations restent perçues comme des chevaux de Troie de la mondialisation, qui annonceraient le démantèlement des droits et acquis sociaux. Et l’ouverture des frontières est dès lors vue comme un projet néo-libéral, au seul bénéfice d’un patronat cupide à la recherche de main-d’œuvre bon marché. En cela, Bart De Wever, au fond, ne dit pas autre chose que Michel Rocard, qui affirmait, le 3 décembre 1989 dans l’émission Sept sur Sept, que « nous ne pouvons pas héberger toute la misère du monde » (1). Ce raisonnement, qui semble a priori frappé du sceau du bon sens, s’appuie en réalité sur deux erreurs, qui le rendent profondément caduc.

      Tout d’abord, les migrants ne représentent pas une charge pour la sécurité sociale. Dans une étude de 2013 (2) qui fait référence, l’OCDE estimait ainsi que chaque ménage immigré rapportait 5560 euros par an au budget de l’Etat. Dans la plupart des pays de l’OCDE, les migrants rapportent plus qu’ils ne coûtent : en Belgique, leur apport net représente 0.76 % du PIB. Et il pourrait être encore bien supérieur si leur taux d’emploi se rapprochait de celui des travailleurs nationaux : le PIB belge bondirait alors de 0.9 %, selon l’OCDE. Si l’immigration rapporte davantage qu’elle ne coûte, c’est avant tout parce que les migrants sont généralement beaucoup plus jeunes que la population qui les accueille. Il ne s’agit pas de nier ici le coût immédiat qu’a pu représenter, ces dernières années, l’augmentation du nombre de demandeurs d’asile, qui constituent une catégorie de particulière de migrants. Mais ce coût doit être vu comme un investissement : à terme, une vraie menace pour la sécurité sociale, ce serait une baisse drastique de l’immigration.
      Lien entre migration et frontière

      La deuxième erreur du raisonnement de Bart De Wever est hélas plus répandue : il postule que les frontières sont un instrument efficace de contrôle des migrations, et que l’ouverture des frontières amènerait donc un afflux massif de migrants. Le problème, c’est que les migrations ne dépendent pas du tout du degré d’ouverture ou de fermeture des frontières : croire cela, c’est méconnaître profondément les ressorts de la migration. Jamais une frontière fermée n’empêchera la migration, et jamais une frontière ouverte ne la déclenchera. Mais le fantasme politique est tenace, et beaucoup continuent à voir dans la frontière l’instrument qui permet de réguler les migrations internationales. C’est un leurre absolu, qui a été démonté par de nombreux travaux de recherche, à la fois sociologiques, historiques et prospectifs (3). L’Europe en a sous les yeux la démonstration éclatante : jamais ses frontières extérieures n’ont été aussi fermées, et cela n’a pas empêché l’afflux de migrants qu’elle a connu ces dernières années. Et à l’inverse, quand les accords de Schengen ont ouvert ses frontières intérieures, elle n’a pas connu un afflux massif de migrants du Sud vers le Nord, ni de l’Est vers l’Ouest, malgré des différences économiques considérables. L’ouverture des frontières n’amènerait pas un afflux massif de migrations, ni un chaos généralisé. Et à l’inverse, la fermeture des frontières n’empêche pas les migrations : elle les rend plus coûteuses, plus dangereuses et plus meurtrières. L’an dernier, ils ont été 3 116 à périr en Méditerranée, aux portes de l’Europe. Ceux qui sont arrivés en vie étaient 184 170 : cela veut dire que presque 2 migrants sur 100 ne sont jamais arrivés à destination.
      La frontière comme projet

      Ce qui est à la fois plus inquiétant et plus intéressant dans le propos de Bart De Wever, c’est lorsqu’il définit la frontière comme une « communauté de responsabilité », le socle de solidarité dans une société. En cela, il rejoint plusieurs figures de la gauche, comme Hubert Védrine ou Régis Debray, qui fut le compagnon de route de Che Guevara.

      Nous ne sommes plus ici dans la logique managériale « entre humanité et fermeté » qui a longtemps prévalu en matière de gestion des migrations, et dont le seul horizon était la fermeture des frontières. Ici, c’est la frontière elle-même qui définit le contour du projet de société.

      En cela, le propos de Bart De Wever épouse une fracture fondamentale qui traverse nos sociétés, qui divise ceux pour qui les frontières représentent les scories d’un monde passé, et ceux pour qui elles constituent une ultime protection face à une menace extérieure. Cette fracture, c’est la fracture entre souverainisme et cosmopolitisme, qu’a parfaitement incarnée la dernière élection présidentielle française, et dont la frontière est devenue le totem. Ce clivage entre souverainisme et cosmopolitisme dépasse le clivage traditionnel entre gauche et droite, et doit aujourd’hui constituer, à l’évidence, un axe de lecture complémentaire des idéologies politiques.

      La question des migrations est un marqueur idéologique fondamental, parce qu’elle interroge notre rapport à l’autre : celui qui se trouve de l’autre côté de la frontière est-il un étranger, ou est-il l’un des nôtres ?

      La vision du monde proposée par le leader nationaliste flamand est celle d’un monde où les frontières sépareraient les nations, et où les migrations seraient une anomalie politique et un danger identitaire. Cette vision est le moteur du nationalisme, où les frontières des territoires correspondraient à celles des nations.

      En face, il reste un cosmopolitisme à inventer. Cela nécessitera d’entendre les peurs et les angoisses que nourrit une partie de la population à l’égard des migrations, et de ne pas y opposer simplement des chiffres et des faits, mais un projet de société. Un projet de société qui reconnaisse le caractère structurel des migrations dans un 21ème siècle globalisé, et qui reconnaisse l’universalisme comme valeur qui puisse rassembler la gauche et la droite, de Louis Michel à Alexis Deswaef.

      Et on revient ici à l’ouverture des frontières, qui constitue à mon sens l’horizon possible d’un tel projet. Loin d’être une utopie naïve, c’est le moyen le plus pragmatique et rationnel de répondre aux défis des migrations contemporaines, de les organiser au bénéfice de tous, et de mettre un terme à la fois aux tragédies de la Méditerranée et au commerce sordide des passeurs.

      Mais aussi, et surtout, c’est un projet de liberté, qui matérialise un droit fondamental, la liberté de circulation. C’est aussi un projet d’égalité, qui permet de réduire (un peu) l’injustice fondamentale du lieu de naissance. Et c’est enfin un projet de fraternité, qui reconnaît l’autre comme une partie intégrante de nous-mêmes.

      (1) La citation n’est pas apocryphe : la suite de la phrase a été ajoutée bien plus tard. (2) « The fiscal impact of immigration in OECD countries », International Migration Outlook 2013, OCDE.

      (3) Voir notamment le projet de recherche MOBGLOB : http://www.sciencespo.fr/mobglob

      http://plus.lesoir.be/136106/article/2018-01-25/bart-de-wever-raison-il-faut-discuter-de-louverture-des-frontieres-pour-
      #sécurité_sociale #frontières

    • "Fermer les frontières ne sert à rien"

      Est-il possible de fermer les frontières ? Dans certains discours politiques, ce serait la seule solution pour mettre à l’immigration illégale. Mais dans les faits, est-ce réellement envisageable, et surtout, efficace ? Soir Première a posé la question à François Gemenne, chercheur et enseignant à l’ULG et à Science Po Paris, ainsi qu’à Pierre d’Argent, professeur de droit international à l’UCL.

      Pour François Gemenne, fermer les frontières serait un leurre, et ne servirait à rien : « Sauf à tirer sur les gens à la frontière, dit-il, ce n’est pas ça qui ralentirait les migrations. Les gens ne vont pas renoncer à leur projet de migration parce qu’une frontière est fermée. On en a l’illustration sous nos yeux. Il y a des centaines de personnes à Calais qui attendent de passer vers l’Angleterre alors que la frontière est fermée. L’effet de la fermeture des frontières, ça rend seulement les migrations plus coûteuses, plus dangereuses, plus meurtrières. Et ça crée le chaos et la crise politique qu’on connait actuellement ».

      Pour lui, c’est au contraire l’inverse qu’il faudrait envisager, c’est-à-dire les ouvrir. « C’est une question qu’on n’ose même plus aborder dans nos démocraties sous peine de passer pour un illuminé, et pourtant il faut la poser ! L’ouverture des frontières permettrait à beaucoup de personnes qui sont en situation administrative irrégulière, c’est-à-dire les sans-papiers, de rentrer chez eux. Ca permettrait beaucoup plus d’aller-retour, mais aussi, paradoxalement, de beaucoup mieux contrôler qui entre et qui sort sur le territoire ». Il explique également que cela neutraliserait le business des passeurs : « C’est parce que les gens sont prêts à tout pour franchir les frontières que le business des passeurs prospère. Donc, il y a une grande hypocrisie quand on dit qu’on veut lutter contre les passeurs, et qu’en même temps on veut fermer les frontières ».
      Des frontières pour rassurer ceux qui vivent à l’intérieur de celles-ci

      Pierre d’Argent rejoint François Gemenne dans son analyse. Mais sur la notion de frontière, il insiste un point : « Les frontières servent aussi, qu’on le veuille ou non, à rassurer des identités collectives au niveau interne. La frontière définit un corps collectif qui s’auto-détermine politiquement, et dire cela, ce n’est pas nécessairement rechercher une identité raciale ou autre. Dès lors, la suppression des frontières permettrait d’éliminer certains problèmes, mais en créerait peut-être d’autres. Reconnaissons que la vie en société n’est pas une chose évidente. Nous sommes dans des sociétés post-modernes qui sont très fragmentés. Il y a des sous-identités, et on ne peut manquer de voir que ces soucis qu’on appelle identitaires, et qui sont exprimés malheureusement dans les urnes, sont assez naturels à l’être humain. La manière dont on vit ensemble en société dépend des personnes avec qui on vit. Et si, dans une société démocratique comme la nôtre, il y a une forme d’auto-détermination collective, il faut pouvoir poser ces questions ».
      Ouvrir les frontières : quel impact sur les migrations ?

      François Gemenne en est persuadé : si l’on ouvrait les frontières, il n’y aurait pas forcément un flux migratoire énorme : « Toutes les études, qu’elles soient historiques, sociologiques ou prospectives, montrent que le degré d’ouverture d’une frontière ne joue pas un rôle dans le degré de la migration. Par exemple, quand on a établi l’espace Schengen, on n’a pas observé de migration massive de la population espagnole ou d’autres pays du sud de l’Europe vers le nord de l’Europe ».

      Pour Pierre d’Argent, il est cependant difficile de comparer l’ouverture de frontières en Europe avec l’ouverture des frontières entre l’Afrique et l’Europe, par exemple. Pour lui, il est très difficile de savoir ce qui pourrait arriver.

      https://www.rtbf.be/info/dossier/la-prem1ere-soir-prem1ere/detail_fermer-les-frontieres-ne-sert-a-rien?id=9951419

    • Migrants : l’#irrationnel au pouvoir ?

      Très loin du renouveau proclamé depuis l’élection du président Macron, la politique migratoire du gouvernement Philippe se place dans une triste #continuité avec celles qui l’ont précédée tout en franchissant de nouvelles lignes rouges qui auraient relevé de l’inimaginable il y a encore quelques années. Si, en 1996, la France s’émouvait de l’irruption de policiers dans une église pour déloger les grévistes migrant.e.s, que de pas franchis depuis : accès à l’#eau et distributions de #nourriture empêchés, tentes tailladées, familles traquées jusque dans les centres d’hébergement d’urgence en violation du principe fondamental de l’#inconditionnalité_du_secours.

      La #loi_sur_l’immigration que le gouvernement prépare marque l’emballement de ce processus répressif en proposant d’allonger les délais de #rétention administrative, de généraliser les #assignations_à_résidence, d’augmenter les #expulsions et de durcir l’application du règlement de #Dublin, de restreindre les conditions d’accès à certains titres de séjour, ou de supprimer la garantie d’un recours suspensif pour certain.e.s demandeur.e.s d’asile. Au-delà de leur apparente diversité, ces mesures reposent sur une seule et même idée de la migration comme « #problème ».

      Cela fait pourtant plusieurs décennies que les chercheurs spécialisés sur les migrations, toutes disciplines scientifiques confondues, montrent que cette vision est largement erronée. Contrairement aux idées reçues, il n’y a pas eu d’augmentation drastique des migrations durant les dernières décennies. Les flux en valeur absolue ont augmenté mais le nombre relatif de migrant.e.s par rapport à la population mondiale stagne à 3 % et est le même qu’au début du XXe siècle. Dans l’Union européenne, après le pic de 2015, qui n’a par ailleurs pas concerné la France, le nombre des arrivées à déjà chuté. Sans compter les « sorties » jamais intégrées aux analyses statistiques et pourtant loin d’être négligeables. Et si la demande d’asile a connu, en France, une augmentation récente, elle est loin d’être démesurée au regard d’autres périodes historiques. Au final, la mal nommée « #crise_migratoire » européenne est bien plus une crise institutionnelle, une crise de la solidarité et de l’hospitalité, qu’une crise des flux. Car ce qui est inédit dans la période actuelle c’est bien plus l’accentuation des dispositifs répressifs que l’augmentation de la proportion des arrivées.

      La menace que représenteraient les migrant.e.s pour le #marché_du_travail est tout autant exagérée. Une abondance de travaux montre depuis longtemps que la migration constitue un apport à la fois économique et démographique dans le contexte des sociétés européennes vieillissantes, où de nombreux emplois sont délaissés par les nationaux. Les économistes répètent qu’il n’y a pas de corrélation avérée entre #immigration et #chômage car le marché du travail n’est pas un gâteau à taille fixe et indépendante du nombre de convives. En Europe, les migrant.e.s ne coûtent pas plus qu’ils/elles ne contribuent aux finances publiques, auxquelles ils/elles participent davantage que les nationaux, du fait de la structure par âge de leur population.

      Imaginons un instant une France sans migrant.e.s. L’image est vertigineuse tant leur place est importante dans nos existences et les secteurs vitaux de nos économies : auprès de nos familles, dans les domaines de la santé, de la recherche, de l’industrie, de la construction, des services aux personnes, etc. Et parce qu’en fait, les migrant.e.s, c’est nous : un.e Français.e sur quatre a au moins un.e parent.e ou un.e grand-parent immigré.e.

      En tant que chercheur.e.s, nous sommes stupéfait.e.s de voir les responsables politiques successifs asséner des contre-vérités, puis jeter de l’huile sur le feu. Car loin de résoudre des problèmes fantasmés, les mesures, que chaque nouvelle majorité s’est empressée de prendre, n’ont cessé d’en fabriquer de plus aigus. Les situations d’irrégularité et de #précarité qui feraient des migrant.e.s des « fardeaux » sont précisément produites par nos politiques migratoires : la quasi-absence de canaux légaux de migration (pourtant préconisés par les organismes internationaux les plus consensuels) oblige les migrant.e.s à dépenser des sommes considérables pour emprunter des voies illégales. La #vulnérabilité financière mais aussi physique et psychique produite par notre choix de verrouiller les frontières est ensuite redoublée par d’autres pièces de nos réglementations : en obligeant les migrant.e.s à demeurer dans le premier pays d’entrée de l’UE, le règlement de Dublin les prive de leurs réseaux familiaux et communautaires, souvent situés dans d’autres pays européens et si précieux à leur insertion. A l’arrivée, nos lois sur l’accès au séjour et au travail les maintiennent, ou les font basculer, dans des situations de clandestinité et de dépendance. Enfin, ces lois contribuent paradoxalement à rendre les migrations irréversibles : la précarité administrative des migrant.e.s les pousse souvent à renoncer à leurs projets de retour au pays par peur qu’ils ne soient définitifs. Les enquêtes montrent que c’est l’absence de « papiers » qui empêche ces retours. Nos politiques migratoires fabriquent bien ce contre quoi elles prétendent lutter.

      Les migrant.e.s ne sont pas « la misère du monde ». Comme ses prédécesseurs, le gouvernement signe aujourd’hui les conditions d’un échec programmé, autant en termes de pertes sociales, économiques et humaines, que d’inefficacité au regard de ses propres objectifs.

      Imaginons une autre politique migratoire. Une politique migratoire enfin réaliste. Elle est possible, même sans les millions utilisés pour la rétention et l’expulsion des migrant.e.s, le verrouillage hautement technologique des frontières, le financement de patrouilles de police et de CRS, les sommes versées aux régimes autoritaires de tous bords pour qu’ils retiennent, reprennent ou enferment leurs migrant.e.s. Une politique d’#accueil digne de ce nom, fondée sur l’enrichissement mutuel et le respect de la #dignité de l’autre, coûterait certainement moins cher que la politique restrictive et destructrice que le gouvernement a choisi de renforcer encore un peu plus aujourd’hui. Quelle est donc sa rationalité : ignorance ou électoralisme ?

      http://www.liberation.fr/debats/2018/01/18/migrants-l-irrationnel-au-pouvoir_1623475
      #Karen_Akoka #Camille_Schmoll #France #répression #asile #migrations #réfugiés #détention_administrative #renvois #Règlement_Dublin #3_pourcent #crise_Des_réfugiés #invasion #afflux #économie #travail #fermeture_des_frontières #migrations_circulaires #réalisme #rationalité

    • Karine et Camille reviennent sur l’idée de l’économie qui ne serait pas un gâteau...
      #Johan_Rochel a très bien expliqué cela dans son livre
      Repenser l’immigration. Une boussole éthique
      http://www.ppur.org/produit/810/9782889151769

      Il a appelé cela le #piège_du_gâteau (#gâteau -vs- #repas_canadien) :

      « La discussion sur les bienfaits économiques de l’immigration est souvent tronquée par le piège du gâteau. Si vous invitez plus de gens à votre anniversaire, la part moyenne du gâteau va rétrécir. De même, on a tendance à penser que si plus de participants accèdent au marché du travail, il en découlera forcément une baisse des salaires et une réduction du nombre d’emplois disponible.
      Cette vision repose sur une erreur fondamentale quant au type de gâteau que représente l’économie, puisque, loin d’être de taille fixe, celui-ci augmente en fonction du nombre de participants. Les immigrants trouvant un travail ne osnt en effet pas seulement des travailleurs, ils sont également des consommateurs. Ils doivent se loger, manger, consommer et, à ce titre, leur présence stimule la croissance et crée de nouvelles opportunités économiques. Dans le même temps, cette prospérité économique provoque de nouvelles demandes en termes de logement, mobilité et infrastructure.
      L’immigration n’est donc pas comparable à une fête d’anniversaire où la part de gâteau diminuerait sans cesse. La bonne image serait plutôt celle d’un repas canadien : chacun apporte sa contribution personnelle, avant de se lancer à la découverte de divers plats et d’échanger avec les autres convives. Assis à cette table, nous sommes à la fois contributeurs et consommateurs.
      Cette analogie du repas canadien nous permet d’expliquer pourquoi un petit pays comme la Suisse n’a pas sombré dans la pauvreté la plus totale suite à l’arrivée de milliers d’Européens. Ces immigrants n’ont pas fait diminuer la taille du gâteau, ils ont contribué à la prospérité et au festin commun. L’augmentation du nombre de personnes actives sur le marché du travail a ainsi conduit à une forte augmentation du nombre d’emplois à disposition, tout en conservant des salaires élevés et un taux de chômage faible.
      Collectivement, la Suisse ressort clairement gagnante de cette mobilité internationale. Ce bénéfice collectif ’national’ ne doit cependant pas faire oublier les situations difficiles. Les changements induits par l’immigration profitent en effet à certains, tandis que d’autres se retrouvent sous pression. C’est notamment le cas des travailleurs résidents dont l’activité ou les compétences sont directement en compétition avec les nouveaux immigrés. Cela concerne tout aussi bien des secteurs peu qualifiés (par exemple les anciens migrants actifs dans l’hôtellerie) que dans les domaines hautement qualifiés (comme le management ou la recherche).
      Sur le plan éthique, ce constat est essentiel car il fait clairement apparaître deux questions distinctes. D’une part, si l’immigration profite au pays en général, l’exigence d’une répartition équitable des effets positifs et négatifs de cette immigration se pose de manière aiguë. Au final, la question ne relève plus de la politique migratoire, mais de la redistribution des richesses produites. Le douanier imaginaire ne peut donc se justifier sous couvert d’une ’protection’ générale de l’économie.
      D’autre part, si l’immigration met sous pression certains travailleurs résidents, la question de leur éventuelle protection doit être posée. Dans le débat public, cette question est souvent présentée comme un choix entre la défense de ’nos pauvres’ ou de ’nos chômeurs’ face aux ’immigrés’. Même si l’immigration est positive pour la collectivité, certains estiment que la protection de certains résidents justifierait la mise en œuvre de politiques migratoires restrictives » (Rochel 2016 : 31-33)

    • Migrants : « Ouvrir les frontières accroît à la fois la liberté et la sécurité »

      Alors que s’est achevé vendredi 29 juin au matin un sommet européen sur la question des migrations, le chercheur François Gemenne revient sur quelques idées reçues. Plutôt que de « résister » en fermant les frontières, mieux vaut « accompagner » les migrants par plus d’ouverture et de coopération.

      Le nombre de migrations va-t-il augmenter du fait des changements climatiques ?

      Non seulement elles vont augmenter, mais elles vont changer de nature, notamment devenir de plus en plus contraintes. De plus en plus de gens vont être forcés de migrer. Et de plus en plus de gens, les populations rurales les plus vulnérables, vont être incapables de migrer, parce que l’émigration demande beaucoup de ressources.

      Les gens vont se déplacer davantage, car les facteurs qui les poussent à migrer s’aggravent sous l’effet du changement climatique. Les inégalités sont le moteur premier des migrations, qu’elles soient réelles ou perçues, politiques, économiques ou environnementales.

      On est face à un phénomène structurel, mais on refuse de le considérer comme tel. On préfère parler de crise, où la migration est vue comme un problème à résoudre.

      Pourquoi les inégalités sont-elles le moteur des migrations ?

      Les gens migrent parce qu’ils sont confrontés chez eux à des inégalités politiques, économiques, environnementales. Ils vont quitter un endroit où ils sont en position de faiblesse vers un endroit qu’ils considèrent, ou qu’ils espèrent meilleur.

      Une réduction des inégalités de niveau de vie entre les pays du Nord et les pays du Sud serait-elle de nature à réduire l’immigration ?

      À long terme, oui. Pas à court terme. La propension à migrer diminue à partir du moment où le revenu moyen des personnes au départ atteint environ 15.000 $ annuels.

      Dans un premier temps, plus le niveau de la personne qui est en bas de l’échelle sociale augmente, plus la personne va avoir de ressources à consacrer à la migration. Et, tant qu’il demeure une inégalité, les gens vont vouloir migrer. Si on augmente massivement l’aide au développement des pays du Sud, et donc le niveau de revenus des gens, cela va les conduire à migrer davantage. Du moins, jusqu’à ce qu’on arrive au point d’égalité.

      L’essentiel des migrations aujourd’hui proviennent de pays un peu plus « développés ». Les migrants arrivent peu de Centrafrique ou de la Sierra Leone, les pays les plus pauvres d’Afrique. Ceux qui peuvent embarquer et payer des passeurs sont des gens qui ont économisé pendant plusieurs années.

      D’un point de vue cynique, pour éviter les migrations, il faut donc soit que les gens restent très pauvres, soit qu’ils parviennent à un niveau de richesse proche du nôtre.

      Non seulement à un niveau de richesse, mais à un niveau de droit, de sécurité, de protection environnementale proches du nôtre. Ce qui est encore très loin d’arriver, même si cela peut constituer un horizon lointain. Il faut donc accepter que, le temps qu’on y arrive, il y ait de façon structurelle davantage de migrations. On entre dans un siècle de migrations.

      Mais plutôt que de se dire « essayons de faire face à cette réalité, de l’accompagner et de l’organiser au mieux », on reste dans une logique de repli. Alors que vouloir « résister » à ce phénomène, à travers des camps au bord de l’Europe, au bord de nos villes, est une bataille perdue d’avance.

      Quand j’étais lycéen, au milieu des années 1990, nos professeurs tenaient le même discours vis-à-vis d’Internet. On organisait des grands débats au lycée — « Est-ce qu’Internet est une bonne ou une mauvaise chose ? Internet une opportunité ou un danger ? » Ce sont exactement les mêmes débats que ceux qui nous animent aujourd’hui sur les migrations !

      Et Internet s’est imposé, sans qu’on puisse l’empêcher.

      Nous avons tous accepté qu’Internet transforme tous les aspects de notre vie et de l’organisation de la société. Personne ou presque n’aurait l’idée de brider Internet. On tente d’en maximiser les opportunités et d’en limiter les dangers. Mais pour les migrations, on n’est pas encore dans cet état d’esprit.

      À très long terme, il faut donc équilibrer les niveaux de vie. À court terme que peut-on faire ?

      Il faut essayer d’organiser les choses, pour que cela se passe le mieux possible dans l’intérêt des migrants, dans l’intérêt des sociétés de destination et dans celui des sociétés d’origine.

      Parce qu’aujourd’hui, notre posture de résistance et de fermeture des frontières crée le chaos, crée cette impression de crise, crée ces tensions dans nos sociétés, du racisme, du rejet et potentiellement des violences.

      Il faut permettre des voies d’accès sûres et légales vers l’Europe, y compris pour les migrants économiques, pour mettre fin aux naufrages des bateaux et aux réseaux des passeurs. Il faut également mutualiser les moyens et l’organisation : la compétence de l’immigration doit être transférée à un niveau supranational, par exemple à une agence européenne de l’asile et de l’immigration. Et il faut davantage de coopération au niveau international, qui ne soit pas de la sous-traitance avec des pays de transit ou d’origine, comme on le conçoit volontiers dans les instances européennes.

      Paradoxalement, cette question qui, par essence, demande une coopération internationale est celle sur laquelle il y en a le moins. Les États sont convaincus qu’ils gèreront mieux la question dans le strict cadre de leurs frontières.

      À plus long terme, la plus rationnelle et la plus pragmatique des solutions, c’est simplement d’ouvrir les frontières. On en est loin. Les gouvernements et une grande partie des médias véhiculent l’idée que la frontière est l’instrument du contrôle des migrations. Si vous fermez une frontière, les gens s’arrêteraient de venir. Et si vous ouvrez la frontière, tout le monde viendrait.

      Or, toutes les recherches montrent que le degré d’ouverture ou de fermeture d’une frontière joue un rôle marginal dans la décision de migrer. Les gens ne vont pas se décider à abandonner leur famille et leur pays juste parce qu’une frontière, là-bas, en Allemagne, est ouverte. Et, des gens qui sont persécutés par les bombes qui leur tombent dessus en Syrie ne vont pas y rester parce que la frontière est fermée. À Calais, même si la frontière est complètement fermée avec le Royaume-Uni, les migrants tenteront cent fois, mille fois de la franchir.

      Par contre, le degré d’ouverture de la frontière va déterminer les conditions de la migration, son coût, son danger. Ouvrir les frontières ne veut pas dire les faire disparaître. Les États restent là. On ne supprime pas les passeports, on supprime simplement les visas. Cela permet aussi de mieux contrôler les entrées et les sorties, car les États savent exactement qui entre sur le territoire et qui en sort. Cette solution accroit à la fois la liberté et la sécurité.

      Est-ce qu’il y a des régions où cela se passe bien ?

      Il y a plein d’endroits en France où cela se passe très bien, au niveau local. Les fers de lance de l’accueil des migrants sont souvent les maires : Juppé à Bordeaux, Piolle à Grenoble, Hidalgo à Paris, Carême à Grande-Synthe.

      Au niveau d’un pays, la Nouvelle-Zélande développe une politique d’accueil relativement ouverte, qui fonctionne bien. Il y a des pays paradoxaux, comme l’Inde, qui a une frontière complètement ouverte avec le Népal, bouddhiste, et une frontière complètement fermée avec le Bangladesh, musulman. Ce cas illustre le caractère raciste de nos politiques migratoires. Ce qui nous dérange en Europe, ce ne sont pas les Belges comme moi qui émigrent. La plupart des gens sont convaincus que les Africains partent directement de leur pays pour traverser la Méditerranée et pour arriver en Europe. Or, 55 % des migrations internationales depuis l’Afrique de l’Ouest vont vers l’Afrique de l’Ouest.

      Les migrants qui arrivent de Libye vers l’Europe sont généralement classés comme des migrants économiques parce qu’ils sont noirs. Or, ils migrent avant tout parce qu’ils sont persécutés en Libye, violentés et vendus en esclaves sur les marchés. Par contre, les Syriens sont classés comme des réfugiés politiques parce que nous voyons les images de la guerre en Syrie, mais pour la plupart, ils migrent avant tout pour des raisons économiques. Ils n’étaient pas persécutés en Turquie, au Liban ou en Jordanie, mais ils vivaient dans des conditions de vie misérables. Ils migrent en Europe pour reprendre leur carrière ou pour leurs études.

      Quel rôle joue le facteur démographique dans les migrations ? Car la transition démographique ne se fait pas en Afrique, le continent va passer de 1 milliard d’habitants à 3 milliards d’ici 2050.

      Le meilleur moyen de contrôler la natalité d’Afrique serait de faire venir toute l’Afrique en Europe (rires) ! Toutes les études montrent que, dès la deuxième génération, le taux de natalité des Africaines s’aligne strictement sur celui de la population du pays d’accueil.

      Ces taux de natalité créent une peur chez nous, on craint le péril démographique en Afrique, qui va se déplacer vers l’Europe. Les gens restent dans une identité relativement figée, où l’on conçoit l’Europe comme blanche. La réalité est que nous sommes un pays métissé.

      La France black, blanche, beur, c’était il y a vingt ans ! Maintenant, le Rassemblement national et aussi la droite mettent en avant les racines et la tradition chrétienne de la France.

      Ils veulent rester catholiques, blancs. Le problème est qu’aucun autre parti n’assume la position inverse.

      Parce que cela semble inassumable politiquement, ainsi que les solutions que vous proposez. Pour le moment, l’inverse se produit : des gouvernements de plus en plus réactionnaires, de plus en plus xénophobes. Cela fait un peu peur pour l’avenir.

      C’est encore très optimiste d’avoir peur. J’ai acté que l’Europe serait bientôt gouvernée par l’extrême droite. Je suis déjà à l’étape d’après, où s’organisent des petites poches de résistance qui accueillent clandestinement des migrants.

      En Belgique, malgré un gouvernement d’extrême droite, dans un parc au nord de Bruxelles, il y a un grand mouvement de solidarité et d’accueil des migrants pour éviter qu’ils passent la nuit dehors. Près de 45.000 personnes sont organisées avec un compte Facebook pour se relayer. Ce mouvement de solidarité devient de plus en plus un mouvement politique de résistance face à un régime autoritaire.

      Les démocraties, celles pour qui la question des droits humains compte encore un peu, sont en train de devenir minoritaires en Europe ! Il nous faut organiser d’autres formes de résistance. C’est une vision de l’avenir assez pessimiste. J’espère me tromper, et que l’attitude du gouvernement espagnol va ouvrir une nouvelle voie en Europe, que les électeurs vont sanctionner positivement cette attitude d’accueil des migrants.

      https://reporterre.net/Migrants-Ouvrir-les-frontieres-accroit-a-la-fois-la-liberte-et-la-securi

    • There’s Nothing Wrong With Open Borders

      Why a brave Democrat should make the case for vastly expanding immigration.

      The internet expands the bounds of acceptable discourse, so ideas considered out of bounds not long ago now rocket toward widespread acceptability. See: cannabis legalization, government-run health care, white nationalism and, of course, the flat-earthers.

      Yet there’s one political shore that remains stubbornly beyond the horizon. It’s an idea almost nobody in mainstream politics will address, other than to hurl the label as a bloody cudgel.

      I’m talking about opening up America’s borders to everyone who wants to move here.

      Imagine not just opposing President Trump’s wall but also opposing the nation’s cruel and expensive immigration and border-security apparatus in its entirety. Imagine radically shifting our stance toward outsiders from one of suspicion to one of warm embrace. Imagine that if you passed a minimal background check, you’d be free to live, work, pay taxes and die in the United States. Imagine moving from Nigeria to Nebraska as freely as one might move from Massachusetts to Maine.

      https://www.nytimes.com/2019/01/16/opinion/open-borders-immigration.html?smid=tw-nytopinion&smtyp=cur

  • The non-entrée regime

    The non-entrée regime can be described as a series of policy measures introduced by western states from the 1980s onwards, aim ed at preventing asylum seekers from entering their territory and claim ing asylum. This regime, we shall see, is closely linked to the rise of the extraterritorial asylum agenda and has been a response to the sweeping and global economic and political changes of the last three decades (Crisp 2003b).

    https://www.rsc.ox.ac.uk/files/files-1/wp36-politics-extraterritorial-processing-2006.pdf
    #régime_de_non-entrée #non-entrée_regime #asile #migrations #réfugiés #piège_territorial #frontières #asile_extraterritorial #extraterritorialité

  • Franck Lepage : « Le revenu universel (revenu de base) est une mesure de droite »
    https://www.youtube.com/watch?v=cQQh67cdYu8

    Quand une mesure présumée "de gauche" recueille les applaudissements de Frédéric Lefebvre, Nathalie Kosciusko-Morizet, Christine Boutin et des économistes du FMI, la méfiance est de mise.

    Donner 800 euros à tous sans condition de revenus. Cette mesure proposée notamment par Benoît Hamon à gauche peut sembler une bonne idée. C’est un piège pour Franck Lepage.

    Dès 2003, le « dividende universel » est une proposition prioritaire du programme politique de Christine Boutin.

    En 2011, lors de la précampagne électorale des présidentielles de 2012, Dominique de Villepin a intégré à son programme l’idée d’un « revenu citoyen » de l’ordre de 850 €

    En novembre 2015, le député Les Républicains Frédéric Lefebvre pose un amendement demandant la rédaction d’un rapport sur le sujet52.

    Devenu candidat à la primaire de 2016, il met l’instauration d’un revenu de base au centre de son programme pour 2017.

    En 2015, Bruno Lemaire, le conseiller économique de Marine Le Pen, propose quant à lui un « Revenu minimum de dignité » (RMD), idée qu’il avait déjà avancé en 2011 sur son blog personnel53. Le 19 avril

    2016, Marine Le Pen se prononce lors d’une interview pour l’instauration d’un revenu universel, mais le Front national ne l’a pas encore inscrit officiellement dans son programme

    Durant la primaire de la droite et du centre de 2016, Nathalie Kosciusko-Morizet et Jean-Frédéric Poisson l’ont inclus dans leur programme.

    Source : http://www.agoravox.tv/tribune-libre/article/franck-lepage-le-revenu-de-base-72190

    #revenu_universel #revenu_de_base #Franck_Lepage #Piege_à_cons

    • Je ne suis pas spécialiste, mais ça me semble un peu caricatural. Si le revenu de base sert juste à supprimer la solidarité nationale ou à baisser le prix des salaires, effectivement. Mais rien n’empêche qu’il vienne en complément au reste (bon ça se budgétise), notamment dans une optique de gauche.

    • @nicolas, Ce qu’explique Franck Lepage, c’est que cette idée servira à à supprimer la solidarité nationale à baisser les salaires, supprimer la Sécurité Sociale, les retraites, l’Ecole encore en grande partie gratuite.
      => Lire la liste des bienfaiteurs de l’Humanité qui en parlent.

      Gauche : Attention, il ne faut pas confondre la Gauche et le ps.

      Le ps trahit toujours ses électeurs.
      hamon, il était ministre d’hollande.

    • Ça dépend surtout de qui le défend.
      – Sécurité Sociale
      – Retraite
      – Ecole Laïque gratuite.
      T’as vu comment ils les défendu, les politiques français ?

      Surtout lit bien le détail des articles sur SeenThis, tu en apprendras beaucoup.

    • Les mots sont importants, #revenu vs #salaire.

      Un salaire à vie, ça vaut mieux qu’un Revenu (de subsistance) Universel Garanti ! (Partie 1) | Article | Réseau Salariat
      http://www.reseau-salariat.info/881077f7d3805a456d4f7c3f33795f07?lang=en

      (...) mais sans modifier ni la #propriété_lucrative ni les rapports sociaux de production et d’échange qui sont structurés autour du #travail et de la valeur travail.

      cf https://seenthis.net/messages/481675 (@gastlag)

    • Une belle illustration entendue à l’instant par Jean-Luc Bennahmias, un revenu de base pour les enfants (200-300€), qui remplacerait les allocations familiales, et qui serait placé sur un compte de l’enfant dispo à ses 16 ans. Bon c’est cool pour le gosse, par contre pour le foyer qui se fait sucrer les allocs qui sont censées couvrir les frais inhérents à la vie des enfants...

    • C’est cette question centrale du travail et du Droit collectif au travail, à la différence du droit individuel de (ne pas) travailler qui sera traitée dans la partie II, ainsi que de la valeur du travail : étant dans l’impossibilité de valider l’utilité économique et sociale du jeu et de l’oisiveté, les partisans du DRUG en revendiquent l’inconditionnalité. On verra alors qu’ils militent de fait pour une individualisation des rapports sociaux qui repose sur une éthique profondément libérale, voire libertarienne. Ne s’attaquant en rien aux fondements du capitalisme, les bénéficiaires du RUG sont maintenus comme des citoyens qui continuent d’avoir néanmoins des besoins qu’il leur faut satisfaire : ce sont essentiellement des consommateurs à qui on conseille de réduire leurs besoins au nom de la décroissance. La section III sera dédiée au Salaire qualifié à vie et au statut politique de producteur de tout-e salarié-e, proposés par le Réseau Salariat.

      J’attends la suite avec impatience. Merci @fredlm pour le lien vers cet article qui repose bien les problèmes liés au travail, et au concept de la valeur.

  • #Benoît_Hamon : « Le revenu universel est une invitation à s’épanouir » - Libération
    http://www.liberation.fr/elections-presidentielle-legislatives-2017/2017/01/05/benoit-hamon-le-revenu-universel-est-une-invitation-a-s-epanouir_1539421

    Face à la rédaction de « Libération » et à ses « agitateurs », le candidat PS à la primaire explicite ses propositions sur le rapport au travail, le cannabis, la crise migratoire, l’Europe ou encore un nouveau modèle de développement.

  • Le revenu universel, un piège libéral ? - regards.fr
    http://www.regards.fr/web/article/le-revenu-universel-un-piege-liberal

    Le « revenu universel », défendu par plusieurs candidats de gauche, a fait une entrée tonitruante dans la campagne présidentielle. Mais malgré les bonnes intentions et faute d’une vraie ambition, la mesure risque d’achever la liquidation de la protection sociale.

    #revenu_universel #piège_libéral

    http://www.monde-diplomatique.fr/2013/05/CHOLLET/49054
    http://www.monde-diplomatique.fr/2016/07/CHOLLET/55965

    http://zinc.mondediplo.net/messages/46920 via AMD Lyon

  • Club Mediapart | Les containers de la honte
    http://asile.ch/2016/01/17/club-mediapart-les-containers-de-la-honte

    Présenté comme « humanitaire », le nouveau camp de Calais est entouré d’un enclos, vidéo-surveillé, contrôlé par un système biométrique, sans eau, ni douche, ni possibilité de cuisiner. Les réfugiés disent qu’il ressemblent à une prison et beaucoup refusent d’y aller. Ils ont raison : derrière ces rangées de containers chauffés se dessine un piège sécuritaire.

  • Les dignes représentants du capitalisme nordiste appellent à contrer le FN... Ils pourront toujours se joindre à la manif antifa organisée à Lille samedi...

    – Dany Boon, pour l’industrie cinématographique : http://www.lavoixdunord.fr/region/dany-boon-s-exprime-contre-le-fn-des-biloutes-se-rebiffent-ia0b0n320839

    – Bruno Bonduelle : http://www.eco121.fr/le-billet-de-bruno-bonduelle-no-pasaran

    – Toute une tripotée de patrons : http://www.lavoixdunord.fr/economie/elections-regionales-les-decideurs-du-nord-ia0b0n3208028

    Ben oui, il ne faudrait pas entraver la mondialisation ...

    « Cette terre [Le Nord] a toujours été fertile pour les entrepreneurs, explique Jean Luc Souflet. Une dynastie comme les Mulliez (Groupe Auchan), un pionnier de l’agroalimentaire comme Bonduelle, un investisseur comme Toyota prouvent que le repli sur soi n’est pas la solution ».

    http://www.letemps.ch/monde/2015/10/22/lille-patrons-tetanises-front-national

    D’ailleurs, vu la réaction de l’ami Pierre Gattaz, on peut imaginer que le même type de réaction aurait lieu si c’était un candidat de la gauche radicale qui était sur le point d’emporter la région (oui je sais je délire)

    http://www.francetvinfo.fr/elections/fronde-anti-fn-du-patron-du-medef-pierre-gattaz_1201849.html

    • Personnellement, c’est bien la première fois de ma vie que je ne suis pas inscrit sur les listes électorales et que je ne vais pas voter (même nul, même blanc). Il y a une certaine jouissance de ma part (malsaine) de voir tous acteurs économiques, politiques, tenants du capitalisme d’être déstabilisés par une possible élection de Le Pen (attention je ne suis pas pro FN)

      Pour le monde associatif et culturel c’est autre chose. Recevoir des subventions de la région (et donc du PS) empêche (à mon sens) toutes revendications ou discours contestataires. Il faut dire ce qui est : tout a été fait par le PS pour canaliser la contestation (surtout écolo, avec l’exemple de la MRES). Là c’est clair qu’il faudra réfléchir à un autre modèle financier, gagner en indépendance, qu’on ait une société civile organisée comme un vrai contre-pouvoir. Ils pourront se faire les dents pendant la mandature FN, avant qu’un parti de gouvernement reprenne la région.

      En gros, on sera obligé de se couper du pouvoir politique, et de repenser les modes d’actions.

    • J’avoue que j’ai été maladroit dans ma réflexion et que j’aurais dû préciser que je pensais surtout aux associations écolos, culturelles.
      Je travaille pour une structure qui organise des conférences, et reçoit des subventions de la région. Lorsqu’on a organisé une conf sur le racisme d’État, le chantage de la région a commencé « c’est inadmissible, attaquer l’État, encore une chose pareille et on supprime vos financements, etc ». Par contre, en organiser une sur l’extrême droite y’a pas de soucis. Pas sûr que ce soit le même son de cloche en cas de victoire du FN.
      Ce que j’aurais voulu faire mieux comprendre, c’est que ce genre de chantage s’accentuera avec une présidence FN, sur une gamme de sujet beaucoup plus large. Oui les associations ou structures type LGBT ou de lutte contre le SIDA en souffriront. Je connais trop mal ce type de structures pour en évoquer le cas.

      De cette méconnaissance, je ne me permettrai donc pas d’émettre un jugement de valeur sur les activités de ces structures, qui par ailleurs sont nécessaires.

    • pas de souci quand on comprend que la représentation implique dépossession.

      Sauf que la représentation mène beaucoup plus loin qu’au consentement à une simple « dépossession », par l’implication active qu’implique la démocratie, ses élections, qu’à la seule dépossession. Et c’est bien son caractère actif qui est le plus toxique.

      La #rationalisation de leurs actes « librement consentis » - j’étais « libre », me dit-on : puisque vivant en démocratie ; et qu’ai-je fais de ma « liberté » ? Lorsque l’Etat me l’a demandé, je suis allé mettre dans une boîte un bout de papier qui avait été imprimé par ses soins, ou sur son ordre. Je dois maintenant me convaincre que, ce faisant, je me serais « exprimé », j’aurais joui d’une liberté d’expression politique. Et comme je me considère comme un être à minima raisonnable, il faut bien qu’une telle pratique : mettre, selon des modalités fixées par l’Etat ou un gouvernement, dans une boîte un bout de papier préimprimé portant un ou quelques noms, - ou cocher quelques cases électroniquement - ait du sens : à défaut d’avoir voté « pour » quoi que ce soit, il me restera à me convaincre que j’aurai voté contre le FN, contre l’UMPS, contre Daesh et tous les barbares non démocrates, parce que l’abstention ne proposerait rien de concret, parce que je le vaux bien, que sais-je encore ? . - cette rationalisation construit et cimente l’étroitesse des horizons politiques de celleux qui ont voté.

      L’horizon est toujours étroit vu au travers d’une urne.

      Le premier bénéfice concret, matériel, du refus conscient du #piège_électoral se trouve dans la préservation de ma propre capacité à penser à l’encontre du régime politique que je subis, et du paradigme intellectuel qu’il produit.

    • Je pense que je me suis mal exprimé. (même si la compromission entraîne en effet ce processus de rationalisation, et nous mène à trouver des personnes appréciables parce que nous sommes persuadé-e-s de les avoir fréquenté-e-s librement - qui n’en a pas fait l’expérience ?)

      Ce que je veux dire, c’est que la croyance en la démocratie, en sa particularité et en ses vertus, est dans une grande mesure le résultat de phénomènes psychologiques qui se produisent malgré nous, indépendamment de notre volonté comme de notre conscience politique, à chacune de nos participations électorales , et qui résultent de la conjugaison de l’idéologie libérale et des modalités matérielles de la citoyenneté.

      Nous nous concevons comme des sujets sinon libres, du moins jouissant de libertés, en particulier politiques, auxquelles nous sommes tout particulièrement incités à accorder une grande importance. Le vote, la citoyenneté, sont réputés être la pratique de ce la liberté politique. Lorsque, quelle qu’en soit les raisons , nous votons, nous sommes ensuite le lieu d’un processus de rationalisation qui nous échappe : comme nous nous concevons comme, à tout le moins, relativement libres et raisonnables, nous construisons a posteriori un sens à la participation qui nous a été extorquée : un sens qui corresponde à l’idée que nous nous faisons de nous même, qui ne la menace pas. Le fait d’avoir été présupposés libres,le fait que nous nous plaisons à nous croire relativement tels, et raisonnables , en est le principal responsable.

      De mon point de vue, la première des défenses à mettre en oeuvre est de tirer les conséquences de cette connaissance, et de penser le vote et toute élection en termes de piège psychologique, d’arme politique tournée contre chacun de nous , dont une des conséquences les plus importantes est toujours, de fait, de produire un tel effet de rationalisation en chacun de nous.

      cela a été particulièrement remarquable lors du second tour de l’élection présidentielle de 2001 : nombre de libertaires anarchistes et autres anti-étatistes divers ont alors cédé à la délirante politique de la peur massivement mise en oeuvre alors et, bien que jusque là farouches ennemis déclarés de l’Etat, même démocratique, ont voté cette fois ci. Ce qu’il y a eu de remarquable, c’est que la plupart de celleux qu’il m’a été donné de lire ou d’entendre alors à ce propos se trouvèrent de bonne foi, sincèrement, de bonnes raisons de l’avoir fait - de bonnes raisons qui, quoi qu’ellils en pensent, affaiblissaient leur critique initiale de l’Etat démocratique, et venaient affecter leur conscience politique. Les plus lucides, rares, commencèrent de se ressaisir des semaines ou des mois plus tard, en se traitant elleux-mêmes de couillons d’avoir cédé à une peur qui a toujours été une arme dirigée contre eux, contre la conscience politique . (Pour ma part, je m’en étais défendu en attaquant cette stratégie de la peur : en tâchant de la nommer et de la faire reconnaître pour ce qu’elle était. Entre les deux tours de 2001, j’avais « fait campagne » contre l’idéologie libérale, son état, sa démocratie, ses élections, en moquant le répugnant chantage à l’extrême droite auquel tant d’autoritaires et de nationaux ont recours pour pousser aux urnes).
      De même, je pense que pour ce qui est des électeurs de gauche, la contribution de ce vote à droite à la dégradation de leur conscience politique est sous estimée.

      Je pense que les élections ont été et sont encore - même si l’accélération des échanges et le déferlement continu d’une matière que l’on peine à qualifier d’ « information », tant le temps de la traiter comme telle fait défaut, semble un facteur de confusion désormais plus déterminant - un moyen de produire, de construire la citoyenneté, son horizon intellectuel étroit, ses impensés et ses impensables, de faire de la démocratie un fétiche au delà de toute pensée critique, et que le phénomène de rationalisation y joue un rôle majeur.
      En d’autres termes, refuser d’entrer dans aucune considération électorale ne se résume pas à un simple « refus de participation » : le refus de participer est une des conditions d’une démarche active d’autodéfense intellectuelle, c’est une pratique qui a des effets matériels sur le paradigme au sein duquel je pense

  • Peut-on vraiment mettre en partage des brevets (et comment) ?
    http://scinfolex.com/2015/01/07/peut-on-vraiment-mettre-en-partage-des-brevets-et-comment

    On apprend cette semaine qu’afin de populariser les voitures à hydrogène, la firme Toyota a décidé de « partager gratuitement les technologies qu’elle a brevetées dans le secteur de la pile à combustible« . L’article des Echos qui relate cette nouvelle précise que » le groupe va autoriser tous les constructeurs, ou industriels intéressés par le développement d’une société de l’hydrogène, à utiliser sans licence l’ensemble de ses 5.680 brevets concernant les piles à combustible« . Source : : : S.I.Lex : :