• SRWieZ/thumbhash : Thumbhash implementation in #PHP
    https://github.com/SRWieZ/thumbhash
    https://evanw.github.io/thumbhash

    Thumbhash PHP is a PHP library for generating unique, human-readable identifiers from #image files. It is inspired by Evan Wallace’s Thumbhash algorithm and provides a PHP implementation of the algorithm.

    Thumbhash is a very compact representation of a #placeholder for an image. Store it inline with your data and show it while the real image is loading for a smoother #loading experience. It’s similar to #BlurHash but with some advantages

  • Microplastics found in every human #placenta tested in study | Plastics | The Guardian
    https://www.theguardian.com/environment/2024/feb/27/microplastics-found-every-human-placenta-tested-study-health-impact

    Microplastics have been found in every human placenta tested in a study, leaving the researchers worried about the potential health impacts on developing foetuses.

    The scientists analysed 62 placental tissue samples and found the most common plastic detected was polyethylene, which is used to make plastic bags and bottles. A second study revealed microplastics in all 17 human arteries tested and suggested the particles may be linked to clogging of the blood vessels.

    #plastique

  • LA CONDITION DES PERSONNES EXILÉES A PARIS : 8 ANNÉES DE VIOLENCES POLICIÈRES ET INSTITUTIONNELLES

    Trois ans après l’expulsion brutale d’un campement de 500 tentes #place_de_la_République, nous vous partageons le premier #rapport du #CAD (#Collectif_Accès_au_Droit), qui documente les violences policières envers les personnes exilées à Paris et dans sa proche périphérie.

    Ce travail, basé sur le recueil de 448 #témoignages recensés depuis 2015 et sur une enquête flash réalisée ces dernières semaines auprès de 103 personnes exilées, démontre que ces violences constituent depuis 8 ans la condition des personnes exilées à Paris.

    https://collectifaccesaudroit.org/rapport

    #sans-papiers #migrations #France #violences_policières #harcèlement #violence #violence_systémique #violences_institutionnelles #campement #destruction #nasse #nasse_mobile #Paris

    ping @isskein @karine4

  • I rifugiati fuori dal sistema di accoglienza. Anche se ci sono migliaia di posti liberi

    I dati inediti ottenuti da Altreconomia fotografano più di 2mila letti vuoti nel #Sistema_di_accoglienza_e_integrazione (#Sai, ex Sprar) che crescono di mese in mese nonostante l’aumento degli arrivi. Inoltre il 20% dei posti finanziati non risultano occupati. Una “riserva politica” per poter gridare all’emergenza.

    Più di 2mila posti vuoti nonostante migliaia di richieste di inserimento da parte di richiedenti asilo e rifugiati, con solamente l’80% dei posti finanziati dal ministero dell’Interno realmente occupati. I dati ottenuti da Altreconomia a fine ottobre 2023 sono mostrano un fallimento: nell’ultimo anno, mentre nelle città italiane decine di persone dormivano all’addiaccio, il secondo livello di accoglienza per i migranti rimaneva ampiamente sottoutilizzato. “È un dato che necessita di una chiave di interpretazione politica e non meramente tecnica -commenta Michele Rossi, direttore del Centro immigrazione asilo e cooperazione onlus (Ciac) di Parma-: dal 2018 a oggi il sistema invece che essere valorizzato e ampliato in linea con il bisogno reale, è sempre rimasto all’80% del suo potenziale. L’esclusione dell’accoglienza per i richiedenti asilo, fatta prima con il ‘decreto Salvini’ poi nuovamente nel 2023, si dimostra una misura paradossale e la scelta governativa di istituire oggi campi e tendopoli quando ci sarebbero posti disponibili assume una luce ancora più sinistra: smentisce ogni possibile retorica dell’emergenza su cui si fonda il paradigma della segregazione nei campi”.

    Per la prima volta il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, in seno al Viminale, ha inviato anche il numero delle richieste pervenute dai Centri di accoglienza straordinaria (Cas), il primo livello d’accoglienza, proprio ai Sai. Il dato è sconcertante. Da gennaio a marzo 2023 le richieste totali sono state 11.218 mentre gli inserimenti 6.482, ovvero il 57% del totale. Mancanza di posti? No, perché i numeri dicono che gli inserimenti sarebbero potuti avvenire per tutti, con ancora 27 posti in disavanzo. Un dato ancora più pesante se si considera che tra questi “posti fruibili”, sono già esclusi quelli “temporaneamente non fruibili” (circa 1.100 di media al mese): nel caso di strutture danneggiate, piuttosto che accoglienze più complesse che richiedono maggior attenzione, gli operatori possono decidere di ridurre temporaneamente il numero di accolti. Quindi i 2mila posti vuoti di media mensili non trovano alcuna spiegazione. Così come i 151 vuoti liberi nel sistema DM-DS, riservati a persone con vulnerabilità psicologiche e psichiatriche, sugli appena 601 occupati (il 75% di quelli finanziati).

    “L’unica motivazione pare essere quella di lasciare posti liberi che rimangono a disposizione per ragioni di natura politica (disporre di una riserva) evitando di utilizzare il sistema per ciò che la legge prevede, ovvero rispondere alle richieste di inserimento fino a esaurimento dei posti disponibili -osserva Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) e socio dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione-. Un fatto che si vuole evitare perché aprirebbe un dibattito pubblico sul fabbisogno di posti necessari e sulla radicale mancanza di criteri di programmazione del Sai, come d’altronde avviene per l’intero sistema di accoglienza pubblico. Il sistema Sai presenta dunque tutte insieme nello stesso tempo caratteristiche tra loro contraddittorie: c’è sempre posto per nuovi inserimenti ma nello stesso tempo è sempre insufficiente a rispondere alle esigenze effettive”. Richieste che, tra l’altro, crollano da marzo 2023 in poi con una riduzione nettissima: il numero delle persone che hanno chiesto accoglienza a marzo (4.381) è maggiore di tutte quelle che l’hanno fatto da aprile e giugno (quasi 4mila). Il cosiddetto “decreto Cutro”, del 10 marzo 2023, prevede l’impossibilità per i richiedenti asilo di accedere proprio al sistema Sai e quella delle prefetture sembra essere una “censura preventiva”, prima ancora che quella “regola” diventasse legge. Le segnalazioni sono oggi attribuite alle stesse prefetture che però non hanno spesso un reale polso delle situazioni territoriali complessive.

    Ma, come detto, non è solo problematico il numero di posti vuoti nelle strutture di accoglienza perché la discrepanza tra i “posti finanziati” e quelli “occupati” è costantemente del 20%. Che cosa significa? A luglio 2023, per esempio, a fronte di 43.469 posti attivabili c’erano appena 34.761 persone accolte. Una forbice su cui incidono diversi elementi, come i mancati inserimenti da un lato, ma anche una complessa dinamica che Michele Rossi sintetizza così: “Certamente ci possono essere strutture che necessitano di ristrutturazione, cambi di destinazione che impongono lavori e temporanee sospensioni -spiega- ma nel comprendere perché così tanti posti finanziati non siano poi immediatamente attivati andrebbe indagata anche la tempistica burocratico e amministrativa tra domanda dei Comuni e approvazione del finanziamento da parte del ministero. I progetti devono garantire case a un dato tempo, ma non sono certi della loro approvazione: con tempi molto lunghi di risposta da Roma quei contratti possono perdersi, necessitando di sostituire con altre strutture al momento dell’approvazione effettiva. Ad esempio all’ottobre 2023 non si sa ancora se migliaia di posti in scadenza al 31 dicembre potranno essere rinnovati. Senza tale garanzia c’è il rischio concreto di perdere i contratti di affitto in essere e di perdere a gennaio posti teoricamente finanziati”.

    I dati di Altreconomia ricostruiscono come da gennaio 2022 a luglio 2023 la media dei posti occupati sui finanziati sia del 79%. “Se allarghiamo lo sguardo agli anni precedenti, il dato è lo stesso -aggiunge Rossi- e questo fa riflettere parecchio perché la proporzione di un quinto di posti pieni sui vuoti l’abbiamo ritrovata, negli stessi anni, anche sui Centri di accoglienza straordinaria, unico dato che permane al variare delle diverse ‘emergenze’ e delle diverse configurazioni del sistema stesso”.

    Come ricostruito nell’inchiesta “Accoglienza selettiva”, infatti, nell’agosto 2022 le persone richiedenti asilo dormivano per strada e non venivano inserite nei Cas nonostante ci fossero più di 5mila posti vuoti. Vuoti che via via sarebbero andati -il condizionale è d’obbligo perché i dati in questo caso sono forniti direttamente dal ministero e non dalle singole prefetture- riempiendosi (ne abbiamo scritto qui), ma che evidentemente non sono andati esaurendosi nel Sai. “È un sistema dalle regole di funzionamento non trasparenti che solo in modo parziale opera sulla base di regole predeterminate e finalizzato a dare attuazione a quanto previsto dalla legge, ovvero dare accoglienza ai richiedenti asilo (solo i casi vulnerabili a partire dalla legge 50 del 2023), ai beneficiari di protezione internazionale e speciale e alle altre fattispecie previste dalla normativa”, commenta Schiavone.

    Sono rilevanti anche i dati sulla fine dei percorsi di chi esce dall’ex Sprar. Dal gennaio 2022 al luglio 2023 solo il 22% (media mensile) delle persone che hanno concluso con l’accoglienza l’ha fatto per “inserimento socio-economico”; il 29% ha visto scadere il termine massimo del progetto (quindi potenzialmente è finito per strada) e ben il 47% delle persone che è uscito mensilmente l’ha fatto “volontariamente prima della scadenza dei termini”. “Certamente è un dato che va valutato con molta cautela: se il criterio con cui le diverse ‘uscite’ possono essere attribuite all’inserimento socio-economico è abbastanza evidente, trattandosi nei fatti di casi in cui sussistono formali contratti di lavoro e di affitto non lo è altrettanto per la categoria ‘uscita volontaria prima dei termini’, che -aggiunge Rossi- potrebbe sommare sia persone che decidono di abbandonare il progetto di accoglienza volontariamente per riprendere il loro percorso migratorio, sia situazioni in cui le persone reperiscono lavoro o alloggio, ma questi sono talmente precarie o addirittura irregolari, in nero, da essere incompatibili con la prosecuzione del progetto. In questo caso, se tale ipotesi fosse anche solo parzialmente confermata, manifesterebbe la gravità delle condizioni del mercato del lavoro e degli alloggi per le persone straniere in Italia: un tema da troppo tempo dimenticato e che vede una crescente ricattabilità dei migranti, costretti ad una integrazione subalterna e costretti ad una perdurante invisibilità sociale”.

    A prescindere dalle specifiche motivazioni, infatti, il dato è netto: il 76% delle persone che escono dal sistema non hanno un percorso di inserimento socio-abitativo e lavorativo adeguato. “Per quali motivi non dovremmo definire estremamente grave tale situazione? -si interroga Schiavone-. Gli interventi di inserimento realizzati sono complessivamente inadeguati? C’è un’eccessiva rigidità nella tipologia degli interventi che i progetti sono autorizzati a realizzare e ciò gli impedisce di attuare strategie efficaci? Il tempo di accoglienza è troppo breve rispetto a quello che ragionevolmente sarebbe necessario per il raggiungimento degli obiettivi? Probabilmente tutti questi fattori, con pesi diversi, giocano un ruolo e concorrono a delineare un sistema gravemente fallimentare proprio rispetto al ruolo quasi esclusivo che la legge gli assegna ovvero realizzare percorsi efficaci di inserimento sociale dei beneficiari”. Schiavone sottolinea che le crescenti difficoltà che il Sai incontra nel realizzare percorsi efficaci di inserimento sociale dei beneficiari sono dovute anche al generale peggioramento delle condizioni economiche della popolazione. “Ma è necessario -conclude- evidenziare che un fallimento c’è e onestà intellettuale imporrebbe che se ne parlasse. Ma di una discussione serena e propositiva in tal senso non c’è traccia: la polvere viene messa sotto il tappeto”.

    https://altreconomia.it/i-rifugiati-fuori-dal-sistema-di-accoglienza-anche-se-ci-sono-migliaia-

    #accueil #hébergement #asile #migrations #réfugiés #Italie #statistiques #chiffres #urgence #réserve #réserve_politique #places_vides #places_libres #cas #taux_d'occupation

  • Après 22 ans, le géant de l’intérim Adecco jugé pour fichage racial
    https://www.streetpress.com/sujet/1695805410-geant-interim-adecco-juge-fichage-racial-discrimination-emba

    Adecco et deux ex-responsables vont être jugés le 28 septembre 2023 pour « #fichage_racial » et discrimination à l’embauche. Entre 1997 et 2001, une agence faisait un tri entre ses #intérimaires noirs et non-noirs. Plongée dans un système raciste.
    « Je tiens à vous signaler qu’au sein de l’agence #Adecco, […] on procède à un tri ethnique des intérimaires. En effet, les intérimaires sont classés en fonction de leur couleur de peau. Une distinction est faite entre les noirs et les non-noirs. » C’est par ces mots que commence la lettre explosive envoyée par Gérald Roffat le 1er décembre 2000 à l’association SOS Racisme. À l’époque, il est étudiant en licence de ressources humaines à l’université Paris Créteil. Le jeune homme, métisse, vient de faire un stage de six mois dans l’agence Adecco de Montparnasse, dans le 14ème arrondissement de Paris (75). Ce qu’il a vu l’a révolté. « Le pire, c’est que le stagiaire qui m’a expliqué ce que j’allais faire, était noir », se souvient le volubile Gérald Roffat, aujourd’hui âgé de 47 ans. « Les gens autour de moi se racontaient des histoires pour se justifier, mais moi je trouvais ça malsain. Ce courrier est la porte de sortie que j’ai trouvée. »

    Ce 28 septembre 2023, après une procédure exceptionnellement longue, les délits racistes dénoncés par le lanceur d’alerte vont finalement être jugés. Le groupe d’#intérim Adecco et deux anciens directeurs de l’agence Paris-Montparnasse ont été renvoyés en correctionnelle le 25 juillet 2021 par la Cour d’appel de Paris pour « fichage à caractère racial » et discrimination à l’embauche. 500 intérimaires du secteur de l’#hôtellerie-restauration en Île-de-France entre 1997 et 2001 en auraient été victimes. Ils sont aujourd’hui quinze à se porter partie civile. StreetPress a eu accès aux documents judiciaires dans lesquels quatorze chargés de recrutement ou de clientèle témoignent de leur participation au fichage.
    Les blancs recevaient des appels, les noirs faisaient la queue. Dans sa lettre, l’ex-stagiaire Gérald Roffat déroule : « Pour chaque intérimaire, le chargé de recrutement indique la mention PR1 ou PR2. Il ajoute la mention PR4 quand il s’agit d’une personne de couleur. (…) Lorsqu’un client d’Adecco demande un intérimaire, il peut tout naturellement demander un BBR [pour “bleu blanc rouge”, NDLR] ou un non-PR4. » Résultat : les intérimaires noirs sont servis en dernier et souvent cantonnés à la plonge, loin des regards des clients.

    [...]
    « On ne voyait pas ce qu’il y avait derrière leur bureau, mais on le sentait », raconte quant à elle Adrienne Djokolo, 59 ans. La Française née en République du Congo avait 31 ans lorsqu’elle a commencé à faire des missions d’intérim pour Adecco en 1995. « On partait très tôt le matin à 7h s’asseoir à l’agence pour attendre une mission. On repartait bredouille s’il n’y avait rien. Il n’y avait que des noirs, des arabes, des indiens… » C’est quand Adrienne arrivait dans les restaurants qu’elle voyait les intérimaires « blancs » d’Adecco. « Ils nous disaient qu’eux n’avaient pas besoin d’aller à l’agence. On les appelait directement chez eux pour les missions », rembobine la grand-mère, aujourd’hui en CDI dans une entreprise de #restauration collective

    • oui, la longueur de la procédure est ahurissante. à croire que l’emploi est plus sacré encore qu’un président de la république.

      c’est pas un racisme idéologique mais un souci de productivité du placement. à gérer trop de contrats, Adecco s’est auto piégé, fallait ne rien écrire, ses contenter dune visualisation des photos pour décider de la mise en relation avec un employeur.
      de toute façon, c’est les donneurs d’ordre qui décident : les « blancs » en salle, arabes et asiatiques compris éventuellement, les trop colorés en coulisse et en soute. à vu de pif, depuis 2000, cette répartition n’a évoluée qu’à la marge .

      une entreprise ne contracte pas avec une boite d’intérim qui envoie des candidats qu’elle juge irrecevables. en bar, hôtel, restau, on a aucune raison et pas le temps d’organiser des entretiens qui doivent échouer, comme c’est le cas, au vu des contraintes légales pesant sur les modalités de recrutement, avec les candidats profs de fac, ou diverses institutions culturelles, par exemple.
      la boite d’intérim est censé garantir l’appariement immédiat du salarié au poste, c’est sa fonction. et des critères subjectifs ("raciaux" par exemple, mais aussi d’âge, de présentation) président évidement à l’embauche, spécialement de qui est « au contact du client »

      intérim ou pas, dans le secteur, réaliser un chiffre d’affaire passe par le fait de produire une image. ça relève désormais y compris, pour les bars, de ce que certains nomment « direction artistique » (des prestataires vendent la définition de « concepts » : déco, type de produits, accessoires, éclairage, choix du personnel).

      ou bien, plus prosaïquement, de nombreux cafés tabac parisiens repris par des asiatiques, s’organisent sur une double logique entreprise familiale-communautaire (fiabilité assurée, verser des salaires) tout en prenant soin de s’adjoindre des collaborateurs qui soient suffisamment proches ("caucasiens", comme disent les flics yankee) d’une clientèle parisienne.
      pour assurer le chiffre ça bricole. aujourd’hui j’ai vu deux kabyles qui ont récemment repris un bar près du marché où je fais mes courses, sans employer personne. ils ont éprouvé le besoin d’afficher en terrasse un petit drapeau français...

      #donneur_d'ordre #patron (s) #placement #client #image #embauche

  • Le “#navi_quarantena” sono costate più di 130 milioni di euro in due anni

    Tra l’aprile 2020 e il giugno 2022 almeno 56mila persone sono transitate dalle imbarcazioni messe a disposizione da operatori privati su volere del governo, per una spesa pro-capite di 220 euro al giorno. Dati inediti evidenziano un esborso pubblico molto più elevato di quanto avrebbe richiesto una più dignitosa accoglienza a terra

    Le “navi quarantena” utilizzate per oltre due anni dal governo italiano per l’isolamento preventivo dei richiedenti asilo arrivati sulle coste italiane durante l’emergenza sanitaria sono costate, in totale, quasi 132 milioni di euro: 220 euro a persona al giorno. “Una follia fuori da ogni logica, un simile costo è più di quattro volte quello che si sarebbe speso utilizzando soluzioni residenziali a terra. Un paradosso, considerando che oggi si grida all’emergenza ma si continua a spendere pochissimo per creare un sistema d’accoglienza dignitoso”, spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano solidarietà di Trieste (Ics) e membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).

    L’86% di quanto speso è andato a Grandi navi veloci Spa, la principale azienda che ha fornito le navi, ma il conto potrebbe essere parziale: dai documenti consultati da Altreconomia non è chiaro se la rendicontazione dei soggetti coinvolti sia già conclusa. Quel che è certo è che vanno aggiunti a questa cifra almeno 420mila euro per i costi sostenuti per la Raffaele Rubattino, proprietà della Compagnia italiana navigazione Spa, per l’accoglienza di 180 profughi tra il 17 aprile e il 5 maggio 2020.

    Ma andiamo con ordine. Nel pieno della pandemia da Covid-19, con il lockdown nazionale proclamato il 9 marzo 2020, un doppio decreto istituisce il sistema delle cosiddette “navi quarantena”: da un lato, il 7 aprile 2020 un decreto interministeriale emanato dai ministeri dell’Interno, della Salute e delle Infrastrutture stabilisce che, per tutta la durata dell’emergenza sanitaria, i porti italiani non potevano essere considerati “luoghi sicuri” per lo sbarco dei migranti; dall’altro cinque giorni dopo, il 12 aprile, la Protezione civile affida al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno la gestione dell’isolamento e della quarantena dei cittadini stranieri soccorsi o arrivati autonomamente via mare. È sulla base di questo decreto che il Viminale, insieme alla Croce rossa italiana, viene autorizzato a utilizzare navi per lo svolgimento della sorveglianza sanitaria “con riferimento alle persone soccorse in mare e per le quali non è possibile indicare il “Place of Safety” (luogo sicuro)”. Quelle, quindi, non sbarcate autonomamente. Comincia così la stagione delle navi quarantena: tra il 17 aprile e il 5 maggio 183 persone vengono “ospitate”, come detto, sulla nave Rubattino seguita dal traghetto Moby Zaza (attivo dal 12 maggio), che può ospitare fino a 250 persone appartenente anche esso alla Compagnia di navigazione italiana. Sarà poi Grandi navi veloci, successivamente, a fornire quasi tutti i servizi.

    Traghetti su cui, in totale, dal 17 aprile 2020 al 7 giugno 2022 secondo i dati forniti ad Altreconomia dall’ufficio del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, sono salite in totale 56.007 persone, per una permanenza media nel 2021 e 2022 di 10,7 giorni. Considerando un costo totale di 132 milioni di euro significa quindi più di 2.300 euro a persona e 220 al giorno.

    “Ipotizziamo di aumentare da 30 a 50 euro il costo pro-capite pro-die per l’accoglienza di queste persone in strutture residenziali sul territorio -osserva Schiavone-. Aumentiamo la diaria perché consideriamo l’oggettiva situazione di emergenza sanitaria che alza i costi. Ebbene, anche così facendo e considerando che comunque la spesa totale potrebbe essere al ribasso significa un costo quattro volte più alto. È irragionevole”. Di questi soldi, ricavati da Altreconomia dai giustificativi di pagamento dei servizi effettuati dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, in seno al ministero dell’Interno, come detto 113 milioni sono stati destinati a Grandi navi veloci (tra nave, carburante e personale), quasi sei milioni a Moby Zaza e poco più di 12 alla Croce rossa italiana (Cri) che assisteva le persone trattenute sulle navi. La stessa Croce rossa a gennaio 2022 aveva minacciato di non garantire più il servizio a seguito del ripetuto superamento del periodo massimo di permanenza sulla nave -10 giorni- per almeno mille persone e che, anche per questo motivo, aveva preoccupato tra gli altri l’Asgi che in un dettagliato report aveva pubblicato le sue perplessità sui rischi di un simile sistema.

    “L’accoglienza a terra avrebbe evitato note criticità logistiche, violazioni di alcune procedure e soprattutto, da un punto di vista strettamente economico avrebbe fatto risparmiare il ministero e aiutato, per esempio, albergatori in difficoltà che si sono trovati a dover chiudere le proprie attività. Chi non avrebbe accettato le accoglienze a 50 euro? Di certo, nessuno, ai 220 costati per le navi”. E forse si sarebbero anche evitate le morti di Bilal, ragazzo tunisino di 22 anni che si è suicidato dalla Moby Zaza a maggio 2020; Abou Diakite, 15 anni, nato in Costa d’Avorio e deceduto nell’ospedale di Palermo dopo essere stato trasportato d’urgenza dalla Gnv Allegra; Giorgio Carducci, psicologo volontario di 47 anni stroncato da un arresto cardiaco. E poi Abdallah Said deceduto a settembre 2020 all’ospedale di Catania dopo due settimane di permanenza sulla Gnv Azzurra.

    Abbiamo chiesto a Croce rossa italiana se era già terminata la rendicontazione delle spese effettuate ma non abbiamo ricevuto risposta nel merito. Il periodo di riferimento dei pagamenti effettuati va dall’ottobre 2020 al 24 febbraio 2023. Mancano però le informazioni del primo trimestre del 2021 che hanno una tabella “vuota”: non è chiaro se perché non sono state effettuati pagamenti o per un errore di caricamento.

    Un capitolo chiuso che ha ancora molto da “insegnare” anche per il presente. “Evidenzia come non ci sia nessun tipo di ragionata pianificazione che consenta di trovare delle soluzioni adeguate anche in contesti straordinari, come è indubbiamente stato il Covid-19, ma sulla base di criteri e paletti di ragionevolezza -conclude Schiavone-. Passiamo dalla spesa folle fatta con le navi quarantena al rifiuto attuale di adeguare e prevedere un corrispettivo pro die-pro capite dignitoso per l’accoglienza nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) con la conseguenza che le gare vanno deserte perché le condizioni sono economicamente insostenibili. La stessa amministrazione, certo con tempi diversi e governi, sembra non abbia nessun parametro logico su come operare in emergenza, su cosa e quanto sia ragionevole spendere per conseguire gli obiettivi pubblici. Tutto sembra invece avvenire in modo molto casuale in contrasto con il principio di efficienza che deve guidare l’operato della pubblica amministrazione”.

    https://altreconomia.it/le-navi-quarantena-sono-costate-piu-di-130-milioni-di-euro-in-due-anni
    #budget #coût #asile #migrations #réfugiés #Italie #privatisation #covid #Grandi_navi_veloci #navires #bateaux #Raffaele_Rubattino #Compagnia_italiana_navigazione #lockdown #confinement #isolement #quarantaine #Place_of_Safety #Rubattino #Moby_Zaza #ferry #Croce_rossa_italiana #croce_rossa #hébergement #accueil #GNV

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    voir aussi ce fil de discussion:
    Rights in route. The “#quarantine_ships” between risks and criticisms
    https://seenthis.net/messages/866072

  • Le #X de Musk n’est pas une inconnue…
    https://framablog.org/2023/07/26/le-x-de-musk-nest-pas-une-inconnue

    L’actualité récente nous invite à republier avec son accord l’article de Kazhnuz sur son blog (il est sous licence CC BY-SA 4.0) qui souligne un point assez peu observé de la stratégie d’Elon Musk : elle n’est guère innovante et ne … Lire la suite­­

    #Enjeux_du_numérique #G.A.F.A.M. #Alphabet #Elon_Musk #GAFAM #IA #Marketing #marketplace #Meta #NFT #Paypal #place_de_marché #techbro #Twitter #wechat

  • Scarsa programmazione, posti vuoti e persone al freddo: così ai migranti è negata l’accoglienza

    I Centri di accoglienza straordinaria non garantiscono abbastanza posti, nel frattempo il Sistema di accoglienza e integrazione di secondo livello ha oltre 1.600 “letti” disponibili e finanziati ma non utilizzati. Mentre il ministero dell’Interno ammette l’assenza di programmazione, centinaia di persone dormono ancora all’addiaccio.

    Posti vuoti, scarsa programmazione, incapacità di intervenire a fronte dell’emergenza. Mentre diversi tribunali cominciano a richiamare all’ordine prefetture e questure per le procedure illegittime nel fornire un “tetto” e i documenti ai richiedenti asilo, dati aggiornati raccolti da Altreconomia fotografano le inefficienze del sistema di accoglienza italiano per richiedenti asilo e rifugiati.

    Da un lato, da luglio a novembre 2022 si registra nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) un’improvvisa diminuzione dei posti a disposizione senza alcun intervento da parte dell’amministrazione per aumentare la capienza; dall’altro, centinaia di posti “vuoti” nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), pensato come “secondo livello” di intervento e trampolino per l’autonomia delle persone. A prescindere da quale sia il sistema, dai dati emerge chiaramente la scarsa programmazione da parte del ministero dell’Interno. “È come se in una scuola non si sapesse dove sono le aule, quanti banchi vuoti ci sono, quante sedie mancano. E magari, di fronte al bisogno, si scopre che un’intera aula era libera ma chiusa nell’attesa che, senza un motivo razionale, arrivasse qualcuno ad aprirla. La politica, sul tema dell’accoglienza, sceglie volontariamente di non intervenire”, spiega Michele Rossi, direttore generale del Centro immigrazione asilo e cooperazione onlus (Ciac) di Parma.

    Andiamo con ordine. Tra i posti finanziati e quelli effettivamente attivati nel sistema Sai c’è una differenza molto ampia: all’ottobre 2022 a fronte di 44.591 posti finanziati erano 35.291 quelli attivi. Questa forbice deriva dal fatto che non sempre i Comuni riescono ad attivare tutti i posti per cui avevano fatto domanda e ottenuto il finanziamento, soprattutto per la difficoltà a reperire gli alloggi (qui i dati integrali). Oltre a questa differenza si aggiunge il fatto che anche i posti disponibili non sono tutti riempiti. I “vuoti”, quello stesso mese di ottobre 2022 in cui gli effettivamente disponibili risultavano essere oltre 35mila, erano oltre 1.600 di ottobre (in lieve calo rispetto agli oltre 2.300 del gennaio di un anno fa). Quello di 1.600 posti vuoti nel Sai è un dato rilevante, trattandosi di un sistema che a regime dovrebbe risultare sempre saturo. Come è rilevante il fatto che i posti vuoti, oltre che nel Sai ordinario, sono presenti anche nei progetti dedicati al “disagio mentale e all’assistenza sanitaria specialistica e prolungata” (Dm-Ds), cioè quelli messi a disposizione dei più vulnerabili. Su un totale di 751 posti attivi, sempre a ottobre 2022, solo 598 erano occupati con una disponibilità di oltre 140 posti.

    Mancano le richieste? Tutt’altro, diversi operatori dell’accoglienza sentiti da Altreconomia raccontano altro rispetto all’inserimento nel sistema Sai. Ma il dato delle richieste effettuate e rimaste inevase dagli operatori non è purtroppo quantificabile. Il Servizio centrale, che gestisce il Sai in seno al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno, ci ha risposto infatti che il numero di richieste di inserimento non è nella disponibilità degli uffici. “Un paradosso. Con quale criterio le persone vengono inserite? -si chiede Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) di Trieste e membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione-. Mancano procedure standard e criteri di accesso al sistema che permettano di definire un procedimento che abbia le remote sembianze di quello amministrativo. Il minimo sarebbe la registrazione della richiesta e una risposta, positiva o negativa che sia. Se non è possibile avere il numero delle segnalazioni, invece, il tutto sembra lasciato al caso. Assomigliando di più a una sorta di sistema privato, non tenuto necessariamente a rispondere a logiche di equità, alimentato però da risorse pubbliche”. Anche la “popolazione” di coloro che a oggi occupano il sistema Sai è un dato rilevante.

    Nel 2022 il 24% di chi è stato accolto è richiedente asilo, il 25% titolare di status di rifugiato, il 18% un minore non accompagnato, il 4% è titolare di un documento per “casi speciali”, il 4% per motivi familiari e così via. “Un grosso contenitore che ci racconta di come i servizi sociali territoriali ‘usino’ il Sai per collocare persone di cui non vogliono occuparsi”, sottolinea ancora Schiavone. Il numero di cittadini ucraini presenti nel sistema è relativamente basso: a novembre 2022 circa 3.100, il 14% del totale.

    La disponibilità di posti nel Sai aggiunge un tassello in più rispetto a quanto ricostruito nell’inchiesta pubblicata nel dicembre 2022 su Altreconomia. Concentrandoci sul sistema dei Cas abbiamo raccontato come, nel periodo tra gennaio e giugno dello scorso anno, ai richiedenti asilo che provenivano dalla rotta balcanica venisse negato l’inserimento nei centri nonostante la disponibilità di posti su tutto il territorio nazionale (stimati in circa 9mila). Centinaia di persone dormivano in strada. La “scusa” da parte delle prefetture, allora, era l’assenza di posti, ufficialmente, e “ufficiosamente” una quota di “riserva” da tenere per chi proveniva dagli sbarchi. Abbiamo così chiesto i dati aggiornati al ministero dell’Interno (qui i dati integrali) anche in relazione alla comunicazione del 5 dicembre 2022 con cui, sempre il Dipartimento per le libertà civili, dichiarava di sospendere i trasferimenti per il regolamento di Dublino a causa della “mancanza di posti in accoglienza”.

    I dati aggiornati ottenuti dimostrano che ancora a luglio 2022, nonostante in diversi territori si lamentasse una mancanza di posti, le disponibilità c’erano: quasi 4mila se si considerano i “posti disponibili”, più di 7.600 se si prende in considerazione la differenza tra i “posti in convenzione”, sempre forniti dal ministero, e le presenze. Diversi operatori che operano all’interno dei Centri non hanno saputo fornire una spiegazione di questa differenza così ampia. A prescindere da quale dato si prenda in considerazione, la forbice diminuisce fino ad arrivare, a novembre 2022, rispettivamente a 1.311 disponibilità e 2mila in convenzione. “La diminuzione dei posti è solo in parte spiegabile attraverso l’aumento delle presenze che passano da circa 59.500 a 67.500 in sei mesi -osserva Rossi-. C’è infatti un’incongruenza nei dati forniti da Roma perché non ‘tornano’ rispetto a quanto si osserva sui territori”. Il direttore del Ciac prende come esempio quanto si verifica in Toscana: si passa da circa 2.800 nel primo semestre 2022 a 5.400 presenze nel secondo, stando ai dati forniti dal ministero ma a livello locale questo aumento si ferma a 3.500. Lo stesso succede in Emilia-Romagna: da 2.200 (gennaio-giugno) a 7mila (luglio-novembre), un dato che da indagini sul territorio si ferma a 4.800. “Questo potrebbe significare due cose: i dati erano ‘mal censiti’ prima di luglio, oppure non c’è uniformità nel contare le presenze e i posti disponibili. E quindi i dati raccolti dalle singole prefetture sono difformi rispetto a quelli inviati dal Servizio centrale”.

    A prescindere dalla incongruità dei dati, secondo Schiavone la “mancanza di programmazione è lampante ed evidente”. “Nell’estate il governo pur sapendo che il sistema si stava saturando non ha fatto nulla. Così dal 20% dei posti vuoti tenuti come ‘riserva’ si passa allo ‘zero’”. Uno zero che significa persone per molti giorni abbandonate per strada: da Torino a Trieste passando per Ancona, Parma e Milano. Una “scusa” -l’assenza di posti- non prevista a livello normativo, dato che la legge costringe le istituzioni ad attivare soluzioni d’emergenza per collocare immediatamente le persone in accoglienza. Infatti le pronunce dei giudici chiamati ad esprimersi sul tema -numerose nelle ultime settimane- specificano l’obbligo delle amministrazioni di fornire accoglienza ai richiedenti asilo che formalizzano la propria richiesta in questura. Non a caso il Tribunale di Bologna, a metà gennaio 2023, ha dato torto alla questura e alla prefettura di Parma imponendogli di garantire l’accesso alla richiesta d’asilo e ai centri di accoglienza.

    Un altro tassello fondamentale continua a essere la mancanza di trasferimenti sul territorio nazionale. A Trieste, sul confine orientale, per esempio, l’alto numero di persone presenti in città nasce anche dall’assenza di ricollocamenti dei richiedenti asilo in altre città. Ritorna quanto detto precedentemente: durante la prima fase della nostra inchiesta abbiamo raccontato come gli uffici territoriali del governo più volte rispondevano informalmente a chi chiedeva l’inserimento nei Cas di “tenere liberi” i posti per chi arrivava via mare (o via terra, da altre città). La prefettura di Bolzano ha citato sotto questo aspetto il “Piano nazionale di accoglienza” elaborato dal ministero dell’Interno come “documento” che chiariva quante persone sarebbero state trasferite nei centri di sua competenza. Questo piano è previsto dalla normativa (il decreto legislativo 142 del 2015 che regola la materia), di cui abbiamo chiesto conto al dipartimento competente. Ci è stato risposto che “le quote vengono di volta in volta ripartite tra le diverse prefetture anche in base ai posti disponibili”. Altro che programmazione: il Piano formalmente non esiste. “O il ministero non programma affatto, oppure non vuole dire pubblicamente quali criteri segue. In entrambi i casi è molto grave: non c’è una politica di redistribuzione o un sistema di progressivo riempimento. Il sistema tiene posti liberi per mesi e poi si satura in breve tempo. Significa, tra l’altro, non ottimizzare neanche le risorse disponibili”, sottolinea Schiavone.

    Sia sul sistema dei Cas sia sul Sai si registrano quindi scarsa trasparenza e una gestione carente a livello centrale. “Non avere una mappatura, un controllo di gestione è ben più grave che non riuscire a mettere in convenzione nuovi posti con le prefetture. I dati non sono stabili, difficilmente leggibili e ci raccontano dell’immobilità politica sul tema. Nessuno vuole portare a regime alcun sistema di accoglienza”. Intanto, le persone, aspettano al freddo. E il governo può ripetere il ritornello della saturazione e dell’invasione.

    https://altreconomia.it/scarsa-programmazione-posti-vuoti-e-persone-al-freddo-cosi-ai-migranti-
    #accueil #hébergement #Italie #asile #migrations #réfugiés #SDF #sans_solution #Centri_d'accoglienza_straordinaria (#CAS) #statistiques #chiffres #2022 #sistema_di_accoglienza_e_integrazione (#SAI) #plein #vide #places_vides #places_vacantes

  • À Paris, les associations bataillent pour ouvrir le centre d’accueil « Ukraine » à tous les exilés | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/france/231222/paris-les-associations-bataillent-pour-ouvrir-le-centre-d-accueil-ukraine-

    « Les inégalités ne concernent pas que l’hébergement, pointe un autre travailleur du centre, qui compte une centaine de places disponibles chaque soir en moyenne. Il y a aussi la question de l’accessibilité au droit de manière générale, puisque pour les Ukrainiens, tout est à disposition à leur arrivée ici. » Les réfugié·es d’Ukraine obtiendraient, poursuit-il, leur couverture maladie et autres droits « en deux semaines ».

    « On observe une politique de “fast-pass” quand on nous a toujours dit qu’il était impossible de donner un titre de séjour et d’ouvrir les droits à la Sécurité sociale pour tout le monde. »

    L’employé dénonce également des températures très basses sous le chapiteau réservé aux Ukrainiens, qui auraient déjà conduit à réorienter des personnes vers d’autres structures d’hébergement. « On s’échine à chauffer un centre qui est très mal isolé. C’est évidemment mieux que la rue mais certaines nuits, ça reste compliqué à cause du froid. Sans compter les dépenses d’énergie inutiles dans le contexte que l’on connaît. »

    Selon nos informations, du « gaspillage alimentaire » aurait aussi été observé, notamment le week-end, lorsque le centre est géré par l’association Coallia. En semaine, les surplus de nourriture seraient « redistribués » à des associations parisiennes pour éviter de « jeter », ont confirmé plusieurs sources. « De manière générale, tout gâchis alimentaire est dommageable. Ça l’est encore plus quand la structure accueillante est à moitié pleine », déplore l’une d’elles.

  • Un quartier de #Berlin rebaptise des lieux avec les noms de résistants africains à la #colonisation

    Une rue et une #place portant le nom de personnalités phares du colonialisme allemand ont été débaptisées, début décembre, dans le quartier de #Wedding. Elles ont désormais le nom de résistants ayant œuvré, au début du XXe siècle, contre l’action de l’Allemagne en Afrique.

    “Fini d’honorer les dirigeants de la colonisation.” Comme le rapporte le Tagesspiegel, plusieurs lieux du “quartier africain” de Berlin ont été rebaptisés, dans le cadre d’une initiative menée par les autorités locales. “L’ancienne place #Nachtigal est devenue la place #Manga-Bell ; et la rue #Lüderitz, la rue #Cornelius-Fredericks”, détaille le titre berlinois. Le tout au nom du “travail de mémoire” et du “#décolonialisme”.

    #Gustav_Nachtigal et #Adolf_Lüderitz, dont les noms ornaient jusqu’à présent les plaques du quartier, avaient tous deux “ouvert la voie au colonialisme allemand”. Ils ont été remplacés par des personnalités “qui ont été victimes de ce régime injuste”.

    À savoir Emily et Rudolf Manga Bell, le couple royal de Douala qui s’est opposé à la politique d’expropriation des terres des autorités coloniales allemandes au #Cameroun, et Cornelius Fredericks, résistant engagé en faveur du peuple des #Nama, avant d’être emprisonné et tué dans le camp de concentration de #Shark_Island, dans l’actuelle #Namibie.

    “Indemnisation symbolique”

    “Les noms des rues du quartier africain ont fait polémique pendant plusieurs années”, assure le journal berlinois. Lorsqu’en 2018 l’assemblée des délégués d’arrondissement de ce quartier, Wedding, dans l’arrondissement de #Berlin-Mitte, avait proposé pour la première fois de changer les noms de certains lieux, près de 200 riverains étaient montés au créneau, critiquant notamment le coût de la mesure. Ils assuraient par ailleurs qu’“on ne peut pas faire disparaître l’histoire des plaques de rue”.

    Mais les associations des différentes diasporas africaines, elles, considèrent que les changements de noms sont importants, dans un pays “où les crimes du colonialisme allemand ne sont pas éclaircis systématiquement”. L’Empire allemand a en effet été responsable de diverses atrocités commises pendant sa courte période coloniale – comme le génocide des Héréro et des Nama, entre 1904 et 1908, dans ce que l’on appelait à l’époque le “Sud-Ouest africain allemand” et qui correspond aujourd’hui à la Namibie.

    Cet épisode de l’histoire n’a été reconnu par l’Allemagne qu’en mai 2021, rappellent les organisations décoloniales d’outre-Rhin. “Elles demandent de nouveaux noms de rue à titre d’indemnisation symbolique pour les victimes, mais également à titre éducatif.”

    https://www.courrierinternational.com/article/memoire-un-quartier-de-berlin-rebaptise-des-lieux-avec-les-no

    #toponymie #toponymie_politique #colonialisme #résistance #noms_de_rue #rebaptisation #colonialisme_allemand #Allemagne_coloniale #Allemagne #toponymie_coloniale #mémoire

    ping @cede @nepthys

    • Keine Ehre für Kolonialherren in Berlin: Straßen im Afrikanischen Viertel werden umbenannt

      Aus dem Nachtigalplatz wird am Freitag der Manga-Bell-Platz und aus der Lüderitzstraße die Cornelius-Fredericks-Straße. Anwohner hatten gegen die Umbenennung geklagt.

      Nach jahrelangen Protesten werden ein Platz und eine Straße im Afrikanischen Viertel in Wedding umbenannt. Aus dem bisherigen Nachtigalplatz wird der Manga-Bell-Platz und aus der Lüderitzstraße die Cornelius-Fredericks-Straße.

      „Straßennamen sind Ehrungen und Teil der Erinnerungskultur“, sagte Bezirksbürgermeisterin Stefanie Remlinger (Grüne). Daher sei es eine wichtige Aufgabe, Namen aus dem Berliner Straßenbild zu tilgen, die mit Verbrechen der Kolonialzeit im Zusammenhang stehen.

      Gustav Nachtigal und Adolf Lüderitz waren Wegbereiter des deutschen Kolonialismus, der im Völkermord an den Herero und Nama gipfelte. An ihrer Stelle sollen nun Menschen geehrt werden, die Opfer des deutschen Unrechtsregimes wurden.

      Das Königspaar Emily und Rudolf Duala Manga Bell setzte sich nach anfänglicher Kooperation mit deutschen Kolonialautoritäten gegen deren Landenteignungspolitik zur Wehr. Cornelius Fredericks führte den Widerstandskrieg der Nama im damaligen Deutsch-Südwestafrika, dem heutige Namibia, an. Er wurde 1907 enthauptet und sein Schädel zur „Erforschung der Rassenüberlegenheit“ nach Deutschland geschickt und an der Charité aufbewahrt.

      Über die Straßennamen im Afrikanischen Viertel wurde viele Jahre gestritten. Im April 2018 hatte die Bezirksverordnetenversammlung Mitte nach langem Hin und Her beschlossen, den Nachtigalplatz, die Petersallee und die Lüderitzstraße umzubenennen. Dagegen hatten 200 Gewerbetreibende sowie Anwohnende geklagt und die Namensänderungen bis jetzt verzögert. Im Fall der Petersallee muss noch über eine Klage entschieden werden.

      Geschichte könne nicht überall von Straßenschildern getilgt werden, argumentieren die Gegner solcher Umbenennungen. Denn konsequent weitergedacht: Müsste dann nicht sehr vielen, historisch bedeutenden Personen die Ehre verweigert werden, wie etwa dem glühenden Antisemiten Martin Luther?
      Klagen verzögern auch Umbenennung der Mohrenstraße

      Ein anderes viel diskutiertes Beispiel in Mitte ist die Mohrenstraße, deren Namen als rassistisch kritisiert wird. Auch hier verzögern Klagen die beschlossene Umbenennung. Gewerbetreibende argumentieren auch mit Kosten und Aufwand für Änderung der Geschäftsunterlagen.

      Vor allem afrodiasporische und solidarische Organisationen wie der Weddinger Verein Eoto und Berlin Postkolonial kämpfen für die Straßenumbenennungen. Sie fordern sie als symbolische Entschädigung für die Opfer, aber auch als Lernstätte. Denn bis heute fehlt es oft an Aufklärung über die deutschen Verbrechen. Die Debatte darüber kam erst in den letzten Jahren in Gang.

      Wenn am Freitag ab 11 Uhr die neuen Straßenschilder enthüllt werden, sind auch die Botschafter Kameruns und Namibias sowie König Jean-Yves Eboumbou Douala Bell, ein Nachfahre des geehrten Königspaares, dabei. Die Straßenschilder werden mit historischen Erläuterungen versehen. (mit epd)

      https://www.tagesspiegel.de/berlin/bezirke/keine-ehre-fur-kolonialherren-in-berlin-strassen-im-afrikanischen-viert

    • Benannt nach Kolonialverbrechern: #Petersallee, Nachtigalplatz - wenn Straßennamen zum Problem werden

      Die #Mohrenstraße in Berlin wird umbenannt. Im Afrikanischen Viertel im Wedding dagegen wird weiter über die Umbenennung von Straßen gestritten.

      Die Debatte über den Umgang mit kolonialen Verbrechen, sie verläuft entlang einer Straßenecke im Berliner Wedding. Hier, wo die Petersallee auf den Nachtigalplatz trifft, wuchert eine wilde Wiese, ein paar Bäume werfen kurze Schatten, an einigen Stellen bricht Unkraut durch die Pflastersteine des Bürgersteigs. Kaum etwas zu sehen außer ein paar Straßenschildern. Doch um genau die wird hier seit Jahren gestritten.

      Am Mittwoch hat die Bezirksverordnetenversammlung Berlin-Mitte beschlossen, die Mohrenstraße in Anton-Wilhelm-Amo-Straße umzubenennen, nach einem widerständigen afrikanischen Gelehrten. Im gleichen Bezirk hat die Organisation „Berlin Postkolonial“ in dieser Woche ein Informationszentrum zur deutschen Kolonialgeschichte in der Wilhelmstraße eröffnet – in den kommenden vier Jahren soll es von Erinnerungsort zu Erinnerungsort ziehen.

      Das Zentrum ist die erste speziell dem Thema gewidmete öffentliche Anlaufstelle in der Stadt.

      Andernorts aber kämpft man seit Jahren nach wie vor erfolglos für eine Umbenennung von Straßennamen mit Bezügen zur Kolonialzeit. In ganz Deutschland gibt es noch immer mehr als 150 – im Berliner Wedding treten sie besonders geballt im sogenannten Afrikanischen Viertel auf. Orte wie die Petersallee, der Nachtigalplatz und die Lüderitzstraße. Orte, die nach deutschen Kolonialverbrechern benannt sind.
      #Carl_Peters wurde wegen seiner Gewalttaten „blutige Hand“ genannt. Gustav Nachtigal unterwarf die Kolonien Togo, Kamerun und Deutsch-Südwestafrika.

      Carl Peters (1856–1918) war die treibende Kraft hinter der Gründung der ehemaligen deutschen Kolonie #Deutsch-Ostafrika, seine Gewalttätigkeit brachte ihm die Spitznamen „Hänge-Peters“ und „blutige Hand“ ein. Gustav Nachtigal (1834– 1885) nahm eine Schlüsselrolle ein bei der Errichtung der deutschen Herrschaft über die drei westafrikanischen Kolonien Togo, Kamerun und Deutsch-Südwestafrika, das heutige Namibia. Und der Bremer Kaufmann Adolf Eduard Lüderitz (1834–1886) gilt als der Mann, der das deutsche Kolonialreich mit einem betrügerischen Kaufvertrag in Gang setzte.

      Eine Ehrung für außergewöhnliche Leistungen

      Straßennamen sollen eine besondere Ehrung darstellen, sie sollen an Menschen erinnern, die außergewöhnlich Gutes geleistet haben. Das deutsche Kolonialreich aufgebaut zu haben, fällt nicht mehr in diese Kategorie. Aus diesem Grund wurden in der Geschichte der Bundesrepublik bislang allein 19 Straßen umbenannt, die Carl Peters im Namen trugen. Das erste Mal war das 1947 in Heilbronn. Der aktuellste Fall findet sich 2015 in Ludwigsburg. Auch nach dem Ende des Nationalsozialismus und dem der DDR hat man im großen Stil Straßen umbenannt, die als Würdigung problematischer Personen galten.

      Im Wedding ist wenig passiert, in der Welt zuletzt viel. Die Ermordung des schwarzen US-Amerikaners George Floyd hat Proteste ausgelöst, weltweit. Gegen Rassismus, gegen Polizeigewalt. Aber auch gegen die noch immer präsenten Symbole des Kolonialismus, dem diese Ungerechtigkeiten, diese Unterdrückungssysteme entspringen. Im englischen Bristol stürzten Demonstranten die Statue des Sklavenhändlers Edward Colston von ihrem Sockel und versenkten sie im Hafenbecken.

      „Krieg den Palästen“

      Ein alter Gewerbehof in Kreuzberg unweit des Landwehrkanals, Sommer 2019. Tahir Della, Sprecher der Initiative Schwarze Menschen in Deutschland, sitzt an seinem Schreibtisch in einem Co-Working-Space. Um ihn herum Bücher, Flyer. Hinter Della lehnen zwei große Plakate. Auf dem einen steht: „Black Lives Matter“. Auf dem anderen: „Krieg den Palästen“. Ein paar Meter über Dellas Kopf zieht sich eine großformatige Bildergalerie durch die ganze Länge des Raums. Fotos von Schwarzen Menschen, die neue Straßenschilder über die alten halten.

      „Die kolonialen Machtverhältnisse wirken bis in die Gegenwart fort“, sagt Della. Weshalb die Querelen um die seit Jahren andauernde Straßenumbenennung im Wedding für ihn auch Symptom eines viel größeren Problems sind: das mangelnde Bewusstsein und die fehlende Bereitschaft, sich mit der deutschen Kolonialvergangenheit auseinanderzusetzen. „Die Leute haben Angst, dieses große Fass aufzumachen.“

      Denn wer über den Kolonialismus von damals spreche, der müsse auch über die Migrations- und Fluchtbewegungen von heute reden. Über strukturellen Rassismus, über racial profiling, über Polizeigewalt, darüber, wo rassistische Einordnungen überhaupt herkommen.

      Profiteure der Ausbeutung

      „Deutsche waren maßgeblich am Versklavungshandel beteiligt“, sagt Della. In Groß Friedrichsburg zum Beispiel, an der heutigen Küste Ghanas, errichtete Preußen schon im 17. Jahrhundert ein Fort, um von dort aus unter anderem mit Sklaven zu handeln. „Selbst nach dem sogenannten Verlust der Kolonien hat Europa maßgeblich von der Ausbeutung des Kontinents profitiert, das gilt auch für Deutschland“, sagt Della.

      Viele Menschen in diesem Land setzen sich aktuell zum ersten Mal mit dem Unrechtssystem des Kolonialismus auseinander und den Privilegien, die sie daraus gewinnen. Und wenn es um Privilegien geht, verhärten sich schnell die Fronten. Weshalb aus einer Debatte um die Umbenennung von kolonialen Straßennamen in den Augen einiger ein Streit zwischen linkem Moralimperativ und übervorteiltem Bürgertum wird. Ein Symptom der vermeintlichen Empörungskultur unserer Gegenwart.

      Ein unscheinbares Café im Schatten eines großen Multiplexkinos, ebenfalls im Sommer 2019. Vor der Tür schiebt sich der Verkehr langsam die Müllerstraße entlang, dahinter beginnt das Afrikanische Viertel. Drinnen warten Johann Ganz und Karina Filusch, die beiden Sprecher der Initiative Pro Afrikanisches Viertel.
      Die Personen sind belastet, aber die Namen sollen bleiben

      Ganz, Anfang 70, hat die Bürgerinitiative 2010 ins Leben gerufen. Sie wünschen sich eine Versachlichung. Er nennt die betreffenden Straßennamen im Viertel „ohne Weiteres belastet“, es sei ihm schwergefallen, sie auf Veranstaltungen zu verteidigen. Warum hat er es dennoch getan?

      Seine Haltung damals: Die Personen sind belastet, aber die Straßennamen sollten trotzdem bleiben.

      „Da bin ich für die Bürger eingesprungen“, sagt Ganz, „weil die das absolut nicht gewollt haben.“ Und Filusch ergänzt: „Weil sie nicht beteiligt wurden.“

      Allein, das mit der fehlenden Bürgerbeteiligung stimmt so nicht. Denn es gab sie – obwohl sie im Gesetz eigentlich gar nicht vorgesehen ist. Für die Benennung von Straßen sind die Bezirksverwaltungen zuständig. Im Falle des Afrikanischen Viertels ist es das Bezirksamt Mitte. Dort entschied man, den Weg über die Bezirksverordnetenversammlung zu gehen.
      Anwohner reichten 190 Vorschläge ein

      In einem ersten Schritt bat man zunächst die Anwohner, Vorschläge für neue Namen einzureichen, kurze Zeit später dann alle Bürger Berlins. Insgesamt gingen etwa 190 Vorschläge ein, über die dann eine elfköpfige Jury beriet. In der saß neben anderen zivilgesellschaftlichen Akteuren auch Tahir Della, als Vertreter der Schwarzen Community. Nach Abstimmung, Prüfung, weiteren Gutachten und Anpassungen standen am Ende die neuen Namen fest, die Personen ehren sollen, die im Widerstand gegen die deutsche Kolonialmacht aktiv waren.

      Die #Lüderitzstraße soll in Zukunft #Cornelius-Fredericks-Straße heißen, der Nachtigalplatz in Manga-Bell-Platz umbenannt werden. Die Petersallee wird in zwei Teilstücke aufgeteilt, die #Anna-Mungunda-Allee und die #Maji-Maji-Allee. So der Beschluss des Bezirksamts und der Bezirksverordnetenversammlung im April 2018. Neue Straßenschilder hängen aber bis heute nicht.

      Was vor allem am Widerstand der Menschen im Viertel liegt. Mehrere Anwohner haben gegen die Umbenennung geklagt, bis es zu einer juristischen Entscheidung kommt, können noch Monate, vielleicht sogar Jahre vergehen.

      Eine Generation will endlich gehört werden

      Auf der einen Seite ziehen sich die Prozesse in die Länge, auf der anderen steigt die Ungeduld. Wenn Tahir Della heute an die jüngsten Proteste im Kontext von „Black Lives Matter“ denkt, sieht er vor allem auch eine jüngere Generation, die endlich gehört werden will. „Ich glaube nicht, dass es gleich nachhaltige politische Prozesse in Gang setzt, wenn die Statue eines Versklavungshändlers im Kanal landet“, sagt Della, „aber es symbolisiert, dass die Leute es leid sind, immer wieder sich und die offensichtlich ungerechten Zustände erklären zu müssen.“

      In Zusammenarbeit mit dem Berliner Peng-Kollektiv, einem Zusammenschluss von Aktivisten aus verschiedenen Bereichen, hat die Initiative kürzlich eine Webseite ins Leben gerufen: www.tearthisdown.com/de. Dort findet sich unter dem Titel „Tear Down This Shit“ eine Deutschlandkarte, auf der alle Orte markiert sind, an denen beispielsweise Straßen oder Plätze noch immer nach Kolonialverbrechern oder Kolonialverbrechen benannt sind. Wie viel Kolonialismus steckt im öffentlichen Raum? Hier wird er sichtbar.

      Bemühungen für eine Umbenennung gibt es seit den Achtzigerjahren

      Es gibt viele Organisationen, die seit Jahren auf eine Aufarbeitung und Auseinandersetzung mit dem Unrecht des Kolonialismus drängen. Zwei davon sitzen im Wedding, im sogenannten Afrikanischen Viertel: EOTO, ein Bildungs- und Empowerment-Projekt, das sich für die Interessen Schwarzer, afrikanischer und afrodiasporischer Menschen in Deutschland einsetzt, und Berlin Postkolonial.

      Einer der Mitbegründer dieses Vereins ist der Historiker Christian Kopp. Zusammen mit seinen Kollegen organisiert er Führungen durch die Nachbarschaft, um über die Geschichte des Viertels aufzuklären. Denn Bemühungen, die drei Straßen umzubenennen, gibt es schon seit den achtziger Jahren.

      Kopp erzählt auch von der erfolgreichen Umbenennung des Gröbenufers in Kreuzberg im Jahr 2010, das seitdem den Namen May-Ayim-Ufer trägt. „Vor zehn Jahren wollte niemand über Kolonialismus reden“, sagt Kopp. Außer man forderte Straßenumbenennungen. „Die Möglichkeit, überhaupt erst eine Debatte über Kolonialismus entstehen zu lassen, die hat sich wohl vor allem durch unsere Umbenennungsforderungen ergeben.“

      Rassismus und Raubkunst

      2018 haben sich CDU und SPD als erste deutsche Bundesregierung überhaupt die „Aufarbeitung des Kolonialismus“ in den Koalitionsvertrag geschrieben. Auch die rot-rot-grüne Landesregierung Berlins hat sich vorgenommen, die Rolle der Hauptstadt in der Kolonialzeit aufzuarbeiten.

      Es wird öffentlich gestritten über das koloniale Erbe des Humboldt-Forums und dem Umgang damit, über die Rückgabe von kolonialer Raubkunst und die Rückführung von Schädeln und Gebeinen, die zu Zwecken rassistischer Forschung einst nach Deutschland geschafft wurden und die bis heute in großer Zahl in Sammlungen und Kellern lagern.

      Auch die Initiative Pro Afrikanisches Viertel hat ihre Positionen im Laufe der vergangenen Jahre immer wieder verändert und angepasst. War man zu Beginn noch strikt gegen eine Umbenennung der Straßen, machte man sich später für eine Umwidmung stark, so wie es 1986 schon mit der Petersallee geschehen ist. Deren Name soll sich nicht mehr auf den Kolonialherren Carl Peters beziehen, sondern auf Hans Peters, Widerstandskämpfer gegen den Nationalsozialismus und Mitglied des Kreisauer Kreises.

      Straßen sollen vorzugsweise nach Frauen benannt werden

      Heute ist man bei der Initiative nicht mehr für die alten Namen. Für die neuen aber auch nicht wirklich. Denn diese würden nicht deutlich genug im Kontext deutscher Kolonialgeschichte stehen, sagt Karina Filusch, Sprecherin der Initiative. Außerdem würden sie sich nicht an die Vorgabe halten, neue Straßen vorzugsweise nach Frauen zu benennen.

      An Cornelius Fredericks störe sie der von den „Kolonialmächten aufoktroyierte Name“. Und Anna Mungunda habe als Kämpferin gegen die Apartheid zu wenig Verbindung zum deutschen Kolonialismus. Allgemein wünsche sie sich einen Perspektivwechsel, so Filusch.

      Ein Perspektivwechsel weg von den weißen Kolonialverbrechern hin zu Schwarzen Widerstandskämpfern, das ist das, was Historiker Kopp bei der Auswahl der neuen Namen beschreibt. Anna Mungunda, eine Herero-Frau, wurde in Rücksprache mit Aktivisten aus der Herero-Community ausgewählt. Fredericks war ein Widerstandskämpfer gegen die deutsche Kolonialmacht im heutigen Namibia.
      Bezirksamt gegen Bürger? Schwarz gegen Weiß?

      Für die einen ist der Streit im Afrikanischen Viertel eine lokalpolitische Auseinandersetzung zwischen einem Bezirksamt und seinen Bürgern, die sich übergangen fühlen. Für die anderen ist er ein Symbol für die nur schleppend vorankommende Auseinandersetzung mit der deutschen Kolonialgeschichte.

      Wie schnell die Dinge in Bewegung geraten können, wenn öffentlicher Druck herrscht, zeigte kürzlich der Vorstoß der Berliner Verkehrsbetriebe. Angesichts der jüngsten Proteste verkündete die BVG, die U-Bahn-Haltestelle Mohrenstraße in Glinkastraße umzutaufen.

      Ein Antisemit, ausgerechnet?

      Der Vorschlag von Della, Kopp und ihren Mitstreitern war Anton-W.-Amo- Straße gewesen, nach dem Schwarzen deutschen Philosophen Anton Wilhelm Amo. Dass die Wahl der BVG zunächst ausgerechnet auf den antisemitischen russischen Komponisten Michail Iwanowitsch Glinka fiel, was viel Kritik auslöste, offenbart für Della ein grundsätzliches Problem: Entscheidungen werden gefällt, ohne mit den Menschen zu reden, die sich seit Jahrzehnten mit dem Thema beschäftigen.

      Am Dienstag dieser Woche ist der Berliner Senat einen wichtigen Schritt gegangen: Mit einer Änderung der Ausführungsvorschriften zum Berliner Straßengesetz hat er die Umbenennung umstrittener Straßennamen erleichtert. In der offiziellen Mitteilung heißt es: „Zukünftig wird ausdrücklich auf die Möglichkeit verwiesen, Straße umzubenennen, wenn deren Namen koloniales Unrecht heroisieren oder verharmlosen und damit Menschen herabwürdigen.“

      https://www.tagesspiegel.de/gesellschaft/petersallee-nachtigalplatz-wenn-strassennamen-zum-problem-werden-419073

  • Inchiesta sull’accoglienza selettiva: chi arriva in Italia via terra resta fuori

    Nel nostro Paese centinaia di richiedenti asilo sono rimasti in strada a fronte di almeno 5mila posti vuoti nei Centri di accoglienza. Il Viminale li avrebbe tenuti come “riserva” per gli sbarchi. Ma è una prassi illegittima.

    Nur, 25enne originario del Sud del Pakistan, è arrivato a Torino a metà giugno 2022 dopo un viaggio durato più di due anni lungo la “rotta balcanica”. Si presenta subito in questura per chiedere asilo: prova una, due, tre volte ma i funzionari continuano a chiedergli illegittimamente il domicilio in cui vive. Nur non ce l’ha perché dorme per strada. L’appuntamento, che dopo giorni riesce finalmente a ottenere, è fissato per l’inizio di agosto. Va in questura e appena uscito, con il documento che “formalizza” la sua domanda, si presenta in prefettura per chiedere accoglienza ma si trova davanti un muro. “Non ci sono posti disponibili”, gli risponde la funzionaria.

    “È difficile dirlo ma sono stato fortunato -ci racconta una volta entrato in un Centro di accoglienza (Cas) prefettizio tre mesi e mezzo dopo il suo arrivo-. Alcune persone hanno aspettato molti più mesi di me. Qui nessuno ci rispetta”. Da Torino a Trieste, passando per Roma, Firenze, Milano e Parma centinaia di richiedenti asilo provenienti dalla “rotta balcanica”, con l’inverno alle porte, dormono per strada. Le prefetture lamentano da mesi una “critica mancanza di posti” ma i dati ottenuti da Altreconomia sembrano fotografare una situazione differente. A fine giugno 2022, nonostante su diversi territori la mancata accoglienza fosse già un fenomeno diffuso, c’erano più di 5mila posti vuoti “sparsi” nei Cas di tutta Italia. Una stima al ribasso perché riguarda il 55% del totale. “I dati ci dicono che il sistema d’accoglienza ha tenuto persone per strada mentre aveva posti liberi. È illegittimo così come scrivere che ‘non c’è posto’: la normativa prevede l’obbligo di accoglienza di ogni persona dal momento della sua manifestazione di volontà di chiedere protezione”, spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste (Ics). 

    Dalle risposte ottenute da 67 prefetture su 103 totali, infatti, emerge come il sistema dei Cas non sia mai andato sotto pressione. Di sicuro fino al 30 giugno 2022 quando, a fronte di quasi 25mila posti nei centri, riferiti solamente alla capienza indicata dagli uffici che hanno risposto, ce n’erano appunto più di 5mila vuoti. Una tendenza che, grazie all’elaborazione dei dati realizzata in collaborazione con Michele Rossi, direttore del Centro immigrazione asilo e cooperazione internazionale (Ciac) di Parma e dottore di ricerca in Psicologia sociale, emerge anche nel 2021. “Analizzando le dinamiche tra posti e presenze, la rete in media risulta occupata, sia nel 2021 sia nel 2022, al 77% della capienza e la ‘riserva’ del 20% non corrisponde al quinto d’obbligo dei contratti -commenta Rossi-. Sono posti disponibili ma inutilizzati anche di fronte a situazioni locali notoriamente sotto pressione. Con riferimento al campione analizzato sono circa 5mila, se proiettati per l’intera rete porta a una stima di 9-10mila posti vuoti a livello nazionale”. 

    Il lavoro di inchiesta si è scontrato in generale con una marcata opacità del sistema: l’elaborazione dei dati è stata complessa per scarsa omogeneità nelle informazioni fornite e soprattutto per la mancanza delle risposte di alcuni centri nevralgici (Roma, Reggio Emilia, Trieste tra le altre). La prefettura di Milano (e non solo) ci ha risposto per due volte, invece, che non era possibile fornire i dati perché si trovava “a fronteggiare l’emergenza sbarchi”. Eppure, anche dal ministero dell’Interno le indicazioni date dagli uffici territoriali sembrano essere state chiare: Genova e Palermo hanno richiesto un parere al Viminale proprio lamentando un presunto “eccessivo carico di lavoro” per dare seguito alla richiesta. Ma meno di due settimane dopo ci hanno fornito i dati: da Roma, evidentemente, hanno ricordato che la trasparenza non è un esercizio di stile.

    Dai dati ottenuti le tendenze ricostruite mettono in discussione la capacità del sistema -in termini di presenze, posti disponibili e capienza- di adattarsi in seguito a due eventi che avrebbero dovuto “scuoterlo”. Quello dell’agosto 2021 con la caduta di Kabul nelle mani dei Talebani e il conseguente aumento del numero di persone che ha cercato protezione in Europa, e quello del febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina. Per Rossi è la “radiografia di un sistema che fallisce: non si ridimensiona in funzione del bisogno, non è flessibile e non garantisce tempestività nell’accoglienza. Le caratteristiche con cui si legittima il suo sovradimensionamento rispetto al sistema ordinario non trovano la minima conferma alla riprova dei dati”.

    Un paradosso. Il decreto 142 del 2015 che disciplina il funzionamento dei Cas, infatti, sottolinea come queste strutture debbano essere utilizzate in caso di “arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti asilo” al fine di sopperire alla mancanza di posti in quelle ordinarie o nei servizi predisposti dagli enti locali. Ma per affrontare l’accoglienza delle 120mila persone ucraine arrivate in meno di due mesi (a metà novembre circa 170mila), il governo italiano è dovuto correre ai ripari. L’ha fatto prevedendo un “terzo canale” di accoglienza diffusa gestito dalla Protezione civile. Nell’aprile 2022 è stato pubblicato un bando che, in meno di dieci giorni, ha intercettato 26mila posti su tutto il territorio nazionale incontrando grande disponibilità da parte del Terzo settore capace di coinvolgere società civile ed enti locali. “La risposta di fronte a questa disponibilità è stata minima e tardiva dissipando un enorme potenziale di sviluppo del sistema pubblico, mentre molte prefetture negavano l’accesso ai richiedenti affermando di dover destinare posti all’emergenza sbarchi. Qualcosa non torna”, sottolinea Rossi.

    Diversi operatori attivi nel settore dell’accoglienza hanno raccontato come la principale “scusa” addotta dalle prefetture fosse l’assenza di posti effettivi perché era necessario riservare alcune quote alle persone per le “emergenze” legate agli sbarchi sulle coste italiane. “Una buona programmazione imporrebbe al ministero di allestire più posti di accoglienza rispetto alle necessità e solo in questo senso riservare posti per gli sbarchi può essere corretto -sottolinea Schiavone-. Non lo è invece lasciare dei posti liberi con persone che dormono per strada: la legge prevede che non vi siano distinzioni tra i richiedenti asilo in base alla loro modalità di arrivo, via terra o via mare”.

    Dai dati raccolti non è stato possibile stimare il tempo medio di attesa di inserimento nei centri di chi arriva via terra. Diversi hanno ammesso però i ritardi: si va dalle due settimane di Alessandria, ai 12 giorni di Aosta, fino a Forlì che segnala un tempo medio di 30 giorni. Grosseto ha scritto che i tempi di attesa dipendono “dalle condizioni soggettive del migrante” così come Firenze che ha ammesso che “dipende dai posti disponibili in Cas”. Anche Bergamo ha implicitamente dichiarato una “selezione” sottolineando che “le persone in condizioni di fragilità e i nuclei familiari vengono accolti immediatamente”. In generale dalle 39 risposte arrivate su questo punto il 46% dichiara che l’ingresso è immediato, senza però distinguere tra chi arriva via mare e chi via terra.

    I dati raccolti si fermano a giugno 2022 e a metà novembre 2022 centinaia di persone continuano a dormire per strada. A Trieste, anche a causa dei mancati trasferimenti su altri territori, la situazione è drammatica. Così la “strategia” dell’amministrazione sembra quella di “forzare la mano”, revocando le misure di accoglienza per svuotare i centri. L’avvocata Caterina Bove, del foro di Trieste e socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, ha impugnato una revoca dell’accoglienza notificata a metà novembre a sette richiedenti asilo ospitati in un centro a Gradisca d’Isonzo allontanati da lì per aver acceso un fornelletto elettrico e aver provocato un “cortocircuito del sensore antincendio”. Il Tar del Friuli-Venezia Giulia le ha dato ragione “annullando i provvedimenti impugnati” e riconoscendo un risarcimento del danno “nella misura di cento euro a ricorrente”. “La violazione delle regole non può fondare la revoca delle misure di accoglienza, lo ha chiarito con due sentenze la Corte di giustizia dell’Ue. Invece più di 20 persone sono state allontanate nonostante fosse ormai tarda sera”, osserva Bove. Nonostante la sentenza del Tar, quando va in stampa la rivista, la prefettura non ha ancora riaccolto le persone per una mancanza di posti. 

    Durante un’informativa al Senato del 16 novembre il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha sottolineato la presenza di 100mila persone nei centri di accoglienza spiegando che la “saturazione dei posti disponibili” è legata alla “criticità nel reperimento di nuove soluzioni alloggiative”. Secondo il ministro nel 2022 sarebbero state concluse 570 procedure di gara per contrattualizzare oltre 66mila posti: 76 di queste sono andate deserte con i posti messi a contratto che sono stati il 57% del totale programmato (37mila). I dati al giugno 2022 non confermano questa tendenza. “Quel che è certo è che l’accoglienza alle condizioni del ministero è diventata impossibile a causa di una sproporzionata riduzione dei costi che ha scoraggiato le associazioni che vogliono realizzare servizi di qualità -sottolinea Schiavone-. Il campo è rimasto aperto solo alle speculazioni di enti, spesso dichiaratamente profit, che gestiscono strutture parcheggio con bassissimi standard”.

    Il ministro ha poi lamentato l’aumento del 56% delle richieste d’asilo: un dato che però, in termini di pressione sul sistema d’accoglienza, va analizzato sia in termini assoluti (sono poco meno di 70mila) sia in relazione al numero di decisioni delle Commissioni territoriali che valutano la domanda. Anche questo dato è in aumento del 27% e quindi rispetto ai Cas, che accolgono fino a quando la persona non riceve l’esito, il maggior numero di sbarchi incide relativamente. “I casi sono due: o le prefetture non forniscono i dati adeguati oppure il ministero ha chiaro dove ci sono i posti, dov’è il bisogno, ma non agisce. E pubblicamente racconta la favola della saturazione”, conclude Schiavone. 

    Anche il dato delle revoche dell’accoglienza è un altro indicatore interessante. In alcune province il numero delle persone inserite nel 2022 è quasi pari al numero di persone che sono state “revocate”. È il caso di Torino (582 inseriti, contro 578 revoche), Agrigento (604 contro 527), Trapani (518 contro 357), Palermo (555 ingressi, 301 revoche): in sintesi, in questi territori, per ogni persona che è entrata un’altra abbandonava la struttura e liberava un posto. Allargando lo sguardo a livello nazionale le revoche sono il 44% delle presenze totali nel 2021 (7.340 su 16.635) e il 29% nel 2022 ma riferite solamente al primo semestre. “Anche questo dato sembrerebbe confermare una costante tensione nel mantenere ‘posti riservati’ senza ampliare il sistema e senza ruotare le presenze sui posti disponibili -conclude Rossi-. Questa dinamica, se confermata, fa sorgere interrogativi ineludibili: come funziona l’accesso? Chi seleziona e sulla base di quali criteri gli ingressi? Un sistema pubblico non può essere soggetto a tale aleatorietà”. Dagli sbarchi selettivi all’accoglienza per pochi, d’altronde, il passo è breve.

    https://altreconomia.it/inchiesta-sullaccoglienza-selettiva-chi-arriva-in-italia-via-terra-rest
    #hébergement #Italie #sélection #places_réservés #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #Balkans #statistiques #chiffres #SDF #accueil_sélectif

  • NEL GIORNO IN CUI IL MONDO CHIEDE LA FINE DELLA GUERRA IN UCRAINA, MIMMO LUCANO DIVENTA CITTADINO ONORARIO DI MARSIGLIA

    Caro Mimmo,
    che questo giorno e questa onorificenza ti portino un po’ di serenità e che il tuo Paese sappia riconoscere finalmente i tuoi meriti, la tua umanità e i suoi errori.
    Nemo propheta in patria!
    Con affetto e gratitudine da noi tutti che ti conosciamo e ti sentiamo come un fratello.

    #Marseille #toponymie_politique #migrations #asile #accueil #réfugiés #Riace #honneur #Mimmo_Lucano #Domenico_Lucano #Citoyen_d'honneur #citoyenneté_d'honneur #noms_de_rue

    #place_Riace #toponymie_politique #toponymie_migrante :

    « Place Riace. Village italien symbole mondial d’une utopie réaliste : l’hospitalité »

    #utopie_réaliste #hospitalité

    • Marseille honore Mimmo Lucano, l’ancien maire accueillant d’un village de Calabre poursuivi par l’extrême droite italienne

      L’ancien maire de Riace avait décidé de repeupler son village calabrais grâce aux migrants. Cela lui a valu les foudres de l’extrême droite italienne. Poursuivi en justice, il risque entre dix et treize ans de prison.

      Domenico Lucano dit Mimmo Lucano est l’ancien maire de Riace en Calabre. Cet ancien militant des droits de l’homme, s’est fait connaitre par ses prises de positions favorables à l’accueil des migrants.

      Mimmo Lucano avait redonné vie à son village grâce aux « extracomunitari »

      Ce sympathisant communiste avait notamment favorisé leur implantation à Riace afin de redonner vie au village. En 2018, il avait en effet accueilli 600 extracomunitari comme on dit en Italie, qui étaient venus revivifier cette bourgade de 2000 habitants. Le village avait été frappé depuis plus d’un siècle par l’exode de sa population vers les villes industrielles du nord de la péninsule. Avec l’arrivée de ces nouveaux habitants, Riace avait connu un certain renouveau avec la restauration de maisons, la réouverture de commerces et même de l’école du village, mais en 2018, Mimmo Lucano s’était vu couper les aides économiques du Centre d’accueil extraordinaire (CAS) au moment de l’arrivée au pouvoir de Matteo Salvini.

      Son engagement lui a causé de nombreux problèmes

      Pour protester contre ces coupes financières, Mimmo Lucano avait entamé une grève de la faim. Le 1er octobre 2018, il avait même été accusé d’aide à l’immigration clandestine et arrêté. Il a également été poursuivi sous prétexte d’irrégularités dans l’attribution de financements pour le ramassage des ordures à Riace et l’organisation de mariages blancs entre les habitants du village et des migrants. Cela lui a valu une interdiction de séjour dans son propre village de 11 mois. En septembre 2021, il a même été condamné à 13 ans de prison pour avoir organisé des mariages blancs pour des femmes déboutées du droit d’asile et pour avoir attribué des marchés sans appel d’offres à des coopératives liées aux migrants.

      « J’assume d’être sorti de la légalité, mais la légalité et la justice sont deux choses différentes. La légalité est l’instrument du pouvoir et le pouvoir peut-être injuste », déclarait alors Domenico Lucano.

      Le 26 octobre s’est ouvert son procès en appel. Il risque entre dix et treize ans de prison.

      Marseille honore l’ancien maire de Riace

      Hier, la ville de Marseille a honoré l’ancien maire de Riace. L’italien a été fait citoyen d’honneur de la ville et le maire socialiste de Marseille, Benoit Payan lui a remis une médaille.

      L’eurodéputé EELV, Damien Careme qui a assisté à l’évènement a exprimé sur Twitter sa « solidarité avec celui qui est menacé en justice par l’extrême droite italienne qui lui fait un procès politique ».

      Un rassemblement a également été organisé en son honneur, au Musée de l’histoire de la ville de Marseille. Le coordinateur des actions du PEROU, Sébastien Thierry, en a profité pour déclamer un discours.

      Selon lui, « L’hospitalité vive est le seul projet politique viable pour ce 21e siècle ». « Nous savons combien les bouleversements climatiques s’annoncent extraordinaires ». Nous savons combien les mouvements migratoires seront colossaux durant ce siècle, et ce particulièrement dans le bassin méditerranéen ».

      S’adressant à Mimmo Lucano, M. Thierry ajouta : « Nous savons donc que tout ce qui s’oppose à cela, que tout ce qui s’oppose à ce que tu as bâti, que tout ce qui s’oppose aux navires sauvant des vies en Méditerranée, que tout ce qui s’oppose à une Europe massivement accueillante, s’oppose en vérité au seul avenir respirable qui soit ». « Ce ne sont pas des politiques qui te font face, ce sont des cadavres. »

      https://veridik.fr/2022/11/06/marseille-honore-mimmo-lucano-lancien-maire-accueillant-dun-village-de-calab

  • Tim Sweeney sur Twitter :
    https://twitter.com/TimSweeneyEpic/status/1553142531533176837

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    […]

    Developers won’t be able to target a specific application when bidding for product page ad placement. For instance, Twitter wouldn’t be able to target Tweetbot specifically. The ads, however, will be relevant for each of the product pages. This means you could (and probably will) see ads for direct competitors on app pages.

    #jeux_vidéo #jeu_vidéo #business #apple #publicité #app_store #placement_publicitaire #apple_search_ads #publicité_contextuelle #publicité_ciblée #vie_privée #google_play

  • Sur la #place_Taksim, une citation...

    « Aujourd’hui interminablement en travaux (personne ne comprend bien pour quoi faire, et tout le monde s’en fout), j’ai l’impression qu’elle appartient davantage aux pigeons qu’à nos souvenirs. Il y avait des tentes partout, de part et d’autre dune allée baptisée #Hrant-Dink, du nom d’un journaliste arménien assassiné quelques années auparavant, adopté comme figure tutélaire par les manifestants qui occupaient la place pour empêcher la destruction d’un des rares espaces verts de la ville »

    source: Valérie Manteau, Le sillon , Le Tripode, 2018, pp.16-17


    https://le-tripode.net/livre/valerie-manteau/meteore/le-sillon
    (j’en recommande la lecture, by the way)

    #toponymie #toponymie_politique #Turquie #Hrant-Dink

  • La bataille des ambiances
    https://metropolitiques.eu/La-bataille-des-ambiances.html

    « Aseptisée » ou « rebelle » : la #place Sainte-Anne à #Rennes est au cœur de conflits opposant habitants et élus sur son réaménagement. Julien Torchin analyse ici comment, derrière la notion d’« ambiance », sont mobilisés les affects dans la défense ou l’opposition au projet. À Rennes, une série de grands projets lancés ces dix dernières années incarnent la mue du chef-lieu de la région Bretagne en métropole à rayonnement régional dans le paysage architectural (la ville compte 220 500 habitants en 2021 et ses #Terrains

    / #aménagement, Rennes, #ambiances_urbaines, place, #espace_public, #centre-ville

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_torchin.pdf

  • Les espaces publics, un impensé du #Grand_Paris ?
    https://metropolitiques.eu/Les-espaces-publics-un-impense-du-Grand-Paris.html

    Alors que les espaces publics sont relativement absents des débats sur l’aménagement de la région capitale, cet essai appelle à faire du #Grand_Paris_Express un levier pour transformer conjointement espaces publics et #mobilités dans la profondeur des territoires. Souvent réduits à des enjeux locaux ou techniques, les espaces publics sont un impensé des débats sur l’aménagement du Grand Paris. Les rues, les boulevards et les places demeurent majoritairement modelés pour l’automobile, laissant peu #Essais

    / #temps, #conception, Grand Paris Express, Grand Paris, mobilité, #espace_public

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met-enon-fleury-maillot-trevelo.pdf

  • Musée d’art et d’histoire de #Neuchâtel
    –-> Recherches passé colonial

    Dans un souci d’intégrer les acquis de la recherche et de stimuler la réflexion face aux enjeux contemporains liés au #passé_colonial de la Suisse, le #MahN entend mettre à disposition du public des sources et des indications bibliographiques sur l’implication de Neuchâtelois dans la #traite_négrière et l’#esclavage.

    https://www.mahn.ch/fr/expositions/recherches-passe-colonial-1

    –-

    #Séminaire UNINE sur la statue de #David_de_Pury, 7 décembre 2020

    https://www.youtube.com/watch?v=JhSZz3pbIHU


    #de_Pury #monument #mémoire #statue


    –-

    #mémoire de bachelor :
    Déboulonner David de Pury. Une analyse des revendications et des résistances autour du retrait d’un #monument sur la #Place_Pury

    https://www.mahn.ch/fileadmin/mahn/EXPOSITIONS/EXPOSITIONS_ACTUELLES/Recherches_passe_colonial/TEXTES/MemoireMasterUNiNEDaviddePury2021.pdf

    #Suisse #histoire #histoire_coloniale #décolonial

    –-

    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_suisse :
    https://seenthis.net/messages/868109

    • En tête-à-tête avec David de Pury

      Inaugurées hier à Neuchâtel, des œuvres d’art contemporain sont censées porter ombrage à David de Pury. La Ville a choisi cette option plutôt que celle du déboulonnage.

      On dirait à première vue un nain de jardin coulé dans du béton par le collectif chaux-de-fonnier Plonk & Replonk. Mais à y regarder de plus près, c’est bien l’ancien bienfaiteur de Neuchâtel David de Pury, dont la fortune a été érigée au XVIIIe siècle grâce au commerce triangulaire, qui a été légèrement renversé de son piédestal. Du moins symboliquement.

      L’artiste genevois et afro-descendant #Mathias_Pfund a en effet irrévérencieusement bétonné un modèle miniature de cette statue, qu’il a ensuite renversée à 180 degrés pour les besoins d’un art critique et éclairant sur le passé. Choisie par le jury, son œuvre présentée hier à Neuchâtel est cependant nettement moins imposante que l’originale. Elle va pourtant tenter bientôt de dialoguer avec l’auguste statue qui trône sur la place du même nom depuis 1855. Baptisée A scratch on the nose (Une éraflure sur le nez), sa sculpture a été vernie hier par les autorités municipales sur le Péristyle de l’Hôtel de Ville dans le cadre de la semaine d’actions contre le racisme à Neuchâtel. Là aussi tout un symbole.

      Contenter les pétitionnaires

      Par ce type d’actions, l’exécutif veut entretenir son tête-à-tête avec David de Pury en livrant des contrepoids qu’il juge pertinents pour que l’histoire encombrante de la ville continue d’être questionnée. Un geste aussi à l’adresse d’une partie des pétitionnaires qui, au cours de l’été 2020, ont demandé que l’on déboulonne la statue du commerçant dans le sillage d’autres opérations de ce genre menées à travers le monde. Mais au lieu de céder au tabula rasa, la Ville de Neuchâtel a finalement choisi l’option des #marques_mémorielles.

      L’œuvre conçue par Mathias Pfund a été choisie par un jury cornaqué par Pap Ndiaye, lui-même à la tête du Palais de la Porte-Dorée à Paris, qui comprend le Musée d’histoire de l’immigration version française. Il a été secondé dans ses choix par Martin Jakob du Centre d’art de Neuchâtel (CAN), Faysal Mah du Collectif pour la mémoire, Noémie Michel, maître-assistante en science politique à l’université de Genève, Alina Mnatsakanian, coprésidente de Visarte Neuchâtel, et la photographe Namsa Leuba. Trois membres de l’art officiel ont également eu leur mot à dire : l’urbaniste municipal, Fabien Coquillat, le codirecteur du Musée d’ethnographie de Neuchâtel Grégoire Mayor et la conservatrice du département des arts plastiques au Musée d’art et d’histoire, Antonia Nessi.
      Coups de boutoir nécessaires

      Membre du mouvement Solidarités Neuchâtel, François Chédel voit dans cette mise en perspective « un premier pas ainsi qu’une solution pour l’heure satisfaisante ». Du moins en phase avec les réflexions qui entourent le sort de cette statue depuis près de deux ans. Une chose est sûre, l’exécutif n’entend ni rebaptiser la place ni déplacer l’icône du négociant.

      En revanche, l’espace sera revue de fond en comble. Ce qui devrait permettre sans doute aux œuvres sélectionnées, quatre au total, dont celle de Mathias Pfund et celle de l’artiste neuchâtelois #Nathan_Solioz (Ignis fatuus) qui fera appel cet hiver aux âmes des esclaves, de perdurer. « La durée de leur exposition devant la statue est étroitement liée à la question du réaménagement de la place Pury. On peut donc parler de plusieurs années d’exposition, sans être plus précis pour l’instant », ont indiqué au Courrier les autorités municipales.

      Pour François Chédel, les noms qui parsèment l’espace public continuent cependant de nous interroger, à Neuchâtel aussi, sur « nos réalités patriarcales, colonialistes, voire racistes ». Il relève aussi que les actions didactiques menées par la Ville n’auraient sans doute pas été possibles « sans les changements radicaux » exigés voici maintenant près de deux ans par son mouvement ainsi que par d’autres dans la foulée des manifestations Black Lives Matter. Il faut « questionner notre histoire et sa résonance dans l’espace public au travers de nouveaux #récits », a résumé pour sa part récemment le Service cantonal de la cohésion multiculturelle en présentant la Semaine contre le racisme.

      https://lecourrier.ch/2022/03/21/en-tete-a-tete-avec-david-de-pury

    • Place Pury : un hommage raté ?

      Suite à l’inauguration de l’œuvre autour de la statue de Pury, des voix dénoncent une « imposture » et pointent du doigt un hommage aux victimes de l’esclavage « au rabais ».

      La semaine dernière, Neuchâtel inaugurait une oeuvre Great in the Concrete (notre édition du 28 octobre) et une plaque explicative autour de la statue de David de Pury, un négociant qui avait fait fortune avec l’esclavage et légué sa fortune à la ville. Le monument a été au cœur de houleux débats lors du mouvement « Black Lives Matter ». Une pétition demandait en 2020 son retrait (notre édition du 26 juillet 2020).

      Suite à cette polémique, la Ville a lancé une série de mesures pour faire la lumière sur son passé colonial, dont la plaque et l’œuvre.

      Si ces deux initiatives sont présentées par les autorités comme un « #acte_de_mémoire » et un « #hommage » envers les personnes exploitées par le riche baron, le secrétaire général du Carrefour de réflexion et d’action contre le racisme anti-Noirs (CRAN), Kayana Mutombo, se dit très déçu. Il y voit même une #humiliation.

      « Le résultat de ce processus est tout simplement une #imposture », dénonce le politologue. Il déplore les #dimensions de #Great_in_the_Concrete. Il s’agit d’une version #miniature de la statue du bienfaiteur renversée, tête écrasée dans le sol. Le politologue n’était pourtant pas en faveur d’un déboulonnement.

      « J’ai participé aux rencontres initiales, nous avions proposé la création d’un monument bis qui établisse un dialogue entre le monument et les descendants des victimes de l’esclavage. Le résultat est au final une discussion entre de Pury et de Pury. Les voix des victimes et de leurs descendant·es n’y sont pas intégrées. »

      Nommer les victimes de l’esclavage

      Cet ancien chargé du Programme de lutte contre le racisme et la discrimination à l’UNESCO estime que la mémoire des victimes est ainsi minimisée. « Nous avions souligné l’importance de la #proportionnalité entre la statue originale et la nouvelle dans le cadre d’un devoir de mémoire. On rend hommage aux descendant·es aujourd’hui, comme on récompensait les esclaves avec une miche de pain ! »

      Il regrette également que les mots « Noir·es et Afrique » ne figurent pas sur la plaque explicative. « Il faut avoir étudié l’histoire pour comprendre les termes de #commerce_triangulaire et #colonisation. Ne pas nommer les #victimes est l’une des stratégies du racisme anti-Noir·es », déplore Kanyana Mutombo.

      Le collectif pour la mémoire à l’origine de la pétition est plus nuancé. Il estime que « ces mesures ne sont pas suffisantes ni satisfaisantes mais guident sur la voie à emprunter ». Il avance que la Ville de Neuchâtel a pris au sérieux sa demande constituant un groupe de réflexion et en produisant un contenu pédagogique, à défaut d’enlever la statue. Il regrette cependant que le Secrétaire général du CRAN n’ait pas été inclus dans la suite de la réflexion.

      Des moyens dérisoires ?

      D’autres voix déplorent le manque de moyens engagés pour la Ville. Ousmane Dia, artiste plasticien suisse et sénégalais, très enthousiasmé dans le projet a vu ses ardeurs freinées, lorsqu’il a appris que le budget alloué était de 20 000 à 25 000 francs.

      « En tant qu’artiste plasticien afro-descendant, je ne pouvais pas ne pas concourir. Mon projet s’appelle #Dialoguons, il s’agit d’une œuvre monumentale constituée de personnages en acier placés tout autour de de Pury pour l’interpeller. J’ai glissé une lettre dans mon dossier qui mentionne que rien que pour fabriquer l’objet coûte 63 000 francs et que leur budget n’était pas suffisant. »

      Au total, une enveloppe de 66 000 francs a été investie dans le cadre de cet appel à projets artistiques. Quatre projets ont été retenus mais seuls deux verront le jour. Les deux autres n’étaient techniquement pas réalisables. Le projet de #Nathan_Solioz_Ignis_Fatuus, (feu folet), une évocation en lumière des âmes des esclaves morts lors de la traversée forcée de l’Atlantique, sera réalisée au printemps prochain.

      Thomas Facchinetti, conseiller communal en charge de la culture, de l’intégration, de la cohésion sociale et responsable du dossier, précise que le vernissage des deux œuvres primées n’est pas l’unique réponse aux demandes des pétitionnaires.

      « La Ville a pris toute une liste de mesures. Un #parcours_pédagogique sur le passé colonial de la Ville est en cours d’élaboration, une exposition au Musée d’art et d’Histoire aborde ces sujets et des recherches historiques vont être réalisées. Il s’agit d’un engagement très conséquent. »

      Il rappelle que le monument réalisé par le sculpteur #David_d’Angers avait été financé à l’époque par de riches notables, alors que l’initiative actuelle se fait aux frais des contribuables.

      De Pury à Dakar

      Aujourd’hui, #Ousmane_Dia, le candidat déçu se dit surtout choqué par la #taille de l’oeuvre vernie. « J’ai beau retourner le sujet dans tous les sens je n’y vois qu’une interprétation : la statuette nous dit qu’on a tenté de renverser et d’enfoncer de Pury, mais la grande statue répond qu’il s’est relevé encore plus grand.

      Pour Martin Jakob, artiste et curateur au CAN Centre d’art Neuchâtel, membre du jury, le caractère non monumental de l’oeuvre retenue fait tout son sens. « Aucun travail artistique ne permet de panser toutes les plaies. Aujourd’hui, il n’est plus question de réaliser de statues comme à l’époque. D’ailleurs, quel que soit leur taille, ces œuvres d’art finissent par intégrer notre environnement quotidien et s’effacer de notre regard. l’important, c’est le débat qu’elles suscitent. »

      Le collectif pour la mémoire se dit « ravi » par la mise en place de Great in the concrete mais espère qu’un budget pourra être alloué pour concrétiser le projet de Ousmane Dia. « Malgré le fait que la statue soit toujours là et qu’il y aurait encore beaucoup à questionner sur l’acharnement à défendre ce personnage nous souhaitons plutôt se concentrer sur la mémoire de milliers de personnes réduites en esclavage. »

      La saga de Pury n’en est pas à son épilogue. A l’horizon 2028-2029, la place devrait être entièrement requalifiée, la statue pourrait être déplacée et son nom pourrait même être modifié. « Il s’agit d’un projet de plusieurs millions de francs.

      Avec l’enveloppe du pour-cent culturel, un concours artistique sera réalisé, son budget sera bien plus conséquent et permettra d’ériger une œuvre pérenne plus conséquente », précise Thomas Facchinetti. Quant à Ousmane Dia, il envisage de réaliser son projet à Dakar, en reproduisant une statue de David de Pury pour y intégrer son projet Dialoguons.

      https://lecourrier.ch/2022/10/30/place-pury-un-hommage-rate

    • La statue, l’esclavagiste et le #contre-monument contestés

      Fin décembre 2022, à Neuchâtel, une récente installation d’art contemporain, conçue comme réponse à la statue de l’esclavagiste David de Pury contestée en 2020 par des militants se revendiquant de « Black Lives Matter », a été à son tour maculée de peinture. Ce dispositif didactique et conceptuel déployé dans l’espace public, qui compte parmi les premiers adoptés en Europe pour réparer symboliquement les mémoires citoyennes blessées, est un contre-monument ironique, temporaire et anti-monumental.

      https://aoc.media/analyse/2023/02/07/la-statue-lesclavagiste-et-le-contre-monument-contestes

      et sur seenthis : https://seenthis.net/messages/989775

  • Une #statue bien encombrante

    Neuchâtel mise sur des œuvres d’art et son Musée d’art et d’histoire pour « décoloniser » la #place_Pury. L’avenir de la statue du négociant n’est pas bien défini.

    (#paywall)
    https://lecourrier.ch/2021/11/11/une-statue-bien-encombrante

    #Neuchâtel #Suisse #de_Pury #Pury #Suisse #Suisse_coloniale #décolonial

    ping @cede
    –-

    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_suisse :
    https://seenthis.net/messages/868109

  • Trésors sous clé - Le système des ports francs - Regarder le documentaire complet | ARTE
    https://www.arte.tv/fr/videos/088464-000-A/tresors-sous-cle-le-systeme-des-ports-francs

    On voit même une restauratrice d’art passer sa carrière dans un de ces entrepôts à Genève

    De Singapour au Luxembourg en passant par la Suisse, un service très discret s’avère aujourd’hui en plein essor : le stockage de biens précieux (œuvres d’art, voitures de luxe, grands crus...) dans des entrepôts sécurisés appelés ports francs, ou « freeports », considérés à l’origine comme des zones de transit temporaire. Ce système, extrêmement avantageux pour des propriétaires restant anonymes s’ils le souhaitent et exonérés de droits de douane comme de TVA, favorise l’évasion fiscale et le commerce parallèle. Car ces marchandises peuvent être revendues au sein même des dépôts dans des transactions pas toujours transparentes.

    #spéculation #fraude_fiscale #placement #art_business

  • JT de 13 h de France 2 en direct de Dieppe : le fauteur de #troubles interpellé et gardé à vue
    https://www.paris-normandie.fr/id247644/article/2021-11-05/jt-de-13-h-de-france-2-en-direct-de-dieppe-le-fauteur-de-troubles-in

    #place_Nationale à #Dieppe, jeudi 4 novembre, un homme s’était approché du plateau et avait crié, pendant quelques secondes qui avaient paru bien longues, « Macron, démission ! #Benalla, en prison ! » Repoussé par le service d’ordre en place, l’homme n’avait plus perturbé l’édition et le journaliste présentateur Julian Bugier avait évoqué, alors, les aléas du #direct.

    Il refuse de donner son identité
    Mais l’histoire ne s’arrête pas là pour le fauteur de troubles. Il a en effet été interpellé tout juste après les faits, aux abords de la place Nationale, par la police nationale. Emmené au commissariat, il a été interrogé au cours d’une garde à vue. L’individu a refusé de décliner son identité et a opposé un strict refus au fait de se faire fouiller. Tout juste a-t-il expliqué en vouloir au président de la République car il lui impute la faillite en 2015 de l’entreprise implantée près de Dieppe, dont il aurait été le patron. À l’époque, Emmanuel Macron était ministre de l’Économie et de l’Industrie. Au fait des propos décousus tenus devant les fonctionnaires de police, le procureur de la République a cru bon de présenter l’individu à un psychiatre. Lequel a hospitalisé l’homme en #psychiatrie à l’issue de la consultation

  • Du vin, de la bière, un héritage colonial et un mécano fiscal

    En poussant la porte d’un caviste Nicolas, peu de clients savent qu’ils pénètrent dans une enseigne du groupe Castel, une multinationale qui s’est im- posée comme le premier négociant français de vin, troisième sur le marché international. À la tête de l’entreprise, la très discrète famille Castel compte parmi les dix premières fortunes hexagonales. Mais ce champion vinicole est aussi – et surtout – un vieil empire françafricain de la bière et des boissons gazeuses.

    Note sur : Survie : De l’Afrique aux places offshore
    L’empire Castel brasse de l’or

    https://entreleslignesentrelesmots.blog/2021/07/12/du-vin-de-la-biere-un-heritage-colonial-et-un-mecano-fi

    #castel #afrique

  • Tribune de l’#Observatoire_du_décolonialisme
    –-> observatoire déjà signalé ici :
    https://seenthis.net/messages/901103
    https://seenthis.net/messages/905509

    « #Décolonialisme et #idéologies_identitaires représentent un quart de la #recherche en #sciences_humaines aujourd’hui »

    Les tenants du décolonialisme et des idéologies identitaires minimisent ou nient leur existence. La montée en puissance de ces #idéologies dans la recherche est pourtant flagrante et on peut la mesurer, démontrent les trois universitaires.

    Dans les débats sur le terme d’#islamo-gauchisme, beaucoup ont prétendu qu’il n’existait pas, puisque ni les islamistes ni les gauchistes n’emploient ce terme. De même, dans de multiples tribunes et émissions, les tenants du décolonialisme et des idéologies identitaires minimisent ou nient leur existence en produisant des chiffres infimes et en soulignant qu’il n’existe pas de postes dont l’intitulé comprend le mot décolonialisme. À ce jeu-là, un essai intitulé « Les Blancs, Les Juifs et nous » [nom du livre de Houria Bouteldjane, porte-parole du Parti des Indigènes de la République, NDLR] ne serait évidemment pas #décolonial, puisqu’il n’y a pas le mot « décolonial » dedans.

    Parler de « décolonialisme », ce n’est donc pas s’intéresser au mot « décolonial » mais aux notions qui le structurent dont le vocabulaire est un reflet, mais pas seulement. La rhétorique, la syntaxe, la stylistique : tout participe à un ensemble qui détermine le caractère d’un écrit. Par exemple, « pertinent » est un adjectif qui nous sert à caractériser un essai. On dit par exemple d’un article qu’il est « pertinent » - Mais le mot « pertinent », c’est nous qui l’employons. Il n’est pas présent dans le texte évalué. C’est le propre du jugement de dégager une idée synthétique à partir des mots exprimés.

    Mais soit, faisons le pari des mots et jouons le jeu qui consiste à croire que les #mots disent le contenu. Mais alors : de tous les mots. Et pas seulement de ceux que l’on nous impose dans un débat devenu byzantin où un chef d’entreprise-chercheur nous explique que tout ça est un micro-phénomène de la recherche qui n’a aucun intérêt, que le mot ne pèse que 0,001% de la recherche en sciences humaines et où, par un psittacisme remarquable, on en vient presque à prouver que la sociologie elle-même ne publie rien.

    Partons simplement d’un constat lexical : sous le décolonialisme tel que nous pensons qu’il s’exprime en France dans l’université au XXIe siècle, nous trouvons les idées qui « déconstruisent » les sciences - la #race, le #genre, l’#intersectionnalité, l’#islamophobie, le #racisme. Que ces mots occupent les chercheurs avec des grilles de lecture nouvelles, tantôt pour les critiquer tantôt pour les étayer et que ces mots - dans le domaine bien précis des Lettres - occupent une place qu’ils n’occupaient pas autrefois - ce qui dénote une évolution de la discipline.

    Dans un premier temps, nous nous intéresserons au fonctionnement des #blogs à visée scientifique, dont nous pensons qu’ils constituent un lieu de la littérature marginale scientifique. Puis dans un second temps, à la #production_scientifique au prisme des #publications présentes à travers les revues et les livres. On s’intéressera en particulier à l’#OpenEdition parce que c’est précisément un lieu-outil où la recherche se présente aux instances gouvernantes comme un mètre-étalon des livrables de la recherche.

    Notre vocabulaire réunit quelques mots identifiés comme représentatifs des thématiques décoloniales et intersectionnelles, sans préjuger du positionnemenent de l’auteur soit pour ou contre (décolonial, #postcolonial, #discriminations, race(s), genre(s), racisme(s), intersectionnalité et synonymes). Il nous suffit d’acter que le sujet occupe une place plus ou moins importante dans le débat.

    Sur OpenEdition, réduit à la part des blogs (Hypotheses) et événements annoncés (Calenda) : une recherche « courte » sur « genre, race et intersectionnalité » donne près de 37578 résultats sur 490078 (au 20 mars 2021) soit 7% de la recherche globale. Ce qui à première vue semble peu. Une recherche étendue sur « racisme et #discrimination » présente d’ailleurs une faible augmentation avec 32695 occurrences sur 39064 titres, soit 8% des objets décrits sur la plateforme.

    Toutefois, si on s’intéresse à la période 1970-2000, le nombre de résultats pour le motif « racisme discrimination » est de 9 occurrences sur 742 documents soit à peine 1% des objets d’études. En 20 ans, la part représentée par des sujets liés à ces mots-clés a donc été multipliée par 7.

    À ce volume, il faut maintenant ajouter les recherches sur « décolonial ». Le mot est totalement absent de la recherche avant 2001, comme le mot « #islamophobie ». Le mot « #post-colonial », c’est 76 documents. Après 2002, le mot « décolonial » pèse 774 tokens ; « post-colonial » (et son homographe « postcolonial »), c’est 58669 ; islamophobie : 487. Au total, ces mots comptent donc au 20 mars 59930 occurrences et représentent 12% des blogs et annonces de recherche. Maintenant, si nous prenons l’ensemble des mots du vocabulaire, ils représentent 89469 documents soit 20% des préoccupations des Blogs.

    Si maintenant, on s’intéresse à la production scientifique elle-même représentée par des articles ou des livres : une recherche sur « racisme genre race intersectionnalité discrimination » renvoie 177395 occurrences sur 520800 documents (au 20 mars), soit 34% des documents recensés.

    Le rapport entre le volume de résultats montre que la part d’étude sur « racisme et discrimination » ne pèse en fait que 43962 documents (au 20 mars), soit 9% de la recherche globale mais 25% des résultats du panel. Si nous réduisons la recherche à « genre, race et intersectionnalité », on trouve en revanche 162188 documents soit 31% du volume global - un tiers - mais 75% du panel.

    Cet aperçu montre à quel point ces objets occupent une place importante dans les publications, sans préjuger de l’orientation des auteurs sur ces sujets : critiques ou descriptifs. Simplement on montre ici que les préoccupations pressenties par l’Observatoire du Décolonialisme et des idéologies identitaires ne sont pas vaines.

    À titre de comparaison, pour toute la période 1970-2021, la recherche sur « syntaxe et sémantique » c’est 55356/520849 items, soit 10% de la recherche pour une thématique qui représente 48% des enjeux de recherches en linguistique qui elle-même ne pèse que 115111 items en base toute sous-discipline confondue, soit 22% de la recherche (22% qui peuvent parfaitement créer une intersection avec l’ensemble de la recherche décoloniale comme par exemple cet article : « Quelle place occupent les femmes dans les sources cunéiformes de la pratique ? » où l’on identifie les tokens linguistiques comme « écriture cunéiforme » et des tokens intersectionnels dans le sommaire : « De l’histoire de la femme à l’histoire du genre en assyriologie » ).

    Maintenant, si on reprend ces mêmes motifs de recherche globaux appliqués aux seuls revues et livres, on réalise que le total de publications sur ces sujets est de 262618 sur 520809 (au 20 mars) soit 50.4% de la recherche exprimée à travers les publications scientifiques.

    La recherche en décolonialisme pèse donc 20% de l’activité de blogging et d’organisation d’événements scientifiques et la moitié (50%) de la part des publications.

    Que faut-il comprendre d’une telle donnée ? Dans un premier temps, il faut déjà acter la forte pénétration des enjeux de recherches liés aux thématiques décoloniales, pour d’excellentes raisons sans doute qu’il n’est pas question de discuter.

    Presque la moitié des activités du cœur de l’évaluation des carrières - revues et livres - passe par la description toutes disciplines confondues des objets de la sociologie. La disparité avec les activités scientifiques d’édition journalière ou d’annonces d’événements ne contredit pas bien au contraire cette envolée.

    Le marché symboliquement lucratif en termes d’enjeux de carrière de l’édition est saturé par les thématiques décoloniales qui sont porteuses pour les carrières jugées sur les publications sérieuses. Cette situation crée un #appel_d’air du côté de l’activité fourmillante des marges de la recherche où se reportent les activités scientifiques « fondamentales » parce qu’elles trouvent dans ces nouveaux lieux des moyens de faire subsister simplement leurs thématiques.

    Andreas Bikfalvi dans son article intitulé « La Médecine à l’épreuve de la race » rappelle certaines données de la science qui confirment l’orientation générale. Car, si les sciences sociales sont très touchées par l’idéologie identitaire, les #sciences_dures et même les #sciences_biomédicales n’en sont pas exemptées.

    Une recherche sur la plateforme scientifique Pubmed NCBI avec comme mot-clé racism ou intersectionality montre des choses étonnantes. Pour racism, il y avait, en 2010, seulement 107 entrées, avec ensuite une augmentation soutenue pour atteindre 1 255 articles en 2020. Par ailleurs, en 2018, il y avait 636 entrées et, en 2019, 774 entrées, ce qui signifie une augmentation de 100 % en à peine deux ans, et 62 % en à peine un an.

    Avant 2010, le nombre d’entrées s’était maintenu à un niveau très faible. Pour intersectionality, il n’y avait que 13 entrées en 2010, avec, en 2020, 285 entrées.

    L’augmentation de ces deux mots-clés suit donc une évolution parallèle. C’est certainement explicable par les événements récents aux États-Unis, à la suite de l’apparition de groupes militants de « #justice_sociale », dans le sillage du mouvement « #Black_Lives_Matter », qui ont eu un impact significatif dans les différentes institutions académiques. Cela ne reflète donc pas l’augmentation des problèmes raciaux, mais une importation récente de ces problématiques dans la recherche.

    Le rapport entre les différentes entrées lexicales dans la galaxie de la pensée décoloniale à travers certaines unités lexicales caractérise un discours hyperbolique. On voit parfaitement que la comparaison de l’emploi de certaines expressions comme « #écriture_inclusive » ou « #place_de_la_femme » qu’un regard hâtif pourrait dans un premier temps juger faible est en nette surreprésentation par rapport à des unités liées comme « place de l’enfant » ou « écriture cursive ».

    Inutile d’effectuer ici une analyse scientométrique précise. Mais on peut dire que la qualité des divers articles des journaux est variable si on se réfère au facteur impact, depuis des publications marginales comme Feminist Legal Studies (IF : 0,731) à des revues parmi les plus prestigieuses au monde, comme New England Journal of Medicine (NEJM) (IF : 74.699) et The Lancet (IF : 60.392). Les titres et le contenu de ces articles sont aussi évocateurs.

    Pour citer quelques exemples : « Devenir une communauté antiraciste néonatale » (1). L’article prône une prise de conscience critique basée sur les stratégies visant à améliorer l’équité en santé, à éliminer les biais implicites et à démanteler le racisme en néonatalogie et périnatalogie. « Vers une neuroscience compassionnelle et intersectionnelle : augmentation de la diversité et de l’équité dans la neuroscience contemplative » (2). Un cadre de recherche appelé « neuroscience intersectionnelle » est proposé, qui adapte les procédures de recherche pour être plus inclusif et plus « divers ». « Intersectionnalité et traumatologie dans la bio-archéologie » (3). Ici, les auteurs parlent de l’utilité du concept d’intersectionnalité de K. Crenshaw dans l’examen des squelettes lors des fouilles archéologiques. « Six stratégies pour les étudiants en médecine pour promouvoir l’antiracisme » (4). Ici, on prône l’introduction de l’activisme racialiste dans les programmes des études de médecine à la suite du racisme anti-noir, de la brutalité policière et de la pandémie de Covid-19. 1

    Entre les 0,01% de mots de la recherche décoloniale identifiés par certains lexicomètres et nos 50%, la marche est grande. On entend déjà les uns hurler au blasphème, les autres à la caricature et les troisièmes déclarer qu’entre deux extrêmes, la vérité est forcément entre les deux.

    Ce #dogme de la #parité d’où émerge la voie médiane est une illusion rhétorique - mais quand bien même : disons que de 1 à 50, la vérité soit 25 : cela signifie donc qu’un quart de la recherche en Sciences Humaines est occupée aujourd’hui par ces questions transverses - ce qui est non négligeable. Mais pour couper court au débat stérile qu’entraîneront les ratiocinations, rappelons deux ou trois choses que l’on voit en première année de licence de lettres :

    Il n’est pas exclu qu’une idéologie repose sur des mots, mais une idéologie repose surtout et avant tout sur une argumentation : le #vocabulaire n’en est que le grossissement superficiel. Supposer que des mots-clés permettent le recensement d’une idéologie est une proposition à nuancer : elle néglige la stylistique des titres et résumés de thèses, la façon contournée de dire les choses. Bref, comme le disait un kremlinologue, les mots servent à cacher les phrases.

    Or, dans leur étude reprise par « Le Monde », nos collègues n’ont retenu que trois mots et sous une forme unique (racialisé et pas racisé, intersectionnalité et pas intersectionnel, etc.). Ils négligent par exemple genre ou #féminin ou islamophobie…

    Cette étude suppose aussi que l’ idéologie qu’ils minimisent se trouve dans les documents officiels qui ont été choisis par eux. Mais le corpus dans lequel nos collègues cherchent est nécessairement incomplet : les annonces de colloques et de journées d’étude, les interventions ponctuelles dans les séminaires et les séminaires eux-mêmes ne sont pas pris en compte, ni les ateliers et autres événements para-institutionnels.

    Les écrits des universitaires dans la presse ne figureront pas non plus. Un site comme GLAD ne sera vraisemblablement pas pris en compte alors qu’il est saturé de ces mots clés. Un titre comme « Les blancs, les juifs et nous » ne comporte aucun mot déclencheur et n’apparaît ni dans son étude, ni dans la nôtre. On peut multiplier les exemples : il suffit qu’au lieu de genre on ait « féminin » (« Déconstruire le féminin ») pour que cette thématique soit gommée. Efficace ?

    En réalité, partir de #mots-clés suppose le principe de #déclarativité : l’idéologie serait auto-déclarée, conformément à la théorie performative du langage propre au discours intersectionnel. Selon ce principe, il n’existerait aucun texte islamo-gauchiste ni antisémite, puisqu’ils ne comportent pas ces mots-clés dans leur propre description.

    Avec ce raisonnement, il n’existerait pas non plus de thèse médiocre, ni excellente puisque ces mots n’y seront pas repérables… Les termes à repérer sont donc nécessairement neutres axiologiquement : si des mots sont repérables, c’est qu’ils sont considérés comme acceptables et qu’ils pénètrent le champ de la recherche. La recrudescence repérée de ces mots-clés indiquerait alors une idéologie de plus en plus affichée. Il faut donc prendre en compte l’évolution numérique comme un indice fort.

    Pour obtenir des conclusions plus solides, il faudrait contraster des chiffres relatifs, pour comparer ce qui est comparable : les thématiques ou les disciplines (avec des termes de niveaux différents comme « ruralité » ou « ouvrier » ; voire des domaines disciplinaires plus larges : narratologie, phonologie…). On peut aussi circonscrire d’autres champs d’analyse (Paris 8 sociologie, au hasard) ou regarder combien de thèses ou articles en sociologie de la connaissance ou en esthétique, etc. Il y aurait de quoi faire un état des lieux de la recherche…

    1. Vance AJ, Bell T. Becoming an Antiracist Neonatal Community. Adv Neonatal Care 2021 Feb 1 ;21(1):9-15.

    2. Weng HY, Ikeda MP, Lewis-Peacock JA, Maria T Chao, Fullwiley D, Goldman V, Skinner S, Duncan LG, Gazzaley A, Hecht FM. Toward a Compassionate Intersectional Neuroscience : Increasing Diversity and Equity in Contemplative Neuroscience. Front Psychol 2020 Nov 19 ;11:573134.

    3. Mant M, de la Cova C, Brickley MB. Intersectionality and Trauma Analysis in Bioarchaeology. Am J Phys Anthropol 2021 Jan 11. doi : 10.1002/ajpa.24226.

    4. Fadoju D, Azap RA, Nwando Olayiwola J. Sounding the Alarm : Six Strategies for Medical Students to Champion Anti-Racism Advocacy. J Healthc Leadersh, 2021 Jan 18 ;13:1-6. doi : 10.2147/JHL.S285328. eCollection 2021.

    https://www.lefigaro.fr/vox/societe/decolonialisme-et-ideologies-identitaires-representent-un-quart-de-la-reche

    et déjà signalé par @gonzo ici :
    https://seenthis.net/messages/908608

    #Xavier-Laurent_Salvador #Jean_Szlamowicz #Andreas_Bikfalvi
    –—

    Commentaire sur twitter de Olivier Schmitt, 27.03.2021 :

    Cette tribune est tellement bourrée d’erreurs méthodologiques qu’elle en dit beaucoup plus sur la nullité scientifique des auteurs que sur la recherche en SHS.
    Pour gonfler leurs stats, ils comptent toutes les occurrences du mot « racisme ». Vous travaillez sur le racisme et avez ce terme dans votre publication ? Vous êtes forcément un postcolonial tenant des idéologies identitaires...
    Idem, et ce n’est pas anodin, ils incluent l’occurence « post-colonial » (avec le tiret). Qui est simplement un marqueur chronologique (on parle par exemple couramment de « sociétés post-coloniales » en Afrique ou en Asie) et n’a rien à voir avec une idéologie « postcoloniale »
    Et oui, un tiret à de l’importance... Mais donc vous êtes historien et travaillez sur, au hasard, Singapour après l’indépendance (donc post-colonial), et bien vous êtes un tenant des idéologies identitaires...
    Et même en torturant les données et les termes dans tous les sens pour gonfler complètement artificiellement les chiffres, ils arrivent à peine à identifier un quart des travaux...
    C’est définitivement pathétiquement débile.
    Et puisqu’ils veulent « mesurer » et « objectiver », un truc comme ça dans n’importe quelle revue un minimum sérieuse, c’est un desk reject direct...

    https://twitter.com/Olivier1Schmitt/status/1375855068822523918

    Sur les #chiffres en lien avec les recherches sur les questions post- / dé-coloniales, voir ce fil de discussion :
    https://seenthis.net/messages/901103
    #statistiques

    ping @isskein @cede @karine4

    • Les fallaces de l’anti-décolonialisme

      fallace
      (fal-la-s’) s. f.
      Action de tromper en quelque mauvaise intention.
      Émile Littré, Dictionnaire de la langue française, 1873-1874, tome 2, p. 1609.

      Vendredi 26 mars 2021 le journal Le Figaro a mis en ligne sur son site internet une tribune signée par #Xavier-Laurent_Salvador, #Jean_Szlamowicz et #Andreas_Bikfalvi intitulée « Décolonialisme et idéologies identitaires représentent un quart de la recherche en sciences humaines aujourd’hui ». Ce texte qui avance à grandes enjambées vers un résultat fracassant tout entier contenu dans le titre est fondé sur une méthodologie défaillante et une argumentation confuse. Il a principalement provoqué des éclats de rire, mais aussi quelques mines attérées, parmi les sociologues, les géographes, les historiens, les politistes, les linguistes ou les anthropologues de ma connaissance qui ont eu la curiosité de le lire. Cependant sa publication était attendue et constitue, en quelque sorte, l’acmé de la maladie qui frappe le débat public sur l’Université en France depuis de longs mois. Le contexte impose donc de s’y attarder un peu plus.

      Je voudrais le faire ici en montrant la série impressionnante de fallaces logiques qu’il contient. Des fallaces que l’on retrouve d’ailleurs, avec quelques variations, dans d’autres productions de l’Observatoire du décolonialisme que les trois auteurs ont contribué à fonder. En employant ce terme un peu désuet je désigne un ensemble d’arguments ayant les apparences de la logique mais dont l’intention est de tromper ceux à qui ils sont adressés. Le terme est toujours fréquemment employé en anglais sous la forme fallacy pour désigner des ruses argumentatives que le raisonnement scientifique devrait s’interdire, particulièrement dans les sciences humaines et sociales. Il est évidemment ironique de constater que des intellectuels qui prétendent depuis des mois que l’Université française est corrompue par l’idéologie et le manque d’objectivité le font au moyens de procédés d’argumentation grossièrement fallacieux. C’est pourtant le cas et ce constat, à lui seul, justifie d’exposer les méthodes de ce groupe. Au-delà, ces procédés en disent aussi beaucoup sur l’offensive idéologique menée par ceux qui, à l’image des trois signataires, prennent aujourd’hui en otage l’Université, et particulièrement les sciences humaines et sociales, pour accréditer l’idée selon laquelle toute critique des inégalités et des discrimnations, comme toute entreprise d’élaboration conceptuelle ou méthodologique pour les mettre en évidence — particulièrement celles qui touchent aux questions du genre et de la race — devrait être réduite au silence car suspecte de compromission idéologique « décoloniale » ou « islamo-gauchiste ».

      Les auteurs de cette tribune, deux linguistes et un médecin, sont familiers des prises de position dans les médias. On ne peut donc les suspecter d’avoir fait preuve d’amateurisme en publiant cette tribune. Tous les trois sont par exemple signataires de l’appel des cent qui dès novembre 2020 exigeait de la Ministre de l’enseignement supérieur et de la recherche qu’elle rejoigne son collègue de l’Éducation nationale dans la lutte contre « les idéologies indigéniste, racialiste et ‘décoloniale’ » à l’Université. Si l’on doit au Ministre de l’Intérieur Géral Darmanin d’avoir le premier agité le spectre de l’islamo-gauchisme dans la société française à l’automne 2020, c’est en effet Jean-Michel Blanquer qui marqua les esprits au lendemain de l’assassinat de Samuel Paty en évoquant les « complices intellectuels » de ce crime et en déclarant que, je cite, « le poisson pourrit par la tête ». Il n’est évidemment pas possible de déterminer si l’activisme des cent, qui a conduit à la création de l’Observatoire du décolonialisme en janvier 2021 et à de très nombreuses interventions médiatiques de ses animateurs depuis, est à l’origine du changement de cap de Frédérique Vidal ou s’il n’a fait que l’accompagner, ce qui est plus probable. Il est certain, en revanche, que la Ministre de l’Enseignement supérieur, en évoquant à son tour la « gangrène » islamo-gauchiste à l’Université le 14 février 2021 et en annonçant une enquête sur le sujet, a satisfait les demandes de ces cent collègues. Ceux-ci sont d’ailleurs, de ce fait, les seuls à pouvoir se féliciter de l’action d’une ministre qui a réussi à fédérer contre elle en quelques mois — la polémique sur l’islamo-gauchisme étant la goutte d’eau qui fait déborder le vase — tout ce que le monde de la recherche compte de corps intermédiaires ou d’organismes de recherche ainsi que 23.000 signataires d’une pétition demandant sa démission.

      Que signifient exactement « décolonial » et « idéologies identitaires » pour ces auteurs ? Il n’est pas aisé de répondre à cette question car les définitions proposées sur le site de l’association sont assez sibyllines. On devine cependant que ces labels s’appliquent à tout un ensemble d’idées qui ont pour caractéristique commune de questionner la domination masculine et le racisme mais aussi la permanence du capitalisme et contribuent de ce fait, pour les membres de l’Observatoire, à une « guerre sainte menée contre l’occident ». Dans cette auberge espagnole conceptuelle il n’est cependant pas besoin d’être grand clerc pour comprendre que les convives ont quelques obsessions. L’écriture inclusive, l’identité, l’intersectionalité, le « wokisme », la racialisation, les études sur le genre ou l’analyse du fait « postcolonial » en font partie.

      À défaut d’une définition claire, concentrons-nous sur la stratégie d’argumentation des membres de l’Observatoire. Jusque là ceux-ci ont adopté une stratégie que l’on peut qualifier, sans jugement de valeur, d’anecdotique. Elle vise en effet à isoler dans le flot de l’actualité universitaire un événement, un livre ou une prise de position et à réagir à son propos de manière souvent brève ou ironique, voire sur le ton du pastiche que prisent ces observateurs. On trouve par exemple en ligne sur leur site un recueil de textes « décoloniaux », un générateur de titres de thèses « décoloniales », un lexique humoristique du « décolonialisme »… Quant aux interventions dans les médias elles se font l’écho des initiatives du gouvernement en soulignant leurs limites (par exemple en réfutant l’idée que le CNRS puisse mener l’enquête demandée par la ministre), ciblent des institutions soupçonnées de trop grande compromission avec le « décolonialisme » comme la CNCDH qui publie l’enquête la plus approfondie et la plus reconnue sur le racisme, l’antisémitisme et la xénophobie en France. Elles relaient aussi les positions d’intellectuels critiques des discriminations positives ou du « multiculturalisme ».

      Ces interventions privilégient un mode d’action singulier dans l’espace académique qui constitue la première fallace que nous pouvons attribuer à ce groupe, à savoir l’attaque ad hominem contre des chercheuses et des chercheurs (mais aussi contre des militantes et militants des mouvements anti-raciste et féministe). Nahema Hanafi, Nonna Mayer et plus récemment Albin Wagener en ont par exemple fait les frais. En soi, critiquer les arguments avancés par des personnes n’est évidemment pas un problème (c’est d’ailleurs ce que je fais ici). Mais critiquer, plus ou moins violemment, des personnes dont on ignore ou déforme les arguments en est bien un. On ne compte plus dans les textes ou interviews des membres de cet Observatoire les références à des ouvrages cités par leur quatrième de couverture, les allusions moqueuses à des recherches dont les auteur•es ne sont même pas cité•es et peut-être pas connu•es, les références à des saillies d’humoristes pour analyser des travaux de recherche ou les petites piques visant à disqualifier telle ou tel collègue. Cette fallace a d’autres variantes comme celle de l’homme de paille (on devrait d’ailleurs dire ici dela femme de paille tant il existe un biais genré dans le choix des cibles de cet Observatoire) qui consiste à fabriquer des individus imaginaires qui incarnent de manière stylisée la dangereuse chimère « décoloniale ». Le travail ethnographique de Nahema Hanafi est par exemple violemment attaqué au motif qu’il ferait « l’éloge d’un système criminel », rien de moins.

      Une autre variante de cette fallace consiste à suggérer des associations d’idées saugrenues par le détour du pastiche ou de l’ironie qui permettent aussi de critiquer sans lire mais qui remplissent un autre rôle, plus original : celui de détourner l’attention du public quant on est soi-même critiqué. Albin Wagener, qui a mené un travail d’objectivation précis de certains mots-clés considérés comme « décoloniaux » dans la production des sciences humaines et sociales (voir plus bas), est par exemple moqué dans une vidéo imitant la propagande nord-coréenne. Plus grave encore, les sciences sociales « décoloniales » et « intersectionnelles » selon l’Observatoire sont incarnées dans une autre vidéo sous les traits du personnage de Hitler joué par Bruno Ganz dans une scène très souvent détournée du film « La Chute » d’Oliver Hirschbiegel. La stratégie d’argumentation emprunte ici à la fallace du « hareng rouge » consistant pour ces auteurs à utiliser des arguments grotesques ou scandaleux pour détourner l’attention de critiques plus fondamentales qui leur sont faites. En l’occurrence, suggérer que les sciences sociales « décoloniales » ou l’analyse du phénomène raciste sont nazies est à la fois pathétique et insultant. Mais ce parallèle permet aussi de faire diversion — par l’absurde. Ce qu’il s’agit en effet de cacher c’est justement que la version du républicanisme « anti-décolonial » proposée par l’Observatoire reproduit dans ses modes d’intervention des pratiques de ce qu’il est désormais convenu d’appeler la droite « alternative » ou alt-right. Le paralogisme « c’est celui qui dit qui l’est » — aujourd’hui courant dans les milieux d’extrême-droite — fait donc son entrée, avec l’Observatoire du décolonialisme, dans le milieu académique.

      Une seconce fallace de l’argumentation est à l’oeuvre dans les prises de position des anti-décolonialistes : l’argumentation ad nauseam ou répétition sans fin des mêmes arguments. Au lieu de faire ce qui est attendu dans le monde académique, à savoir une enquête sérieuse et patiente sur chaque cas de « décolonialisme » que l’on voudrait critiquer, les membres de l’Observatoire emploient depuis des mois une stratégie consistant plutôt à distiller quelques éléments de langage sur de multiples supports en profitant des effets de caisse de résonance des réseaux sociaux. Le mécanisme est simple : tel article sur le site de l’Observatoire s’appuie sur une tribune du Point qui suscite elle-même un autre article dans le Figaro qui provoque un tweet d’une figure politique ou journalistique très suivie, lequel suscite des dizaines ou des centaines de réponses, mentions et autres retweets. De cette manière l’Observatoire et ses membres s’installent dans l’espace public sur la simple base de leur activisme de la visibilité. Ironie : un journal un peu plus sérieux cherchera alors à analyser ce phénomène et pour cela donnera la parole de manière disproportionnée aux membres de l’Observatoire ou ravivera le cliché éculé des « guerres de tranchées » universitaires qui laisse penser que tout cela, au lieu d’être une offensive inédite contre la liberté de l’enseignement et de la recherche est un effet pervers de la vie universitaire elle-même. À n’en pas douter, un autre journal trouvera bientôt ces personnalités singulières ou attachantes et se proposera d’en faire le portrait…

      Pourquoi, dès lors, des réactions plus nombreuses peinent-elles à émerger pour contrer cette logorrhée anti-décoloniale ? L’explication tient dans la loi dite de Brandolini, ou « bullshit asymmetry principle » : énoncer une ineptie ne prend que quelques minutes alors que la réfuter sérieusement prend du temps. Celles et ceux qui sont la cible des attaques de l’Observatoire ou qui envisagent de critiquer ses thèses déclarent donc souvent forfait par manque de temps mais aussi par manque d’intérêt pour la polémique en elle-même dont le niveau est accablant. Plus grave, critiquer les thèses de l’observatoire ou émettre des idées considérées comme lui par « décoloniales » expose de plus en plus souvent à des tirs de barrage considérables sur les réseaux sociaux et à des insultes et des menaces. La fallace de l’argumentation ad nauseam porte, en effet, bien son nom : dès lors que l’un des membres de l’observatoire, ou un influenceur qui se fait le relais de ses thèse, désigne aux réseaux de ses soutiens une cible à viser, celle-ci reçoit des centaines de messages infamant qui sont en soi un motif légitime d’inquiétude et supposent un surcroit de travail pour les signaler aux autorités, quand bien même il est très probable que rien ne sera fait pour les arrêter.

      La troisième fallace que l’on peut observer dans les prises de position de l’Observatoire du décolonialisme consiste évidemment à ne sélectionner dans l’ensemble de la production des sciences sociales que les quelques exemples de travaux susceptibles d’alimenter la thèse défendue, à savoir celle d’une augmentation de la production académique sur le genre, le racisme ou le « décolonialisme ». Cette fallace, que l’on qualifie souvent de « cueillette de cerises » (cherry picking) est inhérente à l’argumentation anecdotique. On ne s’attend évidemment pas à ce que les cas sélectionnés par l’Observatoire soient choisis autrement que parce qu’ils valident la thèse que celui-ci défend. Ceci étant dit on peut quand même faire remarquer que s’il existait un Observatoire de l’inégalitarisme celui-ci montrerait sans peine que la thématique du creusement des inégalités progresse fortement dans les SHS en ce moment. Un observatoire du pandémisme montrerait que de plus en plus d’articles s’intéressent récemment aux effets des structures sociales sur les pandémies et un observatoire du réseautisme que la métaphore du « réseau » a plus le vent en poupe que celle de la « classe ». En bref : le fait que des chercheurs inventent des concepts et les confrontent à la réalité sociale est inhérent à l’activité scientifique. Le fait qu’ils le fassent de manière obsessionnelle et à partir de ce qui constitue leur rapport aux valeurs, comme dirait Max Weber, aussi. La seule question qui vaille au sujet de ces recherches est : sont-elles convaincantes ? Et si l’on ne le croit pas, libre à chacun de les réfuter.

      Venons donc maintenant à l’originalité de la tribune du Figaro. Elle propose en effet un nouveau style argumentatif fondé sur une étude empirique aspirant à une telle quantification. Il s’agit en effet ni plus ni moins que d’évaluer la part des sciences humaines et sociales gangrénées par le « décolonialisme ». On imagine que les auteurs se sont appliqués puisque cette mesure est d’une certaine façon ce qui manquait jusque là à leur bagage et qu’elle répond à la demande de la ministre Frédérique Vidal tout en ambitionnant de contrer les arguments quantitatifs avancés par deux collègues qui ont au contraire montré la faiblesse de l’idée de conversion des sciences sociales au décolonialisme à partir d’analyses de corpus.

      Rappelons ces deux études dont nous disposons. D’un côté Albin Wagener a mesuré le poids quelques mots-clé dans un éventail assez large de sources (theses.fr, HAL, Cairn et Open Edition). Sa conclusion : les travaux employant des termes comme « décolonial », « intersectionnel », « racisé » ou « islamo-gauchisme » augmentent depuis les années 2010 mais restent marginaux (0,2% des thèses soutenues ou à venir en 2020, 3,5% du total des publications dans Open Editions et 0,06% dans HAL). D’un autre côté David Chavalarias a analysé le contenu de 11 millions de comptes Twitter pour mettre en évidence la marginalité du terme « islamo-gauchisme » et de ses variantes qui ne sont présents que dans 0,019% des tweets originaux analysés mais dont on peut caractériser l’origine dans des comptes de l’extrême-droite dont beaucoup ont été suspendus par Twitter parce qu’ils pratiquaient l’astroturfing, un ensemble de pratique visant à diffuser massivement des contenus en automatisant l’envoi de tweets ou les retweets de ces tweets. David Chavalarias a souligné la singularité de la stratégie du gouvernement français qui a contribué massivement en 2020 à faire sortir ce terme des cercles d’extrême-droite pour l’amener sur le devant de la scène, une stratégie proche de celle de l’alt-right américaine.

      La fallace la plus évidente que contient le texte du Figaro relève du domaine des conclusions hâtives (hasty conclusion). Les auteurs en arrivent en effet à une conclusion impressionnante (« La recherche en décolonialisme pèse donc 20% de l’activité de blogging et d’organisation d’événements scientiques et la moitié (50%) de la part des publications. ») mais au prix de raccourcis logiques si évidents et grossiers qu’ils ont conduit la plupart des lecteurs de ce texte à déclarer forfait après quelques lignes et qu’ils auraient dû mettre la puce à l’oreille de tous ceux qui eurent à le lire jusqu’au bout, par exemple au Figaro (à moins que personne ne l’ait lu jusqu’au bout dans ce journal ?). Citons les quatre plus importants : le manque de spécificité de la méthode, son manque d’homogénéité, l’introduction de biais massifs d’échantillonnage et un problème confondant de mesure.

      La méthode retenue consiste d’abord à identifier quelques mots-clé considérés comme des signaux permettant de constituer un corpus de documents représentatifs des idées « décoloniales ». On en s’attardera pas sur un des problèmes possibles de ce type de méthodes qui est qu’elle conduisent à mêler dans le corpus des documents mentionnant ces mots-clés pour des raisons très différentes (pour adhérer à un chois de concept, pour le critiquer, pour le moquer…). Les auteurs évoquent ce défaut au début de l’article et ce n’est pas le plus grave. Beaucoup plus stupéfiante en effet est l’absence de prise en compte de la polysémie des termes choisis. Faisons-en la liste : « genre », « race » et « intersectionnalité » sont d’abord mentionnés mais la recherche a été vite élargie à « racisme » et « discrimination » puis à « décolonial », « post-colonial » et « islamophobie ». Les auteurs prennent la peine de signaler qu’ils ont inclus un « homographe » de « post-colonial » (à savoir « postcolonial ») mais il ne leur vient semble-t-il pas à l’esprit que certains de ces termes sont surtout polysémiques et peuvent être employés dans des contextes totalement étrangers aux questions idéologiques qui obsèdent l’Observatoire du décolonialisme. C’est notamment le cas de « genre » et de « discrimination » dont l’emploi conduit à compter dans le corpus des articles sur le genre romanesque ou la discrimination entre erreur et vérité. Un collègue m’a même fait remarquer que les trois auteurs se sont, de fait, inclus dans leur propre corpus dangereusement décolonial, sans doute par mégarde. L’un a en effet utilisé le mot « genre », pour décrire « un navigateur d’un genre un peu particulier », l’autre le même terme pour parler de de musique et le troisième — qui n’a pas de publications dans OpenEdition — mentionne quant à lui dans PubMed des méthodes permettant de « discriminer des échantillons ». Nos auteurs ont cru avoir trouvé avec leurs calculs l’arme fatale de l’anti-décolonialisme. Il semble que c’est une pétoire qui tire sur leurs propres pieds…

      Un autre problème mérite aussi d’être soulevé concernant les mots-clé choisis. Ceux-ci mélangent des concepts des sciences sociales et des termes décrivant des faits qui sont reconnus comme tels très largement. Ainsi, même si l’on laisse de côté la question de l’islamophobie, le « racisme » et les « discriminations » sont des faits reconnus par le droit et mesurés régulièrement dans quantité de documents. On pourrait comprendre que la méthode des auteurs consiste à cibler des concepts dont ils pensent qu’ils sont problématiques et dont il s’agirait dès lors de suivre l’expansion. Mais en incluant « racisme » et « discriminations » dans la sélection du corpus les auteurs trahissent une partie de l’obsession qui est la leur. Ils ne contestent en effet pas seulement le droit des sciences sociales à élaborer comme bon leur semble leur vocabulaire mais aussi leur droit à s’intéresser à certains faits comme le racisme ou les discriminations. Faudrait-il donc confier l’objectivation de ces faits à d’autres disciplines ? Ou bien tout simplement décider que ces faits n’existent pas comme le font certains régulièrement ?

      La méthode pose aussi un problème d’échantillonnage qui ne semble pas avoir vraiment effleuré les auteurs. Ceux-ci construisent un corpus fondé principalement sur la plateforme OpenEdition considérée comme « un lieu-outil où la recherche se présente aux instances gouvernantes comme un mètre-étalon des livrables de la recherche » Il faut sans doute être assez éloigné de la recherche pour considérer ce choix comme pertinent, surtout lorsque l’on restreint encore le corpus en ne gardant que les blogs et événements scientifiques… Les instances d’évaluation de la recherche sont en effet — c’est d’ailleurs heureux — bien plus intéressées par les publications dans des revues de premier rang, qu’elles soient en accès libre ou pas, que par des billets de blog. Et il est de notorité commune que OpenEdition ne couvre pas tout le champ de la production scientifique et n’a pas été créé pour cela.

      Enfin, last but not least, les auteurs de ce texte utilisent pour mesurer le phénomène qui les intéresse une fallace très connue — mais dont beaucoup pensaient qu’elle avait été éradiquée de la recherche en sciences sociales — la fallace du juste milieu (ou golden mean fallacy). Celle-ci consiste à considérer que si l’on dispose de deux évaluations discordantes d’un même phénomène on peut utiliser la moyenne des deux comme solution. Essayons de suivre le raisonnement des auteurs de la tribune : « Entre les 0,01% de mots de la recherche décoloniale identiés par certains lexicomètres et nos 50%, la marche est grande. On entend déjà les uns hurler au blasphème, les autres à la caricature et les troisièmes déclarer qu’entre deux extrêmes, la vérité est forcément entre les deux. Ce dogme de la parité d’où émerge la voie médiane est une illusion rhétorique - mais quand bien même : disons que de 1 à 50, la vérité soit 25 : cela signie donc qu’un quart de la recherche en Sciences Humaines est occupée aujourd’hui par ces questions transverses - ce qui est non négligeable. » On admirera la logique qui consiste à déclarer le choix moyen — et pas médian d’ailleurs comme l’écrivent les auteurs (mais laissons cela de côté) — comme une « illusion rhétorique » (imputée à un étrange « dogme de la parité », encore un hareng rouge sans doute…) tout en faisant ce choix dans la même phrase à coups de tirets et de guillemets… On admirera aussi la logique qui assimile 0,01 à 1… À ce niveau de pifométrie, il est dommage que les auteurs ne soient pas allés jusqu’au bout de leur logique en déclarant que 100% de la recherche en sciences humaines et sociales est gangrénée par le décolonialisme. Ils auraient pu alors, comme le Dr Knock de Jules Romains, ériger en maxime le fait que, dans ces disciplines, « tout homme bien portant est un malade qui s’ignore ».

      On pourrait encore signaler au moins deux autres fallaces logiques dans ce texte. La première est l’absence de la moindre préoccupation pour la littérature pertinente sur le problème abordé. La bibliométrie (le fait de compter des publications) est pourtant une méthode reconnue de la sociologie comme de l’histoire des sciences et de nombreuses recherches l’ont appliquée au sciences sociales. Si les auteurs de ce texte avaient fait preuve d’un peu de modestie et s’étaient intéressés à cette littérature — ce qu’auraient fait des chercheurs — ils auraient évité de se fourvoyer à ce point. Ils auraient aussi découvert qu’un des résultats les plus fondamentaux de ces disciplines est que les « fronts de la recherche » progressent non pas à la mesure des occurrences de mots-clé dans la littérature scientifique mais à celle des citations des articles qui la composent.

      On peut dès lors invoquer une dernière fallace qui caractérise ce texte, celle du raisonnement circulaire : les résultats de la recherche étaient évidemment entièrement contenus dans ses prémisses et tout l’appareil méthodologique employé ne visait qu’à prouver des préjugés et à recouvrir ce tour de magie d’un voile de scientificité au moyen de divers artifices comme celui de l’argument d’autorité dont relèvent dans ce texte l’usage de mots compliqués employés à plus ou moins bon escient comme « panel », « token » ou « principe de déclarativité » et celui de raisonnements si manifestement confus qu’ils semblent forgés pour un canular scientifique. Le raisonnement établissant qu’en élargissant la recherche on arrive à baisser le nombre total d’articles décomptés est un modèle du genre : « Sur OpenEdition, réduit à la part des blogs (Hypotheses) et événements annoncés (Calenda) : une recherche « courte » sur « genre, race et intersectionnalité » donne près de 37578 résultats sur 490078 (au 20 mars 2021) soit 7% de la recherche globale. Ce qui à première vue semble peu. Une recherche étendue sur « racisme et discrimination » présente d’ailleurs une faible augmentation avec 32695 occurrences sur 39064 titres, soit 8% des objets décrits sur la plateforme. » Tempête sous un crâne !

      À quoi peut donc bien servir ce texte si malhonnête dans son argumentation ? Il semble évident qu’il ne sert à rien pour l’avancement des connaissances sur l’évolution des sciences humaines et sociales. Reste donc son efficacité politique. En affirmant haut et fort que le quart de la recherche française en sciences humaines et sociales est gangréné par le « décolonialisme » (une affirmation que n’importe quel journaliste un peu au fait du monde de la recherche aurait dû trouver immédiatement ridicule, mais semble-t-il pas celles et ceux qui éditent les tribunes du Figaro) les auteurs de ce texte alimentent évidemment une panique morale dont l’Université est aujourd’hui la cible et qui vise à justifier des politiques de contrôle gouvernemental sur l’activité d’enseignement et de recherche et, pour faire bonne mesure, la baisse des budgets qui leur sont consacrés (tout ceci étant déjà en bonne voie). Une panique morale qui vise aussi à intimider et menacer celles et ceux qui travaillent sur les inégalités et les discriminations liées au genre et à l’expérience raciale dans notre société. Une panique morale qui vise enfin à polariser l’opinion en lui livrant — pour quel profit politique à venir ? — des boucs émissaires décoloniaux, intersectionnels et islamo-gauchistes à blâmer pour toutes les calamités qui affligent aujourd’hui notre société.

      https://gillesbastin.github.io/chronique/2021/04/07/les-fallaces-de-l'antidecolonialisme.html

    • Leila Véron sur twitter

      Je vous résume l’"Observatoire" du décolonialisme en quatre points (les gens, le propos, la rhétorique, les méthodes)
      1) « observatoire » autoproclamé sans légitimité institutionnelle, composé de chercheuses et de chercheurs et de leur cercle amical bien au-delà de la recherche
      2) le propos. Propos proclamé : défendre la science, la rationalité, le débat contradictoire. Propos réel : en grande partie, des billets d’humeur sur la société, la politique, et leurs collègues.
      3) le ton : celui de la constatation indignée (ça me fait penser à ce que disait Angenot sur le style pamphlétaire, ça évite d’avoir à argumenter, genre c’est EVIDENT que c’est scandaleux), de l’insulte peu originale (ils aiment bcp liberté égalité débilité), tendance à la litanie
      La rhétorique : un peu de vrai, pas mal de faux, et beaucoup d’invérifiable/ fantasmé/ présenté de manière exagérée/tordue/de mauvaise foi. Ca me fait penser aux rhétoriques des théories du complot.
      Quand ces gens qui prétendent défendre la science ont essayé d’appuyer leurs propos sur une étude chiffrée argumentée, que croyez-vous qu’il arriva ? Ils racontèrent n’importe quoi, @gillesbastin a relevé leurs erreurs grotesques : https://gillesbastin.github.io/chronique/2021/04/07/les-fallaces-de-l'antidecolonialisme.html

      Je ne sais pas ce que je préfère, le fait d’assimiler 0,01 à 1 ou de dire « certains disent que c’est 0,01% de la recherche qui est décoloniale, nous on disait 50%, ben on n’a qu’à choisir le milieu ma bonne dame ». La rigueur scientifique !

      4) la méthode : le contraire de l’argumentation scientifique et en plus ils l’assument : « On fait dans le pamphlet et dans l’ironie » déclare M. Salvador (co-fondateur). On pourrait rajouter le trollage, avec des vidéos et montages de collègues

      Je ne me remets pas de cette citation de XL Salvador « Si on est réduits à sortir un observatoire qui a ce ton, c’est bien parce qu’on n’arrive pas à mener ce débat. C’est un appel au secours d’amant éconduit »
      Bien vu pour l’incapacité à mener un débat scientifique...
      .. mais cette métaphore sérieusement ! J’ai envie de dire qu’il y a d’autres moyens que l’insulte et le pleurnichage pour gérer sa peine d’amant éconduit, non ?
      Conclusion : contradictions, les gens de l’observatoire hurlent au danger de la politisation dans la science et sont archi engagées politiquement dans des sujets divers qui excèdent largement la recherche (ce qui est leur droit, mais le niveau de mauvaise foi est énorme).
      J’ai oublié, stratégie : le matraquage. Les mêmes dénonciations, les mêmes textes vides, les mêmes pastiches, les mêmes vannes dans des bouquins, articles, site1, site2, site3... et sur twitter.
      Ca conduit à des situations où ces gens qui dénoncent l’écriture inclusive et la recherche sur l’écriture inclusive finissent par ne quasi plus parler que de l’écriture inclusive (alors que ce qu’ils et elles faisaient avant avait un autre niveau !) Marche aussi pour la race.
      On leur souhaite une bonne fin de carrière chez Causeur ou CNews, et un bon courage à toutes les chercheuses et chercheurs qui ont déjà assez de luttes à mener et qui se prendront leurs attaques. Par expérience : n’hésitez pas à porter plainte si besoin est (insulte, diffamation).

      https://twitter.com/Laelia_Ve/status/1405257470709317634