• Nella città delle piattaforme

    Sullo sfondo del lavoro precario del #delivery ci sono parchi, piazze e marciapiedi: i luoghi di lavoro dei rider. Dimostrano la colonizzazione urbana operata dalle piattaforme

    Non ci sono i dati di quanti siano i rider, né a Milano, né in altre città italiane ed europee. L’indagine della Procura di Milano che nel 2021 ha portato alla condanna per caporalato di Uber Eats ha fornito una prima stima: gli inquirenti, nel 2019, avevano contato circa 60mila fattorini, di cui la maggioranza migranti che difficilmente possono ottenere un altro lavoro. Ma è solo una stima, ormai per altro vecchia. Da allora i rider hanno ottenuto qualche piccola conquista sul piano dei contratti, ma per quanto riguarda il riconoscimento di uno spazio per riposarsi, per attendere gli ordini, per andare in bagno o scambiare quattro chiacchiere con i colleghi, la città continua a escluderli. Eppure i rider sembrano i lavoratori e le lavoratrici che più attraversano i centri urbani, di giorno come di notte, soprattutto a partire dalla pandemia. Dentro i loro borsoni e tra le ruote delle loro bici si racchiudono molte delle criticità del mercato del lavoro odierno, precario e sempre meno tutelato.

    Esigenze di base vs “capitalismo di piattaforma”

    Per i giganti del delivery concedere uno spazio urbano sembra una minaccia. Legittimerebbe, infatti, i fattorini come “normali” dipendenti, categoria sociale che non ha posto nel “capitalismo di piattaforma”. Questa formula definisce l’ultima evoluzione del modello economico dominante, secondo cui clienti e lavoratori fruiscono dei servizi e forniscono manodopera solo attraverso un’intermediazione tecnologica.

    L’algoritmo sul quale si basano le piattaforme sta incessantemente ridisegnando la geografia urbana attraverso nuovi percorsi “più efficienti”. Per esempio – in base al fatto che i rider si muovono per lo più con biciclette dalla pedalata assistita, riconducibili a un motorino – le app di delivery suggeriscono strade che non sempre rispondono davvero alle esigenze dei rider. Sono percorsi scollati dalla città “reale”, nei confronti dei quali ogni giorno i lavoratori oppongono una resistenza silenziosa, fatta di scelte diverse e soste in luoghi non previsti.

    Le piattaforme non generano valore nelle città unicamente offrendo servizi, utilizzando tecnologie digitali o producendo e rivendendo dati e informazioni, ma anche organizzando e trasformando lo spazio urbano, con tutto ciò che in esso è inglobato e si può inglobare, in una sorta di area Schengen delle consegne. Fanno in modo che gli spazi pubblici della città rispondano sempre di più a un fine privato. Si è arrivati a questo punto grazie alla proliferazione incontrollata di queste società, che hanno potuto disegnare incontrastate le regole alle quali adeguarsi.

    Come esclude la città

    Sono quasi le 19, orario di punta di un normale lunedì sera in piazza Cinque Giornate, quadrante est di Milano. Il traffico è incessante, rumoroso e costeggia le due aiuole pubbliche con panchine dove tre rider si stanno riposando. «Siamo in attesa che ci inviino un nuovo ordine da consegnare», dicono a IrpiMedia in un inglese accidentato. «Stiamo qui perché ci sono alberi che coprono dal sole e fa meno caldo. Se ci fosse un posto per noi ci andremmo», raccontano. Lavorano per Glovo e Deliveroo, senza un vero contratto, garanzie né un posto dove andare quando non sono in sella alla loro bici. Parchi, aiuole, marciapiedi e piazze sono il loro luogo di lavoro. Gli spazi pubblici, pensati per altri scopi, sono l’ufficio dei rider, in mancanza di altro, a Milano come in qualunque altra città.

    In via Melchiorre Gioia, poco lontano dalla stazione Centrale, c’è una delle cloud kitchen di Kuiri. È una delle società che fornisce esercizi commerciali slegati dalle piattaforme: cucine a nolo. Lo spazio è diviso in sei parti al fine di ospitare altrettante cucine impegnate a produrre pietanze diverse. I ristoratori che decidono di affittare una cucina al suo interno spesso hanno dovuto chiudere la loro attività durante o dopo la pandemia, perché tenerla in piedi comportava costi eccessivi. Nella cloud kitchen l’investimento iniziale è di soli 10mila euro, una quantità molto minore rispetto a quella che serve per aprire un ristorante. Poi una quota mensile sui profitti e per pagare la pubblicità e il marketing del proprio ristorante, attività garantite dall’imprenditore. Non si ha una precisa stima di quante siano queste cucine a Milano, forse venti o trenta, anche se i brand che le aprono in varie zone della città continuano ad aumentare.

    Una persona addetta apre una finestrella, chiede ai rider il codice dell’ordine e gli dice di aspettare. Siccome la cloud kitchen non è un “luogo di lavoro” dei rider, questi ultimi non possono entrare. Aspettano di intravedere il loro pacchetto sulle sedie del dehors riservate ai pochi clienti che ordinano da asporto, gli unici che possono entrare nella cucina. I rider sono esclusi anche dai dark store, quelli che Glovo chiama “magazzini urbani”: vetrate intere oscurate alla vista davanti alle quali i rider si stipano ad attendere la loro consegna, sfrecciando via una volta ottenuta. Nemmeno di questi si conosce il reale numero, anche se una stima realistica potrebbe aggirarsi sulla ventina in tutta la città.
    Un posto «dal quale partire e tornare»

    Luca, nome di fantasia, è un rider milanese di JustEat con un contratto part time di venti ore settimanali e uno stipendio mensile assicurato. La piattaforma olandese ha infatti contrattualizzato i rider come dipendenti non solo in Italia, ma anche in molti altri paesi europei. Il luogo più importante nella città per lui è lo “starting point” (punto d’inizio), dal quale parte dopo il messaggio della app che gli notifica una nuova consegna da effettuare. Il turno di lavoro per Luca inizia lì: non all’interno di un edificio, ma nel parco pubblico dietro alla stazione di Porta Romana; uno spazio trasformato dalla presenza dei rider: «È un luogo per me essenziale, che mi ha dato la possibilità di conoscere e fare davvero amicizia con alcuni colleghi. Un luogo dove cercavo di tornare quando non c’erano molti ordini perché questo lavoro può essere molto solitario», dice.

    Nel giardino pubblico di via Thaon de Revel, con un dito che scorre sul telefono e il braccio sulla panchina, c’è un rider pakistano che lavora nel quartiere. L’Isola negli anni è stata ribattezzata da molti «ristorante a cielo aperto»: negli ultimi 15 anni il quartiere ha subìto un’ingente riqualificazione urbana, che ha aumentato i prezzi degli immobili portando con sé un repentino cambiamento sociodemografico. Un tempo quartiere di estrazione popolare, ormai Isola offre unicamente divertimento e servizi. Il rider pakistano è arrivato in Italia dopo un mese di cammino tra Iran, Turchia, Grecia, Bulgaria, Serbia e Ungheria, «dove sono stato accompagnato alla frontiera perché è un paese razzista, motivo per cui sono venuto in Italia», racconta. Vive nel quartiere con altri quattro rider che lavorano per Deliveroo e UberEats. I giardini pubblici all’angolo di via Revel, dice uno di loro che parla bene italiano, sono «il nostro posto» e per questo motivo ogni giorno si incontrano lì. «Sarebbe grandioso se Deliveroo pensasse a un posto per noi, ma la verità è che se gli chiedi qualunque cosa rispondono dopo tre o quattro giorni, e quindi il lavoro è questo, prendere o lasciare», spiega.

    Girando lo schermo del telefono mostra i suoi guadagni della serata: otto euro e qualche spicciolo. Guadagnare abbastanza soldi è ormai difficile perché i rider che consegnano gli ordini sono sempre di più e le piattaforme non limitano in nessun modo l’afflusso crescente di manodopera. È frequente quindi vedere rider che si aggirano per la città fino alle tre o le quattro del mattino, soprattutto per consegnare panini di grandi catene come McDonald’s o Burger King: ma a quell’ora la città può essere pericolosa, motivo per il quale i parchi e i luoghi pubblici pensati per l’attività diurna sono un luogo insicuro per molti di loro. Sono molte le aggressioni riportate dalla stampa locale di Milano ai danni di rider in servizio, una delle più recenti avvenuta a febbraio 2022 all’angolo tra piazza IV Novembre e piazza Duca d’Aosta, di fronte alla stazione Centrale. Sul livello di insicurezza di questi lavoratori, ancora una volta, nessuna stima ufficiale.

    I gradini della grande scalinata di marmo, all’ingresso della stazione, cominciano a popolarsi di rider verso le nove di sera. Due di loro iniziano e svolgono il turno sempre insieme: «Siamo una coppia e preferiamo così – confessano -. Certo, un luogo per riposarsi e dove andare soprattutto quando fa caldo o freddo sarebbe molto utile, ma soprattutto perché stare la sera qui ad aspettare che ti arrivi qualcosa da fare non è molto sicuro».

    La mozione del consiglio comunale

    Nel marzo 2022 alcuni consiglieri comunali di maggioranza hanno presentato una mozione per garantire ai rider alcuni servizi necessari allo svolgimento del loro lavoro, come ad esempio corsi di lingua italiana, di sicurezza stradale e, appunto, un luogo a loro dedicato. La mozione è stata approvata e il suo inserimento all’interno del Documento Unico Programmatico (DUP) 2020/2022, ossia il testo che guida dal punto di vista strategico e operativo l’amministrazione del Comune, è in via di definizione.

    La sua inclusione nel DUP sarebbe «una presa in carico politica dell’amministrazione», commenta Francesco Melis responsabile Nidil (Nuove Identità di Lavoro) di CGIL, il sindacato che dal 1998 rappresenta i lavoratori atipici, partite Iva e lavoratori parasubordinati precari. Melis ha preso parte alla commissione ideatrice della mozione. Durante il consiglio comunale del 30 marzo è parso chiaro come il punto centrale della questione fosse decidere chi dovesse effettivamente farsi carico di un luogo per i rider: «È vero che dovrebbe esserci una responsabilità da parte delle aziende di delivery, posizione che abbiamo sempre avuto nel sindacato, ma è anche vero che in mancanza di una loro risposta concreta il Comune, in quanto amministrazione pubblica, deve essere coinvolto perché il posto di lavoro dei rider è la città», ragiona Melis. Questo punto unisce la maggioranza ma la minoranza pone un freno: per loro sarebbe necessario dialogare con le aziende. Eppure la presa di responsabilità delle piattaforme di delivery sembra un miraggio, dopo anni di appropriazione del mercato urbano. «Il welfare metropolitano è un elemento politico importante nella pianificazione territoriale. Non esiste però che l’amministrazione e i contribuenti debbano prendersi carico dei lavoratori delle piattaforme perché le società di delivery non si assumono la responsabilità sociale della loro iniziativa d’impresa», replica Angelo Avelli, portavoce di Deliverance Milano. L’auspicio in questo momento sembra comunque essere la difficile strada della collaborazione tra aziende e amministrazione.

    Tra la primavera e l’autunno 2020, momento in cui è diventato sempre più necessario parlare di sicurezza dei lavoratori del delivery in città, la precedente amministrazione comunale aveva iniziato alcune interlocuzioni con CGIL e Assodelivery, l’associazione italiana che raggruppa le aziende del settore. Interlocuzioni che Melis racconta come prolifiche e che avevano fatto intendere una certa sensibilità al tema da parte di alcune piattaforme. Di diverso avviso era invece l’associazione di categoria. In quel frangente «si era tra l’altro individuato un luogo per i rider in città: una palazzina di proprietà di Ferrovie dello Stato, all’interno dello scalo ferroviario di Porta Genova, che sarebbe stata data in gestione al Comune», ricorda Melis. La scommessa del Comune, un po’ azzardata, era che le piattaforme avrebbero deciso finanziare lo sviluppo e l’utilizzo dello spazio, una volta messo a bando. «Al piano terra si era immaginata un’area ristoro con docce e bagni, all’esterno tensostrutture per permettere lo stazionamento dei rider all’aperto, al piano di sopra invece si era pensato di inserire sportelli sindacali», conclude Melis. Lo spazio sarebbe stato a disposizione di tutti i lavoratori delle piattaforme, a prescindere da quale fosse quella di appartenenza. Per ora sembra tutto fermo, nonostante le richieste di CGIL e dei consiglieri comunali. La proposta potrebbe avere dei risvolti interessanti anche per la società che ne prenderà parte: la piattaforma che affiggerà alle pareti della palazzina il proprio logo potrebbe prendersi il merito di essere stata la prima, con i vantaggi che ne conseguono sul piano della reputazione. Sarebbe però anche ammettere che i rider sono dipendenti e questo non è proprio nei piani delle multinazionali del settore. Alla fine dei conti, sembra che amministrazione e piattaforme si muovano su binari paralleli e a velocità diverse, circostanza che non fa ben sperare sul futuro delle trattative. Creare uno spazio in città, inoltre, sarebbe sì un primo traguardo, ma parziale. Il lavoro del rider è in continuo movimento e stanno già nascendo esigenze nuove. Il rischio che non sia un luogo per tutti , poi, è concreto: molti di coloro che lavorano nelle altre zone di Milano rischiano di esserne esclusi. Ancora una volta.

    https://irpimedia.irpi.eu/nella-citta-delle-piattaforme

    #ubérisation #uber #géographie_urbaine #urbanisme #villes #urban_matters #espace_public #plateformes_numériques #Milan #travail #caporalato #uber_eats #riders #algorithme #colonisation_urbaine #espace_urbain #Glovo #Deliveroo #cloud_kitchen #Kuiri #dark_store #magazzini_urbani #JustEat #starting_point

  • Le rapport de Fairwok sur les conditions de travail des esclaves de plateformes :

    « Il y a maintenant des dizaines de millions de personnes travaillant pour des plateformes numériques qui vivent dans le monde entier, effectuant un travail externalisé via des plateformes ou des applications. Ce travail fournit un revenu essentiel et des opportunités à beaucoup. Cependant, faute de protection par le droit du travail ou les organismes collectifs, de nombreux travailleurs de plateformes sont confrontés à de faibles salaires, à la précarité et à des conditions de travail médiocres et dangereuses. Fairwork s’engage à mettre en lumière les meilleures et les pires pratiques dans l’économie des plateformes. »

    https://fair.work/wp-content/uploads/sites/131/2022/01/Fairwork-Annual-Report-2021.pdf

  • L’#enseignement_numérique ou le supplice des Danaïdes. Austérité, surveillance, désincarnation et auto-exploitation

    Où l’on apprend comment les étudiants en #STAPS de #Grenoble et #Saint-Étienne ont fait les frais de la #numérisation - #déshumanisation de l’#enseignement bien avant l’apparition du coronavirus. Et comment ce dernier pourrait bien avoir été une aubaine dans ce processus de #destruction programmé – via notamment la plate-forme #FUN (sic).

    Les #plateformes_numériques d’enseignement ne datent pas de la série quasiment continue de confinements imposés aux universités depuis mars 2020. Enseignante en géographie à l’Université Grenoble Alpes, je constate le développement croissant d’« outils numériques d’enseignement » dans mon cadre de travail depuis plus d’une dizaine d’années. En 2014, une « #licence_hybride », en grande majorité numérique, est devenue la norme à Grenoble et à Saint-Étienne dans les études de STAPS, sciences et techniques des activités physiques et sportives. En 2020, tous mes enseignements sont désormais numériques à la faveur de l’épidémie. Preuves à l’appui, ce texte montre que le passage total au numérique n’est pas une exceptionnalité de crise mais une #aubaine inédite d’accélération du mouvement de numérisation global de l’#enseignement_supérieur en France. La #souffrance et les dégâts considérables que provoque cette #numérisation_de_l’enseignement étaient aussi déjà en cours, ainsi que les #résistances.

    Une politique structurelle de #transformation_numérique de l’enseignement supérieur

    La licence hybride de l’UFR STAPS à Grenoble, lancée en 2014 et en majorité numérique, autrement dit « à distance », est une des applications « pionnières » et « innovantes » des grandes lignes stratégiques du ministère de l’Enseignement supérieur en matière d’enseignement numérique définies dès 2013. C’est à cette date que la plateforme FUN - #France_Université_Numérique [1] -, financée par le Ministère, a été ouverte, regroupant des #MOOC - Massive Open Online Courses - ayant pour but d’« inciter à placer le numérique au cœur du parcours étudiant et des métiers de l’enseignement supérieur et de la recherche [2] » sous couvert de « #démocratisation » des connaissances et « #ouverture au plus grand nombre ». De fait, la plateforme FUN, gérée depuis 2015 par un #GIP - #Groupe_d’Intérêt_Public [3] -, est organisée autour de cours gratuits et en ligne, mais aussi de #SPOC -#Small_Private_Online_Course- diffusés par deux sous-plateformes : #FUN-Campus (où l’accès est limité aux seuls étudiant·e·s inscrit·e·s dans les établissements d’enseignement qui financent et diffusent les cours et doivent payer un droit d’accès à la plateforme) et #FUN-Corporate (plate-forme destinée aux entreprises, avec un accès et des certifications payants). En 2015, le ministère de l’Enseignement supérieur présentait le nouveau « #GIP-FUN » et sa stratégie pour « mettre en place un modèle économique viable en développant de nouveaux usages de cours en ligne » avec :

    - une utilisation des MOOC en complément de cours sur les campus, voire en substitution d’un #cours_magistral, selon le dispositif de la #classe_inversée ;
    - une proposition de ces #cours_en_ligne aux salariés, aux demandeurs d’emploi, aux entreprises dans une perspective de #formation_continue ;
    – un déploiement des plateformes en marques blanches [4]

    Autrement dit, il s’agit de produire de la sur-valeur à partir des MOOC, notamment en les commercialisant via des #marques_blanches [5] et des #certifications_payantes (auprès des demandeurs d’emploi et des entreprises dans le cadre de la formation continue) et de les diffuser à large échelle dans l’enseignement supérieur comme facteur de diminution des #coûts_du_travail liés à l’#encadrement. Les MOOC, dont on comprend combien ils relèvent moins de l’Open Source que de la marchandise, sont voués aussi à devenir des produits commerciaux d’exportation, notamment dans les réseaux postcoloniaux de la « #francophonie [6] ». En 2015, alors que la plateforme FUN était désormais gérée par un GIP, vers une #marchandisation de ses « produits », était créé un nouveau « portail de l’enseignement numérique », vitrine de la politique du ministère pour « déployer le numérique dans l’enseignement supérieur [7] ». Sur ce site a été publié en mars 2016 un rapport intitulé « MOOC : À la recherche d’un #business model », écrit par Yves Epelboin [8]. Dans ce rapport, l’auteur compare en particulier le #coût d’un cours classique, à un cours hybride (en présence et via le numérique) à un cours uniquement numérique et dresse le graphique suivant de rentabilité :

    Le #coût fixe du MOOC, à la différence du coût croissant du cours classique en fonction du nombre d’étudiants, suffit à prouver la « #rentabilité » de l’enseignement numérique. La suite du document montre comment « diversifier » (depuis des partenariats publics-privés) les sources de financement pour rentabiliser au maximum les MOOC et notamment financer leur coût de départ : « la coopération entre les universités, les donateurs, des fonds spéciaux et d’autres sources de revenus est indispensable ». Enfin, en octobre 2019, était publié sur le site du ministère de l’Enseignement supérieur un rapport intitulé « #Modèle_économique de la transformation numérique des formations dans les établissements d’enseignement supérieur [9] », écrit par Éric Pimmel, Maryelle Girardey-Maillard et Émilie‐Pauline Gallie, inspecteurs généraux de l’éducation, du sport et de la recherche. Le rapport commence par le même invariable constat néolibéral d’#austérité : « croissance et diversité des effectifs étudiants, concurrence nationale et internationale, égalité d’accès à l’enseignement supérieur dans les territoires et augmentation des coûts, dans un contexte budgétaire contraint », qui nécessitent donc un développement généralisé de l’enseignement numérique. La préconisation principale des autrices·teurs du rapport tient dans une « réorganisation des moyens » des universités qui :

    « consiste notamment à réduire le volume horaire des cours magistraux, à modifier les manières d’enseigner (hybridation, classes inversées...) et à répartir différemment les heures de cours, voire d’autres ressources, comme les locaux par exemple. Les économies potentielles doivent être chiffrées par les établissements qui devront, pour ne pas se voir reprocher de dégrader les conditions d’enseignement, redéployer ces montants dans les équipements ou le développement de contenus pédagogiques. »

    Autrement dit encore, pour financer le numérique, il s’agit de « redéployer » les moyens en encadrement humain et en locaux, soit les moyens relatifs aux cours « classiques », en insistant sur la dimension « pédagogique » du « redéploiement » pour « ne pas se voir reprocher de dégrader les conditions d’enseignement ». Le financement du numérique dans l’enseignement universitaire par la marchandisation des MOOC est aussi envisagé, même si cette dernière est jugée pour l’instant insuffisante, avec la nécessité d’accélérer les sources de financement qu’ils peuvent générer : « Le développement de nouvelles ressources propres, tirées notamment de l’activité de formation continue ou liées aux certificats délivrés dans le cadre des MOOCs pourrait constituer une voie de développement de ressources nouvelles. » Un programme « ambitieux » d’appel à « #flexibilisation des licences » a d’ailleurs été lancé en 2019 :

    Au‐delà de la mutualisation des ressources, c’est sur la mutualisation des formations qu’est fondé le projet « #Parcours_Flexibles_en_Licence » présenté par la mission de la pédagogie et du numérique pour l’enseignement supérieur (#MIPNES / #DGESIP) au deuxième appel à projets du #fonds_pour_la_transformation_de_l’action_publique (#FTAP) et financé à hauteur de 12,4 M€ sur trois ans. La mission a retenu quatre scénarios qui peuvent se combiner :

    - l’#hybridation d’une année de licence ou le passage au #tout_numérique ;

    - la transformation numérique partielle de la pédagogie de l’établissement ;

    - la #co‐modalité pour répondre aux contraintes ponctuelles des étudiants ;

    - les MOOCS comme enjeu de visibilité et de transformation.

    Le ministère a pour ambition, depuis 2013 et jusqu’à aujourd’hui, « la transformation numérique partielle de la pédagogie des établissements ». Les universités sont fermées depuis quasiment mars 2020, avec une courte réouverture de septembre à octobre 2020. L’expérience du passage au numérique, non plus partiel, mais total, est en marche dans la start-up nation.

    Nous avons déjà un peu de recul sur ce que l’enseignement numérique produit comme dégâts sur les relations d’enseignement, outre la marchandisation des connaissances qui remet en cause profondément ce qui est enseigné.

    A Grenoble, la licence « pionnière » de STAPS- Sciences et Techniques des Activités Physiques et Sportives

    En 2014 et dans le cadre des politiques financières décrites précédemment, était lancée à Grenoble une licence « unique en son genre » de STAPS- Sciences et Techniques des Activités Physiques et Sportives dont voici le fonctionnement :

    Les universités Grenoble-Alpes et Jean-Monnet-Saint-Étienne proposent une licence STAPS, parcours « entraînement sportif », unique en son genre : la scolarité est asynchrone, essentiellement à distance, et personnalisée.

    Cette licence s’appuie sur un dispositif de formation hybride : les étudiant·e·s s’approprient les connaissances chez eux, à leur rythme avant de les manipuler lors de cours en présentiel massés.

    Le travail personnel à distance s’appuie sur de nouvelles pédagogies dans l’enseignement numérique : les cours #vidéos, les #screencasts, #quizz et informations complémentaires s’articulent autour de #parcours_pédagogiques ; des sessions de #classe_virtuelle sont également organisées à distance [10].

    Dès 2017, des enseignant·e·s de STAPS faisaient paraître un texte avec la section grenobloise du syndicat FSU - Fédération Syndicale Unitaire - intitulé « Les STAPS de Grenoble sont-ils un modèle à suivre ? ». Les auteur·trice·s expliquaient que, en 2014, la présidence de l’université avait instrumentalisé un « dilemme impossible : “la pédagogie numérique ou la limitation d’accueil” ». Il s’agit ici d’un exemple significatif de technique néolibérale de capture de l’intérêt liée à la rhétorique de l’#austérité. Ce même non-choix a été appliqué dans l’organisation de la #PACES à Grenoble, première année de préparation aux études de médecine : numérique ou limitation drastique des étudiant·e·s accueilli·e·s. La tierce voie, toujours écartée, est évidemment celle de recruter plus d’enseignant·e·s, de personnels administratifs, de réduire les groupes d’amphithéâtres, de construire des locaux qui permettent à des relations d’enseignement d’exister. En 2017, les enseignant·e·s de STAPS constataient, effectivement, que « l’enseignement numérique permet(tait) d’accueillir beaucoup de monde avec des moyens constants en locaux et personnels enseignants titulaires (postes) ; et même avec une diminution des #coûts_d’encadrement ». Elles et ils soulignaient dans le même temps que le niveau d’#épuisement et d’#isolement des enseignant·e·s et des étudiant·e·s était inédit, assorti d’inquiétudes qui résonnent fortement avec la situation que nous traversons aujourd’hui collectivement :

    —Nous craignons que le système des cours numérisés s’accompagne d’une plus grande difficulté à faire évoluer les contenus d’enseignements compte tenu du temps pour les réaliser.
    — Nous redoutons que progressivement les cours de L1 soient conçus par un seul groupe d’enseignants au niveau national et diffusé dans tous les UFR de France, l’enseignant local perdant ainsi la main sur les contenus et ceux-ci risquant de se rigidifier.
    — Un certain nombre de travaux insistent sur le temps considérable des jeunes générations accrochées à leur smartphone, de 4 à 6 heures par jour et signalent le danger de cette pratique pour la #santé physique et psychique. Si s’ajoutent à ces 4 à 6 heures de passe-temps les 3 ou 4 heures par jour de travail des cours numériques sur écran, n’y a-t-il pas à s’inquiéter ?
    — Si les étudiants de L1 ne sont plus qu’une douzaine d’heures par semaine à l’université pour leurs cours, qu’en est-il du rôle de #socialisation de l’université ?

    (…)

    Il est tout de même très fâcheux de faire croire qu’à Grenoble en STAPS en L1, avec moins de moyens humains nous faisons aussi bien, voire mieux, et que nous ayons trouvé la solution au problème du nombre. Il serait plus scrupuleux d’exposer que :

    — nous sommes en difficulté pour défendre la qualité de nos apprentissages, que sans doute il y a une perte quant aux compétences formées en L1 et que nous devrons compenser en L2, L3, celles-ci. Ce qui semble très difficile, voire impossible ;
    — le taux de réussite légèrement croissant en L1 se fait sans doute à ce prix et qu’il est toujours faible ;
    — nous nous interrogeons sur la faible participation de nos étudiants au cours de soutien (7 % ) ;
    — nous observons que les cours numériques n’ont pas fait croître sensiblement la motivation des étudiants [11].

    Ces inquiétudes, exprimées en 2017, sont désormais transposables à large échelle. Les conditions actuelles, en période de #confinement et de passage au tout numérique sur fond de #crise_sanitaire, ne sont en effet ni « exceptionnelles », ni « dérogatoires ». Ladite « #exceptionnalité de crise » est bien plus l’exacerbation de ce qui existe déjà. Dans ce contexte, il semble tout à fait légitime de s’interroger sur le très probable maintien de l’imposition des fonctionnements généralisés par temps de pandémie, aux temps « d’après », en particulier dans le contexte d’une politique très claire de transformation massive de l’#enseignement_universitaire en enseignement numérique. Ici encore, l’analyse des collègues de STAPS publiée en 2017 sur les modalités d’imposition normative et obligatoire de mesures présentées initialement comme relevant du « volontariat » est éloquente :

    Alors qu’initialement le passage au numérique devait se faire sur la base du #volontariat, celui-ci est devenu obligatoire. Il reste à l’enseignant ne souhaitant pas adopter le numérique la possibilité d’arrêter l’enseignement qui était le sien auparavant, de démissionner en quelque sorte. C’est sans doute la première fois, pour bon nombre d’entre nous, qu’il nous est imposé la manière d’enseigner [12].

    Depuis 2020, l’utopie réalisée. Passage total à l’enseignement numérique dans les Universités

    Depuis mars et surtout octobre 2020, comme toutes les travailleur·se·s et étudiant·e·s des universités en France, mes pratiques d’enseignement sont uniquement numériques. J’avais jusqu’alors résisté à leurs usages, depuis l’analyse des conditions contemporaines du capitalisme de plateforme lié aux connaissances : principalement (1) refuser l’enclosure et la #privatisation des connaissances par des plateformes privées ou publiques-privées, au service des politiques d’austérité néolibérale destructrices des usages liés à l’enseignement en présence, (2) refuser de participer aux techniques de surveillance autorisées par ces outils numériques. Je précise ici que ne pas vouloir déposer mes cours sur ces plateformes ne signifiait pas me replier sur mon droit de propriété intellectuelle en tant qu’enseignante-propriétaire exclusive des cours. Au contraire, un cours est toujours co-élaboré depuis les échanges singuliers entre enseignant·e·s et étudiant·e·s ; il n’est pas donc ma propriété exclusive, mais ressemble bien plus à un commun élaboré depuis les relations avec les étudiant·e·s, et pourrait devoir s’ouvrir à des usages et des usager·ère·s hors de l’université, sans aucune limite d’accès. Sans défendre donc une propriété exclusive, il s’agit dans le même temps de refuser que les cours deviennent des marchandises via des opérateurs privés ou publics-privés, déterminés par le marché mondial du capitalisme cognitif et cybernétique, et facilité par l’État néolibéral, comme nous l’avons vu avec l’exposé de la politique numérique du ministère de l’Enseignement supérieur.

    Par ailleurs, les plateformes d’enseignement numérique, en particulier de dépôt et diffusion de documents, enregistrent les dates, heures et nombres de clics ou non-clics de toutes celles et ceux qui les utilisent. Pendant le printemps 2020, sous les lois du premier confinement, les débats ont été nombreux dans mon université pour savoir si l’ « #assiduité », comme facteur d’ « #évaluation » des étudiant·e·s, pouvait être déterminée par les statistiques individuelles et collectives générées par les plateformes : valoriser celles et ceux qui seraient les plus connectées, et pénaliser les autres, autrement dit « les déconnecté·e·s », les dilettantes. Les éléments relatifs à la #fracture_numérique, l’inégal accès matériel des étudiant·e·s à un ordinateur et à un réseau internet, ont permis de faire taire pendant un temps celles et ceux qui défendaient ces techniques de #surveillance (en oubliant au passage qu’elles et eux-mêmes, en tant qu’enseignant·e·s, étaient aussi possiblement surveillé·e·s par les hiérarchies depuis leurs fréquences de clics, tandis qu’elles et ils pouvaient s’entre-surveiller depuis les mêmes techniques).

    Or depuis la fermeture des universités, ne pas enseigner numériquement signifie ne pas enseigner du tout. Refuser les plateformes est devenu synonyme de refuser de faire cours. L’épidémie a créé les conditions d’un apparent #consentement collectif, d’une #sidération aussi dont il est difficile de sortir. Tous les outils que je refusais d’utiliser sont devenus mon quotidien. Progressivement, ils sont même devenus des outils dont je me suis rendue compte dépendre affectivement, depuis un rapport destructeur de liens. Je me suis même mise à regarder les statistiques de fréquentation des sites de mes cours, les nombres de clics, pour me rassurer d’une présence, là où la distance commençait à creuser un vide. J’ai eu tendance à surcharger mes sites de cours de « ressources », pour tenter de me rassurer sur la possibilité de resserrer des liens, par ailleurs de plus en plus ténus, avec les étudiant·e·s, elles-mêmes et eux-mêmes confronté·e·s à un isolement et une #précarisation grandissantes. Là où la fonction transitionnelle d’objets intermédiaires, de « médias », permet de symboliser, élaborer l’absence, j’ai fait l’expérience du vide creusé par le numérique. Tout en étant convaincue que l’enseignement n’est jamais une affaire de « véhicule de communication », de « pédagogie », de « contenus » à « communiquer », mais bien une pratique relationnelle, réciproque, chargée d’affect, de transfert, de contre-transfert, que « les choses ne commencent à vivre qu’au milieu [13] », je n’avais jamais éprouvé combien la « communication de contenus » sans corps, sans adresse, créait de souffrance individuelle, collective et d’auto-exploitation. Nombreuses sont les analyses sur la difficulté de « #concentration », de captation d’une #attention réduite, derrière l’#écran. Avec Yves Citton et ses travaux sur l’#écologie_de_l’attention, il m’apparaît que la difficulté est moins celle d’un défaut de concentration et d’attention, que l’absence d’un milieu relationnel commun incarné :
    Une autre réduction revient à dire que c’est bien de se concentrer et que c’est mal d’être distrait. Il s’agit d’une évidence qui est trompeuse car la concentration n’est pas un bien en soi. Le vrai problème se situe dans le fait qu’il existe toujours plusieurs niveaux attentionnels. (…) La distraction en soi n’existe pas. Un élève que l’on dit distrait est en fait attentif à autre chose qu’à ce à quoi l’autorité veut qu’il soit attentif [14].

    La souffrance ressentie en tant que désormais « enseignante numérique » n’est pas relative à ce que serait un manque d’attention des étudiant·e·s généré par les écrans, mais bien à l’absence de #relation incarnée.

    Beaucoup d’enseignant·e·s disent leur malaise de parler à des « cases noires » silencieuses, où figurent les noms des étudiant·e·s connecté·e·s au cours. Ici encore, il ne s’agit pas de blâmer des étudiant·e·s qui ne « joueraient pas le jeu », et n’ouvriraient pas leurs caméras pour mieux dissimuler leur distraction. Outre les questions matérielles et techniques d’accès à un matériel doté d’une caméra et d’un réseau internet suffisamment puissant pour pouvoir suivre un cours et être filmé·e en même temps, comment reprocher à des étudiant·e·s de ne pas allumer la caméra, qui leur fait éprouver une #intrusion dans l’#espace_intime de leur habitation. Dans l’amphithéâtre, dans la salle de classe, on peut rêver, regarder les autres, regarder par la fenêtre, regarder par-dessus le tableau, à côté, revenir à sa feuille ou son écran…pas de gros plan sur le visage, pas d’intrusion dans l’espace de sa chambre ou de son salon. Dans une salle de classe, la mise en lien est celle d’une #co-présence dans un milieu commun indéterminé, sans que celui-ci n’expose à une intrusion de l’espace intime. Sans compter que des pratiques d’enregistrement sont possibles : où voyagent les images, et donc les images des visages ?

    Pour l’enseignant·e : parler à des cases noires, pour l’étudiant·e : entendre une voix, un visage en gros plan qui ne le·la regarde pas directement, qui invente une forme d’adresse désincarnée ; pour tou·te·s, faire l’expérience de l’#annihilation des #corps. Même en prenant des notes sur un ordinateur dans un amphithéâtre, avec un accès à internet et maintes possibilités de « s’évader » du cours, le corps pris dans le commun d’une salle engage des #liens. Quand la relation ne peut pas prendre corps, elle flotte dans le vide. Selon les termes de Gisèle Bastrenta, psychanalyste, l’écran, ici dans la relation d’enseignement, crée l’« aplatissement d’un ailleurs sans au-delà [15] ».

    Le #vide de cet aplatissement est synonyme d’#angoisse et de symptômes, notamment, celui d’une #auto-exploitation accrue. Le récit de plusieurs étudiant.e.s fait écho à l’expérience d’auto-exploitation et angoisse que je vis, depuis l’autre côté de l’écran. Mes conditions matérielles sont par ailleurs très souvent nettement meilleures aux leurs, jouissant notamment de mon salaire. La précarisation sociale et économique des étudiant·e·s creuse encore le vide des cases noires. Plusieurs d’entre elles et eux, celles et ceux qui peuvent encore se connecter, expliquent qu’ils n’ont jamais autant passé d’heures à écrire pour leurs essais, leurs dissertations…, depuis leur espace intime, en face-à-face avec les plateformes numériques qui débordent de fichiers de cours, de documents… D’abord, ce temps très long de travail a souvent été entrecoupé de crises de #panique. Ensuite, ce temps a été particulièrement angoissant parce que, comme l’explique une étudiante, « tout étant soi-disant sur les plateformes et tout étant accessible, tous les cours, tous les “contenus”, on s’est dit qu’on n’avait pas le droit à l’erreur, qu’il fallait qu’on puisse tout dire, tout écrire, tout ressortir ». Plutôt qu’un « contenu » élaborable, digérable, limité, la plateforme est surtout un contenant sans fond qui empêche d’élaborer une #réflexion. Plusieurs étudiant·e·s, dans des échanges que nous avons eus hors numérique, lors de la manifestation du 26 janvier 2021 à l’appel de syndicats d’enseignant·e·s du secondaire, ont également exprimé cet apparent #paradoxe : -le besoin de plus de « #contenu », notamment entièrement rédigé à télécharger sur les plateformes pour « mieux suivre » le cours, -puis, quand ce « contenu » était disponible, l’impression de complètement s’y noyer et de ne pas savoir quoi en faire, sur fond de #culpabilisation d’« avoir accès à tout et donc de n’avoir pas le droit à l’erreur », sans pour autant parvenir à élaborer une réflexion qui puisse étancher cette soif sans fin.

    Face à l’absence, la privatisation et l’interdiction de milieu commun, face à l’expression de la souffrance des étudiant·e·s en demande de présence, traduite par une demande sans fin de « contenu » jamais satisfaite, car annulée par un cadre désincarné, je me suis de plus en plus auto-exploitée en me rendant sur les plateformes d’abord tout le jour, puis à des heures où je n’aurais pas dû travailler. Rappelons que les plateformes sont constamment accessibles, 24h/24, 7j/7. Poster toujours plus de « contenu » sur les plateformes, multiplier les heures de cours via les écrans, devoir remplir d’eau un tonneau troué, supplice des Danaïdes. Jusqu’à l’#épuisement et la nécessité - politique, médicale aussi - d’arrêter. Alors que je n’utilisais pas les plateformes d’enseignement numérique, déjà très développées avant 2020, et tout en ayant connaissance de la politique très offensive du Ministère en matière de déshumanisation de l’enseignement, je suis devenue, en quelque mois, happée et écrasée par la fréquentation compulsive des plateformes. J’ai interiorisé très rapidement les conditions d’une auto-exploitation, ne sachant comment répondre, autrement que par une surenchère destructrice, à la souffrance généralisée, jusqu’à la décision d’un arrêt nécessaire.

    L’enjeu ici n’est pas seulement d’essayer de traverser au moins pire la « crise » mais de lutter contre une politique structurelle de #destruction radicale de l’enseignement.

    Créer les milieux communs de relations réciproques et indéterminées d’enseignement, depuis des corps présents, et donc des présences et des absences qui peuvent s’élaborer depuis la #parole, veut dire aujourd’hui en grande partie braconner : organiser des cours sur les pelouses des campus…L’hiver est encore là, le printemps est toujours déjà en germe.

    https://lundi.am/L-enseignement-numerique-ou-le-supplice-des-Danaides

    #numérique #distanciel #Grenoble #université #facs #France #enseignement_à_distance #enseignement_distanciel

    • Le #coût fixe du MOOC, à la différence du coût croissant du cours classique en fonction du nombre d’étudiants, suffit à prouver la « #rentabilité » de l’enseignement numérique.

      mais non ! Si la création du MOOC est effectivement un coût fixe, son fonctionnement ne devrait pas l’être : à priori un cours en ligne décemment conçu nécessite des interactions de l’enseignant avec ses étudiants...

  • Droit du travail : un chauffeur Uber requalifié en « salarié »
    http://www.bonnes-nouvelles.be/site/index.php?iddet=2849&id_surf=&idcat=305&quellePage=999&surf_lang=fr

    Je me sens comme un esclave : je travaille de longues heures chaque jour, sous les ordres d’une application, mais je n’ai pas de quoi me payer un salaire à la fin du mois. » Guillaume* est chauffeur indépendant, ou « limousine » comme on dit chez Bruxelles Mobilité, où il a obtenu sa licence il y a un peu plus de deux ans. Depuis novembre 2018, il « collabore » avec Uber, qui organise le transport rémunéré de citadins dans la capitale et un peu partout dans le monde. À ce stade, il n’a « plus rien à (...)

    #Uber #procès #législation #conducteur·trice·s #GigEconomy #travail

    • Je me sens comme un esclave : je travaille de longues heures chaque jour, sous les ordres d’une application, mais je n’ai pas de quoi me payer un salaire à la fin du mois. »

      Guillaume* est chauffeur indépendant, ou « limousine » comme on dit chez Bruxelles Mobilité, où il a obtenu sa licence il y a un peu plus de deux ans. Depuis novembre 2018, il « collabore » avec Uber, qui organise le transport rémunéré de citadins dans la capitale et un peu partout dans le monde. À ce stade, il n’a « plus rien à perdre », nous explique-t-il. « Mais peut-être, quelque chose à gagner ». À savoir : devenir salarié de la multinationale.

      Début juillet, Guillaume a introduit une demande de qualification de sa relation avec la plateforme d’origine américaine auprès de la Commission administrative de règlement de la relation de travail (CRT). Quand la nature de votre relation avec votre donneur d’ordre ou votre employeur vous apparaît comme suspecte, cet organe est là pour analyser votre cas et décider, si au regard de la législation locale, vous êtes salarié ou indépendant.

      « Je ne gagne pas ma vie décemment »

      Guillaume, sur papier, appartient à la seconde catégorie de travailleurs (les deux seules existant en droit du travail belge). Il a enregistré une société en personne physique, son véhicule lui appartient, il a obtenu seul les autorisations nécessaires pour exercer son métier. « Avec Uber, je ne connais que les inconvénients de ce statut, en aucun cas les avantages. Je ne gagne de toute façon pas ma vie décemment, donc j’ai décidé d’aller jusqu’au bout », poursuit le trentenaire.

      Une démarche concluante puisque Le Soir a appris que la CRT lui avait donné raison à travers une décision longue de 12 pages rendue le 26 octobre dernier : Uber est bien, selon la Commission qui dépend du SPF Sécurité sociale, l’employeur de Guillaume. Précisément, la CRT conclut après un examen approfondi que « les modalités d’exécution de la relation de travail sont incompatibles avec la qualification de #travail_indépendant ».

      Pour aboutir à cette conclusion – la question est épineuse et fait débat dans bon nombre de pays européens ainsi qu’aux États-Unis (lire ci-contre) –, plusieurs éléments contractuels ont été analysés. Notamment ceux qui concernent la #liberté_d’organisation_du_travail et d’organisation du #temps_de_travail de Guillaume, deux démarches inhérentes au #statut_d’indépendant. Deux leitmotivs aussi utilisés par Uber depuis son lancement : l’entreprise estime, en effet, que la #flexibilité de ses chauffeurs ainsi que leur #liberté de prester quand ils le souhaitent et pour qui ils le souhaitent est à la base de sa « philosophie ».

      « Je ne peux pas refuser une course »

      « La réalité est bien différente », détaille Guillaume. « Uber capte quasi tout le marché à Bruxelles et, si je suis connecté à l’#application, je n’ai pas le #droit_de_refuser une course. Si je le fais, Uber abaisse ma “#cotation”. Si je le fais trois fois de suite, Uber me vire », détaille Guillaume. Qui précise qu’il lui est également impossible de jongler entre plusieurs plateformes. « Si je suis sur deux applications et que j’accepte une course pour un autre opérateur et qu’Uber me demande d’être disponible, je suis obligé de refuser la course. Au final, comme expliqué, cela me porte préjudice. »

      Guillaume, en outre, ne connaît pas son itinéraire avant d’accepter de prendre en charge un client. « On peut m’envoyer à 10 kilomètres. Soit un long trajet non rémunéré pour un trajet payé de 1.500 mètres. » S’il choisit de dévier du chemin imposé par la plateforme, par bon sens ou à la demande d’un client pressé, le chauffeur se dit également régulièrement pénalisé. Chez Uber, le client est roi. Quand ce dernier commande une course, l’application lui précise une fourchette de #prix. « Évidemment, si je prends le ring pour aller jusqu’à l’aéroport, le prix de la course augmente car le trajet est plus long, mais le client peut très facilement réclamer à Uber la différence tarifaire. Même s’il m’a demandé d’aller au plus vite. » Dans ce cas de figure, la différence en euros est immédiatement déduite de la #rémunération de Guillaume.

      La CRT estime que le chauffeur ne peut pas influer sur la manière dont Uber organise un #trajet, qu’il « n’a aucune marge de manœuvre quant à la façon dont la prestation est exercée. (…) En cas de non-respect de l’#itinéraire, si le prix de la course ne correspond pas à l’estimation, il peut être ajusté a posteriori par Uber, le passager peut alors obtenir un remboursement mais le chauffeur ne sera payé que sur base du prix annoncé à ce dernier. (…) A aucun moment, un dialogue direct entre le chauffeur et le passager n’est possible. (…) De telles modalités obligent le chauffeur à fournir une prestation totalement standardisée. »

      Un chantier dans le « pipe » du gouvernement

      Guillaume n’est pas naïf, ses représentants qui l’ont accompagné dans la démarche administrative – le syndicat CSC via sa branche dédiée aux indépendants #United_Freelancers et le collectif du secteur des taxis – ne le sont pas non plus. Il sait que l’avis de la CRT est « non contraignant » pour Uber mais qu’elle a de lourdes implications pour son cas personnel. À moins d’être requalifié comme « salarié » par l’entreprise elle-même (un recommandé a été envoyé à ce titre aux différentes filiales impliquées en Belgique), il ne peut désormais plus travailler pour Uber.

      De son côté, Uber explique qu’il « n’a pas encore pas encore reçu le point de la vue de la CRT » mais qu’il « estime que la justice bruxelloise a déjà tranché en 2019 le fait que ses chauffeurs étaient indépendants » (un procès a opposé l’entreprise au secteur des #taxis et lui a donné raison, mais ce dernier a fait appel et le jugement n’a pas encore été rendu). La société américaine pourrait d’ailleurs attaquer la décision en justice. L’anglaise #Deliveroo avait opté pour cette démarche en 2018 après que le même organe a acté en 2018 qu’un de ses #coursiers indépendants était en réalité salarié de la plateforme (l’audience aura lieu en septembre de cette année).

      « Notre priorité est de faire réagir les autorités. Uber, comme d’autres plateformes, doit occuper ses travailleurs selon une qualification conforme à la réalité du travail. Soit les #prestataires sont véritablement indépendants et devraient, dès lors, pouvoir fixer leurs prix, leurs conditions d’intervention, choisir leurs clients, organiser leur service comme ils l’entendent… Soit Uber continue à organiser le service, à fixer les prix et les règles, à surveiller et contrôler les chauffeurs, et ceux-ci sont alors des travailleurs salariés », cadrent Martin Willems, qui dirige United Freelancers et Lorenzo Marredda, secrétaire exécutif de la CSC Transcom.

      Au cabinet du ministre en charge du Travail Pierre-Yves Dermagne (PS), on confirme avoir déjà analysé les conclusions de la CRT et la volonté de débuter rapidement un chantier sur le sujet avec les partenaires sociaux. « Nous allons nous attaquer à la problématique des #faux_indépendants des #plateformes_numériques, comme décidé dans l’accord de gouvernement. L’idée est bien d’adapter la loi de 2006 sur la nature des #relations_de_travail. Cela pourrait passer par une évaluation des critères nécessaires à l’exercice d’une #activité_indépendante, par un renforcement des critères également. Mais il s’agit évidemment d’une matière qui doit être concertée », précise Nicolas Gillard, porte-parole.

      * Le prénom est d’emprunt, les décisions de la CRT sont anonymisées quand elles sont publiées.

      Des pratiques désormais similaires chez les taxis

      A.C.

      Selon le collectif des Travailleurs du taxi et la #CSC-Transcom, les problèmes constatés chez Uber sont actuellement également une réalité chez d’autres acteurs du secteur, en l’occurrence les #centrales_de_taxis. « Les taxis indépendants sont très dépendants des centrales. Et depuis leur #numérisation, il y a vraiment un glissement des pratiques. Les chauffeurs de taxi indépendants ne savent pas non plus où on les envoie avant d’accepter une course », explique Michaël Zylberberg, président du collectif. « La dernière version de l’application #Taxis_Verts est un clone de celle d’Uber. Au début, il y a cette idée de #concurrence_déloyale mais, comme le problème n’a pas été réglé, les centrales tendent à copier les mauvaises habitudes des plateformes. Cela est très inquiétant pour les travailleurs, qui perdent progressivement leur #autonomie », ajoute Lorenzo Marredda, secrétaire exécutif de la CSC-Transcom.

      Des décisions dans d’autres pays

      Mis en ligne le 13/01/2021 à 05:00

      Par A.C.

      Lors de son introduction en Bourse en 2019, Uber expliquait collaborer avec 3 millions de chauffeurs indépendants dans le monde. Fatalement, face à une telle masse de main-d’œuvre, qui se plaint souvent de #conditions_de_travail et de #rémunération indécentes, procès et interventions des législateurs ponctuent régulièrement l’actualité de l’entreprise. Ces derniers mois, trois décisions retiennent particulièrement l’attention.

      En #Suisse

      Plusieurs cantons sont en plein bras de fer avec la plateforme américaine. A #Genève et à #Zurich, les chauffeurs Uber sont désormais considérés comme des salariés. Les caisses d’#assurances_sociales réclament des sommes très importantes à l’entreprise, qui refuse jusqu’à présent de payer les #cotisations_sociales employeurs réclamées.

      En #France

      La# Cour_de_cassation a confirmé en mars dernier que le lien entre un conducteur et l’entreprise est bien un « #contrat_de_travail ». Les arguments utilisés se rapprochent de ceux de la CRT : la plus haute juridiction du pays a jugé que « le chauffeur qui a recours à l’application Uber ne se constitue pas sa propre clientèle, ne fixe pas librement ses tarifs et ne détermine pas les conditions d’exécution de sa prestation de transport ». Une #jurisprudence qui permet d’appuyer les demandes de #requalification des chauffeurs indépendants de l’Hexagone.

      En #Californie

      Une loi contraint, depuis le 1er janvier 2020, Uber et #Lyft à salarier ses collaborateurs. Les deux entreprises refusant de s’y plier ont investi environ 200 millions de dollars pour mener un référendum citoyen sur la question qu’ils ont remporté en novembre dernier, avec un texte baptisé « #proposition_22 ». Qui introduit pour les dizaines de milliers de chauffeurs concernés un #revenu_minimum_garanti et une contribution à l’#assurance_santé.

      #néo-esclavage #ordres #Bruxelles_Mobilité #sous-traitance #travailleur_indépendant #salariat #salaire #Commission_administrative_de_règlement_de_la_relation_de_travail (#CRT) #Belgique #droit_du_travail

  • Surveillés, exploités : dans l’enfer des #livreurs_à_vélo

    Dans cette enquête inédite, Le Média révèle les mécanismes de #surveillance des livreurs mis en place par les plateformes pour mieux les exploiter, et plus largement les conditions de travail scandaleuses auxquelles ils sont soumis : temps de travail excessif, mise en danger de mort...

    Depuis quelques années, les livreurs à vélo sont apparus dans le paysage urbain. Avec leurs sacs colorés, ils parcourent les rues des plus grands villes européennes. Ils travaillent pour des #plateformes_numériques, souvent dans des conditions plus que précaires.

    Dans cette enquête inédite, nous révélons les mécanismes de surveillance des livreurs mis en place par des plateformes telles que #Deliveroo, #Foodora ou #Uber_Eats pour mieux les exploiter, et plus largement les conditions de travail scandaleuses auxquelles ils sont soumis. À partir de l’histoire de #Frank_Page, jeune livreur Uber Eats décédé à la suite d’un accident de voiture près de l’autoroute, nous retraçons la façon dont les plateformes numériques de livraison imposent des rythmes dangereux et affectent aux livreurs des parcours potentiellement meurtriers.

    Mais cette histoire en cache plein d’autres. Derrière cette organisation du travail prétendument novatrice se cachent des pratiques régulières de répression syndicale, chez Deliveroo ou chez Uber. De Bordeaux à Dijon, en passant par Paris, les livreurs qui essaient de s’organiser face aux plateformes en paient le prix, parfois chèrement. Et cela ne se limite pas à la France.

    Ainsi, nous révélons en exclusivité que Deliveroo a espionné des syndicalistes en Angleterre en essayant de recueillir des données privées et en espionnant leurs réseaux sociaux. Le flicage ne s’arrête pas là. Grâce à l’association #Exodus_Privacy, nous avons aussi découvert comment certaines applications - celle de Deliveroo, notamment - surveillent leurs livreurs et récoltent certaines données, qui sont par la suite redirigées vers de régies publicitaires, exposant ces entreprises à une potentielle violation de la loi européenne sur la vie privée.

    https://www.youtube.com/watch?v=vASAMVRiy8s&feature=emb_logo


    https://www.lemediatv.fr/emissions/les-enquetes/surveilles-exploites-dans-lenfer-des-livreurs-a-velo-sJHkn_vURXeCnFw7IvBks

    A partir de la minute 33, il y a une interview avec Paul-Olivier Dehay, fondateur de l’ONG Personal data.io (https://wiki.personaldata.io/wiki/Main_Page).
    Il explique comment les plateformes de livreurs utilisent les données collectées :

    « On peut diviser son groupe d’ ’employés’ grâce à ces outils, et commencer à appliquer des traitements différents à chacun de ces sous-groupes. Par exemple offrir des bonus à certains et pas à d’autres, des encouragements, faire des expériences de traitements différents. C’est un outil managérial pour gérer la force ouvrière des livreurs. Ces plateformes cherchent à opérer en ayant un maximum d’informations sur le marché, mais par contre en livrant un minimum d’informations à chaque entité pour faire son travail. Donc quand un livreur livre un plat il ne sait pas si dans l’heure il va avoir encore 3 ou 4 boulots, il n’a aucune information sur les prédictions ou quoi que ce soit, parce que la plateforme cherche à pousser un maximum de risques économiques vers les livreurs, et cherche à optimiser toujours dans son intérêt. On voit que l’asymétrie d’information pour ces plateformes est stratégique pour eux. Uber n’a pas de voiture, Deliveroo n’a pas de vélo, ce qu’ils ont c’est de l’information, et de l’information qui vaut de l’argent pour des restaurants, pour des livreurs, et pour des consommateurs au final. C’est mettre tous ces acteurs ensemble qui va permettre à la plateforme de faire de l’argent. On peut tout à fait imaginer un scénario où chacune des parties se réapproprie un maximum de ces données et au final se demande ’En fait, pourquoi on a besoin de cet intermédiaire ? Pourquoi est-ce qu’on ne peut pas agir avec des outils qui nous permettent d’interagir directement’. Si on suit cette logique d’exposition de la plateforme, de mise à nu de la plateforme, on se rend compte qu’au final il n’y a rien derrière, il n’y a rien qui a vraiment une valeur, c’est dans l’#asymétrie de l’information qu’ils construisent la valeur »

    #exploitation #travail #conditions_de_travail #précarité #surveillance #gig_economy #économie_de_la_tâche #livreurs #auto-entrepreneurs #liberté #enquête #deliveroo_rider #téléphone_portable #smartphone #syndicats #risques #accidents #coursiers #coursiers_à_vélo #grève #accidents #décès #morts #taxes #résistance #taux_de_satisfaction #Dijon #Brighton #algorithme #déconnexion #Guy_MacClenahan #IWGB #réseaux_sociaux #flexibilité #sanctions #contrôle #Take_it_easy #dérapage #strike #pisteur #géolocalisation #publicité #identifiant_publicitaire #Appboy #segment.io #Braze #information #informations #charte #charte_sociale
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  • IDA SOFAR « MIND »
    https://laspirale.org/video-608-ida-sofar- mind.html

    IDA SOFAR « MIND »Après des années d’expérimentations, Ida Sofar s’est enfin révélée l’année dernière avec la sortie de son premier album Mind, distribué par Atypeek Music. Un disque aux sonorités sombres, post-blues, électroniques et incantatoires, qui évoque tour à tour PJ Harvey, les expérimentations de Nico et jusqu’aux passages les plus « free » du Funhouse des Stooges.

    Ida Sofar se produira le samedi 8 juin 2019 sur la scène de La Gare Expérimentale, dans le cadre de La Mutante « Garden Party ».26/05/2019

    http://atypeekmusic.com/Ida_Sofar.html
    #laspirale #musique

    • Atypeek Music est issu de la fusion de plusieurs #labels, le label numérique a créé en 2013 une communauté internationale de musiques alternatives (Music Alternative Community Label). Cette structure mutante (entre le label et le distributeur) a pour vocation de porter et de promouvoir ses productions vers les plateformes numériques. Le collectif collabore avec des structures partenaires comme Permis De Construire Deutchland (PDCD), Noise Product Swiss, RecRec Music, Autodafé Records, micr0lab, le Grolektif, Coax, Gaffer records, SK Records, Poutrage Records, Becoq Records, Carton Records, IOT Records, Futura Marge et bien d’autres… Atypeek Music™ est sous la direction artistique de Christophe Féray.
      http://atypeekmusic.com/Atypeek_Music.html
      #label #plateformes_numériques