La parola finita in prima pagina su Repubblica indicava un atteggiamento consapevole delle ingiustizie sociali, ma oggi ha una connotazione spesso dispregiativa e sarcastica.
Nell’ampio dibattito che ha interessato i paesi anglosassoni negli ultimi anni sulle rivendicazioni delle cosiddette minoranze, che si parli di orientamento sessuale o identità di genere, di origini etniche o di disabilità, sono emerse diverse nuove parole che hanno poi cominciato ad affiorare nelle discussioni anche in Italia, prima nelle nicchie e poi in modo sempre più trasversale. Giovedì per esempio Repubblica ha pubblicato in prima pagina un editoriale del giornalista statunitense Bret Stephens, che era uscito pochi giorni prima sul New York Times, dal titolo “Perché l’ideologia woke fallirà”.
L’articolo dà per inteso il significato di woke, una parola che in realtà non si è mai davvero affermata nel dibattito italiano, nel quale solitamente si fa ricorso ad altre espressioni che rientrano più meno nello stesso campo semantico, come “politicamente corretto” oppure “cancel culture”. Peraltro, negli stessi Stati Uniti l’aggettivo woke e il sostantivo wokeness sono parole sempre meno usate, se non con una chiara connotazione dispregiativa: a complicare ulteriormente la spiegazione non solo del suo significato, ma anche degli sviluppi nelle sue accezioni e usi.
“Woke” non è davvero traducibile in italiano – vuol dire qualcosa come “consapevole” – ma indica, o almeno indicava originariamente, l’atteggiamento di chi presta attenzione alle ingiustizie sociali, legate principalmente a questioni di genere e di etnia, e non ne rimane indifferente, solidarizzando ed eventualmente impegnandosi per aiutare chi le subisce.
Nel Novecento l’espressione “woke” esisteva già ed era usata soprattutto tra gli afroamericani, sia con l’accezione di “stare all’erta” rispetto a un pericolo, sia con quella più generica di essere a conoscenza di qualcosa.
La sua diffusione col significato attuale però risale allo scorso decennio, quando fu usata nell’ambito delle proteste di Black Lives Matter per esprimere il concetto a cui è stata poi associata negli ultimi anni: cioè la consapevolezza su una serie di questioni e problemi legati al razzismo e al sessismo sistemico – nel senso di radicati nelle istituzioni e nelle dinamiche sociali – della società americana (e per estensione di quelle occidentali).
Un termine quindi con un’accezione positiva, per chi lo usava riferendosi a un obiettivo e un’ambizione: si definivano woke per esempio le persone – perlopiù della cosiddetta generazione dei “millennial”, cioè i nati tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta – che facevano attivismo in piazza e sui social network, che partecipavano alle proteste antirazziste o alle marce per i diritti delle donne, che sensibilizzavano sull’importanza di utilizzare un linguaggio rispettoso e inclusivo per riferirsi alle minoranze.
Man mano che la diffusione della parola è uscita dalle proteste di Black Lives Matter, ha iniziato a essere usata in altri modi.
Con l’aumentare del coinvolgimento dei giovani americani nelle battaglie per i diritti, woke è diventata un’espressione riferita spesso a persone che sono considerate “alleate” delle minoranze ma che appartengono a categorie identitarie ritenute in una posizione di maggiore potere. Per esempio perché bianche, di sesso maschile, eterosessuali, cisgender (cioè che si riconoscono nel genere associato al sesso di nascita) o ricche, tutte caratteristiche che nell’ambito dei discorsi su questi temi vengono associate spesso al concetto di “privilegio”, inteso come vantaggio nella società contemporanea occidentale.
Più recentemente, però, woke è diventata sempre meno una parola rivendicata dalle persone che teoricamente dovrebbe descrivere, e sempre più usata invece dai loro critici e dai conservatori americani per indicare quella che considerano una pericolosa tendenza della sinistra, dei progressisti e più in generale dei Democratici. Con woke, cioè, la destra americana intende solitamente quello che identifica come un atteggiamento di dogmatismo intollerante e censorio, applicato nei confronti delle parole e delle idee che vanno contro le più moderne sensibilità sulle questioni delle minoranze e dei diritti civili.
Woke quindi è diventato un termine perlopiù negativo, usato con l’intento di ridicolizzare e attaccare i movimenti giovanili progressisti, associandoli alle loro espressioni più intransigenti e aggressive, presenti principalmente sui social network.
Per esempio le campagne portate avanti in diversi campus universitari americani per allontanare professori accusati – spesso pretestuosamente o ingiustamente – di aver usato parole offensive, oppure quelle che chiedono il licenziamento di personaggi pubblici di vario tipo per via di dichiarazioni considerate controverse, o che mobilitano grandi e bellicose masse di account contro qualcuno che abbia detto una cosa considerata disdicevole rispetto alle suddette sensibilità.
Queste dinamiche, che sono oggetto di riflessioni e studi anche preoccupati, soprattutto in ambito accademico, fanno più precisamente riferimento al fenomeno della “cancel culture”, e sono legate secondo molti non tanto all’impostazione ideologica woke quanto alle modalità con cui le piattaforme dei social network hanno reso il confronto tra idee diverse spesso violento, intollerante e polarizzato.
Questi aspetti non sono soltanto discussi e criticati dai conservatori, tutt’altro: è in corso un vivace dibattito anche tra progressisti e persone di sinistra sui problemi che derivano da questo tipo di approccio al confronto politico e alla ricerca accademica. Anche tra opinionisti liberal, la parola woke viene talvolta usata per riferirsi genericamente a questo atteggiamento ritenuto in contrasto con i valori di tolleranza e dialogo a cui si ispira storicamente la sinistra.
Ma insieme all’intenzione offensiva, negli Stati Uniti i principali utilizzatori del termine woke oggi se ne servono anche spesso come strumento di propaganda e polemica, evocando con un termine efficace un pericolo disegnato come universale e prevalente, “un’ideologia” estremista che governerebbe il pensiero progressista. È una minaccia che sfrutta la particolare e minacciosa visibilità degli atteggiamenti e dei toni aggressivi e perentori usati nelle polemiche virali sui social network, e ha permesso in più occasioni di mobilitare il complesso di persecuzione e la reazione di parte dell’elettorato conservatore (una pratica di comunicazione simile è quella, familiare anche in Italia, attivata dai predicatori contro “la teoria gender”).
Nel suo editoriale tradotto da Repubblica, Stephens usa la parola woke in senso evidentemente dispregiativo. È un autore conservatore, i cui interventi sul New York Times sono stati spesso contestati, e tra le altre cose è noto per le sue posizioni scettiche riguardo alle responsabilità dell’uomo nella crisi climatica. Nel suo editoriale, dice in sostanza che quella che chiama “ideologia woke” non avrà successo in quanto movimento che «distrugge, divide gli americani, rifiuta e sostituisce i valori fondanti della nostra nazione», e che agisce «in modo prescrittivo, non per un vero dibattito o una vera riforma ma per indottrinamento e sradicamento».
Stephens se la prende in particolare con la “critical race theory”, una teoria accademica che interpreta la storia, la cultura e le strutture politiche statunitense indagandone il ruolo nel razzismo sistemico della società. Da tema di nicchia, recentemente la “critical race theory” è diventata effettivamente un punto importante della campagna elettorale per il governatore dello stato della Virginia. I Repubblicani l’hanno usata come spauracchio, distorcendola e ingigantendola e insistendo sulle intenzioni dei Democratici di introdurla nelle scuole. Secondo alcuni analisti, questo aspetto della campagna elettorale ha effettivamente avuto un ruolo nell’esito delle elezioni, vinte dai Repubblicani, per quanto ci siano opinioni discordanti su quanto sia stato effettivamente determinante.
All’editoriale di Stephens ha risposto il giorno dopo Charles Blow, editorialista del New York Times di orientamento liberal, che ha scritto che «la wokeness è stata descritta nei modi più iperbolici immaginabili, da ideologia a religione a culto» e per questo è stata abbandonata dai giovani che la usavano, ed è oggi prerogativa principalmente di chi vuole ridicolizzarla sottolineandone certi aspetti contraddittori, difficilmente comprensibili, elitari.
In ogni caso, perlomeno quando non aveva ancora una connotazione così politicizzata, anche l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva criticato alcuni aspetti dell’atteggiamento di chi «si sente sempre politicamente woke», e ha «quest’idea di purezza, che non si debba mai scendere a compromessi». Aveva invitato i giovani a superare questo approccio:
«Il mondo è incasinato, ci sono ambiguità, le persone che fanno cose molto buone hanno dei difetti, le persone contro cui combattete possono amare i loro figli e avere cose in comune con voi. Penso che un pericolo che vedo nei giovani e in particolare nei campus, accelerato dai social media, è l’idea che il cambiamento passi attraverso l’essere il più giudicante possibile verso le altre persone, e che questo basti.
Se twitto o uso un hashtag su come hai fatto qualcosa di sbagliato, o hai usato la parola sbagliata, allora posso sedermi e sentirmi molto bene con me stesso perché avete visto quanto sono woke? Ti ho sgridato. Non è attivismo. (…) Se tutto quello che fai è lanciare pietre, probabilmente non vai molto lontano. È facile fare così.