• « La vraie #souveraineté_alimentaire, c’est faire évoluer notre #modèle_agricole pour préparer l’avenir »

    Professeur à l’université Paris-Saclay AgroParisTech, l’économiste de l’environnement #Harold_Levrel estime que le concept de « souveraineté alimentaire » a été détourné de sa définition originelle pour justifier un modèle exportateur et productiviste.

    Hormis les denrées exotiques, dans la plupart des secteurs, la #production_agricole nationale pourrait suffire à répondre aux besoins des consommateurs français, sauf dans quelques domaines comme les fruits ou la volaille. Or, les #importations restent importantes, en raison d’un #modèle_intensif tourné vers l’#exportation, au risque d’appauvrir les #sols et de menacer l’avenir même de la production. D’où la nécessité de changer de modèle, plaide l’économiste.

    Comment définir la souveraineté alimentaire ?

    Selon la définition du mouvement altermondialiste Via Campesina lors du sommet mondial sur l’alimentation à Rome en 1996, c’est le droit des Etats et des populations à définir leur #politique_agricole pour garantir leur #sécurité_alimentaire, sans provoquer d’impact négatif sur les autres pays. Mais les concepts échappent souvent à ceux qui les ont construits. Mais aujourd’hui, cette idée de solidarité entre les différents pays est instrumentalisée pour justifier une stratégie exportatrice, supposée profiter aux pays du Sud en leur fournissant des denrées alimentaires. Le meilleur moyen de les aider serait en réalité de laisser prospérer une #agriculture_vivrière et de ne pas les obliger à avoir eux aussi des #cultures_d’exportation. Au lieu de ça, on maintient les rentes de pays exportateurs comme la France. Quand le gouvernement et d’autres parlent d’une perte de souveraineté alimentaire, ça renvoie en réalité à une baisse des exportations dans certains secteurs, avec un état d’esprit qu’on pourrait résumer ainsi : « Make French agriculture great again. » Depuis le Covid et la guerre en Ukraine, la souveraineté alimentaire est devenue l’argument d’autorité pour poursuivre des pratiques qui génèrent des catastrophes écologiques et humaines majeures.

    Nous n’avons donc pas en soi de problème d’#autonomie_alimentaire ?

    Ça dépend dans quel domaine. Les défenseurs d’un modèle d’exploitation intensif aiment à rappeler que notre « #dépendance aux importations » est de 70 % pour le #blé dur, 40 % pour le #sucre, et 29 % pour le #porc. Mais omettent de préciser que nos taux d’auto-approvisionnement, c’est-à-dire le rapport entre la production et la consommation françaises, sont de 123 % pour le blé dur, 165 % pour le sucre, et 99 % pour le porc. Ça signifie que dans ces secteurs, la production nationale suffit en théorie à notre consommation, mais que l’on doit importer pour compenser l’exportation. Il y a en réalité très peu de produits en France sur lesquels notre production n’est pas autosuffisante. Ce sont les fruits exotiques, l’huile de palme, le chocolat, et le café. On a aussi des vrais progrès à faire sur les fruits tempérés et la viande de #volaille, où l’on est respectivement à 82 et 74 % d’auto-approvisionnement. Là, on peut parler de déficit réel. Mais il ne serait pas très difficile d’infléchir la tendance, il suffirait de donner plus d’aides aux maraîchers et aux éleveurs, qu’on délaisse complètement, et dont les productions ne sont pas favorisées par les aides de la #Politique_agricole_commune (#PAC), qui privilégient les grands céréaliers. En plus, l’augmentation de la production de #fruits et #légumes ne nécessite pas d’utiliser plus de #pesticides.

    Que faire pour être davantage autonomes ?

    A court terme, on pourrait juste rebasculer l’argent que l’on donne aux #céréaliers pour soutenir financièrement les #éleveurs et les #maraîchers. A moyen terme, la question de la souveraineté, c’est : que va-t-on être capable de produire dans dix ans ? Le traitement de l’#eau polluée aux pesticides nous coûte déjà entre 500 millions et 1 milliard d’euros chaque année. Les pollinisateurs disparaissent. Le passage en #bio, c’est donc une nécessité. On doit remettre en état la #fertilité_des_sols, ce qui suppose d’arrêter la #monoculture_intensive de #céréales. Mais pour cela, il faut évidemment réduire certaines exportations et investir dans une vraie souveraineté alimentaire, qui nécessite de faire évoluer notre modèle agricole pour préparer l’avenir.

    https://www.liberation.fr/environnement/agriculture/la-vraie-souverainete-alimentaire-cest-faire-evoluer-notre-modele-agricol
    #agriculture_intensive #industrie_agroalimentaire

  • La grande corsa alla terra di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita
    https://irpimedia.irpi.eu/grainkeepers-controllo-filiera-alimentare-globale-emirati-arabi-uniti

    Le aziende controllate dai fondi sovrani delle potenze del Golfo stanno acquistando aziende lungo tutta la filiera dell’agroalimentare, anche in Europa. Con la scusa di garantirsi la propria “sicurezza alimentare” Clicca per leggere l’articolo La grande corsa alla terra di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita pubblicato su IrpiMedia.

  • Grano : una guerra globale

    Secondo molti osservatori internazionali, la guerra in corso in Ucraina si esprimerebbe non solo mediante l’uso dell’artiglieria pesante e di milizie ufficiali o clandestine, responsabili di migliaia di morti, stupri e deportazioni. Esisterebbero, infatti, anche altri campi sui quali il conflitto, da tempo, si sarebbe spostato e che ne presuppongono un allargamento a livello globale. Uno di questi ha mandato in fibrillazione gli equilibri mondiali, con effetti diretti sulle economie di numerosi paesi e sulla vita, a volte sulla sopravvivenza, di milioni di persone. Si tratta della cosiddetta “battaglia globale del grano”, i cui effetti sono evidenti, anche in Occidente, con riferimento all’aumento dei prezzi di beni essenziali come il pane, la pasta o la farina, a cui si aggiungono quelli dei carburanti, oli vari, energia elettrica e legno.
    La questione del grano negli Stati Uniti: il pericolo di generare un tifone sociale

    Negli Stati Uniti, ad esempio, il prezzo del grano tenero, dal 24 febbraio del 2022, ossia dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, al Chicago Mercantile Exchange, uno dei maggiori mercati di riferimento per i contratti cerealicoli mondiali, è passato da 275 euro a tonnellata ai circa 400 euro dell’aprile scorso. Un aumento esponenziale che ha mandato in tensione non solo il sistema produttivo e distributivo globale, ma anche molti governi, legittimamente preoccupati per le conseguenze che tali aumenti potrebbero comportare sulle loro finanze e sulla popolazione. In epoca di globalizzazione, infatti, l’aumento del prezzo del grano tenero negli Stati Uniti potrebbe generare un “tifone sociale”, ad esempio, in Medio Oriente, in Africa, in Asia e anche in Europa. I relativi indici di volatilità, infatti, sono ai massimi storici, rendendo difficili previsioni di sviluppo che si fondano, invece, sulla prevedibilità dei mercati e non sulla loro instabilità. Queste fibrillazioni, peraltro, seguono, in modo pedissequo, le notizie che derivano dal fronte ucraino. Ciò significa che i mercati guardano non solo agli andamenti macroeconomici o agli indici di produzione e stoccaggio, ma anche a quelli derivanti direttamente dal fronte bellico e dalle conseguenze che esso determinerebbe sugli equilibri geopolitici globali.
    I processi inflattivi e la produzione di grano

    Anche secondo la Fao, per via dell’inflazione che ha colpito la produzione di cereali e oli vegetali, l’indice alimentare dei prezzi avrebbe raggiunto il livello più alto dal 1990, ossia dall’anno della sua creazione.

    Le origini della corsa a questo pericoloso rialzo sono molteplici e non tutte direttamente riconducibili, a ben guardare, alla sola crisi di produzione e distribuzione derivante dalla guerra in Ucraina. I mercati non sono strutture lineari, dal pensiero algoritmico neutrale. Al contrario, essi rispondono ad una serie molto ampia di variabili, anche incidentali, alcune delle quali derivano direttamente dalle ambizioni e dalle strategie di profitto di diversi speculatori finanziari. I dati possono chiarire i termini di questa riflessione.

    Il Pianeta, nel corso degli ultimi anni, ha prodotto tra 780 e 800 milioni di tonnellate di grano. Una cifra nettamente superiore rispetto ai 600 milioni di tonnellate prodotte nel 2000. Ciò si deve, in primis, alla crescita demografica mondiale e poi all’entrata di alcuni paesi asiatici e africani nel gotha del capitalismo globale e, conseguentemente, nel sistema produttivistico e consumistico generale. Se questo per un verso ha sollevato gran parte della popolazione di quei paesi dalla fame e dalla miseria, ha nel contempo determinato un impegno produttivo, in alcuni casi monocolturale, che ha avuto conseguenze dirette sul piano ambientale, sociale e politico.
    Il grano e l’Africa

    L’area dell’Africa centrale, ad esempio, ha visto aumentare la produzione agricola in alcuni casi anche del 70%. Eppure, nel contempo, si è registrato un aumento di circa il 30% di malnutrizione nella sua popolazione. Ciò è dovuto ad un’azione produttiva privata, incentivata da fondi finanziari internazionali e governativi, che ha aumentato la produzione senza redistribuzione. Questa produzione d’eccedenza è andata a vantaggio dei fondi speculativi, dell’agrobusiness o è risultata utile per la produzione occidentale, ma non ha sfamato la popolazione locale, in particolare di quella tradizionalmente esposta alla malnutrizione e alla fame. Un esempio emblematico riguarda l’Etiopia e i suoi 5 milioni circa di cittadini malnutriti. Questo paese dipende ormai interamente dagli aiuti alimentari e umanitari. Allo stesso tempo, migliaia di tonnellate di grano e di riso etiope sono esportate ogni anno in Arabia Saudita per via del land grabbing e degli accordi economici e finanziari sottoscritti. In Sudan si registra il medesimo fenomeno. Il locale governo ha infatti ceduto 1,5 milioni di ettari di terra di prima qualità agli Stati del Golfo, all’Egitto e alla Corea del Sud per 99 anni, mentre risulta contemporaneamente il paese al mondo che riceve la maggiore quantità di aiuti alimentari, con 6 milioni di suoi cittadini che dipendono dalla distribuzione di cibo. Basterebbe controllare i piani di volo degli aeroporti di questi paesi per rendersi conto di quanti aerei cargo decollano giornalmente carichi di verdura fresca e rose, con destinazione finale gli alberghi degli Emirati Arabi e i mercati di fiori olandesi. Come ha affermato l’ex direttore dell’ILC (International Land Coalition), Madiodio Niasse: «La mancanza di trasparenza rappresenta un notevole ostacolo all’attuazione di un sistema di controllo e implementazione delle decisioni riguardo alla terra e agli investimenti ad essa inerenti».

    L’Angola ha varato un piano di investimenti così ambizioso da attrarre sei miliardi di dollari esteri nel solo 2013. Prima dello scoppio del conflitto civile, durato trent’anni, questo paese riusciva a nutrire tutti i suoi abitanti ed esportava caffè, banane e zucchero. Oggi, è costretto a comprare all’estero metà del cibo destinato al consumo interno, mentre solo il 10% della sua superficie arabile è utilizzata. Ciò nonostante, ha ritenuto legittimo incentivare l’accaparramento dei propri terreni agricoli da parte di multinazionali dell’agrobusiness e fondi finanziari di investimento. Ragioni analoghe guidano Khartoum a negoziare migliaia di ettari con i paesi del Golfo. Tra il 2004 e il 2009, in soli cinque paesi, Mali, Etiopia, Sudan, Ghana e Madagascar circa due milioni e mezzo di ettari coltivabili sono finiti nel portafoglio finanziario di multinazionali e dei fondi sovrani.
    Non solo Ucraina

    Quanto descritto serve per superare un’ottica monofocale che tende a concentrarsi, per ciò che riguarda il tema della terra e del grano, esclusivamente sull’Ucraina. Nello scacchiere globale della produzione e dell’approvvigionamento rientrano, infatti, numerosi paesi, molti dei quali per anni predati o raggirati mediante accordi capestro e obblighi internazionali che hanno fatto del loro territorio un grande campo coltivato per i bisogni e i consumi occidentali.
    Il ruolo della Russia

    Anche la Russia, in quest’ambito, svolge un ruolo fondamentale. Mosca, infatti, ha deciso di conservare per sé e in parte per i suoi alleati, a fini strategici, la propria produzione cerealicola, contribuendo a generare gravi fibrillazioni sui mercati finanziari di tutto il mondo. Nel 2021, ad esempio, il paese governato da Putin era il primo esportatore di grano a livello mondiale (18%), piazzandosi sopra anche agli Stati Uniti. Questa enorme quantità di grano esportato non risulta vincolata come quello occidentale, ma riconducibile al consumo interno e al bilanciamento dei relativi prezzi per il consumatore russo che in questo modo paga meno il pane o la carne rispetto ad un occidentale. Non è però tutto “rose e fiori”. Sulla Russia incidono due fattori fondamentali. In primis, le sanzioni occidentali che limitano i suoi rapporti commerciali e impediscono a numerose merci e attrezzature di entrare, almeno in modo legale, per chiudere la filiera produttiva e commerciale in modo controllato. Secondo, l’esclusione della Russia dai mercati finanziari comporta gravi conseguenze per il paese con riferimento alla situazione dei pagamenti con una tensione crescente per il sistema finanziario, bancario e del credito. Non a caso recentemente essa è stata dichiarata in default sui circa 100 milioni di dollari di obbligazioni che non è riuscita a pagare. In realtà, il default non avrà un peso straordinario almeno per due ragioni. In primo luogo perché il paese è da molto tempo economicamente, finanziariamente e politicamente emarginato. Secondo poi, il fallimento sarebbe dovuto non alla mancanza di denaro da parte della Russia, ma alla chiusura dei canali di trasferimento da parte dei creditori. A completare il quadro, c’è una strategica limitazione delle esportazioni di grano da parte ancora della Russia nei riguardi dei paesi satelliti, come ad esempio l’Armenia o la Bielorussia. Ciò indica la volontà, da parte di Putin, di rafforzare le scorte per via di un conflitto che si considera di lungo periodo.
    Il grano “bloccato”

    A caratterizzare questa “battaglie globale del grano” ci sono anche altri fattori. Da febbraio 2020, ad esempio, circa 6 milioni di tonnellate di grano ucraino sono bloccati nel porto di Mikolaiv, Odessa e Mariupol. È una quantità di grano enorme che rischia di deperire nonostante lo stato di crisi alimentare in cui versano decine di paesi, soprattutto africani. Sotto questo profilo, i paesi occidentali e vicini all’Ucraina dovrebbero trovare corridoi speciali, militarmente difesi, per consentire l’esportazione del cereale e successivamente la sua trasformazione a tutela della vita di milioni di persone. D’altra parte, sui prezzi intervengo fattori non direttamente riconducibili all’andamento della guerra ma a quelli del mercato. Ad esempio, l’aumento del costo delle derrate cerealicole si deve anche all’aumento esponenziale (20-30%) dei premi assicurativi sulle navi incaricate di trasportarlo, attualmente ferme nei porti ucraini. Su questo aspetto i governi nazionali potrebbero intervenire direttamente, calmierando i premi assicurativi, anche obtorto collo, contribuendo a calmierai i prezzi delle preziose derrate alimentati. Si consideri che molti industriali italiani del grano variamente lavorato stanno cambiando la loro bilancia di riferimento e relativi prezzi, passando ad esempio dal quintale al chilo e aumentando anche del 30-40% il costo per allevatori e trasformatori vari (fornai e catene dell’alimentare italiano).
    Le ricadute di una guerra di lungo periodo

    Una guerra di lungo periodo, come molti analisti internazionali ritengono quella in corso, obbligherà i paesi contendenti e i relativi alleati, a una profonda revisione della produzione di grano. L’Ucraina, ad esempio, avendo a disposizione circa 41,5 milioni di ettari di superficie agricola utile, attualmente in parte occupati dai carri armati russi e da un cannoneggiamento da artiglieria pesante e attività di sabotaggio, vende in genere il 74% della sua produzione cerealicola a livello globale. Non si tratta di una scelta politica occasionale ma strategica e di lungo periodo. L’Ucraina, infatti, ha visto aumentare, nel corso degli ultimi vent’anni, la sua produzione di grano e l’ esportazione. Si consideri che nel 2000, il grano ucraino destinato all’esportazione era il 60% di quello prodotto. La strategia ovviamente non è solo commerciale ma anche politica. Chi dispone del “potere del grano”, infatti, ha una leva fondamentale sulla popolazione dei paesi che importano questo prodotto, sul relativo sistema di trasformazione e commerciale e sull’intera filiera di prodotti derivati, come l’allevamento. Ed è proprio su questa filiera che ora fa leva la Russia, tentando di generare fibrillazioni sui mercati, azioni speculative e tensioni sociali per tentare di allentare il sostegno occidentale o internazionale dato all’Ucraina e la morsa, nel contempo, delle sanzioni.

    Esiste qualche alternativa alla morsa russa su campi agricoli ucraini? Il terreno ucraino seminato a grano e risparmiato dalla devastazione militare russa, soprattutto lungo la linea Sud-Ovest del paese, può forse rappresentare una speranza se messo a coltura e presidiato anche militarmente. Tutto questo però deve fare i conti con altri due problemi: la carenza di carburante e la carenza di manodopera necessaria per concludere la coltivazione, mietitura e commercializzazione del grano. Su questo punto molti paesi, Italia compresa, si sono detti pronti ad intervenire fornendo a Zelensky mezzi, camion, aerei cargo e navi ove vi fosse la possibilità di usare alcuni porti. Nel frattempo, il grano sta crescendo e la paura di vederlo marcire nei magazzini o di non poterlo raccogliere nei campi resta alta. Ovviamente queste sono considerazioni fatte anche dai mercati che restano in fibrillazione. Circa il 70% dei carburanti usati in agricoltura in Ucraina, ad esempio, sono importanti da Russia e Bielorussia. Ciò significa che esiste una dipendenza energetica del paese di Zelensky dalla Russia, che deve essere superata quanto prima mediante l’intervento diretto dei paesi alleati a vantaggio dell’Ucraina. Altrimenti il rischio è di avere parte dei campi di grano ucraini pieni del prezioso cereale, ma i trattori e le mietitrici ferme perché prive di carburante, passando così dal danno globale alla beffa e alla catastrofe mondiale.

    Una catastrofe in realtà già prevista.
    Un uragano di fame

    Le Nazioni Unite, attraverso il suo Segretario generale, Antonio Guterres, già il 14 marzo scorso avevano messo in guardia il mondo contro la minaccia di un “uragano di fame” che avrebbe potuto generare conflitti e rivolte in aree già particolarmente delicate. Tra queste ultime, in particolare, il Sudan, l’Eritrea, lo Yemen, e anche il Medio Oriente.

    Gutierres ha parlato addirittura di circa 1,7 miliardi di persone che possono precipitare dalla sopravvivenza alla fame. Si tratta di circa un quinto della popolazione mondiale, con riferimento in particolare a quarantacinque paesi africani, diciotto dei quali dipendono per oltre il 50% dal grano ucraino e russo. Oltre a questi paesi, ve ne sono altri, la cui tenuta è in tensione da molti anni, che dipendono addirittura per il 100% dai due paesi in guerra. Si tratta, ad esempio, dell’Eritrea, della Mauritania, della Somalia, del Benin e della Tanzania.

    In definitiva, gli effetti di una nuova ondata di fame, che andrebbe a sommarsi alle crisi sociali, politiche, ambientali e terroristiche già in corso da molti anni, potrebbero causare il definitivo crollo di molti paesi con effetti umanitari e politici a catena devastanti.
    Il caso dell’Egitto

    Un paese particolarmente sensibile alla crisi in corso è l’Egitto, che è anche il più grande acquirente di grano al mondo con 12 milioni di tonnellate, di cui 6 acquistate direttamente dal governo di Al Si-si per soddisfare il programma di distribuzione del pane. Si tratta di un programma sociale di contenimento delle potenziali agitazioni, tensioni sociali e politiche, scontri, rivolte e migrazioni per fame che potrebbero indurre il Paese in uno stato di crisi permanente. Sarebbe, a ben osservare, un film già visto. Già con le note “Primavere arabe”, infatti, generate dal crollo della capacità di reperimento del grano nei mercati globali a causa dei mutamenti climatici che investirono direttamente le grandi economie del mondo e in particolare la Cina, Argentina, Russia e Australia, scoppiarono rivolte proprio in Egitto (e in Siria), represse nel sangue. L’Egitto, inoltre, dipende per il 61% dalla Russia e per il 23% dall’Ucraina per ciò che riguarda l’importazione del grano. Dunque, questi due soli paesi fanno insieme l’84% del grano importato dal paese dei faraoni. Nel contempo, l’Egitto fonda la sua bilancia dei pagamenti su un prezzo del prezioso cereale concordato a circa 255 dollari a tonnellata. L’aumento del prezzo sui mercati globali ha già obbligato l’Egitto ad annullare due contratti sottoscritti con la Russia, contribuendo a far salire la tensione della sua popolazione, considerando che i due terzi circa dei 103 milioni di egiziani si nutre in via quasi esclusiva di pane (chiamato aish, ossia “vita”). Secondo le dichiarazioni del governo egiziano, le riserve di grano saranno sufficienti per soddisfare i relativi bisogni per tutta l’estate in corso. Resta però una domanda: che cosa accadrà, considerando che la guerra in Ucraina è destinata ad essere ancora lunga, quando le scorte saranno terminate?

    Anche il Libano e vari altri paesi si trovano nella medesima situazione. Il paese dei cedri dipende per il 51% dal grano dalla Russia e dall’Ucraina. La Turchia di Erdogan, invece, dipende per il 100% dal grano dai due paesi coinvolti nel conflitto. Ovviamente tensioni sociali in Turchia potrebbero non solo essere pericolose per il regime di Erdogan, ma per la sua intera area di influenza, ormai allargatasi alla Libia, Siria, al Medio Oriente, ad alcuni paesi africani e soprattutto all’Europa che ha fatto di essa la porta di accesso “sbarrata” dei profughi in fuga dai loro paesi di origine.
    Anche l’Europa coinvolta nella guerra del grano

    Sono numerosi, dunque, i paesi che stanno cercando nuovi produttori di cereali cui fare riferimento. Tra le aree alle quali molti stanno guardando c’è proprio l’Unione europea che, non a caso, il 21 marzo scorso, ha deciso di derogare temporaneamente a una delle disposizioni della Pac (Politica Agricola Comune) che prevedeva di mettere a riposo il 4% dei terreni agricoli. Ovviamente, questa decisione è in funzione produttivistica e inseribile in uno scacchiere geopolitico mondiale di straordinaria delicatezza. Il problema di questa azione di messa a coltura di terreni che dovevano restare a riposo, mette in luce una delle contraddizioni più gravi della stessa Pac. Per anni, infatti, sono stati messi a riposo, o fatti risultare tali, terreni non coltivabili. In questo modo venivano messi a coltura terreni produttivi e fatti risultare a riposo quelli non produttivi. Ora, la deroga a questa azione non può produrre grandi vantaggi, in ragione del fatto che i terreni coltivabili in deroga restano non coltivabili di fatto e dunque poco o per nulla incideranno sull’aumento di produzione del grano. Se il conflitto ucraino dovesse continuare e l’Europa mancare l’obiettivo di aumentare la propria produzione di grano per calmierare i prezzi interni e nel contempo soddisfare parte della domanda a livello mondiale, si potrebbe decidere di diminuire le proprie esportazioni per aumentare le scorte. Le conseguenze sarebbero, in questo caso, dirette su molti paesi che storicamente acquistano grano europeo. Tra questi, in particolare, il Marocco e l’Algeria. Quest’ultimo paese, ad esempio, consuma ogni anno circa 11 milioni di tonnellate di grano, di cui il 60% importato direttamente dalla Francia. A causa delle tensioni politiche che nel corso degli ultimi tre anni si sono sviluppate tra Algeria e Francia, il paese Nord-africano ha cercato altre fonti di approvvigionamento, individuandole nell’Ucraina e nella Russia. Una scelta poco oculata, peraltro effettuata abbassando gli standard di qualità del grano, inferiori rispetto a quello francese.
    L’India può fare la differenza?

    Un nuovo attore mondiale sta però facendo il suo ingresso in modo prepotente. Si tratta dell’India, un paese che da solo produce il 14% circa del grano mondiale, ossia circa 90 milioni di tonnellate di grano. Questi numeri consentono al subcontinente indiano di piazzarsi al secondo posto come produttore mondiale dopo la Cina, che ne produce invece 130 milioni. L’India del Presidente Modhi ha usato gran parte della sua produzione per il mercato interno, anch’esso particolarmente sensibile alle oscillazione dei prezzi del bene essenziale. Nel contempo, grazie a una produzione che, secondo Nuova Delhi e la Fao, è superiore alle attese, sta pensando di vendere grano a prezzi vantaggiosi sul mercato globale. Sotto questo profilo già alcuni paesi hanno mostrato interesse. Tra questi, ad esempio, Iran, Indonesia, Tunisia e Nigeria. Anche l’Egitto ha iniziato ad acquistare grano dall’India, nonostante non sia di eccellente qualità per via dell’uso intensivo di pesticidi. Il protagonismo dell’India in questa direzione, ha fatto alzare la tensione con gli Stati Uniti. I membri del Congresso statunitense, infatti, hanno più volte sollevato interrogativi e critiche rispetto alle pratiche di sostegno economico, lesive, a loro dire, della libera concorrenza internazionale, che Nuova Delhi riconosce da anni ai suoi agricoltori, tanto da aver chiesto l’avvio di una procedura di infrazione presso l’Organizzazione mondiale per il Commercio (Omc). Insomma, le tensioni determinate dal conflitto in corso si intersecano e toccano aspetti e interessi plurimi, e tutti di straordinaria rilevanza per la tenuta degli equilibri politici e sociali globali.

    https://www.leurispes.it/grano-una-guerra-globale

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  • Environnement : De plus en plus de résidus de pesticides sur les fruits vendus dans l’UE
    https://www.lessentiel.lu/fr/story/de-plus-en-plus-de-residus-de-pesticides-sur-les-fruits-vendus-dans-lue-7

    Les résidus de pesticides chimiques sur les fruits cultivés dans l’Union européenne ont augmenté entre 2011 et 2019, alors que les États membres auraient dû en limiter l’utilisation au profit de produits de substitution, selon une étude de l’ONG PAN Europe publiée mardi.


    L’étude, basée sur l’analyse de quelque 97 000 échantillons de fruits frais (pêches, fraises, cerises, pommes, etc.), affirme que près d’un échantillon sur trois (29%) était contaminé par des traces de pesticides chimiques contre 18% en 2011. Or depuis 2011, relève cette ONG spécialisée, les États membres sont censés encourager les produits de substitution pour limiter autant que possible le recours à ces pesticides de synthèse – herbicides, fongicides, insecticides – considérés comme les plus à risque et dont l’autorisation est plus strictement réglementée dans l’UE.

    Objectif : réduction de moitié d’ici 2030
    Au niveau national, cette autorisation doit notamment faire l’objet d’une évaluation comparative avec les produits de substitution, est-il rappelé. Les résultats de l’étude jettent une ombre sur l’ambition de Bruxelles, arrêtée en 2020, de réduire de moitié d’ici à 2030 le recours à ces pesticides les plus dangereux. « S’il n’y a pas de mesures fortes, on ne voit pas comment cet objectif pourrait être respecté », a dit Salomé Roynel, de PAN Europe, qui rappelle que la Commission a le pouvoir de rappeler à l’ordre les pays « défaillants sur ce sujet ».

    L’ONG cite parmi les produits autorisés dont il faudrait absolument limiter l’usage le Tebuconazole, un fongicide toxique pour la reproduction, dont des traces ont été fréquemment retrouvées sur des cerises produites en 2019, en Espagne entre autres. Destinés à détruire des organismes vivants jugés nuisibles, les pesticides sont susceptibles d’avoir des effets sur la santé humaine, en augmentant les risques de problèmes de fertilité voire de déclencher certaines maladies (Parkinson, cancers).

    Les légumes moins contaminés
    En 2021, une expertise de l’Institut français de la santé et de la recherche médicale (Inserm) a conclu à « une présomption forte de lien entre l’exposition aux pesticides de la mère pendant la grossesse ou chez l’enfant et le risque de certains cancers (leucémies, tumeurs du système nerveux central) ».

    Dans son étude, PAN (Pesticide Action Network) assure que la moitié des échantillons de cerises étaient contaminés par des traces de pesticides en 2019 (contre 22% en 2011), plus du tiers (34% contre 16%) pour ceux des pommes, le fruit le plus produit sur le continent.

    Les fruits les plus contaminés sont les mûres (51% des échantillons), les pêches (45%), les fraises (38%), les cerises (35%) et les abricots (35%), sur les neuf années étudiées, ajoute l’ONG. Pour les légumes, la contamination est plus faible car ils sont moins sujets aux insectes et aux maladies : 13% des échantillons étaient concernés en 2019 (11% en 2011), les légumes les plus concernés étant le céleri, le céleri-rave et le chou kale (31%).

    #ue #union_européenne #Bruxelles #pac #politique_agricole_commune #pesticides #poisons #Fruits #Légumes #herbicides #fongicides #insecticide

  • La nuova politica agricola comune: green o greenwashing?
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/La-nuova-politica-agricola-comune-green-o-greenwashing-212952

    Dopo quasi due anni di trattative, lo scorso giugno il Parlamento europeo ed il Consiglio hanno raggiunto un accordo per la riforma della Politica Agricola Comune (PAC). Varie le novità e non sono mancate forti critiche

  • La #politique_agricole_commune n’est pas raccord avec le #climat
    https://reporterre.net/La-politique-agricole-commune-n-est-pas-raccord-avec-le-climat

    Dans un rapport publié le 10 mai, l’organisation européenne Climate Action Network montre que la réforme de la Politique agricole commune n’est pas à la hauteur des objectifs climatiques. Et appelle les États membres à revoir leurs propositions à la hausse.

    Le rapport (en anglais) : https://caneurope.org/content/uploads/2021/05/Will-CAP-Strategic-Plans-help-deliver-needed-climate-action.pdf

  • Atlas de la PAC | La Fondation Heinrich Böll (Heinrich Böll Stiftung) Paris, France
    http://fr.boell.org/fr/atlas-de-la-pac

    http://fr.boell.org/sites/default/files/styles/420x/public/uploads/2019/02/atlasdelapac2019_titel_rgb.jpg?itok=nj3za2OT

    Cet #Atlas permet de découvrir les enjeux et défis actuels de l’agriculture européenne, mais il propose aussi des solutions et invite à réfléchir sur la manière dont nous traitons nos agriculteurs, nos agricultrices, et nos terres.

    http://fr.boell.org/fr/2019/02/14/latlas-de-la-pac

    http://fr.boell.org/sites/default/files/atlasdelapac2019_web_190204.pdf

    Le système agricole français a beaucoup évolué ces soixante dernières années, notamment sous l’influence de la #PAC. Il est aujourd’hui productif, mais ne couvre pas tous les besoins alimentaires et la pérennité de ses facteurs de production n’est pas assurée.

    #pac #cartographie #visualisation

  • How EU agriculture policy endangers migrants’ lives

    European Union leaders now acknowledge that the ’migration crisis’ has been replaced by a ’political’ one fostered by the far-right.

    Yet the prospects of migration being managed rationally and sustainably in Europe are still dim, as the hysteria over the UN Global Compact on migration, due to be endorsed in Marrakech this week, shows.

    Talk of legal channels for migrant labourers to reach Europe, for instance, is limited and little attention is paid to the demand for exploitable migrant labour.

    In the summer of 2018, the media briefly shone a spotlight on the plight of exploited migrant agricultural workers in Italy when dozens were killed in car crashes.

    The authorities’ response was in line with recommendations the European Commission suggested in its 2017 assessment of migration policies: crack down on abusive employment practices in the hope that the incentives for hiring undocumented workers would go down, thereby reducing the ’pull factors’ for irregular migration.

    This approach, though more helpful than solely focusing on keeping migrants out, is doomed to fail.

    A new report commissioned by the Open Society European Policy Institute, authored by the European University Institute’s Robert Schuman Centre for Advanced Studies, and focused on the agriculture sector in Italy, outlines its shortcomings and offers a more constructive way forward.

    First, it is important to acknowledge the broader structural elements of the EU agri-food system, where recourse to exploitable migrant labour is widespread - and is not confined to southern Europe.

    The flagship Common Agricultural Policy (CAP), which accounts for the largest chunk of the EU budget, has tended to favour large-scale, high-yield production, pushing prices down and squeezing small farmers.

    And supermarket chains, often acting as cartels, have rolled out practices – like auctions where producers are expected to outbid each other by lowering the price of their goods – which force even well-intentioned farmers to cut labour costs, the only costs they still control.
    Italian example

    Secondly, the research shows how in Italy, where the numbers of migrant farm workers are particularly high, repressive approaches do not work.

    A 2016 law targeting gang masters and the employers using their services, for instance, seems effective on paper.

    However, salaries are still mainly paid under the counter, with labourers hired on fixed-term contracts that only reflect a small part of their actual working hours and days.

    Finally, EU and national laws include protection schemes for victims of trafficking and exploitation to lessen employers’ power over them and to encourage them to report abuse.

    However, implementation is weak and the number of people accessing this type of protection is extremely limited.

    So what can be done to fix the system?

    The OSEPI-EUI report lays out a number of recommendations, from introducing incentives in the CAP subsidy system so that farmers providing their workers with proper contracts and pay are rewarded, to outlawing unfair trading practices in the retail sector.
    Ethical produce

    In much the same way as organic goods are certified by pan-European bodies, labelling schemes which provide information about labour conditions could also be introduced, satisfying a growing demand for ethical produce.

    Data highlighted in the report show how the numbers of migrant workers employed in Italian agriculture have risen over the last decade, while entry permits have been drastically reduced.

    The shortfall in the number of available workers is being increasingly met by mobile EU workers, irregular migrants and asylum seekers, many of whom would not be risking their lives to reach Italy and then applying for international protection if they could arrive legally as migrant workers.

    Undeclared work is not a ’pull factor’ for the vast majority of prospective migrants.

    Most migrants, like most European citizens, would rather have proper contracts, pay taxes and benefit from the social services they are contributing to rather than toil in the fields for up to fifteen hours a day, in dangerous conditions, for meagre pay and under the watchful gaze of gang masters.

    Simply trying to stop employers from hiring irregular migrants without addressing the reasons driving them to do so will do nothing to change a system which is failing farm labourers and owners alike.

    Crucially, it is also failing consumers, who are often unaware of the fact that the tomatoes and clementines they purchase are picked in conditions akin to modern slavery – or that the prices they pay are actually inflated by the many middlemen taking a cut along the chain, who often include organised criminal groups.

    If the EU really wants to tackle irregular migration, it would do well to start addressing the way food is grown, harvested and marketed in Europe.


    https://euobserver.com/opinion/143650
    #agriculture #PAC #migrations #exploitation #asile #migrations #politique_agricole #politique_agricole_commune #Italie #travail #exploitation

  • Enquête : quand la #PAC finance la #pollution.

    Où va l’argent de la #Politique_agricole_commune (PAC) ? C’est à cette question que nous avons voulu répondre en commandant une enquête à Mark Lee Hunter, journaliste d’investigation, afin de déterminer si les exploitations agricoles qui polluent le plus recevaient des #subventions européennes de la PAC. Mettons tout de suite fin au suspense : la réponse est oui.


    https://www.greenpeace.fr/enquete-pac-finance-pollution-terres
    #agriculture #pollueurs-payés #fermes #exploitations_agricoles #Europe #ammoniac
    cc @daphne @albertocampiphoto @marty @odilon

  • Les oiseaux disparaissent des campagnes françaises à une vitesse « vertigineuse »
    http://www.lemonde.fr/biodiversite/article/2018/03/20/les-oiseaux-disparaissent-des-campagnes-francaises-a-une-vitesse-vertigineus

    Attribué par les chercheurs à l’intensification des #pratiques_agricoles de ces vingt-cinq dernières années, le déclin observé est plus particulièrement marqué depuis 2008-2009, « une période qui correspond, entre autres, à la fin des #jachères imposées par la politique agricole commune [européenne], à la flambée des cours du blé, à la reprise du #suramendement au #nitrate permettant d’avoir du blé #sur-protéiné et à la généralisation des #néonicotinoïdes », ces fameux #insecticides neurotoxiques, très persistants, notamment impliqués dans le déclin des #abeilles et la raréfaction des #insectes en général.

    Plus inquiétant, les chercheurs observent que le rythme de disparition des oiseaux s’est encore intensifié au cours des deux dernières années.

    #extinction_de_la_nature

  • La #Politique_agricole_commune tancée par la #Cour_des_comptes_européenne
    https://reflets.info/la-politique-agricole-commune-tancee-par-la-cour-des-comptes-europeenne

    La Cour des comptes européenne estime dans un rapport qu’il « apparaît peu probable que les paiements conçus pour inciter les agriculteurs à « passer au vert » améliorent significativement les performances de la politique agricole commune dans […]

    #Breves #Agriculture #climat #macron

  • « La Négociation » : un film sur le « vrai » travail des politiques
    https://www.franceculture.fr/emissions/les-carnets-de-la-creation/la-negociation-un-film-sur-le-vrai-travail-des-politiques
    https://vimeo.com/184824030

    Nicolas Frank, documentariste, film « La Négociation ». Documentaire en forme de thriller politique qui suit les négociations menées par Stéphane Le Foll, ministre de l’#Agriculture, sur la #Politique_Agricole_Commune pendant 9 mois à Bruxelles.

    #documentaire #technocratie #socialistes #PAC #Union_européenne @xavsch

  • La notion de « #biens_publics » au secours de la #Politique_Agricole_Commune ?

    Depuis trente ans, la Politique agricole commune (PAC) a connu des réformes successives visant notamment à justifier les aides publiques versées au secteur agricole. Un des argumentaires aujourd’hui défendu pour légitimer la PAC s’appuie sur la notion économique de « bien public ». L’utilisation de cette notion contribue à remettre en cause le compromis européen fondateur de cette politique, axé historiquement sur la régulation des marchés et le soutien des revenus agricoles. Certains acteurs britanniques (scientifiques, acteurs associatifs…) ont notamment joué un rôle essentiel dans l’introduction de ce terme « bien public » dans les débats communautaires avec, à l’appui, un projet de réforme radicale de la PAC. Ce projet qui, dans le cas anglais, s’est incarné dans une alliance entre environnementalistes et propriétaires fonciers n’a finalement pas été retenu dans la réforme de 2013, qui maintient les aides directes comme principal outil d’orientation de l’agriculture.

    http://developpementdurable.revues.org/10719
    #agriculture #PAC
    cc @odilon

  • « Albako dukeak horrenbeste lur eta hiltzen zarenean bi metrorekin nahikoa izan du » - La Duchesse d’Albe qui avait tellement de terres, une fois morte deux mètres carrés lui suffisent
    Diego Cañamero Valle
    http://www.argia.eus/albistea/horrenbeste-lur-eta-hiltzen-zarenean-bi-metrorekin-nahikoa

    Sur cette terre nous avons un travail à faire. Malgré plus de 30 ans de gouvernement PSOE, nous nous trainons une structure archaïque. 50% des terres d’Andalousie sont entre les mains de 2% de sa population. La Maison d’Albe a onze « cortijos » (sept dans la province de Séville et quatre dans celle de Cordoue). Elle touche 3 millions d’euros de la #Politique_Agricole_Commune (PAC), c’est de l’argent qui va à la maison d’Albe et aux autres maisons de propriétaires fonciers, comme si c’étaient des dépenses courantes. Cela n’a aucun sens. On ne leur exige pas de création d’emplois, ni de transformation de produits agricoles, ni de respecter l’environnement. Rien du tout. Elle ne respecte aucun accord avec les ouvriers, car il n’y a pas de contrat. Aujourd’hui en Andalousie, la plupart des contrats d’ouvriers agricoles sont oraux.


    #accaparement #oligarchie #latifundia #agriculture #droit_du_travail
    Diego Cañamero Valle est un des porte-paroles du syndicat SAT défendant les ouvriers agricoles (la plupart journaliers) aux côtés de Juan Manuel Sanchez Gordillo, maire de la célèbre commune de Marinaleda.
    http://www.monde-diplomatique.fr/2013/08/HAFFNER/49520
    http://seenthis.net/messages/205656