#polyester

  • I grandi marchi della fast fashion non vogliono rinunciare al petrolio russo

    Nel 2023 le due principali società produttrici di poliestere, l’indiana #Reliance industries e la cinese #Hengli group, hanno continuato a utilizzare il greggio di Mosca. La maggior parte dei brand -da #Shein a #H&M, passando per #Benetton- chiude un occhio o promette impegni generici. Il dettagliato report di #Changing_markets.

    Quest’anno i principali produttori globali di poliestere, la fibra tessile di origine sintetica derivata dal petrolio, non solo non hanno interrotto i propri legami con la Russia ma al contrario hanno incrementato gli acquisti della materia prima fondamentale per il loro business. È quanto emerge da “#Crude_Couture”, l’inchiesta realizzata da Changing markets foundation pubblicata il 21 dicembre, a un anno di distanza dalla precedente “Dressed to kill” che aveva svelato i legami segreti tra i principali marchi della moda e il petrolio di Mosca.

    “Quest’indagine -si legge nell’introduzione- evidenzia il ruolo fondamentale svolto dall’industria della moda nel perpetuare la dipendenza dai combustibili fossili e segnala una preoccupante mancanza di azione per rompere i legami con il petrolio russo”. Un’inazione, sottolineano i ricercatori, che sta indirettamente finanziando la guerra in Ucraina. E non si tratta di un contributo di poco conto: le fibre sintetiche, infatti, pesano per il 69% sulla produzione di fibre e il poliestere è di gran lunga il più utilizzato, lo si può trovare infatti nel 55% dei prodotti tessili attualmente in circolazione. Se non ci sarà una netta inversione di tendenza, si stima che entro il 2030 quasi tre quarti di tutti i prodotti tessili verranno realizzati a partire da combustibili fossili.

    Il poliestere è fondamentale per l’esistenza dell’industria del fast fashion, e ancora di più per i marchi di moda ultraveloce come Shein: un’inchiesta pubblicata da Bloomberg ha mostrato che il 95% dei capi prodotti dal marchio di moda cinese conteneva materiali sintetici mentre per brand come #Pretty_Little_Thing, #Misguided e #Boohoo la percentuale era dell’83-89%.

    Al centro delle due inchieste realizzate da Changing markets ci sono due importanti produttori di questo materiale: l’indiana #Reliance_industries (con una capacità produttiva stimata in 2,5 milioni di tonnellate all’anno) e la cinese #Hengli_group. I filati e i tessuti che escono dai loro stabilimenti vengono venduti ai produttori di abbigliamento di tutto il mondo che, a loro volta, li utilizzano per confezionare magliette, pantaloni, cappotti, scarpe e altri accessori per importanti brand. Su 50 marchi presi in esame in “Dressed to kill” 39 erano direttamente o indirettamente collegati alle catene di fornitura di Hengli group or Reliance industries, tra questi figurano #H&M, #Inditex (multinazionale spagnola proprietaria, tra gli altri, di #Bershka e #Zara), #Adidas, #Uniqlo e #Benetton.

    Anche dopo la pubblicazione di “Dressed to kill”, Reliance e Hengli hanno continuato ad acquistare petrolio russo. A marzo 2023 l’India ha acquistato da Mosca la quantità record di 51,5 milioni di barili di greggio: “Insieme a Nayara Energya, la principale compagnia petrolifera indiana, Reliance industries ha rappresentato più della metà (52%) delle importazioni totali”, si legge nell’inchiesta. In crescita anche le importazioni cinesi (+11,7% rispetto all’anno precedente). “Nel maggio 2023, #Hengli_Petrochemical ha ricevuto 6,44 milioni di barili di greggio russo, come riportato dai dati di tracciamento delle navi dell’agenzia Reuters -scrivono gli autori del report-. Queste tendenze rivelano il persistente legame tra le aziende di moda che si riforniscono da questi produttori di poliestere e il petrolio russo”. Oltre alla violazione delle sanzioni imposte a Mosca da diversi governi, compresi quello degli Stati Uniti e dell’Unione europea.

    I ricercatori di Changing markets hanno quindi deciso di tracciare un bilancio e hanno inviato un questionario a 43 brand (compresi i 39 già presi in esame in “Dressed to kill”) per verificare se avessero interrotto i rapporti con Reliance ed Hengli. Appena 18 hanno risposto alle domande e solo due aziende (Esprit e G Star Raw) hanno dichiarato di aver tagliato i ponti con i due produttori. Una terza (Hugo Boss) si è impegnata a eliminare gradualmente il poliestere e il nylon: “Le altre rimangono in silenzio o minimizzano l’urgenza della crisi ucraina con vaghe promesse di cambiamento a diversi anni di distanza o con false soluzioni, come il passaggio al poliestere riciclato, per lo più da bottiglie di plastica”, si legge nel report.

    Tre società (H&M, C&A e Inditex) hanno risposto al questionario “distogliendo l’attenzione” dal legame con il petrolio russo per enfatizzare future strategie di transizione dal poliestere vergine a quello riciclato (da bottiglie di plastica) o verso materiali di nuova generazione. H&M ad esempio ha dichiarato la propria intenzione di non approvvigionarsi più di poliestere vergine entro il 2025 “tuttavia non ha chiarito le sue attuali pratiche per quanto riguarda i fornitori di poliestere legati al petrolio russo”. Analogamente, la catena olandese C&A afferma di volersi concentrare su materiali riciclati e di nuova generazione senza fornire informazioni sui legami con i fornitori oggetto dell’inchiesta. Nemmeno la spagnola Inditex ha risposto alle domande in merito a Reliance ed Hengli. Anche l’italiana Benetton avrebbe fornito risposte insufficienti o generiche: “Si è impegnata vagamente a una transizione verso materiali ‘preferiti’ -scrivono gli autori dell’inchiesta-, senza specificare però l’approccio ai materiali sintetici”.

    Tra quanti non hanno risposto al questionario c’è proprio Shein ma i suoi legami con il produttore indiano di poliestere sono evidenti: a maggio 2023 infatti le due società hanno sottoscritto un accordo in base al quale il colosso può utilizzare le capacità di approvvigionamento, l’infrastruttura logistica e l’ampia rete di negozi fisici e online di Reliance Retail, segnando così il ritorno di Shein in India dopo una pausa di tre anni. “Poiché il poliestere rappresenta il 64% del mix di materiali del brand e il 95,2% dell’abbigliamento di contiene plastica vergine, l’imminente collaborazione con Reliance suggerisce che una parte significativa delle circa 10mila novità giornaliere di Shein potrebbe in futuro essere derivata da prodotti di plastica vergine prodotti grazie a petrolio russo”, conclude il report.

    https://altreconomia.it/i-grandi-marchi-della-fast-fashion-non-vogliono-rinunciare-al-petrolio-

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    • Fossil Fashion

      Today’s fashion industry has become synonymous with overconsumption, a snowballing waste crisis, widespread pollution and the exploitation of workers in global supply chains. What is less well known is that the insatiable fast fashion business model is enabled by cheap synthetic fibres, which are produced from fossil fuels, mostly oil and gas. Polyester, the darling of the fast fashion industry, is found in over half of all textiles and production is projected to skyrocket in the future. Our campaign exposes the clear correlation between the growth of synthetic fibres and the fast fashion industry – one cannot exist without the other. The campaign calls for prompt, radical legislative action to slow-down the fashion industry and decouple it from fossil fuels.

      Crude Couture: Fashion brands’ continued links to Russian oil

      December 2023

      Last year, our groundbreaking ‘Dressed to Kill’ investigation delved deep into polyester supply chains, unveiling hidden ties between major global fashion brands and Russian oil. We exposed Russia’s pivotal role as a primary oil supplier for key polyester producers India’s Reliance Industries and China’s Hengli Group, which were found to be supplying fibre for the apparel production of numerous fashion brands.

      Now, a year later, we returned to the fashion companies to evaluate if they have severed ties with these suppliers. Shockingly, our latest report reveals an alarming trend: the two leading polyester producers are increasingly reliant on war-tainted Russian oil in 2023. Despite prior warnings about these ties, major fashion brands continue to turn a blind eye, profiting from cheap synthetics, while Ukraine suffers. Only two companies – Esprit and G Star Raw – said they cut ties with the two polyester producers, while Hugo Boss committed to phase out polyester and nylon. The others remain silent or downplay the urgency of the Ukrainian crisis with vague promises of change several years ahead or with false solutions, such as switching to recycled polyester – mostly from plastic bottles. This investigation sheds light on the fashion industry’s persistent dependance on fossil fuel and their lack of action when it comes to climate change and fossil fuel phase out.

      https://changingmarkets.org/portfolio/fossil-fashion

  • Des plastiques « biodégradables »… qui ne se dégradent pas Philippe Robitaille-Grou

    Les plastiques dits « compostables » ou « biodégradables » sont vendus à la tonne pour redorer le blason écologique des fabricants. Mais il y a un hic. Plusieurs d’entre eux ne se dégradent que dans certains environnements contrôlés, alors que dans la nature, où ils aboutissent, la réalité est tout autre.

    C’est ce que constatent des chercheurs de l’Institut océanographique Scripps à San Diego dans leur article publié mercredi dans la revue PLOS One.

    Des soi-disant “bioplastiques” n’ont pas le moindre signe de biodégradation après avoir passé plus d’un an dans l’océan, montrent les expériences effectuées par les auteurs.


    “C’est du greenwashing”, ou écoblanchiment, dénonce la Québécoise Sarah-Jeanne Royer, autrice principale de l’étude, qui a mené cette recherche dans le cadre de son postdoctorat à l’institut californien. “Beaucoup de gens vont croire qu’en utilisant ces bioplastiques, ils feront un bon geste pour la planète et que le produit va se dégrader s’il se retrouve dans l’environnement, mais pour ça, on a besoin de conditions de compostage très particulières.”

    Recette différente, mêmes résultats
    Vêtements, tapis, autres textiles… La production mondiale de fibres synthétiques continue de croître à un rythme effréné. Elle a atteint 68 millions de tonnes en 2020, selon les données de l’organisme à but non lucratif Textile Exchange, et est composée principalement de polyester, un plastique qui peut demeurer dans l’environnement durant plusieurs siècles.

    Un rapport de la firme Research and Markets prédit d’ailleurs que le marché global de fibres synthétiques connaîtra une croissance de plus de 7 % en quatre ans, de 2021 à 2025. Une vaste partie de ces fibres se retrouve dans les eaux usées, notamment par l’intermédiaire des machines à laver qui ne parviennent pas à les filtrer, et est par la suite acheminée dans les océans.



    La plage de Kamilo, à Hawaï, est reconnue pour la grande quantité de déchets de plastique qui s’y accumule.

    L’acide polylactique (PLA), fabriqué avec de l’amidon végétal, est couramment utilisé comme substitut “plus vert” des plastiques à base de pétrole. La nouvelle étude n’abonde toutefois pas dans ce sens.

    Après 428 jours dans l’eau de mer, les textiles faits de PLA, tout comme ceux formés de polyester, ne présentaient aucun signe de dégradation : le diamètre des fibres n’avait pas diminué et l’empreinte chimique, servant à indiquer la composition moléculaire, ne montrait pas la moindre transformation.

    Le PLA se dégrade seulement s’il est soumis à des températures et à des pressions très élevées, ce qui n’est pas le cas dans les milieux où il aboutit généralement, remarquent les auteurs.

    Ces résultats “soulignent à quel point le langage employé pour qualifier les plastiques est crucial”, estime le biologiste marin Dimitri Deheyn, qui a participé aux travaux.

    Les fabricants devraient avoir à fournir aux clients toute information sur la biodégradabilité de leurs produits, renchérit Sarah-Jeanne Royer. “Lorsqu’on achète une boîte de conserve, on sait exactement tout ce qu’il y a à l’intérieur en raison des lois mises en vigueur, explique-t-elle. Mais au niveau de produits comme le textile, il n’y a pas vraiment de norme environnementale pour bien informer les clients.”

    « On nous trompe. Et ça peut mener à des catastrophes du point de vue environnemental. »
    — Une citation de Sarah-Jeanne Royer, autrice principale de l’étude

    Autres substituts
    D’autres options souvent présentées comme solutions de rechange au plastique traditionnel ont été mises à l’épreuve par les chercheurs.

    Les textiles fabriqués à base de cellulose naturelle ont fait meilleure figure que le PLA. Ils se dégradaient complètement en à peine un mois.

    Les auteurs notent cependant que les matériaux analysés ne contenaient pas d’additifs. Or, les entreprises incorporent souvent des nanomatériaux, entre autres pour améliorer la protection contre l’eau et les rayons ultraviolets. Ces ajouts peuvent rallonger le temps de dégradation des produits, voire les rendre carrément non biodégradables.

    Certains fabricants se targuent plutôt de se servir de mélanges de cellulose naturelle et de plastique. Selon l’étude, seule la partie naturelle de ces mélanges parvient à se biodégrader.

    Réduire à la source
    Les recherches de l’Institut océanographique Scripps ne sont pas les premières à montrer les limites de la production de plastiques prétendument “plus verts”.

    En 2019, des chercheurs de l’Université de Plymouth au Royaume-Uni révélaient que plusieurs sacs de plastique vendus comme “biodégradables” ou “compostables” étaient encore, après trois ans passés dans la nature, en suffisamment bon état pour transporter près de cinq livres de provisions.

    Selon Sarah-Jeanne Royer, ces divers résultats montrent l’importance de tests standardisés pour vérifier si les plastiques dits “biodégradables” le sont véritablement. Mais, outre les normes en place, les efforts devraient à la base se concentrer sur une réduction de la production et de la consommation de plastique, “bio” ou non, martèle la chercheuse.

    “Si on prend l’industrie de la mode, par exemple, c’est la deuxième la plus polluante au monde”, affirme-t-elle. “Il faut acheter moins, et lorsqu’on le fait, il faut être bien renseigné pour pouvoir miser sur des matériaux de qualité.”

    Mme Royer a également décidé de mettre la main à la pâte pour s’attaquer à la pollution plastique déjà présente. Elle fait partie de l’organisme à but non lucratif Ocean Cleanup, qui sillonne les océans pour en extraire les déchets de plastique. Plus de 100 000 kg ont été retirés à ce jour.

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    Source : https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1981758/bioplastique-compostable-environnement-textiles-ecoblanchiment