• Naufragio Mar Ionio, 17.6.2024. I morti invisibilizzati e il silenzio delle istituzioni

      1. Il naufragio

      La notte tra il 16 e 17 giugno scorso al largo del Mar Jonio, un’imbarcazione partita dal porto di Bodrum in Turchia con circa 67 persone a bordo (di cui 26 minori) è naufragata a circa 120 miglia dalle coste della Calabria.

      La barca era rimasta alla deriva per diversi giorni, con uno scafo semi affondato, probabilmente a seguito dell’esplosione di un motore.
      Secondo le persone sopravvissute, diverse imbarcazioni sarebbero passate in quell’arco di tempo senza intervenire: la barca è stata soccorsa solo il 17 giugno dopo il lancio del “mayday” da parte di una nave francese che aveva intercettato il veliero affondato.
      sono state tratte in salvo 12 persone, tra cui una donna poi deceduta prima di arrivare a terra, che sono state portate in salvo a Roccella Jonica, nella provincia di Reggio Calabria.

      Il numero dei sopravvissuti, 11, è attualmente l’unico certo. Imprecise sono state le informazioni circa il numero dei corpi totali recuperati, che in data odierna è stato confermato essere 36, di cui quello di una donna deceduta dopo i soccorsi del 17 giugno scorso. Le 35 salme recuperate in mare appartengono a 10 uomini, 9 donne, 15 minori e 1 non noto. Le nazionalità delle persone che viaggiavano a bordo dell’imbarcazione dovrebbero essere: Afghanistan, Iran, Iraq, Siria, Pakistan.

      All’indomani della strage, la Guardia Costiera avrebbe iniziato le ricerche in mare recuperando a più riprese i corpi. Decine sarebbero le persone ancora disperse, in un naufragio che ricorda per certi versi quello di Steccato di Cutro del 26 febbraio 2023, dove morirono almeno 94 persone: stessa rotta, numerose vittime e la possibilità di una sottovalutazione da parte delle autorità nell’autorizzazione al soccorso dei naufraghi.

      Infatti, il 16 giugno Alarm Phone aveva allertato il Cmrcc di Roma avvisando di aver ricevuto richieste di aiuto relative alla barca in difficoltà nello Ionio e aveva fornito alle autorità competenti la posizione esatta dell’imbarcazione in pericolo affinché le persone a bordo potessero essere soccorse.

      2. Sopravvissuti e deceduti: procedure di ricerca, identificazione e rimpatrio delle salme

      Diverse realtà della società civile sono state allertate da quei familiari che nei Paesi di origine ma anche in Italia cercavano informazioni circa le sorti dei loro congiunti e che – per mancanza di comunicazioni chiare da parte delle autorità italiane – non riuscivano a comprendere né i luoghi né gli uffici preposti a gestire le conseguenze del naufragio.
      Mem.Med, ricevute diverse segnalazioni dall’Afghanistan, dalla Siria e dall’Iran, si è recata in Calabria per dare supporto ai familiari in arrivo e monitorare quanto accade.

      Recupero e sbarco delle salme
      In queste ore le operazioni di ricerca e recupero delle salme in mare stanno proseguendo. La comunicazione delle istituzioni su queste operazioni è stata fin da subito carente e in alcuni casi fuorviante: le informazioni fornite sono state dosate in brevi comunicati che spesso sono risultati incompleti e incoerenti. C’è scarsa trasparenza sui numeri e sugli spostamenti delle salme delle vittime.

      Il blocco del lavoro dei giornalisti ha impedito di documentare correttamente e tempestivamente gli arrivi delle salme, giunte sempre in piena notte e distribuite su diversi porti della regione Calabria, tra cui Roccella Ionica e Gioia Tauro. Gli ultimi 5 corpi sono arrivati a Crotone la notte del 24 giugno, in un posto blindato e chiuso ai giornalisti.

      I corpi delle salme dovrebbero essere stati collocati nelle camere mortuarie di diversi ospedali calabresi, tra questi sappiamo esserci Locri, Polistena, Soverato, Siderno, Gioia Tauro, Reggio Calabria. Tuttavia, anche su questo, le informazioni fornite dalle autorità non sono state chiare e ulteriori camere mortuarie di altri ospedali potrebbero essere state utilizzate con questo scopo.

      Tracing e richiesta di informazioni
      Le procedure attivate nei giorni immediatamente successivi al naufragio hanno riguardato, in mare, le manovre per il recupero dei corpi da parte della Guardia Costiera; in terra, l’apertura di un punto informativo nel Porto delle Grazie di Roccella Ionica dove i familiari potessero recarsi per ricercare o identificare i propri parenti. Tale punto informativo dovrebbe restare attivo e operativo fino alla fine del mese di giugno.
      Sono stati attivati dei canali di comunicazione telefonica e mail dedicati alle famiglie alla ricerca, gestiti dalla Prefettura di Reggio Calabria e dal progetto RFL della Croce Rossa.

      Le persone sopravvissute
      Le persone sopravvissute – curdo irachene, curdo iraniane, siriane – sono state destinate a ricoveri prolungati in diversi ospedali del territorio regionale, in attesa di individuare una struttura di accoglienza che eviti il passaggio in luoghi non idonei (come è stato per il naufragio di Cutro quando i sopravvissuti furono collocati all’interno delle strutture fatiscenti del Cara di Isola Capo Rizzuto).

      Tra i sopravvissuti c’è Nalina, la bambina di 10 anni irachena che ha perso tutta la sua famiglia nel naufragio. Nalina si è ricongiunta con la zia materna, proveniente dalla Svezia insieme al marito. Tra gli altri sopravvissuti noti ci sono anche Ismail, siriano di 22 anni e Wafa, curdo di 20 anni.

      Identificazione dei corpi
      All’interno del punto informativo al porto, oltre ai rappresentanti della Prefettura di Reggio Calabria e della Polizia scientifica, stanno lavorando le operatrici di Croce Rossa Italiana (CRI), Medici Senza Frontiere (MSF) e Save The Children che offrono supporto ai sopravvissuti e ai loro congiunti. Dopo alcuni giorni dal naufragio è stato attivato anche il servizio Restoring Family Links (RFL) della Croce Rossa il cui team è impegnato nella raccolta dati utile all’identificazione dei corpi.

      Da quanto riportato, fin dall’inizio un campione del DNA è stato prelevato da tutte le salme recuperate, quasi tutte in avanzato stato di decomposizione. Successivamente è stato autorizzato anche il prelievo di un campione del DNA dei parenti consanguinei giunti a Roccella. Questa pratica, che sappiamo non essere mai scontata né automatica, è molto importante per garantire un’effettiva identificazione anche a distanza di tempo, per corpi che non sono più riconoscibili visivamente.

      Bisognerebbe garantire ai familiari che si trovano nei Paesi di origine e sono impossibilitati a recarsi in Italia di effettuare il prelievo e l’invio in Italia del DNA utile alla comparazione con quello delle vittime.

      Rimpatrio delle salme
      Al momento di tutti i corpi recuperati solo una salma è stata identificata: quella di Akbari Sobhanullah, afghano di 29 anni.
      Delle operazioni di rimpatrio della salma non si farà carico lo Stato italiano e neanche quello del Paese di origine. La famiglia accorsa a Roccella, due cugini e uno zio della vittima, stanno in queste ore attendendo il rilascio del certificato di morte e delle autorizzazioni necessarie allo spostamento della salma, documenti richiesti insistentemente dalla famiglia che deve ripartire.
      Come sempre accade, è lasciato alle famiglie e alla società civile che le sostiene l’onere di dover gestire e pagare i costi per il ritorno a casa dei parenti morti mentre attraversavano i confini degli Stati europei.

      3. Le istituzioni assenti e la strategia dell’invisibilizzazione e della dispersione

      In questi giorni, mentre camminiamo sulla spiaggia adiacente al porto dove la prima vittima è stata depositata, riflettiamo sull’assenza di qualunque segno materiale di quella strage. Non ci sono resti dell’imbarcazione – ancora inabissata in alto mare – non sono visibili oggetti dei sopravvissuti o delle vittime, non ci sono messaggi di solidarietà. A malapena ci sono notizie di stampa che raccontano le mere vicende attorno alle morti.

      Il naufragio del 17 giugno, al contrario di Cutro, è stato completamente ignorato. Nessuna camera mortuaria con file di bare ha occupato la televisione pubblica, nessun cordoglio delle istituzioni, nessun commento delle cariche di governo e dello Stato.

      Da un punto di vista mediatico, dove non si sono potuti vedere i corpi, le bare, il dolore straziante, la narrazione si è ritratta lasciando un grande vuoto.

      A Roccella Ionica si nota il tentativo di frammentare: i sopravvissuti in diversi reparti di ospedali, i corpi distribuiti in diversi obitori di tutta la regione. I familiari, sono stati disorientati dall’assenza di informazioni certe: in queste ore stanno giungendo a Roccella da varie parti d’Europa per riconoscere i propri congiunti e, nel disbrigo delle procedure frammentate a cui sono costretti, devono spostarsi continuamente tra i diversi luoghi individuati dalla Prefettura di Reggio Calabria per le procedure di riconoscimento, identificazione e rimpatrio: porto, camera mortuaria, ospedali, comuni, luoghi di alloggio e di ristoro distribuiti in più province.

      Con la dispersione di corpi e famiglie su tutta la regione, è stata evitata l’incontro e la coesione tra i familiari e la costruzione di un luogo unico di ritrovo collettivo, di condivisione e di preghiera come è stato il Palamilone di Crotone, dove la sala sportiva aveva avuto funzione non solo di camera mortuaria per le 94 vittime, ma anche di luogo strategico per famiglie e società civile di riconoscimento reciproco, di condivisione, di rivendicazione di diritti, di memoria collettiva.

      Invece, a Roccella Jonica la strategia della dispersione esprime la volontà di affermare una gestione dell’evento, della morte e dei corpi che eviti il piano pubblico: impedire la circolazione di notizie ufficiali, la visibilità mediatica e politica del naufragio e limitare la diffusione delle parole dei familiari sembra essere la direzione che la Prefettura e le istituzioni da cui essa dipende hanno assunto.

      Questa strategia non è nuova: certamente è costante il tentativo di ostacolare la denuncia delle necropolitiche che caratterizzano il regime di frontiera. Come monitoriamo in Sicilia, in Sardegna, in Tunisia, nei piccoli naufragi che non fanno notizia e che vengono chiamati “minori”, nelle morti nei centri di detenzione o lungo le frontiere interne dell’UE, si tende a nascondere voci, lotte, storie e memorie, anche attraverso l’impedimento di quegli incontri fisici tra persone, associazioni, territori, comunità.
      4. Rumore oltre il silenzio per le morti di frontiera

      Nonostante questo silenzio assordante, la sera del 22 giugno una cerimonia interreligiosa organizzata dalla Chiesa locale ha attraversato il lungomare di Roccella Ionica fino a raggiungere il porto. Centinaia di cittadini calabresi e diversi familiari delle persone decedute o scomparse nel naufragio hanno marciato con delle candele in mano fino al luogo di primo approdo dei corpi.
      Qui si è consumato l’unico atto pubblico attorno alla strage, tra preghiere di diversi credi religiosi, parole di cordoglio e di denuncia dei sindaci locali, deposizione di fiori da parte dei volontari della Croce rossa locale.

      Il timore fondato è che l’attenzione su queste morti e su questi eventi cali rapidamente grazie all’occultamento politico e alla mancanza di una presa di posizione e di una mobilitazione pubblica.

      Il silenzio più preoccupante non è quello delle istituzioni, su cui si fonda la gestione migratoria di questi eventi, percepiti e raccontati come fatti di cronaca: bensì quello dell’opinione pubblica sempre più abituata alla morte per mano delle frontiere.

      Oltre i minuti di silenzio, bisogna continuare a stare su tutte le frontiere interne ed esterne, a fare rumore, a indagare le dinamiche di queste morti, a ribadire le responsabilità dietro queste stragi, i ruoli delle guardie costiere e delle polizie di frontiera, gli accordi europei con i Paesi terzi.

      5. Richieste alle autorità

      Soprattutto, bisogna continuare a sostenere e diffondere le parole e le azioni delle persone protagoniste di queste violenze, coloro che reclamano verità e giustizia, i sopravvissuti e le famiglie che ricordano le vittime delle frontiere, le storie che rappresentano, le rivendicazioni che incarnano, sfidando i confini e le violazioni degli stati.

      I familiari di Akbari Sobhanullah – unico viaggiatore della barca ad oggi identificato – hanno chiesto più volte aiuto nelle procedure di rimpatrio: “vogliamo riportare a casa il corpo, è nostro diritto, questa morte è un dolore straziante per tutta la famiglia, vogliamo almeno riportarlo a casa dove lo reclamano le persone che lo amano, la sua famiglia. Aiutateci a far sì che il corpo di Sobhanullah torni a casa”.

      Anche diversi familiari di vittime delle strage di Cutro, che hanno appreso della sorte di molti dei loro connazionali nel naufragio del 17 giugno scorso, hanno mandato messaggi di solidarietà e vicinanza ai parenti afghani, iraniani, curdi che – come loro stessi un anno fa – sono alla ricerca di verità e giustizia.

      Tra questi messaggi, ci sono le parole di Shahid Khan, pakistano, che ha perso nel naufragio di Cutro suo fratello Rahim Ullah Khan e che nella sua testimonianza inviataci dal Pakistan ha dichiarato:

      “non è la prima volta che un’imbarcazione che trasportava migranti affonda in mare. Conosco personalmente la condizione delle famiglie delle vittime, perché quel periodo è duro e insopportabile per loro. chiedo ai membri della famiglia della vittima di sopportare questo momento difficile e di pregare per i vostri cari, perché loro non possono tornare da noi ma un giorno lasceremo questo mondo (…) vorrei dire al governo italiano che la migrazione irregolare nel vostro Paese è un problema internazionale. Per salvare l’umanità e il mondo, il governo dovrebbe rilasciare dei visti legali per i diversi Paesi (..)”

      Non possiamo che condividere le parole della famiglia Akbari, di Shahid e delle madri, sorelle, fratelli e padri delle vittime del regime di frontiere.

      In particolare, alla luce delle criticità riscontrate nell’accesso alle informazioni e sulla base delle mancanze sistemiche che sono state monitorate in questi anni rispetto alla gestione delle morti e delle scomparse delle persone migranti e straniere, le associazioni Mem.Med Memoria Mediterranea e l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) hanno provveduto a inviare una comunicazione ufficiale alle autorità competenti regionali e nazionali raccomandando di porre attenzione ad una serie di questioni rilevanti regolamentate da normative nazionali e internazionali.

      In particolare si sollecita che:

      - continuino le operazioni di ricerca in mare per il recupero dei corpi;
      - che si continui a prelevare il DNA sia dalla salme che dai familiari, unitamente alla raccolta dei dati ente e post mortem utili all’identificazione delle salme;
      - che sia garantita la possibilità, anche posteriormente, di identificare i corpi e di seppellirli secondo la volontà e il credo espresso dalle famiglie;
      - che la sepoltura sia tracciabile e disposta con assoluta certezza del luogo;
      - che sia agevolata ogni procedura necessaria al trasferimento dei corpi nei paesi di origine;
      – che le famiglie possano essere informate debitamente e tempestivamente riguardo alle procedure in corso per il recupero di corpi, riguardo al luogo di conservazione delle salme, riguardo ai risultati della comparazione del DNA, riguardo alle procedure relative alla tumulazione e al rimpatrio;
      - che venga garantita adeguata accoglienza alle persone sopravvissute e ai familiari che in queste ore si stanno recando a Roccella Jonica.

      https://www.meltingpot.org/2024/06/naufragio-mar-ionio-17-6-2024-i-morti-invisibilizzati-e-il-silenzio-dell

  • Espagne : enquête sur un trafic de cadavres de migrants algériens

    Une vingtaine de personnes, dont des employés des pompes funèbres, des assistants légistes et du personnel de l’administration judiciaire, est visée par une enquête de la justice espagnole pour avoir participé à un vaste réseau de trafic de cadavres de migrants algériens. Ils faisaient payer les familles des victimes pour identifier les corps, en dehors de tout cadre légal.

    Au moins 20 personnes font l’objet d’une enquête dans les villes espagnoles de Murcie, Alicante, Almería et Madrid, et quatre ont été interpellées ce week-end pour appartenir à une organisation de trafic de cadavres de migrants, révèle le média La Verdad. Parmi ceux visés par la justice figurent des employés des pompes funèbres, des assistants légistes et du personnel de l’administration judiciaire affecté à l’Institut de médecine légale de Carthagène.

    Les membres de ce réseau sont accusés d’avoir demandé de l’argent, en dehors de tout cadre légal, à des familles d’exilés algériens à la recherche de leur proche disparu lors de la traversée de la Méditerranée.

    La manière de procéder était bien rodée : ils publiaient la photo d’un cadavre de migrant sur les réseaux sociaux afin d’appâter les familles sans nouvelles d’un frère, d’un fils, d’un mari ou d’un père. Ils leur facturaient ensuite différentes sommes, dont le montant n’a pas été divulgué, pour permettre d’identifier le corps et de le rapatrier au pays. Pour l’heure, on ne sait pas si l’identification était formelle et que le défunt était bien celui que les proches recherchaient ou s’ils ont falsifié des documents.

    Les quatre personnes interpellées ont été placées en détention provisoire par le tribunal de Carthagène. « Ces détenus font l’objet d’une enquête pour appartenance à une organisation criminelle, escroquerie, falsification de documents publics et délits contre le respect des défunts », précise la note de la justice transmise aux médias espagnols.
    Absence de protocoles clairs et homogènes

    En Espagne, il n’existe pas de protocoles clairs et homogènes pour procéder à la recherche des personnes disparues et à l’identification des personnes décédées sur la route de l’exil. Le manque d’informations et de règles favorise depuis des années le développement d’intermédiaires entre les autorités espagnoles et les familles des défunts.

    De plus, les proches font souvent face au silence des autorités espagnoles – et algériennes. « Malheureusement, les États ne respectent pas leur obligation de recherche lorsque les personnes disparues sont des migrants », affirme l’association Caminando Fronteras.

    Dans les morgues, les manières de gérer les cadavres et les familles diffèrent de l’une à l’autre. Dans celle « de Murcie, on a été bien reçu », expliquait l’an dernier à InfoMigrants Abdallah, à la recherche de son cousin disparu en mer en tentant de rejoindre l’Espagne depuis les côtes algériennes. « À Almeria, par contre, c’était plus compliqué. Il nous a fallu l’autorisation d’un commandant de gendarmerie pour vérifier qu’un cadavre qui correspondait aux caractéristiques physiques d’Oussama, et arrivé le jour supposé du naufrage, était bien celui de mon cousin. Malgré notre insistance auprès des autorités, nous ne l’avons jamais obtenue. C’était très dur pour nous. On nous a aussi interdit de voir les affaires personnelles retrouvés sur le corps. Alors qu’on a ce droit ».

    Les proches des exilés disparus peuvent faire appel à des associations, comme Caminando Fronteras, pour les aider dans leurs démarches et leur éviter de se faire escroquer par des personnes mal intentionnées.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/55761/espagne--enquete-sur-un-trafic-de-cadavres-de-migrants-algeriens

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    • Los piratas de los muertos de las pateras: el negocio con los cuerpos de la inmigración irregular

      EL PAÍS revela el ‘modus operandi’ de una trama que se lucraba con la desesperación de familias argelinas y marroquíes.

      Las fotos que publicaba Francisco Clemente (https://elpais.com/masterdeperiodismo/2021-07-29/el-interprete-de-los-muertos.html) en sus redes sociales no pasaban inadvertidas para nadie. Durante años, este almeriense anónimo divulgó decenas de imágenes en las que podían verse cadáveres arrojados por el mar o cuerpos en la morgue dispuestos antes de la autopsia, todos muertos durante su viaje en patera hacia costas españolas. Muy pocas personas tienen acceso a ese material tan sensible, pero Clemente, no se sabe muy bien cómo, lo conseguía. Y se dio cuenta de que tenía en sus manos un valioso botín con el que hacer dinero. Un negocio que se lucraba con los muertos de la inmigración irregular.

      Este joven almeriense, de 27 años, cayó el pasado sábado detenido en una operación de la Guardia Civil acusado, entre otros delitos, de revelación de secretos y pertenencia a una organización criminal. EL PAÍS investiga los movimientos y conexiones de Clemente desde octubre de 2021 y revela, tras su detención, cómo operaban él y sus cómplices.

      Con esas fotografías de cadáveres y otro tipo de información privilegiada, Clemente dejó de ser tan anónimo y se convirtió en un referente para cientos de familias argelinas y marroquíes que habían perdido la pista de sus seres queridos al intentar emigrar a España. Madres, hermanos o primos que buscaban saber si sus seres queridos estaban vivos o muertos. Clemente creó a mediados de 2020 la cuenta Héroes del Mar en la red social X (antes Twitter) y en Facebook y, junto a su perfil personal, sumaba más de 150.000 seguidores a los que pedía donaciones. Hasta la prensa argelina le dedicaba artículos.
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      Condenados a una lápida sin nombre

      El joven, que se ganaba la vida vendiendo antiguallas por Wallapop, acabó montando un negocio haciendo de mediador entre las familias que buscaban a sus parientes desaparecidos o muertos, según fuentes policiales. No estaba solo, trabajaba en nombre del Centro Internacional para la Identificación de Migrantes Desaparecidos (CIPMID), una ONG de nombre rimbombante que, a diferencia de otras ONG más conocidas, no consta que reciba ninguna subvención o ayuda pública. Para algunas familias, Clemente fue la única fuente de información ante su pérdida y están agradecidos, aunque también dejó un reguero de familias que se sienten estafadas, según la docena de testimonios recogidos por EL PAÍS.

      Fran —como llaman a Francisco Clemente— al final cavó su propia tumba. Las mismas fotos con las que empezó todo encendieron las alarmas de la Guardia Civil que inició una investigación por la que ha acabado detenido junto a otras tres personas. Dos de los detenidos —el dueño de una funeraria y supuesto líder de la trama y el conductor del coche fúnebre de otra— permanecen en prisión sin fianza. A Fran, en libertad, se le ha retirado el pasaporte. Este diario ha intentado contactar con él, pero no ha obtenido respuesta.

      Los agentes han señalado a al menos una veintena de sospechosos, entre ellos, varios dueños de funerarias, auxiliares forenses y funcionarios del Instituto de Medicina Legal de Cartagena. Según se desprende de la investigación, Fran es sospechoso de integrar una especie de cártel que se disputaba los cadáveres de los inmigrantes. La trama supuestamente cobraba entre 3.000 y 10.000 euros por facilitar información a las familias, identificar y repatriar a los muertos. “El precio dependía del seguimiento que debían hacer del caso, pero también de la capacidad económica que viesen en los familiares”, explican fuentes de la investigación.

      Según el papel que jugaba cada uno de los participantes, la Guardia Civil les atribuye presuntos delitos contra la libertad de conciencia, contra los sentimientos religiosos y el respeto a los difuntos, además de por pertenencia a organización criminal, revelación de secretos, omisión del deber de perseguir delitos, estafa y cohecho. “Esto es solo la punta del iceberg”, afirman fuentes de la investigación, que deben ahora analizar una ingente cantidad de material incautado.

      La red, sin muchos escrúpulos, tiene su epicentro en Almería y Murcia, y tentáculos en Málaga, Baleares y Alicante, provincias a las que llegan los náufragos sin vida de las pateras. La trama se embolsó presuntamente decenas miles de euros con el sufrimiento de decenas de familias.
      Enganchado a la radio de Salvamento Marítimo

      Fran se metió en el mundo de la inmigración irregular en 2018, coincidiendo con el incremento de la llegada de pateras que salían desde Argelia. Su relación con el fenómeno —salvo por un breve pasaje por la Cruz Roja de donde lo echaron “por comportamientos inadecuados”—era nula, pero se aficionó a sintonizar la frecuencia de radio de Salvamento Marítimo y estaba al tanto de todos los rescates. Pasaba horas en el puerto de Almería y fotografiaba y grababa el desembarco de los inmigrantes, imágenes que, según ha confirmado EL PAÍS con sus compradores, también vendía a interesados en divulgar en redes mensajes contrarios a la inmigración irregular.

      En una de las varias denuncias que se han formalizado en comisarías de toda España contra él, una mujer que pide anonimato acusa Fran de relacionarse con los patrones de las pateras (suele saber con precisión cuándo salen y llegan las embarcaciones) así como de encubrirlos para evitar su detención. La mujer también asegura que fue testigo de cómo Fran contactó con familias para pedirles dinero si querían que su pariente “no tuviese problemas en España”. Presumía, según el acta de declaración de testigo a la que tuvo acceso EL PAÍS, de dar dinero a jueces y policías para evitar que los inmigrantes estuviesen presos. La mujer declaró a los agentes tener “pánico” de Fran y la ONG para la que trabaja.

      Con el tiempo, las posibilidades de negocio fueron creciendo. Fran, que vive con sus padres, ya no se limitaba a dar información a las familias sobre si sus parientes habían llegado o no, sino que encontró al que la Guardia Civil considera el líder de la red criminal, el propietario de una funeraria sin mucha actividad oficial. Este hombre, llamado Rachid, tenía una serie de funerarias amigas con las que hacer negocio y juntos, presuntamente, se disputaban los cadáveres de migrantes magrebíes que llegaban a las costas de sus zonas de actuación. “Decían a las familias que ellos eran los únicos capaces de repatriar el cuerpo”, mantienen fuentes de la investigación. Mentían. Rachid está en prisión sin fianza desde el sábado.

      Todos ganaban. Para Fran, las funerarias eran clave para cerrar el círculo que iniciaba con las familias de los migrantes que le contactaban. Y para las funerarias, Fran suponía un filón porque tenía contacto directo con decenas de potenciales clientes. Solo en 2023, se registraron casi 500 muertes de migrantes en la ruta migratoria que lleva a España por el Mediterráneo.

      Con el dinero que cobraban a las familias, a veces muy por encima de los 3.000 euros que suele costar una repatriación al uso, los investigadores sostienen que se repartían comisiones por adjudicarse los trámites administrativos y funerarios necesarios para repatriar los cuerpos a Argelia o Marruecos. Algunos implicados además pagaban por certificados de defunción falsos y otros trámites que aceleraban las repatriaciones, según la investigación.
      El conseguidor

      Según se lee en un fragmento del sumario al que ha tenido acceso EL PAÍS, Rachid sería “el conseguidor” o “líder de la organización criminal” en la misión de conseguir adjudicarse los cadáveres —previa exhibición a sus familiares de datos, informaciones e incluso fotografías de los cuerpos—, y su posterior repatriación.

      Rachid estaba muy conectado con la comunidad musulmana y sería supuestamente el intermediario con consulados de los fallecidos, generalmente de Marruecos y Argelia. En el registro de su casa se encontraron 60.000 euros en efectivo “de origen desconocido”, sellos médicos a nombre de otro investigado por expedir un certificado de defunción presuntamente falsificado, licencias de enterramiento y dos coches de alta gama “con gran cantidad de billetes en su interior”.

      España carece de protocolos claros y homogéneos para facilitar que las familias puedan identificar a las víctimas de la inmigración irregular. Quien tiene medios e información sobre cómo proceder debería personarse en una comisaria o comandancia y denunciar la desaparición de su familiar. Para ello, si está en Marruecos o en Argelia, tendría que conseguir un visado para desplazarse a España o conseguir un apoderado que lo haga en su nombre. El proceso suele exigir pruebas de ADN y si, se complica, hasta un procurador y un abogado. Confirmar una muerte es, por lo general, una labor hercúlea que las familias no pueden asumir en la lejanía y sin hablar español.

      Ante las dificultades y la falta de canales adecuados, han ido apareciendo facilitadores que median entre las autoridades españolas y los parientes de los muertos. La mayoría lleva mucho tiempo haciéndolo de forma altruista, por convencimiento y sin cobrarlas, pero también han surgido aprovechadores que han hecho negocio con el dolor de cientos de familias que siguen sin saber adónde acudir.

      https://elpais.com/espana/2024-03-13/los-piratas-de-los-muertos-de-las-pateras-el-negocio-con-los-cuerpos-de-la-i

  • A Berne, un vélo-cargo pour le dernier voyage
    https://www.letemps.ch/suisse/berne-un-velocargo-dernier-voyage

    Une entreprise de pompes funèbres bernoise propose de transporter les dépouilles à deux-roues. Une démarche qui s’inscrit dans un projet de la ville pour lever le tabou sur la mort

    Son corps se fige, yeux braqués sur le vélo-cargo au format inhabituel qui passe devant lui. « Il y a un mort, là-dedans ! » s’exclame l’ouvrier sur le trottoir, en dialecte bernois, dans un mélange de surprise et de stupeur. Aucun doute possible : la structure, ouverte, dévoile le cercueil porté par l’engin.

    Le véhicule électrique de l’entreprise de pompes funèbres Aurora ne laisse pas indifférent, alors qu’il traverse Berne pour le dernier voyage de Margrit (£), une dame âgée, décédée en EMS. Le convoi conduit par Alessandro, employé d’Aurora, a quitté un peu plus tôt le sous-sol de l’hôtel du quartier de Lorraine où il est parqué d’ordinaire, au milieu des rangées de cercueils.

    Son chargement encore vide, il a traversé l’un des ponts surplombant l’Aar, puis il a glissé sur la piste cyclable devant la gare, avant de s’arrêter à un feu rouge. Il accroche le regard des passants. Intrigués. Parfois amusés. Vaguement inquiets. Ou gênés. Certains détournent les yeux. D’autres en restent bouche bée.

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    Quelques kilomètres plus loin, le vélo-corbillard s’est arrêté devant l’entrée de l’EMS. Alessandro et son collègue sont allés chercher Margrit. Puis ils sont remontés avec son cercueil, qu’ils ont déposé, délicatement, sur le plateau du vélo-cargo, devant les yeux écarquillés d’une résidente.

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    Le convoi silencieux a poursuivi son chemin, provoquant encore quelques sourires énigmatiques sur son passage. Enfin, le vélo est arrivé au cimetière. Sous un soleil resplendissant, il a parcouru les derniers mètres le séparant du crématoire, sa course paisible rythmée par le cliquetis à peine perceptible des roues et le chant des oiseaux.

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    Le vélo-cargo interpelle, et c’est bien là son but. C’est ce qu’explique un peu plus tôt ce matin-là, le responsable de l’entreprise de pompes funèbres Aurora, Gyan Härri, dans son bureau. La démarche, dit-il, s’inscrit dans une volonté de briser le tabou autour de la mort, pour instaurer un rapport plus ouvert avec les rituels de départ.

    « Aujourd’hui, nous passons par la porte principale »
    « Lorsque j’ai commencé à faire ce métier, en 2010, nous allions chercher les personnes décédées dans les EMS tard le soir. Nous passions par le garage pour que les autres résidents ne nous voient pas. C’était une situation tendue pour tout le monde. Aujourd’hui, nous venons de jour, par l’entrée principale. Les défunts sont célébrés, avec une bougie, ou une photo. Cette visibilité facilite le rapport à la mort des autres résidents. Elle rend aussi notre travail plus agréable. » Si les pratiques évoluent, la mort reste encore bien souvent invisible. C’est aussi lié au fait que souvent, elle survient entre les murs d’une institution de soin : « Aujourd’hui, dans 50% des cas, nous allons chercher les défunts dans un EMS ou un hôpital. Nous nous sommes deshabitués à leur présence dans notre quotidien », explique Gyan Härri.

    Le professionnel de la mort compare le vélo funéraire aux calèches d’antan, qui transportaient les cercueils à travers la ville, sous le regard des passants. Qui sait, peut-être que le vélo-corbillard s’installera durablement dans le paysage. Pour l’instant, c’est une option laissée au choix des familles, qui préfèrent, la plupart du temps, un mode de transport plus conventionnel : « En ce moment, nous réalisons un à deux voyages par semaine à vélo-cargo », souligne Gyan Härri.

    https://www.youtube.com/watch?time_continue=2&v=1WMpod4PgIs

    L’idée du corbillard sur deux roues lui est venue peu après son mariage. Gyan Härri transportait son épouse enceinte à vélo-cargo au marché. « J’ai beaucoup aimé l’idée de porter ma famille, comme on se soutient les uns les autres dans l’existence. J’avais envie de proposer à mes clients de porter leurs proches défunts dans cette dernière étape de la vie. » Gyan Härry évoque une anecdote, chargée d’émotions. Pour l’enterrement de leur enfant de 5 ans, un couple a souhaité pouvoir se servir du vélo-cargo afin d’emmener le corps jusqu’à la tombe. « Nous avons placé le petit cercueil au milieu de la plateforme et neuf enfants venus pour la cérémonie se sont assis tout autour. C’était une scène extrêmement forte. »

    Et récemment, l’un de ses clients a souhaité prendre lui-même le guidon du vélo-cargo pour transporter le cercueil de son épouse au cimetière. « Un geste très fort, du point de vue symbolique. » Contacté par téléphone, Gerhard Röthlin explique : « Je roule souvent à vélo, j’adore cela. J’ai trouvé beau de pouvoir accompagner mon épouse de cette façon, plutôt que dans une de ces voitures corbillards sombres et anonymes, purement fonctionnelles », raconte le Bernois. Son épouse Barbara est décédée trois mois après avoir appris qu’elle était atteinte d’un cancer, à l’âge de 60 ans. « Ce trajet, c’était une sorte d’événement. Il fait partie de mon travail de deuil. Et je suis sûr qu’elle aurait trouvé cela cool, elle aussi. »

    Une initiative soutenue par la ville
    Le vélo-cargo d’Aurora porte le logo « Bärn-treit » (« Berne soutient », en dialecte). Un slogan de la ville de Berne, qui s’engage à soutenir les personnes mourantes ou endeuillées. Elle a élaboré une charte et lancé depuis un an une série d’initiatives pour susciter des discussions autour de la mort, dans les écoles, au travail, au musée ou au théâtre. La ville offre par exemple une série de cours grand public de quelques heures, dans lesquels une thérapeute explique comment soutenir une personne qui vient de perdre un proche. Ou encore une formation, appelée « derniers secours », qui donne des clés pour accompagner une personne mourante.

    Berne espère ainsi promouvoir une « culture de l’entraide », pour atténuer la détresse, la solitude, ou l’exclusion liées à la mort. Elle s’inscrit dans un réseau de « compassionate cities », aux côtés de Cologne en Allemagne, Plymouth en Angleterre ou Ottawa au Canada : ces villes entendent, sous ce label, améliorer l’approche collective de la mort.

    « Avec la professionnalisation des soins, nous avons perdu certains savoir-faire liés à la mort. Nous devons faire appel à notre mémoire collective », observe Gyan Härri. Ne dites pas au croque-mort qu’il exerce un métier difficile. Lui préfère le mot « intensif ». « Il y a de la douleur, bien sûr. Mais c’est tellement plus que cela. Il y a aussi des rires, souvent. » Avant de devenir croque-mort, il travaillait dans la gastronomie et le cinéma. « Un univers dominé par le paraître et l’apparence. Aujourd’hui, au quotidien, mes rapports avec les autres sont empreints de sincérité et de profondeur. »

    £ Prénom d’emprunt
    #Mort #décès #vélo #cyclisme #vélo-cargo #voyage #ehpad #deux-roues #tabou

  • Les pratiques funéraires face à la crise

    Très éprouvantes pour les familles, les conditions actuelles qui entourent l’organisation des #obsèques représentent également une épreuve pour les professionnels des #pompes_funèbres, comme nous l’explique l’anthropologue et sociologue Pascale Trompette.

    https://lejournal.cnrs.fr/articles/les-pratiques-funeraires-face-a-la-crise
    #pratiques_funéraires #enterrement #covid-19 #coronavirus

  • Aujourd’hui j’ai intubé mon premier patient Covid-19 et je ne le souhaite à personne | Le Huffington Post
    https://www.huffingtonpost.fr/entry/aujourdhui-jai-intube-mon-premier-patient-covid-19-et-je-ne-le-souhai

    Aujourd’hui j’ai honte.

    Honte d’avoir râlé sur ce confinement qui m’oblige à supporter quelques semaines de plus mon vieux canapé que je rêvais de changer.

    Honte d’avoir hésité à filer sur le chantier de ma maison avant le début du confinement en me disant que les confrères étaient assez nombreux pour se débrouiller sans moi.

    Honte de m’être plus inquiété des répercussions du confinement sur mon activité Airbnb que des conséquences du virus.

    • J’hallucine de voir les réanimateurs débordés, obligés de refuser des patients ayant en temps normal les critères pour être admis en réanimation.

      J’hallucine de voir ces patients qui se dégradent à une vitesse impressionnante, que tu intubes en speed avec une saturation dans les chaussettes.

      J’hallucine de voir ces patients à qui on demande de préciser leur directives anticipées (en haletant) pendant qu’on prépare le matériel d’intubation.

      Dans le Grand Est et en région parisienne :
      #réanimation #tri #directives_anticipées

    • Oui, @mad_meg, mais pas seulement puisque cela comporte aussi un aspect essentiel lorsqu’on passe par la case médecine avant le décès, les soins en fin de vie, dont le refus de l’acharnement thérapeutique

      Directives anticipées : dernières volontés sur les soins en fin de vie
      https://www.service-public.fr/particuliers/vosdroits/F32010

      Toute personne majeure peut, si elle le souhaite, faire une déclaration écrite appelée directives anticipées pour préciser ses souhaits concernant sa fin de vie. Ce document aidera les médecins, le moment venu, à prendre leurs décisions sur les soins à donner, si la personne ne peut plus exprimer ses volontés.

      Voir le site de l’association pour le droit à mourir dans la dignité (ADMD)
      https://www.admd.net

      Et leur modèle de directives anticipées
      https://www.admd.net/qui-sommes-nous/une-association-votre-service/notre-fichier-des-directives-anticipees.html

      Ces directives peuvent comporter un ou des refus de traitement. Au vu de l’épidémie de Covid-19 pour laquelle on évoque davantage le tri en amont qui peut empêcher la réa, ayant tendance à penser que la morphine ou un de ses dérivés peut être préférable à des semaines d’intubation, je me demandais ce qu’il en était d’éventuels refus de réanimation. Il semble que ce soit possible.

      La haute autorité de santé écrit en effet
      https://www.has-sante.fr/upload/docs/application/pdf/2016-03/directives_anticipees_concernant_les_situations_de_fin_de_vie_v16.pdf

      Que vous soyez en bonne santé, atteint d’une maladie grave ou non, ou à la fin de votre vie, vous pouvez exprimer vos souhaits sur la mise en route ou l’arrêt de réanimation, d’autres traitements ou d’actes médicaux, sur le maintien artificiel de vos fonctions vitales et sur vos attentes. Vous pouvez en parler avec votre médecin pour qu’il vous aide dans votre démarche ; il pourra vous expliquer les options possibles, en particulier le souhait ou le refus d’un endormissement profond et permanent jusqu’à la mort.

      #soins_en_fin_de_vie #personne_de_confiance #refus_de_traitement #prise_en_charge_de_la_douleur #soins_palliatifs

    • Merci pour les précisions @colporteur
      Du coup ton choix c’est de souffrir ou pas avant de crever puisque

      J’hallucine de voir les réanimateurs débordés, obligés de refuser des patients ayant en temps normal les critères pour être admis en réanimation.

      Ce choix on l’aura pas très longtemps puisque on manque de curare, d’hypnotique et d’anesthésique…

      et tu peu choisir aussi comment on va racketter ta famille une fois qu’on t’aura mis à la morgue et peut être bientôt choisir la couleur du soylent que Macron va te faire devenir….

    • J’aime pas trop le caractère moralisateur de ce texte qui s’adresse presque uniquement à « les gens » qui sont de gros cons égoïstes, comme chacun·e sait. Pardon de ne pas pouvoir t’aider à intuber des patient·es, bonhomme, mais ce n’est pas mon boulot et j’aurais eu envie de me payer une belle carrière que le numerus clausus ne me l’aurait pas permis, sans papa-maman qui me payent les cours du soir. (Oui, je sais, pour les prols il reste aide-soignant·e et pour la classe moyenne infirmièr·e, mea culpa de ne pas avoir fait d’études médicales.)

      Alors qu’il y a bien des propos politiques à tenir sur ce sujet.

      Je réalise à quel point nous avons été arrogants d’imaginer être épargnés grâce à un système de santé meilleur que celui des Chinois ou des Italiens.

      (...)

      Je réalise que nous ne sommes toujours pas prêts à affronter la seconde vague qui s’annonce avec la fin du confinement.

      D’abord cette arrogance, c’est pas que la nôtre mais pas mal celle de #connards qui allaient au théâtre le 6 mars, désertaient leur poste de ministre de la santé ou de conseillère santé à l’Élysée, faisaient se tenir des élections le 15 mars et toute cette #incurie qu’on n’oubliera pas. À côté de ça, avec peu d’informations et beaucoup de réassurance pour pas ralentir la croissance économique, je n’ai pas l’impression de puer l’arrogance parce que je ne me rendais pas compte de la gravité du truc.

      Et un des problèmes, c’est peut-être parce que (sans le comparer à la Chine et à l’Italie mais en valeur absolue) notre système de santé n’est pas à la hauteur, sous-financé depuis des décennies. Et l’autre bourge de docteur qui sauve des vies ne s’en est pas encore aperçu.

    • Ben merdalors ! Les « braves-officiers » de l’économie de marché en mode exploitation capitaliste viendraient-ils de s’apercevoir que sans leurs subalternes, ils ne sont « rien », eux non plus ? Je les trouve bien mignons, tous ces grands « pontifieurs », accusateurs du « on » et du « nous » alors qu’ils se gardaient bien de ramasser la merde et d’éponger le vomis quand à la fin de leurs (longues) études financées par papa, ils ne pensaient qu’à leurs carrières. Mais une carrière en mode petit bourgeois urbains « gentrifiés », hein ? Pas question de faire le job dans les déserts médicaux parce que les bouseux ou les banlieusards, les relégué·es, et bien qu’ils se démerdent après tout ... Et voilà que désormais, « ils ont peur » et ils sont « en colère », rhôôô, les pauvres choux ... Voilà qui est plaisant, tiens !...
      C’est aussi pour ça que j’applaudis pas « les soignants » à 20h quotidiennement. J’aimerais pouvoir leur déverser des seaux de « bren » sur leurs sur-blouses, à tous ces paltoquets qui viennent chouiner dans le giron de la presse aux ordres. Parce finalement, « l’ordre républicain », ça leur allait si bien quand ils se scandalisaient que les « gueux » fracassent des vitrines et saccagent l’arc de triomphe, persuadés qu’ils étaient de vivre « en démocratie ». La démocratie vient de leur chier sur les chausses ? Qu’ils se démerdent ! Ils n’auront pas ma compassion ces petits branleurs biberonnés aux « valeurs » de la « start up nation »...

      [edit] j’avais pas encore lu l’article, seulement les commentaires (et mis quelques tags pour mémoire).

    • @antonin1 : oui,oui, t’inquiète. Je pourrais t’en raconter des bien trash, vu que Madame fut pendant de longues années l’humble et dévouée servante en tant que secrétaire médicale de ces « braves-soignants » dans un cabinet de quelque sept « praticien·nes »...
      Sinon une frangine aussi, qui bossait en tant qu’infirmière employée par un centre de « soin » géré par l’ADMR de son bled. Elle aussi bien cassée par des conditions de travail infernales et qui a fini sa carrière en invalidité à l’âge de 60 ans. (Prothèses sur chaque genou)
      Enfin, quand je mets en pétard, c’est surtout et uniquement contre celles et ceux qui tiennent le haut du parking. Quoique la hiérarchisation des tâches fait que tu as aussi des petit·es cheffaillon·nes qui peuvent bien te pourrir la vie quand tu es assigné·e au bas de l’échelle. Le « monde » du travail quoi, en mode exploitation capitaliste.

  • Article rédigé le 18 mars dernier (juste après les décrets du #Grand_Confinement)

    Coronavirus : Sous-équipés et en première ligne, les professionnels des pompes funèbres vivent dans l’angoisse
    https://www.20minutes.fr/societe/2743147-20200318-coronavirus-sous-equipes-premiere-ligne-professionnels-po

    Quand on parle des professions en première ligne face au coronavirus, l’attention se porte (à juste titre) sur le personnel de santé, notamment dans les hôpitaux et les Ehpad, ou encore sur les agents de caisses dans les supermarchés. Un peu oubliés des discours des politiques, des articles de presse et peut-être aussi des Français, les employés des pompes funèbres font, eux aussi, partie de ces métiers essentiels qui doivent continuer de fonctionner alors que la France entière s’enferme. Exposés mais sous-équipés, mobilisés mais peu soutenus, certains ont déjà peur pour la suite des événements, au troisième jour seulement de confinement.

    #Thanatos #pompes_funèbres #prophylaxie

  • Espagne-Maroc : « Les migrants morts en mer ne parlent pas, moi je suis leur voix »

    « Croque-mort » de son état, l’Espagnol #Martin_Zamorra se démène depuis des années pour identifier les corps de migrants morts en traversant le détroit de Gibraltar en mer Méditerranée. Il souhaite rapatrier leurs dépouilles vers leur pays d’origine. Portrait.

    On devine que sa vie n’a pas été tout a fait rectiligne. Martin #Zamorra est un homme à la fois affable et singulier. Du bord de l’autoroute A7 qui relie Algésiras à Malaga, dans le sud de l’Espagne, il dirige une petite entreprise de #pompes_funèbres - qui a connu des jours meilleurs.

    Fumeur compulsif (mais il vient d’arrêter), Martin Zamora n’est ni un anonyme ni un discret dans ce coin d’Andalousie puisque ses aventures ont inspiré un film de fiction, « Retour à Hansala » sorti en 2008. Le scénario : un croque mort espagnol peu scrupuleux rapatrie au pays le corps d’un migrant en compagnie de sa sœur, une jeune femme marocaine. Un voyage qui transforme pour toujours les deux personnages…

    L’affaire qui l’occupe principalement en cette matinée de juin, c’est celle des victimes d’un naufrage qui s’est produit en novembre 2018, à Barbate, non loin du détroit de Gibraltar. Vingt-six personnes s’étaient alors noyées à proximité du port andalou. La plupart des victimes étaient marocaines.

    Dans les semaines qui ont suivi, la police judiciaire espagnole est parvenue à identifier 21 victimes qui furent rapatriées. Mais cinq autres n’ont pas quitté l’Espagne, la médecine légale n’étant pas parvenue à mettre un nom sur ces corps sans vie. Ces dépouilles sans identité sont devenues l’affaire de Martin Zamorra.

    Face à des autorités espagnoles impuissantes, il actionne ses contacts au Maroc. Grâce à une méthode bien rôdée, il parvient à identifier les victimes en quelques heures.

    « Tout d’abord, j’ai besoin d’une photo. Puis j’ai besoin de déterminer de quel pays vient la victime. Ensuite, je diffuse l’information, principalement parmi les contacts que j’ai accumulés pendant des années. Ensuite, généralement, on m’appelle. Parfois, cela prend du temps et la justice ordonne l’inhumation d’un corps anonyme. Et c’est à moi que revient la procédure d’exhumation du corps, quand une famille s’est manifesté et que l’on a pu identifier formellement le corps ».

    Mais la plupart du temps, l’identification d’un corps ne prend que quelques heures : les survivants d’un naufrage communiquent à leurs proches les noms des disparus. La nouvelle se répand à la vitesse des échanges sur Whatsapp.
    Parfois encore, Martin Zamorra envoie des photos à ses contacts, et des familles qui reconnaissent les visages sans vie de leurs enfants.

    Les lourdeurs bureaucratiques empêchent un rapatriement rapide des corps

    Reste que pour la justice espagnole, reconnaître un corps n’autorise pas son transfert au Maroc. La justice réclame qu’un lien de parenté soit établi et donc qu’un prélèvement d’ADN soit effectué sur les personnes qui réclament les corps des défunts.

    Sept mois après le drame, les policiers espagnols ne se sont toujours pas rendus au Maroc pour récolter un peu de salive ou quelques cheveux d’une mère, d’un père ou d’un frère.

    Malgré la forte coopération policière entre les deux pays, la bureaucratie des deux côtés du détroit ralentit le processus, peste Martin Zamorra. « Je voudrais que l’on m’explique qui va réclamer le corps d’un noyé et payer pour son rapatriement si il ne s’agit pas d’un membre de sa famille ou l’un de ses proches ! »

    Pour lui, l’impasse bureaucratique s’explique aussi par des conflits politiques. Il doit y avoir des querelles internes entre juges, ce qui rend l’affaire « encore plus lamentable » estime-t-il. « Moi, je ne suis personne, mais c’est à moi que l’on envoie des photos, déplore-t-il. J’en reçois toute la journée sur mon téléphone. Tout le monde a mon numéro : les policiers ou des membres des ONG... » Martin Zamorra voudrait que les choses aillent plus vite.

    Pour se faire comprendre, le croque-mort fait défiler sous nos yeux des dizaines de conversations Whatsapp. On aperçoit alors sur l’écran du smartphone (qui ne semble jamais s’arrêter de sonner) des visages de morts et de vivants, des photocopies de papiers d’identité.

    Effectue-t-il un travail de détective ? À cette question qu’il entend souvent, Martin Zamorra soupire. Il hausse les épaules et répond que son seul domaine, « c’est la thanatologie, je ne suis un expert que dans le domaine funéraire ».

    Quand on lui demande comment il fait payer ses précieux services, il reste flou. Il n’évoque pas de compassion particulière. Mais derrière des airs de misanthrope, ses yeux et sa voix trahissent une grande émotion quand il explique son travail.

    Albert Bitoden Yaka, un travailleur social d’Algésiras venu du Cameroun il y a une vingtaine d’année connaît Martin Zamorra et sa drôle de quête. « Il veut aider les migrants, il fait beaucoup pour eux. Pourquoi et comment… ? Il y a certainement une part de mystère mais c’est comme si il avait une dette morale. Il a une grande sensibilité, il vit avec la douleur des gens ».

    Une ONG s’est créée il y a peu : le Centre International Pour l’Identification des Migrants Disparus (CIPIMD). L’organisation estime que 769 personnes sont mortes - ou portées disparues - pour la seule année 2018, en tentant d’atteindre les côtes espagnoles. Elle réclame des autorités espagnoles un peu plus de coopération mais elle sait qu’il y aura toujours Martin Zamorra pour tenter de résoudre les affaires les plus compliquées.

    #identification #corps #cadavres #asile #migrations #réfugiés #mourir_en_mer #Méditerranée #Maroc #Espagne

  • pompe funèbre - pompe à fric


    Prestations extravagantes, envolée des prix, commissions illégales : en France, depuis l’ouverture à la concurrence, la bataille commerciale autour des pompes funèbres ne profite pas vraiment au consommateur.
    https://www.franceculture.fr/economie/les-derives-du-commerce-des-obseques#xtor=EPR-2-[LaLettre04052018]
    #pompes_funèbres #jusqu'à_l'os

    • #prévoyance_obsèques #ententes #commissions_abusives #précarité

      Lors des canicules de 2003 et 2006, des dizaines de morts sont ainsi délaissés. « On se retrouve avec des personnes qui n’ont plus d’aides, qu’on ne peut pas enterrer, se désole Huguette Boissonnat, du mouvement ATD Quart Monde. On ne va plus chercher son mort, car sinon on doit payer son enterrement. » Les morts « oubliés » ont été conservées dans des hôpitaux ou des chambres froides. À l’époque, ni la Sécurité sociale, ni la CMU (Couverture maladie universelle) qui vient d’être instaurée, ne couvre les frais d’obsèques pour les plus pauvres. « On a dû monter au créneau pour changer la loi et forcer les communes à reprendre leur rôle d’enterrement des indigents », rappelle cette militante.

  • A Mayotte, le croque-mort de l’île entrepose les corps dans son jardin
    https://www.nouvelobs.com/societe/20180314.OBS3560/a-mayotte-le-croque-mort-de-l-ile-entrepose-les-corps-dans-son-jardin.htm

    Cela fait plus de dix ans qu’il est tenu, sous réquisition des pouvoirs publics, de prendre en charge les dépouilles qui n’ont pas trouvé de place dans les deux casiers de l’hôpital public de #Mamoudzou, la préfecture, les seuls à disposition pour toute l’île (auxquels il faut ajouter un container frigorifique d’appoint). Mayotte, département de 256.000 habitants, la plus forte densité de population de la France d’outre-mer, ne dispose d’aucune chambre mortuaire.

    Cette situation est totalement hallucinante. Et après, Macron ose aller pérorer dans les territoires d’outre-mer en lançant à qui veut l’entendre qu’il y a une égalité de traitement. Du colonialisme pur et dur !
    #pompes_funèbres #Mayotte #mort #enterrement #colonialisme

  • Mise en examen du gérant de #pompes_funèbres qui avait enlevé le corps d’un défunt | SOS conso
    http://sosconso.blog.lemonde.fr/2014/01/15/mise-en-examen-du-gerant-de-pompes-funebres-qui-avait-enleve-l

    Relevé dans les commentaires :

    comme si il fallait un certain nombre de plaintes pour que l’institution commence à bouger…

    http://www.afif.asso.fr/francais/conseils/conseil13.html

    #chantage #rocambolesque #dépasser_la_fiction #préfecture #institution #arnaque #escroc #croque_mort