• Cassazione, dare i migranti ai guardiacoste di Tripoli è reato

    La consegna di migranti alla guardia costiera libica è reato perché la Libia «non è porto sicuro».

    E’ quanto sancisce una sentenza della Corte di Cassazione che ha reso definitiva la condanna del comandante del rimorchiatore #Asso_28 che il 30 luglio del 2018 soccorse 101 persone nel Mediterraneo centrale e li riportò in Libia consegnandoli alla Guardia costiera di Tripoli. Della sentenza scrive Repubblica.

    Per i supremi giudici favorire le intercettazioni dei guardiacoste di Tripoli rientra nella fattispecie illecita «dell’abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci e di sbarco e abbandono arbitrario di persone». Nella sentenza viene sostanzialmente sancito che l’episodio del 2018 fu un respingimento collettivo verso un Paese non ritenuto sicuro vietato dalla Convenzione europea per i diritti umani.

    Casarini, dopo Cassazione su migranti pronti a #class_action

    "Con la sentenza della Corte di Cassazione, che ha chiarito in maniera definitiva che la cosiddetta «guardia costiera libica» non può «coordinare» nessun soccorso, perché non è in grado di garantire il rispetto dei diritti umani dei naufraghi, diventa un reato grave anche ordinarci di farlo, come succede adesso. Ora metteremo a punto non solo i ricorsi contro il decreto Piantedosi, che blocca per questo le navi del soccorso civile, ma anche una grande class action contro il governo e il ministro dell’Interno e il memorandum Italia-Libia". E’ quanto afferma Luca Casarini della ong Mediterranea Saving Humans.

    "Dovranno rispondere in tribunale delle loro azioni di finanziamento e complicità nelle catture e deportazioni che avvengono in mare ad opera di una «sedicente» guardia costiera - aggiunge Casarini -, che altro non è che una formazione militare che ha come compito quello di catturare e deportare, non di «mettere in salvo» le donne, gli uomini e i bambini che cercano aiuto. La suprema corte definisce giustamente una gravissima violazione della Convenzione di Ginevra, la deportazione in Libia di migranti e profughi che sono in mare per tentare di fuggire da quell’inferno". Casarini ricorda, inoltre, che di recente la nave Mare Jonio di Mediterranea "di recente è stata colpita dal fermo amministrativo del governo per non aver chiesto alla Libia il porto sicuro. Proporremo a migliaia di cittadini italiani, ad associazioni e ong, di sottoscrivere la «class action», e chiederemo ad un tribunale della Repubblica di portare in giudizio i responsabili politici di questi gravi crimini. Stiamo parlando di decine di migliaia di esseri umani catturati in mare e deportati in Libia, ogni anno, coordinati di fatto da Roma e dall’agenzia europea Frontex.

    E il ministro Piantedosi, proprio ieri, l’ha rivendicato testimoniando al processo a Palermo contro l’allora ministro Salvini. Lui si è costruito un alibi, con la distinzione tra centri di detenzione legali e illegali in Libia, dichiarando che «l’Italia si coordina con le istituzioni libiche che gestiscono campi di detenzione legalmente. Finalmente questo alibi, che è servito fino ad ora a coprire i crimini, è crollato grazie al pronunciamento della Cassazione. Adesso questo ministro deve essere messo sotto processo, perché ha ammesso di avere sistematicamente commesso un reato, gravissimo, che ha causato morte e sofferenze a migliaia di innocenti».

    https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2024/02/17/cassazione-dare-i-migranti-a-guardiacoste-di-tripoli-e-reato_cfcb3461-c654-4f3c

    #justice #migrations #asile #réfugiés #frontières #gardes-côtes_libyens #Libye #jurisprudence #condamnation #externalisation #pull-backs #refoulements #push-backs #cour_de_cassation #cassation #port_sûr

    • Sentenza Cassazione: Consegnare gli immigranti alla guardia costiera libica è reato

      La Libia è un paese canaglia: bocciati Minniti, Conte e Meloni. Dice la sentenza della Cassazione, è noto che in Libia i migranti subiscono vessazioni, violenze e tortura. Quindi è un reato violare la legge internazionale e il codice di navigazione che impongono di portare i naufraghi in un porto sicuro

      Il governo italiano (sia questo in carica sia quelli di centrosinistra che avevano Marco Minniti come ministro dell’interno) potrebbe addirittura finire sotto processo sulla base di una sentenza emessa dalla Corte di Cassazione.

      Dice questa sentenza che la Libia non è un porto sicuro, e che dunque non si possono consegnare alla Libia (o favorire la cattura da parte delle motovedette libiche) le persone salvate da un naufragio.

      Dice la sentenza, è noto che in Libia i migranti subiscono vessazioni, violenze e tortura. Quindi è un reato violare la legge internazionale e il codice di navigazione che impongono di portare i naufraghi in un porto sicuro.

      Che la Libia non fosse un porto sicuro era stranoto. Bastava non leggere i giornali italiani per saperlo. La novità è che questa evidente verità viene ora formalmente affermata con una sentenza della Cassazione che fa giurisprudenza. E che, come è del tutto evidente, mette in discussione gli accordi con la Libia firmati dai governi di centrosinistra e poi confermati dai governi Conte e infine dai governi di centrodestra.

      Accordi che si basarono persino sul finanziamento italiano e sulla consegna di motovedette – realizzate a spese del governo italiano – alle autorità di Tripoli. Ora quegli accordi devono essere immediatamente cancellati e in linea di principio si potrebbe persino ipotizzare l’apertura di processi (se non è scattata la prescrizione) ai responsabili di quegli accordi.

      I reati per i quali la Cassazione con questa sentenza ha confermato la condanna al comandante di una nave che nel luglio del 2018 (governo gialloverde, Salvini ministro dell’Interno) consegnò alla guardia costiera libica 101 naufraghi salvati in mezzo al Mediterraneo sono “abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci, e di sbarco e abbandono arbitrario di persone”. La Cassazione ha dichiarato formalmente che la Libia non è un porto sicuro.

      Tutta la politica dei respingimenti a questo punto, se dio vuole, salta in aria. La Cassazione ha stabilito che bisogna tornare allo Stato di diritto, a scapito della propaganda politica. E saltano in aria anche i provvedimenti recentemente adottati dalle autorità italiane sulla base del decreto Spazza-naufraghi varato circa un anno fa dal governo Meloni.

      Ancora in queste ore c’è una nave della Ocean Viking che è sotto fermo amministrativo perché accusata di non aver seguito le direttive impartite dalle autorità libiche. Ovviamente dovrà immediatamente essere dissequestrata e forse c’è anche il rischio che chi ha deciso il sequestro finisca sotto processo. Inoltre bisognerà restituire la multa e probabilmente risarcire il danno.

      E quello della Ocean Viking è solo uno di numerosissimi casi. Certo, perché ciò avvenga sarebbe necessaria una assunzione di responsabilità sia da parte del Parlamento sia da parte della magistratura. E le due cose non sono probabilissime.

      https://www.osservatoriorepressione.info/sentenza-cassazione-consegnare-gli-immigranti-alla-guardia

    • Italy’s top court: Handing over migrants to Libyan coast guards is illegal

      Italy’s highest court, the Cassation Court, has ruled that handing over migrants to Libyan coast guards is unlawful because Libya does not represent a safe port. The sentence could have major repercussions.

      Handing over migrants rescued in the Central Mediterranean to Tripoli’s coast guards is unlawful because Libya is not a safe port and it is conduct which goes against the navigation code, the Cassation Court ruled on February 17. The decision upheld the conviction of the captain of the Italian private vessel Asso 28, which, on July 30, 2018, rescued 101 individuals in the central Mediterranean and then handed them over to the Libyan coast guards to be returned to Libya.

      The supreme court judges ruled in sentence number 4557 that facilitating the interception of migrants and refugees by the Libyan coast guards falls under the crime of “abandonment in a state of danger of minors or incapacitated people and arbitrary disembarkation and abandonment of people.” This ruling effectively characterizes the 2018 incident as collective refoulement to a country not considered safe, contravening the European Convention on Human Rights.

      NGOs announce class action lawsuit

      Beyond its political implications, the Cassation’s decision could significantly impact ongoing legal proceedings, including administrative actions. NGOs have announced a class action lawsuit against the government, the interior minister, and the Italy-Libya memorandum.

      The case, which was first examined by the tribunal of Naples, focuses on the intervention of a trawler, a support ship for a platform, to rescue 101 migrants who were on a boat that had departed from Africa’s coast.

      According to investigators, the ship’s commander was asked by personnel on the rig to take on board a Libyan citizen, described as a “Libyan customs official”, who suggested sailing to Libya and disembarking the rescued migrants.

      The supreme court judges said the defendant “omitted to immediately communicate, before starting rescue operations and after completing them, to the centres of coordination and rescue services of Tripoli and to the IMRCC (Italian Maritime Rescue Coordination Centre) of Rome, in the absence of a reply by the first,” that the migrants had been rescued and were under his charge.

      The Cassation ruled that, by operating in this way, the commander violated “procedures provided for by the International Convention for the Safety of Life at Sea (SOLAS) and by the directives of the International Maritime Organization,” thus carrying out a “collective refoulement to a port deemed unsafe like Libya.”

      Furthermore, the Cassation emphasized the commander’s obligation to ascertain whether the migrants wanted to apply for asylum and conduct necessary checks on accompanying minors.
      ’Cassation should not be interpreted ideologically on Libya’, Piantedosi

      “Italy has never coordinated and handed over to Libya migrants rescued in operations coordinated or directly carried out by Italy,” Interior Minister Matteo Piantedosi said on February 19, when asked to comment the Cassation’s ruling. “That sentence must be read well — sentences should never be interpreted in a political or ideological manner,” he said.

      Piantedosi contextualized the ruling within the circumstances prevailing in Libya at the time, citing efforts to assist Libya with EU cooperation. He highlighted the government’s adherence to principles governing repatriation activities and concluded by saying “there can be no spontaneity” and that “coordination” is essential.

      https://twitter.com/InfoMigrants/status/1759901204501438649?t=ZlLRzR3-jQ0e6-y0Q2GPJA

  • Au port de Marseille, les « effets immédiats » des tensions en mer Rouge
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/01/22/au-port-de-marseille-les-effets-immediats-des-tensions-en-mer-rouge_6212330_


     Le « CMA CGM Palais Royal », le plus grand porte-conteneurs au monde, dans la baie de Marseille, le 14 décembre 2023. CHRISTOPHE SIMON / AFP

    « Globalement, ce n’est pas bon pour nous », reconnaît, de son côté, le président du directoire, Hervé Martel, qui redoute que le détour imposé pousse les #armateurs à privilégier les ports du nord de l’Europe, au détriment de la Méditerranée. Autre crainte partagée par la place portuaire : la possibilité de voir les plus gros #porte-conteneurs passés ces derniers jours par le cap de Bonne-Espérance débarquer l’essentiel de leur chargement avant Marseille. « Les ports marocains pourraient monter en puissance, avec des effets de transbordement », note Christophe Castaner. Alors desservi par des unités plus petites qui caboteraient en #Méditerranée, le Grand #Port maritime de #Marseille se verrait ainsi privé d’une partie du volume de conteneurs qu’il traite habituellement.
    Les retards dans les escales ont déjà des effets sur les métiers du GPMM, notamment sur les bassins ouest, dévolus aux marchandises. Les pilotes, habitués à guider une moyenne de cinq porte-conteneurs géants par semaine, ont vu cette partie de leur activité s’effacer pendant une vingtaine de jours. Chez les dockers, les conséquences sont encore plus brutales.

    « Depuis le début de 2024, nous en sommes à six jours de travail », assure Christophe Claret, responsable CGT des dockers de Marseille-Fos. « On nous promet des arrivées pour ce week-end et lundi [22 janvier], et un rattrapage pour fin janvier. Mais le mois va être maigre », note le syndicaliste, qui prédit déjà des effets financiers sur l’ensemble de l’environnement portuaire si la baisse d’activité était amenée à se poursuivre.

    Augmentation des tarifs de fret

    « Tous les secteurs sont touchés par les retards, mais ce sont surtout les activités qui fonctionnent à flux tendu qui subissent des conséquences, analyse Jean-François Suhas, pilote et président du conseil de développement du GPMM. Pour les vracs liquides ou solides, il y a des stocks. Mais il y aura des ruptures ou des délais d’attente allongés pour certains produits comme les voitures, dont beaucoup sont produites en Asie. »

    « Actuellement, on a plus de questions que de certitudes », avance prudemment M. Martel. Amal Louis, directrice du développement commercial du Grand Port maritime de Marseille, s’interroge sur les réactions des armateurs : « Vont-ils mettre plus de navires pour maintenir leur capacité de transport sur un trajet allongé ? Marseille va-t-il perdre des rotations ? » Déjà les professionnels du transport maritime ont augmenté leurs tarifs de fret, jusqu’à doubler le coût du conteneur entre Asie et Europe, pour prendre en compte le déroutage d’une partie de leurs navires.

    _CMA_CGM, dont le siège mondial est à Marseille, applique ses hausses depuis le 15 janvier. En début de mois, les rebelles houthistes ont annoncé avoir pris pour cible Le Tage, l’un des porte-conteneurs du géant français du transport maritime. Arrivé jeudi 18 janvier dans le port de Constanta (Roumanie), il n’a, selon son propriétaire, subi aucun incident. CMA CGM, qui a détourné une quarantaine de ses navires au plus fort de la menace en #mer_Rouge, mi-décembre, a décidé de continuer à faire passer ses bateaux par la mer Rouge et le canal de Suez, sous la protection de la marine française. Un choix assumé pour continuer d’alimenter les ports méditerranéens, et donc Marseille.
    Gilles Rof(Marseille, correspondant)

    https://justpaste.it/2u8kz

    #port_de_Marseille

  • L’État bourgeois, à quoi ça sert ?

    […] En mai 2020, le grand armateur tricolore #CMA_CGM obtenait, après les premiers coups de boutoir du Covid sur l’économie mondiale, un prêt de 1,05 milliard, garanti à 70 % par l’Etat, auprès de son pool bancaire traditionnel. Grâce à ces taux de fret record, le troisième armateur mondial a encaissé des #bénéfices colossaux dès 2021. Au premier semestre 2022, les bénéfices du troisième #armateur mondial ont quelque chose d’irréel : 14,7 milliards de dollars sur la période, soit presque autant que le profit déjà massif (18 milliards de dollars) encaissé durant toute l’année précédente. Autrement dit, une marge d’Ebitda représentant 50 % du chiffre d’affaires. La fortune personnelle de son PDG et propriétaire, #Rodolphe_Saadé, est passée de 6 à 36 milliards d’euros. La famille Saadé qui contrôle 73 % du groupe de #transport aurait encaissé plus de deux milliards de dividendes rien qu’en 2022, alors qu’elle se contentait précédemment, bon an mal an, de 50 millions annuels… Le personnel du groupe n’est d’ailleurs pas oublié : Rodolphe Saadé lui a promis un bonus de dix semaines, supérieur à celui de 2021. […] De ces nouveaux milliards encaissés, Rodolphe Saadé trouve vite l’usage. […] Le spécialiste du #transport_de_conteneurs vole ainsi au secours d’#Air_France-KLM en mai 2022, reprenant 9 % du capital en échange d’une coopération sur le fret aérien. Puis il absorbe #Gefco, le spécialiste du transport de voitures créé par Peugeot, en délicatesse avec son actionnaire public russe RZD, et renfloue #Brittany_Ferries sur le transmanche. Plus loin de ses bases, il mène une incursion dans la #presse, avec le rachat de #La_Provence, sans oublier son voisin sudiste Colis Privé pour la logistique du dernier kilomètre. A l’international également, les initiatives se succèdent : la promesse, hautement symbolique pour la famille, de remise en état du #port_de_Beyrouth, dévasté par l’explosion d’août 2020, les rachats de terminaux portuaires en Inde ou aux Etats-Unis (Los Angeles, New York)… Jusqu’à l’entrée au capital d’Eutelsat (5, puis 10 %), une société dont les satellites peuvent utilement guider les navires, donc rassurer les clients sur les délais d’acheminement de la marchandise. […]

    (Les Échos)

  • « Le village de Bamboula »
    https://france3-regions.francetvinfo.fr/pays-de-la-loire/loire-atlantique/documentaire-le-village-de-bamboula-l-indecence-pavee-d
    https://france3-regions.francetvinfo.fr/image/3NncEZFWJqyMu7as5_EF3t5RJ88/930x620/regions/2022/01/04/61d4abc9433bd_1-le-village-de-bamboula-c-yves-forestier

    En 1994, 25 hommes, femmes et enfants ont vécu six mois retenus dans un parc animalier à Port Saint-Père dans la relative indifférence de la société de l’époque, avec la bénédiction des pouvoirs publics. Cette histoire est liée à celle d’un biscuit chocolaté vendu dans les années 80 : Bamboula.

    j’ignorais totalement cette histoire, on m’a parlé du #docu le we dernier

    #zoo_humain

  • #Tunisie - #Blocage du #port de #Zarzis en signe de #protestation contre les #garde-côtes_libyens.

    Depuis une semaine, les #pêcheurs membres de l’association #Zarzis_Le_Pêcheur - #Al_Bahar (de la ville côtière de Zarzis au sud-est de la Tunisie, à la frontière avec la Libye) bloquent leur #port_de_pêche et lancent un #appel urgent à l’aide aux autorités tunisiennes. Comme expliqué dans un communiqué, les petits pêcheurs demandent aux autorités tunisiennes de les protéger et de les secourir pour ce qu’ils décrivent comme des actes de #piraterie commis par les garde-côtes libyens dans les eaux territoriales et la zone de recherche et de sauvetage (#SAR) de la Tunisie.

    Les pêcheurs de Zarzis travaillent dans les #eaux_internationales entre l’Italie, la Tunisie et la Libye. Bien avant les révolutions de 2011, ils secourent en mer les personnes migrantes parties depuis la Libye dans des bateaux surchargés et délabrés. L’#enlèvement de pêcheurs tunisiens (et autres) par divers groupes armés libyens, souvent afin d’obtenir un rançon, n’est pas un phénomène nouveau. Récemment, cependant, les #enlèvements avec armes à feu, les #détournements_de_bateaux et les demandes de #rançon ont augmenté. Depuis cet été, les garde-côtes libyens - notamment de #Zawiya, selon les pêcheurs de Zarzis - opèrent dans la zone de Sar et dans les #eaux_territoriales_tunisiennes pour intercepter et renvoyer les migrants en Libye, comme convenu avec l’Italie et l’Union européenne. Des bateaux des garde-côtes libyens ont également été repérés dans d’autres localités tunisiennes plus au nord, près de la ville de #Mahdia.

    À la suite de ces attaques, les pêcheurs hésitent de plus en plus à divulguer leur emplacement pour signaler les bateaux en difficulté, de peur d’être également kidnappés à l’arrivée des soi-disant garde-côtes libyens. Les pêcheurs demandent l’aide des ONG pour porter secours en Méditerranée et la protection de l’Etat tunisien. Nous publions ci-dessous le communiqué de l’Association Zarzis Le Pêcheur - Al Bahar, traduit par Issameddinn Gammoudi et Valentina Zagaria.

    Pêcheurs de Zarzis : le secteur de la pêche est en train de mourir à cause d’un #accord_international injuste et de l’absence d’une politique nationale

    Les pêcheurs de Zarzis souffrent constamment, non seulement en raison de l’insuffisance des infrastructures portuaires, de la faiblesse de l’assistance, des répercussions de la situation politique dans les pays voisins, de la dégradation de l’environnement et de son impact sur la vie marine, mais aussi en raison des récentes opérations de piraterie et des #menaces armées contre les pêcheurs tunisiens dans les #eaux_territoriales_tunisiennes, commises par des hommes armés se réclamant des garde-côtes libyens. Ces pratiques sont devenues fréquentes, notamment l’enlèvement de personnes, la saisie illégale de bateaux et la négociation de rançons.
    En tant qu’association qui défend les intérêts professionnels légitimes et communs des pêcheurs, nous lançons un appel aux autorités, sous la direction de la Présidence de la République, pour qu’elles interviennent d’urgence et résolvent cette crise qui non seulement menace la continuité de la pêche mais s’est transformée en une violation de la souveraineté nationale :

    – Nous considérons les structures du ministère de l’agriculture, du ministère des affaires étrangères, du ministère de la défense et de la présidence du gouvernement pour responsables de la situation catastrophique produite par l’accord signé entre l’Union européenne, Malte, la Tunisie et la Libye. Nous considérons également que cet accord constitue une violation de la souveraineté nationale de l’État tunisien sur son territoire maritime, qui a imposé des restrictions injustes aux pêcheurs tunisiens, contrairement à leurs homologues des pays voisins.
    – Nous demandons à la marine tunisienne et à la garde maritime nationale tunisienne de jouer leur rôle en protégeant les navires de pêche tunisiens qui ont également été attaqués dans les eaux territoriales tunisiennes par des groupes se réclamant des garde-côtes libyens.
    – Nous considérons les structures étatiques en charge du contrôle de la pêche aveugle et interdite responsables de la faible rentabilité et exigeons le respect du droit à une vie digne des pêcheurs tunisiens du sud-est du pays.
    – Nous appelons à une action urgente de toutes les autorités concernées pour protéger les bateaux tunisiens et les marins tunisiens dans le territoire maritime tunisien, une protection qui devrait être la composante la plus fondamentale de l’autorité de l’État sur son territoire.

    La crise mondiale et ses répercussions s’ajoutent à toutes ces circonstances, qui ont contribué à la détérioration de l’activité de pêche dans la région et nous obligent à lancer un appel à l’aide pour tenter de préserver la durabilité du secteur à Zarzis et dans tout le sud-est du pays.

    Association Zarzis Le Pêcheur - Al Bahar pour le développement et l’environnement
    Slaheddine Mcharek, Président

    Version originale en italien :
    https://www.globalproject.info/it/mondi/tunisia-blocco-del-porto-di-zarzis-in-protesta-contro-la-guardia-costiera-libica/23667

    –-> traduction reçu via la mailing-list Migreurop, le 15.09.2021

    #migrations #asile #réfugiés #externalisation #frontières #Italie #UE #EU #contrôles_frontaliers

    ping @rhoumour @isskein @_kg_

  • Villes et pays continuent d’être rebaptisés en Afrique afin d’effacer le lien colonial

    En #Afrique_du_Sud, #Port_Elizabeth s’appellera désormais #Gqeberha. Les changements de nom de lieux sont étroitement liés à la #décolonisation ou aux fluctuations de régime politique.

    L’Afrique n’est pas une exception. De tout temps, les changements de toponymie ont été des marqueurs de l’histoire, souvent pour la gloire des vainqueurs, avec la volonté de tourner la page d’un passé fréquemment honni. L’exemple de l’Afrique du Sud, qui vient d’entériner le remplacement du nom de la ville de Port Elizabeth, illustre la volonté d’effacer le passé colonial du pays. Celle-ci portait en effet le nom de l’épouse du gouverneur du Cap, Sir Rufane Donkin, « fondateur » de la ville en 1820, à l’arrivée de quelques 4 000 migrants britanniques.

    Les initiateurs de ce changement de toponymie le revendiquent. Rebaptiser la ville est une manière d’inscrire le peuple noir dans l’histoire du pays et de rendre leur dignité aux communautés noires. Port Elizabeth s’appelle désormais Gqeberha qui est le nom, en langue Xhosa, de la rivière qui traverse la ville, la #Baakens_River. Mais c’est aussi et surtout le nom d’un de ses plus vieux Townships.

    #Uitenhage devient #Kariega

    La ville voisine d’Uitenhage est elle aussi rebaptisée Kariega. Les tenants de ce changement ne voulaient plus de référence au fondateur de la ville, #Jacob_Glen_Cuyler. « Nous ne pouvons pas honorer cet homme qui a soumis notre peuple aux violations des droits de la personne les plus atroces », explique Christian Martin, l’un des porteurs du projet.

    https://www.youtube.com/watch?v=TJLmPSdNh-k&feature=emb_logo

    Jusqu’à présent, rebaptiser les villes en Afrique du Sud s’était fait de façon indirecte, notamment en donnant un nom à des métropoles urbaines qui en étaient jusqu’ici dépourvues. Ainsi, Port Elizabeth est-elle la ville centre de la Métropole de #Nelson_Mandela_Bay, qui rassemble plus d’un million d’habitants.

    Si Pretoria, la capitale de l’Afrique du Sud, a conservé son nom, la conurbation de près de trois millions d’habitants et treize municipalités créée en 2000 s’appelle #Tshwane. Quant à #Durban, elle appartient à la métropole d’#eThekwini.

    Un changement tardif

    Ces changements de nom se font tardivement en Afrique du Sud, contrairement au reste du continent, parce que quoiqu’indépendante depuis 1910, elle est restée contrôlée par les Blancs descendants des colonisateurs. Il faudra attendre la fin de l’apartheid en 1991 et l’élection de Nelson Mandela à la tête du pays en 1994 pour que la population indigène se réapproprie son territoire.

    Pour les mêmes raisons, la #Rhodésie_du_Sud ne deviendra le #Zimbabwe qu’en 1980, quinze ans après l’indépendance, lorsque le pouvoir blanc des anciens colons cédera la place à #Robert_Mugabe.
    Quant au #Swaziland, il ne deviendra #eSwatini qu’en 2018, lorsque son fantasque monarque, #Mswati_III, décidera d’effacer la relation coloniale renommant « le #pays_des_Swatis » dans sa propre langue.

    Quand la politique rebat les cartes

    Une période postcoloniale très agitée explique aussi les changements de nom à répétition de certains Etats.

    Ainsi, à l’indépendance en 1960, #Léopoldville capitale du Congo est devenue #Kinshasa, faisant disparaître ainsi le nom du roi belge à la politique coloniale particulièrement décriée. En 1965, le maréchal #Mobutu lance la politique de « #zaïrisation » du pays. En clair, il s’agit d’effacer toutes traces de la colonisation et de revenir à une authenticité africaine des #patronymes et toponymes.

    Un #Zaïre éphémère

    Le mouvement est surtout une vaste opération de nationalisation des richesses, détenues alors par des individus ou des compagnies étrangères. Le pays est alors renommé République du Zaïre, ce qui a au moins le mérite de le distinguer de la #République_du_Congo (#Brazzaville), même si le nom est portugais !

    Mais l’appellation Zaïre était elle-même trop attachée à la personnalité de Mobutu. Et quand le dictateur tombe en 1997, le nouveau maître Laurent-Désiré Kabila s’empresse de rebaptiser le pays en République démocratique du Congo. Là encore, il s’agit de signifier que les temps ont changé.

    Effacer de mauvais souvenirs

    Parfois le sort s’acharne, témoin la ville de #Chlef en #Algérie. Par deux fois, en 1954 puis en 1980, elle connaît un séisme destructeur. En 1954, elle s’appelle encore #Orléansville. Ce nom lui a été donné par le colonisateur français en 1845 à la gloire de son #roi_Louis-Philippe, chef de la maison d’Orléans.

    En 1980, l’indépendance de l’Algérie est passée par là, la ville a repris son nom historique d’#El_Asnam. Le 10 octobre 1980, elle est une nouvelle fois rayée de la carte ou presque par un terrible #tremblement_de_terre (70% de destruction). Suite à la catastrophe, la ville est reconstruite et rebaptisée une nouvelle fois. Elle devient Chlef, gommant ainsi les références à un passé dramatique...

    https://www.francetvinfo.fr/monde/afrique/societe-africaine/villes-et-pays-continuent-d-etre-rebaptises-en-afrique-afin-d-effacer-l

    #colonisation #colonialisme #noms_de_villes #toponymie #toponymie_politique #Afrique

  • #Maria_Uva
    Je découvre Maria Uva en lisant le #livre « #Sangue_giusto » de #Francesca_Melandri (en italien) :

    https://bur.rizzolilibri.it/libri/sangue-giusto-2

    sur le livre voir aussi ce fil de discussion :
    https://seenthis.net/messages/904517
    –—

    Era nota col nomignolo di «l’#animatrice_di_Said». Maria era nata in Francia a Villeneuve, presso Lourdes, nella famiglia De Luca, d’origine piemontese. Suo marito, Pasquale Uva, era nato invece in Egitto da genitori pugliesi.

    Avendo intrapreso corsi da soprano, Maria Uva accompagnava le navi dei coloni italiani che passavano nel Canale di Suez per la guerra d’Etiopia del 1935-36 con inni patriottici.

    Ben presto la sua divenne una vera e propria organizzazione con la collaborazione del marito e del resto della comunità italiana in Egitto. La Uva e i «suoi» fornirono ai soldati italiani ogni genere di conforto sia economico che morale.

    Per questo la donna ebbe molto spesso problemi con la comunità inglese presente sul suolo e fu costretta a trasferirsi in Italia nel 1937.

    Finita la guerra, Maria Uva si trovò in una profonda crisi finanziaria che però ebbe termine grazie all’aiuto di un diplomatico francese che aiutò il marito a trovare un nuovo lavoro.

    Umberto II dall’esilio conferì a Maria Uva l’onorificenza di «Dama della Corona d’Italia».

    Maria Uva è morta all’età di 97 anni.

    https://it.m.wikipedia.org/wiki/Maria_Uva

    #musique #chansons #musique_et_politique #fascisme #colonialisme #histoire #patriotisme #guerre_d'Ethiopie #Italie #musique_et_fascisme #Canal_de_Suez #Port_Said #colonialisme_italien

    ping @sinehebdo @olivier_aubert

    • En fait, Maria Uva était une chanteuse qui chantait des chants patriotiques (et fascistes) au passage des soldats italiens à travers le canal de Suez... et qui rejoignaient l’Erythrée et l’Ethiopie...
      Mais j’ai pas trouvé des enregistrements d’elle... peut-être le lien est un peu faible ;-)

    • Et en voici une autre :
      #Africanina

      Tre conti son già stati regolati
      Con #Adua, #Macallè ed #Amba_Alagi
      Tra poco chiuderemo la partita
      Vincendo la gloriosa impresa ardita.

      Pupetta mora, africanina,
      Tu della libertà sarai regina
      Col legionario liberatore
      Imparerai ad amare il tricolore

      Due ottobre ricordatelo a memoria
      Nell’Africa Orientale avrà una storia
      Romana civiltà questa è missione
      Ed ha fiorito cento e una canzone

      Pupetta mora, africanina
      Saprai baciare alla garibaldina
      Col bel saluto alla romana
      Sarai così una giovane Italiana

      Avanti Italia nuova che sia gloria
      All’armi tu e volontà vittoria
      Vittoria contro i barbari abissini
      E contro i sanzionisti ginevrini

      Pupetta mora, africanina
      Piccolo fiore di orientalina
      Labbra carnose dolce pupilla
      Tutti i tuoi figli si chiameran #Balilla

      Labbra carnose dolce pupilla
      Tutti i tuoi figli si chiameran Balilla

      https://www.youtube.com/watch?v=jKM9TquhLlo

      #chansons_coloniales

    • Et encore une...
      #Fischia_il_sasso (#Inno_dei_balilla)

      Fischia il sasso, il nome squilla
      del ragazzo di Portoria,
      e l’intrepido #Balilla
      sta gigante nella storia.

      Era bronzo quel mortaio
      che nel fango sprofondò
      ma il ragazzo fu d’acciaio
      e la madre liberò.

      Fiero l’occhio, svelto il passo
      chiaro il grido del valore.
      Ai nemici in fronte il sasso,
      agli amici tutto il cuor.

      Fiero l’occhio, svelto il passo
      chiaro il grido del valore.
      Ai nemici in fronte il sasso
      agli amici tutto il cuor.

      Sono baldi aquilotti
      come sardi tamburini
      come siculi picciotti
      o gli eroi garibaldini.

      Vibra l’alma lì nel petto
      sitibonda di virtù,
      dell’Italia il gagliardetto
      e nei fremiti sei tu.

      Fiero l’occhio, svelto il passo
      chiaro il grido del valore.
      Ai nemici in fronte il sasso,
      agli amici tutto il cuor.

      Fiero l’occhio, svelto il passo
      chiaro il grido del valore.
      Ai nemici in fronte il sasso
      agli amici tutto il cuor.

      Siamo nembi di sementi,
      siamo fiamme di coraggio:
      per noi canta la sorgente,
      per noi brilla e ride maggio.

      Ma se un giorno la battaglia
      Alpi e mare incendierà,
      noi saremo la mitraglia
      della santa Libertà.

      Fiero l’occhio, svelto il passo
      chiaro il grido del valore.
      Ai nemici in fronte il sasso,
      agli amici tutto il cuor.

      Fiero l’occhio, svelto il passo
      chiaro il grido del valore.
      Ai nemici in fronte il sasso
      agli amici tutto il cuor.

      https://www.youtube.com/watch?v=cfo0sXxIcHE

      Igiaba Scego, dans le livre Roma negata , en parle ainsi :

      «Ci ho messo del tempo a capire che quella canzonetta (che confesso mi piaceva pure da piccoletta per la sua cadenza marziale un po’ zmpappà zumpappà) non era una ninna nanna, ma uno dei peggiori prodotti del fascismo più becero.»

      (p.102)

    • #Tripoli bel suol d’amore

      https://www.youtube.com/watch?v=yslUUVO2Rnc

      https://www.youtube.com/watch?v=BjoS5tfaDkU

      Sai dove s’annida più florido il suol?
      Sai dove sorride più magico il sol?
      Sul mar che ci lega con l’Africa d’or,
      la stella d’Italia ci addita un tesor.
      Ci addita un tesor!

      Tripoli, bel suol d’amore,
      ti giunga dolce questa mia canzon!
      Sventoli il tricolore
      sulle tue torri al rombo del cannon!
      Naviga, o corazzata:
      benigno è il vento e dolce la stagion.
      Tripoli, terra incantata,
      sarai italiana al rombo del cannon!

      A te, marinaro, sia l’onda sentier.
      Sia guida Fortuna per te, bersaglier.
      Và e spera, soldato, vittoria è colà,
      hai teco l’Italia che gridati:”Và!”

      Tripoli, bel suol d’amore,
      ti giunga dolce questa mia canzon!
      Sventoli il tricolore
      sulle tue torri al rombo del cannon!
      Naviga, o corazzata:
      benigno è il vento e dolce la stagion.
      Tripoli, terra incantata,
      sarai italiana al rombo del cannon!

      Al vento africano che Tripoli assal
      già squillan le trombe,
      la marcia real.
      A Tripoli i turchi non regnano più:
      già il nostro vessillo issato è lassù…

      Tripoli, bel suol d’amore,
      ti giunga dolce questa mia canzon!
      Sventoli il tricolore
      sulle tue torri al rombo del cannon!
      Naviga, o corazzata:
      benigno è il vento e dolce la stagion.
      Tripoli, terra incantata,
      sarai italiana al rombo del cannon!

  • Le Covid-19, nouveau danger pour les migrants en #Méditerranée

    Seul bateau humanitaire à opérer en ce moment, le « #Alan_Kurdi » cherche en vain un port pour débarquer 150 rescapés. Avec l’épidémie, l’Italie et Malte ont fermé leurs ports et disent n’être plus en mesure de mener des opérations de sauvetage.

    La scène est devenue d’une triste banalité. Depuis cinq jours, le bateau de sauvetage Alan Kurdi, de l’ONG allemande Sea-Eye, erre en Méditerranée entre Malte et l’île italienne de Lampedusa. Aucun des deux Etats n’est prêt à accueillir les 150 rescapés que le bateau a recueillis le 6 avril au large de la Libye. Avec l’épidémie de Covid-19 qui fait rage (plus de 18 000 morts en Italie, deux dans le petit archipel maltais), ils s’opposent même à un débarquement temporaire des migrants avant une relocalisation dans d’autres pays, alors que 150 villes allemandes se sont dites prêtes à accueillir des réfugiés, selon Sea-Eye. Rome aurait également refusé d’approvisionner le bateau en nourriture, médicaments et carburant.

    Le coronavirus et la fermeture du continent européen ont rendu les traversées de la Méditerranée plus risquées encore, et le travail des ONG plus difficile. Le Alan Kurdi est actuellement le seul navire humanitaire à patrouiller en Méditerranée centrale. Le bateau de l’ONG espagnole Open Arms est en réfection. Sea Watch et MSF ne sont pas retournés en mer après avoir été placés en quarantaine au large de l’Italie début mars.

    Fermeture des ports

    Après l’annonce du sauvetage effectué le 6 avril par le Alan Kurdi, et alors que le bateau demandait à l’Italie et à Malte une autorisation de débarquer, Rome et La Vallette ont choisi de fermer complètement leurs ports. Le 8 avril, le gouvernement italien annonçait que tant que l’état d’urgence sanitaire serait en vigueur, « les ports italiens ne pourraient être considérés comme "sûrs" pour le débarquement de navires battant pavillon étranger ». « A l’heure actuelle et en raison de l’épidémie de Covid-19, les ports ne présentent plus les conditions sanitaires nécessaires », a précisé le ministère des Transports.

    Malte a suivi le même chemin le 9 avril. « Il n’est actuellement pas possible d’assurer la disponibilité d’une zone sûre sur le territoire maltais sans mettre en danger l’efficacité des structures nationales de santé et de logistique », affirme le gouvernement, qui incite les migrants à ne pas tenter le voyage. « Il est de leur intérêt et de leur responsabilité de ne pas se mettre en danger en tentant un voyage risqué vers un pays qui n’est pas en mesure de leur offrir un abri sûr. »
    Selon l’agence européenne de surveillance des frontières, Frontex, les arrivées illégales en Europe ont diminué avec la pandémie, sans s’arrêter pour autant. Ainsi, 800 personnes ont quitté la Libye en mars, selon l’agence de l’ONU pour les réfugiés. De l’autre côté de la Méditerranée, 177 personnes ont débarqué en Italie entre le 2 et le 8 avril, selon l’OIM. « Nous avons constaté une augmentation des traversées cette semaine en Méditerranée centrale, probablement due à l’instabilité croissante en Libye et à un temps clément », précise une porte-parole d’Alarm Phone, ONG qui alerte les garde-côtes si elle repère des embarcations en détresse. Dans la nuit du 6 au 7 avril, 67 personnes ont ainsi réussi à atteindre Lampedusa par elles-mêmes après avoir dérivé plusieurs dizaines d’heures. Alertés, les garde-côtes italiens et maltais ne sont pas intervenus.

    Sabotage

    « Notre ligne d’urgence pour les personnes en détresse a constaté ces derniers jours un comportement de plus en plus irresponsable des garde-côtes européens. Les Maltais ou les Italiens n’interviennent pas toujours ou n’arrivent que très longtemps après les alertes », affirme Alarm Phone. L’ONG accuse les gardes-côtes de Malte d’avoir saboté le 9 avril un bateau transportant 70 personnes, qui se trouvait à 20 miles au sud-ouest de l’île. D’après un enregistrement consulté par le New York Times, les garde-côtes auraient coupé le câble d’alimentation du moteur. On y entend aussi l’un d’eux dire : « On va vous laisser mourir dans l’eau. Personne n’entre à Malte. » L’embarcation a finalement été secourue plusieurs heures plus tard.

    Avec la fermeture des ports, les garde-côtes devraient encore limiter leurs interventions. La Vallette a prévenu qu’elle ne serait plus en mesure de mener des missions de sauvetage. « Les personnes qui fuient la Libye devront rejoindre les points les plus méridionaux de Malte ou de l’Italie par elles-mêmes. C’est un pari extraordinairement risqué pour ces bateaux fragiles et trop chargés », s’inquiète Alarm Phone. « Malgré la pression que la pandémie fait peser sur tous les aspects de la société, nous sommes extrêmement préoccupés par ces décisions politiques qui, de fait, outrepassent le droit international.  Le débarquement des rescapés dans un lieu sûr est une obligation pour les capitaines de navire et les États ont la responsabilité juridique de coopérer à la désignation d’un lieu "sûr" approprié, rappelle une porte-parole de SOS Méditerranée.  Nous craignons que les gouvernements européens établissent une hiérarchie entre deux devoirs de priorité égale : sauver des vies à terre et sauver des vies en mer ».

    La situation est d’autant plus préoccupante que le nombre de traversées devrait repartir à la hausse, comme c’est habituellement le cas au printemps. Et pour la première fois, la marine libyenne pourrait refuser de pourchasser les migrants, là aussi en raison de la pandémie. Tripoli a suivi ses voisins du nord et déclaré ses propres ports « non sûrs ». Un bateau officiel des garde-côtes avec 280 rescapés à bord a été interdit d’aborder dans la capitale libyenne. Selon Sea-Eye, leurs collègues à terre exigent quant à eux des masques pour continuer les opérations d’interception.


    https://www.liberation.fr/planete/2020/04/10/le-covid-19-nouveau-danger-pour-les-migrants-en-mediterranee_1784859
    #ONG #sauvetage #Méditerranée #asile #migrations #réfugiés #Mer_Méditerranée #ports #ports_fermés #fermeture_des_ports #frontières #fermeture_des_frontières

    ping @thomas_lacroix

    • Les migrants abandonnés en Méditerranée

      Le navire humanitaire allemand Alan Kurdi est coincé en mer avec 150 personnes à bord, l’Italie et Malte ayant fermé leurs ports pour cause de coronavirus. En raison de la guerre qui sévit à Tripoli, la Libye refuse de faire débarquer sur son sol 280 migrants interceptés par les gardes-côtes libyens.
      Il n’y a plus de port en Méditerranée centrale prêt à accueillir les demandeurs d’asile sauvés en mer. Les bateaux humanitaires se trouvent pris en étau entre les ports italiens et maltais, fermés pour cause de coronavirus, et les ports libyens, qui se ferment également pour cause de guerre.

      L’Alan Kurdi, le bateau de l’ONG allemande Sea Eye, avait tout juste repris du service en mer depuis quelques heures, après plus d’un mois d’absence de navire humanitaire en Méditerranée, qu’il a été amené à secourir, lundi 6 avril au matin, 62 personnes qui avaient lancé un appel de détresse depuis leur embarcation de bois surchargée dans les eaux internationales au large de la Libye.

      L’ONG rapporte que pendant le sauvetage, un hors-bord battant pavillon libyen les a menacés en tirant des coups de feu en l’air. Pris de panique, la moitié des migrants se sont alors jetés à l’eau, mais ils ont pu être sauvés par l’équipage de l’Alan Kurdi.

      Les ports italiens décrétés « peu sûrs »

      Quelques heures plus tard, le bateau était amené à secourir une deuxième embarcation, avec 82 personnes à bord dont une femme enceinte. Selon l’ONG, le bateau italien de ravitaillement de plates-formes pétrolières Asso Ventinove, présent à proximité du bateau en détresse, avait refusé de procéder au sauvetage.

      En raison de la pandémie de Covid-19, les autorités italiennes et maltaises ont informé l’Allemagne qu’elles refusaient tout débarquement sur leurs côtes, même si une répartition des personnes sauvées entre les États européens était organisée. Le 7 avril, le gouvernement italien a publié un décret déclarant ses ports « peu sûrs » tant que durera l’urgence de santé publique.

      Depuis, l’Alan Kurdi reste en mer avec, à son bord, les 150 personnes secourues. Une nouvelle errance en Méditerranée qui rappelle la crise de l’été dernier, lorsque sous, l’impulsion de son ministre de l’intérieur d’extrême droite, Matteo Salvini, l’Italie avait fermé ses ports.

      Gorden Isler, président de Sea-Eye, veut croire que l’Allemagne saura leur venir en aide. « Le gouvernement fédéral a réussi à rapatrier 200 000 de ses propres citoyens de l’étranger dans un effort immense. Il doit être imaginable et humainement possible d’envoyer un avion pour 150 personnes en quête de sécurité en Europe du Sud », a-t-il plaidé.

      Une situation « tragique » à Tripoli

      De l’autre côté de la Méditerranée, la guerre bat son plein. Un an après le lancement, le 4 avril 2019, de l’offensive sur Tripoli par le maréchal Haftar et ses troupes de l’est libyen, le conflit a « dégénéré en une dangereuse et potentiellement interminable guerre par procuration alimentée par des puissances étrangères cyniques »,dénonçait la mission des Nations unies en avril dernier.

      Selon elle, 150 000 personnes ont été forcées de fuir leurs foyers, et près de 350 000 civils restent dans les zones de la ligne de front, sans compter 750 000 autres qui vivent dans les zones touchées par les affrontements. Pour la troisième fois de la semaine, l’hôpital Al-Khadra de Tripoli a été bombardé. « Des éclats d’obus ont touché une salle d’opération et un chirurgien en train d’opérer un patient », précise le journal The Libya observer.

      280 migrants bloqués au large de Tripoli

      En raison de l’intensification des bombardements, y compris sur le port de Tripoli, les autorités libyennes ont refusé, le 9 avril, de laisser débarquer 280 migrants interceptés par les gardes-côtes libyens contraints de rester à bord du bateau, a alerté l’Organisation internationale pour les migrations (OIM). L’OIM, présent au point de débarquement pour fournir une aide d’urgence, a jugé la situation « tragique ».

      Selon elle, au moins 500 migrants à bord de six bateaux ont quitté la Libye en une semaine en raison de l’intensification du conflit et de l’amélioration des conditions météorologiques. 150 d’entre eux se trouvent à bord de l’Alan Kurdi, et 177 sont arrivés en Italie (soit près de 3 000 depuis le début de l’année).

      « Le droit maritime international et les obligations en matière de droits de l’homme doivent être respectés pendant l’urgence Covid-19 », revendique l’OIM. « Le statu quo ne peut pas continuer », dénonce-t-elle, en réclamant « une approche globale de la situation en Méditerranée centrale ».

      https://www.la-croix.com/Monde/migrants-abandonnes-Mediterranee-2020-04-10-1201088875
      #port_sûr #ports_sûrs

    • L’Italie - par un décret signé par 4 ministres - annonce le 7 avril que l’Italie ne peut plus être considéré un #POS (#place_of_safety) pour les migrants interceptés par des bateaux battant pavillon étranger hors des eaux nationales.

      https://www.avvenire.it/c/attualita/Documents/M_INFR.GABINETTO.REG_DECRETI(R).0000150.07-04-2020%20(3).pdf

      Nombreuses les réaction de dénonciation de cette décision par la société civile

      –> l’appel du Tavolo Asilo (circulé hier sur la liste)
      –> l’appel des ong de sauvetage en mer https://mediterranearescue.org/news/ong-decreto-porto-sicuro

      –> un appel signé par parlementaires, sénateurs, conseillers régionaux et parlementaires européennes (de majorité gouvernementale)

      Hier Malte annonce aussi la fermeture de ses ports

      https://timesofmalta.com/articles/view/malta-says-it-cannot-guarantee-migrant-rescues.784571
      pour ensuite décider - hier à 22:30 - de laisser débarquer un bateau avec à bord 61 migrant(e)s 41 heures après avoir lancé un sos (source : alarm phone) https://twitter.com/alarm_phone/status/1248503658188140545

      Tripoli se déclare aussi un port non sure et refoulé un de ses propres motovedettes avec à bord 280 migrant(e)s, dont semblerait aussi femmes et enfants

      https://www.avvenire.it/amp/attualita/pagine/tripoli-si-dichiara-porto-non-sicuro-e-respinge-una-propria-motovedetta-con
      Selon l’OIM la Libye se déclare port non sures à cause de l’intensification du conflit qui toucherait aussi le port de Tripoli-
      Le Gouvernement de Al Serraj déclarait de ne avoir presque plus le control du port de Tripoli.

      Cette semaine serait autour de 500 les migrants partis des cotes libyennes. 67 ont pu arriver par leur moyen à Lampedusa, 150 sont toujours à bord du bateau Alan Kurdi (sans pouvoir trouver un port de débarquement) et les autres ont été interceptés par les « Gardes Cotes Libyennes ». 280 sont à bord d’une motovodette libyenne au large de Tripoli après etre en mer depuis 72heures.

      –-> Message de Sara Prestianni, reçu via la mailing-list Migreurop, le 10.04.2020

      #Malte #Libye

    • Migrants trapped on boat in Tripoli due to shelling

      The plight of 280 migrants trapped on a boat in Tripoli harbour due to shelling has shown that EU states and other regional powers needed “a comprehensive approach to the situation in the central Mediterranean,” the International Organisation for Migration, a UN agency, has said. The Libyan coast guard intercepted the migrants en route to Europe, but port authorities refused to let them disembark due to the intensity of fighting.

      https://euobserver.com/tickers/148047

    • The Covid-19 Excuse: Non-Assistance in the Central Mediterranean becomes the Norm

      The Covid-19 pandemic has allowed states to enact emergency measures which curtail the right and freedom to move, within Europe and beyond. While some measures seem justified in order to contain the spread of a dangerous virus, European authorities have used this health crisis to normalise the already existing practice of non-assistance at sea. In the central Mediterranean, the consequences are particularly devastating. These measures, implemented in the name of ‘saving lives’, have the opposite effect: people are left at serious risk of dying in distress at sea. Under the veil of the health crisis, European authorities are carrying out racist border security policies that make sea crossings even more dangerous and deadly.
      Over 1,000 people try to escape Libya in one week

      In only one week, 5-11 April 2020, over 1,000 people on more than 20 boats have left the Libyan shore. The Alarm Phone was alerted to 10 boats in total, two of which were rescued by Alan Kurdi on 6 April. Over 500 people are reported to have been returned to Libya within merely three days. Some of the survivors have informed us that six people drowned. Many of those returned were kept imprisoned on a ship at Tripoli harbour. Moreover, the fate of some boats remains unclear. At the same time, we have also learned of several other boats that reached Italy autonomously, arriving in Lampedusa, Sicily, Linosa and Pantelleria.

      At the time of writing, 14.30h CEST on 11 April, four boats are still in severe distress at sea. The Armed Forces of Malta refuse to rescue a boat in the Maltese Search and Rescue (SAR) zone. The people on board tell us: “People are without water, the pregnant woman is so tired, the child is crying, so thirsty. Please if you don’t want to save us give us at least water.”
      Creating a deadly Rescue Gap

      In the central Mediterranean, a dangerous rescue gap is actively being created. European coastguards and navies, as well as the so-called Libyan coastguards are stating that they will not engage in SAR activities. One civil rescue boat, the Alan Kurdi, was able to rescue two boats in the current good weather period. However, with 150 people now on board, they are searching for a Port of Safety and cannot carry out further operations. All other rescue NGOs are not allowed or unable to carry out SAR operations.

      For the Alarm Phone, the greatest challenge is the systematic withdrawal of European authorities from the central Mediterranean area. We have documented several scandalous delays and even acts of sabotage at sea. One of the boats that reached out to us was rescued by Italian authorities to Lampedusa only after it had fully crossed the Maltese SAR zone, with the Armed Forces of Malta refusing to intervene. Another boat already in the Maltese SAR zone with 66 people on board was rescued only after about 40 hours. The people on board told us that the Armed Forces of Malta tried to cut the cable of the engine, telling them: “I leave you to die in the water. Nobody will come to Malta.”

      We have experienced irresponsible behaviour by European authorities in all distress cases that have reached the Alarm Phone. Routinely, the so-called “Rescue Coordination Centres” hang up the phone, refuse to take down new information, or are not reachable for hours.
      “Libya is worse than the Corona virus”

      We call on all European authorities to cease endangering the lives of people who seek to escape torture, rape, and war in Libya. Despite the Covid-19 crisis, Europe is still safe compared to Libya and has the resources to carry out vital SAR operations. People trying to flee from Libya are aware of the danger of crossing the sea and the spread of Covid-19 within Europe. Still, as they tell Alarm Phone: “Libya is worse than the Corona virus.”

      https://alarmphone.org/en/2020/04/11/the-covid-19-excuse/?post_type_release_type=post

  • 2e Fil de discussion sur les actions de résistance (au-delà des simples motions de contestation de la loi, qui affluent tous les jours de partout de France) à la #Loi_de_programmation_pluriannuelle_de_la_recherche (#LPPR)

    Suite du 1e fil sur le même sujet : https://seenthis.net/messages/820393

    #résistance #CEPN #LPPR #réforme #ESR #enseignement_supérieur #recherche #université

    –------
    voir aussi la liste de documents sur la réforme de la #Loi_de_programmation_pluriannuelle_de_la_recherche (LPPR) :
    https://seenthis.net/messages/819491

    • #Sciences-Po, modèle illusoire de l’Université de demain

      Un collectif de cet établissement s’inquiète du démantèlement de l’Etat social. Souvent cité en exemple pour défendre la réforme de l’enseignement supérieur et de la recherche, Sciences-Po Paris bénéficie de financements qui n’empêchent pas la précarité de certains étudiants ou de jeunes chercheurs.

      Nous sommes, chercheu·rs·ses, personnels administratifs, technicien·ne·s, enseignant·e·s, doctorant·e·s, étudiant·e·s de Sciences-Po Paris, et nous nous opposons aux réformes de l’assurance chômage, des retraites et de la recherche portées par le gouvernement. Celles-ci accentuent la polarisation d’une société à deux vitesses et renforcent les incertitudes quant au futur de l’Enseignement supérieur et de la recherche (ESR). Travailleu·rs·ses privilégié·e·s de ce secteur, nous partageons l’angoisse et la colère de nos collègues, desquel·le·s nous sommes solidaires.

      Le démantèlement de l’Etat social en cours depuis des années s’est accéléré avec la réforme de l’assurance chômage mise en œuvre le 1er novembre 2019. Celle-ci durcit les conditions d’accès au chômage en allongeant le temps travaillé requis pour l’ouverture de droits.

      Encore en débat, la réforme des retraites dessine quant à elle un horizon inquiétant tant par son contenu que par les incertitudes qu’elle soulève - calcul de la valeur du point, introduction ou non d’un âge pivot, évolution de l’âge d’équilibre. Elle augure une baisse généralisée des pensions, un allongement du temps de travail pour les personnes aux plus bas revenus, et un renforcement des inégalités existantes avant et après le départ à la retraite. Les enseignant·e·s de la maternelle à l’université, dont nous faisons partie, risquent notamment d’importantes baisses de leur pension (plus d’un tiers pour un·e professeur·e certifié·e).

      Au-delà de la destruction des mécanismes de solidarité et de la protection sociale, c’est également l’ambition de notre société à se penser et à former les générations futures qui est remise en cause. Nous partageons, avec les membres de l’ESR, le constat d’une université dégradée et d’un potentiel décrochage de la recherche française, mise à mal par plusieurs années de sous-financement et de réformes néolibérales au nom de l’internationalisation et de l’excellence. Au lieu de créations massives de postes de titulaires, les rapports préparatoires à la loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR) prévoient la généralisation de contrats non statutaires qui retarderont inévitablement l’accès à un emploi stable pour les jeunes chercheu·rs·ses. Comment garantir la qualité de la recherche lorsque l’on dégrade les conditions de travail de celles et ceux qui la portent ?

      En outre, les rapports prévoient d’accentuer la place de l’évaluation dans le financement des institutions de recherche et l’évolution des carrières en faisant fi du jugement scientifique porté par les pairs. Ces évaluations bureaucratisées interfèrent avec le temps long nécessaire à la recherche et avec les impératifs de qualité et de probité de nos professions, en réduisant la recherche à une « performance » quantifiée à court terme. De telles mesures vont accentuer les logiques de compétition entre universités, laboratoires et travailleu·rs·ses de l’ESR, ainsi que la concentration des moyens dans quelques établissements privilégiés. Les orientations de la LPPR ne sont donc pas seulement inquiétantes pour les conditions de travail dans l’enseignement supérieur, mais pour l’existence même d’une recherche libre et critique. Celle-ci dépend de la coopération et de l’échange, de financements stables et pérennes, et d’une véritable indépendance scientifique. Les étudiant·s·es en seront parmi les premières victimes, en raison de la dévalorisation des tâches d’enseignement et de la faiblesse persistante des moyens qui leur sont consacrés.

      Aujourd’hui, notre établissement est cité en exemple par les chantres de la performance, de l’excellence et de la compétitivité. Vanter ce modèle, c’est oublier que l’« excellence » de Sciences-Po repose sur une concentration exceptionnelle de moyens, privés comme publics. Or, ces largesses de financement ne sont en aucun cas promises à l’ensemble de l’ESR dans les projets de réforme actuels. Du reste, en dépit d’un environnement privilégié, tou·s·tes les membres de notre institution ne bénéficient pas de conditions de travail pérennes et sereines. Certain·e·s étudiant·e·s et doctorant·e·s affrontent une grande précarité au quotidien, tandis que nos jeunes chercheu·rs·ses font l’expérience du parcours sinueux de la fin et de l’après-thèse - longues périodes de chômage, enchaînement de post-doc, vacations rémunérées en différé… Parmi nos enseignant·e·s, les professeur·e·s de langues vivantes et les jeunes docteur·e·s sans postes, vacataires en contrats courts, sont à la merci du non-renouvellement de leur engagement et connaissent une grande incertitude professionnelle. C’est également par solidarité avec ces membres de notre communauté académique que nous dénonçons les projets de réforme en cours, qui les affectent durement.

      Nous appelons donc à un retrait des réformes de l’assurance chômage et des retraites. Nous demandons un plan de création massif de postes permanents dans l’ESR, une revalorisation des salaires et des carrières, une amélioration des contrats doctoraux, et un investissement à la hauteur des engagements de la France en matière de recherche (3 % du PIB). Nous exigeons à ce titre la réorientation des sommes affectées au crédit d’impôt recherche (CIR), dispositif non évalué à l’efficacité plus que douteuse, vers la recherche scientifique. Des conditions de travail dignes dans l’ESR sont indispensables à l’existence d’une université accessible à tou·s·tes. La recherche fondamentale doit être libre et indépendante pour servir une société plus juste et capable de faire face aux enjeux contemporains.

      https://www.liberation.fr/debats/2020/02/24/sciences-po-modele-illusoire-de-l-universite-de-demain_1779461
      #sciences_po

    • Lettre des doctorant•e•s et jeunes docteur•e•s des #ENSA

      Monsieur Franck Riester, Ministre de la Culture

      Madame Frédérique Vidal, Ministre de l’Enseignement Supérieur de la Recherche et de l’Innovation

      Monsieur Philippe Barbat, Directeur Général du Patrimoine

      Madame Aurélie Cousi, la Directrice de l’Architecture

      La communauté des doctorant·e·s et docteur•e•s des Écoles Nationales Supérieures d’#Architecture et de Paysage (ENSA) souhaite exprimer ses inquiétudes à propos d’un ensemble d’évolutions majeures que subissent nos établissements d’enseignement supérieur et de recherche depuis près de deux ans, et qui affecte fortement le parcours doctoral dispensé dans l’ensemble des ENSA de France.

      Depuis 2018, l’application du décret relatif aux ENSA1 a eu pour conséquence une augmentation de la #charge_de_travail des équipes (enseignant·e·s, chercheur·e·s, administratif·s) alors même qu’elles ont subi une baisse de #moyens significative. Ces changements se traduisent par de trop faibles efforts en termes de déprécarisation / conservation / création de postes et par une baisse des capacités d’encadrement dénoncées par les enseignant·e·s chercheur·e·s et les étudiant·e·s. Plus globalement, nous pointons avec l’ensemble des acteurs des ENSA une faiblesse structurelle historique de nos établissements d’enseignement supérieur ainsi, qu’un épuisement extrêmement problématique des équipes, comme l’a signalé dernièrement le collège des président·e·s des Conseils d’Administration des ENSA2. Cela menace également la communauté des doctorant·e·s actuelle et future des ENSA, ainsi que le parcours des docteur·e·s formé·e·s dans ces établissements. Sans exhaustivité, nous observons déjà les premières conséquences :

      Manque cruel de moyens au regard du fonctionnement des ENSA3 ;
      Dégradation et #précarisation des conditions de recherche et d’enseignement4 ;
      Nouvelles procédures de recrutement aux conditions floues, inégales et tardives5.

      Par ailleurs, une crainte grandissante existe quant aux perspectives dessinées dans les rapports préparatoires de la future Loi de Programmation Pluriannuelle de la Recherche (LPPR), dont l’impact sur les ENSA a été confirmé au cours de la réunion du 4 février avec les présidents des instances des ENSA au Ministère de la Culture. Si nous partageons les nombreux constats évoqués sur le cycle doctorat dans ces rapports6, nous restons vigilants sur les solutions qui seront apportées au doctorat au sein des ENSA. Nous tenons à rappeler la nécessité :

      D’#investissements humains, matériels et financiers nécessaires à un enseignement et une recherche de qualité ;
      De respecter et soutenir l’#indépendance et les spécificités des productions scientifiques et pédagogiques ;
      De permettre un #service_public équitable, transparent et inventif pour l’ensemble de la communauté de l’Enseignement Supérieur et de la Recherche.

      Pour aller plus loin, nous constatons que les différences de considérations des #statuts, notamment pour ceux les plus précaires, entraînent une #compétition inégalitaire et délétère, alors même que le monde de l’Enseignement Supérieure et la Recherche (#ESR) réclame toujours plus de #transdisciplinarité et devrait pour cela favoriser l’#échange et la #coopération 7. Cette #précarité, qui découle directement des #différences_de_traitement entre les acteurs de l’ESR, a des conséquences dramatiques et insidieuses pour les équipes des ENSA : elle ruine la confiance de ceux qui sont les plus dépendants (finances, évolution de carrière, etc.). À plus long terme, elle provoque une #crise_des_vocations qui est en complète contradiction avec les ambitions de la dernière réforme des ENSA en termes de #recrutement et de #recherche.

      Le cycle doctorat dans les ENSA, et plus particulièrement le doctorat en Architecture depuis sa création en 2005, n’a jamais réuni les conditions pour se dérouler dans de bonnes conditions. L’approche néolibérale et technocratique des politiques actuelles menées par notre double tutelle du Ministère de la Culture (MC) et du Ministère de l’Enseignement Supérieur, de la Recherche et de l’Innovation (MESRI), notamment au travers des textes sus-cités, n’a de cesse de dessiner un avenir déplorable pour la bonne formation “à et par la recherche”8. Dans l’absence d’une vision prospective pour notre communauté, les doctorant·e·s et jeunes docteur·e·s des ENSA se joignent aux demandes portées collectivement par les étudiant·e·s, enseignant·e·s-chercheur·e·s, administratifs et professionnel·le·s des métiers de l’architecture9, de l’urbain et du paysage, mais aussi plus largement de l’enseignement et de la recherche10, et tiennent à ce que les revendications suivantes soient également entendues par nos ministères de tutelle :

      Sur la reconnaissance du #doctorat

      Reconnaître la #thèse comme une expérience professionnelle à part entière, et traiter les doctorants en conséquence malgré un statut administratif d’étudiant en 3e cycle11 (particulièrement lors du processus de qualification aux fonctions de maître·sse de conférences ou de professeur·e du CNECEA) ;
      Ne pas tolérer que les doctorant·e·s tout comme l’ensemble des enseignant·e·s contractuel·le·s des ENSA n’effectuent des heures d’enseignement ou de recherche sans contrat dûment signé et sans une officialisation administrative via le portail Taïga des heures valant expérience professionnelle auprès du ministère. Le travail réalisé en parallèle de la thèse doit correspondre à un contrat signé et à un salaire perçu, et la promesse d’expérience peu reconnue n’est pas une gratification suffisante pour se mettre en difficulté sur sa thèse.

      Sur l’accès au 3ème cycle

      Développer la formation à et par la recherche en amont du doctorat12 dans les ENSA, en accordant les moyens nécessaires à sa mise en œuvre (niveau Master et/ou expérience professionnelle) ;
      Résorber radicalement les situations de #thèses_non_financées. Une recherche de qualité en architecture ne peut en aucun cas émerger de situations de précarité de ses jeunes chercheur·e·s. Très communes dans certaines ENSA, elles génèrent inévitablement une grande #instabilité_financière pendant la thèse, des #parcours_morcelés, non reconnus par le Ministère de la Culture, et des #discriminations d’accès à l’emploi après la thèse13 ;
      Augmenter le nombre de contrats doctoraux du Ministère de la Culture qui à l’heure actuelle ne permet ni d’atteindre les objectifs de recrutement de maître·sse·s de conférences des ENSA14, ni de valoriser la recherche en architecture, urbanisme et paysage au sein de nos établissements et ainsi permettre l’émergence d’une recherche académique de qualité qui soit au niveau des autres disciplines universitaires.
      Expliciter le processus et les critères de sélection des contrats doctoraux du Ministère de la Culture, qui sont aujourd’hui opaques, et dont les comités de sélection ne comprennent aucun chercheur capable d’évaluer la qualité scientifique des dossiers ;
      Officialiser les résultats des contrats doctoraux avant la rentrée universitaire pour respecter le calendrier d’inscription, le rythme universitaire et ne pas générer de situations de doctorant·e·s inscrit·e·s mais non financé·e·s.

      Sur le déroulement du parcours doctoral

      Exonérer tout·e·s les doctorant·e·s des frais d’inscription universitaires qui leur sont demandés alors qu’ils sont travailleur·e·s des établissements d’enseignement et de recherche, particulièrement précarisant au-delà de la période de financement15 ;
      Reconnaître l’ensemble des engagements assumé au cours de la période de doctorat : représentation dans les instances, enseignement, participation à des recherches, publications, etc. ;
      Prévenir les dérives du contrat #CIFRE pour les doctorant·e·s (et du #Crédit_Impôt_Recherche (#CIR) pour les docteur·e·s) : plébiscités par le ministère de la culture pour “développer les relations de recherche entre écoles, universités et agences d’architecture”16, les qualités du doctorat doivent être reconnues pour la recherche, le développement et l’innovation des entreprises tout en garantissant les conditions d’une thèse et d’une expérience professionnelle de recherche de qualité.
      Donner les moyens aux ENSA de proposer des #formations_doctorales notamment au sein des Écoles Doctorales17 afin de favoriser le rayonnement de leurs recherches et pédagogies ;

      Sur les conditions d’#employabilité doctorale et post-doctorale

      Respecter les engagements de création et de déprécarisation associés à la réforme des ENSA afin de garantir la réussite de sa mise en oeuvre ;
      Reconnaître toute heure travaillée en recherche comme en enseignement, et dans tout établissement d’enseignement supérieur pour les campagnes nationales de qualification ;
      Mise en place de contrats d’Attaché Temporaire d’Enseignement et de Recherche (#ATER) à mi-temps afin d’accompagner si nécessaire les doctorant·e·s avec un salaire suffisant et une expérience significative au-delà des financements de 3 ans ;
      Développer les contrats post-doctoraux dans et/ou en collaboration avec les différents laboratoires des ENSA ;
      Prioriser des postes de maître de conférences associé·e à temps plein pour les profils académiques afin de leur donner la possibilité d’un début de carrière dans des conditions décentes après l’obtention du doctorat.
      Valoriser les postes de maître de conférences associé·e à mi-temps afin de reconnaître les profils hybrides indispensables aux ENSA mêlant enseignement, recherche et/ou pratique. Nous remettons en cause sur ce point la nécessité d’une activité principale pour accéder à ces contrats, quasi inatteignable pour les jeunes docteur·e·s et praticien·ne·s, d’autant que ce critère administratif est obsolète et déconnecté des compétences pédagogiques et scientifique ;
      Mettre en oeuvre une politique d’#insertion_professionnelle suivie et ambitieuse pour accompagner les jeunes docteur·e·s vers la diversité d’emplois capables d’opérer à une diffusion de la recherche des ENSA vers la société (exercice de la maîtrise d’oeuvre, enseignement et recherche en ENSA et en université, chargé de recherche CNRS, politiques publiques, organisations territoriales, etc.) ;

      La communauté des doctorant•e•s et docteur·e·s des ENSA restera évidemment attentive quant à l’issue que vous donnerez à ces revendications. Par ailleurs nous resterons mobilisés avec l’ensemble des acteurs des ENSA tant que des solutions acceptables et pérennes ne seront pas apportées à la précarisation de nos établissements.

      Monsieur le Ministre de la Culture, Madame la Ministre de l’Enseignement Supérieur de la Recherche et de l’Innovation, Monsieur le Directeur Général du Patrimoine, Madame la Directrice de l’Architecture, veuillez croire à notre engagement pour un service public d’enseignement supérieur et de recherche ouverts, créatif et respectueux de l’avenir de l’architecture, de l’urbain et du paysage.

      Les doctorant·e·s et jeunes docteur·e·s des ENSA

      https://framaforms.org/lettre-des-doctorantes-et-jeunes-docteures-des-ensa-1581606512

    • #Jean-Marc_Jancovici... Si vous étiez le ministre de la recherche... quels seraient les meilleurs investissements pour sortir de cette galère ?"

      « Je pense que quand vous êtes en économie de guerre ou en logique trash-programme, vous supprimez toutes les forces de frottement qui font que les gens passent leur temps à faire de la paperasse plutôt qu’à utiliser leur cervelle. Dans le domaine de la recherche je supprime l’ANR, je supprime les appels à projets... Je prends des gens intelligents, motivés, je leur fait un chèque en blanc et je les laisse chercher avec des éléments de cadrage en nombre limité. Quand vous regardez la recherche qui a eu lieu pendant la dernière guerre mondiale, il y avait un cahier des charges très simple : trouvez-moi tout ce qui permet à notre armée d’être supérieure à celle d’en face. Vous emmerdez pas les gens à leur demander de remplir des dossiers en 45 exemplaires et à justifier à l’avance ce qu’ils vont trouver et vous leur bottez le cul pour qu’ils aillent le plus vite possible. C’est cela qu’il faut faire »

      https://www.youtube.com/watch?v=8uRuO_91fYA&feature=youtu.be&t=10250

    • Strasbourg : “nous sommes l’université et pas une entreprise”, une tribune interpelle #Michel_Deneken

      Une tribune de 100 universitaires publiée le 21 février chez Médiapart interpelle Michel #Deneken, le président de l’université de #Strasbourg (Bas-Rhin). Ces universitaires dénoncent « la destruction méthodiques de leur service public ».

      L’#Unistra, l’université de Strasbourg, est-elle une entreprise ? Les 100 universitaires à l’origine d’une pétition publiée chez Médiapart le vendredi 21 février 2020 ont leur avis sur la question. Et il est tranché : "Nous ne sommes pas une entreprise, nous ne sommes pas des « opérateurs » et vous n’êtes pas notre patron. Depuis de trop longues années, nous devons subir la lente déformation de notre idéal..."

      La centaine de signataires rappelle certaines valeurs qui fondent leur mission : « égalité dans l’accès au savoir, collégialité et liberté académique, recherche collective de la vérité, imagination scientifique ». Et dénonce « l’entravement de leur activité, la réduction du nombre de personnels permanents, et les financements aléatoires ».

      Une « #métaphore »

      Ce cri du coeur fait suite à une interview de Michel Deneken, le président de l’université de Strasbourg (Bas-Rhin), publiée dans les Dernières nouvelles d’Alsace (DNA, accès soumis à abonnement) le jeudi 13 février 2020. Il y déclarait : « Nous sommes une entreprise qui a du mal à être heureuse d’avoir plus de clients. » C’est cette phrase qui a suscité la polémique. In extenso, Michel Deneken ajoutait : « Nous n’avons pas le droit d’augmenter le nombre de m², pas de création d’emplois depuis plusieurs années. Nous avons plus d’étudiants et moins de professeurs. ». Il concluait : « Nous sommes victimes de notre attractivité. »

      Interrogé par France 3 Alsace (voir l’interview intégrale dans la vidéo ci-dessous), Michel Deneken se dit « pris à parti » et explique notamment : « On m’a demandé comment nous gérions le fait que nous soyions passés de 43.000 à 55.000 étudiants en 10 ans, sans moyens supplémentaires. Et j’ai dit, c’est une métaphore, que nous sommes comme une entreprise qui ne se réjouit pas d’avoir plus de clients. Évidemment, si on sort une métaphore de son contexte, on peut en faire dire ce qu’on veut... »

      « Je ne suis pas dupe : il y a derrière cette tribune des attaques très lourdes. Ce qui est admis dans la lutte politique ne l’est pas humainement. Ce texte prétend que je trahis et que je déshonore l’université et ses valeurs. Ce qui est une calomnie. »

      La réponse des signataires

      L’initiateur de la tribune, Jean-Philippe Heurtin, est enseignant à l’institut d’études politiques de Strasbourg. Il a commenté la réponse du président de l’université le mardi 25 février : « Nous maintenons la réponse qui lui a été adressée en tant que président de l’université, et pas en tant qu’individu. Nous réfutons cette métaphore, cette analogie avec l’entreprise. Le financement de l’université est actuellement dramatique, la loi programmatique va dans le mauvais sens. »

      « Le fait que le président n’a pas cité une seule fois la notion de service public dans sa réponse est révélateur. Évidemment, poursuit-il, l’économie peut bénéficier de l’université, mais à long terme. L’université enseigne à tous : elle est au service direct de la société, et non de l’économie. » Un discours que l’on retrouve dans une réponse collective des signataires à Michel Deneken (voir document ci-dessous). Elle dénonce des courriers individuels de menaces que ce dernier aurait envoyé à plusieurs des personnels signataires de la tribune.

      https://france3-regions.francetvinfo.fr/grand-est/bas-rhin/strasbourg-0/video-strasbourg-nous-sommes-universite-pas-entreprise-

      –-> article qui fait suite à cela :
      https://seenthis.net/messages/820393#message825801

    • Recherche : « Notre politique de recherche serait-elle faite par et pour 1 % des scientifiques ? »

      Plus de 700 directrices et directeurs de #laboratoires de recherche contestent, dans une tribune au « Monde », les critères qui président à l’élaboration de la loi de programmation pluriannuelle de la recherche. Ils préconisent de « renforcer les collectifs » plutôt que de promouvoir « une infime élite œuvrant au profit d’une infime partie des savoirs ».

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/02/10/recherche-notre-politique-de-recherche-serait-elle-faite-par-et-pour-1-des-s
      #laboratoires_de_recherche

      Le texte complet :
      https://academia.hypotheses.org/15250#more-15250

    • Une loi ne fait pas loi

      Le 18 février, une lettre ouverte (https://www.change.org/p/emmanuel-macron-les-scientifiques-r%C3%A9affirment-l-absolue-n%C3%A9cessit%C disant notamment que « nous avons besoin d’une loi de programmation pluriannuelle de la recherche » (LPPR) a été adressée à E. Macron par un panel de scientifiques. Et quel panel ! De très grand.e.s chercheur.se.s reconnu.e.s par leur pairs, médaillé.e.s Nobel et d’or du CNRS, membres de l’académie des sciences, ou des président.e.s actuel.le.s ou passé.e.s du CNRS et de nombreuses universités, c’est semble-t-il, l’élite de la recherche française qui signe cette tribune sous le terme de « la communauté scientifique ».

      Alors vous ne comprenez plus, que vous soyez personnel de l’Enseignement Supérieur et de la Recherche (#ESR), étudiant, ou citoyen intéressé par ces questions et qui suivez ce feuilleton LPPR. Voilà des semaines que s’enchainent tribunes, pétitions et autres textes protestant contre cette loi, que les actions se multiplient et s’intensifient partout dans le pays et vous découvrez que la « communauté scientifique », par la voix de ses plus illustres représentants, semble réclamer cette fameuse loi tant décriée. Quelle contradiction, qui semble faire des opposants à cette loi des Cassandres minoritaires porteurs de procès d’intention infondés et refusant de voir un avenir qui ne pourra qu’être radieux grâce à cette loi.

      Il n’y a, bien sûr, aucune contradiction si l’on prend le temps de bien lire cette lettre (et aussi de bien savoir qui la signe) et de bien comprendre les arguments de la protestation. La lettre ouverte ne comporte en fait qu’un seul point : « une loi de programmation pluriannuelle de la recherche, définie par rapport aux défis qui nous font face, et correspondant à nos attentes et nos besoins », avec en clair sous-entendu, la question centrale des #moyens, clairement exposée dans le premier paragraphe : « Pour la seule partie publique, cela représente une augmentation de plus de six milliards d’euros », en référence à l’intention déclarée par E. Macron, le 26 novembre dernier, de porter la dépense intérieure de recherche et développement à 3% de notre PIB. Nous reviendrons plus loin sur ce point essentiel des moyens. Pour le reste, qui pourrait ne pas vouloir d’une loi correspondant à nos attentes et nos besoins ? Certainement pas les personnels actuellement engagés dans les mouvements de contestation qui, justement, craignent que ce ne soit pas le cas, et pour partie, ont déjà des arguments pour le savoir. Ces éléments, déjà évoqués, sont de trois types :

      – Des déclarations officielles de Mme Vidal sur les CDI ou les chaires de professeur junior qui dessinent clairement la trajectoire d’une accentuation de la remise en cause du statut de fonctionnaire des personnels de l’ESR et de l’accroissement de la précarisation et des inégalités
      - Des propos d’E. Macron ou A. Petit, qui ne sont certes pas des extraits de la LPPR mais légitiment a minima une inquiétude considérable
      – La politique générale de ce gouvernement vis-à-vis des services publics et qui, sans qu’il s’agisse d’un procès d’intention, permet d’avoir les plus grands doutes sur l’hypothèse que dans le champ de la recherche, il pratiquerait une politique aux antipodes de celle qu’il mène par ailleurs, ou même, de celle qu’il a menée pour la recherche depuis une trentaine de mois.

      Il y a donc de fort bonnes raisons pour envisager qu’une partie au moins de la loi ne correspondra pas aux attentes et aux besoins de tout un pan des personnels de l’ESR.

      Mais est-ce si grave puisque cette loi va permettre, enfin !, d’accorder à l’ESR les moyens qu’elle attend en vain ? Or il n’en est rien. #Henri_Sterdyniak, économiste à l’observatoire français des conjonctures économiques et membre des économistes atterrés, a eu la gentillesse de m’éclairer à ce sujet et je l’en remercie vivement. Comme je ne saurais faire mieux que ses propos limpides, je me permets, avec son accord, de présenter sa réponse :

      "Le principe de l’#annualité_budgétaire implique que le Parlement vote chaque année toutes les recettes et toutes les dépenses. Le Parlement ne peut donc voter de dispositif qui obligerait le gouvernement à respecter telle ou telle norme de dépenses ou de recettes. Et le Conseil d’Etat comme le Conseil Constitutionnel y veillent. Ainsi, le Conseil d’Etat refuse la disposition de la loi de réforme des retraites qui obligerait l’Etat à augmenter les salaires des enseignants. Ainsi le Conseil Constitutionnel a censuré un dispositif voté en Loi de Financement de la Sécurité Sociale 2018 qui désindexait les retraites pour 2020.

      Le gouvernement peut faire voter des lois de programmation, qui selon l’article 34 de la Constitution « déterminent les objectifs de l’action économique et sociale de l’État ». Celles-ci marquent un #engagement_politique, mais n’ont aucune valeur juridique."

      Donc, en résumé, en matière de #budget, une loi ne fait pas loi. Quand Mme Vidal dit au séminaire d’accompagnement des nouveaux directeurs et directrices d’unité : « Cette loi n’est pas une loi de programmation thématique ou une loi de structures. C’est une loi de #programmation_budgétaire, avec une trajectoire financière spécifiquement dédiée à l’investissement dans la recherche », elle omet de préciser que pour autant cette loi ne peut en rien contraindre les prochains budgets que l’Etat consacrera à l’ESR. Pour les mêmes raisons, elle ne peut malheureusement donner aucune garantie à ses engagements de dédier 26 et 92 millions d’euros pour respectivement les revalorisations des chercheurs recrutés en 2021 et celles de l’ensemble des personnels de l’ESR (voir aussi ici à ce sujet). Ceux qui attendent toujours de voir arriver dans les caisses de leur université les engagements financiers qui étaient contenus dans la LRU comprennent sans doute pourquoi ils ne les ont jamais vu arriver. Et tous ceux qui espèrent en la LPPR en croyant qu’elle va permettre d’accroitre le budget de l’ESR se trompent gravement. Il risque de se passer avec la LPPR ce qui s’est passé avec la LRU. Tous les points négatifs pointés par une large communauté de l’ESR seront menés à bien d’une façon ou d’une autre alors que l’augmentation significative du budget alloué à la #recherche_publique, sera quant à elle soumise chaque année au vote du budget, comme il est normal, constitutionnel, de le faire. Et le budget alloué à la recherche, nous savons ce qu’il a été depuis que ce gouvernement est au pouvoir.

      Alors oui, comme le disent les auteurs auto-qualifiés de « communauté scientifique », « nous avons besoin d’une loi de programmation pluriannuelle de la recherche, définie par rapport aux défis qui nous font face, et correspondant à nos attentes et nos besoins ». Or, les attentes et les besoins de la communauté scientifique sont connus. Comme le rappelle O. Coutard, le président de la CPCN (Conférence des Présidents du Comité National), ils correspondent aux recommandations approuvées lors de la session extraordinaire du Comité national le 4 juillet 2019, et rappelées par une tribune publiée dans le Monde demandant la mise en œuvre de ces propositions. Le #CoNRS, c’est environ 1100 personnels de l’ESR représentant toutes les disciplines scientifiques, tous les établissements de recherche et universités, toutes les opinions politiques ou syndicales. Il est parfois appelé le « parlement de la recherche ». Les propositions qu’il a faites correspondent donc véritablement aux attentes et aux besoins de la #communauté_scientifique, comme en atteste leur très forte cohérence avec les propositions faites par les sociétés savantes, elles-aussi très représentatives de l’immense variété de la communauté scientifique . La pétition de soutien à la LPPR lancée le 18 février n’a rassemblé que 200 signatures en quatre jours. Celle qui s’était insurgée contre les propos d’A. Petit sur une loi « inégalitaire et darwinienne » en avait recueilli 8000 en deux jours, pour finir à environ 15000 signatures. La tribune rappelant les recommandations du CoNRS a été soutenue par plus de 700 directrices et directeurs d’unités. Elle est véritablement là, la communauté scientifique, et ses attentes ont été clairement exprimées par le CoNRS. C’est donc sur cette base que la LPPR doit être construite. Plus elle sera éloignée de ces recommandations, plus la contestation sera forte, sans commune mesure avec ce qu’elle est déjà aujourd’hui.

      https://blogs.mediapart.fr/marchalfrancois/blog/250220/une-loi-ne-fait-pas-loi

    • « Lettre ouverte à mes enseignant.e.s de l’Université Rennes 2 »

      Mona, étudiante à Rennes 2, appelle dans cette lettre ses enseignant.e.s à se mobiliser en vue de la grève reconductible du 5 mars : "parce que vous m’avez tant apporté et que nous nous sommes tant aimés, je n’ose croire que vous resterez figé.e.s dans ces comportements crépusculaires à défendre une identité et des préséances professionnelles qui ne correspondent à aucune des nécessités portées par les luttes actuelles."

      Mon nom est Mona. J’ai 22 ans. Je suis étudiante. Avant de venir faire mes études à Rennes, j’étais scolarisée en Centre-Bretagne, en milieu rural, War Ar Maez. Mon père est ouvrier. Il travaille comme cariste dans l’industrie agroalimentaire. Après plus de vingt ans dans le même groupe, il gagne, à quelques euros près, 1700 euros brut par mois, auxquels s’ajoute une prime de Noël. La « prime des dindes » comme il dit. Une farce. Quelques centaines d’euros dont ma mère se sert pour acheter nos cadeaux et nous organiser un repas de fête qu’elle tient chaque année à arroser de mauvais champagne : « Nous aussi on y a droit ! ». Ma mère, elle, est employée. Employée de maison pour être précise. Une manière bien aimable pour dire qu’elle fait partie de ce salariat subalternisé, essentiellement féminin, qui travaille à temps partiel au service de personnes âgées ou de riches familles, pour pas grand-chose. Une grande partie de son salaire passe d’ailleurs dans les frais d’essence de ses trajets professionnels. Chez nous, les fins de mois sont difficiles, cela va de soi. D’autant que mes deux frères aînés sont au chômage et restent à la charge de mes parents. Maël sort d’un BTS et n’a le droit à aucune indemnité. Gurvan, un CAP de boulanger en poche, ne travaille qu’en intérim... quand il travaille. Il a vu ses allocations chômage fondrent comme neige au soleil ces derniers temps. Moi, je suis boursière, je vis en cité U à Villejean. Mais j’ai aussi des petits boulots à côté : du baby sitting, des inventaires ; caissière ou vendeuse, c’est selon. Nous sommes une famille de #Gilets_jaunes. Mes frères ont longtemps squatté les ronds-points avant de se faire déloger et sont de toutes les manifs. Ce week-end, c’était l’acte 66. Ils sont montés à Rennes pour dire qu’« ils étaient là », pour gueuler leur colère de n’être rien et se prendre au passage quelques mauvais coups de matraque. Forcément, se faire taper dessus, ça agace et ils ne se sont pas laissés faire. Je suis fière d’eux, de leur détermination à rester debout et à se battre. Ne pas se laisser faire, ne pas se laisser aller à la résignation, ne pas se laisser détruire, reprendre ne serait-ce qu’un peu la main sur son existence. Comme de plus en plus d’individus, mes frères sont déterminés à ne plus se laisser prendre au jeu de la cadence et de l’ordre. C’était chouette cette manif. Des femmes et des hommes qui se battent pour leur #dignité, pour ne pas s’abîmer davantage, pour ne pas crever.
      En fin de manifestation, avant de repartir, ils m’ont payé une bière en terrasse. Il faisait froid, mais nous étions bien. Je les trouvais beaux tous les deux. Beaux comme la lutte. J’aurais aimé vous les présenter mais vous n’étiez pas là. Quelques heures avant, quand nous avons réussi à « prendre le centre ville », je vous ai pourtant aperçu. Vous flâniez après un retour du marché des Lices, vous vous baladiez en famille, à vélo, vous sortiez d’une librairie avec quelques bouquins en poche, vous rentriez dans un cinéma. La vie peut être douce. J’ai envie d’y croire. Cette #douceur est néanmoins réservée à quelques-un.e.s. Ni mes parents, ni mes frères, ni moi n’y avons franchement droit. Dans quelques mois, je décrocherai un bac+5. Ma mère ouvrira une de ces mauvaises bouteilles de champagne. Pourtant, j’irai certainement grossir les rangs des dominé.e.s aux études longues (j’ai lu ça dans un livre passionnant d’Olivier Schwartz). L’inflation-dévaluation des #titres_scolaires me fera rejoindre #Pôle_emploi, ou bien je trouverai un #job_sous-payé pour sur-qualifié.e, à moins que ça ne soit juste un énième #stage croupion. Alors peut-être devrais-je plutôt continuer à étudier ; faire une thèse. Ma directrice de mémoire me l’a proposé à demi-mots, mais seulement si j’ai un financement. On ne prête qu’aux riches répète souvent mon père.

      La Loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR) contre laquelle vous devriez être logiquement tou.te.s vent debout ne m’y invite pas. Pourquoi me lancer dans un doctorat ? Pour gonfler les rangs du précariat de l’ESR ? Pour assurer vos TD, corriger des tombereaux de copies et faire la petite main sur vos projets de recherche, sous pression – surtout ne pas décevoir –, en étant payée moins que le SMIC horaire, plusieurs mois après avoir effectué avec zèle ces missions ? Et puis ça ne sera évidemment pas suffisant pour assurer ma survie matérielle. Alors il faudra que je continue un « #travail_à_côté ». Condamnée à prendre le premier #bullshit_job ? Surveillante de musée me permettrait de pouvoir lire pendant le temps de travail, ou bien me lancer dans le #travail_du_sexe, nettement plus rémunérateur. Mais quel temps me resterait-il pour mes propres recherches ? À la #précarité s’ajouterait sans doute le #surmenage, voire le #mépris_de_soi. On y passe tou.te.s paraît-il. Et en admettant que je m’en sorte, ce serait quoi la suite ? L’Université à la sauce LPPR ne donne pas très envie : précarisation accrue, mise en #concurrence généralisée, course à l’#excellence, #marchandisation_des_savoirs, recul des solidarités, #bureaucratisation mortifère. Devenir une sorte d’intello camériste allant de #tenure_tracks en CDI-chantiers pour espérer peut-être, à près de 40 ans et après avoir porté nombre de vos valises, devenir #titulaire d’une institution à la main du #néolibéralisme ? C’est ça la promesse ? Et puis c’est sans compter la réforme des retraites : bouffer de l’amphi jusqu’à 67, 68, 69 ans... pour finir épuisée et être finalement pensionnée au lance-pierre ? Ça existe la #pénibilité pour #port_de_charge_cognitive_lourde ?

      Si parmi les 37 % d’enseignant.e.s-chercheur.e.s qui ont voté Macron dès le premier tour, il en est sans aucun doute qui se repaissent de la sélection, de l’augmentation des #frais_d’inscription et de ce que cela permettra de politiques discrétionnaires dont ils.elles s’imaginent tirer idiotement quelque bénéfice, je sais aussi, pour vous avoir fréquentés, que la plupart d’entre vous voyez dans le #macronisme pas autre chose que ce qu’il est : une #saloperie qui signe la fin de la #citoyenneté_sociale, de l’#État_redistributeur et de tous les #services_publics (ESR, santé, justice, énergie, etc.). Je me doute que vous n’êtes pas d’accord pour que la pension des femmes soit inférieure à celles des hommes, que vous êtes contre la prolifération des #emplois_précaires, contre la #compétition_généralisée, les logiques d’#exclusion et les #discriminations. Vous pensez que l’Université doit être ouverte à tou.te.s, fondée sur la #coopération, qu’elle doit produire des #connaissances_critiques et transmettre des #savoirs_émancipateurs. Alors pourquoi êtes-vous si peu solidaires du #mouvement_social ? Pourquoi restez-vous si timoré.e.s à vous engager pleinement dans cette #grève dont nous avons tant besoin ? Ma colère est grande de vous voir englué.e.s dans des #réflexes_corporatistes, dans le #narcissisme de vos petites différences, dans vos postures d’intellos embourgeoisé.e.s défendant votre tout petit #pouvoir_symbolique (faire cours, nous dispenser vos lumières, nous évaluer). Comment pouvez-vous imaginer qu’un engagement de gréviste puisse ne pas être au moins aussi formateur que vos enseignements ? Dans la grève, on apprend à travailler collectivement, à #argumenter, #débattre, à élaborer du #commun_politique. Autant de choses auxquelles vous avez, en temps normal – reconnaissez-le –, bien du mal à nous éduquer. J’en rage de vous voir accroché.e.s à vos si insignifiantes prérogatives, alors que nous nous trouvons à un #tournant_historique. Notre #avenir, celui de vos enfants et petits-enfants, mais aussi le vôtre, celui de mes parents et de mes frères se joue maintenant. Il nous faut mener la #lutte aux côtés des autres secteurs mobilisés pour qu’ensemble nous obligions le gouvernement à retirer l’ensemble de ses #contre-réformes. Nous n’avons pas le #choix. Contre la #marchandisation de nos existences, contre les #violences_policières et la fascisation rampante de la société, contre les #inégalités et les #injustices_sociales, contre une université à la main du néolibéralisme nous avons le devoir de faire gronder encore plus fort notre colère. Vous avez le devoir d’y prendre votre part. Le #5_mars prochain débutera une autre phase du mouvement universitaire, à l’appel de la Coordination des facs et des labos en lutte : une #grève_sectorielle_illimitée qui pourrait bien prendre des allures de grève majoritaire et générale. Parce que vous m’avez tant apportée et que nous nous sommes tant aimés – comme titre le film –, je n’ose croire que vous resterez figé.e.s dans ces #comportements_crépusculaires à défendre une identité et des #préséances_professionnelles qui ne correspondent à aucune des #nécessités portées par les luttes actuelles. Le monde universitaire est en #crise. Non parce qu’il va mal (bien que ce soit le cas), mais parce qu’il bouge, que ses structures sont fragilisées par les coups de boutoir d’un macronisme pour qui le travail n’est devenu qu’une variable d’ajustement. Nous n’avons d’autres choix que de faire le pari que nous pourrons profiter de cette crise pour imposer pratiquement une autre vision de l’avenir. Si nous devions en rester là et donner, par inertie, avantage au probable sur le possible, nous le payerions au prix fort. Je sais que vous savez. Et si je vous écris cette lettre, c’est que je nourris l’espoir de vous voir pleinement engagé.e.s à nos côtés et, ensemble, de participer à ce mouvement général de construction d’un #monde_meilleur. J’aimerais, enfin, donner une bonne raison à ma mère d’ouvrir une bouteille de champagne digne de ce nom.

      Rennes, le 17 février 2020.
      Mona R.

      https://www.revolutionpermanente.fr/Lettre-ouverte-a-mes-enseignant-e-s-de-l-Universite-Rennes-2

    • « Les universités n’utilisent pas encore assez de contractuels » : une lecture du dernier rapport des inspections générales sur l’emploi universitaire

      Le rapport conjoint de l’Inspection générale des finances (IGF) et de l’Inspection générale de l’administration de l’éducation nationale et de la recherche (IGAENR) (https://cache.media.enseignementsup-recherche.gouv.fr/file/2019/58/6/IGAENR-IGF_Pliotage_maitrise_masse_salariale_universitespdf_1245586.pdf), rendu en avril, 2019, vient enfin d’être publié. Academia, en espérant pouvoir en faire rapidement sa propre lecture, propose celle que vient de lui faire parvenir Pierre Ouzoulias, archéologue et sénateur communiste des Hauts-de-Seine, en vous invitant à prendre connaissance du rapport lui-même, mis en ligne à une date inconnue, postérieure au 14 février 2020.

      Le plan de « modernisation » de l’université est déjà en place !

      Voici, ci-dessous, quelques citations choisies du rapport rendu par les deux inspections, il y a presque un an. J’ai ajouté des rapides commentaires en italique.

      Dans le contexte actuel de mobilisation, le MESRI va nous expliquer que c’est un rapport qui ne l’engage absolument pas et que tout peut être discuté. À sa lecture, on comprend bien que le Gouvernement, qui écoute plutôt Bercy que le MESRI, n’a pas besoin de la LPPR. Tout est déjà en place pour poursuivre la transformation des établissements en « universités entrepreneuriales » qui trouveront, sous la contrainte, des marges de gestion. Les universités ne manquent pas de moyens, elles sont seulement mal gérées.

      Le projet de budget pour l’année 2021 mettra en place l’étape décisive demandée par Bercy : la non compensation du GVT.

      Pierre Ouzoulias
      24 février 2020
      Le budget de l’ESR est suffisant au regard de la réduction de la dépense publique

      Bien que se situant, tout financement confondu, juste au-dessus de la moyenne des pays de l’OCDE les universités

      sont à ce jour globalement correctement dotées par le budget de l’État pour couvrir leur masse salariale au regard de la situation des finances publiques. Les situations peuvent toutefois varier selon les établissements en raison soit des défaillances du mode d’allocation des ressources, soit de choix de gestion individuels. [p. 3]

      La solution : les ressources propres ; les mauvais élèves : les SHS

      La part des ressources propres dans les recettes des universités, toutes universités confondues, n’a pas évolué entre 2011 et 2017. Les universités fusionnées, les universités scientifiques ou médicales (USM) et les universités de droit, économie, gestion DEG ont un taux de ressources propres 2017 proche de 20%, en augmentation d’un point depuis 2012. Les universités pluridisciplinaires, avec ou sans santé, connaissent un taux de ressources propres supérieur à 16%, stable depuis 2013. Les universités de lettres et de sciences humaines (LSH) ont le plus faible taux de ressources propres, proche de 13% depuis 2011. [p. 16]

      Un constat partagé : la masse salariale augmente grâce à la précarisation

      Le nombre d’équivalent temps plein travaillé (ETPT) de l’enseignement supérieur a augmenté de + 3,6% de 2010 à 2017. En retranchant le « hors plafond », l’évolution est de – 3,22% ; jusqu’en 2013 la réduction est significative (les effectifs représentant à cette date 95,71% de ce qu’ils étaient en 2010), puis l’augmentation est constante, les effectifs revenant en 2017 à 96,78% de ce qu’ils étaient en 2010. [p. 18]

      Les élu-e-s : un obstacle à une gestion efficiente des ressources humaines

      Un principe participatif est au fondement du fonctionnement des universités. Les élus qui représentent le corps enseignant, les personnels et les étudiants participent à la gestion et à l’organisation des activités des établissements. Le conseil d’administration ne compte que huit personnalités extérieures à l’établissement pour 24 à 36 membres. Il détermine la politique de l’établissement, approuve le contrat d’établissement, vote le budget et fixe la répartition des emplois.

      Les unités de formation et de recherche (UFR) sont dirigées par un directeur élu par un conseil de gestion, lui-même élu, dans lequel le poids des personnels reste important. [p. 6]

      Dès lors, les mesures correctives en matière de gestion de masse salariale, qui conduisent nécessairement à remettre en cause des situations acquises sont difficiles à prendre pour un élu et interviennent trop souvent tardivement. La mission a constaté qu’elles s’imposent plus facilement en situation de crise que dans le cadre d’une gestion prévisionnelle visant à construire un modèle économique stable. [p. 20]

      Le modèle : les « universités entrepreneuriales »

      Trois comportements universitaires types en matière de maîtrise de la masse salariale :

      Une partie des universités a recours à une régulation, plus qu’à une optimisation, de la masse salariale. […] Elles mobilisent leurs ressources propres afin de ne pas avoir à engager des actions de recherche d’efficience jugées déstabilisantes.
      D’autres établissements se caractérisent par une volonté d’optimiser la masse salariale, condition nécessaire au déploiement du projet d’établissement. […] Les universités associées à ce deuxième comportement type sont en constante recherche d’efficience.
      Enfin, certaines universités privilégient une recherche de la structure d’emploi conforme aux modèles économiques choisis. […] Ce troisième comportement type est celui d’universités que l’on peut qualifier « d’entrepreneuriales » avec des taux d’encadrement relativement élevés et des modèles économiques atypiques. [p. 21]

      Le recours aux précaires : un instrument de gestion efficace

      Le lien entre masse salariale et stratégie doit passer par une gestion prévisionnelle des emplois et des compétences se traduisant dans un schéma directeur pluriannuel des emplois. Celui-ci requiert de s’adosser à une réflexion interne pour établir une doctrine en matière de choix des statuts adaptés aux activités et à leurs évolutions anticipées, compatibles avec la situation financière et sociale d’ensemble de l’établissement et cohérents avec le projet d’établissement. [p. 10]

      Le non remplacement des retraités : un moyen efficace d’augmenter la part des non-statutaires

      Les prévisions de départs en retraite des titulaires montrent que les universités ne sont pas dépourvues de possibilités en termes de gel, d’annulation ou/et de redéploiements d’emplois par statut et catégorie. [3.1, p. 11]

      Pour conserver un rapport raisonnable, il faudrait combiner l’absence de remplacement d’un poste pour trois départs d’enseignants et d’un poste pour quatre départs de BIATSS. Cela reviendrait à la suppression de 2 497 emplois de BIATSS et 992 emplois d’enseignants pour un impact de masse salariale hors charges patronales respectivement de 76M€ et 41M€.

      Ces chiffres ne sauraient constituer une cible ; ils n’ont d’autre objet que de montrer que les départs en retraite offrent des possibilités de redéploiement et de repyramidage sous réserve de conserver une structure d’emploi cohérente et de ne pas affaiblir les activités de formation et de recherche qui constituent les points forts de chaque établissement.[p. 11]

      Éviter la titularisation des contractuels financés par les Programme des Investissements d’Avenir (PIA)

      Les universités ne pilotent cependant pas toujours de manière suffisamment précise cette évolution de structure. En effet, les emplois sous plafond et hors plafond sont suivis de manière distincte. Ils relèvent d’une logique différente pour les seconds qui sont rapportés aux ressources propres et non à l’équilibre économique d’ensemble de l’université. Le nombre d’enseignants contractuels lié aux PIA s’inscrit notamment dans une logique particulière et augmente de manière significative. À terme, une partie de ces emplois sera inévitablement pérennisée dans la masse salariale de l’université. [p. 26]

      Les universités n’utilisent pas encore assez les contractuels

      Par ailleurs, le recours aux contractuels reste pour l’essentiel fondé sur les articles 4 et suivants de la loi n°84-16 du 11 janvier 1984 portant dispositions statutaires relatives à la fonction publique de l’État. Les universités n’ont que marginalement utilisé l’article L-954 du code de l’éducation qui offre des possibilités plus souples de recrutement de contractuels (contrat dits « LRU »). En 2016, la moitié des universités comptait moins de trois ETP en contrat LRU, au moins une sur quatre n’en employant aucun.

      Le recours aux contractuels peut permettre une meilleure adaptation des effectifs aux besoins. Les personnels recrutés peuvent en effet être permanents ou temporaires, être enseignants-chercheurs, chercheurs ou enseignants ; ou bien cadres administratifs ou techniques. En outre, les universités ont une plus grande maîtrise de leurs situations salariales et de carrière que pour les titulaires dans la mesure où c’est le conseil d’administration qui statue sur les dispositions qui leur sont applicables.

      Dès lors que la plupart des besoins peuvent être indifféremment couverts par des contractuels ou des titulaires, compte tenu de la similitude de leurs profils, l’augmentation de la proportion d’emplois contractuels dans les effectifs d’une université a pour conséquence de lui donner davantage de leviers pour piloter ses ressources humaines, sa masse salariale et son GVT.

      Ensuite, la transformation des CDD en CDI doit être maîtrisée pour ne pas résulter uniquement de la règle de consolidation des contrats au bout de six ans. Par exemple, dans certaines universités rencontrées par la mission, la transformation d’un contrat temporaire en CDI est réalisée après examen par une commission vérifiant notamment que le contrat permanent correspond à des besoins structurels. [p. 27]

      Un autre levier : le temps de travail des enseignants

      Ces chiffres montrent que les choix des établissements en matière de charge d’enseignement ont un impact significatif sur les effectifs enseignants et donc sur la masse salariale et justifient un pilotage du temps de travail des enseignants. La responsabilité doit en être partagée entre les composantes de l’université en charge de l’organisation des enseignements et l’échelon central responsable du pilotage économique et de la conformité des choix aux projets de l’établissement. Le pilotage trouve naturellement sa place dans le cadre du dialogue de gestion interne dont la nécessité a été décrite ci-dessus au paragraphe 2. [p. 19]

      Le non compensation du GVT : un outil efficace pour obliger les universités à s’adapter

      Compte tenu de ses effets contre-productifs, la mission considère que la compensation du GVT n’a plus lieu d’être s’agissant d’opérateurs autonomes, qui sont libres de leurs choix de structure d’emploi ; qu’il revient aux pouvoirs publics de limiter la compensation sur l’impact de la déformation de la masse salariale des titulaires à la seule compensation des mesures fonction publique relatives au point d’indice ou se traduisant par une déformation des grilles (PPCR par exemple), et, pour les universités disposant d’un secteur santé, à la compensation des PUPH en surnombre ; que la maîtrise des universités en matière de recrutement, de promotion et de gestion individuelle des carrières devrait être renforcée ; que le dialogue de gestion doit permettre à chaque établissement de faire valoir sa trajectoire de masse salariale.

      La loi de programmation des finances publiques est la seule référence

      Il serait préférable d’en revenir au respect de la trajectoire LPFP, et de ne s’en écarter, en plus ou moins, qu’au vu de variations significatives constatées (et non anticipées) sur les dépenses ou les recettes des établissements. Cela semble une condition de la pluri annualité et de l’autonomie des opérateurs. [p. 37]

      Où l’on retrouve l’évaluation !

      Proposition n° 9 : connecter la modulation des moyens à l’évaluation de l’activité et de la performance universitaires ; [p. 42]

      Conclusion : c’est mieux, mais il faut accélérer !

      La mission constate également que les universités visitées ont fait des progrès dans leurs modalités de gestion depuis le passage aux RCE et qu’une marche supplémentaire peut désormais être franchie sous réserve que les outils, notamment informatiques, à disposition soient améliorés.

      Elles disposent de réelles marges de manœuvre leur permettant de gérer leurs effectifs de manière plus efficiente. Ces marges de manœuvre s’inscrivent cependant dans des logiques de pilotage à moyen et long terme compte tenu de la faible plasticité naturelle des effectifs. Pour pouvoir être mises en œuvre, elles supposent une capacité à construire des schémas d’effectifs cibles à trois ou quatre ans.

      En conséquence, la mission préconise, d’une part d’entamer une refonte du système actuel de répartition des crédits largement fondé sur la reconduction des enveloppes acquises lors du passage aux RCE, d’autre part, de mettre en place une contractualisation État/université dans le cadre de contrats de performance, d’objectifs et de moyens pluriannuels, enfin, de développer une architecture d’information permettant d’instaurer une véritable transparence entre les acteurs et en leur sein. [p. 45]

      https://academia.hypotheses.org/17154

    • Docteur·e·s sans poste : de la vocation à la vacation

      Le projet de Loi de programmation pluriannuelle de la Recherche organise la « précarisation galopante » des universitaires et « menace la qualité de nos recherches » fustigent des collectifs de docteur·e·s sans poste mobilisés contre la loi. « Et si nous cessions de faire vivre vos établissements au prix de notre exploitation, qu’en serait-il, Madame la ministre, de l’excellence de l’enseignement, de l’attractivité de la recherche française que vous vantez tant ? »

      Depuis décembre 2019, les personnels de l’Université se mobilisent contre les réformes des retraites et de l’assurance-chômage, mais aussi contre le projet de loi réformant nos universités publiques (Loi de programmation pluriannuelle de la Recherche– LPPR). Si nous – docteur·e·s sans poste –, nous nous engageons dans la grève et multiplions les actions symboliques, c’est aussi pour dénoncer la précarisation galopante de l’Enseignement Supérieur et de la Recherche (ESR), qui menace la qualité de nos recherches ainsi que la transmission des savoirs aux étudiant·e·s, toujours plus nombreux·ses à l’Université.

      De nos jours, le plus haut des diplômes universitaires ne protège ni du mal-emploi, ni du chômage, bien au contraire. Cinq ans après leur doctorat, 14 % des docteur·e·s sont au chômage, contre 13 % pour les titulaires d’un master, et moins de 10 % pour les diplômé·e·s des écoles d’ingénieurs et de commerce. Pour celles et ceux qui ont trouvé un emploi, il s’agit d’un contrat à durée déterminée dans 45 % des cas, et même dans 55 % des cas pour les docteur·e·s travaillant au sein de l’ESR.

      Une mise en concurrence permanente

      Une fois docteur·e·s, c’est un véritable parcours du combattant qui commence, jalonné de multiples procédures de sélection encore trop souvent opaques, et parfois discriminatoires !

      Depuis la fin des années 1990, le nombre de postes de maîtres de conférences (MCF) publiés chaque année par les universités a chuté de manière drastique (- 65%) alors que le nombre d’étudiant·e·s a augmenté de 15 %. Les perspectives dans les organismes publics de recherche ne sont guère plus réjouissantes. Ainsi, le CNRS, qui proposait plus de 550 postes de chargé·e·s de recherche au concours en 2000, n’en publiait plus que 240 en 2020, soit une diminution de 56 % en 20 ans !

      La réduction des postes renforce mécaniquement une mise en concurrence exacerbée. Pour étoffer notre dossier, nous devons multiplier les tâches à l’infini : communiquer dans des colloques et journées d’études ; s’intégrer à des réseaux de recherche ; organiser des événements académiques ; publier nos recherches ; et enseigner. En décembre dernier, le PDG du CNRS, Antoine Petit, se félicitait du caractère « darwinien » de la future LPPR, mais pour nous, docteur·e·s sans poste et enseignant·e·s-chercheur·e·s précaires, ce darwinisme scientifique est déjà à l’œuvre dans notre quotidien.

      Une précarité qui s’immisce dans nos vies

      À défaut de postes pérennes, nos possibilités d’obtenir des contrats à durée déterminée sont rares. Quand nous ne l’avons pas déjà été pendant nos thèses, nous pouvons candidater à des postes d’Attachés Temporaires d’Enseignement et de Recherche(ATER), mais ces CDD d’un an ne sont renouvelables qu’entre une et trois fois selon nos statuts et tendent eux aussi à diminuer (-27 % entre 2005 et 2013). Nous candidatons également à des post-doctorats, c’est-à-dire des contrats de recherche qui durent généralement de six mois à un an et demi. Mais ces derniers sont rares, et très inégalement distribués, souvent au gré de procédures opaques. Faute de mieux, beaucoup continuent donc à faire de la recherche dans des conditions indignes (travail bénévole, missions courtes, parfois sans contrat, rémunération en nature ou en maigres indemnités journalières…).

      Pour continuer à enseigner, la difficulté est tout aussi grande. Le ministère estime que l’Université emploie plus de 20 000 enseignant·e·s non-permanent·e·s, auxquels il faut ajouter plus de 130 000 chargés d’enseignement vacataires. Ces vacataires sont des enseignant·e·s qui travaillent dans des conditions révoltantes : non accès aux congés payés, aux allocations chômage et à l’assurance maladie ; « contrats » - qui s’avèrent être de simples fiches de renseignements - souvent signés après les heures de cours effectuées ; absence de mensualisation des paiements ; non-prise en charge des frais de transports, etc. Payé·e·s 41,41 euros bruts de l’heure de cours, ces vacations sont en réalité rémunéré·e·s... 26 centimes en dessous du SMIC horaire, si l’on considère le temps de travail réel (réunions pédagogiques, préparation des cours, correction des copies, etc.). Si ces situations indignent, elles deviennent pourtant la norme : les vacataires assurent l’équivalent du volume d’enseignement de 13 000 postes de MCF et représentent aujourd’hui en moyenne plus du quart des personnels enseignants.

      Dans ces conditions, il nous faut parfois recourir à des emplois alimentaires, transformer nos allocations chômage en mode de financement routinier de nos recherches et, pour ne pas prendre de retard dans cette compétition constante, travailler sans arrêt. Ce sur-travail, généralement invisible, souvent gratuit ou mal rémunéré, entraîne des maux physiques et mentaux importants - trop souvent occultés - et impacte directement nos vies. Selon les disciplines, l’âge moyen d’obtention du doctorat varie entre 30 et 34 ans, et le temps écoulé entre la soutenance et le recrutement (quand il a lieu !) s’accroît inexorablement, à des âges de la vie supposés être ceux de la stabilisation professionnelle, résidentielle et familiale.

      Dans cet océan de précarité, certain·e·s sont en première ligne. Face à un système universitaire qui ne prête qu’aux riches, les femmes, les étranger·e·s, les diplomé·e·s issu·e·s des classes populaires et les docteur·e·s des universités non-franciliennes sont déjà les grand·e·s perdant·e·s de cette précarisation croissante.

      La précarité pour seul horizon ?

      Ainsi, pour les docteur·e·s sans poste, les réformes actuelles ne font qu’aggraver une situation déjà catastrophique. La réforme de l’assurance-chômage réduit nos droits aux allocations alors que Pôle Emploi est souvent notre principale ressource. Ensuite, nos cotisations en pointillés induites par l’enchaînement des contrats précaires ne nous donneront droit qu’à une retraite dérisoire avec la mise en œuvre de cette retraite par points. Enfin, la casse de l’Université publique de qualité se fait toujours plus impitoyable avec le projet de la LPPR qui institutionnalise la précarité. En créant des « contrats de projet », calqués sur les « CDI de mission » du secteur du BTP, la LPPR proposera des contrats de 5 à 6 ans, le temps d’une recherche, sans certitude sur leur prolongation. La construction d’une Université privatisée, qui ne finance que « l’excellence » - non plus définie par la communauté scientifique mais par les décideurs politiques et les financeurs privés - et qui délaisse les savoirs jugés improductifs, va de fait précariser ses personnels, et fragiliser toutes et tous les étudiant·e·s !

      Nous, docteur·e·s sans poste, nous demandons au Gouvernement, au-delà du retrait et de l’abandon de ces réformes en cours :

      la titularisation de celles et ceux qui font fonction d’enseignant·e·s-chercheur·e·s au quotidien, mais sans jouir de conditions de travail décentes, et qui travaillent même souvent dans une illégalité entretenue par l’institution universitaire.
      la création massive de postes d’enseignant·e·s-chercheur·e·s pour pouvoir proposer une formation de qualité et encadrer décemment les étudiant·e·s toujours plus nombreux·ses à s’inscrire à l’Université.

      Les racines de cette précarité sont structurelles ; elles dépendent de choix politiques, et non de notre hypothétique illégitimité ! L’excellence que les ministres successifs appellent de leurs vœux, nous la mettons en œuvre à chaque instant. Et pourtant, ils nous privent des moyens d’une excellence pérenne et sereine ! Certes, les connaissances sont produites, les savoirs sont transmis, les diplômes sont obtenus. Mais au prix de quels sacrifices ? Et si nous cessions de faire vivre vos établissements au prix de notre exploitation, qu’en serait-il aujourd’hui, Madame la ministre, de l’excellence de l’enseignement et de l’attractivité de la recherche française que vous vantez tant ?

      Une version longue de la tribune est accessible ici.

      Signataires :

      Tribune des docteur·e·s sans poste, membres des collectifs universitaires suivants :

      Précaires de l’ESR de Rouen ;
      Collectif Marcel Mauss – Association des doctorant.e.s en sciences sociales de Bordeaux ;
      Précaires de l’Université de Caen Normandie ;
      Doctorant-es et non titulaires de Lyon 2 ;
      Précaires de l’Université de Picardie Jules Verne à Amiens ;
      Précaires de l’ESR de Bordeaux ;
      Précaires de l’Université Paris 13 (Seine Saint Denis) ;
      Précaires de l’enseignement de la recherche Ile-de-France ;
      Mobdoc/Les Doctorant.e.s Mobilisé.e.s pour l’Université Paris 1 ;
      Groupe de Défense et d’Information des Chercheurs et Enseignants Non-Statutaires de l’Université de Strasbourg (Dicensus) ;
      Non-Titulaires de Paris 3 en lutte ;
      Précaires du Mirail-Université Toulouse Jean Jaurès ;
      Précaires mobilisé-e-s de Paris 8 ;
      Précaires de l’Université de Poitiers ;
      Collectif Docteur.e.s sans poste ;
      A’Doc - Association des Jeunes Chercheur·es de Franche Comté ;
      Travailleur·e·s précaires de l’ESR d’Aix-Marseille ;
      Précaires de l’ESR d’Évry.

      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/020320/docteur-e-s-sans-poste-de-la-vocation-la-vacation

    • Strasbourg : pour “gagner 13 millions d’euros” et financer la recherche, des universitaires jouent au #loto

      Ce vendredi 6 mars, des universitaires de Strasbourg vont acheter collectivement des tickets de loto. Pour, éventuellement, gagner de quoi payer leurs travaux de recherches. Et surtout, dénoncer de manière symbolique le nouveau modèle du financement de la recherche par appel à projets.

      « Contre l’autonomie des universités, vive la ’lotonomie’ de la recherche ! » "Au tant vanté autofinancement des universités, nous répondons par le ’lotofinancement’." Les jeux de mots sont peut-être faciles, mais explicites. Et dans le communiqué publié ce mercredi 4 mars, les membres du collectif d’enseignants et de chercheurs de l’Université de Strasbourg (Unistra) à l’origine de cette initiative ’lotofinancement’ s’en donnent à cœur joie. Car quoi de mieux que l’humour pour dénoncer ce qui fâche ?

      Au cœur des griefs, le projet au nom barbare de LPPR (Loi de Programmation Pluriannuelle de la Recherche), qui vise « à développer et renforcer le financement de la recherche par appels à projet. »

      Ces appels à projet sont très chronophages, et avec beaucoup de perdants. Le loto, c’est pareil, mais il est beaucoup moins chronophage."
      - Arthur, l’un des instigateurs de l’initiative Lotofinancement

      Selon Arthur (nom d’emprunt), l’un des universitaires à l’origine de l’initiative, monter des dossiers en vue d’obtenir d’hypothétiques financements « est une double perte de temps : pour ceux qui les montent et ceux qui les évaluent. » Et au final, il y a peu de gagnants. Alors, en tant qu’universitaires, « on préfère prendre ce temps pour faire notre métier, c’est-à-dire de l’enseignement et de la recherche », explique-t-il.

      Dans son communiqué, le collectif d’universitaires détaille ses craintes quant à ce type de financement par projet, qui risque de concentrer « les moyens sur quelques équipes au détriment de la diversité des travaux » et détourner « les scientifiques de leur cœur de métier – l’enseignement et la recherche. »

      Nous nous en remettons à la loi d’une véritable loterie, plus égalitaire et finalement bien plus efficace que ce que l’on nous propose.
      - communiqué du collectif Lotofinancement

      Le collectif revendique « une vraie politique de financement pérenne », seule garante selon lui d’une « recherche de qualité et indépendante », et dénonce ce qu’il appelle un risque de « marchandisation de l’université ». Pour bien se faire entendre, il a donc décidé de prendre le taureau par les cornes : « s’en remettre aux jeux de hasard pour financer (ses) travaux ». Une décision annoncée pompeusement comme une grande première « de l’histoire de l’Université française ».

      L’action, symbolique, « satirique », et bien sûr ouverte au grand public, aura lieu ce vendredi 6 mars à 14h30, au tabac de la Musau, 1 rue de Rathsamhausen à Strasbourg. Le collectif s’y rendra pour convertir 1000 euros en tickets de loto. Cette somme a été récoltée depuis quatre semaines auprès de 200 donateurs, collègues, étudiants et autres, dont… un ancien président d’université.

      « On espère fortement gagner 13 millions d’euros, afin de pouvoir créer une grande fondation qui permettra de financer la recherche », sourit Arthur. En cas de gain plus modeste – hypothèse peut-être plus réaliste, mais qui sait ? - le collectif a très sérieusement réfléchi à la manière de se partager le gâteau : 49% seront attribués aux missions d’enseignement et de recherche. 49% serviront à renflouer des caisses de la grève des universités (une grève reconductible, débutée à l’Unistra ce jeudi 5 mars pour demander, entre autres, le retrait de la fameuse LPPR et dénoncer la précarisation des étudiants).

      Et les 2% restants ? Ils serviront à mener quelques « actions de convivialité, car la mobilisation doit être festive » précise Arthur.

      https://france3-regions.francetvinfo.fr/grand-est/bas-rhin/strasbourg-0/insolite-strasbourg-gagner-13-millions-euros-financer-r
      #lotofinancement #lotonomie

    • Je copie-colle ici un commentaire que j’ai fait à ce message :
      https://seenthis.net/messages/829489

      –----

      Voir aussi ces autres #témoignages très parlant, plutôt en lien avec l’enseignement et moins avec la recherche, mais vu qu’il y a grand nombre de fonctionnaires de l’#ESR qui sont à la fois chercheur·es et enseignant·es... ça touche souvent les mêmes personnes et des questions proches.
      Cela explique très bien la situation dans laquelle se trouve les facs françaises en ce moment (avec ou sans LPPR (https://seenthis.net/messages/820330#message820388) :

      Pourquoi je démissionne de toutes mes fonctions (administratives) à #Nantes
      https://blogs.mediapart.fr/olivier-ertzscheid/blog/150220/pourquoi-je-demissionne-de-toutes-mes-fonctions-administratives-nant
      #démissions

      La licence d’informatique de Paris-8 n’ouvrira pas l’an prochain
      https://seenthis.net/messages/820393#message827354
      –-> Et une interview de #Pablo_Rauzy qui enseigne en #informatique à #Paris-8 :
      https://podtail.com/podcast/podcast-libre-a-vous/interview-de-pablo-rauzy-maitre-de-conferences-a-l
      #Paris_8

    • La LPPR s’invite aux 10 ans de l’ICM !

      Le 10 mars 2020, La Part Précaire de la Recherche (LPPR) s’est invitée à inauguration de l’exposition des 10 ans de l’ICM (Institut du Cerveau et de la Moelle épinière).
      Nous reproduisons ici le texte qui a été lu à cette occasion et mettons à disposition une vidéo et des photos.

      https://www.youtube.com/watch?v=xvjhFvIYQ-Q&feature=emb_logo

      Mesdames, Messieurs, et les autres, bonjour !

      C’est la LPPR qui vient ici vous saluer !
      Oui nous sommes la LPPR ! Pas celle chère à Chimérique Vidal et Antoine Le Tout Petit, non.
      Nous sommes La Part Précaire de la Recherche, les petites mains et les cerveaux qui font tourner la boutique, et que les médiocres manageur·ses du public et du privé voudraient voire corvéables et exploitables à merci.

      Vous vous demandez pourquoi nous nous invitons à cette petite sauterie faite de discours pompeux et creux, de petits fours et de bulles.
      C’est un peu le fruit du hasard : nous voulions d’abord apporter notre soutien aux membres du personnel hospitalier de la Pitié Salpêtrière : ces femmes et ces hommes qui, malgré un sous-financement chronique de l’hôpital public, accomplissent leur métier avec professionnalisme et épuisement.

      Mais ielles nous ont dit que malheureusement ce n’était pas le bon moment, au seuil d’une épidémie virale. Ielles nous ont suggéré d’aller jeter un coup d’œil sur ce beau et jeune bâtiment.

      En bons chercheurs et chercheuses précaires, c’est ce que nous avons fait. Et ce n’est pas l’espoir que nous avons découvert, comme nous le faisait miroiter votre récente campagne de pub, mais un mélange d’effroi, de sidération – mais aussi beaucoup de ridicule.
      L’ICM, l’Institut du Cerveau et de la Moelle Epinière, pardon “sans moelle à partir d’aujourd’hui” est une idée magnifique, créée par des Hommes Magnifiques, oui des Hommes, seulement des Hommes !

      Comme :
      – Jean Todt : Président de la Fédération Internationale de l’Automobile, ami intime de l’Industrie du Tabac
      – Maurice Lévy : Ancien PDG de Publicis, que nous remercions pour la beauté et la pertinence de publicités en oubliant sa fortune et la manière dont l’entreprise traite ses salarié·es.
      – Jean Glavany : politicien de renom, ami intime de Mitterrand et du déchu Cahuzac.
      – Luc Besson : grand cinéaste français, avec quelques casseroles au cul pour accusation de viol et harcèlement sexuel.

      J’en passe et des meilleurs !

      Nous n’allons pas jouer les coupeur·ses de cheveux en quatre et analyser les intérêts financiers d’une telle initiative, nous sourions de l’intérêt de ces Messieurs pour la recherche de remèdes aux maladies neurodégénératives qui pourraient les affecter et les empêcher d’exercer leur nuisance de manière lucide.

      Ce que nous dirons c’est que le modèle de partenariat public/privé de l’ICM est à nos yeux un cauchemar :

      Que vienne l’argent des riches pour la recherche publique, mais sous forme de l’impôt, pas de donations et legs auxquels il faudrait même dire “merci”. Nous ne voulons pas de votre philanthropie, car nous ne voulons pas que les domaines de recherche soient orientés en fonction du bon vouloir des plus fortuné·es. Si vous êtes soucieux d’aider la recherche fondamentale : payez vos impôts, exigez que vos ami·es payent leurs impôts, exigez la fin du Crédit Impôt Recherche (CIR) qui coûtent à la recherche publique 6 milliards d’euros par an !
      6 milliards soit 2 fois le budget du CNRS !

      Qu’on arrête de tout mélanger sous couvert d’efficacité et de cohérence pour se retrouver avec les mêmes dirigeant·es à la tête de la Fondation privée ICM et de L’Unité de Recherche Publique.

      Qu’on arrête de nous faire miroiter les bienfaits de la Start-Up Nation, et des incubateurs où la recherche publique se met au service de la rentabilité et du “faire du fric” avec des conflits d’intérêt qui n’offusquent plus personne.

      Qu’on arrête de nous parler d’excellence et de flexibilité, qui sont souvent des cache-sexes de Lobbying Éditorial et Souffrance au Travail.

      Au ruissellement on y croit pas, aux premiers de cordée non plus :

      Nous sommes convaincu·es que, parmi vous, travailleuses et travailleurs de ce beau Monolithe “Bling Bling”, il y en a qui ne se retrouvent pas dans ce que les dirigeant·es veulent faire de la recherche publique. Leur modèle est perdant tant pour les conditions de travail imposées, mais aussi pour la qualité de la recherche. Le sous-financement de la recherche publique, le pilotage par appels d’offre, les ANRs, les ERCs, vous pourrissent la vie et vous empêchent d’exercer votre métier.

      Ce modèle c’est celui qui a fait que les collègues travaillant sur les coronavirus, parce que cela n’était plus jugé assez sexy et tendance, se sont vu sucrer leurs financements. La science ne marche pas dans l’urgence et la réponse immédiate. Elle ne doit pas marcher non plus selon le flair des investisseurs privés.

      Nous vous invitons à lever les yeux de vos expériences,
      à vous organiser,
      à débattre,
      à lutter !

      Après le succès de la manifestation du 5 mars, où l’université et la recherche se sont arrêtées, nous réitérons nos revendications :

      Nous exigeons que soit mis en œuvre dès 2020 un plan d’urgence pour l’université et la recherche.

      Nous exigeons des titularisations et des recrutements massifs, à la hauteur des besoins ; des financements pérennes pour assurer à tou·tes de bonnes conditions de travail, d’étude et de vie ; des garanties sur la sécurité juridique des étrangèr·es.

      Ainsi seulement nous pourrons créer une université démocratique, gratuite, antisexiste, antiraciste, émancipatrice et ouverte à toutes et tous.
      L’université doit être un service public, qui ne doit ni sélectionner, ni accroître ou légitimer les inégalités.
      La recherche doit être un service public, en capacité de produire des savoirs d’intérêt général.
      Nous allons les refonder, avec vous !

      Après cette dernière envolée, je vous souhaite, au noms de La Part Précaire de la Recherche un bon cocktail !

      Nous : on se lève et on se casse !

      A bientôt dans la lutte.


      https://universiteouverte.org/2020/03/10/la-lppr-sinvite-aux-10-ans-de-licm

    • Pourquoi l’université s’arrête ? Billet participatif

      En ce 5 mars 2020 les facs et labos en lutte contre la Loi de précarisation et de privatisation de la recherche (LPPR) ont décidé de s’arrêter. Proposition d’un billet participatif pour en expliquer les raisons.

      Le présent billet formule une série de 10 premières propositions sur le modèle syntaxique de l’opposition entre un « Ils » et un « Nous » :

      L’Université s’arrête parce qu’ils…… . Nous

      J’invite chaque membre de la communauté d’enseignement et de recherche qui se sentirait impliqué dans ce « Nous » à formuler dans les commentaires de nouvelles propositions. Je les remonterai progressivement dans le billet. Je rappelle sous l’affiche d’Olivier Long deux extraits du discours de Simon Leys.

      – L’Université s’arrête parce qu’ils ont fermé les portes de l’enseignement supérieur aux enfants des classes sociales les plus pauvres. Nous sommes l’Université Ouverte et nous demandons la suppression du dispositif Parcoursup.

      – L’Université s’arrête parce qu’ils ont créé 30% d’emplois précaires dans le supérieur et que la LPPR va encore les multiplier. Nous exigeons des postes de fonctionnaires titulaires et un plan de titularisation de tous les précaires.

      – L’Université s’arrête parce qu’ils ont fait de l’excellence un concept vide. Nous travaillons à inventer et définir les concepts.

      – L’Université s’arrête parce qu’ils ont tué la démocratie universitaire. Nous demandons l’abrogation de la loi LRU de 2007 et de la loi Fioraso de 2013 et une nouvelle loi électorale qui assure une représentation effective des personnels et des étudiants, sans membres extérieurs à la botte des présidents.

      – L’Université s’arrête parce qu’ils veulent financer les laboratoires uniquement sur appels à projets alors que 85% de nos dossiers sont refusés. Nous exigeons des crédits récurrents pour les laboratoires et nous refusons de passer plus de temps à chercher de l’argent qu’à faire de la recherche.

      – L’Université s’arrête parce qu’ils ne cessent de nous mettre en concurrence et de nous évaluer. Nous refusons la compétition permanente dont toutes les études démontrent qu’elle ne favorise pas la recherche et qu’elle brise les équipes et la collégialité.

      – L’Université s’arrête parce le management autoritaire dans tous les établissements a provoqué burn-out, harcèlements et suicides. Nous ne sommes pas des robots, ni des « ressources humaines », nous sommes des individus et exigeons le respect et les conditions de travail décentes qui sont dus à tous les salariés.

      – L’Université s’arrête parce que la planète brûle. Nous demandons une liberté totale de recherche et tous les moyens nécessaires pour inventer les solutions scientifiques et techniques afin de lutter contre la crise écologique et le réchauffement climatique.

      – L’Université s’arrête parce qu’ils veulent faire de l’université une entreprise comme les autres. Nous sommes un Service public qui œuvre pour le bien commun.

      - L’université s’arrête parce qu’ils ne sont pas l’université. Nous sommes l’université.

      –------

      Contributions formulées dans les commentaires (sans sélection aucune). Elles n’engagent pas le blogueur. Elles peuvent être débattues dans le fil des commentaires.

      De Blaz :

      L’université s’arrête puisque les facultés de sciences sociales entassent les publics populaires qui récolteront - s’ils vont jusqu’au bout du cursus- des diplômes dévalorisés. Nous voulons que les facultés dites à "pouvoir" (y compris les grandes écoles) soient plus représentatives de la diversité, quitte à passer par des politiques de "discrimination positive".

      L’université s’arrête lorsque des séminaires doctoraux regroupent des chercheurs calculateurs, parcimonieux, disposés à entendre les idées des autres mais jamais à partager leur réflexion. Nous voulons des chercheurs universitaires qui nous grandissent, qui grandissent avec nous lors d’’échanges réflexifs

      L’université s’arrête parce qu’une horde d’étudiants étrangers s’inscrivent en troisième cycle, contribuent par leurs efforts à développer des savoirs (dont certains seront commercialisés) avant de se retrouver sur le tarmac. Nous voulons des universités qui ne profitent pas de la misère du monde (prolongation du titre de séjour) pour exploiter la matière grise des pays dits "sous-développés"

      L’université s’arrête puisque la réflexion intellectuelle a été substituée par "une économie du savoir" contraignant le chercheur à multiplier des publications pour exister. Résultat des courses : y’a rien à lire ! Nous voulons des chercheurs au service de la « clarté ».

      L’université s’arrête dès lors qu’elle exerce volontiers la censure à l’endroit de savoirs non consacrés. Nous voulons une université moins conformiste, ouverte aux études postcoloniales.

      De NOID :

      L’université s’arrête parce qu’ils croient que nous n’avons pas le temps pour l’éthique, que l’art ne se vit pas mais se consomme, que le temps de la philosophie est perdu. Nous savons qu’il est dangereux d’enrichir "ils" par de nouvelles connaissances, de nouvelles technologies, de nouveaux savoirs qui renforceraient encore leurs pouvoirs.

      L’université s’arrête parce qu’ils croient qu’on peut amender les lois de la physique. Nous ne voulons plus donner de confiture aux cochons.

      De LAURENTGOLON :

      L’Université s’arrête parce qu’ils pensent qu’elle est inutile. Nous savons qu’elle donne à penser et nous exigeons du temps pour le faire.

      L’université s’arrête parce qu’ils souhaitent la piloter et la museler par la multiplication des appels à projet. Nous sommes l’université libre qui cherche là où elle pressent qu’une question se pose et nous exigeons les moyens et le temps de mettre en œuvre notre liberté académique.

      L’université s’arrête parce qu’ils souhaitent orienter nos projets vers la rentabilité. Nous sommes la recherche pour et avec tou·te·s et nous exigeons que le statut d’auditeur libre ne fasse plus l’objet d’aucune restriction.

      De Bertrand Rouziès :

      L’université s’arrête aussi parce que de nouveaux mandarins, cumulards de hautes responsabilités administratives, en doctes excroissances de la servilité politique, du trafic d’influence et de la police de la pensée, profitent de la paupérisation croissante des chercheurs pour en vampiriser les travaux et les vassaliser.

      Quand l’université ne s’arrête pas d’elle-même pour reprendre ses esprits, se redonner du souffle et du coffre, elle offre le spectacle, dans son (dys)fonctionnement ordinaire, d’un idéal à l’arrêt.

      L’université s’arrête quand la cooptation et les clauses tacites biaisent le recrutement et fabriquent un « nous » de corps de garde ou de corps de ferme.

      L’université s’arrête quand les maîtres n’apprennent plus à leurs disciples à se passer d’un maître.

      L’université s’arrête où l’universalité se contraint.

      L’université s’arrête où l’entreprise commence.

      Deux extraits du discours prononcé par Simon Leys le 18 novembre 2005 à l’Université catholique de Louvain lors de la remise du doctorat honoris causa

      UNE IDÉE DE L’UNIVERSITÉ

      « Il y a quelques années, en Angleterre, un brillant et fringant jeune ministre de l’Éducation était venu visiter une grande et ancienne université ; il prononça un discours adressé à l’ensemble du corps professoral, pour leur exposer de nouvelles mesures gouvernementales en matière d’éducation, et commença par ces mots : « Messieurs, comme vous êtes tous ici des employés de l’université… », mais un universitaire l’interrompit aussitôt : « Excusez-moi, Monsieur le Ministre, nous ne sommes pas les employés de l’université, nous sommes l’université. » On ne saurait mieux dire. Les seuls employés de l’université sont les administrateurs professionnels, et ceux-ci ne « dirigent » pas les universitaires – ils sont à leur service. »

      « Un recteur d’université nous a engagés un jour à considérer nos étudiants non comme des étudiants, mais bien comme des clients. J’ai compris ce jour-là qu’il était temps de s’en aller. »

      https://blogs.mediapart.fr/pascal-maillard/blog/050320/pourquoi-l-universite-s-arrete-billet-participatif

    • Avis du COMETS : « Contribution du Comité d’Ethique du CNRS (COMETS) aux discussions préparatoires à la Loi de Programmation Pluriannuelle de la Recherche »

      Séance plénière du COMETS du 24/02/2020.

      Le gouvernement promet une loi de programmation pluriannuelle de la recherche qui devrait s’accompagner d’un accroissement substantiel de la part du budget de l’État consacrée à la recherche. Le COMETS considère cette annonce comme très encourageante. Toutefois, au vu des rapports de préfiguration à la loi et des premières déclarations de décideurs ou responsables, le COMETS tient à les examiner à la lumière de l’intégrité et de l’éthique. Ces dimensions lui paraissent essentielles à la fois pour conduire la science et pour assurer la confiance que les citoyens accordent aux chercheurs. Dans la perspective de la rédaction finale du projet de loi, le COMETS exprime ici ses inquiétudes et formule quelques recommandations qui découlent de ses précédents avis (voir https://comite-ethique.cnrs.fr/avis-publies).

      Un équilibre entre ressources récurrentes et contractuelles est nécessaire pour garantir l’indépendance des chercheurs, stimuler la découverte de nouveaux objets d’étude et favoriser la recherche fondamentale sur le long terme.

      La domination de priorités thématiques dans le financement de la recherche a des conséquences négatives sur la diversité et la créativité de la production scientifique.

      L’instauration de la compétition comme dynamique de la recherche est propice au développement de méconduites et fraudes telles que le plagiat et la falsification des résultats. Par ailleurs, la pression s’exerçant sur le chercheur peut générer diverses formes de harcèlement.

      De tels manquements à l’intégrité et à la déontologie risquent d’être favorisés par la précarité programmée des personnels de la recherche touchant notamment les femmes. Une vigilance est requise pour accompagner l’ensemble du personnel et le former à une recherche intègre et responsable.

      L’incitation au recrutement et à l’évaluation des personnels principalement selon des critères bibliométriques ne garantit pas le développement d’une recherche de qualité, pas plus que l’embauche de « stars » selon ces mêmes critères.

      L’extension annoncée des effectifs de professeurs associés et la création de directeurs de recherche associés exerçant une activité en dehors de l’organisme peut être source de conflits d’intérêts. Des procédures claires de déclaration de liens d’intérêts devront donc être mises en place.

      La réduction des postes de fonctionnaires ne peut qu’amplifier le manque d’attractivité des filières des métiers de la recherche, menaçant ainsi les viviers tant pour la recherche publique que pour la recherche privée françaises.

      L’incitation à des activités contractuelles directes ou via des institutions, si elle peut aider à pallier au manque d’attractivité des métiers de la recherche et répondre à un objectif économique, génèrera une multiplication des liens d’intérêts qui pourrait exposer les chercheurs à des conflits d’intérêts. Elle devrait s’accompagner d’un renforcement de la sensibilisation des personnels à ces risques.

      https://comite-ethique.cnrs.fr/avis-comets-lppr

    • Contre la pandémie : des moyens durables pour nos services publics !

      Communiqué du 14 mars 2020 du comité de mobilisation des facs et labos en lutte.

      Depuis le 5 décembre, travailleur·ses et étudiant·es de tous statuts luttent dans les facs et les labos – et auprès des travailleur·ses de tous les secteurs – contre la destruction du système de retraite par répartition. Depuis le 5 mars, nous avons appelé à la mise à l’arrêt des universités et de la recherche pour protester contre les conditions de travail et d’étude désastreuses, et la pénurie de postes statutaires et de moyens pérennes, que viendrait aggraver la future Loi Pluriannuelle de Programmation de la Recherche (LPPR) : système universitaire à deux vitesses, compétition accrue pour les crédits de recherche, précarité de l’emploi intensifiée, conditions d’étude détériorées. Depuis des années, nous sommes nombreux·ses à alerter sur les conséquences dramatiques de la destruction des services publics et des politiques d’austérité.

      Jeudi 12 mars, dans une allocution présidentielle suscitée par la crise sanitaire majeure à laquelle est confronté le pays, Emmanuel Macron a annoncé la fermeture aux usagèr·es, jusqu’à nouvel ordre, des crèches, des écoles, des collèges, des lycées et des universités. Cette décision est nécessaire mais tardive, car des cas étaient déjà comptabilisés notamment dans les universités et que la fermeture proactive des écoles dès l’arrivée des premiers cas sauve des vies en cas de pandémie. Et bien d’autres lieux de travail ne devraient-ils pas être fermés, si nos vies comptaient plus que le CAC 40 ?
      Santé et recherche publiques au rabais

      Macron a prétendu porter « la reconnaissance de la nation » aux « héros en blouse blanche ». Pour mieux ignorer ces mêmes héros, lorsqu’ils sonnent l’alerte sur les effets catastrophiques des années de politiques d’austérité dans la santé et la recherche publiques ? Face à la crise hospitalière, le gouvernement ne propose que des heures supplémentaires et une inquiétante réforme de la formation des internes. Comme le rappellent les soignant·es en lutte, les hôpitaux ne disposent pas aujourd’hui des moyens humains et matériels suffisants pour faire face à une crise sanitaire majeure. Protéger la santé de tou·tes autrement que dans l’urgence implique un vrai plan de financement public et de recrutement de fonctionnaires à l’hôpital, la suppression du jour de carence et de tout frein à l’accès aux soins, y compris pour tou·tes les étrangèr·es, ou encore l’attribution de postes pérennes et de moyens suffisants pour la propreté, l’hygiène et la sécurité de tous les lieux de travail.

      De la même façon, Macron affirme sa confiance dans la recherche française pour trouver en urgence des issues à la crise sanitaire, quand notre recherche publique a pris du retard du fait d’un manque structurel de crédits à long terme pour les laboratoires, soumis à l’idéologie de la compétition sur projets : plus de dix années perdues pour la recherche fondamentale sur le coronavirus ! Des mesures immédiates doivent être prises pour inverser cette tendance. L’État doit par exemple cesser d’offrir aux grandes entreprises l’équivalent de deux fois le budget du CNRS (sous la forme du « Crédit Impôt Recherche »), et redistribuer cet argent aux laboratoires de recherche publics. Notre pays a plus que jamais besoin de rétablir une recherche diversifiée et fondamentale, une université et des services publics dotés de moyens humains et financiers à la hauteur des défis écologiques, sanitaires et sociaux que nous devons relever, à l’opposé de politiques « d’innovation » de court-terme, partielles et marchandes.
      Qui paiera la crise sanitaire et sociale ?

      Des « plans de continuité de l’activité » sont en cours d’élaboration précipitée dans les universités. Comme à l’hôpital, les circonstances exceptionnelles exacerbent les tensions dans des universités déjà au bord du burn-out collectif. Le gouvernement doit se rendre à l’évidence : la fermeture des facs aux étudiant·es et à une large part des travailleur·ses est incompatible avec la poursuite des cours et des évaluations. Prétendre le contraire est un nouveau signe de mépris des bonnes conditions de travail, d’études et de vie. Le service public de l’enseignement nécessite l’accès à de vrais cours, mais aussi à des bibliothèques et autres lieux et outils de travail, actuellement impossible. Les BIAT·O·SS ne sont pas des variables d’ajustement ni des pions à déplacer de force : face au risque sanitaire, il ne saurait être question de les obliger à être présent·es sur leur lieu de travail, ni à travailler à distance. Les enseignant·es doivent garder le contrôle de leur travail et de ses fruits, y compris sur le plan de la propriété intellectuelle. La protection des données personnelles doit être préservée. Quant aux considérables obstacles techniques à l’enseignement à distance, ils sont autant d’obstacles sociaux, qui aggraveraient les inégalités déjà en forte augmentation avec les politiques universitaires actuelles. Et quid des étudiant·es et membres du personnel qui devront s’occuper toute la journée de leurs enfants scolarisés en temps normal ? La généralisation des cours en ligne n’est une solution ni pour les enseignant·es, ni pour le personnel BIAT·O·SS, ni pour les étudiant·es.

      Nous refusons de payer le prix des fermetures. Toutes les heures de travail prévues doivent être payées normalement, y compris les vacations empêchées par les fermetures, quels que soient les statuts et les situations sanitaires ou familiales des travailleur·ses. La poursuite des études doit être envisagée en assumant qu’il y a rupture avec les conditions normales et que ni les membres du personnel ni les étudiant·es ne doivent en faire les frais. Nous demandons à notre ministre d’accéder enfin à nos revendications, et de titulariser les vacataires auxquel·les l’université a massivement recours et qui assurent des fonctions pérennes, pour une rémunération différée et très souvent en-dessous du SMIC horaire. Nous demandons pour la rentrée 2020 et les suivantes, les milliers de postes statutaires qui manquent et le dégel total des postes existants. Nous demandons une université gratuite, non sélective et dotée de moyens financiers, humains et techniques à la hauteur des besoins de formation, et des revenus étudiants sans lesquels il n’y a pas d’égalité d’accès aux études.

      Macron prétend vouloir « protéger » les salarié·es et la population d’une crise sanitaire, économique et sociale. Chômage technique partiel indemnisé par l’État ? Rien de rassurant pour grand nombre de précaires parmi nos collègues et étudiant·es, et dans l’ensemble de la société, qui risquent tout simplement de perdre emplois et revenus. La réforme de l’indemnité chômage censée s’appliquer aux personnes ouvrant des droits à partir du mois prochain ne doit pas être aménagée, mais annulée. Et comment les vagues mesures « protectrices » seraient-elles financées ? Les seules mesures concrètes annoncées sur le plan économique et social concernent les cotisations patronales reportées, et la préparation d’un « plan de relance ». Pour les grandes entreprises privées, Macron redécouvre que « l’argent magique » existe, ce même argent qu’il refuse aux services publics et au financement de nos solidarités.
      Pour la solidarité, nous restons mobilisé·es !

      Enfin, combien de postes… de télévision ont manqué d’être fracassés lorsque Macron a prononcé les mots de « solidarité entre générations » ? Comme la majorité de la population, nous savons ce que vaut sa novlangue. C’est le même Macron qui tente depuis des mois de détruire un système de retraites qui est le meilleur exemple de cette solidarité, fondé sur la cotisation des actif·ves reversée aux retraité·es. Le retrait de la contre-réforme « par points » demeure une nécessité absolue.

      Depuis des décennies, c’est l’ensemble des dispositifs de solidarité sociale qui sont fragilisés par des mesures gouvernementales. Dans le domaine universitaire, le projet de LPPR prolonge les lois LRU, ORE (« ParcourSup ») et de la hausse des frais d’inscription pour les étudiant·es extra-européen·nes (« Bienvenue en France »), menaçant de briser toute solidarité dans les facs et labos.

      Nous ne nous laisserons pas abuser par un discours qui glorifie en façade la « mobilisation générale de la recherche » et la « solidarité », mais ne débloque de l’argent public que pour rassurer les grandes entreprises. Notre défiance reste entière envers un gouvernement qui s’est mis à dos la majorité de la population par la violence de ses politiques inégalitaires. Nous appelons à l’amplification des mesures exceptionnelles de santé publique tant qu’il le faudra, mais aussi au rétablissement durable du système public de santé et de recherche. Travailleur·ses et étudiant·es refusent de payer la crise sanitaire, économique, sociale.

      Et nous ne laisserons pas le gouvernement en profiter pour accélérer ses réformes impopulaires. La crise sanitaire révèle les conséquences dramatiques de ces réformes, autant que l’absolue nécessité de se battre pour nos services publics et nos solidarités.
      Les universités ferment, nos luttes continuent !

      https://universiteouverte.org/2020/03/14/contre-la-pandemie-des-moyens-durables-pour-nos-services-publics

    • 5 mars : des salarié·e·s de #Mediapart soutiennent enseignant·e·s, chercheur·e·s et étudiant·e·s

      Salarié·e·s de Mediapart, nous soutenons la mobilisation de l’Université du 5 mars. La réforme qui menace les chercheurs, vouée à accélérer leur précarisation et à détériorer leurs conditions de travail, met en péril l’élaboration de savoirs si précieux pour un journal numérique et participatif comme le nôtre. Pour défendre le débat public, il est indispensable que les travailleur·e·s du numérique, du journalisme et de la recherche soient solidaires.

      Ce 5 mars, « l’Université et la recherche s’arrêtent ». De nombreux personnels, laboratoires, unités et revues cessent le travail, en réaction au projet de loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), et contre la réforme des retraites qui les concerne au même titre que les autres actifs.

      La mobilisation, qui couve depuis de nombreux mois, s’exprime de manière plus spectaculaire aujourd’hui. Elle est le fruit d’au moins une décennie de frustrations accumulées par les agents titulaires comme par les travailleurs précaires, ceux-ci constituant une véritable armée de réserve de l’enseignement supérieur. À des degrés divers, toutes et tous souffrent du sous-financement chronique du secteur, et de son basculement dans un modèle centralisateur, managérial et concurrentiel, en décalage avec ses missions initiales de formation et de recherche indépendante.

      Nous, salarié·e·s de Mediapart, exprimons notre solidarité à l’égard de tous les personnels engagés contre une loi qui aggravera leur précarité et leurs conditions de travail (déjà dégradées). Si leur situation sociale suffirait à légitimer la contestation, la portée de celle-ci se révèle bien plus large. Travaillant pour un média d’information générale, mobilisant régulièrement les savoirs acquis sur la marche de nos sociétés, nous mesurons l’importance cruciale des chercheurs, chercheuses, enseignantes et enseignants pour la qualité du débat public.

      Dans notre pratique professionnelle, nous avons en effet recours à leur regard et leur savoir pour donner du sens aux faits dont nous rendons compte. Afin de s’y retrouver dans le chaos des informations brutes dont nous sommes inondés chaque jour, citoyens comme journalistes, il est nécessaire d’avoir de la mémoire et de se doter de grilles de lecture multiples. Pour qui se préoccupe des comportements et décisions qui déterminent notre destin collectif, cet éclairage se révèle indispensable, y compris lorsqu’il est polémique.

      À côté des acteurs partisans, syndicaux et associatifs, les enseignants et les chercheurs, qui sont aussi des citoyens, assument parfois un rôle d’intervention qui contribue à la conversation nationale. Nous en faisons régulièrement l’expérience grâce aux contributeurs du Club — l’espace participatif de Mediapart. Les affinités entre la recherche, et le journalisme comme producteur d’informations et animateur du débat public, sont donc évidentes.

      Or, en dehors de quelques think tanks aux effectifs réduits, l’université publique est un lieu privilégié, quasi-unique, pour accomplir un travail intellectuel de fond. Celui-ci exige du temps et de la méthode pour collecter des données, les interpréter, les mettre en perspective avec les connaissances déjà accumulées, et enfin les discuter avec des pairs. Si l’université continue à se paupériser et à violenter ses personnels, ceux-ci risquent d’être à la fois moins nombreux et moins disposés à remplir cette fonction d’« #intellectuel_public » qui est pourtant l’une des dimensions possibles, et nécessaires, de leur métier.

      Cela ne veut pas dire que ce travail ne peut se faire et ne se fera pas ailleurs — mais à court et moyen terme, aucune autre institution que celles de l’enseignement supérieur et de la recherche ne peut s’y substituer. Au-delà de l’enjeu social, il y a donc un enjeu démocratique à empêcher la casse de l’université.

      Alors que de nombreux salariés de Mediapart se sont mobilisés depuis le 5 décembre contre la réforme des retraites, l’expérience de la grève nous a aussi appris les nombreux points communs de nos métiers avec ceux de l’enseignement et de la recherche, notamment parmi les travailleurs·ses du numérique. Nous éditons des sites de revues, de médias, des applications et des plateformes en ligne, nous animons quotidiennement des réseaux sociaux, nous gérons le développement et la maintenance des infrastructures web.

      Depuis le mois de décembre, nous nous sommes même coordonnés pour mettre en place des actions collectives originales, rédiger des textes communs et bien sûr manifester ensemble, notamment avec le collectif onestla.tech. Parmi ces actions, les salariés de OpenEditions ont joué un rôle pionnier de la lutte en bloquant de façon inédite l’accès à leur plateforme de publications scientifiques (qui compte 6 millions de visiteurs uniques mensuels) ; les community managers de Mediapart ont à plusieurs reprises occupé leurs réseaux sociaux, une grande partie des salariés s’est mise en grève le 24 janvier et a décidé d’occuper la Une du journal. L’ensemble de ces acteurs a rejoint de nombreux travailleurs du numérique ainsi que le collectif des « revues en luttes » pour réaliser une opération coordonnée de blocage ce même jour (24 janvier).

      Cette grève n’aurait pas eu le même poids sans cette convergence et coordination des acteurs du numérique. Aujourd’hui, dans la continuité de la mobilisation contre la loi LPPR, cette journée du 5 mars s’inscrit comme une étape supérieure de la lutte.

      Le numérique, le web, le digital doivent être des vecteurs du savoir, du partage de connaissance et de l’émancipation humaine. Il ne doit pas être cantonné à un rôle de simple espace abandonné aux règles du marché, à l’exploitation des données personnelles des utilisateurs, ni d’exploitation des travailleurs, souvent invisibles, qui portent les infrastructures à bout de bras. Ce constat vaut pour la recherche, puissant carburant de nos médias et de notre débat public, dont les agents doivent pouvoir rester indépendants et bénéficier d’un cadre de travail protecteur.

      Un collectif de salarié·e·s de Mediapart

      Guillaume Chaudet-Foglia
      Joseph Confavreux
      Chrystelle Coupat
      Renaud Creus
      Géraldine Delacroix
      Lucie Delaporte
      Claire Denis
      Cécile Dony
      Fabien Escalona
      Ana Ferrer
      Maria Frih
      Livia Garrigue
      Mathilde Goanec
      Romaric Godin
      Dan Israel
      Manuel Jardinaud
      Sabrina Kassa
      Karl Laske
      Jade Lindgaard
      Maxime Lefébure
      Gaëtan Le Feuvre
      Mathieu Magnaudeix
      Laurent Mauduit
      Lorraine Melin
      Edwy Plenel
      Alexandre Raguet
      Ellen Salvi
      Laura Seigneur

      https://blogs.mediapart.fr/en-soutien-aux-chercheurs-en-lutte/blog/050320/5-mars-des-salarie-e-s-de-mediapart-soutiennent-enseignants-chercheu

    • "Allô Précaires ?" Écoutez le premier #podcast

      ALLO PRECAIRES ? Ecoutez le premier recueil de témoignages de #précaires de l’ESR ! On est encore tout.e.s ému.e.s…

      Ces témoignages racontent les conditions concrètes de travail à l’Université, mais aussi et surtout leurs répercussions sur le quotidien et la vie familiale et affective. Le #répondeur permet visiblement l’expression des #émotions : parole libre et anonyme, absence de regard extérieur direct.

      En raison du nombre important de demandes de relectures, nous avons choisi de modifier les voix pour garantir l’anonymat (la relecture aurait demandé un lourd travail de retranscription). De plus, il nous a semblé important de conserver l’émotion qui se dégage des différents témoignages.

      Merci d’avoir partagé votre expérience. Tenez bon, le panda reste à votre écoute !
      >> 07.49.07.15.34 << NB : Toutes les voix ont été modifiées pour garantir l’anonymat des témoignages

      https://precairesesrrouen.wordpress.com/2020/03/10/allo-precaires-ecoutez-le-premier-podcast

      Et sur soundcloud :
      https://soundcloud.com/user-10605953-422618281/allo-precaires-podcast1

      #témoignage #témoignages #audio #précarité

    • University community in France mobilizes against proposed research law

      The new multi-annual research programming law (LPPR) proposed by the French government calls for converting permanent researcher posts to contract vacancies based on the tenure of research projects.

      Researchers in France have initiated a massive protest against the new multi-annual research programming law (LPPR) proposed by the French government. The national coordination of “faculties and labs in struggle” started a research strike from March 9, Monday. More than 100 universities and schools, nearly 300 laboratories and 145 scientific journals in the humanities and social sciences have expressed support for the protests called by the national coordination committee of researchers.

      LPPR calls for the conversion of research vacancies in the country into limited period posts based on the tenure of projects carried out by research institutions. Such a move is likely to affect those who work in regular posts and has also created widespread discontent among tens of thousands of researchers and students who currently work in contract/ temporary vacancies, for whom there will be no possibility of regular/permanent jobs in the future.

      On March 5, tens of thousands of researchers had joined the mobilization against the LPPR across the country, with over 20,000 people participating in the protest in Paris alone.

      The ministerial consultations for the new law, announced by French prime minister Édouard Philippe last year, have reportedly concluded and the draft is expected to be introduced by government soon.

      Secretary of the Union of the Communist Students (UEC) Anais Fley told Peoples Dispatch, “The LPPR (Multi-annual research programming law) is a bill that aims to reform the university in the same neoliberal approach. If this bill is adopted, it will deepen inequalities at university, increase competition between researchers and degrade the working conditions of the teacher-researchers as well as the students.”

      “One of the main pivots of this law is to transform research contracts on the basis of projects, without further funding public research, or allowing these projects to be structured over the long term. The consequence of this bill is to make public research even more precarious,” she added.

      Fley also said that faced with this social and scientific regression, the French university community is mobilizing, with university staff, doctoral students and professors on the front line. “Of course, this mobilization resonates with the strikes against the pension reform,” she further stated.

      https://peoplesdispatch.org/2020/03/09/university-community-in-france-mobilizes-against-proposed-research-

    • Le 5 mars l’Université et la recherche s’arrêtent. #10_chiffres pour comprendre

      Grâce au mouvement contre la réforme des retraites, initié par les travailleurs·ses de la RATP et de la SNCF, les facs et les labos sont entrés en lutte dès le mois de décembre 2019, sur cette bataille interprofessionnelle mais aussi sur deux sujets propres au secteur de l’enseignement supérieur et de la recherche : la loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), nouvelle attaque néolibérale (https://www.contretemps.eu/neoliberalisme-universite-dix-citations), et la précarité massive qui touche d’ores et déjà les universités et la recherche, étudiant·e·s et personnels.

      L’économiste #Hugo_Harari-Kermadec, spécialiste de l’enseignement supérieur (https://www.contretemps.eu/universite-marchandisee-entretien-harari-kermadec), rappelle en dix chiffres – et quelques autres – pourquoi l’Université et la recherche s’arrêteront le 5 mars, et pourquoi la lutte va continuer ensuite. Cette liste a été constituée à partir de l’intervention de Marie Sonnette sur France Culture, que l’on pourra (ré)écouter ici (https://www.franceculture.fr/emissions/linvite-des-matins/la-recherche-francaise-en-quete-de-modele

      ).

      On pourra également consulter notre dossier : « L’Université saisie par le néolibéralisme, entre marchandisation et résistances » (https://www.contretemps.eu/universite-capitalisme-marchandisation-resistances).

      *

      108 facs et 268 labos en lutte (https://universiteouverte.org/2020/01/14/liste-des-facs-et-labos-en-lutte).

      130 000 vacataires (https://ancmsp.com/lppr-2-smic-pour-les-titulaires-des-cacahuetes-pour) assurent ensemble plus du tiers des cours à l’université, payé·e·s 26 centimes d’euro sous le SMIC.

      300 000 étudiant·e·s supplémentaires en dix ans mais 0€ en plus pour les accueillir. Plus de 40% travaillent en parallèle de leurs études.

      Parcoursup a introduit la sélection en L1 pour au moins 30% des étudiant·e·s (http://blog.educpros.fr/julien-gossa/2020/02/27/parcoursup-fin-du-game-cour-des-comptes), et 99% de l’algorithme est opaque selon la cour des comptes.

      1 600% d’augmentation des frais d’inscription (https://universiteouverte.org/2019/04/28/officialisation-de-la-hausse-des-frais-que-retenir-des-decrets) pour les étudiant·es non européen·ne·s en Licence (à 2 770 € /an) et Master (à 3 770 € /an) depuis le décret « Bienvenue en France » (sic) en 2019.

      34 ans en moyenne, c’est l’âge de recrutement des enseignant·es-chercheu·ses.

      3 heures par semaine, soit 9% d’augmentation en moyenne du temps de travail des personnel·les BIATSS des universités, c’est ce qu’exige la Cour des comptes et que promet le gouvernement dans la LPPR.

      57 milliards versés à 10 facs d’élite (#Programme_Investissement_d’Avenir) (https://www.gouvernement.fr/le-programme-d-investissements-d-avenir), c’est la politique « d’excellence » qui produit une université à deux vitesses.

      5 milliards (http://www.groupejeanpierrevernant.info/#FAQLPPR) de moins en cotisations retraites de l’État pour les personnel·les de l’enseignement supérieur et la recherche, c’est ce que la réforme des retraites nous prend sur notre salaire socialisé.

      60 000 postes de titulaires (https://www.c3n-cn.fr/sites/www.c3n-cn.fr/files/u88/Propositions_Comite-national_Juillet-2019.pdf) et 18 milliards d’euros manquants pour l’université et la recherche.

      *
      Lutte généralisée

      108 facs et 268 labos, 30 collectifs de précaires, 134 revues, 16 sociétés savantes, 46 séminaires, 35 sections CNU, 54 évaluateur·trices de l’HCERES, etc., mobilisé·es (décompte du 1er mars) contre la précarité, contre la LPPR et contre la casse des retraites au 22 février. Une lettre contre la LPPR a été signée par plus de 700 directeurs et directrices de laboratoire ont signé une lettre commune.

      Cet argent qui manque

      70 milliards d’euros, c’est-à-dire 3% du PIB, c’est l’engagement des gouvernements successifs pour l’enseignement supérieur et la recherche (2/3 pour l’enseignement supérieur, 1/3 pour la recherche). Mais la dépense publique réelle est loin de cette annonce : au compte au mieux 32 milliards pour l’enseignement supérieur et 20 milliards pour la recherche publique. Il manque donc au moins 18 milliards d’euros par an pour les facs et les labos. Les syndicats demandent une hausse cumulative de 3 milliards par an pendant 10 ans.

      Des moyens concentrés pour les facs d’élite

      Et encore, en 2019, un milliard d’euros de l’ESR relève du Programme Investissements d’Avenir (PIA) qui a attribué en tout 57 milliards d’euros depuis son lancement par Sarkozy en 2010, c’est-à-dire certaines années presque autant que tout le budget de l’ESR, de façon extrêmement inégalitaire en concentrant les moyens dans les établissements déjà les mieux dotés financièrement, les plus réputés et avec la population étudiante la plus favorisée socialement, souvent passée par les classes préparatoires.

      Moins d’une dizaine de regroupements (rassemblant une ou deux universités et des très grandes écoles) ont remporté un Idex dans le cadre de ces investissements d’avenir, soit 800 millions d’euros pour chacun de ces regroupements.

      Une dégradation des conditions d’étude

      A l’autre bout de la hiérarchie universitaire, la majorité des universités, situées en banlieue ou dans des villes moyennes, ont vu leur moyen au mieux stagner depuis une dizaine d’années, alors qu’elles ont pris en charge l’essentiel de la massification du supérieur, le nombre d’étudiant·es augmentant de 300 000, dont 220 000 dans les universités.

      On a donc une baisse du budget par étudiant·e d’au moins 10% dans ces universités[1], alors qu’avec les Sections de techniciens supérieurs (STS) elles prennent en charge l’essentiel de l’accès des classes populaires au supérieur : bacheliers professionnels et surtout technologiques, enfants d’ouvriers ou d’immigrés accèdent plus nombreux au supérieur depuis les années 2000, mais pour une bonne partie d’entre eux·elles dans ces universités qui ne bénéficient pas des politiques d’excellence, et presqu’exclusivement en cycle licence.

      Pour financer une allocation d’autonomie ou un salaire étudiant pour toutes et tous, à 1 000 € par mois et 12 mois par an, 21 milliards d’euros seraient nécessaires. Cela pourrait se traduire par la création d’une nouvelle branche de la sécurité sociale ou par l’intégration de son financement à l’une des branches actuelles. Par exemple, au sein de la branche famille, le financement des 21 milliards d’euros représenterait une hausse d’un peu plus de 3 points des cotisations patronales (voir le dernier chapitre du livre Arrêtons les frais).

      Précarité

      Les facs d’élite comme celles de la massification font face à leur nouvelle mission avec la même stratégie, à savoir la précarisation des personnels : dans les facs d’élite, parce que les financements d’excellence sont des financements à court ou moyens termes, qui ne permettent de recruter qu’en CDD ; dans les autres facs, pour faire face à la hausse du nombre d’étudiant·e·s, donc des besoins d’enseignement, et au manque de moyens, les présidences remplacent les postes de titulaires par des contractuels et surtout des vacataires, payés à l’heure, pour qui reviennent

      130 000 vacataires assurent ainsi ensemble plus du tiers des cours à l’université. Au moins 17 000 d’entre elles et eux font plus de 96 heures équivalent TD, c’est-à-dire un mi-temps d’enseignant·e-chercheu·se, et c’est donc sans doute leur emploi principal. 26 centimes d’euro sous le SMIC, c’est le salaire horaire des vacataires : 9,89 euros brut l’heure de travail effectif.

      Un assèchement de l’emploi public

      4 millions d’heures complémentaires sont assurées par les enseignant·e·s et/ou chercheurs·ses titulaires, soit l’équivalent de 20 000 postes.

      Au CNRS, par exemple, les effectifs de personnels permanents ont diminué de 1 350 en 10 ans, entre 2007 et 2016 ! Dont une majorité de perte d’ingénieur·es et technicien·nes (-900), les emplois de chercheurs·ses reculant de 450 environ. 20% des personnels de la recherche sont précaires (un peu plus chez les IT que chez les chercheu·ses), en particulier employé·e·s sur des CDD liés à des contrats ANR.

      Les effectifs d’enseignant·e·s-chercheurs·ses sont identiques en 2017 (56 700 PR et MCF titulaires) à ce qu’ils étaient en 2012 (56 500), en dépit des 5000 « emplois Fioraso » (Source : MESRI-DGRH, 2018). Sur la même période, les effectifs étudiants dans les universités publiques ont augmenté de 16 %, passant de 1, 41 à 1,64 millions (source : MESRI-SIES, 2018).

      34 ans en moyenne, c’est l’âge de recrutement des enseignant·e·s-chercheurs·ses. Davantage de précaires, moins de postes de titulaires (alors qu’il y avait 2 600 MCF et CR recruté·e·s en 2009, il n’y en avait plus que 1 700 en 2016, et les choses ont empiré depuis), il y a embouteillage dans les concours de maître·sse·s de conférences et de chargé·e·s de recherche et l’âge de recrutement sur un poste permanent ne fait que reculer.

      60 000 postes de titulaires, c’est donc ce qui permettrait de résorber la précarité et de rétablir des conditions de travail et d’étude de qualité pour toutes et tous à l’université.

      730 millions d’euros, c’est ce qui manque pour financer les thèses de doctorant·e·s en LSHS (estimation de la CJC). En effet, dans ces disciplines, c’est 60% de thèses qui débutent sans financement. Elles terminent également très souvent grâce aux allocations chômage. Avec 730 millions, on pourrait financer les 3875 contrats manquants en LSHS. Il en manque sans doute aussi un peu en sciences fondamentales et expérimentales.

      Genre

      Seulement 5% des présidents de regroupement d’établissements, 17% des présidents d’université, 25% des professeurs, 34% des chercheurs sont des femmes. Tous les mécanismes concurrentiels, type appels à projets ou prime, de même que la précarité, renforcent les inégalités de genre.

      LPPR

      3 heures par semaine, soit 9% d’augmentation en moyenne du temps de travail des personnels BIATSS des universités, c’est ce qu’exige la Cour des comptes. Elle regrette d’ailleurs qu’à l’occasion de fusion entre établissements, ce soit parfois le meilleur accord sur le temps de travail qui se généralise ! Le gouvernement a promis de profiter de la LPPR pour réaligner tout le monde vers plus de temps de travail (mais pas vers plus de salaire).

      6 milliards, c’est le coût de préparation et de rédaction des 130 000 projets soumis en pure perte à la Commission européenne dans l’espoir, déçu, d’obtenir un financement européen de la recherche (ERC). Il faudrait ajouter le coût des projets rejetés au niveau national, comme l’ANR français mais aussi les appels à projets d’excellence (IDEX, Equipex, LABEX, etc), et au niveau local avec tous les appels internes aux nombreuses structures universitaires et scientifiques.

      6 milliards c’est aussi le coût du Crédit Impôt Recherche que le gouvernement offre chaque année aux entreprises sans presque aucun contrôle et sans effet notable sur l’emploi scientifique ou l’effort de recherche des entreprises privées).

      Retraites

      42 milliards, c’est ce que l’Etat compte économiser à terme sur le salaire socialisé des fonctionnaires en passant le niveau de cotisation retraite, actuellement à 74,3% dans la fonction publique, à 16,9% dans le futur système « universel » de Macron. Rien que dans l’enseignement supérieur et la recherche, cela représente à terme 5 milliards d’euros de cotisation retraite en moins à verser pour l’Etat, une économie évidement sans commune mesure avec les faibles hausses de revenus promises (essentiellement sous forme de prime, donc inégalitaires).

      Notes

      [1] En euros constant, le budget de l’enseignement supérieur et de la recherche est passé de 12,4 milliards en 2008 à 13,4 milliards en 2018, alors que les effectifs étudiants passaient de 2,2 millions à près de 2,7 millions sur la même période. On obtient donc une chute du financement par étudiant·e de pratiquement 10%. https://www.lemonde.fr/blog/piketty/2017/10/12/budget-2018-la-jeunesse-sacrifiee

      https://www.contretemps.eu/10-chiffres-lutte-universite-recherche

    • La Galère de l’ESR - Numéro 2

      Ce journal est écrit par un collectif de précaires de l’Enseignement Supérieur et de la Recherche. Il vise à informer nos collègues titulaires et à fournir à tous des éléments factuels pour débattre sereinement des conditions de travail et de l’évolution de la recherche publique française. Ces dix dernières années, d’excellentes initiatives comme Science en Marche ont permis d’établir un diagnostique très complet. C’est à partir de celui-ci, et à l’aide des nombreux rapports gouvernementaux et d’articles de presse, que nous tentons ici, de dresser un constat honnête de nos laboratoires. Cet exposé factuel ne saurait être isolé d’une critique incarnée, tant le rapport au travail pour nos collègues jeunes chercheur(ses) est viscéralement lié à leur vie extra-profesionnelle. Combien aussi le fossé est immense avec certains de nos anciens, qui connurent la titularisation avant même la fin de leur thèse de doctorat. Ceux-là doivent nous entendre, car dans nos murs tout a changé. Cette forme de gazette vise à être facilement diffusée de boîte mail en boîte mail. Mieux, elle se mariera parfaitement aux tâches de cafés de la table de votre salle commune.


      https://seenthis.net/messages/834159

    • Le 8 juillet, tandis que le projet de la LPPR était censé passer devant le conseil des ministres, nous étions à nouveau dans la rue, aux côtés de représentant·es d’autres secteurs en lutte, pour dénoncer une fois de plus la précarisation et la privatisation de l’université et de la recherche publiques.
      Des rassemblements ont eu lieu simultanément dans plusieurs villes en France, notamment à Lyon, à Nice, à Montpellier, à Angers ou à Nantes. A Paris, nous étions plus de 300 à nous retrouver à l’esplanade Pierre Vidal-Naquet.

      Toutes les vidéos des interventions de cette journée festive et revendicative sont à retrouver ici : https://universiteouverte.org/2020/07/09/le-8-juillet-des-facs-et-labos-en-lutte

      En voici quelques extraits :

      « On se bat depuis des mois contre la précarité étudiante, et on pourrait même dire la pauvreté étudiante. Parce que le confinement nous l’a bien fait voir : ce n’est plus de précarité qu’il s’agit, c’est de pauvreté, c’est de gens qui ne peuvent pas manger. » - Sophie, Solidaires Étudiant·es : https://www.youtube.com/watch?time_continue=2&v=X0AKNOETmhU&feature=emb_logo



      « Cette LPPR elle est monstrueuse, c’est l’aboutissement d’un projet ultralibéral de privatisation » - Cendrine Berger, CGT FERC Sup : https://www.youtube.com/watch?v=cGpwIn4OfL4&feature=emb_logo


      « Décidons que nous disons ensemble non à cette précarisation de l’enseignement supérieur, non à cette transformation capitaliste de l’enseignement supérieur, non à ce néolibéralisme qui est là pour détruire tous les espoirs que les intellectuel·les français·es et étrangèr·es ont contribué à construire ensemble et à inscrire dans la constitution. Il faut lutter ensemble, pour que demain soit meilleur pour tout le monde. » - Juan Prosper, membre du syndicat des avocats de France : https://www.youtube.com/watch?v=2xlWAZ-tz28&feature=emb_logo


      « On n’a pas d’autre choix actuellement que de lutter, et de lutter ensemble, parce que nos luttes s’articulent toutes, parce que notre problème c’est le même, c’est toujours ce même paradigme qui cherche à gérer tout ça, c’est le néolibéralisme qui est là partout, et la privatisation de tout ce qui a fait le fondement de notre nation » - Cherine Benzouid, cardiopédiatre à l’hôpital Robert-Debré et membre du collectif inter-hôpitaux : https://www.youtube.com/watch?v=EZT_U51rCgc&feature=emb_logo


      « Ce que je vous propose là, c’est que nous soyons uni·es, que nous soyons vraiment des combattant·es pour éclaircir notre avenir. » - Monique Pinçon-Charlot, sociologue, ancienne directrice de recherche au CNRS : https://www.youtube.com/watch?v=iiZ--aR3IiY&feature=emb_logo

      Reçu via la mailing-list Facs et labos en lutte, le 17.07.2020

  • #Port_de_Douala : Bolloré volait 19,5 #milliards par mois à l’État pendant 15 ans
    https://www.camerounweb.com/CameroonHomePage/business/Port-de-Douala-Bollor-volait-19-5-milliards-par-mois-l-tat-pendant-15-a

    C’est le jeudi 26 décembre dernier que le Tribunal administratif a décidé d’annuler la procédure engagée par Bolloré pour reprendre ses droits sur la gestion du #port_autonome de #Douala. Depuis la reprise en main de la gestion de ce port par les Camerounais, les recettes viennent de connaître une augmentation record de près de 20 milliards. Résultat qui laissent à imaginer le manque à gagner faramineux pour l’état du #Cameroun pendant les 15 ans de gestion du groupe #Bolloré

    C’est à la fin de l’année 2019, soit le jeudi 26 décembre 2019 que la décision du tribunal administratif a fini par tomber, après 10 mois de procédures judiciaires initiées par le consortium APMT / Bolloré contre la décision de réattribution de la gestion du port de douala au Suisse Terminal Investment Limited (TIL), au détriment de Douala International Terminal (DIT).

    Après un premier recours en justice et une intervention de #Yaoundé, la finalisation du contrat avec le Suisse TIL a été suspendu dans un premier temps. Finalement, le tribunal administratif de Douala a décidé d’annuler purement et simplement l’ensemble de cette procédure judiciaire et de reprendre en main la gestion du terminal à conteneurs de Douala par le biais de sa propre régie, nouvellement fondée.

  • Accord de Malte

    Nelle bozze dell’accordo di Malta si chiede a chi fa soccorso in mare di «conformarsi alle istruzioni dei competenti Centri di Coordinamento del Soccorso», e di «non ostruire» le operazioni della «Guardia costiera libica».

    Primo: la formula vi suona già sentita?

    Già, quando l’anno scorso il governo italiano negoziò fino a tarda notte al Consiglio europeo di giugno, le conclusioni contenevano queste parole:

    «Le imbarcazioni (...) non devono ostruire le operazioni della Guardia costiera libica».

    Nella bozza dell’accordo di Malta si va persino oltre, perché alle imbarcazioni di ricerca e soccorso si chiedono due cose:

    (1) non ostruite la Guardia costiera libica;
    (2) conformatevi alle richieste dello RCC competente.

    Quanto all’ostruzione delle operazioni della Guardia costiera libica, non si ricorda un caso recente.

    Al contrario, è generalmente la Guardia costiera libica a usare comportamenti aggressivi.
    @VITAnonprofit metteva in fila un po’ di fatti nel 2017.

    http://www.vita.it/it/article/2017/11/08/mediterraneo-tutti-gli-attacchi-della-guardia-costiera-libica-alle-ong/145042

    Ovviamente, non è che la Guardia costiera libica sia sempre aggressiva. C’è chi fa il suo lavoro in maniera professionale, chi no.

    Il punto è un altro: spesso non sappiamo chi operi dove. Come spiega @lmisculin, la Guardia costiera libica non esiste: https://www.ilpost.it/2017/08/26/guardia-costiera-libica

    Passando al «conformarsi alle istruzioni dei competenti Centri di Coordinamento del Soccorso», il discorso diventa ancora più spinoso.

    Si arriva rapidamente a un paradosso clamoroso, consentito da un diritto internazionale che ha più buchi di un groviera.

    Questo: la Libia è l’unico paese al mondo ad avere costituito un proprio Centro di Coordinamento del Soccorso (a giugno 2018) e, allo stesso tempo, a non essere considerato da @Refugees
    un «luogo sicuro» per lo sbarco delle persone soccorse.

    Pensateci un attimo: se soccorro qualcuno in quel tratto di mare amplissimo che è la zona #SAR libica, il diritto internazionale mi obbliga a contattare lo RCC libico.

    Ma lo stesso diritto internazionale obbliga lo #RCC libico a NON INDICARE SÉ STESSO come luogo di sbarco!

    Cosa succede di solito, invece? Prendiamo #OceanViking.

    Il 17 settembre dopo un salvataggio, manda un’email allo RCC libico chiedendo un «luogo sicuro» di sbarco.

    Dopo diverse ore, dalla Libia rispondono: perfetto, venite da noi, ad al Khums.

    Sarebbe un respingimento.

    Non è un evento raro, anzi, accade costantemente: se e quando lo RCC libico risponde, indica un suo porto come «luogo sicuro».

    Da #OceanViking rispondono che non si può fare. Certo che no: sbarcare le persone in Libia sarebbe un respingimento.

    Notate l’estrema pazienza.

    In questa situazione di estrema incertezza, chiedere a chi effettua soccorsi nel tratto di mare in cui il coordinamento del soccorso è tecnicamente di competenza libica di «conformarsi» senza condizioni alle richieste di Tripoli rischia di legittimare i respingimenti.

    CONCLUSIONE /1.

    «Non ostruire» le operazioni della «Guardia costiera libica» è una richiesta corretta solo se molto qualificata.

    Dipende da molte condizioni, prima tra tutte di quale Guardia costiera libica stiamo parlando, e da come si stia comportando.

    CONCLUSIONE /2.

    Con il suo linguaggio tranchant, la bozza di Malta chiede a chi effettua un soccorso in zona SAR libica di «conformarsi» alle richieste libiche.

    Senza specificare altro, gli Stati europei stanno implicitamente chiedendo alle Ong di effettuare respingimenti.

    source : https://twitter.com/emmevilla/status/1177518357773307904?s=19
    #Matteo_Villa
    #accord_de_Malte #sauvetage #asile #migrations #réfugiés #frontières #Méditerranée #gardes_côtes_libyens #Méditerranée #port_sûr #pays_sûr #mer_Méditerranée

    ping @isskein

  • Australian detention centre in #Port_Moresby is worse than Manus; worse than prison

    Refugee advocates have growing concerns regarding the conditions at the high security detention centre annexed to the Bomana prison.

    Information about the newly opened Bomana detention centre indicates that conditions at the centre are as bad as those in the first months of the opening of the Lombrum detention centre on Manus.

    The fifty-two men are being held in separate fenced compounds within the detention centre, unable to move freely between compounds. Like the early days on Manus Island, asylum seekers are forbidden to communicate between compounds. There are no phones and no means of communication with the asylum seekers being detained; they are cut off from family and any legal support.

    PNG immigration has been unable, or unwilling, to facilitate individual visits to any of the asylum seekers. They are unable to confirm that visiting is even possible.

    These conditions are worse than prison and are straight out of the Australian government’s play-book on punitive immigration detention.

    “The conditions at Bomana are intolerable. It is clear that the detention of asylum seekers in PNG is still being controlled by Australia. The Bomana detention centre is breaching the constitutional rights of asylum seekers being held there,” said Ian Rintoul, spokesperson for the Refugee Action Coalition.

    “Reports indicate that medications are being withheld, and that men who have self-harmed are being held at police lock-ups for up to 24 hours before getting medical or mental health treatment.”

    “Bomana is a return to the most barbaric detention conditions for people who have committed no crime. Many of those being held in Bomana have never even had a refugee assessment. Like Australia, the PNG government is unable to return so-called ‘negatives’ to Iran or Pakistan. They should be freed.

    “Detention at Lombrum was found to be unlawful by the PNG Supreme Court in 2016. Yet, Australia is again pushing PNG into establishing a regime of indefinite detention. The brutality has to stop.”

    For more information contact Ian Rintoul 0417 275 713

    http://www.refugeeaction.org.au/?p=7955
    #Australie #rétention #détention_administrative #réfugiés #asile #migrations

  • Kommunen auf dem Weg zum sicheren Hafen

    Seit der Gründung der SEEBRÜCKE im Juli 2018 haben sich zahlreiche Städte, Gemeinden und Kommunen mit der SEEBRÜCKE solidarisch erklärt. Sie stellen sich gegen die Abschottungspolitik Europas und leisten selbst einen Beitrag um mehr Menschen ein sicheres Ankommen zu ermöglichen. Diese Beiträge sind lokal sehr unterschiedlich. Die hier aufgeführten Orte erfüllen mindestens eine der Forderungen der SEEBRÜCKE.


    https://seebruecke.org/startseite/sichere-haefen-in-deutschland
    #villes-refuge #asile #migrations #réfugiés #Allemagne #cartographie #visualisation #Seebrücke #solidarité #local #ports_sûrs #port_sûr
    #sauvetage_et_après?

    Ajouté à cette métaliste:
    https://seenthis.net/messages/759145#message766825

    • Discours de #Erik_Marquardt dans le parlement européen :

      "Ich möchte stolz sein auf unser Handeln als Europäer, aber ich kann mich nur dafür schämen wenn im Mittelmeer nicht nur tausende Menschen ertrinken die wir retten könnten, sondern mit ihnen auch die Europäische Werte im Mittelmeer ertrinken. Dabei kann das Sterben so einfach verhindert werden. Es gibt alleine in Deutschland über 70 Kommunen, die sich bereit erklärt haben Menschen aufzunehmen. Lasst es uns ihnen erlauben. Und wenn es Gesetze gibt, die das Lebenretten stärker bestrafen als das Sterbenlassen, dann lasst uns diese Gesätze ändern. Und wenn es Boote gibt, die retten könnten, dann lasst uns diese Boote verdammt noch mal schicken. Es wëre en Zeichen des Stärke zu sagen: „Die Würde des Menschen ist unantastbar. Auch auf dem Mittelmeer“

      Source, twitter : https://twitter.com/GreensEFA/status/1151541723371323394?s=19

    • Seven German mayors: Allow us to accept underage refugees

      Mayor in seven German cities pled with the government for the right to welcome underage refugees from Greece. The move comes after the federal parliament rejected a motion to accept minors from Greek refugee camps.

      A plea letter signed by the mayors of seven German cities has called on the federal government to allow the cities to accept underage migrants from refugee camps in Greece.

      The mayors of Cologne, Düsseldorf, Potsdam, Hanover, Freiburg, Rottenburg and Frankfurt (Oder), as well as the interior minister of Lower Saxony, Boris Pistorius, signed the appeal. The plea came two days after the Bundestag, Germany’s lower house of parliament, rejected a motion to admit thousands of underage asylum-seekers from Greek refugee camps.

      “The situation on the Greek islands” has “dramatically worsened in the last few days,” read the joint statement, excerpts of which were published by the Hanover-based RND news network. “For children and women, in particular, the completely overcrowded camps, which lack the most necessary infrastructure, medical care and shelters, are untenable.”

      Safe havens at the ready

      The letter pointed out that around 140 German cities have already declared themselves “safe havens” and want to help additional refugees. The mayors demand that the government create legal avenues immediately to allow these cities to accommodate refugees.

      According to the statement, the alliance Cities of Safe Havens, a network of 130 cities and communities in Germany, as well as other German municipalities have already declared their readiness “to immediately accept up to 500 unaccompanied minors under the age of 14 years within the framework of an emergency program, who are accommodated in unacceptable conditions on the Greek islands.”

      It added that the reception capacities in the cities concerned have been examined, and they are “available for the accommodation and educational care of the children.”

      The cities would prioritize “children whose parents are in many cases no longer alive and who are alone in the refugee camps.”

      Waiting for a broader plan

      The German government has been closely following the situation at the Greek-Turkish border after Turkey said in February it would no longer stop refugees from entering the European Union.

      Turkey’s announcement, effectively shredding a 2016 migrant deal with the EU, caused thousands of migrants to head towards neighboring Greece and Bulgaria — two EU member states. Both countries have sent security forces to their respective borders with Turkey to prevent a massive influx of migrants.

      Greece has already seen the number of refugees from Turkey increase annually, with more than 60,000 asylum-seekers landing on its Aegean islands in 2019. Refugee camps on the islands are over-crowded and have a shortage of food, clothing and medicine.

      On Wednesday, the Bundestag voted down a motion by the Green party to admit 5,000 minors from Greek refugee camps. German Interior Minister Horst Seehofer, who has taken a hard stance on migrants, has said Germany would only take in refugees as part of a broader European initiative.

      Germany was one of the most sought after destinations during the European migrant crisis of 2015. The country saw more than a million asylum-seekers between January and December 2015.

      https://amp.dw.com/en/seven-german-mayors-allow-us-to-accept-underage-refugees/a-52657792?maca=en-rss-en-eu-2092-rdf&__twitter_impression=true
      #asile #migrations #réfugiés #villes-refuge #Allemagne
      #Cologne #Köln #Düsseldorf #Potsdam #Hanover #Hanovre #Freiburg #Rottenburg #Frankfurt (Oder)

  • Il Viminale: «Libia porto sicuro anche per l’Ue». Bruxelles e Onu smentiscono

    Secondo gli uffici del ministero dell’Interno la Commissione Ue avrebbe definito Tripoli «affidabile»: «Può e deve soccorrere i migranti in mare». L’Acnur contro: «Non devono essere riportati lì»

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/il-viminale-libia-porto-sicuro-anche-per-l-ue-l-onu-contro
    #port_sûr #terminologie #vocabulaire #mots
    le port devient #affidabile, soit #fiable #digne_de_confiance

    via @isskein

    • #Mare_Jonio ha salvato 49 persone da un naufragio: adesso l’Italia ci indichi un porto sicuro

      La Mare Jonio di #Mediterranea_Saving_Humans, nave battente bandiera italiana impegnata nella missione di monitoraggio del Mediterraneo centrale ha soccorso, a 42 miglia dalle coste libiche, 49 persone che si trovavano a bordo di un gommone in avaria che imbarcava acqua.
      La segnalazione era arrivata dall’aereo di ricognizione Moonbird della ONG Sea Watch che avvertiva di una imbarcazione alla deriva in acque internazionali.

      Mare Jonio si è diretta verso la posizione segnalata e, Informata la centrale operativa della Guardia Costiera Italiana, ha effettuato il soccorso ottemperando alle prescrizioni del diritto internazionale dei diritti umani e del mare, e del codice della navigazione italiano.
      Attenendosi alle procedure previste in questi casi e per scongiurare una tragedia, Mare Jonio ha tratto in salvo tutte le persone a bordo comunicando ad una motovedetta libica giunta sul posto a soccorso iniziato di avere terminato le operazioni. Tra le persone soccorse, 12 risultano minori.
      Le persone a bordo si trovavano in mare da quasi 2 giorni e, nonostante le condizioni di salute risultino abbastanza stabili, sono tutte molto provate con problemi di disidratazione. Il personale medico di Mediterranea sta prestando assistenza.
      La Mare Jonio si sta dirigendo in questo momento verso Lampedusa, ovvero verso il porto sicuro più vicino rispetto alla zona in cui è stato effettuato il soccorso. Nel frattempo, è in arrivo una forte perturbazione nel Mediterraneo centrale.
      Abbiamo chiesto formalmente all’Italia, nostro stato di bandiera e stato sotto il quale giuridicamente e geograficamente ricade la responsabilità, l’indicazione di un porto di sbarco per queste persone.
      Oggi abbiamo salvato la vita e la dignità di 49 esseri umani. Le abbiamo salvate due volte: dal naufragio e dal rischio di essere catturate e riportate indietro a subire di nuovo le torture e gli orrori da cui stavano fuggendo. Ogni giorno, nel silenzio a moltissime altre tocca questa sorte. Grazie ai nostri straordinari equipaggi di terra e di mare, alle decine di migliaia di persone che in tutta Italia ci hanno sostenuto, oggi quel mare non è stato più solo cimitero e deserto.

      https://mediterranearescue.org/news/mare-jonio-ha-salvato-49-persone-da-un-naufragio-adesso-litalia-
      #Méditerranée #ONG (même si c’est pas une ONG, mais une #initiative_citoyenne) #asile #migrations #frontières #mer_Méditerranée #sauvetage

    • La direttiva di Matteo Salvini sulle frontiere non ha valore

      “Il tempo e le condizioni del mare non sono buone e i naufraghi sono ancora sotto shock, dopo essere stati soccorsi al largo della Libia e aver passato la notte con il mare in tempesta”, racconta Lucia Gennari, avvocata dell’Asgi imbarcata a bordo della nave Mare Jonio, l’imbarcazione che batte bandiera italiana ed è in rada davanti all’isola di Lampedusa, a cinquecento metri dalla Cala dei francesi, con 49 persone a bordo, tra cui dodici minori. L’imbarcazione, gestita dall’organizzazione italiana Mediterranea Saving Humans, chiede di attraccare nel porto dell’isola, dopo aver soccorso i naufraghi il 18 marzo in un’operazione di salvataggio avvenuta a 42 miglia dalle coste libiche. La nave ha trovato un gommone in avaria, su indicazione dell’aereo Moonbird, e ha informato sia la guardia costiera libica sia la guardia costiera italiana che avrebbe provveduto al soccorso.

      “Siamo arrivati a soccorrere i naufraghi che erano in difficoltà, i libici non erano sul posto, sono arrivati successivamente”, afferma Gennari, 32 anni, originaria di Mestre. “Poi ci siamo diretti verso nord perché la situazione atmosferica era pessima. Al momento la situazione a bordo è tranquilla, abbiamo viveri per qualche giorno, ma gli spazi sono ristretti, la nave è lunga 32 metri e le persone nella notte sono state male a causa delle cattive condizioni atmosferiche”, racconta la ragazza, che fa parte del gruppo di legali che seguono Mediterranea Saving Humans a partire dalla sua fondazione nell’autunno del 2018.

      La nave batte bandiera italiana e quindi a differenza di altre imbarcazioni non gli può essere impedito di attraccare in porto. Tuttavia il ministro dell’interno Matteo Salvini ha già detto che la nave non potrà arrivare in un porto italiano e nella notte tra il 18 e il 19 marzo ha diffuso una circolare diretta alle autorità portuali, ai carabinieri, alla polizia, alla guardia di finanza e alla marina militare che invita a impedire l’ingresso nelle acque e nei porti italiani alle navi private che abbiano operato attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali.

      Secondo la circolare, i salvataggi che avvengono in acque internazionali che non sono coordinate dall’Italia, non possono concludersi nel paese. La circolare crea un’ambiguità sul significato di zona di ricerca e soccorso libica. Da una parte infatti le autorità internazionali hanno riconosciuto alla Libia la capacità di compiere soccorsi nelle acque internazionali, d’altro canto però la Libia non può essere considerato un posto sicuro in cui riportare le persone soccorse. Dopo la diffusione della circolare, a bordo della Mare Jonio sono saliti degli agenti della guardia di finanza. “Alle 8 di mattina a bordo è salita la guardia di finanza che sta raccogliendo informazioni sul salvataggio”, racconta Lucia Gennari. La procura di Agrigento ha aperto un fascicolo di indagine sul caso.

      Linea dura

      Il ministro dell’interno ha accusato i soccorritori di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: “Possono essere curati, vestiti, gli si danno tutti i generi di conforto, ma in Italia per quello che mi riguarda e con il mio permesso non mettono piede. È chiaro ed evidente che c’è un’organizzazione che gestisce, aiuta, e supporta il traffico di essere umani. O c’è l’autorità giudiziaria, che ovviamente prescinde da me che riterrà che questo non sia stato un soccorso e decide di intervenire legalmente, oppure il ministero dell’interno, che deve indicare il porto di approdo, non indica nessun porto”.

      Secondo Salvini, la nave “ha raccolto questi immigrati in acque libiche, in cui stava intervenendo una motovedetta libica. Non hanno ubbidito a nessuna indicazione, hanno autonomamente deciso di dirigersi verso l’Italia per motivi evidentemente ed esclusivamente politici. Non hanno osservato le indicazioni delle autorità e se ne sono fregati dell’alt della guardia di finanza”. Il ministro su Twitter ha poi attaccato uno dei soccorritori della nave, Luca Casarini, ex leader dei movimenti del nordest attivi durante il G8 di Genova nel 2001. Per Lucia Gennari il governo deve dare l’autorizzazione all’attracco il prima possibile: “La direttiva Salvini è solo un’indicazione politica del ministero dell’interno, per applicarla le autorità portuali dovrebbero pubblicare un decreto di attuazione che sarebbe impugnabile perché viola diverse norme internazionali”.

      Alessandro Metz, armatore della Mare Jonio, ha risposto alle accuse dicendo: “La direttiva è subordinata alle leggi e alle convenzioni internazionali, quindi o il governo decide di ritirare la propria firma da quelle convenzioni, trovandosi in una condizione di isolamento e rinnegando quella cultura giuridica che l’Italia rappresenta, essendo un popolo di naviganti”. Per Metz il governo deve indicare subito “un porto sicuro” di sbarco.

      Molti esperti hanno commentato la circolare diffusa dal ministero dell’interno sulla chiusura dei porti alle navi private che soccorrono persone in mare. Mario Morcone, ex capo di gabinetto del Viminale e direttore del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), si è detto estremamente preoccupato dalla direttiva Salvini: “È una circolare che esercita un astratto e un po’ ipocrita formalismo nell’analisi delle norme. Accetta il presupposto che i porti libici possano essere considerati sicuri e che l’attracco presso i porti tunisini e maltesi sia possibile. È una direttiva che non prende in alcuna considerazione il drammatico contesto reale”.

      Anche Luigi Manconi e Valentina Calderone, presidente e direttrice di A buon diritto, hanno commentato: “Non esiste alcun provvedimento del consiglio dei ministri che abbia approvato una simile misura, illegale sotto il profilo normativo e costituzionale. Dunque i porti italiani erano e restano aperti, tanto più se a chiedere l’approdo è una nave italiana, battente bandiera italiana con equipaggio interamente italiano. E con 49 profughi soccorsi in mare in una zona più vicina alle coste italiane che ad altre coste (quelle di Malta, per esempio). Ovviamente, consegnare quelle persone alla guardia costiera libica e, di conseguenza, ai centri di detenzione di quel paese, avrebbe costituito una grave violazione del diritto internazionale”.

      Per il giurista Fulvio Vassallo Paleologo della clinica dei diritti di Palermo, esperto di diritto del mare, “la direttiva tradisce puntualmente tutte le convenzioni internazionali, citate solo per le parti che si ritengono utili alla linea di chiusura dei porti adottata dal governo italiano, ma che non menziona neppure il divieto di respingimento affermato dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, norma destinata a salvaguardare il diritto alla vita e alla integrità fisica delle persone. Questa omissione si traduce in una ennesima violazione del diritto interno e internazionale. Gravi le conseguenze per quelle autorità militari che dovessero dare corso a un provvedimento ministeriale manifestamente in contrasto con le Convenzioni internazionali e con il diritto dei rifugiati. Secondo l’Unhcr il diritto dei rifugiati va richiamato con funzione prevalente rispetto alle norme di diritto internazionale del mare e alle norme contro l’immigrazione irregolare”.

      Infine per Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo centrale, “la legge del mare è molto chiara, la Libia non è un place of safety, un posto che può essere considerato sicuro. L’Italia e gli altri paesi del Mediterraneo sono sicuri”.

      Intanto al largo di Sabratha, in Libia, c’è stato un nuovo naufragio: a darne notizia è l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Secondo Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Oim in Italia, ci sono stati solo quindici sopravvissuti, ma i morti potrebbero essere decine. Secondo Di Giacomo dall’inizio del 2019 “oltre 1.280 persone sono partite dalle coste del Nordafrica verso l’Europa” e i morti sono stati almeno 154. “Un aumento esponenziale dei morti rispetto ai migranti sbarcati”, afferma Di Giacomo.

      https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2019/03/19/matteo-salvini-mare-ionio

    • Italian police escort migrant boat, open trafficking probe

      An Italian charity ship was escorted into the port of Lampedusa by police on Tuesday after rescuing 49 Africans in the Mediterranean, with Interior Minister Matteo Salvini calling for the crew to be arrested.

      A judicial source said a magistrate had ordered that the boat, the Mare Jonio, be seized as an investigation is launched into allegations of aiding and abetting human trafficking.

      The vessel picked up the migrants, including 12 minors, on Monday after their rubber boat started to sink in the central Mediterranean, some 42 miles (68 km) off the coast of Libya.

      The humanitarian ship immediately set sail for the nearby Italian island of Lampedusa, defying Salvini, the leader of the hard-right League party who has ordered the closure of all ports to boats carrying rescued migrants.

      After initially being prevented from docking, the Mare Jonio was unexpectedly accompanied into port by police at nightfall as a storm approached.

      The judicial source said the migrants would be allowed to disembark, while the boat would be impounded and the crew faced possible questioning.

      “Excellent,” Salvini wrote on Twitter. “We now have in Italy a government that defends the borders and enforces the law, especially against human traffickers. Those who make mistakes pay the price,” he said.

      The government has repeatedly accused charity rescue boats of being complicit with people smugglers, who charge large sums to help migrants get to Europe. The NGOs deny the accusation.

      There was no immediate comment from the collective that organized Monday’s sea operation, “Mediterranea”. It said in an earlier statement that the rescue had been carried out in accordance with international human rights and maritime law.
      ARRIVALS FALL

      New arrivals to Italy have plummeted since Salvini took office last June, with just 348 migrants coming so far this year, according to official data, down 94 percent on the same period in 2018 and down 98 percent on 2017.

      His closed-port policy has helped support for his League party double since March 2018 elections. However, humanitarian groups say his actions have driven up deaths at sea and left migrants languishing in overcrowded Libyan detention centers.

      Salvini said on Monday the Mare Jonio should have let the Libyan coastguard pick up the migrants. Failing that, it should have taken them either to Libya or Tunisia rather than disobey initial orders not to enter Italian waters.

      “If a citizen forces a police roadblock they are arrested. I trust the same thing will happen here,” Salvini said.

      Mediterranea said its rescue operation had saved the migrants either from drowning or from being picked up by the Libyans and “taken back to suffer again the torture and horror from which they were fleeing”.

      Last August, Salvini blocked an Italian coastguard ship with 150 migrants aboard for almost a week before finally letting it dock. Magistrates subsequently put him under investigation for abuse of power and kidnapping and have asked parliament to strip him of his immunity from prosecution.

      The upper house Senate is due to vote on that on Wednesday, but the request looks certain to be rejected, with Salvini arguing that he acted in the national interest.

      https://www.reuters.com/article/us-europe-migrants-italy/italys-salvini-in-new-migrant-boat-stand-off-idUSKCN1R021Q?il=0

    • Sequestro Mare Jonio. Indagato il comandante, che dice «Avrei dovuto lasciarli morire?»

      Al vaglio degli inquirenti i contenuti delle comunicazioni via radio, in particolare gli alt intimati dalla Guardia di finanza e la decisione invece della nave di proseguire.

      Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e rifiuto di obbedienza a nave da guerra previsto all’articolo 1099 del codice della navigazione. Sono questi i reati contestati al comandante Pietro Marrone della nave Mare Jonio, della Ong Mediterranea dal procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella e dal pubblico ministero Cecilia Baravelli. La Procura ha anche convalidato il sequestro della nave «Mare Jonio» fatto nella tarda serata di ieri dalla Guardia di finanza.

      Pronta la replica dell’Ong: «Ovviamente nei prossimi giorni faremo ricorso contro il sequestro. Noi non godiamo di nessuna immunità, ma siamo certi di avere operato nel rispetto del diritto e felici di avere portato in salvo 49 persone», si legge in un tweet Mediterranea saving humans.

      In quanto al comandante l’avvocato Fabio Lanfranco che, insieme alla collega Serena Romano, lo difende, fa sapere: «Abbiamo appreso che il comandante è indagato e che questo é prodromico al sequestro della nave, quindi è un atto dovuto. Non conoscendo gli atti stiamo ricostruendo il fatto. Il comandante si è comportato in modo estremamente corretto, ha salvato vite umane, il favoreggiamento a mio giudizio non sta né in cielo né in terra».

      Ne è certo anche lo stesso comandante. «Sono tranquillo, ho fatto il mio dovere. Avrei dovuto lasciarli morire? Rifarei tutto per salvare le persone», ha detto Pietro Marrone ai cronisti prima di entrare nel comando Brigata Lampedusa della Guardia di finanza, accompagnato dai suoi legali, per essere interrogato dal pm di Agrigento.
      La giornata

      Giornata di interrogatori oggi a Lampedusa, sul caso della Mare Jonio, la nave della missione Mediterranea sequestrata e fatta attraccare ieri dopo circa tredici ore d’attesa al largo dell’Isola con 50 migranti a bordo, fatti infine sbarcare.

      La procura di Agrigento ha aperto un’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. In serata era volato a Lampedusa il procuratore aggiunto Salvatore Vella. Sentiti dalla Guardia di finanza fino a notte il comandante Pietro Marrone il provvedimento di sequestro, e poi l’armatore Beppe Caccia. Si continuano a sentire persone informate, compreso il capo missione Luca Casarini.

      Entro domani sera la procura dovrà decidere se convalidare il sequestro. Al vaglio degli inquirenti, in particolare, i contenuti delle comunicazioni via radio fra la Guardia di finanza che aveva intimato l’alt, chiedendo di non avvicinarsi al porto di Lampedusa, e il comandante dell’imbarcazione che ha disobbedito, decidendo di proseguire, a suo dire per questioni di sicurezza, per mantenere in assetto la nave in un mare fortemente agitato con onde alte.

      Verificata anche la «catena di comando istituzionale», dal ministero dell’Interno alle forze dell’ordine intervenute intimando l’arresto dei motori alla nave di soccorso battente bandiera italiana.

      INTERVISTA «Direttiva illegittima. Un abuso di potere come negli Stati autoritari» di Nello Scavo
      Migranti trasferiti in hotspot, non ancora interrogati

      Non sono stati ancora ascoltati dagli investigatori i 40 migranti soccorsi dalla Mare Jonio, che hanno trascorso la notte nell’ hotspot di Lampedusa dopo lo sbarco di ieri sera. Gli operatori del Centro li hanno rifocillati, alcuni di loro hanno pregato. «Sono bravi
      ragazzi, educati e pacati» dicono dal centro dove la situazione è tranquilla. Non si sa quando lasceranno la struttura di contrada Imbriacola, anche perché le condizioni meteo-marine a Lampedusa non sono buone e sono previste in peggioramento.
      Il comunicato di Mediterranea

      «All’indomani dello sbarco dei naufraghi a Lampedusa il sentimento prevalente in Mediterranea è la gioia profonda di aver portato in salvo in un porto sicuro 49 persone sottratte ai pericoli della traversata e alle torture libiche. Sono entrate in Italia cantando ’libertà, liberta» perché per loro il nostro è ancora il paese dei diritti umani e della salvezza possibile" informa in una nota Mediterranea Saving Humans.

      «Ieri sera è stato notificato al Comandante della Mare Jonio il sequestro probatorio della nave, su iniziativa della Polizia Giudiziaria, nello specifico la Guardia di Finanza. La contestuale identificazione del comandante è un atto dovuto per procedere al sequestro - si legge - Lo si accusa di non avere spento i motori, come ordinato dalla Guardia Costiera a poche miglia dalle acque territoriali italiane, mentre la Mare Jonio fronteggiava onde alte più di due metri, come si vede nel video che abbiamo diffuso ieri. Era un ordine impossibile da eseguire senza mettere in serio pericolo la sicurezza della nave e di tutte le persone a bordo, la cui tutela è l’obbligo prioritario di ogni comandante. Al momento non sono in corso interrogatori e non sono arrivate ulteriori notifiche. L’armatore di Mare Jonio è stato semplicemente convocato in capitaneria per le procedure di routine», sottolinea la Ong. «La nostra azione di obbedienza civile si è sempre mossa nel quadro giuridico delle norme vigenti, rispettando anche la loro gerarchia, avendo come bussola il diritto e i diritti che tutelano la vita e la dignità delle persone. Ancora una volta si potrà dimostrare che le navi della società civile sono gli unici soggetti del Mediterraneo centrale che agiscono con queste priorità», conclude la nota.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/mare-jonio-interrogatori

    • L’ammiraglio. «Direttiva illegittima. Un abuso di potere, come negli Stati autoritari»

      «Il provvedimento di chiusura del mare territoriale firmato dal ministro Salvini sospinge definitivamente il soccorso in mare nella pura strumentalizzazione politica con il rischio di creare, nella realtà operativa, situazioni ingestibili di confusione e di pericolo». Il contrammiraglio Vittorio Alessandro non nasconde la preoccupazione, specie dopo aver letto la direttiva di Salvini per fermare le Ong. «Un testo anomalo, chiaramente illegittimo e viziato di abuso di potere», dice l’ufficiale, ora in congedo. Temi che Alessandro conosce anche per essere stato a guida del reparto am- bientale marino della Guardia Costiera e per 3 anni a capo dell’ufficio relazioni esterne del comando generale, dal 2010 al 2013, gli anni delle primavere arabe e delle migliaia di sbarchi a Lampedusa.

      Cosa non la convince?
      La premessa della direttiva sta nella paventata ipotesi di “strumentalizzazione” delle convenzioni per la salvaguardia della vita umana in mare al fine di eludere le norme in materia di immigrazione clandestina. Una premessa del genere non vale a sospendere o a ridurre l’obbligo del soccorso (che si conclude con l’assegnazione di un porto sicuro), in quanto ogni principio a tutela dei diritti fondamentali (quello della libertà, per esempio, o il diritto alla salute) può essere strumentalizzato a fini illeciti, ma non per questo può essere ristretto.

      Quindi si tratta di un’escamotage per scopi politici?
      Tanto più quando, come nel nostro caso, il paventato rischio di un pregiudizio alla «pace, buon ordine, e sicurezza dello Stato costiero» è solo una lontana ipotesi mai constatata, e comunque perfettamente affrontabile allorché i naufraghi siano giunti a terra.

      Perché ritiene che la direttiva non possa superare l’esame di un eventuale ricorso giudiziario?
      Perché il provvedimento, per i suoi aspetti formali, è illegittimo. L’articolo 83 del codice della navigazione prevede, infatti, l’ipotesi della chiusura del mare territoriale (assai remota in un ordinamento che considera tali spazi aperti alla sosta e al transito inoffensivi delle navi) assegnandola alla esclusiva attribuzione del ministro delle Infrastrutture.

      Invece cosa prevedono le nuove indicazioni degli Interni?
      Il Viminale si interpone fra il vertice istituzionale dell’organizzazione marittima e del soccorso e la competenza operativa delle Capitanerie di Porto. Non, come giusto, con una missiva al ministro competente, ma con un proprio provvedimento indirizzato alle Forze di polizia e a una Forza armata, come negli stati autoritari.

      Però si tratta di ipotesi che dovranno poi misurarsi con la realtà.
      Ma è già successo proprio nel caso della Mare Jonio. La Guardia di Finanza ha ordinato, infatti, alla nave italiana di «fermare le macchine» in mezzo al mare agitato. Un ordine inaudito, sotto il profilo nautico: le macchine non servono soltanto a navigare, ma anche a difendersi dal moto ondoso, a mantenere a galla il natante. Non a caso la Guardia Costiera ha subito provveduto ad assegnare alla nave un punto di ancoraggio a ridosso di Lampedusa.


      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/direttiva-illegittima-un-abuso-di-potere-come-negli-stati-autoritari

    • Italy seizes migrant rescue boat Mare Jonio

      A rescue boat carrying nearly 50 migrants has docked at the Italian island of Lampedusa. Interior Minister Matteo Salvini had denied the ship access to Italian ports, but relented in order to bring aid workers to trial.

      Sicilian prosecutors on Tuesday ordered the seizure of the Italian-flagged ship “Mare Jonio.” The rescue boat was allowed to dock on the Italian island of Lampedusa while accompanied by coast guard ships following nearly two days at sea.

      The decision ended a standoff between the migrant rescue boat and the Italian government. Italian Interior Minister Matteo Salvini had earlier ordered authorities to deny the ship access to Italian ports.

      Before issuing the permit to dock, prosecutors launched an investigation into possible aiding and abetting of illegal immigration. A move Salvini praised.

      “Now in Italy there is a government that defends the borders and ensures respect for the law, most of all for human traffickers,” he said. “He who makes mistakes, pays.”

      The group of 49 migrants, including 12 minors, were rescued by humanitarian group Mediterranea Saving Humans. “Those on board had been at sea for almost two days,” the NGO said in a statement. “(They) are exhausted and dehydrated.”

      ’Repressive’

      Salvini has come under fire for attempting to block migrant rescue boats from docking at Italian ports.

      Human rights watchdog Amnesty International last year accused the Italian government of “repressive management of the migratory phenomenon.”

      Italy has taken the brunt of a wave of migration after EU member states cut-off the so-called Balkan route. Nearly half a million irregular migrants have made the dangerous journey across the central Mediterranean and made landfall in Italy, according to the International Organization for Migration(IOM).

      Rome has conceded that saving lives at sea is a priority, but maintains that national authorities must be obeyed and premeditated action to bring immigrants to Italy would amount to facilitating human trafficking.

      Italy, with the support of the EU, has trained the Libyan coast guard to intercept boats carrying migrants in a bid to prevent migrants from reaching European shores.

      https://www.infomigrants.net/en/post/15804/italy-seizes-migrant-rescue-boat-mare-jonio?ref=fb

    • Le navire humanitaire « Mare Jonio » mis sous #séquestre en Italie

      Le ministre de l’intérieur italien Matteo Salvini a lancé lundi 18 mars un avertissement aux organisations humanitaires qui recueillent des migrants au large de la Libye.

      Le lendemain, le « Mare Jonio », un navire ayant secouru 49 migrants était bloqué au large de Lampedusa, et mis sous séquestre dans la soirée. Les membres de l’équipage ont été arrêtés.

      « Les ports ont été et restent FERMES ». C’est par un message lapidaire posté sur Twitter que le dirigeant de La Ligue et ministre de l’intérieur italien Matteo Salvini a annoncé lundi 18 mars que l’Italie ne laisserait pas débarquer les migrants secourus par les ONG.


      Cet avertissement de Rome contre les ONG humanitaires intervient alors que le « Mare Jonio », affrété par le Collectif Mediterranea, aussi connu sous le nom de Mediterranea Saving Humans, venait de recueillir 49 migrants au large des côtes libyennes.
      Le Mare Jonio bloqué puis placé sous séquestre.

      Mardi 19 mars au matin, le navire humanitaire s’est positionné au large de Lampedusa, petite île italienne située entre l’île de Malte et la Tunisie, mais aussi dans la principale zone de passage des migrants en provenance des côtes libyennes. « En raison de conditions météo défavorables, il nous a été assigné un point d’ancrage à l’abri, à Lampedusa. Nous abriter était la priorité pour garantir la sécurité de toutes les personnes à bord », avait tweeté Mediterranea en fin d’après-midi.

      Le ministère italien de l’intérieur a annoncé, mardi 19 mars au soir, que « les douanes sont en train de procéder à la saisie du navire Mare Jonio », précisant que « les interrogatoires des membres d’équipage pourraient avoir lieu dans les prochaines heures ». Mercredi 20 mars, de fait, la justice italienne a confirmé le placement sous séquestre du Mare Jonio dans le cadre d’une enquête pour « aide à l’immigration clandestine ».

      Mediterranea, le soir même, a posté un message sur Twitter : « évidemment nous allons déposer un recours dans les prochains jours. Nous ne jouissons d’aucune immunité, mais nous sommes certains d’avoir agi dans le respect du droit et heureux d’avoir porté ces 49 personnes en lieu sûr ».
      Un accord Italie – Libye au détriment des droits de l’homme.

      Alors que Matteo Salvini menace de « sanctions » ceux qui « violent explicitement les règlementations (…) concernant les sauvetages », il ajoute au sujet du « Mare Jonio », « il ne s’agit pas d’une opération de sauvetage, c’est de l’aide à l’immigration clandestine ».

      Fidèle à sa ligne politique, le leader de La Ligue (extrême droite) a quasiment stoppé les arrivées de migrants, invoquant l’accord passé entre la Libye et l’Italie, signé le 2 février 2017, et soutenu par l’Europe, qui prévoit un soutien logistique et financier de l’Italie et de l’UE aux garde-côtes libyens, chargés d’assurer la surveillance en mer dans leurs eaux territoriales. En échange, ces derniers empêchent les personnes quittant la Libye de se rendre en Europe.

      Vincent Cochetel, envoyé spécial du Haut-Commissariat de l’ONU pour la Méditerranée centrale, a commenté sur Twitter que « le droit maritime est clair : la Libye n’est pas un lieu sûr (…). L’Italie et les autres pays méditerranéens, eux, le sont », légitimant ainsi le sauvetage des migrants par les ONG humanitaires.
      Le 16 novembre 2017, les pratiques d’esclavage en Libye sur des migrants originaires d’Afrique subsahariennes avaient été révélées au grand jour à la suite d’une vidéo publiée par la chaîne américaine CNN. « La Libye est un pays déchiré par la guerre et où les personnes réfugiées et migrantes sont régulièrement détenues dans des conditions terribles en violation de leurs droits humains les plus élémentaires », précise une lettre ouverte à l’attention du ministre de l’intérieur Français, Christophe Castaner, et signée par une trentaine d’ONG européennes.
      Quels navires humanitaires croisent encore en mer Méditerranée ?

      De janvier à juin 2018 l’espace humanitaire continue de se rétrécir en Méditerranée, explique pour sa part l’ONG SOS Méditerranée. « Les garde-côtes libyens sont de plus en plus présents et effectuent des interceptions dans les eaux internationales au large de la Libye, conséquence d’un transfert de responsabilités de plus en plus systématique du Centre de coordination des sauvetages italien vers les garde-côtes libyens ».

      La mise sous séquestre du « Mare Jonio » prive désormais un peu plus la Méditerranée d’aide humanitaire. D’autres embarcations européennes ont été empêchées de prendre la mer et de porter secours ces derniers mois : le « Juventa », le « Sea Watch », et l’« Aquarius ».

      Matteo Salvini dresse un bilan positif de son action. « Moins de départs, moins d’arrivées, moins de morts », martèle-t-il.

      L’Organisation Internationale pour les migrations (OIM) fait état de 152 morts et disparus en Méditerranée centrale depuis le début de l’année. Les chiffres sont par contre en augmentation au large de l’Espagne, devenue la principale porte d’entrée sur le continent.

      En 2018, toujours selon l’OIM, 144 166 personnes ont migré vers l’Europe : presque 4 000 de moins qu’en 2017. Le nombre de personnes mortes en tentant la traversée a également baissé, à 2 299. Il est toutefois proportionnellement plus élevé que les années précédentes.

      https://www.la-croix.com/Monde/Europe/Le-navire-humanitaire-Mare-Jonio-mis-sequestre-Italie-2019-03-21-120101032

      –-> commentaire de Emmanuel Blanchard, via la mailing-list Migreurop :

      Les rares journalistes français qui évoquent le Mare Jonio continuent de le présenter comme partie prenante d’un projet humanitaire. Le sauvetage en mer n’est pourtant qu’une des ambitions de cette coalition, soutenue par MIgreurop, qui a toujours défendu la dimension politique de son action. C’est également pour cela qu’elle est si durement attaquée par Salvini.

    • Hotspot di Lampedusa: si teme che i migranti della Mare Jonio siano detenuti arbitrariamente

      Le 50 persone soccorse dalla Mare Jonio e condotte all’Hotspot di Lampedusa il 19 sera sono da allora trattenute all’interno della struttura. ASGI chiede l’autorizzazione urgente all’ingresso nell’hotspot.

      Inviata il 20 mattina alla Prefettura e alla Questura di Agrigento una richiesta di informazioni circa la condizione dei cittadini stranieri presenti nell’hotspot. Ad oggi non è stata ricevuta nessuna risposta.

      In particolare nella richiesta inviata dall’ASGI, nell’ambito delle azioni promosse dal Progetto Inlimine, si richiedevano chiarimenti rispetto all’accesso alla protezione internazionale, alla tutela dei minori e all’eventuale privazione della libertà delle persone presenti.

      Di fatto i cittadini stranieri, nel corso di questi giorni, non hanno lasciato la struttura e l’ente gestore ha comunicato per via telefonica a In Limine che non sussistono meccanismi di regolamentazione in merito all’uscita e al rientro dalla struttura delle persone presenti. L’ente gestore ha infatti sostenuto che trattandosi di un Centro di primo soccorso e accoglienza i cittadini stranieri debbano essere trattenuti al suo interno.

      Questa situazione desta grandi preoccupazioni: l’hotspot è percepito dall’ente responsabile della sua gestione come un centro di detenzione e le autorità pubbliche responsabili sembrano assecondare tale visione. Il problema della detenzione illegittima all’interno dell’hotspot di Lampedusa era già stato sollevato dal Garante dei diritti dei detenuti in data 11 maggio 2017. In tale occasione il prefetto di Agrigento alla richiesta del perché non venisse permesso alle persone di uscire dal Centro aveva risposto “se vogliono possono uscire da un buco nella rete”. In seguito, nel febbraio del 2018 il Prefetto inviava una comunicazione all’allora ente gestore con l’indicazione di dotarsi di sistemi per consentire ai richiedenti asilo di circolare liberamente. A oltre un anno da tale comunicazione, tali sistemi non sono stati adottati.

      Di fronte a questa allarmante situazione ricordiamo che la libertà personale è un diritto inviolabile, in quanto tale tutelato dalla Costituzione (art. 13) nonché da norme di diritto internazionale, tra cui l’art. 5 della Convenzione Europea dei Diritti Umani. La privazione della libertà può avvenire solo sulla base di norme che ne disciplinino tassativamente casi e modi, deve essere disposta da provvedimenti scritti e motivati e deve essere convalidata dall’autorità giudiziaria competente. Nel caso dei cittadini stranieri presenti a Lampedusa ci troviamo potenzialmente di fronte a tre diverse situazioni:

      Il trattenimento nel corso delle procedure di identificazione. Tale forma di detenzione non è prevista da alcuna norma ed è quindi di per sé illegittima.

      Per quanto concerne la privazione della libertà dei richiedenti protezione internazionale all’interno dei centri hotspot questa è prevista dall’art. 6 del D.lgs. n. 142/2015, che stabilisce che il richiedente asilo può essere trattenuto solo in appositi locali, al fine di determinare o verificare l’identità o la cittadinanza e, in ogni caso, esclusivamente ove vi sia un provvedimento scritto emesso e notificato dall’autorità competente e convalidato dall’autorità giudiziaria.

      Per quanto riguarda i cittadini stranieri destinatari di provvedimenti di allontanamento l’unica eccezione al trattenimento presso i Centri per il rimpatrio è contenuta nell’art. 13, co. 5-bis, del Testo Unico sull’Immigrazione. Questo prevede che in caso di indisponibilità dei posti all’interno dei CPR tali cittadini possono essere trattenuti in strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza solo dietro autorizzazione del giudice di pace e comunque non oltre le quarantotto ore successive all’udienza di convalida.

      In base a quanto visto sopra si ritiene che la detenzione cui sono sottoposti i 36 adulti, nel centro di Lampedusa potrebbe essere illegittima, sia nella sua fase iniziale – ovvero durante l’identificazione –sia nei momenti successivi, a meno che non siano stati emessi i provvedimenti di trattenimento e non vi sia stata la relativa convalida.

      Per quanto riguarda i minori, la situazione è evidentemente ancora più grave. Infatti, in nessun caso i minori non accompagnati possono essere trattenuti e devono essere accolti in “strutture governative di prima accoglienza a loro destinate” e, in caso di indisponibilità di posti in tali strutture, l’assistenza e l’accoglienza devono essere garantite dal Comune. Il trattenimento ovvero la permanenza dei minori nel centro hotspot è estremamente preoccupante in quanto illegittima e contraria al principio del superiore interesse del minore.

      Si invitano pertanto le autorità competenti a fornire nel minor tempo possibile informazioni sulla condizione delle persone soccorse dalla Mare Jonio, sulla messa in campo delle garanzie previste per gli eventuali trattenimenti e sulle misure adottate per l’immediato trasferimento dei minori. In data odierna è stata inviata richiesta di ingresso all’hotspot di una delegazione del progetto al fine di verificare l’effettivo rispetto dei diritti delle persone presenti.

      In ultimo, riteniamo sia indispensabile, dal punto di vista della società civile, prestare l’opportuna attenzione nei confronti delle procedure applicate alle 50 persone attualmente presenti a Lampedusa. Riteniamo, da questa prospettiva, che il tema del rispetto dei diritti e le potenziali frizioni tra diritto e prassi non si esauriscano con l’approdo e lo sbarco. Viceversa, è indispensabile continuare a mantenere alta la soglia dell’attenzione: va puntualmente garantito il rispetto dei diritti all’interno degli hotspot e nelle delicate fasi successive.

      https://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/lampedusa-mare-jonio-detenzione-hotspot

    • Refugee Ships Are Trying To Call Them During Emergencies — But They Aren’t Answering

      Twenty-nine calls from BuzzFeed News to a variety of numbers meant to summon the Libyan coast guard to help for drowning refugees in the Mediterranean went completely unanswered.

      Four years after the refugee crisis first brought the horrors of the dangerous Mediterranean crossing to the world’s attention, hundreds of people continue to die each year hoping to reach Europe’s shores.

      Over the course of 2016, the European Union determined that the coast guard in Libya, from whose shores many refugee boats set off, would to be the first call for groups undertaking rescue missions in hopes of saving the lives of those adrift at sea. Since last June, the main international body that issues guidelines on rescues at sea has agreed — Libya has the lead in the Mediterranean.

      A BuzzFeed News investigation has found that five different phone numbers provided by Libyan officials as contact numbers for search and rescue missions are barely functioning, and when they do, the staffers manning the phones are unable to speak English, in violation of international law.

      A reporter from BuzzFeed News tried to reach these five numbers on three different days and at six different times in a total of 30 contact attempts. Of those, 29 failed because the call was not answered. Among the numbers where no one could be reached were the two numbers listed in the international database for emergencies at sea — the UN International Maritime Organization’s (IMO) Search and Rescue database. The IMO entry says that the Libyans should be available 24 hours a day.

      The failure to adequately man the phones can have dire consequences. In 2016, at the peak of the crisis, more than 3,800 people are estimated to have died when attempting to make the crossing into Europe. According to the UN, the route between Libya and Italy was the most deadly, with one death for every 47 arrivals. That number has fallen but still remains high: 2,262 people were estimated to have died on the voyage last year.

      In response to the surge in migrants and asylum-seekers, the European Union opted in 2016 to divert money and personnel from its own rescue missions to the Libyan coast guard, hoping to discourage migrants and asylum-seekers from making the trek in the first place. The program has been renewed several times since then, most recently in the form of a pledge of $52 million this January to pay for maritime surveillance equipment.

      The UN database also lists a Gmail address as an official contact for the Tripoli mission. There are three further email addresses available that BuzzFeed News was able to locate, which are supposed to represent official contacts to the Libyan coast guard. One is a second Gmail account; the other is an address that belongs to the Italian Navy. None of the addresses contacted responded to BuzzFeed News requests for comment.

      Other organizations have had little better luck contacting Tripoli. Sea-Watch, an NGO that provides search and rescue efforts in the Mediterranean, has also provided BuzzFeed News radio recordings of several attempts on different days to reach the Libyan coast guard.

      Sea-Watch also provided a list of recorded attempts to reach the Libyan coast guard from the bridge of the Sea-Watch 3, one of their rescue ships. The list of 15 calls show 10 failed contact attempts — in five other cases, the Libyan side simply hung up.

      Ruben Neugebauer, a crew member who also acts as spokesperson for Sea-Watch, told BuzzFeed News that the situation had become the new normal.

      “The accessibility of the JRCC Tripoli is more than poor, it happens again and again that the control center is not accessible at all,” he said, using the Libyan mission’s official name. “If it can be reached, often only the local Arabic dialect is spoken.”

      Under the terms of the 1979 International Convention on Maritime Search and Rescue, which Libya has signed, all rescue coordination centers must be staffed around the clock and include staffers who speak English.

      Neugebauer recalled one case where a person on the Libyan end of the call could not communicate in English, French, or Egyptian Arabic: “Even though it was an emergency, the JRCC Tripoli employee simply hung up before we were able to share the most necessary information.”

      The operator’s lack of English language skills can also jeopardize the rescuers. Last November, a Libyan patrol boat intervened aggressively in an ongoing rescue mission. Five people died as a result.

      The Aquarius, a ship jointly operated by NGOs Doctors Without Borders and SOS Mediterranee, has noted in its public logbook almost 30 unsuccessful attempts to reach the Libyans during missions since June 2018 alone. Nine unsuccessful attempts to reach Libyan units on the radio channel reserved for emergency calls are also listed in the logbook.

      “For us, the JRCC Tripoli has never been reachable by phone so far,” Axel Steier, founder and chair of the NGO Mission Lifeline, told BuzzFeed News in an email. “Emails are answered after days.” BuzzFeed News asked Steier to estimate how often the Libyan authorities were available in cases of distress at sea in which Mission Lifeline’s rescue vessel was involved. His answer: “Zero percent.”

      Ina Fisher, a spokesperson for Alarm Phone, another NGO focused on rescues, told BuzzFeed News that in only two cases did phone calls placed to numbers meant to belong to the Libyan coast guard actually get answered. One number turned out to belong not to the coast guard but a retired general, she said. In the other call, the voice on the other end of the line said they could not help but did ask if they’d managed to save the boat in question.

      “We regularly send complaints to MRCC Rome about the JRCC’s inaccessibility, but again and again get the answer that the JRCC is working well,” Fisher said.

      “According to our experience, in case of SAR events involving our assets, the communication with the relevant MRCC, including the Libyan one, has been satisfactory,” Antonello de Renzis Sonnino, a captain in the Italian Navy and spokesperson for Operation Sophia, the EU’s international rescue mission, said in response to a BuzzFeed News request for comment.

      Last year, Italian and Maltese ports began refusing ships with refugees on board permission to enter their harbors, leaving ships to wait for days with refugees on board on the Mediterranean Sea. As a result, civilian sea rescuers have given up on contacting the rescue coordination center based in Rome and switched over to contacting the German Maritime Search and Rescue Association during emergencies in the Mediterranean, hoping to enlist them to contact the Libyans. The Germans, based out of the city of Bremen, are responsible for maritime search and rescue operations in the North and Baltic seas.

      Even they don’t always manage to reach the Libyan coast guard. Christian Stipeldey, the German rescue association’s press officer, confirmed to BuzzFeed News: “In January 2019 we tried to reach Tripoli by telephone in one case. The connection was not established.” The mission in Rome “was already aware of this case,” Stipeldey said.

      A spokesperson for the International Maritime Organization told BuzzFeed News that they were not in a position to comment on the reporting gathered for this article, adding that the IMO has no mandate to investigate the accessibility and reliability of regional command centers. A member state of the IMO could make such a request, however.

      The German Federal Ministry of Transport is considering putting the work of the Libyan coast guard on the agenda at the next meeting of the IMO’s subcommittee responsible for sea rescues, the ministry confirmed to BuzzFeed News. The ministry also said that in talks with Libyan representatives, it has regularly demanded that the protection of refugees in sea rescue be guaranteed.

      “You must appreciate that not every State can execute this function properly, especially if it has been under turmoil, like Libya,” George Theocharidis, a professor of maritime law and policy at World Maritime University in Sweden, told BuzzFeed News. “On the other hand, as every State has sovereignty, it is not possible to enforce those duties and it is left to the goodwill of States to perform what is required from them,” he added, noting that even the IMO can’t force a country to comply with the standards.

      BuzzFeed News has also asked the European External Action Service, the responsible EU commissioner, for comment on the Libyans’ inaccessibility. It has not provided a response at this time.

      Despite widespread knowledge of the problem, the confusion has not improved in recent months. A screenshot of an internal Sea-Watch chat provided to BuzzFeed News shows one crew member attempting to get in touch with the Libyans as recently as March 15. They were subsequently provided with a new phone number and instructed to speak very slowly.

      When someone actually answered the phone, the chat reads, “it was a Russian-sounding man replying, saying in English that he didn’t speak English, only Russian.

      “To my question, if anyone there spoke English, he replied, ‘Afternoon, English!’”

      https://www.buzzfeednews.com/article/marcusengert/libya-coast-guard-not-answering-emergency-refugee-rescue-cal

    • Rescued migrants hijack merchant ship off Libya

      Migrants have hijacked a merchant ship which rescued them off the coast of Libya and it is now heading towards Malta, Italian Deputy Prime Minister Matteo Salvini and Maltese authorities said on Wednesday.

      The 108 migrants were picked up by the cargo ship #Elhiblu_1 and hijacked the vessel when it became clear that it planned to take them back to Libya, according to the website of Italian daily Corriere della Sera and Italian news agencies.

      “These are not migrants in distress, they are pirates, they will only see Italy through a telescope,” said Salvini, who has cracked down on illegal immigration, including closing Italy’s ports to charity ships, since he took office in June last year.

      A spokeswoman for Malta’s armed forces confirmed the ship had been hijacked and said Maltese authorities were monitoring its progress and it would not be allowed to dock in Malta.

      “This is clearly a case of organized crime,” Salvini said on Facebook. “Our ports remain closed.”

      Salvini, the leader of the right-wing League party, has been at the center of several international stand-offs over his refusal to let humanitarian ships dock in Italy.

      This month parliament rejected a request by prosecutors to investigate him for kidnapping over a case in August when he blocked an Italian coastguard ship with 150 migrants aboard for almost a week off Sicily before finally letting it dock.

      https://www.reuters.com/article/us-europe-migrants-hijacking/rescued-migrants-hijack-merchant-ship-off-libya-idUSKCN1R81YF?feedType=RSS&

    • Un pétrolier, détourné par les migrants secourus, arrive à Malte

      Le pétrolier ravitailleur #Elhiblu 1, détourné par des migrants qu’il avait secourus mais qui ne voulaient pas être reconduits en Libye, est arrivé jeudi à Malte. Un commando de la marine maltaise en a repris le contrôle dans la nuit.

      Ce navire de 52 mètres qui bat pavillon de Palau avait secouru mardi au large de la Libye 108 migrants, dont 31 femmes ou enfants, à bord de deux canots en détresse, signalés par un avion militaire européen. Mais alors qu’il s’approchait de Tripoli pour les débarquer mercredi, il a subitement fait demi-tour et mis le cap au nord.

      Le ministre italien de l’Intérieur, Matteo Salvini, a immédiatement prévenu que le navire ne serait pas autorisé à pénétrer dans les eaux italiennes.

      Or, l’Elhiblu 1 faisait route vers Malte, où la marine a pu entrer en contact avec le capitaine alors que le navire était à 30 milles des côtes.

      Le contrôle « rendu au capitaine »

      Le capitaine a répété plusieurs fois qu’il n’avait plus le contrôle du navire et que lui-même et son équipage étaient forcés et menacés par un certain nombre de migrants exigeant qu’il fasse route vers Malte", a ajouté la marine dans un communiqué.

      Un patrouilleur a empêché le pétrolier de pénétrer dans les eaux territoriales de Malte et un commando des forces spéciales, soutenu par plusieurs navires de la marine et un hélicoptère, a été dépêché à bord « pour rendre le contrôle du bateau au capitaine ».

      Escorté par la marine maltaise, le navire est arrivé tôt ce matin dans le port de La Valette, où l’équipage et les migrants doivent être confiés à la police pour déterminer ce qui s’est passé et les responsabilités.


      https://www.rts.ch/info/monde/10324359-un-petrolier-detourne-par-les-migrants-secourus-arrive-a-malte.html

    • #IOM: Libya isn’t a safe haven for immigrants

      The International Organization for Migration (IOM) said Libya cannot yet be considered a safe port, saying it is present at the disembarkation points to deliver primary assistance to migrants that have been rescued at sea.

      In a statement on Tuesday, IOM added that following the migrants’ disembarkation, they are transferred to detention centres under the responsibility of the Libyan Directorate for Combatting Illegal Migration (DCIM) over which the Organization has no authority or oversight.

      “The detention of men, women and children is arbitrary. The unacceptable and inhumane conditions in these detention centres are well documented, and IOM continues to call for alternative solutions to this systematic detention.” The statement remarks.

      It indicates that the number of migrants returned to Libyan shores has reached over 16,000 since January 2018, and concern remains for their safety and security in Libya, due to the conditions in the detention centres.

      “IOM only has access to centres to provide direct humanitarian assistance in the form of non-food items, health and protection assistance, as well as Voluntary Humanitarian Return support for migrants wishing to return to their countries of origin.” It explained.

      The IOM also clarified that its access to detention centres in Libya is part of the efforts to alleviate the suffering of migrants but cannot guarantee their safety and protection from serious reported violations.

      It said it advocates for alternatives to detention including open centres and safe spaces for women, children and other vulnerable migrants.

      “A change of policy is needed urgently as migrants returned to Libya should not be facing arbitrary detention.” The statement reads.

      IOM further explained that security and humanitarian situations in Libya remain dangerous, and reiterated that Libya cannot be considered a safe port or haven for migrants.

      https://www.libyaobserver.ly/news/iom-libya-isnt-safe-haven-immigrants
      #Libye #ports_sûrs #port_sûr #asile #migrations #réfugiés #IOM #OIM

    • Refugee rescue ship running out of food and water with 64 on board as European countries argue over who should let it dock

      A newborn baby, five children and 20 women are among those on board the stranded vessel.
      A ship carrying 64 refugees is stranded at sea and running out of food and drinking water while European countries refuse to let it dock.

      The Alan Kurdi is a private rescue ship owned by Sea-Eye, a German NGO.

      The group on the vessel includes 20 women, five children and one newborn baby, according to a spokesperson for Sea-Eye.

      Staff on board rescued the group of refugees from a rubber dinghy near the Libyan coast last week and asked Italy and Malta, the two nearest countries, to open a port so the ship could dock.

      But both countries refuse to accept humanitarian ships that patrol the Mediterranean to rescue refugees.

      The Alan Kurdi has now spent six days at sea as European countries argue over who should accept the vessel.

      Matteo Salvini, Italy’s anti-immigration deputy prime minister, said the rescue ship was not welcome in the country.

      “A ship with a German flag, German NGO, German ship owner, captain from Hamburg. It responded in Libyan waters and asks for a safe port,” he said.

      “Good, go to Hamburg.”

      As supplies on the vessel run low, the European Union (EU) has entered discussions with its member states.

      On Tuesday, Sea-Eye said it had informed Malta, which is nearest to the boat, about the scarcity of food on board.

      Dominik Reisinger, a spokesperson for the organisation, said the “political question about the distribution of those rescued ... overshadows the human rights” of the refugees.

      The vessel’s difficulties come after the aid organisation Médecins Sans Frontières (MSF) ended its refugee rescue missions in the area.

      In December 2018, the group’s rescue vessel, Aquarius, was withdrawn from operations after what MSF alleged was a “sustained smear campaign” led by the Italian government.

      Operation Sophia, the EU’s maritime rescue mission, has also been downgraded, in a move that was condemned by rights groups and charities when it was announced in March 2019.

      The EU mission was credited with saving thousands of lives but no longer carries out maritime patrols in the Mediterranean, after Italy refused to receive the people rescued at sea.

      A spokesperson for Amnesty International described the decision as an “outrageous abdication of EU governments’ responsibilities”.

      The Alan Kurdi is named after the three-year-old boy whose body was found on a beach in Turkey in September 2015 at the height of the refugee crisis.

      https://www.independent.co.uk/news/world/europe/refugee-rescue-ship-sea-eye-boat-eu-countries-refusing-to-let-it-dock

    • Avril 2019

      #Alarmphone was called this morning at approx. 6am CEST by 20ppl, incl. women & children in distress off the coast of #Libya +++ They report that 8ppl have fallen into the sea and are missing. They lost their engine, water is coming into their boat. Authorities are informed.

      Avec un fil twitter sur l’évolution de la situation :
      https://twitter.com/alarm_phone/status/1115945935601831940

      Fin de l’histoire : les Libyens sont intervenus et ont ramené les migrants en Libye...

      Li hanno ripresi i Libici. Il caso è chiuso. 15 ore senza interventi di soccorso. Governi europei, civilissime nazioni di grandi tradizioni e valori, sono riusciti a riconsegnare ai lager in una zona di guerra da cui scappavano, donne uomini bambini. Crimine e vergogna infinita.

      https://twitter.com/RescueMed/status/1116054434742714368

      Tweet de #sea_watch :

      While today 8 people already drowned, 20 others are alive but abandoned in distress. Meanwhile the Dutch gov. keeps our ship blocked with random policy changes. #SeaWatch 3 could be there to save lives now, but that doesn’t fit the European migration policy of letting drown.

      https://twitter.com/seawatch_intl/status/1115955541099057152

    • #Castaner persiste sur des « interactions » entre ONG et passeurs en Méditerranée

      Après avoir affirmé que les ONG « ont pu se faire complices des passeurs » en Méditerranée, Christophe Castaner a tenté une mise au point mardi, dégainant deux « rapports de Frontex » censés démontrer des « interactions ». Emmanuel Macron lui-même juge que des humanitaires font « le jeu des passeurs ».

      https://www.mediapart.fr/journal/international/100419/castaner-persiste-sur-des-interactions-entre-ong-et-passeurs-en-mediterran

    • La Mare Jonio torna a navigare. Siamo tutti coinvolti

      In questo momento il rimorchiatore Mare Jonio e la barca a vela d’appoggio Alex stanno solcando il mare in direzione del Mediterraneo Centrale, la rotta migratoria più mortifera a livello globale. «Torniamo a navigare ancora una volta decisi a rispettare fino in fondo il diritto internazionale del mare, i diritti umani e i principi della nostra Costituzione – hanno scritto ieri gli attivisti sul profilo facebook della missione – Ringraziamo le migliaia e migliaia di persone diventate in questi mesi Mediterranea. È solo grazie al loro supporto che possiamo farlo».

      La Mare Jonio era ferma dal 19 marzo scorso, quando tornò in Italia con a bordo 49 naufraghi salvati dalla morte o dal ritorno nell’inferno libico. Dopo l’apertura di indagini per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, il rimorchiatore era stato sottoposto a qualche giorno di sequestro probatorio presto revocato dalla procura di Agrigento. La nuova missione parte con la benedizione dell’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice che lunedì scorso ha incontrato Luca Casarini, capomissione di Mediterranea, affermando pubblicamente di essere dalla parte di chi salva esseri umani.

      Ieri sera, invece, è stato pubblicato un comunicato congiunto degli equipaggi di Sea-Watch, Open Arms, Mediterranea Saving Humans, Sea-Eye, Alarm Phone, Seebrücke sulla vicenda che ha riguardato la nave Alan Kurdi. L’imbarcazione della ong Sea-Eye aveva salvato 64 persone il 3 aprile scorso. Solo ieri i naufraghi sono stati prelevati e fatti sbarcare dalle motovedette militari maltesi. L’attracco della nave nel porto di La Valletta, invece, non è stato autorizzato. I profughi saranno ora «redistribuiti» tra Germania, Francia, Portogallo e Lussemburgo.

      «I negoziati intergovernativi portati avanti mentre le persone soccorse erano costrette a rimanere in condizioni non sicure in alto mare per oltre dieci giorni – recita il comunicato congiunto – sono pratiche illegittime e insostenibili che violano il diritto internazionale, i principi fondamentali dei diritti umani e non rispettano la dignità delle persone salvate». «Per noi, la società civile impegnata nel Mediterraneo centrale – continua il testo – la dignità e i diritti delle persone sono sempre una priorità assoluta e guidano tutte le nostre pratiche».

      La missione di Mediterranea iniziata questa mattina si inserisce in un nuovo contesto politico, segnato dalla rinnovata instabilità libica e dall’escalation militare che interessa Tripoli. Il conflitto tra le milizie di Haftar e quelle di Serraj, sostenuto dal governo italiano e dall’Unione Europea, hanno reso evidente a tutti, amesso che ancora ce ne fosse bisogno, che la Libia non è un «paese sicuro». Chi continua a ripeterlo diffonde fake news e menzogne che producono morte e legittimano l’inferno dei lager, delle violenze, degli stupri.

      A tutto questo bisogna reagire adesso. Mediterranea lo sta facendo. Lo stanno facendo gli equipaggi di mare, che hanno deciso di sfidare senza paura le aggressioni politiche e giudiziarie e i possibili comportamenti scomposti della cosiddetta «guardia costiera libica». Lo stanno facendo gli equipaggi di terra, che instancabilmente lavorano a livello economico, organizzativo e legale per rendere possibili le missioni. Dovrebbe farlo chiunque non accetta questa situazione, sostenendo come può la missione Mediterranea, che è completamente autofinanziata e ha urgente bisogno di nuovi fondi, ma anche preparandosi a mobilitarsi affinché nessuno resti solo, né in mare né in terra.

      https://www.dinamopress.it/news/la-mare-jonio-torna-navigare-tutti-coinvolti

    • Nella direttiva contro Mare Jonio solo propaganda. Il Viminale rispetti i diritti umani

      Apprendiamo che il Viminale ha dedicato, nella sua intensa attività di produzione di “direttive ad navem”, una nuova direttiva interamente dedicata alla nostra nave, Mare Jonio, salpata per la seconda missione del 2019 il 14 aprile scorso.

      La direttiva appare scritta come se il Governo vivesse in un mondo parallelo. Nessun accenno alla guerra che infiamma la Libia e ai corrispettivi obblighi internazionali né alle migliaia e migliaia di persone torturate negli ultimi anni in quel Paese né a quelle annegate nel Mediterraneo centrale (in proporzione in numero sempre crescente, 2.100 nel solo 2018). Forse dovrebbero parlarsi tra Ministeri: la Ministra della Difesa italiana ha appena affermato infatti che “con la guerra non avremmo migranti ma rifugiati e i rifugiati si accolgono”.

      Nelle considerazioni introduttive della direttiva in questione, si leggono una serie di slogan di propaganda, oltre che un elenco di bugie, peraltro relative a eventi al momento sotto l’attenzione della Procura di Agrigento nel corso dell’indagine che ci riguarda e che abbiamo accolto offrendo tutta la nostra collaborazione. Sappiamo infatti di avere sempre rispettato i diritti e il diritto, cosa che i governi europei, e il nostro in particolare, dovrebbero cominciare a fare in relazione a quanto avviene nel Mediterraneo Centrale.

      La direttiva dice che la nostra presenza in mare sarebbe un incentivo per chi lascia la Libia: bisognerebbe appunto ricordare al Viminale che in Libia c’è una guerra, e che in ogni caso, come l’ONU e l’UE non perdono occasione di ricordare, quel paese non è mai stato un porto sicuro, ma piuttosto il teatro di “indicibili orrori”, stupri quotidiani, torture, esecuzioni sommarie per tutti i migranti, inclusi i bambini.

      La direttiva dice che rischiamo di favorire l’ingresso di pericolosi terroristi. Auspichiamo che, una volta sbarcate nel porto più sicuro le persone eventualmente soccorse, questo governo sia in grado di effettuare tutte le indagini necessarie a garantire la sicurezza pubblica, ricordando però che i terroristi solitamente non viaggiano su barche che in un caso su tre affondano, ma che hanno ben altri mezzi per spostarsi.

      La direttiva dice che avremmo rifiutato il coordinamento SAR di autorità straniere legittimamente responsabili. Ricordiamo che nel nostro soccorso avvenuto il 18 marzo, nessuna autorità ci ha ordinato alcunché, se non di stare lontani 8 miglia da un punto dal quale siamo rimasti ben più distanti per tutto il tempo. In ogni caso, ci auguriamo che la direttiva non faccia riferimento all’autorità libica, poiché in questo caso, si tratterebbe di una istigazione a delinquere: se già in precedenza era un reato riportare in Libia le persone soccorse, oggi, con la guerra in corso, è un’affermazione semplicemente criminale.

      La cosiddetta guardia costiera libica, su delega e finanziamenti italiani, ha catturato per anni le persone in mare riportandole in quell’inferno e rimettendole in mano ai trafficanti, contrastati di fatto solo dalla presenza delle navi della società civile, le uniche a strappare le persone soccorse dalle mafie criminali. Sempre in relazione all’evento del 18 marzo, contrariamente alle menzogne riportate dalla direttiva, ricordiamo di avere fatto rotta verso l’Italia, obbedendo linearmente a quanto previsto dal diritto internazionale, in quanto Lampedusa era il porto sicuro più vicino per i naufraghi soccorsi.

      La direttiva ci accusa infine di volere condurre nuovamente le stesse attività: lo confermiamo. Siamo di nuovo nel Mediterraneo, grazie alle tantissime realtà e persone che ci sostengono, per continuare nella nostra missione di monitoraggio e denuncia della violazione dei diritti umani, senza sottrarci mai all’obbligo giuridico ed etico di salvare le vite in pericolo e portarle in salvo.

      Ci atterremo, nel farlo, esattamente come chiede la direttiva, alle vigenti norme nazionali e internazionali, cosa che implica l’impossibilità di fare alcun riferimento alla Libia, certi che anche l’illegittimità della sua zona SAR sarà presto definitivamente riconosciuta.

      Diffidiamo altresì chiunque, e nella fattispecie il Ministro dell’Interno italiano, dal mettere in atto comportamenti che violino le leggi nazionali ed internazionali in materia di rispetto dei diritti umani e di obbligo di salvataggio in mare.

      https://mediterranearescue.org/news/nella-direttiva-contro-mare-jonio-solo-propaganda-il-viminale-ri

    • Pourquoi l’extrême-droite européenne a quasiment réussi à faire interdire les sauvetages de réfugiés en Méditerranée

      Des navires comme l’Aquarius ou le Sea Watch, affrétés par des associations, ont sauvé des dizaines de milliers de vies en Méditerranée. Mais depuis deux ans, les autorités italiennes et européennes ont multiplié les entraves. L’Italie leur a fermé ses ports depuis l’arrivée au pouvoir de Matteo Salvini et de son parti d’extrême droite. Il n’est pas le seul à harceler les sauveteurs. Des bateaux sont saisis ou bloqués à Malte, en Espagne, leurs équipages sont menacés de poursuites. Et ce, dans l’indifférence des autres gouvernements européens. Les réfugiés, eux, continuent de mourir ou sont interceptés par les garde-côtes libyens. Bilan d’un naufrage européen.

      Quand une majorité d’électeurs français ont élu Emmanuel Macron contre Marine Le Pen en mai 2017, ils ne pensaient probablement pas que l’un de ses futurs ministres de l’Intérieur tiendrait le même discours que la candidate du FN et le reste de l’extrême droite européenne. C’est pourtant ce qui est arrivé le 5 avril. En marge du G7 des ministres de l’Intérieur, Christophe Castaner a déclaré que les ONG qui secourent des embarcations de migrants en péril en Méditerranée ont « pu se faire complices des passeurs ». C’est exactement l’argumentaire utilisé par Marine Le Pen un an plus tôt [1] en échos aux déclarations du ministre d’extrême-droite italien Matteo Salvini. Depuis que celui-ci est au pouvoir, les entraves mises aux organisations de sauvetage en mer ont redoublé.

      En juin 2018, dès la formation du gouvernement de coalition entre la Ligue du Nord (extrême-droite) et le Mouvement 5 Étoiles (M5S), Matteo Salvini décide de fermer les ports italiens aux bateaux des organisations non-gouvernementales de sauvetage. L’Italie refuse alors le droit d’accoster à l’Aquarius, affrété par l’ONG française SOS Méditerranée, et au Lifeline, d’une association allemande, alors qu’ils ont recueilli à bord des dizaines de réfugiés. « Normalement, selon le droit maritime, les gouvernements ne peuvent pas fermer leurs ports à des embarcations », déplore une activiste française de l’ONG allemande Sea Watch, qui souhaite garder l’anonymat. Mais les autorités italiennes cherchent tous les prétextes possibles pour le faire.
      Des accusations de collusion avec les passeurs, sans aucune preuve

      Sur le front juridique, les attaques contre les ONG ont commencé depuis deux ans. Au printemps 2017, le procureur de Catane, en Sicile, déclare soupçonner une collaboration entre des organisations de sauvetage et des trafiquants d’êtres humains. Sans aucun élément de preuves, l’affaire s’est finalement dégonflée. Les menaces de poursuites judiciaires et de mises sous séquestre des navires se sont cependant poursuivies. En août 2017, le parquet de Trapani, toujours en Sicile, saisit le navire Luventa de l’ONG allemande Jugend Rettet. Raison invoquée : soupçon de collaboration avec des passeurs lors de trois opérations de sauvetage en 2016 et 2017 (voir le travail d’enquête qu’a réalisé à ce sujet le collectif de recherche Forensic Architecture, basé à l’université Goldsmiths de Londres). L’ONG avait refusé, avec d’autres, de signer le « code de conduite » que les autorités italiennes voulaient leur imposer. Le texte leur demandait notamment de s’engager à ne pas entrer dans les eaux territoriales libyennes.

      « Notre navire se trouve en saisie préventive, fait savoir à Basta ! le président de Jugend Rettet, Julian Pahlke. La saisie peut être effectuée sans qu’aucune procédure judiciaire ne soit lancée. Elle est couverte par un paragraphe de loi anti-mafia ». Les autorités italiennes ont mis sous séquestre le navire de l’ONG allemande depuis plus d’un an et demi sans même qu’une procédure judiciaire ne soit ouverte ni contre l’ONG, ni contre ses membres. « Nous sommes allés jusqu’à la plus haute instance juridique italienne pour contester cette saisie », poursuit le jeune homme. En vain. L’ONG dit aujourd’hui préparer une plainte devant la Cour européenne des droits humains pour pouvoir récupérer son bateau.
      Des navires saisis ou bloqués de manière arbitraire, sans procédure judiciaire

      En mars 2018, c’est le navire de l’organisation espagnole Open Arms qui est placé sous séquestre par les autorités italiennes. Le procureur de Catane leur reproche d’avoir refusé de remettre aux garde-côtes libyens plus de 200 réfugiés secourus en mer. Une enquête pour organisation criminelle d’aide à l’immigration illégale est alors ouverte contre le capitaine du navire, le coordinateur et le directeur de l’ONG. Quelques mois plus tard, en novembre, la justice italienne déclare soupçonner l’Aquarius de traitement illégal de déchets toxiques. La menace d’un placement sous séquestre plane, mais l’accusation ne tient pas. La même année, le bateau de SOS Méditerranée reste coincé pendant des semaines dans le port de Marseille parce qu’il vient de perdre son pavillon, le pays de rattachement du bateau. Le Panama lui retiré l’immatriculation suite à une plainte de l’Italie. Juste avant, Gibraltar avait fait de même. Résultat : entre fin septembre et fin novembre 2018, plus aucun bateau d’ONG de sauvetage n’était présent au large de la Libye.

      Tout récemment encore, début février 2019, le parquet de Catane a bloqué plusieurs jours l’un des navires humanitaires de Sea Watch. Il venait de débarquer avec 47 réfugiés secourus au large des côtes libyennes, après avoir été coincés des jours sur le bateau au large, parce que Salvini leur refusait l’accès au port. Le ministre menace aussi l’ONG de poursuites en justice. Le parquet a finalement considéré qu’aucun délit n’a été commis par l’ONG, mais ordonne des vérifications techniques, ce qui immobilise le navire. Sea Watch a dénoncé un blocage politique injustifié. Puis, c’est le Mare Jonio, affrété par le collectif d’activistes italiens Mediterranea, qui est saisi pendant huit jours, mi-mars, au port de Lampedusa. Il venait de secourir 49 personnes.
      « Une preuve accablante que certains États abusent de leurs pouvoirs »

      Le zèle des autorités italiennes pour bloquer les navires inspire aussi d’autres pays. Sea Watch rencontre des difficultés avec les Pays-Bas, le pavillon sous lequel ses bateaux naviguent. Après des travaux d’entretien, les autorités néerlandaises ont empêché leur bateau Sea Watch 3 de retourner en zone de sauvetage. « Jusqu’à ce que le gouvernement néerlandais soit sûr que nous nous conformions aux exigences techniques d’un nouveau règlement, Sea Watch est obligé de suspendre ses missions et sera probablement soumis à une nouvelle série d’inspections grotesques », a réagi l’ONG dans un communiqué. Les Pays-Bas invoquent des préoccupations pour la sécurité des personnes secourues si le navire doit rester longtemps en mer, faute de port prêt à les accueillir, comme cela arrive de plus en plus souvent.

      « Nous ne pouvons être tenus responsables de l’état actuel des blocages prolongés et inhumains en mer. Au contraire, cette situation est une preuve accablante que certains États européens abusent de leurs pouvoirs », répond Sea Watch. Pour elle, les Pays-Bas, derrière des prétextes techniques, cherchent à empêcher les opérations de sauvetage en inventant « de nouveaux moyens pour contrôler les navires d’ONG dans le contexte de la politique migratoire ».

      Une troisième ONG allemande, celle qui affrète le bateau Lifeline, a fait l’objet d’un long procès à Malte. En juillet 2018, les autorités maltaises ont laissé accoster le Lifeline avec plus de 200 personnes réfugiées, après une semaine d’errance en Méditerranée. Puis, Malte a mis le navire sous séquestre et engagé un procès contre le capitaine. L’accusation ? Ne pas avoir correctement enregistré le bateau. Le jugement doit finalement être rendu le 14 mai prochain. En Espagne aussi, les conditions se durcissent. En janvier, les autorités maritimes espagnoles ont refusé au navire d’Open Arms de repartir en mer. Il venait d’accoster dans un port du sud de l’Espagne avec plus de 300 réfugiés fin décembre.
      Renvoyer les embarcations vers la Libye

      « Des barrières se mettent en place à tous les niveaux pour qu’on ne puisse plus retourner dans la zone de sauvetage dans les eaux libyennes », analyse l’activiste française de Sea Watch. Depuis juin 2018, la Libye dispose de son propre Centre régional opérationnel de surveillance et de sauvetage en mer (Cross), un centre de coordination pour les sauvetages maritimes. La mise en place d’un tel centre sur le sol libyen fait partie du plan de la Commission européenne de 2017 pour réduire les flux migratoires en Méditerranée [2]. « La zone de sauvetage où nous naviguons est un carré au nord de Tripoli, vers lequel les courants et les vents emmènent les embarcations qui partent de la capitale libyenne. Avant, le Cross dont dépendait cette zone de navigation était Rome. Nous avions l’obligation de diriger les embarcations en difficulté vers les ports les plus proches du Cross de Rome, donc des ports italiens ou maltais. »

      Avec la création d’un Cross à Tripoli, les embarcations peuvent être renvoyées vers la Libye. Alors même que, depuis début avril, des combats se déroulent, aux abords de Tripoli, entre les forces de l’Armée nationale libyenne autoproclamée du général Haftar, et les milices alliées au gouvernement reconnu par la communauté internationale. « Certains affrontements ont lieu également à proximité des centres de rétention des services de l’immigration à Qasr Ben Gashir et Ain Zara, où quelque 1300 personnes réfugiées et migrantes sont actuellement détenues », rappelle Amnesty International le 8 avril.
      80 000 personnes sauvées en deux ans

      En 2017, l’Union européenne a alloué 46 millions d’euros d’aide aux gardes-frontières et gardes-côtes libyens. En février, la France leur a même offert des navires [3]. L’objectif de ces généreux dons est de maintenir les migrants de l’autre côté de la Méditerranée. Pourtant, un rapport de l’Onu avertissait encore fin 2018 des « horreurs inimaginables » auxquelles sont confrontés les personnes migrantes en Libye. En novembre 2017, un documentaire de CNN montrait comment des migrants y étaient vendus comme esclaves.

      La politique italienne et européenne semble avoir pour priorité d’empêcher les personnes d’arriver sur le sol européen, quel qu’en soit le prix en termes de violation des droits humains, de conséquences humanitaires, et de morts. En 2018, plus de 2200 personnes ont péri en tentant la traversée entre la Libye et l’Italie, mais aussi entre le Maroc et l’Espagne. Au moins 350 sont morts depuis janvier (selon les chiffre du Haut commissariat aux réfugiés de l’Onu, ici). Fin mars, l’Union européenne a décidé de retirer ses bateaux de l’opération Sophia des eaux méditerranéennes (des navires militaires français, italiens, allemands, espagnols ou belges placés sous commandement franco-italien). Même si ce n’était pas leur mission principale – qui était de lutter contre les passeurs –, ces navires avaient secouru environ 45 000 personnes depuis 2015. Sur la seule période allant de 2015 à avril 2017, les différentes ONG de sauvetage en Méditerranée ont de leur côté sauvé plus de 80 000 personnes (voir notre article et ce rapport d’Amnesty de juillet 2017).
      « Nous n’avons plus de bateaux en mer pour le moment »

      « Nous n’avons plus de bateau en mer pour le moment », signale l’activiste de Sea Watch. SOS Méditerranée, qui est à la recherche d’un nouveau navire, non plus. Le Lifeline est toujours bloqué à Malte, le navire de Jugend Rettet en Italie, et celui d’Open Arms en Espagne. Le Mare Jonio opère toujours. Et le navire Alan Kurdi de Sea Eye, une autre organisation allemande, a secouru le 4 avril 64 personnes au large de la Libye. Le gouvernement italien a déclaré qu’il ne le laisserait pas accoster. Il a fallu dix jours, et deux évacuations pour urgences médicales, pour que Malte laisse enfin le Alan Kurdi accoster. La France et l’Allemagne se sont engagés à accueillir une partie des 64 réfugiés.

      Toute l’Italie n’est pas sur la ligne de Salvini. Des maires de gauche s’opposent publiquement à cette politique de fermeture des ports et au décret adopté en novembre qui ampute les droits des exilés. En mars, une manifestation antiraciste a réuni 200 000 personnes dans les rues de Milan. La justice italienne a même ouvert une enquête contre Salvini pour séquestration, pour les 46 réfugiés du Sea Watch à qui il avait refusé le droit de débarquer fin janvier. C’est la deuxième enquête de ce type lancée contre le ministre. La première avait été bloquée par le Sénat italien. En Allemagne, des dizaines de villes se sont déclarées « ports sûrs » ces derniers mois à l’appel de l’association Seebrücke. Ces communes se sont engagées à accueillir des personnes secourues en Méditerranée ou à soutenir les ONG de sauvetage.

      https://www.bastamag.net/Pourquoi-l-extreme-droite-europeenne-a-quasiment-reussi-a-faire-interdire-

    • Migranti sono in pericolo di vita, ma soccorritori italiani e libici non si capiscono: le intercettazioni

      Alle 13.25 del 17 marzo scorso arriva a Tripoli una chiamata dal coordinamento di Roma che deve «girare» ai colleghi libici l’sos del gommone in avaria con a bordo 48 migranti in imminente pericolo di vita. Per la legge, al centralino di Tripoli dovrebbe rispondere 24 ore al giorno un ufficiale della guardia costiera locale in grado di parlare l’inglese. Gli italiani impiegheranno quasi due minuti a trovare l’ufficiale e quasi un quarto d’ora a comunicare – chiamando poi un interprete arabo - le coordinate del gommone.

      https://video.repubblica.it/dossier/migranti-2019/migranti-sono-in-pericolo-di-vita-ma-soccorritori-italiani-e-libici-non-si-capiscono-le-intercettazioni/332460/333055
      #gardes-côtes_libyens #vidéo

    • « Salvini répète que les ports sont fermés, comment pourrait-il admettre qu’à #Lampedusa, les migrants arrivent toujours ? »

      Depuis l’été 2017, les arrivées depuis les côtes libyennes sont rarissimes mais la route traditionnelle entre la Tunisie et l’île italienne s’est rouverte, sur un mode plus « artisanal »

      Les deux navires orange et blancs de la « guardia di finanza » n’ont pas bougé de la nuit. Immobiles, ils mouillent toujours à l’entrée du petit port de Lampedusa, qui s’éveille mollement en ce premier jour du mois de mai.

      La lumière printanière est déjà là, mais les cohortes de touristes apportées par les compagnies charter ne sont pas encore arrivées. Bientôt les hôtels seront pleins, et cette île microscopique perdue au milieu de la Méditerranée, à moins de 150 km à l’est des côtes tunisiennes, sera complètement congestionnée. Mais pour quelques jours, les 5 000 habitants sont encore entre eux.

      Il a plu une bonne partie de la nuit, si bien que peu de bateaux sont partis en mer. Du coup, l’activité dans l’anse est particulièrement réduite. A quai, les pêcheurs s’affairent en silence. A vrai dire, rien ne laisserait paraître qu’il s’est passé quelque chose de particulier dans la nuit. Et pourtant…

      A quelques centaines de mètres de là, au pied de la mairie – un bloc de béton sans charme particulier, qui fait figure de centre du bourg –, une petite centaine d’habitants préparent les cérémonies de la fête des travailleurs, tandis qu’une mauvaise sono crache en boucle, à plein volume, des standards de la pop italienne des années 1970-1980. Air un peu fermé, teint buriné et écharpe au vent, le maire de l’île, Salvatore (dit « Toto ») Martello, passe d’un petit groupe à l’autre, discutant avec chacun à voix basse.

      Il s’arrête près de nous et nous confie, comme s’il reprenait une conversation interrompue cinq minutes plus tôt : « On les cherchait partout et ils sont arrivés dans le port hier soir, un peu avant 23 heures, sous la pluie. Vingt personnes à bord, quinze hommes et cinq femmes. On les a immédiatement conduits au centre d’accueil, pour enregistrement ». « Ils », ce sont les migrants partis de Tunisie sur une barque de bois que, durant toute la journée précédente, les maigres moyens de secours subsistant dans la zone avaient recherché avec inquiétude.
      Une situation inconfortable

      On avait suivi leur équipée heure par heure, et, dans l’après-midi, on avait craint le pire pour les occupants de ce gros canot qui semblaient avoir été avalés par la mer. Les avions de reconnaissance avaient multiplié les manœuvres infructueuses, alors que le ciel menaçant compliquait de plus en plus les recherches. Et soudain, au milieu de la nuit, le canot est arrivé à bon port tout seul. Comme par miracle.

      « Vous avez l’air surpris, mais ce genre d’arrivée est très fréquent, assure le maire. Les côtes africaines sont juste à côté, le trajet depuis la Tunisie n’est pas si difficile et les Tunisiens connaissent bien la mer. Seulement, pour l’instant, le gouvernement fait tout pour qu’on n’en parle pas. Vu que [le ministre de l’intérieur] Matteo Salvini répète partout que les ports sont fermés, comment pourrait-il admettre qu’ici, les migrants arrivent toujours ? »

      Natif de l’île et figure historique de la gauche locale, Toto Martello a été réélu à la mairie de Lampedusa – il avait déjà occupé le poste de 1993 à 2002 –, à l’été 2017, après la défaite retentissante de la sortante, Giusi Nicolini, dont l’aura de pasionaria des droits des migrants avait fini par irriter une partie de la population de l’île. Moins militant que ne l’était sa devancière, il reste partisan de l’ouverture des ports, et de l’assistance aux personnes perdues en mer – comment pourrait-il en être autrement quand on est fils de pêcheurs ?

      Aussi l’arrivée au ministère de l’intérieur du dirigeant de la Ligue, Matteo Salvini, en juin 2018 a-t-il placé l’île tout entière dans une situation inconfortable.

      « Mes rapports avec la région Sicile, à laquelle Lampedusa est rattachée, sont très bons. Quand je suis allé à Bruxelles, il y a quelques mois, j’ai été reçu par le président du Parlement Antonio Tajani, le commissaire européen aux migrations Dimitris Avramopoulos et aussi des membres du staff de Federica Mogherini [à la tête de la diplomatie européenne],énumère Toto Martello. Mais quand j’écris au ministère de l’intérieur, il ne répond pas, il n’accuse même pas réception. Comme Salvini ne peut pas changer la situation à Lampedusa, il cherche à nous faire disparaître. Il veut qu’on nous oublie. »
      « Bateaux mères »

      Certes, en comparaison des années précédentes, la pression migratoire à Lampedusa a considérablement décru.

      « Quand je suis arrivé sur l’île, en 2015, il y avait eu 23 000 arrivées enregistrées. En 2016 on était passé à 13 000, puis 9 500 et 2017 et finalement 3 500 en 2018. Le début de l’année a été marqué par une mer très difficile, si bien que le chiffre des arrivées doit être très bas, mais il n’est pas vraiment significatif », explique Alberto Mallardo, représentant de l’ONG Mediterranean Hope, émanation des églises protestantes italiennes, très active sur l’île.
      « La porte de Lampedusa - porte de l’Europe » est une sculpture de Mimmo Paladino. Réalisée en 2008, elle rend hommage aux milliers de migrants arrivés sur l’île ces dernières années. | GIOVANNI CIPRIANO POUR

      « La porte de Lampedusa - porte de l’Europe » est une sculpture de Mimmo Paladino. Réalisée en 2008, elle rend hommage aux milliers de migrants arrivés sur l’île ces dernières années. | GIOVANNI CIPRIANO POUR "LE MONDE"

      Le « hotspot » de Lampedusa, où les migrants doivent être enregistrés avant de partir dans d’autres centres d’accueil, en Sicile ou sur le continent, était naguère plein à craquer. Il tourne désormais au ralenti, et on ne croise plus, comme c’était encore le cas en 2017, de groupes de demandeurs d’asile africains dans les environs de l’église.

      Depuis l’été 2017, les arrivées depuis les côtes libyennes sont devenues rarissimes, et c’est plutôt la route traditionnelle entre les côtes tunisiennes et Lampedusa qui s’est rouverte, sur un mode plus « artisanal ». Mais l’équilibre de cette situation est très fragile, et pourrait être remis en cause en cas d’effondrement de l’actuel gouvernement de Tripoli.

      Par ailleurs, les derniers mois ont vu un certain changement du mode d’arrivée des demandeurs d’asile. Après les grands bateaux contenant plusieurs centaines de migrants, qui ont cessé de venir après 2014, il y avait eu les canots gonflables, qui n’avaient plus pour objectif d’atteindre Lampedusa mais plutôt d’arriver dans les eaux internationales où ils étaient secourus par les navires de l’opération Sophia ou ceux des ONG.

      Ce type de départs s’est tari depuis la mi-2017 et les accords avec la Libye.« Ce qui se développe actuellement, c’est un système dans lequel les migrants sont convoyés par des sortes de “bateaux mères”, détaille Alberto Mallardo. Ces embarcations sont assez importantes, elles peuvent faire le voyage jusqu’à Lampedusa ou la Sicile. Et une fois arrivés à proximité des côtes italiennes, elles débarquent discrètement leurs passagers dans de plus petites embarcations, de dix à douze personnes ». Puis les passeurs s’éloignent.
      « Efficacité de la propagande mise en place par Salvini »

      Observateur des incessantes mutations des routes migratoires, le journaliste Mauro Seminara, qui vit sur l’île depuis le milieu des années 2000, relativise l’importance des changements des derniers mois.

      « Tout cela est très fragile, et peu évoluer à tout moment assure-t-il. Ce qui me frappe, en revanche, c’est l’efficacité de la machine de propagande mise en place par Matteo Salvini. Le 11 avril , un bateau avec 70 migrants est arrivé ici depuis la Tunisie. Le ministère de l’intérieur a affirmé qu’après 24 heures ils avaient tous été renvoyés chez eux, et ici, sur l’île, beaucoup l’ont cru. Alors même qu’on sait bien qu’une moitié est partie assez vite en Sicile, à Porto Empedocle, et que l’autre moitié est restée un temps à Lampedusa… »

      Au-delà de cela, les observateurs de l’activité migratoire en mer savent bien que les « navires fantôme » qui arrivent à Lampedusa ne sont que la partie émergée de l’iceberg.

      En effet, un navire qui arrive à Lampedusa, si petit soit-il, ne pourra pas passer inaperçu. En revanche, si le même débarque sur les côtes siciliennes, il est autrement plus facile de se fondre dans la nature. « Pour un navire qui arrive ici, assure Mauro Seminara, il y en a au moins trois ou quatre qui débarquent quelque part dans la région d’Agrigente, au sud de la Sicile, et dont on ne saura jamais rien. »


      https://www.lemonde.fr/international/article/2019/05/07/a-lampedusa-en-depit-de-ce-que-dit-salvini-les-migrants-arrivent-toujours_54

  • Le monde selon #Xi_Jinping

    Depuis 2012, le désormais « président à vie » Xi Jinping a concentré tous les pouvoirs sur sa personne, avec l’obsession de faire de la #Chine la superpuissance du XXIe siècle. Plongée au coeur de son « rêve chinois ».

    Derrière son apparente bonhomie se cache un chef redoutable, prêt à tout pour faire de la Chine la première puissance mondiale, d’ici au centenaire de la République populaire, en 2049. En mars dernier, à l’issue de vastes purges, Xi Jinping modifie la Constitution et s’intronise « président à vie ». Une concentration des pouvoirs sans précédent depuis la fin de l’ère maoïste. Né en 1953, ce fils d’un proche de Mao Zedong révoqué pour « complot antiparti » choisit à l’adolescence, en pleine tourmente de la Révolution culturelle, un exil volontaire à la campagne, comme pour racheter la déchéance paternelle. Revendiquant une fidélité aveugle au Parti, il gravira en apparatchik « plus rouge que rouge » tous les degrés du pouvoir.
    Depuis son accession au secrétariat général du Parti en 2012, puis à la présidence l’année suivante, les autocritiques d’opposants ont réapparu, par le biais de confessions télévisées. Et on met à l’essai un système de surveillance généralisée censé faire le tri entre les bons et les mauvais citoyens. Inflexible sur le plan intérieur, Xi Jinping s’est donné comme objectif de supplanter l’Occident à la tête d’un nouvel ordre mondial. Son projet des « routes de la soie » a ainsi considérablement étendu le réseau des infrastructures chinoises à l’échelle planétaire. Cet expansionnisme stratégique, jusque-là développé en silence, inquiète de plus en plus l’Europe et les États-Unis.

    Impériale revanche
    Dans ce portrait très documenté du leader chinois, Sophie Lepault et Romain Franklin donnent un aperçu inédit de sa politique et montrent que l’itinéraire de Xi Jinping a façonné ses choix. De Pékin à Djibouti – l’ancienne colonie française est depuis 2017 la première base militaire chinoise à l’étranger – en passant par la mer de Chine méridionale et l’Australie, les réalisateurs passent au crible les projets et les stratégies d’influence du nouvel homme fort de la planète. Nourrie d’images d’archives et de témoignages (de nombreux experts et de dissidents, mais aussi d’un haut gradé proche du pouvoir), leur enquête montre comment Xi Jinping a donné à la reconquête nationaliste de la grandeur impériale chinoise, projet nourri dès l’origine par la République populaire, une spectaculaire ampleur.

    https://www.arte.tv/fr/videos/078193-000-A/le-monde-selon-xi-jinping
    #biographie #démocratie #trauma #traumatisme #Mao #révolution_culturelle #Terres_Jaunes #exil #Prince_Rouge #nationalisme #rêve_chinois #renaissance_nationale #histoire_nationale #totalitarisme #stabilité #idéologie #anti-corruption #lutte_contre_la_corruption #purge #dictature #investissements_à_l'étranger #prêts #dette #KUKA #ports #droits_humains #Australie #infiltration_chinoise #Nouvelle-Zélande #David_Cameron #Jean-Pierre_Raffarin #matières_premières #capitalisme_autoritaire #Ouïghours #arrestations #répression #censure #liberté_d'expression #défilés_militaires #armée #puissance_militaire #Mer_de_Chine_méridionale #îles_de_Spratleys #liberté_de_la_presse #prisonniers_politiques #Hong_Kong

    #Djibouti #base_militaire (de Djibouti)

    #Sri_Lanka —> Au Sri Lanka, le #port de #Hambantota est sous contrôle chinois, ceci pour au moins 99 ans (accord signé avec le Sri Lanka qui n’a pas pu rembourser le prêt que la Chine lui a accorder pour construire le port...)
    #dépendance
    v. aussi :
    Comment la Chine a fait main basse sur le Sri Lanka
    https://www.courrierinternational.com/article/comment-la-chine-fait-main-basse-sur-le-sri-lanka

    Histoire semblable pour le #Port_du_Pirée à #Athènes, en #Grèce ou l’#aéroport de #Toulouse, en #France.

    #Organisation_de_coopération_de_Shangaï :


    https://fr.wikipedia.org/wiki/Organisation_de_coop%C3%A9ration_de_Shanghai
    #Grande_unité_mondiale #enrichissement_pour_tous

    Quelques cartes et images tirées du #film #documentaire.

    La #nouvelle_route_de_la_soie et autres investissements chinois dans les infrastructures mondiales de #transport :

    La #Chinafrique :


    #Afrique
    Afrique où la Chine propose la « #solution_chinoise », programme de #développement basé sur le #développement_économique —> « #modèle_chinois de développement »

    Le programme de #surveillance_de_masse :

    Outre la surveillance, mise en place d’un programme appelé « #crédit_social » :

    Le #Système_de_crédit_social est un projet du gouvernement chinois visant à mettre en place d’ici 2020 un système national de #réputation_des_citoyens. Chacun d’entre eux se voit attribuer une note, échelonnée entre 350 et 950 points, dite « crédit social », fondée sur les données dont dispose le gouvernement à propos de leur statut économique et social. Le système repose sur un outil de surveillance de masse et utilise les technologies d’analyse du #big_data. Il est également utilisé pour noter les entreprises opérant sur le marché chinois.

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Syst%C3%A8me_de_cr%C3%A9dit_social

    Voici ce que cela donne :


    #surveillance #contrôle_de_la_population #vidéosurveillance #reconnaissance_faciale #contrôle_social
    #cartographie #visualisation
    ping @etraces

    ping @reka

  • La route des esclaves

    Entre le 17e et le 19e siècle, #Ouidah, aujourd’hui considérée comme la ville la plus touristique du Bénin, fut le principal #port_négrier de la région. Des millions d’esclaves, originaires de toute l’Afrique de l’Ouest, ont transité par cette ville afin d’y être vendus. Créée en 1994, « La #route_des_esclaves’ » permet de parcourir les 3,5 derniers kilomètres qui séparaient le marché aux esclaves de l’embarcadère où ces hommes, ces femmes et ces enfants étaient entassés dans des bateaux en partance pour l’Europe ou les Amériques.

    Conçue comme un lieu de mémoire, cette route est parsemée de mémoriaux qui racontent l’histoire de la traite négrière.


    https://www.rts.ch/play/radio/detours/audio/la-route-des-esclaves?id=8121446&station=a9e7621504c6959e35c3ecbe7f6bed0446cdf8d
    #traite #esclavage #Bénin #histoire

  • Alors que les #Etats-nations (notamment l’#Italie dans ce cas précis) ferment les portes aux exilés, les #villes semblent aujourd’hui faire preuve de #solidarité.

    Il y a eu l’exemple de #Valence, mais #Barcelone et #Berlin se disent prêtes à accueillir les personnes sauvées par les navires des #ONG en #Méditerranée.

    Ici, des liens sur les #villes-refuge :
    http://seen.li/eh64

    Et ci-dessous, dans le fil de la discussion, des liens plus récents.

    #Etat-nation #villes #urban_matter #migrations #réfugiés #asile

    • Barcelona urges Spain to allow migrant ship to dock

      Barcelona Mayor Ada Colau is calling on Spain’s prime minister to grant the city docking rights to help a Spanish aid boat that rescued 60 migrants in the Mediterranean near Libya.

      The Open Arms boat, run by Spanish aid group Proactiva Open Arms, was the cause of a political row Saturday between Italy and Malta, who both rejected taking in the aid boat’s migrants.

      Mr Colau tweeted that Spanish Prime Minister Pedro Sanchez should “save lives” because Barcelona “doesn’t want to be an accomplice to the policies of death of Matteo Salvini,” referring to Italy’s hard-line interior minister.

      Mr Salvini, head of an anti-migrant party in the Italian coalition government, has vowed that no more humanitarian groups’ rescue boats will dock in Italy.

      The Spanish vessel said it rescued the migrants Saturday — including five women, a nine-year-old child and three teenagers — after it spotted a rubber boat patched with duct tape floating in the sea. All the migrants appeared in good health.

      "Despite the hurdles, we continue to protect the right to life of invisible people,’ said Open Arms.

      Mr Salvini quickly declared that the rescue boat “can forget about arriving in an Italian port” and claimed the boat should go to Malta, the nearest port.

      But Malta swiftly pushed back, with its interior minister contending that the tiny Italian island of Lampedusa, south of Sicily, was closer to the boat.

      Earlier this month, Rome rejected the Aquarius ship carrying 630 migrants, forcing it to eventually dock in Spain.

      “For women and children really fleeing the war the doors are open, for everyone else they are not!” Mr Salvini tweeted.

      https://www.thenational.ae/world/europe/barcelona-urges-spain-to-allow-migrant-ship-to-dock-1.745767
      #villes-refuge

    • Migrants rescue boat allowed to dock in Barcelona

      A Spanish rescue boat which plucked 60 migrants from a patched-up rubber dinghy in the Mediterranean Sea near Libya has been given permission to sail to Barcelona, following another political row between Italy and Malta over where the vessel should dock.

      The boat, Open Arms, run by Spanish aid group Proactiva Open Arms, said it rescued the migrants – including five women, a nine-year-old child and three teenagers – after it spotted a rubber boat patched with duct tape floating in the sea. All the migrants appeared in good health.

      Italy’s right-wing interior minister Matteo Salvini quickly declared that the rescue boat “can forget about arriving in an Italian port”, and claimed it should instead go to Malta, the nearest port.

      Malta swiftly pushed back, with its interior minister contending that the tiny Italian island of Lampedusa, south of Sicily, was closer to the boat.

      http://www.itv.com/news/2018-06-30/migrants-rescue-boat-allowed-to-dock-in-barcelona

    • #Palerme:

      La Commission régionale de l’Urbanisme a rejeté le projet de pré-faisabilité du « #hotspot » à Palerme, confirmant l’avis du Conseil municipal de Palerme. L’avis de la Commission régionale reste technique. Le maire de Palerme a rappelé que "la ville de Palerme et toute sa communauté sont opposés à la création de centres dans lesquels la dignité des personnes est violée (...). Palerme reste une ville qui croit dans les valeurs de l’accueil, de la solidarité et des rencontres entre les peuples et les cultures, les mettant en pratique au quotidien. En cela, notre « non » à l’hotspot n’est pas et ne sera pas seulement un choix technique, mais plutôt un choix relatif à des principes et des valeurs".
      > Pour en savoir plus (IT) : http://www.palermotoday.it/politica/hotspot-zen-progetto-bocciato-regione.html

      – Leoluca Orlando, le maire de Palerme, continue de défier le gouvernement et les politiques migratoires de Salvini. La nouvelle querelle fait suite à une circulaire envoyée aux préfets et présidents de commissions sur la reconnaissance de la protection internationale. Matteo Salvini souhaite une accélération de l’examen des demandes et un accès plus strict au titre de séjour pour motif(s) humanitaire(s), un des avantages les plus accordés (cette année, ils représentaient 28% des trois titres de séjour prévus par la loi). La circulaire invite les commissions à être plus rigoureuses dans l’examen de la vulnérabilité.
      > Pour en savoir plus (IT) : www.palermotoday.it/politica/migranti-polemica-orlando-salvini-querela.html ?utm_source=dlvr.it&utm_medium=twitter

      – 8 Juillet, 18h : manifestation citoyenne des oppressé.es à Palerme.
      > Pour en savoir plus (IT), lien vers l’évènement : http://palermo.carpediem.cd/events/7342024-prima-le-oppresse-e-gli-oppressi-at-piazza-giuseppe-verdi

      –-> Reçu via la mailing-list Migreurop

    • Migranti: parte l’offensiva degli amministratori locali contro la deriva xenofoba e razzista del Governo

      Primo firmatario dell’appello «inclusione per una società aperta» Nicola Zingaretti; tra gli aderenti Sala, Pizzarotti e De Magistris.

      Trentatré episodi di aggressioni a sfondo razzista da quando il governo Salvini - Di Maio si è insediato, tre solo nelle ultime ore; porti chiusi e criminalizzazione delle Ong; ruspe sui campi rom e una narrazione costante e diffusa che parla di invasione, sostituzione etnica, pericolo immigrazione: qualcuno ha deciso di non restare in silenzio e mostrare che esiste anche un’Italia che rifiuta tutto questo, rivendica lo stato di diritto e sostiene l’inclusione sociale come valore assoluto.

      Per questo oggi stato lanciato - e ha già raccolto più di 200 adesioni in tutta Italia - il manifesto «Inclusione per una società aperta», ideato e promosso dai consiglieri regionali del Lazio Alessandro Capriccioli, Marta Bonafoni, Paolo Ciani, Mauro Buschini e Daniele Ognibene e rivolto a tutti gli amministratori locali che rifiutino «la retorica dell’invasione e della sostituzione etnica, messa in campo demagogicamente al solo scopo di ottenere consenso elettorale, dagli imprenditori della paura e dell’odio sociale; rifiutino il discorso pubblico di denigrazione e disprezzo del prossimo e l’incitamento all’odio, che nutrono una narrazione della disuguaglianza, giustificano e fanno aumentare episodi di intolleranza ed esplicito razzismo», col fine di costruire «una rete permanente che, dato l’attuale contesto politico, affronti il tema delle migrazioni e dell’accoglienza su scala nazionale a partire dalle esperienze e dalle politiche locali, con l’obiettivo di opporsi fattivamente alla deriva sovranista e xenofoba che sta investendo il nostro paese», come si legge nell’appello diffuso quest’oggi.

      «In Italia viviamo una situazione senza precedenti», ha spiegato Alessandro Capriccioli, capogruppo di +Europa Radicali durante la conferenza stampa di lancio dell’appello insieme ai colleghi Paolo Ciani, Marta Bonaforni e Marietta Tidei. «Attraverso una strategia quasi scientifica è stato imposto un racconto sull’immigrazione che alimenta l’odio e lo sfrutta per ottenere consensi. Questo manifesto si rivolge agli amministratori locali che affrontano sul campo il tema dell’immigrazione con risultati virtuosi che spesso smentiscono quel racconto, ed è uno strumento per formare una rete istituzionale che potrà diventare un interlocutore autorevole e credibile in primo luogo di questo Governo, dettando indicazioni, strategie e proposte».

      Paolo Ciani, capogruppo di Centro Solidale, ha sottolineato come «questa narrazione distorta sta portando a un imbarbarimento della nostra società. Gli episodi di questi giorni rappresentano solo la punta dell’iceberg di un atteggiamento diffuso: sappiamo tutti che esistono degli istinti bassi che appartengono a tutti gli esseri umani e che, se trovano una loro legittimazione nelle istituzioni, diventano un problema». Marietta Tidei, consigliera regionale del Pd ha posto l’attenzione sul fatto che «oggi viene raccontato solo il brutto dell’immigrazione, ma noi siamo qui per dire che c’è anche molto che ha funzionato: il programma Sprar è un esempio virutoso», mentre la capogruppo della Lista Civica Zingaretti Marta Bonafoni ha sottolineato come ciò che conta sia «la quantità e la pronta risposta che stiamo avendo: la distribuzione geografica ci dice che c’è un’altra italia, che con questo appello diventa una rete istituzionale che si pone come interlocutrice del Governo».

      Oltre al Presidente della regione Lazio hanno già sottoscritto l’appello Beppe Sala, sindaco di Milano, Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, Luigi De Magistris, sindaco di Napoli e più di 200 tra assessori e consiglieri regionali, sindaci, presidenti di municipi e consiglieri comunali e municipali da ogni parte d’Italia.

      http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2018/08/03/news/migranti_parte_l_offensiva_degli_amministratori_locali_contro_la_deriva_x
      #xénophobie #racisme #anti-racisme

    • Espagne : #Bilbao accueille de plus en plus de migrants

      Dernière étape avant la France ou une autre destination, Bilbao accueille de plus en plus de migrants débarqués sur les plages du sud de l’Espagne. Le Pays basque, connu pour être doté d’un réseau de solidarité citoyenne très développé, prend en charge le sort de ces migrants en transit. C’est le cas de l’association #Ongi_Etorri_regugiak - « Bienvenue réfugié » - qui depuis trois mois aide un groupe de 130 subsahariens livrés à eux-mêmes.

      Dans la cour de récréation, une vingtaine d’Africains jouent au football en attendant l’heure du dîner. C’est dans cette ancienne école primaire du quartier populaire de Santuxtu, transformée en centre social, que sont hébergés ces migrants âgés de plus de 18 ans. Tous ont débarqué en zodiac sur les côtes espagnoles, puis ont été transportés jusqu’à Bilbao dans des bus affrétés par les autorités espagnoles. Mais à leur arrivée, ils sont très vite livrés à eux-mêmes.

      La solidarité d’une centaine de personnes a permis d’aider ces migrants et de prendre la relève des autorités locales comme le souligne Martha, une des volontaires. « On a ouvert ce dispositif entre personnes qui n’ont aucun moyen économique, c’est autofinancé, et on apprend sur le tas un peu de tout, explique-t-elle. Il y a des gens qui restent dormir pour voir si tout se passe bien. On est là pour les accompagner, pour créer aussi le lien avec les gens d’ici, avec la ville. C’est très émouvant de voir comment s’est créée une chaîne de solidarité entre différents quartiers peu à peu, qui ne devrait pas s’arrêter là et on espère qu’elle ne va pas se rompre ».

      Parmi ces migrants, Zacharia, un Camerounais de 29 ans, désigné chef cuisinier. C’est lui qui prépare les repas pour les 130 personnes avec les vivres donnés par les habitants du coin. Il espère l’obtenir l’asile politique, mais il va devoir attendre six mois pour avoir son premier rendez-vous avec les autorités, ce qui le préoccupe.

      Les autorités basques ont promis de se pencher sur le sort de ces migrants, mais d’ordinaire, ils sont très peu à choisir de rester au Pays basque. La plupart décident de continuer leur périple vers le nord de l’Europe avec ou sans aide.

      http://www.infomigrants.net/fr/post/11498/espagne-bilbao-accueille-de-plus-en-plus-de-migrants

    • #Atlanta says NO to detention and YES to increased legal services and support for family reunification:

      Mayor Keisha Lance Bottoms Issues Executive Order to Permanently End City of Atlanta Receiving ICE Detainees

      Mayor Keisha Lance Bottoms has signed an Executive Order directing the Chief of the Atlanta City Department of Corrections to take the necessary action to permanently stop receiving U.S. Immigration and Customs Enforcement (ICE) detainees under the current agreement with the United States Marshals Service.


      https://t.co/9jZoIICiIi
      #détention_administrative #rétention

      #USA #Etats-Unis

    • How Cities Are Demanding a Greater Voice on Migration

      Cities are developing their own solutions to help fast-growing migrant and refugee populations in urban areas. Cities expert Robert Muggah describes the swell of initiatives by urban leaders and what it will take to overcome the barriers ahead.

      Most refugees and internally displaced people live in cities. Yet urban leaders are regularly excluded from international discussions about refugee response.

      Robert Muggah, cofounder of the Brazil-based think-tank the Igarape Institute and Canadian risk consultancy The SecDev Group, is among a growing chorus of city and migration experts calling for that to change. His recent paper for the World Refugee Council describes how cities are developing their own solutions and offers a blueprint for better cooperation.

      “Cities will need resources to scale up their activities,” Muggah told Refugees Deeply. “This may require changes in laws so that cities can determine their own residence policies and keep tax revenues generated by migrants who move there.”

      Refugees Deeply talked to Muggah about how city leaders are championing new approaches to displacement and the barriers they’re trying to overcome.
      Refugees Deeply: Are the global compacts on refugees and migration a missed opportunity for a smarter international approach to urban refugees and migrants?

      Robert Muggah: The international response to the urbanization of displacement has been woefully inadequate. The U.N. High Commissioner for Refugees (UNHCR), in particular, was remarkably slow to empower cities to assume a greater role in protecting and assisting refugees and other groups of concern. And while it has made some modest improvements, the UNHCR’s strategic plan (2017–21) makes just one reference to urban refugees – acknowledging that they constitute the majority of the agency’s caseload – but offers no vision or concrete recommendations moving forward.

      The global compacts on migration and refugees were never going to be revolutionary. But so far they have been a disappointment seen from the vantage point of cities. While still under review, the new compacts only tangentially address the central role of urban authorities, businesses and civic associations in supporting displaced populations. While they offer a suite of sensible-sounding proposals to ensure a more predictable approach to protection and care and “regularize” population movements more generally, they are silent on the role of cities. The global compact on refugees mentions the word “urban” just four times and “cities” just once. These omissions have not gone unnoticed: cities and inter-city networks are agitating for a greater voice.

      The global compacts on migration and refugees were never going to be revolutionary. But so far they have been a disappointment seen from the vantage point of cities.
      Refugees Deeply: What are some of the main political and institutional blockages to better equipping cities around the world to protect and care for migrants and refugees?

      Muggah: For most of the 20th and 21st centuries, nation states have actively resisted giving cities more discretion in responding to issues of cross-border and internal population displacement. Cities will not find recourse in international law, and the Sustainable Development Goals (SDGs) also have nothing to say about urban displacement. More positively, the nonbinding New Urban Agenda offers more concrete direction on cooperation between national and subnational authorities to address the needs of refugees and internally displaced people.

      Cities have also received comparatively limited support from international organizations to support urban refugees and displaced people. On the contrary – the UNHCR has instead emphasized the need to reduce assistance and promote self-reliance. Under immense pressure from U.N. member states, and host states in particular, the UNHCR sought to limit refugees from moving to cities where possible. UNHCR made tentative gestures to move beyond the minimalist approach and advocate for refugee rights in cities in the 2000s, but a camp-based model prevailed. There were concerns that the focus on refugees in cities could antagonize host countries, many of whom saw displaced people as a threat to domestic and international security.
      Refugees Deeply: What are some of the factors common to the most proactive and innovative cities on these issues?

      Muggah: A growing number of cities are demanding a greater voice on issues of migration and displacement. Earlier in 2018 a small delegation of cities – led by New York – sent recommendations to improve the overall wording and content of the Global Compact. Likewise, in 2017, the International Organization for Migration, together with the United Cities and Local Government (UCLG), assembled 150 cities to sign the Mechelen Declaration demanding a seat at the decision-making table. And in 2015, Eurocities also issued a statement on refugees in the wake of the influx of refugees from the Middle East and North Africa. They set up Solidarity Cities, which provides support to help cities deliver services and identify effective long-term solutions to protect social cohesion and integration.

      Cities are also getting on with developing legislative and policy frameworks to welcome refugees and promote protection, care and assistance. Good examples include more than 100 “welcoming cities” in the U.S. that have committed to promoting integration, developing institutional strategies for inclusion, building leadership among new arrivals and providing support to refugees. Meanwhile, some 500 jurisdictions describe themselves as “sanctuary cities.” Despite threats of cuts to funding, they are resisting federal efforts to enforce immigration law and are on the front line of supporting refugees. In the U.K., at least 80 “cities of sanctuary” offer another approach to providing compassionate solutions for refugees. Large and medium-sized cities across Europe are also adopting similar strategies, in cooperation with Eurocities – a network of major European cities founded in 1986.

      While it can generate tension with federal counterparts, these city-level responses can help contribute to greater safety and economic progress in the long run. Cities, states and countries with sanctuary policies tend to be safer and more prosperous than those without them. Sanctuary cities can build trust between law enforcement agencies and migrant communities. Likewise, the economies of sanctuary cities, towns and counties are largely more resilient than nonsanctuary counterparts, whether measured in terms of the population’s income, reliance on public assistance or labor force participation.
      Refugees Deeply: Many cities face financial and political limitations on their ability to respond to refugee crises. Where have you seen good examples of devolution of power and resources helping cities to respond better?

      Muggah: There are countless examples of cities strengthening their protection and care for urban refugees in a time of austerity. In New York, for example, city authorities launched ActionNYC, which offers free, safe legal assistance for migrants and refugees in multiple languages. In Barcelona, the SAIER (Service Center for Immigrants, Emigrants and Refugees) program provides free advice on asylum and return, while Milan works with the UNHCR and Save the Children to offer services for unaccompanied minors.

      Montreal established the BINAM (Bureau d’integration des nouveaux arrivants a Montreal) program to provide on-the-job training and mentoring to new arrivals, and Sao Paulo has created municipal immigration councils to help design, implement and monitor the city’s policies. Likewise, cities such as Atlanta and Los Angeles are requiring that migrants – in particular, refugees – have equal access to city facilities, services and programs regardless of their citizenship status.

      Cities are also banding together, pooling their resources to achieve greater influence on the urban refugee agenda. Today there are more than 200 intercity networks dedicated to urban priorities, ranging from governance and climate change to public safety and migration. Several of them have dedicated guidelines on how cities can protect and care for refugees. For example, the Global Parliament of Mayors, established in 2016, focuses on, among other things, promoting inclusive cities for refugees and advocating on their behalf. The International Coalition of Inclusive and Sustainable Cities and the UCLG are others, having teamed up with think-tanks and international agencies to strengthen information-sharing and best practices. Another new initiative is Urban20, which is promoting social integration, among other issues, and planning an inaugural meeting in October 2018.
      Refugees Deeply: Most cities at the forefront of refugee crises are in the Global South. What recommendations would you offer to ensure that international responses to urban displacement do not become too North-centric?

      Muggah: This reality is often lost on Northern policymakers and citizens as they seek to restrict new arrivals and reduce overseas assistance. The Carnegie Mellon University’s Create Lab and the Igarape Institute have developed a range of data visualization tools to highlight these trends, but a much greater effort is required to educate the public. These outreach efforts must be accompanied with a dramatic scaling-up of assistance to redressing the “causes” of displacement as well as supporting front-line cities absorbing the vast majority of the world’s displaced populations.


      https://www.newsdeeply.com/refugees/community/2018/09/21/how-cities-are-demanding-a-greater-voice-on-migration

    • Création de l’#association_nationale des #villes et #territoires accueillants

      À l’heure où l’échec des politiques migratoires européenne et nationale entraîne une montée des populismes tout en restreignant les droits humains fondamentaux, nous, élu.e.s de villes et collectivités, décidons de nous unir sous une bannière commune : celle de l’accueil inconditionnel.

      Nous demandons ainsi que l’Etat assume ses missions et assure les moyens pour créer des solutions d’accueil, d’hébergement et d’accompagnement plus nombreuses et plus qualitatives que celles existantes aujourd’hui. Cela doit passer par la mise en place d’une stratégie nationale d’accueil afin de répartir et d’accompagner l’effort de solidarité.

      Nous l’enjoignons à respecter le droit et ses engagements internationaux (Protocole de Quito de l’ONU, Convention de Genève), européens (Pacte d’Amsterdam) et nationaux (Code des Familles et de l’Action Sociale)

      Néanmoins, dépositaires d’une tradition d’accueil et de valeurs humanistes, nous, élu.e.s locaux et territoriaux, mettons en oeuvre et expérimentons déjà sur nos territoires, au quotidien, des réponses aux impératifs de l’urgence humanitaire et d’inclusion de tout un chacun, même quand l’Etat est défaillant.
      Surtout, nous agissons en responsabilité, conformément à nos obligations règlementaires et législatives.

      L’association que nous avons constituée à Lyon 1er le 26 septembre 2018, rassemble tout.e.s les élu.e.s promouvant l’hospitalité, source de politiques inclusives et émancipatrices. Fort.e.s de notre expérience, animé.e.s par la volonté d’agir collectivement, nous donnerons à voir que des solutions dignes sont possibles et adaptées à chaque situation locale. Il n’y a pas UNE politique d’accueil, mais autant que de particularismes locaux.

      Elle permettra de mettre en avant toutes les réussites locales en matière d’accueil sur notre
      territoire et les réussites que cela engendre lorsque chacun assume ses responsabilités.
      Elle permettra aussi, la mise en commun de bonnes pratiques, l’accompagnement de territoires volontaires, la mobilisation autour d’enjeux liés aux politiques migratoires, la proposition de mesures adaptées. En partenariat avec toutes les forces vives volontaires : acteurs associatifs, citoyen.ne.s, universitaires, juristes, militant.e.s, etc.

      Nous souhaitons la bienvenue aux élu.e.s de tous horizons et de tout territoire, qui, partageant nos valeurs humanistes et notre volonté politique, veulent rejoindre notre association.

      Damien CARÊME, Maire de #Grande-Synthe, Président de l’Association
      Catherine BASSANI, Représentante de la ville de #Nantes
      Philippe BOUYSSOU, Maire d’#Ivry-Sur-Seine
      Marie-Dominique DREYSSE, Maire-adjointe de #Strasbourg
      Gérard FROMM, Maire de #Briançon
      Corinne IEHL, Elue de #Lyon 7ème arrondissement
      Myriam LAÏDOUNI-DENIS, Elue de la #Région_Auvergne-Rhône-Alpes
      Bernard MACRET, 4ème Adjoint aux Solidarités Internationales, #Grenoble
      Halima MENHOUDJ, Adjointe au Maire de #Montreuil
      Jaklin PAVILLA, 1ère Adjointe au Maire de #Saint-Denis
      Nathalie PERRIN-GILBERT, Maire du 1er arrondissement de Lyon
      Eric PIOLLE, Maire de #Grenoble
      Laurent RUSSIER, Maire de #Saint-Denis
      Bozena WOJCIECHOWSKI, Adjointe au Maire d’Ivry-sur-Seine

      https://blogs.mediapart.fr/fini-de-rire/blog/280918/creation-de-l-association-nationale-des-villes-et-territoires-accuei
      #villes_accueillantes #territoires_accueillants #France
      #ANVITA

    • How Cities Can Shape a Fairer, More Humane Immigration Policy

      National governments do not have all the answers on immigration says Bristol mayor Marvin Rees. Ahead of a mayors’ summit he outlines a better city-led response.

      People have always been on the move, both within nations and across borders, but increasingly migrants tend to settle in cities. This puts cities and their responses at the heart of the conversation, something we are looking to highlight at the Global Parliament of Mayors (GPM) Summit here in Bristol.

      There is a steady upward trend in the number of people who have left their homelands voluntarily for economic or other reasons, or who are forced to leave their homes as refugees or displaced persons for reasons of conflict or environmental disaster. Population diversity in most developed countries can be attributed to international migration, whereas in developing nations it is mostly internal migration that contributes to this diversity.

      This is an important moment in the United Kingdom’s approach to the issue of migration. The upcoming Immigration Bill, expected toward the end of this year, will bring unprecedented reform of U.K. immigration policy. At the same time, the scandal over the treatment of the Windrush generation has brought to public consciousness the impact of this government’s “hostile environment” policy and the burdensome bureaucracy the Home Office is inflicting on individual human lives. A fairer, more compassionate system is needed, one in which no one is detained without knowing why and when they will be released. It is everyone’s legitimate right to enjoy a family life with loved ones and to realize the aspiration to provide for oneself and one’s family and contribute to society through employment.

      However, national governments clearly do not have all the answers. Around the world, it is cities that are increasingly collaborating nationally and across borders, learning from each other and replicating good practice. Cities’ experiences have to be included in the national debate on how to take advantage of the full potential of migration and drive a change in policies and mind-set to ensure that migration is embraced as an opportunity rather than seen solely as a challenge.

      That is why this will be high on the agenda at the GPM summit opening on October 21, with almost 100 mayors representing both developed and emerging states in attendance. Cities are where migrants interact with communities, society and, if only indirectly, with the host country. The social, economic, political and cultural activities in a city can play a crucial role in countering the anxiety and fears associated with migration, and help integration and inclusivity. Where the right policies and practices are in place, migration can bring huge benefits to communities and cities, fueling growth, innovation and entrepreneurship.
      City Responses

      City responses to migration and refugees have been varied and multifaceted but they are characterized by the theme of inclusion, with city leaders attempting to design and implement policies that allow newcomers to contribute to, and benefit from, the flourishing of their new communities. These responses are rooted in an approach that is both principled and pragmatic – seeking to uphold human rights and dignity while at the same time identifying practical solutions to the challenges affecting local residents. At a time when, at national and international level, migration has been used by some as a political weapon to stoke resentment and tension, this city perspective has never been more vital in bringing both humanity and reality back into public discourse.

      In seeking to develop inclusive solutions on migration, cities across the globe are innovating and developing new models of best practice.

      Amsterdam has adopted a programme called “Everyone’s Police,” which encourages the reporting of crimes in the interest of more effective policing and community engagement.

      New York City has created the I.D. NYC scheme, a government-issued identification card available to all residents regardless of immigration status that enables people to access a variety of services and discounts in the city.

      Barcelona supports children and families applying for family reunification by providing comprehensive and personalized guidance on the legal, practical and psychological aspects of the process.

      Sao Paulo has established the Coordination of Policies for Migrants’ Unite within its municipal structures to promote city policies for migrants across departments and disciplines and in a participative manner.

      Amman has welcomed almost 2 million migrants and refugees in the last two decades as a result of conflicts in neighboring countries. And cities in Uganda have played a key role in implementing national policies designed to allow refugees to own land and set up businesses.

      These are just a handful of examples of the great work already being done by many cities on these issues. These innovations will be examined in detail at the GPM summit, with city representatives sharing their valuable learning and experience.

      A number of initiatives and networks have been established to support and catalyze such innovations and share best practice across different city contexts, from the World Economic Forum Global Future Council on Migration to the Organisation for Economic Cooperation and Development (OECD) Champion Mayors for Inclusive Growth – and many more. Together these networks provide a wealth of resources and insight for cities seeking to make inclusion a reality.
      A Voice for Cities on the Global Stage

      Despite this vital work on the ground, cities remain underrepresented on the global stage when it comes to key decision-making on migration and refugee issues. This is the challenge the GPM summit will address.

      The GPM has already been actively engaged in the negotiations on the United Nations global compacts on migration and refugees. As the mayor of Bristol I become the first city leader to speak in the deliberations on the compact on migration in May 2018.

      At the summit we will debate and decide how, collectively, we can take a leadership role for cities in the implementation of the global compacts. We will hear from other key international stakeholders, as well as from mayors with direct and varied experience. And we will agree on practical steps to enable cities to implement the compacts in their areas of influence.

      The price of inaction is huge – a critical global diplomatic process could once again largely pass cities by and leave national-level politicians bickering over watered-down commitments. The potential prize is just as significant – a recognized seat at the table for cities to review and implement global compacts, and a range of practical resources to maximize the contributions that migrants and refugees can bring to our communities.

      Our conversations in Bristol represent a critical opportunity to better grasp the key issues for cities related to migration and integration, and to amplify the voice of city leaders in international policymaking relating to migrants and refugees.


      https://www.newsdeeply.com/refugees/community/2018/10/19/how-cities-can-shape-a-fairer-more-humane-immigration-policy

    • Migranti, «Venite al porto di Napoli, vi accogliamo»

      E sul fronte migranti: «Io faccio una proposta ai timonieri di navi: la prossima volta che avete un problema per le autorizzazioni avvicinatevi alle acque territoriali di una città povera ma dalla grande dignità. Avvicinatevi al porto di Napoli. Noi disponiamo di due gommoni come Comune, un po’ malandati ma funzionanti. Vi assicuro che ci sono pescatori democratici e tanta gente in grado di remare e venire a prendere. E mi metto io nella prima barca, voglio vedere se ci sparano addosso».

      https://napoli.repubblica.it/cronaca/2018/12/01/news/incontro_con_de_magistris_a_roma_nasce_terzo_fronte_-213118777/?ref=fbpr

    • Italie : #Palerme, l’exception

      En juin, il a été l’un des premiers à proposer d’accueillir l’Aquarius et ses passagers indésirables : Leoluca Orlando, le maire de Palerme, s’affiche comme l’un des plus farouches opposants à la politique migratoire du gouvernement italien. Il milite entre autres, pour la disparition du permis de séjour et la libre-circulation des personnes.

      Ces trois dernières années, la capitale sicilienne a accueilli des dizaines de milliers de migrants. Ils sont nombreux à y être restés et, parmi eux, beaucoup de mineurs isolés. Pour les prendre en charge, une multitude d’associations travaillent main dans la main avec le soutien de la mairie.
      Reportage à Palerme, où les initiatives se multiplient, à contre-courant de la politique du ministre de l’intérieur, Mateo Salvini.

      https://www.arte.tv/fr/videos/084352-000-A/italie-palerme-l-exception

      signalé par @sinehebdo
      https://seenthis.net/messages/743236

    • Le temps est venu pour des villes solidaires...


      https://twitter.com/seawatchcrew/status/1078595657051574272?s=19

      Stuck at Sea for over 6 days – the New Year for the rescued on Sea-Watch 3 must start ashore!

      Already on Saturday, the crew of the Sea-Watch 3 has saved 32 people from drowning, including four women, three unaccompanied minors, two young children and a baby. Five countries (Italy, Malta, Spain, Netherlands, Germany) refused to take responsibility and grant the rescued a port of safety for Christmas.
      In Germany only, more than 30 cities and several federal states have declared themselves to be safe havens and are willing to accept those rescued from distress at sea.

      https://sea-watch.org/en/stuck-at-sea-for-over-6-days-without-port-of-safety

    • NYC to Fund Health Care for All, Including the Undocumented, Mayor Says

      New York Mayor Bill de Blasio proposed a $100 million plan that he said would provide affordable “healthcare for all,” reaching about 600,000 people, including undocumented immigrants, low-income residents not enrolled in Medicaid and young workers whose current plans are too expensive.

      The plan, which de Blasio dubbed “NYC Care,” will offer public health insurance on a sliding price scale based on income, the mayor said during an interview Tuesday morning on MSNBC. It will begin later this year in the Bronx and will be available to all New Yorkers in 2021, and would cost at least $100 million once it reaches full enrollment, according to the mayor’s office.

      The proposed city-funded health insurance option would assign a primary care doctor to each plan participant and help patients find specialists if needed. De Blasio said the plan, which would be financed out of the city’s public health budget, would ultimately be cost effective by reducing hospital emergency room visits by uninsured patients and by improving public health.

      The program builds upon the city’s $1.6 billion a-year Department of Public Health and Mental Hygiene budget and the separately funded public hospital system, which already serves 475,000 under-insured and uninsured patients annually, including undocumented immigrants, in more than 11 hospitals and 70 neighborhood clinics. The city already has an insurance plan, MetroPlus, that will be used as the template for the coverage. The program may take two years to get “to full strength,” de Blasio said.

      https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-01-08/nyc-to-fund-health-care-for-all-including-the-undocumented

      #NYC #New_York

    • Avec la « ville-refuge », ce serait un nouveau concept de Ville qui pourrait émerger, un autre droit d’asile, une autre hospitalité qui transformerait le droit international

      Intervenant devant le Parlement international des écrivains pour répondre à un appel lancé en 1995 pour constituer un réseau de villes-refuges susceptibles d’accueillir un écrivain persécuté, Jacques Derrida s’interroge sur les implications de cette proposition. Une Ville peut-elle se distinguer d’un Etat, prendre de sa propre initiative un statut original qui, au moins sur ce point précis, l’autoriserait à échapper aux règles usuelles de la souveraineté nationale ? Peut-elle contribuer à une véritable innovation dans l’histoire du droit d’asile, une nouvelle cosmopolitique, un devoir d’hospitalité revisité ? Inventer cela peut être considéré comme une utopie, mais c’est aussi une tâche théorique et critique, urgente dans un contexte où les violences, les crimes, les tragédies, les persécutions, multiplient les réfugiés, les exilés, les apatrides et les victimes anonymes.

      Le droit d’asile est un vestige médiéval, qui a survécu aux guerres du 20ème siècle. Appeler les villes à renouer avec cette tradition en accueillant les réfugiés comme tels, sans leur proposer ni la naturalisation, ni le retour dans leur région d’origine, implique de déborder les limites fixés par les traités entre Etats souverains. On peut imaginer une nouvelle figure de ville, une ville franche qui bénéficierait d’un statut d’exemption, d’immunité, comparable à celui qui est encore parfois attaché à certains lieux, religieux ou diplomatiques.

      On trouve la notion de ville-refuge dans la bible, chez certains stoïciens grecs, chez Cicéron, Saint Paul (qui la sécularise), dans la tradition médiévale et religieuse (les églises comme lieu de « sauveté »). Les Lumières en héritent et Kant, dans son Article définitif en vue de la paix perpétuelle, en donne une formulation rigoureuse mais restrictive : (1) il limite l’hospitalité au droit de visite, excluant le droit de résidence ; (2) il la fait dépendre du droit étatique. Pour faire progresser le droit, il faut analyser ces restrictions. D’une part l’hospitalité selon Jacques Derrida est une Loi, un droit inconditionnel offert à quiconque, un principe irréductible ; mais d’autre part il faut répondre à l’urgence, à la violence et à la persécution. Cela peut ouvrir la possibilité d’une expérimentation - dans la pratique et dans la pensée, d’une autre idée du cosmopolitisme et de la démocratie à venir.

      En France, le droit d’asile est assez récent. La constitution de 1946 ne l’accorde qu’aux pesonnes persécutées à cause de leur action « en faveur de la liberté », une définition élargie en 1954 (par suite de l’adhésion à la Convention de Genève de 1951) à ceux dont la vie ou la liberté se trouve menacée « en raison de leur race, de leur religion ou de leurs opinions politiques ». L’application de cette Convention n’a été élargie aux personnes hors d’Europe et aux événements survenus après 1951 qu’en 1967. Mais les Etats-nations n’acceptent, en pratique, d’accorder ce droit que sous des conditions qui le rendent parfois presque impossible. En France, il faut que l’exilé ne puisse attendre aucun bénéfice économique de son immigration. Souvent, devant l’imprécision des règles, on laisse la police faire la loi - une confusion inquiétante, voire ignoble, comme le dénonçait Walter Benjamin, quand les limites de l’action de la police deviennent insaisissables, indéterminées. Le droit d’asile implique une subordination stricte de toutes les administrations policières au pouvoir politique.

      https://www.idixa.net/Pixa/pagixa-1308210805.html
      via @nepthys

    • #Jacques_Derrida und die Idee der Zufluchtsstädte

      Nach islamistischen Anschlägen in Algerien Anfang der 90er-Jahre flohen viele Kulturschaffende aus dem Land. Zusammen mit anderen internationalen Intellektuellen initiierte der französische Philosoph Jacques Derrida von Staaten unabhängige Zufluchtsorte für Verfolgte. Welche Kraft hat diese Idee heute?

      Der Exodus arabischer Intellektueller in den Westen hat eine lange Tradition. Vor über 20 Jahren wütete der islamistische Furor in Algerien. Viele Journalisten wurden damals ermordet, den Überlebenden blieb nur die Flucht ins westliche Ausland. Dieses Horrorszenario wiederholt sich heute in Syrien. Karim Chamoun, ein in Mainz lebender Radiojournalist, gibt den syrischen Flüchtlingen eine Stimme. Seine Landsleute informiert er über die eskalierenden Zustände in der Heimat. Offenbar – so berichtet Chamoun – läuft dem regierenden Assad-Clan die noch verbliebene Bildungselite davon:

      „In den letzten 18 Monaten sind sehr viele Pro-Assad-Intel­lektuelle ausgewandert und sind in Deutschland gelandet. Viele sind in der jetzigen Zeit ausgewandert, vor Angst, vor Terror. Die haben keine Organisation, die sie vereint.“

      Das Medieninteresse für Syrien lässt vergessen, dass schon vor über 20 Jahren islamistische Fanatiker eine tödliche Hetzjagd auf Journalisten und Künstler veranstalteten. Der Algerier Tahar Djaout war in den 80er-Jahren bekannt für seine Kommentare im Wochenmagazin Algérie-Actualité. Anfang 1993 gründete Djaout Ruptures – „Brüche“ –, eine Zeitschrift, die sich als Stachel im Fleisch einer autoritär regierten Gesellschaft verstand. Die Redakteure fürchteten allerdings nicht nur die Zensur, sie bangten um ihr Leben, da die „Islamische Heilsfront“ ihnen offen den Kampf angesagt hatte. Im Mai 1993 wurde Tahar Djaout vor seiner Haustür in Algier ermordet. Der Journalist war nicht das erste Opfer der Islamisten, aber das prominenteste. Unzählige andere folgten.

      Tahar Djaouts Ermordung war ein Fanal für die französische Intelligenz. Nicht länger wollte man sich auf den mutlosen internationalen PEN verlassen. Der Philosoph Jacques Derrida und der Soziologe Pierre Bourdieu, die lange Zeit in Algerien gelebt hatten, fühlten sich den Algeriern, den Opfern eines langen, erbitterten Bürgerkrieges gegen die französische Kolonialmacht, eng verbunden. Sie wollten den „Terrainverlust“ der Intellektuellen, einer Elite ohne Macht, wettmachen.
      Die Öffentlichkeit wachrütteln

      Christian Salmon, Gründer des Straßburger Zirkels „Carrefour de littérature“, startete eine Unterschriftenaktion. Weltweit verbündeten sich namhafte Schriftsteller mit den verfolgten Algeriern. Salmon schrieb:

      „Algerische Journalisten und Schriftsteller, die glücklich einem Attentat entkommen sind, müssen sich verbergen, während sie vergeblich auf ein Visum warten. Sie harren ungeduldig vor unseren Grenzen. Hunderte algerische Intellektuelle, dem Hass islamistischer Attentäter ausgeliefert, verdanken ihr Überleben entweder purem Glück oder der Überbeschäftigung der Henker. (…) Wir sagen jetzt: Es reicht! Genug der Morde in Algerien! Schriftsteller, Künstler und Intellektuelle zeigen ihren Widerstand. In aller Deutlichkeit sagen wir: Keine Demokratie ohne Solidarität, keine Zivilisation ohne Gastfreundschaft.“

      Aus Solidarität mit den algerischen Kollegen kamen im November 1993 im Straßburger „Carrefour de littérature“ zahlreiche internationale Autoren zusammen, um die Öffentlichkeit wachzurütteln. 200 Schriftsteller unterzeichneten den Appell. Bei einer rituellen Aktion wollte man es aber nicht belassen: Unter der Leitung des indischen Autors Salman Rushdie, der seit der Fatwa Ayatollah Chomeinis von den iranischen Häschern verfolgt wurde, gründeten sie das Internationale Schriftsteller-Parlament. Währenddessen rief Rushdie, zusammen mit Straßburgs Bürgermeisterin Catherine Trautmann und dem Generalsekretär des Europarats, zur Gründung von Zufluchtsstädten auf – von „villes- refuges“, um verfolgten Schriftstellern und Künstlern Asyl zu gewähren. Salman Rushdie schrieb das Gründungsdokument:

      „Heute widersetzt sich die Literatur ein weiteres Mal der Tyrannei. Wir gründeten das Schriftsteller-Parlament, damit es sich für die unterdrückten Autoren einsetzt und gegen ihre Widersacher erhebt, die es auf sie und ihre Werke abgesehen haben. Nachdrücklich erneuern wir die Unabhängigkeitserklärung, ohne die Literatur unmöglich ist, nicht nur die Literatur, sondern der Traum, nicht nur der Traum, sondern das Denken, nicht nur das Denken, sondern die Freiheit.“
      Kommunen können schneller auf neue Situationen reagieren

      Catherine Trautmann stellte später die Initiative der „villes-refuges“ vor, die zuvor vom Internationalen Schrift­steller-Parlament beschlossen wurde:

      „Es kommt darauf an, dass multikulturell sich verstehende Städte bereit sind, Gedankenfreiheit und Toleranz zu verteidigen. Die in einem Netz verbundenen Städte können etwas bewirken, indem sie verfolgte Künstler und Schriftsteller aufnehmen. Wir wissen, dass Euro­pa ein Kontinent ist, wo über alle Konflikte hinweg Intellektuelle leben und schreiben. Dieses Erbe müssen wir wach halten. Die bedrohten Intellektuellen müssen bei uns Bürgerrecht erhalten. Zu diesem Zweck sollte ein Netz der Solidarität geschaffen werden.“

      Das Projekt der „villes-refuges“ war anfangs äußerst erfolgreich: 1995 beschlossen Vertreter von mehr als 400 europäischen Städten die „Charta der villes-refuges“. Eine Resolution des Europäischen Parlaments förderte ein weltweites Netz von „villes-refuges“. Straßburg und Berlin gehörten zu den ersten „Zu­fluchts­städten“, es folgten Städte wie Venedig und Helsinki.

      Die Skepsis gegenüber den nationalen und überstaatlichen Organisationen wächst. Kommunen, die politische Macht auf lokaler Ebene ausüben, seien imstande, wesentlich schneller und flexibler auf neue, unvorgesehene Situationen zu reagieren, meint der amerikanische Politikwissenschaftler Benjamin Barber:

      „Der Unterschied zu Staaten liegt in der Eigenart der Städte: Sie sind zutiefst multikulturell, partizipatorisch, demokratisch, kooperativ. Städte interagieren und können viel erreichen, während Staaten eigensinnig sind und gemeinsames Handeln behindern. Die Welt globaler Demokratie führt uns nicht zu Staaten, sondern zu Städten. Demokratie entstand in der griechischen polis. Sie könnte ein weiteres Mal in der globalen kosmopolis entstehen.“

      Jacques Derrida ist im Oktober 2004 gestorben. Angesichts der unlösbar scheinenden Flüchtlingsprobleme wäre der Philosoph heutzutage ein verantwortungsvoller und sachkundiger Diskussionspartner. Vielleicht würde er darauf hinweisen, dass sich die Gesetze der Gastfreundschaft keineswegs geändert haben. Denn auch heute müssen Pflichten und Rechte, Grenzen und Freiheiten neu austariert werden. Im Interesse beider – der Gäste und der Gastgeber.

      https://www.deutschlandfunkkultur.de/villes-refuges-jacques-derrida-und-die-idee-der.976.de.html?dr
      #Derrida
      via @nepthys

    • #ICORN

      The #International_Cities_of_Refuge_Network (ICORN) is an independent organisation of cities and regions offering shelter to writers and artists at risk, advancing freedom of expression, defending democratic values and promoting international solidarity.

      Writers and artists are especially vulnerable to censorship, harassment, imprisonment and even death, because of what they do. They represent the liberating gift of the human imagination and give voice to thoughts, ideas, debate and critique, disseminated to a wide audience. They also tend to be the first to speak out and resist when free speech is threatened.

      ICORN member cities offer long term, but temporary, shelter to those at risk as a direct consequence of their creative activities. Our aim is to be able to host as many persecuted writers and artists as possible in ICORN cities and together with our sister networks and organisations, to form a dynamic and sustainable global network for freedom of expression.

      https://icorn.org
      #réseau #art #artistes #liberté_d'expression #écrivains

    • #New_Sanctuary_Coalition

      The New Sanctuary Coalition of #NYC is an interfaith network of congregations, organizations, and individuals, standing publicly in solidarity with families and communities resisting detention and deportation in order to stay together. We recognize that unjust global and systemic economic relationships and racism form the basis of the injustices that affect immigrants. We seek reform of United States immigration laws to promote fairness, social and economic justice.

      http://www.newsanctuarynyc.org
      #New_York

    • #Eine_Stadt_für_Alle

      Eine Stadt, aus der kein Mensch abgeschoben wird, in der sich alle frei und ohne Angst bewegen können, in der kein Mensch nach einer Aufenthaltserlaubnis gefragt wird, in der kein Mensch illegal ist. Das sind die grundlegenden Vorstellungen von einer Solidarity City. In einer solchen Stadt der Solidarität sollen alle Menschen das Recht haben zu leben, zu wohnen und zu arbeiten. Alle Menschen soll der Zugang zu Bildung und medizinischer Versorgung gewährt werden. Alle Menschen sollen teilhaben und das Stadtleben mitgestalten können – unabhängig von Aufenthaltsstatus, finanziellen Möglichkeiten, Hautfarbe, Geschlecht, Sexualität, Religion,…
      In vielen Städten in Deutschland, Europa und der ganzen Welt ist der Prozess, eine Solidarity City zu werden schon in vollem Gang.

      https://solidarity-city.eu/de
      #solidarity_city

    • The Cities Refugees Saved

      In the cities where the most refugees per capita were settled since 2005, the newcomers helped stem or reverse population loss.

      Mahira Patkovich was eight years old in 1997 when her family left Bosnia. After a long and complicated war, Muslim families like hers had found themselves without jobs, food, and any semblance of safety. So they sought refuge in America.

      The first year in their new home in Utica, New York, Patkovich felt uprooted—torn from her childhood and everything she knew, and thrust into an alien environment. She knew no one and didn’t speak English. But as time went by, she began to acclimate.

      “The next thing you know, you’re home,”she says in a recent mini-documentary by New American Economy, a bipartisan immigration reform group, and Off Ramp Films. “This is home.”

      Patkovich, the film shows, is now thriving. She works at the office of the Oneida County Executive, owns a small business, and is on her way to a master’s degree. She is also pregnant, and excited to raise her first-born in a community she loves.

      Utica—it’s clear—saved Patkovich and her family. But the truth is: They’re helping to save this town as well. Like many Rust Belt cities, Utica suffered enormously in the second part of the 20th century, losing jobs and bleeding out residents as major employers like General Electric and Lockheed Martin shuttered or left the Mohawk Valley.

      Adam Bedient, director of photography and editor at Off Ramp Films grew up in the nearby town of Clinton in the 1980s and ’90s. He wasn’t tracking Utica’s trajectory too closely then, in part, because not much was happening there. What he remembers of Utica in that era is a typical fading factory town, a place where shuttered storefronts and exposed bricks belied neglect. “Foundationally, there were beautiful things there, they just didn’t look cared for,” he says.

      Now, he’s working on a full-length feature about the refugee communities in Utica, and when he drives through town, he finds it simmering with new life. Old buildings are getting refurbished. Construction cranes bob up and down. And at the center of town is a long-vacant historic Methodist church that has been renovated and converted into a beautiful mosque—a symbol of the new Utica.

      Without its new Bosnian community, Utica would have faced a 6 percent population drop.

      “It’s really symbolic—it was previously a church that was going to be torn down,” Bedient told CityLab. “The Bosnian community bought it from the city, and now it’s a part of the skyline.”

      For CityLab, NAE crunched the numbers on the 11 cities that have resettled the most refugees per capita between 2005 and 2017 to gauge how welcoming these newcomers affected overall population. In almost all cases, refugee resettlement either stemmed population loss or reversed it completely. Without its new Bosnian community, for example, Utica would have faced a 6 percent population drop. With them, the city saw a 3 percent gain.

      But what Andrew Lim, NAE’s director of quantitative research, found surprising was that this list didn’t just include industrial towns hungry for newcomers—places like Syracuse, New York, and Springfield, Massachusetts; it also features places in the South and Sunbelt. Take Clarkston, Georgia, for example, a diverse Atlanta exurb of 13,000 (whose young mayor you may recognize from a recent episode of Queer Eye). Since the 1970s, Clarkston has taken in tens of thousands of refugees from various parts of Asia, the Middle East, Africa, and Europe. In Bitter Southerner, Carly Berlin recently explained how it gained its nickname as the “Ellis Island of the South.”

      As many white residents fled farther out to more fashionable developing Atlanta suburbs, Clarkston became perfect for refugees, with its hundreds of vacated apartments and access to public transportation, a post office, and a grocery store, all within walking distance. The little city became one of now 190 designated resettlement communities across the country.

      Using the data NAE extracted from the Census Bureau and from the Department of Homeland Services, CityLab’s David Montgomery created this nifty chart to show exactly how much refugees boosted or stabilized population in these 11 cities:

      But the pipeline that funneled refugees into cities like Utica is being closed up. In 2018, the Trump administration lowered the maximum number of refugees it takes in for the third year in a row—to 30,000, which is the lowest in three decades. Resettlement agencies, from Western Kansas to Florida, are having to close shop.

      Some places are already seeing the effects. In cities with large concentrations of refugees and refugee services, recent arrivals have been waiting for loved ones to join them. Because of the slash in numbers being accepted, some of these people have been thrust into uncertainty. Muslim refugees from countries listed in the final travel ban have been doubly hit, and may not be able to reunite with their families at all.

      But the effects of the Trump-era refugee policy don’t just affect individual families. In Buffalo, New York—another Rust Belt city that has been reinvigorated by new residents from refugee communities—medical clinics have closed down, housing developments have stalled, and employers have been left looking for employees, The Buffalo News reported. The loss for refugees hoping to come to America appears to also be a loss for the communities they might have called home

      The biggest argument for refugee resettlement is that it is a moral imperative, many advocates argue. Refugees are human beings fleeing terrible circumstances; assisting them is just the right thing to do. Foes of taking refugees—most notoriously, White House advisor Stephen Miller, who is quoted as saying that he would “be happy if not a single refugee foot ever touched American soil again” in a new book by a former White House communication aide—point to the perceived costs and dangers of taking in more. Past analyses shows little basis to that fear. In fact, cities with large refugee populations have seen drops in crime, per a previous NAE’s analysis. And according to NBC News, an intelligence assessment that included inputs from the FBI concluded that refugees did not pose a major national security threat. The Trump administration dismissed its findings.

      https://www.citylab.com/equity/2019/01/refugee-admissions-resettlement-trump-immigration/580318
      #USA #Etats-Unis #démographie

  • Le premier « ghetto pour #riches » de Suisse va voir le jour en #Thurgovie
    http://www.rts.ch/info/regions/autres-cantons/9458456-le-premier-ghetto-pour-riches-de-suisse-va-voir-le-jour-en-thurgovie.htm
    https://www.rts.ch/2018/04/03/11/30/9458455.image?w=624&h=351

    Un projet immobilier destiné aux (très) riches va voir le jour sur les rives du lac de Constance, relatent le Tages Anzeiger et le Bund mardi. Ce sera probablement la première résidence sécurisée de Suisse.

    Un total de 17 appartements sont à vendre, entre 1,6 et 5 millions de francs l’unité, sur une immense parcelle au bord de l’eau. Chacun aura sa piscine privée - en plus du bassin couvert commun, du fitness et du spa, du service de limousines ou du garage climatisé pour voitures de collection.

    La résidence sera surtout dotée d’une très haute clôture et de caméras de surveillance, alors que des patrouilles veilleront jour et nuit à la sécurité des résidents. Les deux quotidiens alémaniques désignent ce futur lotissement très sélect comme le « ghetto pour riches du lac de Constance. »

    Le chantier doit démarrer en mai sur la commune d’Uttwil (TG), au bord du lac et à côté du camping municipal. L’ouverture est prévue en été 2019.
    De riches Suisses en quête d’une communauté pour seniors

    Les promoteurs expliquent que les appartements se vendent bien - à des Suisses et non pas à des Arabes ou à des Russes, précisent-ils. Il s’agit de personnes de plus de cinquante ans, parmi lesquelles des médecins ou des entrepreneurs, et qui préfèrent parler de communauté pour seniors plutôt que de résidence de luxe.

    L’architecte en charge du projet rejette catégoriquement l’image de ghetto. Il n’y aura ni barbelés ni bergers allemands, précise-t-il.

    Ces copropriétés sécurisées sont très répandues en Amérique, du Nord et du Sud, mais pas du tout en Suisse. Les Verts s’étaient pourtant déjà inquiétés en 2009 d’une possible arrivée de ce modèle sur territoire helvétique.
    « Un modèle de ségrégation » selon le Conseil fédéral

    Dans sa réponse à leur postulat, le Conseil fédéral avait déclaré alors qu’il n’y en avait pas en Suisse. Il soulignait à cette occasion que ces résidences fermées étaient un modèle de ségrégation mettant en danger la cohésion de la société. Le gouvernement estimait qu’il fallait donc à tout prix éviter leur émergence en Suisse.

    Les habitants et les autorités de la commune thurgovienne d’Uttwil, eux, sont contents de l’arrivée de ce lotissement baptisé « Port du Navire ». La parcelle était en friche depuis la faillite - il y a plus de dix ans - de l’armateur allemand qui y avait installé son siège.

    Alain Arnaud/oang

    #suisse #ghetto @cdb_77

    • A contre-courant, #Sarajevo affiche sa solidarité

      Quelque 600 migrants parmi les 8 000 entrés dans le pays depuis le début de l’année sont actuellement en transit dans la capitale.

      La scène est devenue familière. Sur le parking de la gare de Sarajevo, ils sont environ 300 à former une longue file en cette soirée chaude de juillet. S’y garera bientôt une camionnette blanche d’où jailliront des portions des incontournables cevapcici bosniens, quelques rouleaux de viande grillée servis dans du pain rond, accompagnés d’un yaourt. Une poignée de femmes et quelques enfants se mêlent à ces jeunes hommes, venus de Syrie, d’Irak, du Pakistan ou d’Afghanistan et de passage en Bosnie sur la route vers l’Europe de l’Ouest. Environ 600 des 8 000 migrants entrés dans le pays depuis le début de l’année sont actuellement en transit dans la capitale. La majorité est bloquée dans le nord-ouest, en tentant de passer en Croatie.

      « Ici, l’accueil est différent de tous les pays par lesquels nous sommes passés. Les gens nous aident. Ils essaient de nous trouver un endroit où prendre une douche, dormir. Les flics sont corrects aussi. Ils ne nous tabassent pas », raconte un Syrien sur les routes depuis un an. Plus qu’ailleurs, dans la capitale bosnienne, les habitants tentent de redonner à ces voyageurs clandestins un peu de dignité humaine, de chaleur. « Les Sarajéviens n’ont pas oublié que certains ont été eux-mêmes des réfugiés pendant la guerre en Bosnie[1992-1995, ndlr]. Les pouvoirs publics ont mis du temps à réagir face à l’arrivée des migrants, contrairement aux habitants de Sarajevo qui ont d’emblée affiché une solidarité fantastique. Grâce à eux, une crise humanitaire a été évitée au printemps », affirme Neven Crvenkovic, porte-parole pour l’Europe du Sud-Est du Haut Commissariat des Nations unies pour les réfugiés.

      En avril, 250 migrants avaient mis en place un campement de fortune, quelques dizaines de tentes, dans un parc du centre touristique de Sarajevo. L’Etat qui paraissait démuni face à cette situation inédite ne leur fournissait rien. « Dès que nous avons vu venir des familles, nous nous sommes organisés. Des gens ont proposé des chambres chez eux, ont payé des locations », raconte une bénévole de Pomozi.ba, la plus importante association humanitaire de Sarajevo. L’organisation, qui ne vit que des dons des particuliers en argent ou en nature, sert actuellement un millier de repas par jour dans la capitale bosnienne et distribue vêtements et couvertures. Lors du ramadan en mai, 700 dîners avaient été servis. Des nappes blanches avaient été disposées sur le bitume du parking de la gare de Sarajevo.

      Non loin de la gare, un petit restaurant de grillades, « le Broadway », est tenu par Mirsad Suceska. Bientôt la soixantaine, cet homme discret apporte souvent des repas aux migrants. Ses clients leur en offrent aussi. Il y a quelques semaines, ils étaient quelques-uns à camper devant son établissement. Un groupe d’habitués, des cadres qui travaillent dans le quartier, en sont restés sidérés. L’un d’eux a demandé à Mirsad de donner aux migrants toute la nourriture qui restait dans sa cuisine. « Quand je les vois, je pense aux nôtres qui sont passés par là et je prends soin de ne pas les heurter, les blesser en lançant une remarque maladroite ou un mauvais regard », explique Mirsad. Dans le reste du pays, la population réserve un accueil plus mitigé à ces voyageurs.

      http://www.liberation.fr/planete/2018/07/29/a-contre-courant-sarajevo-affiche-sa-solidarite_1669608

    • Et au contraire... la #non-hospitalité

      Le guide de l’hospitalité que n’a pas écrit #Christian_Estrosi

      En juillet 2013, le maire LR de #Nice, Christian Estrosi, envoyait à 3 500 édiles ses recommandations pour éviter la concentration de populations migrantes. Le Perou, un collectif d’urbanistes, a adressé en juillet aux mêmes communes un guide de l’hospitalité, issu de leurs expériences dans des bidonvilles.

      http://www.liberation.fr/france/2018/08/07/le-guide-de-l-hospitalite-que-n-a-pas-ecrit-christian-estrosi_1671153

      Pour télécharger le #guide du #Perou :
      http://www.romeurope.org/wp-content/uploads/2018/08/Guide_PEROU_images.pdf

    • Barcellona e Open Arms si uniscono per salvare vite umane nel Mediterraneo

      La nave #Open_Arms avrebbe dovuto lasciare il porto di Barcellona in direzione della zona SAR della Libia per continuare il suo compito umanitario di osservazione e salvataggio, ma la Capitaneria di porto, che dipende dal Ministero dello Sviluppo spagnolo, le ha negato l’autorizzazione a partire fino a quando non sarà garantito un accordo con le autorità della zona SAR del Mediterraneo per lo sbarco delle persone salvate in mare. È improbabile che ciò avvenga, vista la chiusura dei porti di Italia e Malta.

      In risposta, la sindaca di Barcellona Ada Colau ha inviato una lettera al Ministro dello Sviluppo, José Luis Ábalos, chiedendo l’immediata revoca del blocco della nave OpenArms. La sindaca esprime la preoccupazione che per ragioni amministrative il governo spagnolo non riesca a proteggere i migranti che intraprendono un viaggio molto pericoloso attraverso il Mediterraneo, in fuga dall’orrore. Esorta inoltre il Ministero ad attuare le azioni necessarie per superare il più rapidamente possibile gli ostacoli amministrativi che impediscono alla nave di lasciare il porto di Barcellona.

      Allo stesso modo, il Comune di Barcellona ha firmato un accordo di collaborazione con Open Arms per lo sviluppo del progetto della fondazione per la protezione dei migranti a rischio di naufragio e conseguente pericolo di morte imminente per le aree SAR nel Mediterraneo centrale come emergenza umanitaria. L’accordo persegue inoltre l’obiettivo di denunciare la situazione di violazione dei diritti umani nel Mediterraneo.

      Il progetto Open Arms “Protezione per presenza, soccorso umanitario e comunicazione di emergenza nel Mediterraneo” si articola in tre filoni di lavoro:

      – Protezione attraverso la presenza nella zona SAR, la visibilità come deterrente per eventuali violazioni dei diritti umani e la garanzia di protezione per le persone trovate in mare.

      – Protezione attraverso l’azione, con il salvataggio di persone in pericolo di morte in acque SAR e sbarco con garanzie di sicurezza.

      – Comunicazione di emergenza, per rendere visibile e denunciare l’attuale situazione di violazione dei diritti dei migranti nel viaggio attraverso il Mediterraneo e le sue frontiere.

      L’accordo, in vigore fino all’ottobre del 2019, finanzierà con 497.020 euro il 35,4% del progetto della ONG. Con questo contributo la città di Barcellona si riafferma come città rifugio, vista la presenza minima di ONG nel Mediterraneo centrale dalla scorsa estate a causa della chiusura dei porti italiani e maltesi e della criminalizzazione e blocco delle imbarcazioni delle ONG di soccorso umanitario.

      Il Comune di Barcellona e Open Arms concordano sul fatto che la situazione di crisi e il blackout umanitario al largo delle coste libiche richiedano un’azione di emergenza con il massimo sostegno delle istituzioni pubbliche, in particolare delle città europee, sull’esempio di questo accordo.


      https://www.pressenza.com/it/2019/01/barcellona-e-open-arms-si-uniscono-per-salvare-vite-umane-nel-mediterrane

      #Barcelone

    • Siracusa pronta ad accogliere i migranti della Sea Watch. Sindaco: «Cittadini disponibili a ospitarli nelle loro case»

      Il primo cittadino del capoluogo aretuseo, #Francesco_Italia, ha già scritto al ministro della Marina mercantile chiedendo di consentire l’attracco della nave. «Al resto, penseremo noi, la Curia e le associazioni di volontariato disposte a prestare aiuto»

      https://meridionews.it/articolo/73871/siracusa-pronta-ad-accogliere-i-migranti-della-sea-watch-sindaco-cittadi
      #Syracuse #Siracusa

    • Numéro spécial sur villes et hospitalité de la revue Plein Droit :

      À rebours des politiques migratoires impulsées par les États, des municipalités ont décidé de se montrer solidaires des migrant⋅e⋅s qui passent ou qui s’installent sur leur territoire, et de leur venir en aide, voire de les protéger contre des autorités étatiques qui ne cherchent qu’à les chasser. Villes-refuge, villes sanctuaires, villes solidaires, villes d’asile, villes rebelles, les qualificatifs sont aussi nombreux que les degrés d’hospitalité qui vont de l’affichage médiatique à une réelle politique municipale qui crée les conditions d’un accueil digne des exilé⋅e⋅s. Et quand les municipalités se montrent également hostiles à l’égard des migrant⋅e⋅s, il arrive que les citoyen⋅ne⋅s prennent le relais, faisant fi des menaces institutionnelles, de la pression policière ou du climat xénophobe, parfois pour parer à l’urgence humanitaire, parfois pour favoriser une réelle cogestion fondée sur l’autonomie. Ces expériences multiples d’hospitalité et d’activisme local montrent que l’humanité peut l’emporter sur la fermeté, n’en déplaise aux gouvernements.


      https://www.gisti.org/spip.php?article5812

    • #BD publiée par @vivre sur la commune de #Fourneaux :

      La BD reportage « Après l’arrivée » raconte une histoire d’accueil. Comment 33 réfugiés, débarquant du jour au lendemain de la jungle de Calais, s’inscrivent dans le récit d’une commune de Savoie et de ses habitants. Un dessinateur, HERJI, une journaliste, Julie Eigenmann, sont partis à leur rencontre et ont ramené dans leur valise ce reportage dessiné. L’histoire pourrait se dérouler un peu partout sur la planète, parce qu’il s’agit d’humanité, de partage et de ces rencontres qui montrent qu’un autre monde est possible.


      https://asile.ch/sommaire/ve-165-decembre-2017

    • #Convention_sur_l'accueil de #Grande-Synthe :

      Dans un contexte de sécurisation et de fermeture des frontières européennes, l’#accueil des réfugiés s’impose dans le débat public et dans nos réalités locales.

      Grande-Synthe reçoit la Convention nationale sur l’accueil et les migrations, 2 jours de débats pour réfléchir collectivement à une politique d’accueil fondée sur la solidarité et le respect des droits humains et pour questionner les pouvoirs publics. Avec la participation de nombreuses associations et ONG impliquées quotidiennement ainsi que de personnalités : Anne Hidalgo (Maire de Paris), Benjamin Stora (Historien, Professeur et Président du Musée national de l’histoire de l’immigration), Edwy Plenel (Médiapart), Eric Piolle (Maire de Grenoble), Frederic Leturque (Maire d’Arras), Pierre Laurent (Secrétaire national du PCF) mais également Benoit Hamon, Aurélien Taché (Député LREM), Eric Coquerel (Député – France Insoumise), Michel Agier (Dir. d’études à l’EHESS), Rony Brauman (co-fondateur de MSF) , Cédric Herrou, ainsi que des représentants du HCR, de la Cimade, de MDM et des associations locales…

      Autour de cette convention ouverte à tous, une programmation culturelle plurielle : expo, humour, concert, docus…

      http://convention-accueil-grande-synthe.fr

    • Des dizaines de villes inventent une politique d’accueil des migrants

      Jeudi et vendredi s’est tenue à Grande-Synthe la première #Convention_nationale_sur_l’accueil_et_les_migrations. Des élus aux associatifs, tous les acteurs de l’aide aux migrants ont jeté des ponts entre les initiatives locales, cherchant à construire un réseau des villes accueillantes.

      https://reporterre.net/Des-dizaines-de-villes-inventent-une-politique-d-accueil-des-migrants

    • Entre accueil et rejet : ce que les villes font aux migrants. Ce que les villes font aux migrants

      ce livre permet de mieux comprendre la diversité et la complexité des formes de l’accueil des migrants sur notre continent. Il nous fait saisir comment cet enjeu refaçonne les liens sociaux, les valeurs et les émotions collectives, et interroge les définitions pratiques de la citoyenneté prise dans un jeu de frontières. Dans un contexte d’anxiété identitaire qui se manifeste par la fermeture des frontières, le confinement et les expulsions, ce livre montre que la ville peut constituer un pôle de résistance et de contournement, voire de renversement des décisions de l’État central.

      Il est constitué d’enquêtes claires et approfondies menées dans plusieurs grandes villes européennes (Paris, Copenhague, Berlin, Barcelone, Istanbul…), et de témoignages d’acteurs concernés (migrants, militants, observateurs directs…).

      http://lepassagerclandestin.fr/catalogue/bibliotheque-des-frontieres/entre-accueil-et-rejet-ce-que-les-villes-font-aux-migrants.html

    • Les ciutats fan front a la necessitat urgent d’habitatge públic

      Les ciutats europees han de fer front a la necessitat urgent d’habitatge públic. Per això, molts governs municipals estan reforçant les seves polítiques amb mecanismes innovadors que permetin fer front a la crisi de l’habitatge i a l’expulsió dels veïns dels seus barris.

      L’Ajuntament de Barcelona ha presentat un projecte per construir pisos d’estada temporal de construcció ràpida, sostenible i de qualitat. La iniciativa, anomenada APROP (Allotjaments de Proximitat Provisional), oferirà una resposta urgent mentre es construeixen les promocions d’habitatge públic, que requereixen de més temps.

      Responsables del consistori barceloní van explicar ahir aquest projecte en un acte organitzat per l’Observatori DESC i el propi Ajuntament.

      La jornada, anomenada ‘Urgent: solucions innovadores en habitatge públic’, es va celebrar al Pati Manning de Barcelona i hi van participar representants de les ciutats d’Amsterdam i Munic, a banda d’entitats com la Federació d’Associacions de Veïns i Veïnes de Barcelona (FAVB), la Fundació Hàbitat 3 i l’Institut de Tecnologia de la Construcció de Catalunya (ITeC), entre d’altres.

      http://ajuntament.barcelona.cat/lescorts/ca/noticia/les-ciutats-fan-front-a-la-necessitat-urgent-dhabitatge-pzblic

      Et dans ce cadre, le projet #APROP:
      https://www.barcelona.cat/infobarcelona/en/temporary-local-housing-to-combat-gentrification-2_622017.html
      #Barcelone

    • Sanctuary in the City : #Beirut

      The world’s refugee crisis is a global responsibility that is especially discharged locally, in particular, in Lebanon, where refugees and displaced persons form a large percentage of the national population. Since the beginning of the Syrian Crisis in March 2011, Lebanon has been a refuge for many hundreds of thousands of people fleeing war. This project explores how municipalities cope with the crisis within the normative framework of human rights and corresponding obligations. It seeks to give voice to the experience of Beirut among the world’s cities claiming to apply that framework in policies, practice, services and local democratic leadership and administration.

      Through a series of workshops and other survey tools, the project captures the expressions, principles and experiences of local governance amid the refugee/displacement crisis. It seeks to channel the experience of refugees, civil society and local authorities by expressing operational principles and allows people in Beirut to identify what works and what could work better.

      One outcome of the project will be a local charter that gives voice to this community of practice among the world’s cities that are facing comparable challenges. The charter will form a basis for exchange, mutual learning and guidance for local administrations in future. The Beirut charter is seen as one tangible way to give credit to the people of Beirut for their role in assuming a local responsibility that the wider world shares.

      http://hic-mena.org/spage.php?id=qG8=

      Ici pour télécharger la charte de la ville de Beirut :
      http://www.hlrn.org/img/documents/Beirut_Charter_to_share_EN.pdf
      #ville-refuge

    • Migrants’ (Denied) Right to the City

      The history of cities in the Indian sub-continent goes as far as the middle of the third millennium BC with the emergence of cities like Harappa and Mohenjo Daro in the Indus valley (Champakalakshmi 2006:8). During different phases of Indian history, many new cities have emerged and many have declined, shaping the history of India (Ramachandran 1995). The dynamics of city growth shows that migration has been a very important component as cities were centres of trade, manufacturing and services. These functions could not have been sustained without migration and migrant labour. People migrate to cities not only for work, but also on account of business, education, marriages, natural disasters and conflicts etc. As cities have evolved through various migrations over a long period of time, they are characterized by diversity in terms of ethnic and religious identities, occupations, language, culture, food habits and so on. In fact heterogeneity is the hallmark of cities and innovations -in which migrants have played a very significant role -are central to their existence. Migration, especially internal migration, contributes significantly to the growth of Indian cities. The Indian Constitution guarantees freedom of movement and freedom to settle within the territory of India as a fundamental right of all citizens (Article 19). Yet migrants face several barriers in terms of access to civic amenities, housing and employment, as well as restrictions on their political and cultural rights because of linguistic and cultural differences. These discriminations are articulated in various parts of India in the theory of ’sons of the soil’, which evokes anti migrant sentiments (Weiner 1978, Hansen 2001). Migrants are all the more vulnerable to discrimination and exploitation as many of them are poor, illiterate and live in slums and hazardous locations prone to disaster and natural calamities. As such, the condition of migrants in cities needs to be addressed squarely in urban policies and programmes.

      https://www.researchgate.net/publication/234169322_Migrants'_Denied_Right_to_the_City

    • Mobile Commons, Migrant Digitalities and the Right to the City

      This book examines the relationship between urban migrant movements, struggles and digitality which transforms public space and generates mobile commons. The authors explore heterogeneous digital forms in the context migration, border-crossing and transnational activism, displaying commonality patterns and inter-dependence.



      https://www.palgrave.com/us/book/9781137412317
      #livre

    • Ce qu’ils font est juste : ils mettent la solidarité et l’hospitalité à l’honneur

      L’étranger est par essence louche, suspect, imprévisible, retors, de taille à commettre des avanies, même s’il survit dans le plus profond dénuement, s’il souffre de la faim, du froid, qu’il n’a pas de toit pour se protéger. L’étranger, homme, femme ou enfant, représente toujours un danger, qu’il faut combattre à tout prix.

      La loi dispose que « toute personne qui aura, par aide directe ou indirecte, facilité ou tenté de faciliter l’entrée, la circulation ou le séjour irrégulier d’un étranger en France » encourt jusqu’à 5 ans d’emprisonnement et 30 000 euros d’amende.

      Cette sanction pénale est réservée aux « aidants » désintéressés, animés par le seul élan d’humanité et de dignité vis-à-vis d’eux-mêmes et de ceux voués à tout juste subsister. Ils ont choisi, en connaissance de cause, de commettre ce qu’on appelle le « délit de solidarité » ou « d’hospitalité ». Des expressions devenues familières, dans leur obscénité, depuis qu’on a vu traduits devant les tribunaux des « désobéissants », paysans, professeurs, élus municipaux, citoyens bienfaisants coupables d’avoir, sans contrepartie d’aucune sorte, secouru, protégé, rendu service à des hommes, femmes et enfants qui n’avaient pas l’autorisation de fouler la terre française.

      Les élections présidentielle et législatives en France ont fourni l’occasion d’une chasse aux désobéissants, comme si la majorité des candidats s’étaient accordés pour rassurer l’opinion en la sommant de collaborer : la France ne laissera pas entrer chez elle des hordes de réfugiés, de migrants si menaçants. Chaque jour a apporté son nouveau délinquant, lequel n’a pas désarmé, il est entré en résistance. Il offre le gîte, le couvert, la circulation à des exilés miséreux, il est capturé par des policiers, punit par des magistrats… et il recommence, parce que l’hospitalité et la solidarité ne sont pas une faveur mais un droit, un devoir et qu’il aime accomplir ce devoir-là.

      Des écrivains ont accepté avec enthousiasme d’écrire, à leur guise, dans une nouvelle, fiction ou rêverie, leur respect pour ces gens de bien, et leur inquiétude de voir agiter les spectres de graves menaces incarnés par des êtres humains réduits à peu de choses. Pas seulement : c’est aussi vers l’Autre que va leur curiosité, l’Autre qui gagne toujours à être connu et non chassé.

      http://www.donquichotte-editions.com/donquichotte-editions/Argu.php?ID=147

  • Migranti soccorsi nel Mediterraneo, cade l’obbligo di trasferirli in Italia

    Il nuovo accordo siglato dal Dipartimento Immigrazione del Viminale con #Frontex

    I migranti soccorsi nel Mediterraneo dovranno essere trasferiti nel porto più vicino. E dunque cade l’obbligo che vengano portati direttamente in Italia, come era invece previsto dalla missione Triton. È quanto prevede il nuovo accordo siglato dall’Italia con Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Nell’intesta siglata dai rappresentati del Dipartimento di immigrazione del Viminale con i rappresentanti Ue si prevede di arretrare la linea di pattugliamento dei nostri mezzi navali a 24 miglia, restringendo in questo modo il campo d’azione.
    In una nota Frontex sottolinea come la nuova operazione nel mar Mediterraneo centrale, «servirà per assistere l’Italia nelle attività di controllo dei confini». La nuova operazione congiunta si chiamerà Themis, «inizierà il 1 febbraio e sostituirà l’operazione Triton lanciata nel 2014. L’operazione Themis continuerà a includere la ricerca e soccorso come componente cruciale. Allo stesso tempo, la nuova operazione avrà un focus rafforzato sulle forze dell’ordine». L’area in cui sarà operativa «coprirà il mar Mediterraneo centrale, dalle acque che coprono i flussi da Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Turchia e Albania».

    http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/18_gennaio_31/migranti-soccorsi-mediterraneo-cade-l-obbligo-trasferirli-italia-168b6

    #Italie #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #contrôles_frontaliers #frontières #opération_Themis #frontières_mobiles
    cc @isskein

    • Frontex lance une opération en Méditerranée centrale, nommée Thémis
      Dénommée Themis, cette opération démarre ce 1er février. Elle remplace l’opération Triton, lancée en 2014. L’opération Themis continuera d’inclure la recherche et le sauvetage. Des missions menées sous la coordination des « différents centres de coordination du sauvetage maritime responsables ». Mais la nouvelle opération aura aussi un axe plus important sur le respect de la loi. Sa zone opérationnelle s’étendra sur la mer Méditerranée centrale dans les eaux couvrant les flux venant d’Algérie, de Tunisie, Libye, Egypte, Turquie et Albanie. NB : la zone d’opération est donc plus large que celle de l’opération Sophia, puisqu’elle couvre également le flanc est (Egypte, Turquie) et le flanc ouest (Algérie) et l’Adriatique.

      Dans le cadre de cette opération, Frontex va aussi poursuivre sa présence dans les hotspots en Italie, où les agents déployés par l’agence aideront les autorités nationales à enregistrer les migrants, notamment en prenant leurs empreintes digitales et en confirmant leur nationalité.

      –-> sauf que le programme de #relocalisations n’est plus actif... pauvre Italie, obligée de prendre des empreintes digitales, mais plus possible de compter sur le programme de relocalisation (même si c’était un échec)

      Le volet sécurité de l’opération Themis comprendra également la collecte de #renseignements et d’autres mesures visant à détecter les #combattants_étrangers et autres menaces terroristes aux frontières extérieures.

      #terrorisme #ISIS #Etat_islamique

      http://www.bruxelles2.eu/2018/01/31/frontex-lance-une-operation-en-mediterranee-centrale-nommee-themis

      –-> Dans cet article il n’est pas fait mention d’un élément mis en avant par Il Corriere :

      I migranti soccorsi nel Mediterraneo dovranno essere trasferiti nel porto più vicino. E dunque cade l’obbligo che vengano portati direttamente in Italia, come era invece previsto dalla missione Triton. È quanto prevede il nuovo accordo siglato dall’Italia con Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Nell’intesta siglata dai rappresentati del Dipartimento di immigrazione del Viminale con i rappresentanti Ue si prevede di arretrare la linea di pattugliamento dei nostri mezzi navali a 24 miglia, restringendo in questo modo il campo d’azione.

      –-> les personnes sauvées en Méditerranée devront être transférées dans le #port_le_plus_proche, il n’y a plus l’obligation de les transporter en Italie... Le port le plus proche = retour en Libye, notamment...
       :-(

    • Frontex launching new operation in Central Med

      Frontex, the European Border and Coast Guard Agency, is launching a new operation in the Central Mediterranean to assist Italy in border control activities.

      The new Joint Operation Themis will begin on 1 February and will replace operation Triton, which was launched in 2014. Operation Themis will continue to include search and rescue as a crucial component. At the same time, the new operation will have an enhanced law enforcement focus. Its operational area will span the Central Mediterranean Sea from waters covering flows from Algeria, Tunisia, Libya, Egypt, Turkey and Albania.

      “Operation Themis will better reflect the changing patterns of migration, as well as cross border crime. Frontex will also assist Italy in tracking down criminal activities, such as drug smuggling across the Adriatic,” said Frontex Executive Director Fabrice Leggeri.

      The security component of Operation Themis will include collection of intelligence and other steps aimed at detecting foreign fighters and other terrorist threats at the external borders.

      “We need to be better equipped to prevent criminal groups that try to enter the EU undetected. This is crucial for the internal security of the European Union,” Leggeri said.

      As part of Operation Themis, Frontex will continue its presence in the hotspots in Italy, where officers deployed by the agency will assist the national authorities in registering migrants, including taking their fingerprints and confirming their nationalities.

      Frontex vessels will continue search and rescue operations under the coordination of the responsible Maritime Rescue Coordination Centres. Last year, Frontex assisted in the rescue of 38 000 people at sea in operations in Italy, Greece and Spain.

      http://frontex.europa.eu/thumb/Images_News/2018/new_misson_planning_small.prop_300x.37d0f4e879.JPG
      http://frontex.europa.eu/news/frontex-launching-new-operation-in-central-med-OESzij

    • FRONTEX ed il governo italiano contro il diritto internazionale del mare, contro il diritto alla vita dei migranti

      Un articolo del Corriere della Sera ha anticipato la nuova operazione Themis di Frontex che dovrebbe sostituire la precedente operazione TRITON e limitare il ruolo dei mezzi italiani nelle attività di soccorso, addirittura a 24 miglia a sud di Lampedusa, con la possibilità di sbarcare i naufraghi soccorsi in alto mare ( in acque internazionali) nel “porto più vicino” e non nel “place of safetty” imposto dalle Convenzioni internazionali di Montego Bay (UNCLOS) del 1984 e di Amburgo (SAR) del 1979.

      Risalendo alla fonte della notizia le informazioni diffuse dal Corriere appaiono frutto di una visione fortemente influenzata dai rapporti con le polizie e i servizi di informazione. La posizione ufficiale di Frontex è affidata ad un comunicato. Ma un comunicato di polizia non costituisce fonte del diritto. Almeno finora.

      https://www.a-dif.org/2018/02/01/frontex-ed-il-governo-italiano-contro-il-diritto-internazionale-del-mare-cont

    • Con Themis le navi Ue riporteranno i migranti salvati in Libia? No, ma...

      La nuova Operazione dell’agenzia europea Frontex fa prevalere l’opzione del porto più vicino rispetto a quello più sicuro: stop alla prassi di arrivo esclusivo in Italia e incertezza sui futuri luoghi di sbarco, anche se Frontex stessa rassicura sul rispetto della legge marittima internazionale. Manzione, sottosegretario agli Interni: “L’Europa si conferma a due velocità sul tema migranti: per le operazioni di controllo delle frontiere si decide rapidamente, per le alternative ai drammatici viaggi in mare - come i corridoi umanitari - non si arriva mai al dunque”

      http://www.vita.it/it/article/2018/02/01/la-ue-riportera-i-migranti-salvati-in-libia-dietro-le-quinte-della-nuo/145828

    • Opération Thémis. L’agence Frontex agit-elle sans contrôle démocratique ?

      Le lancement récent d’une nouvelle opération au large de la Méditerranée par le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes (l’agence Frontex) est interpellant.

      Un objectif très flou

      Le communiqué diffusé à cette occasion laisse planer un certain flou et pose plus de questions qu’il n’en résout. La nouvelle opération s’occupe à la fois de recherche et sauvetage en mer, de renforcement de la loi, de lutte contre la criminalité, contre les réseaux terroristes (lire : Frontex lance une opération en Méditerranée centrale, nommée Thémis). Mais on ne comprend pas vraiment bien l’objectif de la nouvelle mission.

      Une proximité d’objectifs avec EUNAVFOR Med

      Nous avons demandé des précisions à Frontex (basée à Varsovie), surtout sur la façon dont les deux opérations EUNAVFOR Med et Thémis allaient se coordonner. La réponse reçue tout à l’heure (à 13h) est un peu vasouillarde…. Tout d’abord, on nous a annoncé doctement que THEMIS était civile là où EUNAVFOR Med militaire. Une vraie information ! (1). Ensuite, on nous a expliqué que cette mission n’avait pour fonction que le sauvetage en mer et n’avait pas pour tâche la lutte contre les trafics de migrants. Ce qui est, là, en pleine contradiction avec l’énoncé même du communiqué officiel.

      « At the same time, the new operation will have an enhanced law enforcement focus. Its operational area will span the Central Mediterranean Sea from waters covering flows from Algeria, Tunisia, Libya, Egypt, Turkey and Albania. « Operation Themis will better reflect the changing patterns of migration, as well as cross border crime. (…) said Frontex Executive Director Fabrice Leggeri.

      Les mots ne sont pas totalement identiques. Mais ils sont très proches des mots employés pour l’opération EUNAVFOR Med. En tout cas, rien ne permet de faire un réel distinguo entre les deux opérations.

      Une opération déployée sans contrôle démocratique

      Ce raté dans la communication révèle en fait un problème plus général. A la différence des opérations PSDC, qui opèrent dans un cadre précis, ces opérations sont menées sans aucun cadre ni autorisation légale. Certes il y a un règlement définissant l’action du corps européen, certes il y a eu un plan d’opération approuvé au sein de Frontex, en accord avec le pays d’origine. Mais tout cela se fait de façon discrète, « sous la table », à un niveau infrapolitique, sans approbation formelle, ni transparence. Bref, sans contrôle démocratique d’une façon ou d’une autre et sans aucune transparence. Ce qui est contraire aux règles, et surtout, à l’esprit européen.

      … sans aucun cadre légal publié

      Aucune autorité politique compétente au niveau de l’Union européenne — le conseil des ministres par exemple — n’a approuvé une telle opération. Aucune décision cadre n’en a fixé l’objectif, les moyens, les limites, voire la zone d’opération. Aucune décision n’a été publiée au journal officiel ou sur un autre support. Aucune information n’a été donnée sur le coût de cette opération, ni sa durée. Aucun procès verbal n’a été constaté et est accessible publiquement. Aucune information au parlement européen n’a été effectuée officiellement. Aucune traduction même dans les principales langues concernées par cette opération n’a été publiée.

      Une absence de justification expliquant l’exception

      Les bons esprits estimeront sans doute que la nécessité opérationnelle impose cette absence de formalisme. On peut douter de la pertinence de cet argument, du moins au plan européen. Une opération militaire menée au nom de l’Union européenne, financée par les seuls États membres, respecte toutes ces conditions : une décision cadre est approuvée par les ministres et publiée au journal officiel dans toutes les langues. Elle fixe l’objectif, les missions, les moyens, les règles tenant au secret et à la protection des données, donne des indications sur la zone d’opération, le budget affecté, la durée de l’opération et le contrôle politique de l’opération.

      Commentaire : les militaires respectent une certaine obligation démocratique, pourquoi pas les garde-frontières ?

      On peut se demander pourquoi une opération civile, menée toujours au nom de l’Union européenne, dans un cadre communautaire, avec de l’argent communautaire, sous une hiérarchie communautaire, puisse s’abstraire du respect de ces procédures. Quel est le raisonnement politique, démocratique, constitutionnel, juridique, qui peut justifier pareille exception ? (2) Les militaires y arrivent très bien, le corps des garde-frontières et des garde-côtes européens s’il veut garder sa pertinence et sa légitimité devrait y arriver fort bien.

      (Nicolas Gros-Verheyde)

      (1) Ce qui est un peu prendre le public européen pour un imbécile. Nos questions sur l’utilité d’avoir deux opérations plus ou moins dans la même zone, avec plus ou moins les mêmes objectifs, les moyens de coordination, l’utilisation adéquate des financements européens est en revanche restée sans réponse.

      (2) Nous avons demandé la raison d’un tel manque. Aucune réponse satisfaisante n’a été fourni.

      https://www.bruxelles2.eu/2018/02/01/lagence-frontex-est-elle-democratique

    • #Themis: la missione di Frontex voluta da Minniti di cui ora dispone Matteo Salvini

      Themis sostituisce la vecchia missione #Triton, con un mandato allargato e che poco si concentra sugli sbarchi dalla Libia. Per la prima volta una missione dell’agenzia europea Frontex supporta le forze dell’ordine marittime di un governo che dice di voler respingere i “clandestini” direttamente in mare.

      Il 28 agosto 2014 la Lega non era ancora al governo, e Matteo Salvini si esprimeva così sulla sua pagina Facebook: “Secondo voi dire che FRONTEX PLUS è una PRESA PER IL CULO è troppo forte??? Il 18 ottobre TUTTI A MILANO per dire NO a Mare Nostrum, Frontex, Frontex Plus o come diavolo vorranno chiamare operazioni che, invece di respingere i clandestini, favoriscono l’invasione!”.

      #Frontex_Plus, diventata poi Triton, è stata fino a febbraio di quest’anno la missione di Frontex a difesa della frontiere marittime italiane. Non è “indipendente”: infatti lo scopo è il supporto ai mezzi italiani impiegati per la ricognizione in mare, cioè Guardia di Finanza, Guardia costiera e Polizia di stato. L’Agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere – Frontex appunto – finanzia e aiuta il coordinamento della missione Themis, mentre i paesi partecipanti contribuiscono mettendo a disposizione uomini e mezzi, a seconda delle esigenze espresse dall’Italia.

      Alla fine del 2016, la storia tra Salvini e Frontex ha preso un’altra piega: il Financial Times ha pubblicato il famoso report interno (ve ne raccontammo qui: http://openmigration.org/analisi/accuse-alle-ong-cosa-ce-di-falso-o-di-sviante) in cui l’agenzia sosteneva che i trafficanti dessero ai migranti “precise indicazioni prima di partire per raggiungere le navi delle Ong”. Luigi Di Maio, ad aprile 2017, ha attribuito a un altro report di Frontex (Risk Analysis 2017: https://frontex.europa.eu/assets/Publications/Risk_Analysis/Annual_Risk_Analysis_2017.pdf) la tanto citata espressione “taxi del mare” per definire le Ong. Quella frase nel report non c’è, ma ci sono critiche all’atteggiamento poco collaborativo delle Ong e a salvataggi che avverrebbero “prima di chiamate d’emergenza”.

      Quello è stato l’inizio delle intese tra Lega e Cinque Stelle sull’immigrazione, con Frontex citata a sostegno delle argomentazioni anti-Ong – il primo atto della campagna condotta dalla procura di Catania e dal suo capo Carmelo Zuccaro. “Io sto con Zuccaro, io sto con Frontex”, diceva Salvini a maggio 2017, “che certificano, sostengono e confermano quello che qualunque normodotato in Italia e nel mondo ha ormai intuito: l’immigrazione clandestina è organizzata, finanziata, è un business da 5 miliardi di euro e ha portato a 13 mila morti sul fondo del mare”.

      Ora la missione di Frontex cominciata a febbraio è cambiata per nuove esigenze dell’Italia. La “revisione” del mandato è cominciata a luglio del 2017 per volere dell’allora ministro Marco Minniti, che aveva inserito questa missione nella strategia più complessiva dell’Italia in Libia. Come vedremo, il compito principale di raccordo con le autorità marittime locali lo svolge la Marina Militare.

      La nuova missione di Frontex è stata battezzata Themis. È la prima a supporto di un governo che dice di voler respingere i “clandestini” in mare.
      Da paese di frontiera, è ovvio che l’Italia sia uno dei principali interlocutori di Frontex. Il fatto che il governo Lega-Cinque Stelle abbia in animo di respingere i migranti prima che sbarchino, presumibilmente anche con l’ausilio dei mezzi messi a disposizione da Themis, è invece un fatto unico.

      Queste sono le caratteristiche della missione pensata da Minniti e che si ritroverà a gestire, invece, Matteo Salvini. E questo è il modo in cui la missione si inserisce all’interno del piano italiano ed europeo sulla Libia, spesso scoordinato e incomprensibile.
      Le novità di Themis e l’allargamento del mandato deciso dal Viminale

      Nella missione Themis partecipano insieme a Frontex 27 stati membri. La missione dispone di dieci navi, due elicotteri e altrettanti aerei e un budget annuale di 39 milioni di euro, con i quali Frontex paga sia per i propri mezzi, sia per quelli appartenenti ai paesi europei impiegati poi nella missione.

      Themis ha alcune caratteristiche differenti rispetto alla precedente Triton. In primo luogo, come spiega il Viminale, il limite dalle coste italiane della linea di pattugliamento: Triton arrivava fino a 30 miglia nautiche dalle nostre coste, Themis si fermerà a 24, ossia il confine delle cosiddette acque continue. È il limite canonico delle acque di competenza di un paese, superato in occasione della missione Triton a causa delle condizioni particolari del 2014, il suo anno di nascita. C’è da ipotizzare che il lieve indietreggiare di Themis sia anche un modo per dare maggiore spazio di manovra alle nuove autorità libiche, alle quali l’Italia sta fornendo assistenza per realizzare a Tripoli un nuovo Mrcc, il centro di coordinamento dei salvataggi a Tripoli.

      Una seconda differenza tra Triton e Themis riguarda il mandato. Themis non ha come unico scopo il contrasto all’immigrazione irregolare, né si concentra solo sul Mediterraneo centrale: copre anche i flussi di uomini e droga nel Mediterraneo orientale (Albania e Turchia) e occidentale (Tunisia e Algeria), che erano fuori dal mandato di Triton. Uno spostamento di focus legato anche al calo negli sbarchi.

      Le nuove aree interessano a Frontex e agli inquirenti italiani soprattutto per gli “sbarchi fantasma” dalla Tunisia. Pescherecci, barche a vela, motoscafi con poche decine di persone a bordo che sbarcano sulle coste della Sicilia meridionale senza che i migranti a bordo passino da strutture di accoglienza o identificazione: ogni loro spostamento è gestito da organizzazioni italo-tunisine. Sono vittime di tratta? Lavoratori forzati? Manodopera criminale? Potenziali terroristi? Le ipotesi sono tutte al vaglio degli inquirenti.

      Sulla carta, poi, Themis rompe il vincolo stabilito da Triton per il quale ogni migrante salvato nella missione doveva sbarcare in un porto sicuro italiano. Al momento, però, non sono registrati sbarchi, a parte per urgenze mediche individuali, in porti diversi da quelli italiani. E il 7 giugno c’è stato l’ennesimo braccio di ferro tra Malta e l’Italia, quando le autorità dell’isola non hanno concesso a Sea Watch di sbarcare 120 migranti in un momento in cui l’imbarcazione dell’Ong era in difficoltà per le condizioni del mare. Ora, con il caso Aquarius, lo scontro con La Valletta è diventato aperto e duro.
      Poca trasparenza

      Da parte di Frontex c’è molta riservatezza sulle operazioni in corso. Piano operativo e contratti di utilizzo di ogni mezzo impiegato in mare sono i documenti fondamentali per capire esattamente cosa faccia Themis. L’agenzia per il pattugliamento delle frontiere, però, fino a oggi ha diffuso questo genere di documenti soltanto a missioni concluse.

      “Nella mia esperienza, Frontex è molto riluttante a condividere i dati delle proprie missioni, soprattutto i piani operativi”, spiega Luisa Izuzquiza, ricercatrice indipendente che da un anno e mezzo deposita richieste di accesso agli atti presso gli uffici dell’Agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere. La motivazione con cui le viene negato l’accesso è sempre la stessa: la pubblica sicurezza.

      A gennaio 2018, dopo l’ennesimo rifiuto, Luisa Izuzquiza ha portato Frontex di fronte alla Corte di giustizia europea per ottenere la pubblicazione dei contratti impiegati nella scorsa missione, Triton. Alcuni Stati membri, come la Svezia, non hanno avuto problemi a rendere pubblici i documenti con cui mettono a disposizione di Triton i propri mezzi. Tipologia di accordi e costi sono certamente molto simili anche nel caso di Themis. Le spese coperte interamente da Frontex sono un forte incentivo affinché i paesi diano il proprio contributo alle missioni.
      Il coordinamento e i sistemi di condivisione dei dati

      A partire da settembre 2015, la Commissione europea ha introdotto gli hotspot, sviluppati in via sperimentale in Grecia e in Italia, come prime strutture di identificazione dei migranti. A Catania c’è la sede della Task force regionale (Eurtf), che coordina le strutture italiane. Qui, per evitare sovrapposizioni fra le missioni gestite da ciascuno, siedono nello stesso ufficio uomini di Frontex, Easo (l’ufficio europeo per il sostegno all’asilo), Europol, Eurojust, operazione Sophia, polizia, Guardia di finanza e Guardia costiera.

      Meno chiara, però, è la situazione dei canali di comunicazione delle diverse missioni, specialmente fuori dai confini europei. Il principale canale di condivisione dei dati per i paesi del Mediterraneo si chiama Seahorse Mediterraneo Network, una piattaforma utilizzata dalle polizie dei paesi dell’area allo scopo di “rafforzare il controllo delle frontiere”. È un database al momento adottato da Spagna, Italia, Malta, Francia, Grecia, Cipro e Portogallo. La Commissione europea ha messo sul piatto 10 milioni di euro per fare in modo che possano partecipare allo scambio anche Libia, Egitto, Tunisia e Algeria. Se ne discute da ormai tre anni, ma l’unico paese che sembra poterci (e volerci) entrare – tramite l’Italia – è la Libia. Vuol dire che la guardia costiera locale avrà accesso, almeno via Seahorse, agli stessi database marittimi delle nostre forze dell’ordine.

      Nella “Relazione sulla performance per il 2016” (http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/332676.pdf) del Viminale si legge che Seahorse “è stata installata nel Centro Interforze di Gestione e Controllo (Cigc) Sicral di Vigna di Valle (Roma), teleporto principale del Ministero della Difesa, mentre presso il Centro Nazionale di Coordinamento per l’immigrazione “Roberto Iavarone” – Eurosur, sede del Mebocc [Mediterranean Border Cooperation Center], sono stati installati gli altri apparati funzionali alla rete di comunicazione”.

      Il nodo italiano, dunque, sembrerebbe operativo: Seahorse è gestito dal Cigc Sicral, mentre il database-ombrello per mappare in tempo reale tutto ciò che sta accadendo in mare, Eurosur, è gestito dal Centro Roberto Iavarone, che è anche sede del Mebocc, la centrale operativa da cui passano le comunicazioni tra paesi europei, Frontex e paesi terzi.

      Nella stessa relazione c’è anche un secondo passaggio, che conferma la partecipazione dei libici: si legge che nel 2016 in tutto sei “ufficiali della Guardia Costiera-Marina Militare Libica” sono stati ospitati in Italia “con funzioni di collegamento con le autorità libiche e per migliorare/stimolare la cooperazione nella gestione degli eventi di immigrazione irregolare provenienti dalla Libia” nell’ambito del progetto Sea Horse Mediterranean Network. Non è chiaro, al momento, se gli ufficiali libici hanno poi avuto l’accesso al sistema Seahorse anche da Tripoli.
      La sovrapposizione fra Marina militare italiana e autorità marittima libica

      Nel Mediterraneo centrale agisce poi la Marina militare. Rispetto alle tre forze dell’ordine che collaborano con Frontex ha altre regole di ingaggio e un’altra linea di comando. Come ora vedremo, ha anche altre priorità.

      Oltre a partecipare alle operazioni congiunte di Eunavformed, infatti, la Marina militare italiana ha riattivato la cooperazione con la Libia nata nel 2002, all’epoca di Gheddafi, con il nome in codice di Nauras. Difficile sapere quali navi vengono utilizzate e quali siano gli obiettivi strategici attuali dell’accordo militare tra Roma e Tripoli.

      I pochi elementi certi sono emersi grazie al caso giudiziario che ha portato questa primavera prima al sequestro e poi al dissequestro della nave Open Arms, fermata alla fine di marzo 2018 dopo un salvataggio in zona Sar, che aveva visto un duro scontro con le motovedette libiche. Attraverso le informative del comando generale della Guardia costiera italiana, i magistrati – prima di Catania e poi di Ragusa – hanno potuto ricostruire la gestione dei salvataggi del 15 marzo, quando il Mrcc di Roma aveva affidato il coordinamento delle operazioni alle motovedette libiche. Lì emergeva che la nave Capri della Marina militare italiana era intervenuta fin dalle prime ore del mattino parlando con Roma per conto di Tripoli e chiedendo espressamente di fermare l’intervento della Ong – le informative riportano anche un messaggio partito dall’addetto militare italiano a Tripoli.

      Dai brogliacci delle comunicazioni partite e ricevute dal Mrcc di Roma durante le operazioni di salvataggio si ricava inoltre che la Marina militare è intervenuta più volte – sia da unità navali inserite nell’operazione Nauras, sia dal Comando della squadra navale (Cincinav), che dipende direttamente dallo Stato maggiore della Difesa. Tra le carte dell’inchiesta c’è anche una relazione del comando di un’altra nave militare coinvolta, la Alpino – qui nelle vesti di polizia giudiziaria e presente a poche miglia dall’area di salvataggio dove stavano agendo contemporaneamente la Open Arms e la Guardia costiera di Tripoli.

      Lo stretto legame che esiste tra la Guardia costiera libica e la Marina Militare italiana appare ancora più evidente da un messaggio inviato dal comando delle motovedette libiche al Mrcc di Roma. Il numero di telefono del mittente – ovvero dell’autorità marittima libica – ha il prefisso +39 della rete italiana, e porta direttamente alla nave Capri. In altre parole, se chiami la Guardia costiera libica risponde la Marina militare italiana. E non è l’unico caso. Un paio di mesi dopo, la nave di soccorso tedesca Sea Watch ha ricevuto una telefonata dai libici durante un’operazione di salvataggio, che appariva sul display con un numero italiano.

      Quanto siano coinvolte la Marina militare e la Guardia costiera italiana nel respingimento dei migranti è un tema che presto verrà affrontato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, chiamata a discutere una denuncia presentata nei mesi scorsi contro le autorità di Roma.


      http://openmigration.org/analisi/themis-la-missione-di-frontex-voluta-da-minniti-di-cui-ora-dispone-ma
      #Eurtf #Mebocc #Eurosur #Eunavfor_med

    • Themis: la missione di Frontex voluta da Minniti di cui ora dispone Matteo Salvini

      Themis sostituisce la vecchia missione Triton, con un mandato allargato e che poco si concentra sugli sbarchi dalla Libia. Per la prima volta una missione dell’agenzia europea Frontex supporta le forze dell’ordine marittime di un governo che dice di voler respingere i “clandestini” direttamente in mare.

      http://openmigration.org/analisi/themis-la-missione-di-frontex-voluta-da-minniti-di-cui-ora-dispone-ma
      cc @albertocampiphoto

  • #Sicile : des #militants_identitaires tentent d’empêcher le #sauvetage de migrants

    Des activistes de l’ultra-droite ont voulu bloquer le bateau d’une ONG qui tente de sauver des migrants qui sont partis des côtes libyennes.


    http://www.leparisien.fr/faits-divers/sicile-des-militants-identitaires-tentent-d-empecher-le-sauvetage-de-migr
    #Italie #extrême_droite #ong #asile #migrations #réfugiés #Italie #Méditerranée

    cc @marty @isskein

  • ماذا لو فرضت الدول العربية والخليجية خاصة “البوركيني” على الفرنسيات والاوروبيات كشرط للسباحة في شواطئها؟ ومن الذي يقف خلف “الاستفزاز″ الفرنسي للجالية الاسلامية المحافظة؟ وهل “العري” حرية شخصية و”البوركيني” خدش للحياء؟ وكيف سيستفيد المتشددون من القرار الفرنسي؟ | رأي اليوم
    http://www.raialyoum.com/?p=501725

    La question du burkini, vue du côté arabe (article publié dans un quotidien en ligne particulièrement libéral). [Merci d’avance de ne pas m’associer nécessairement à ce que je résume !]

    Titre : Que se passerait-il si des pays arabes, et du Golfe en particulier, imposaient le b urkini à des Françaises ou des Européennes comme condition pour se baigner sur leurs plages ? Que se cache-t-il derrière cette "provocation" française vis-à-vis des émigrés musulmans conservateurs ? Est-ce que la "nudité" est une liberté personnelle et le burkini une atteinte à la pudeur ? Comment les extrémistes profiteront-ils de cette décision française ?

    Résumé de quelques passages : 1) rappel des faits avec en particulier la déclaration de Valls au quotidien La provence disant que les plages et les espaces publics doivent être vides d’affirmations religieuses" 2) La position de Valls profite aux racistes politiques opposés à l’islam. 3) L’interdiction du voile et du niqab a pu être acceptée parce que ce n’est pas une obligation de l’islam, sans parler que le second peut poser un problème de sécurité. Mais l’interdiction du burkini peut être considéré comme une atteinte à la liberté individuelle posée par la Constitution française. Quel danger ferait-il poser ? 4) Dans les pays du Golfe, les Européennes peuvent nager en maillot, alors qu’on place ces pays en tête des régimes rétrogrades. "Ces décisions que reflètent des mentalités racistes sous prétexte de préserver la laïcité constituent une provocation pour plus de 6 millions de citoyens musulmans français et profitent à une minorité extrémiste qui s’oppose à l’intégration et à la coexistence, tout en appelant à la violence et au terrorisme [contre les musulmans]."5) Une association musulmane appelle les musulmanes à protester en burkini le 17 septembre. 6) Nager avec des mini maillots ou rien du tout, on considère que c’est une liberté individuelle protégée par la loi, revêtir un maillot pudique, c’est illégal et contre la laïcité. C’est de la provocation, du racisme, et cette décision, après les attentats, est une gande faute. 7) Pour les extrémistes musulmans, qui veulent diviser les Européens et les citoyens des pays européens,où ils vivent, c’est un cadeau. 8) Une décision stupide et, pour nous, elle est liée à l’existence de parties qui ne veulent pas de la stabilité, de la sécurité, de la coexistence et de l’intégration, dans les pays occidentaux en général, et en France en particulier.

    • « Que se passerait-il si des pays arabes, et du Golfe en particulier, imposaient le b urkini à des Françaises ou des Européennes comme condition pour se baigner sur leurs plages ? »
      C’est claire que dans les pays du golf les femmes étrangères ne subissent aucune loi sur leurs tenues vestimentaire. C’est quant même bien malhonnête cette phrase. Le burkini est peut être pas obligatoire, mais je voudrais bien voire ces fameuses plages publiques et top-less d’arabie sahoudite ?

    • Merci de ton résumé @gonzo - je suis d’accord avec ce que dit ce quotidien même s’il est de tendance libéral. Je ne fréquente pas beaucoup les plages malgré que j’habite en Bretagne. Si je vois 2 personnes (comme sur la photo) se baigner, je me dis qu’elles ont oublié leur palmes et tubas. Il y a quelques années, avec un pote à la plage, on a vu 3 ou 4 religieuses débarquées dans une 2 chevaux. Elles se sont baignées à moitié habillées en gardant leur voile et elles se marraient bien ; nous aussi ! L’avantage c’est qu’elles n’avaient pas besoin de crème solaire. Ou est le problème ? Passé l’été, les médias et politique trouveront autre chose pour faire le buzz. Si ces femmes restent pudiques, ce n’est pas le cas de tous ceux et celles qui en parlent à longueur d’antenne. Je ne parle pas de leur tenues vestimentaires mais de leurs avis, (les avis c’est comme les trous du cul, tout le monde en a un) dont le seul intérêt est d’être vu et entendu. Ou est la caméra ? le micro ? La #France est #raciste ! point barre.

    • Il y a quelques mois, l’assemblée nationale a abrogé la #loi du 26 brumaire de l’an IX interdisant le port du pantalon aux femmes.
      La loi du 15 mai 2004 interdit les signes religieux à l’école ; mais ce qui était visé et faisait débat était le #port_du_voile par les jeunes filles.
      Le 11 avril 2011, la loi du 20 octobre 2010 interdisant le port du #voile_intégrale entrait en vigueur.
      En juillet 2012, c’était une députée française qui créait une polémique en se présentant à l’Assemblée nationale vêtue d’une robe.
      Aujourd’hui on discute ardemment du port du #burkini par les femmes sur les plages ; les hommes politiques sont à la pointe du #débat.
      On le comprend, le #vêtement_féminin est un objet éminemment #politique. A chaque fois, ce sont des #hommes, quasi essentiellement, qui débattent à plus fin sur ce qui couvre les #corps_des_femmes.
      Et prétendre que c’est au nom de notre #émancipation que l’on veut nous interdire le port de certains vêtements est une #grosse_plaisanterie ! Car derrière le #ridicule de ce débat, c’est non seulement une #nauséabonde_campagne contre une partie du peuple français qui est orchestrée, mais aussi l’éclatant témoignage que les femmes restent les #otages des hommes, manipulées, utilisées, appropriées, #objets de leurs manœuvres politiques les plus viles.

      http://bongenre.wordpress.com/2016/08/18/pantalons-voiles-burkini
      http://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2016/08/19/pantalons-voiles-burkini

    • @Vanderling : « libéral » est à prendre au sens arabe du terme, j’aurais peut-être dû préciser : disons que c’est un canard pro-palestinien, qui défend une certaine idée de l’indépendance nationale, des idées plus très à la mode quoi ! Je le signalais pour préciser que même un journal « émancipé » comme on dirait chez nous, « moderne » pour faire trop simple, était totalement outragé par cette décision. Alors, du côté de la presse teinté d’islam pétrolier, je te laisse imaginer les réactions ! (En fait, ils sont polis avec leurs fournisseurs d’armement et ils disent à leurs laquais de journalistes dene pas en faire trop !)

  • Un droit de réponse de la Société du nouveau port de Vallauris Golfe Juan
    https://www.mediapart.fr/journal/france/130616/un-droit-de-reponse-de-la-societe-du-nouveau-port-de-vallauris-golfe-juan

    À la suite de la publication, le 19 avril 2016, de notre article « Les juges explorent les liens entre le roi des yachts et le crime organisé », Pierre Rayon, le président-directeur général de la Société du nouveau port de Vallauris Golfe Juan (SNPVG), nous a fait parvenir un droit de réponse.

    #France #Alexandre_Rodriguez #Port_Camille_Rayon #Société_du_nouveau_port_de_Vallauris_Golfe_Juan