• De plus en plus de voix soulignent que les pays qui ont coupé leur financement à l’UNRWA le lendemain même de l’ordonnance de la cour internationale sont certainement en train de participer elles-mêmes au crime de génocide.

    J’aurais même tendance à penser que c’est là la réponse des amis d’Israël à l’ordonnance de la cour. C’est plus qu’un « contrefeu » destiné à détourner l’attention : au contraire, c’est ce qu’en anglais on nomme « power move » (An aggressive action taken to demonstrate power and dominance.) Montrer que la décision de la cour non seulement n’aura aucun effet pratique pour les Palestiniens (les médias ne cessent déjà de répéter que l’ordonnance est inutile, parce qu’elle sera sans effet), mais qu’au contraire plus on ira dans sur cette voie (de la justice internationale) et plus les Palestiniens souffriront.

  • La corsa ai suoli agricoli italiani dei nuovi “lupi solari”: una speculazione da fermare

    Mediatori immobiliari senza troppi scrupoli vanno alla caccia di terreni assediando agricoltori, meglio se vecchi, stanchi o indebitati, offrendo loro cifre più alte del valore di mercato. È il risultato di una transizione energetica impostata male e gestita peggio. E che favorisce i ricchi a scapito dei poveri. L’analisi-appello di Paolo Pileri.

    “Professore, come comportarsi quando aziende del fotovoltaico contattano offrendo cifre parecchio allettanti per acquisire suoli agricoli per installarci pannelli (non “agrivoltaico”)? Grazie”. È il messaggio che ho ricevuto una mattina di marzo alle dieci. Non è il primo che ricevo e temo non sarà l’ultimo.

    Diciamo però che sono la minima parte della minima parte dei casi che ci saranno in giro per le nostre campagne, letteralmente assaltate da mediatori immobiliari senza troppi scrupoli che vanno alla caccia di terreni assediando agricoltori, meglio se vecchi o stanchi o indebitati, così sono più facili da convincere a vendere offrendo loro cifre più alte del valore di mercato dei terreni agricoli.

    È quanto abbiamo sempre temuto e detto fin dall’inizio delle prime versioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza. È il risultato di una transizione energetica fatta partire sgommando e sbandando alla prima curva. Una corsa partita sciaguratamente senza regole (ma probabilmente hanno voluto così) che ha fatto drizzare le antenne a tutti gli speculatori dell’energia che hanno a loro volta sguinzagliato mediatori, geometri, architetti e perfino sindaci a cercare terre da comprare.

    Per convincere gli agricoltori stanno usando la leva della fretta. Mostrano tanti soldi e gli dicono che è questo e solo questo il momento giusto per vendere, inducendo il proprietario a decidere senza pensarci troppo. Questo sarebbe il libero mercato? Ho saputo di funzionari di società energetiche che si sono presentati negli uffici di piccoli Comuni facendo pressione per ottenere segnalazioni di terreni e di possibili persone facilmente convincibili a vendere. Pazzesco, eppure accade. E continuerà ad accadere dappertutto.

    Il messaggio di stamattina arrivava dal Friuli. Quando tutti questi speculatori solari avranno acquistato terre per fare i loro comodi, cominceranno a bussare minacciosi alle porte delle Regioni e del governo (che nel frattempo hanno emesso solo leggi deboli e regolamenti colabrodo) per chiedere facilitazioni e norme che deroghino alle poche regole che esistono, che non mettano loro i bastoni tra le ruote così da poter mettere a terra i pannelli che vogliono nel tempo che vogliono. Loro vogliono metterli a terra, non gli interessa l’agrivoltaico che, comunque (e lo ribadisco) è un dramma lo stesso per l’agricoltura, il paesaggio e il suolo.

    Agli speculatori solari non basta massimizzare i loro guadagni, vorranno anche essere celebrati come eroi green: non mi stupirà vederli sponsorizzare il prossimo festival di Sanremo o il campionato di calcio o magari le Olimpiadi 2026. E puntualmente la politica li porterà in trionfo.

    Possibile che non riusciamo in questo Paese a fare una cosa bene e nell’interesse di tutti e dell’ambiente? Possibile che non riusciamo a proteggere i deboli e frenare quelli che tirano fuori sempre le unghie per graffiare? Qui ci vuole poco. Essendo in clamoroso ritardo sulla pannellizzazione, avevamo (e forse abbiamo ancora) il vantaggio di costruire una regia pubblica forte, intelligente e senza stupidi compromessi, in grado di orientare il mercato nella direzione zero impattante e zero esclusiva. Già perché questo far west della caccia alle terre solari è tutto a vantaggio dei ricchi che hanno i soldi contanti contro i poveri cristi agricoltori che, alla fine, cederanno. Non sono i piccoli e poveri risparmiatori che stanno cercando terre per mettere pannelli. Non siamo davanti a una transizione energetica che sta proteggendo i più poveri.

    Per non parlare delle lunghe mani delle mafie, della ‘ndrangheta. Chissà che non stia già accadendo. Il governo e i governi regionali stanno monitorando? Oppure sono presi dal dare la caccia ai lupi che si aggirano per Courmayeur o nel Monferrato o in Val Seriana? Perché questo fa notizia anche se quei lupi naturali non fanno alcun male, se non a qualche gallina o pecora (che puntualmente mamma Stato ripaga), mentre i lupi solari non fanno notizia eppure sono pericolosissimi, famelici e ridurranno in brandelli paesaggi e agricolture.

    Dobbiamo tutti insieme stanare questi lupi solari e non smettere di denunciare questa assurda pratica che inoltre spopolerà le terre agricole più di quanto già sono spopolate. Dobbiamo chiedere ai governi, regionali e statale, di intervenire per disciplinare la questione una volta per tutte e in modo uniforme sul territorio nazionale. Non possiamo permetterci consumi di suolo solari, né possiamo permetterci di ferire mortalmente l’agricoltura, non possiamo permettere di perdere produzione alimentare, non possiamo perdere agricoltori. I pannelli solari vanno posizionati sui tetti dei capannoni logistici, commerciali e industriali prima di tutto, su tettoie da realizzare in tutti i posteggi pubblici con più di 50 auto, sopra gli impianti di depurazione, nelle stazioni di rifornimento carburanti, lungo le autostrade, e così via. Solo quando avremo finito di piazzarli da quelle parti, potremo pensare a nuove superfici. Ma non l’inverso. Non è possibile che in questo Paese si opti sempre per il “vincere facile”, aprendo sempre nuovi fronti alle speculazioni e alla insostenibilità. Bisogna opporsi. Bisogna parlarne. Bisogna stanare queste pratiche.

    https://altreconomia.it/la-corsa-ai-suoli-agricoli-italiani-dei-nuovi-lupi-solari-una-speculazi
    #spéculation #terres #énergie #transition_énergétique #compétition #agriculture #photovoltaïque #énergie_solaire #panneaux_solaires #sol #agrivoltaico #fermes_solaires #ferme_solaire

    • Le tante zone d’ombra lasciate dal boom dell’agri-fotovoltaico

      La transizione verso le energie rinnovabili è una necessità globale, ma non per questo esente da scelte. In Sicilia i progetti di una multinazionale sono l’occasione per chiedersi se la direzione presa sia quella giusta.

      Verde in primavera, dorato d’estate, l’entroterra della Sicilia offre panorami a perdita d’occhio. Agrumeti, campi di grano, colline lasciate a foraggio. Spostarsi da Catania a Trapani significa attraversare l’isola da una parte all’altra: la prima con le sue testimonianze greco-romane, la seconda che risuona ancora oggi delle influenze arabe. A collegarle c’è un’autostrada che sembra tutt’altro, tra cantieri infiniti, cambi di corsia e lunghi tratti in cui non ci si sente granché sicuri. L’andatura forzatamente lenta permette di accorgersi di come questi territori stiano a poco a poco cambiando. Bianche pale eoliche a incoronare le colline e scintillanti pannelli solari che costeggiano il guard rail sono una presenza a cui, con il passare dei chilometri, l’occhio si abitua.

      D’altra parte non è un mistero che la Sicilia stia vivendo un nuovo boom legato alle energie rinnovabili: a inizio anni Duemila a farla da padrone furono gli investimenti nell’eolico, con tanto di tentativi di lucrarci sopra da parte di Cosa nostra; da qualche tempo, invece, è diventata terra d’elezione per i campi solari.

      Le emergenze internazionali legate alla crisi climatica e i riflessi geopolitici del conflitto russo-ucraino costituiscono la cornice entro cui, oggi, le istituzioni sono chiamate a definire le strategie energetiche. L’impegno dell’Ue sul fronte delle rinnovabili è forte: il Pnrr prevede miliardi di euro di finanziamento per la produzione di energia verde. In quest’ottica – regioni come la Sicilia – diventano ricettori naturali degli investimenti: l’isola è terra di vento e, soprattutto, di sole.

      Ma quali sono le conseguenze a livello territoriale dei crescenti interessi legati alle rinnovabili e ai fondi stanziati per la loro promozione?

      IrpiMedia, con il supporto di Journalismfund Europe, ha deciso di andare sui territori, nel tentativo di capire meglio gli impatti sociali di un fenomeno destinato a segnare il futuro dei luoghi che viviamo. Per farlo abbiamo scelto di concentrare l’attenzione su due progetti – uno in fase di realizzazione a #Paternò, in provincia di Catania, e l’altro a #Mazara_del_Vallo (Trapani) – che nell’ultimo anno hanno attirato l’interesse dell’opinione pubblica.

      A realizzarli è #Engie, multinazionale del settore che ha da poco chiuso un accordo con #Amazon. Il colosso dell’e-commerce da tempo è impegnato a portare avanti, a livello internazionale, un programma di finanziamento degli impianti di produzione di energia rinnovabile. «Questi con Engie rappresentano i nostri primi progetti su larga scala in Italia, ci daranno una mano nel percorso che ci porterà a usare il cento per cento di energia rinnovabile entro il 2030», ha detto, a fine 2020, il direttore di #Amazon_Energy #Nat_Sahlstrom. La dichiarazione, a una prima lettura, potrebbe far pensare che tra qualche anno le attività di Amazon in tutto il pianeta saranno alimentate direttamente da energia verde. In realtà tra la multinazionale che fa capo a #Jeff_Bezos e le aziende produttrici, come Engie, sono stati sottoscritti dei #power_purchase_agreement (#Ppa).

      Un mare di silicio

      Carcitella è il nome di una contrada che si trova al confine tra i comuni di Mazara del Vallo e Marsala. Immersa nelle campagne trapanesi, è solcata da un reticolo di piccole strade provinciali. È da queste parti che si trova uno degli impianti realizzati da Engie. Dietro una recinzione metallica, ci sono filari e filari di pannelli solari: 122 mila moduli fotovoltaici per una potenza complessiva di 66 megawatt.

      «Sole, énergie». La voce – un italiano stentato che ripiega presto nel francese – arriva dalle nostre spalle. Un uomo ci viene incontro, pochi passi per distaccarsi dalle decine di pecore che lo attorniano. Si chiama Mohamed ed è arrivato in gommone dalla Tunisia, l’Africa da qui dista poche ore. Non ha ancora quarant’anni, ma ne dimostra molti di più: Mohamed è arrivato in Italia sperando di spostarsi in Francia e fare il cuoco, ma si è ritrovato a fare il pastore. «Neuf euros par jour. La casa? Petite», spiega, descrivendo il misero compenso ricevuto in cambio della disponibilità di portare al pascolo le pecore dall’alba al tramonto. Mohamed è uno dei tanti che hanno assistito al lento cambiamento di #contrada_Carcitella.

      L’impianto di Mazara del Vallo è stato inaugurato a fine maggio da Engie alla presenza delle autorità. La notizia, che ha trovato spazio sui media nazionali, è di quelle che colpiscono: «Avviato il più grande impianto agrovoltaico d’Italia». Oltre alla partnership con Amazon e alle dimensioni – sommando i progetti su Mazara e Paternò si superano i 200 mila moduli solari su una superficie di 185 ettari – il principale motivo che ha attirato l’attenzione generale sta infatti nella tecnologia utilizzata da Engie. L’agrovoltaico (o agri-fotovoltaico) prevede l’installazione dei pannelli su terreni agricoli, con accorgimenti tali – a partire dalla loro altezza rispetto al suolo – da dare la possibilità di impiantare colture nella parte sottostante. Nel caso di Mazara e Paternò si parla di piante officinali e per fienagioni e l’uso di alberi di mandorlo e ulivo per delimitare i perimetri dell’impianto. «I nostri progetti – fa sapere Engie a IrpiMedia – puntano a valorizzare i terreni mediante l’attuazione del piano agronomico che ha accompagnato il progetto autorizzato dalla Regione».

      L’obiettivo dichiarato è quello di salvaguardare il consumo di suolo e ottimizzare le aree utilizzate. «La Sicilia vanta le maggiori superfici coltivate a biologico in Italia e gli impianti con tecnologia agro-fotovoltaica soddisfano la strategia regionale per lo sviluppo sostenibile», ha dichiarato nella primavera del 2021 Nello Musumeci, oggi ministro del governo Meloni ma all’epoca presidente della Regione Siciliana.

      Ma per quanto le parole di Musumeci potrebbero portare a pensare a un ruolo centrale delle istituzioni nella gestione della transizione verso le rinnovabili, la realtà è che mentre a livello sovranazionale l’Ue ha definito le risorse a disposizione per intraprendere il percorso, fino a oggi l’Italia ha rinunciato alla possibilità di governare il fenomeno. Legiferando, semmai, nella direzione opposta: verso una normativa che renda ancora più libera l’iniziativa imprenditoriale dei leader di settore, lasciando al mercato l’onere della pianificazione. Ma ciò, così come accaduto tante altre volte in passato e in molti altri campi, comporta il rischio di vedere affermarsi le logiche della massimizzazione del profitto, a discapito di aspetti fondamentali per il benessere collettivo a medio-lungo termine.
      Tra maglie sempre più larghe e rinunce

      Le richieste di autorizzazione che hanno portato alla costruzione degli impianti di Paternò e Mazara del Vallo sono state presentate alla Regione, nel 2018, dalla FW Turna, società successivamente acquisita da Engie. Entrambi i progetti sono stati sottoposti al vaglio della commissione chiamata a valutare l’impatto ambientale, ottenendo il via libera condizionato al rispetto di alcune modifiche da apportare.

      A partire dal 2019, al vertice della commissione Via-Vas c’è stato #Aurelio_Angelini. Professore ordinario di Sociologia dell’ambiente e del territorio all’Università di Enna, Angelini è stato incaricato dal governatore Musumeci in seguito a uno scandalo che aveva travolto i precedenti vertici della commissione, accusati di avere piegato il proprio operato agli interessi di #Vito_Nicastri e #Paolo_Arata. Il primo è un trapanese accusato di essere uno dei principali volti imprenditoriali del boss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro, l’altro un ex parlamentare nazionale di Forza Italia e successivamente consulente della Lega. In coppia, Nicastri e Arata avrebbero pagato mazzette per corrompere funzionari regionali e ottenere vantaggi su progetti per la realizzazione di impianti per biometano, mini-eolico e fotovoltaico.

      Angelini ha guidato la commissione fino a dicembre scorso, quando è stato rimosso dal nuovo governatore Renato Schifani. Una decisione arrivata dopo mesi di frizioni, con il docente che era stato accusato di fare da tappo agli investimenti sulle rinnovabili in Sicilia per i troppi no dati dalla commissione. «Sono stato vittima di una campagna diffamatoria partita con alcune dichiarazioni di Confindustria e divulgando numeri di fantasia», commenta Angelini.

      «Hanno raccontato frottole a ripetizione. Uno studio indipendente di Public Affairs Advisors e Elemens ma anche il rapporto Fer di Terna – continua – hanno dimostrato che in questi anni la Sicilia è stata in vetta alle classifiche sull’efficienza delle pubbliche amministrazioni per il rilascio delle autorizzazioni ambientali».

      Una cosa è certa: a essere interessati alla Sicilia per la realizzazione di parchi solari sono tanti. Per accorgersene basta navigare nel portale che raccoglie le richieste di autorizzazione. Sono centinaia i progetti finiti sui tavoli della Regione. Un flusso costante interrotto soltanto dalla modifica alla normativa che per gli impianti di una certa dimensione ha disposto che le valutazioni ambientali vengano fatte non più dalle Regioni, ma dal ministero.

      Tra i proponenti si trovano società spagnole, tedesche, ma anche altre con sedi in Cina e nelle isole Cayman. L’obiettivo della Regione è quello di passare dalla potenza di 1,8 gigawatt del 2018 a 4 gigawatt entro il 2030. «Il percorso verso la decarbonizzazione è obbligatorio a meno di non voler pregiudicare definitivamente il futuro del pianeta, ma ciò non può prescindere dalla considerazione di altri fattori», mette in guardia Angelini. Il riferimento va in primo luogo alla localizzazione degli impianti, che il più delle volte interessano aree a destinazione agricola, e chiama in causa direttamente il ruolo delle istituzioni. «La terra serve innanzitutto a produrre cibo – commenta -. Viviamo in un’epoca in cui gli effetti dei cambiamenti climatici, come la siccità e la desertificazione, sono destinati a determinare una drastica riduzione delle produzioni. Per questo – sottolinea – bisognerebbe capire che non possiamo permetterci di ipotecare i terreni per la produzione di energia. E questo non significa rinunciare alla transizione ecologica. Le alternative esistono, serve la volontà di adottarle».

      A inizio 2022, la Regione Siciliana ha approvato il nuovo piano energetico che delinea le strategie per lo sviluppo delle rinnovabili. In precedenza, la commissione guidata da Angelini, esaminando la bozza di piano, aveva dato una serie di prescrizioni rimaste però inattuate. Tra queste c’era la definizione delle aree non idonee all’installazione degli impianti. «L’indirizzo era quello di garantire maggiori tutele per le aree agricole di pregio, ma la politica ha deciso di non raccogliere le nostre indicazioni – commenta l’ex presidente della Cts – Questa non è l’unica stortura: il piano dice chiaramente che la localizzazione degli impianti debba avvenire privilegiando le discariche e le cave dismesse, i siti già compromessi dal punto di vista ambientale e le aree industriali e artigianali. Invece assistiamo alla continua presentazione di progetti fotovoltaici su zone agricole».

      Parlando della grandezza dei progetti – quelli di Engie non sono neanche i più vasti – Angelini ne fa anche una questione socio-economica. «Dovremmo ragionare sul tipo di futuro che vogliamo. Parlare genericamente di rinnovabili non basta. La storia ci dice che l’energia, la sua produzione, è legata a doppio filo con la libertà. Si fanno le guerre per garantirsi l’autonomia energetica. Siamo certi che la scelta migliore sia quella di andare verso un futuro con nuovi monopolisti dell’energia, anziché favorire lo sviluppo delle comunità energetiche?»

      Le comunità energetiche e l’autoconsumo collettivo sono pratiche che permettono a soggetti privati e pubblici di costruire e gestire impianti di produzione di energia rinnovabile pensati principalmente per uno “in loco”. In particolare l’autoconsumo collettivo è portato avanti dagli abitanti di un unico edificio mentre le comunità energetiche sono delle entità più ampie, solitamente un complesso di condomini, piccole e medie imprese ed enti pubblici, purché siano allacciati alla stessa cabina di trasformazione d’energia. In pratica la comunità energetica investe nella costruzione di un impianto, come ad esempio un fotovoltaico sui tetti dei condomini, così da iniziare l’autoproduzione e l’autoconsumo dell’energia rinnovabile.

      «Queste collettività sono pensate per produrre e consumare energia da fonti rinnovabili in loco, così da ridurre le bollette, e non per scopi di lucro, ecco perché la legge dispone che per poter prendere parte alle comunità energetiche sia necessario dimostrare che la produzione e la commercializzazione di energia non sia la fonte principale di guadagno», puntualizza Gianni Girotto, che da parlamentare nazionale del Movimento 5 Stelle è stato il promotore delle comunità energetiche in Italia.

      Il concetto alla base delle comunità energetiche è la produzione di energia diffusa e distribuita su un territorio molto più vasto ma allo stesso tempo molto meno impattante rispetto alle classiche centrali o ai campi eolici e fotovoltaici. I benefici principali, oltre ad una riduzione delle bollette, riguardano anche le spese nazionali del trasporto di energia. Produrre e condurre l’energia da un luogo a un altro ha dei costi ingenti per lo Stato e avere più comunità energetiche sparse in tutto il territorio alleggerirebbe la rete nazionale. Secondo i dati aggiornati a fine 2022, esistono solo 46 attività di autoconsumo collettivo e 21 comunità energetiche. «Un risultato ancora scarso – ammette Girotto – in parte dovuto al Covid che ha cancellato l’argomento dalle discussioni, in parte da una mancanza di reale volontà politica di promuovere le comunità».

      Ad oggi infatti si aspettano ancora i decreti attuativi per definire alcuni che regolamentano, ad esempio, le comunità energetiche più grandi. Per ora sono possibili comunità energetiche basate sulle cabine di trasformazione secondarie, che sono circa 600 mila in tutta Italia, su cui si possono costituire comunità grandi quanto un piccolo isolato o una via per le città più grandi. «Ma se si regolamentassero le comunità energetiche che si allacciano alle cabine primarie, si potrebbero formare comunità grandi quanto diversi comuni così da contribuire significativamente alla riduzione delle necessità di importazioni energetiche che sono più costose ed estremamente più inquinanti», conclude Girotti.

      Quale futuro spetterà alle comunità energetiche è un capitolo ancora tutto da scrivere. Quel che finora pare evidente è che a dettare legge sono ancora i colossi del settore. Aziende che, per loro natura, hanno come obiettivo primario quello di sfruttare economicamente al meglio le opportunità offerte dalle leggi.

      Da questo punto di vista, uno dei primi effetti lo si è notato sul mercato immobiliare dei terreni. Le aziende, infatti, preferiscono trattare con i privati. «Rinunciando ad avere un ruolo centrale nella pianificazione dello sviluppo energetico dell’isola, la Regione sta perdendo l’opportunità di avere introiti da questi investimenti – spiega il professore Aurelio Angelini -. Se si lavorasse alla promozione della realizzazione degli impianti nelle discariche pubbliche o nelle cave dismesse, si potrebbero indire gare per l’affidamento di queste aree ai privati, ottenendo in cambio un canone annuale». Così, però, non sta avvenendo e ad accorgersene è innanzitutto chi con la compravendita degli immobili ci lavora.

      «Fino a qualche anno fa, da queste parti un ettaro di terreno agricolo veniva venduto intorno ai 15 mila euro a ettaro. Oggi per meno di 35 mila non lo si trova», racconta un professionista del settore. Lo incontriamo nel suo studio di Mazara del Vallo, a meno di dieci chilometri dall’impianto di Engie. Ha accettato di parlarci soltanto a condizione di mantenere l’anonimato. «La domanda di terreni per installare pannelli solari è cresciuta in maniera spropositata e l’innalzamento dei prezzi è stata la naturale conseguenza – spiega – Per molti proprietari si tratta di cifre che difficilmente guadagnerebbero lavorando la terra».

      Si potrebbe pensare che per gli immobiliaristi siano periodi di vacche grasse. «Ma non è così, io negli ultimi anni sono riuscito a vendere soltanto un terreno destinato a fotovoltaico. Chi ci guadagna davvero sono i sensali». La senseria è l’attività di mediazione portata avanti spesso in maniera informale da soggetti non qualificati. «Per le società che arrivano da fuori, magari dal Nord Italia o dall’estero, sono dei veri procacciatori di affari e non importa se non siano professionisti del settore, si sanno muovere». Quando gli chiediamo in cosa consista tale capacità, chiarisce: «Spesso sono allevatori, conoscono molto bene le campagne e chi sono i proprietari. Come guadagnano? Si dice che prendano una percentuale dal venditore».

      Ancora oggi in Sicilia il legame con la terra è forte. Può capitare per esempio che un terreno, passando di generazione in generazione nelle mani di sempre più eredi, resti incolto ma comunque ben saldo all’interno del patrimonio di famiglia. La nuova propensione a cederli, e il coinvolgimento di intermediari di fortuna, è un fenomeno che non è passato inosservato anche negli ambienti investigativi. Inevitabile chiedersi se dietro l’attività dei procacciatori possa esserci anche il peso della criminalità: «A oggi non sono emerse evidenze che portino a sostenere un coinvolgimento delle famiglie mafiose nella fase di individuazione dei terreni da destinare alle rinnovabili, ma è chiaro – sottolinea – che quella del sensale è una figura ambigua. Si tratta spesso di soggetti che si muovono in zone grigie. D’altra parte storicamente la mafia siciliana ha avuto un legame forte con la terra, basti pensare al ruolo dei campieri, che si occupavano della guardiania».
      Di chi sono le aree utilizzate da Engie

      «I terreni sono stati acquisiti direttamente dai proprietari». A negare il coinvolgimento di intermediari di fortuna nelle trattative per l’acquisizione delle aree su cui realizzare gli impianti di Mazara del Vallo e Paternò è la stessa Engie. «Nel primo caso il terreno è stato in larga parte acquistato da una singola proprietà, mentre i terreni di Paternò erano frazionati su pochi proprietari terrieri locali», specificano dagli uffici della multinazionale.

      Una versione che trova conferma anche nelle parole di Francesca Adragna, 54enne originaria di Trapani ma residente in Toscana che, insieme al fratello, era la proprietaria dei terreni scelti da Engie per installare i pannelli. «Non abbiamo avuto sensali che si sono interessati alla trattativa, so bene che in Sicilia girano molti sedicenti intermediatori, ma nel nostro caso non è accaduto». Dai documenti visionati da IrpiMedia risulta che a chiedere al Comune di Mazara del Vallo la certificazione di destinazione urbanistica da presentare alla Regione è stata una terza persona. «È stato incaricato da mio fratello, ritengo sia un tecnico», chiosa la donna. Per poi specificare di avere deciso «di vendere questi terreni perché si tratta di un’eredità e, vivendo io fuori dalla Sicilia, occuparsene era sempre più complicato».

      Continuando a scorrere le centinaia di pagine di documenti che accompagnano il progetto presentato alla Regione, ci si imbatte anche su un’altra serie di proprietari. I loro terreni vengono tirati in ballo nella parte riguardante i lavori per la stazione elettrica e i relativi raccordi alla rete di trasmissione nazionale (Rtn) al servizio del campo fotovoltaico. Anche in questo caso sono nomi che per motivi diversi, in alcuni casi legati a passate vicende giudiziarie che nulla hanno a che vedere con l’iter che ha portato alla realizzazione dell’impianto di Engie, sono noti all’opinione pubblica.

      Tra loro ci sono Maria e Pietro Maggio. I due sono discendenti della famiglia Poiatti, rinomati industriali della pasta. Maria attualmente è presidente del consiglio d’amministrazione della società. A loro sono intestate due vaste particelle indicate come vigneti e terreni seminativi utilizzate per la realizzazione della stazione elettrica e per i raccordi alla Rtn. Dai documenti emerge che quest’ultima parte ha interessato anche alcuni terreni di proprietà di Marina Scimemi. La donna, 47 anni, è figlia di Baldassarre Scimemi, l’ex presidente della Banca Agraria di Marsala e vicepresidente dell’Istituto Bancario Siciliano che a inizio anni Novanta venne accusato di essere a disposizione di Cosa nostra. Gli inquirenti accusavano l’uomo di avere elargito crediti a condizioni di favore e fornito una sponda per il riciclaggio del denaro. Per quelle vicende, Scimemi è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.

      Nei documenti presentati da Engie compare anche il nome del 41enne Francesco Giammarinaro. Il padre, Pino, è stato deputato regionale della Democrazia Cristiana nella prima metà degli anni Novanta. Una carriera politica costruita all’ombra della corrente andreottiana e vicino a Nino e Ignazio Salvo, i cugini di Salemi – lo stesso paese di Giammarinaro – che per decenni hanno avuto in mano la riscossione dei tributi in Sicilia, grazie anche ai legami con Cosa nostra. Anche per Pino Giammarinaro i problemi con la giustizia non sono mancati: arrestato nel 1994, ha patteggiato i reati di concussione e corruzione, mentre è stato assolto dall’accusa di concorso esterno. A partire dagli anni Duemila, il suo patrimonio è stato sottoposto a misure di prevenzione che hanno portato alla confisca. Tra i beni su cui sono stati posti i sigilli c’è anche il terreno di contrada San Nicola di Corsone. Nel progetto presentato da Engie si menziona l’appezzamento quando si fa riferimento al tracciato dell’elettrodotto aereo; area che per questo sarebbe stata sottoposta a vincolo preordinato all’esproprio.

      «Non ne so nulla, quel terreno ormai non è né di mio figlio né tantomeno mio. Rientra tra quelli sequestrati, da oltre dieci anni non ci appartiene», taglia corto Pino Giammarinaro, raggiunto telefonicamente da IrpiMedia. Sul punto, però, fa chiarezza Engie specificando che, per quanto nella documentazione presentata alla Regione si menzioni la particella 4, «il terreno confina con la nuova stazione elettrica ma non è interessato dalla nostra opera».

      Uva pregiata a basso costo

      Girare per la provincia di Trapani senza imbattersi in qualche vigneto è praticamente impossibile. Rosso, bianco o rosè, da queste parti si beve bene. Tuttavia, chi la terra la lavora praticamente da sempre si è accorto che qualcosa sta cambiando. Anzi, che forse è già cambiato. «Un tempo questa era una delle zone con più vigneti al mondo. Di questo passo, invece, continuare a coltivare viti non varrà più la pena». A parlare è il titolare di una delle tante aziende agricole che hanno sede nell’estremità occidentale della Sicilia. Ci accoglie in un ampio salone per parlare di come in meno di un decennio la redditività delle produzioni sia crollata. «Non è una sensazione, lo dicono i numeri e i bilanci – spiega l’uomo – Chi produce uva da vino da queste parti guadagna molto meno che altrove. Io non so se c’entri qualcosa, ma questo problema è coinciso con il periodo in cui hanno iniziato a costruire impianti per le rinnovabili. Prima c’è stato il boom dell’eolico, adesso sembra che tutti vogliano fare parchi fotovoltaici».

      L’imprenditore suggerisce di confrontare i listini delle cantine sociali. In provincia di Trapani ce ne sono tante, c’è chi lavora con proprie etichette e chi vende il vino sfuso ad altre aziende. Una delle più affermate è Cantine Ermes, attiva non solo nell’isola. Guardando il bilancio del 2022, in cui sono contenuti i dati relativi agli acconti pagati ai soci per i conferimenti effettuati nel corso della vendemmia 2021, si legge che l’uva Chardonnay è stata pagata da 10 a 38 euro al quintale, mentre chi ha portato uva Frappato ha incassato come acconto un massimo di 40 euro al quintale. Per le stesse tipologie di vitigno, una cantina di Riesi, in provincia di Caltanissetta, nella stessa annata ha elargito ai propri soci 60 euro al quintale per lo Chardonnay e da 47 a 52 euro per il Frappato. Le differenze sono marcate anche se si confrontano altri vitigni.

      Stabilire una diretta correlazione tra la bassa redditività dell’uva trapanese e il boom del fotovoltaico non è semplice, ma il calo dei profitti ha fatto crescere il numero di produttori che si chiedono se sia il caso andare avanti. A pensarla così è Giovanni Di Dia, segretario Flai Cgil in provincia di Trapani e a sua volta piccolo produttore. «La specificità del caso trapanese rende difficile pensare che sia determinata soltanto da logiche di mercato – afferma – La tentazione di pensare all’influenza di fattori esterni c’è, perché davvero non si capisce come in altre province si possano liquidare decine di euro in più a quintale. Non si tratta di fare confronti con l’altra parte del Paese, ma di spostarsi di un centinaio di chilometri».

      Quella dei produttori di uva è solo una delle tante perplessità che accompagnano, non solo in Sicilia e non solo in Italia, la corsa al fotovoltaico. E come in tutte le occasioni in cui bisogna fare di fretta, i rischi di perdersi qualcosa per strada sono alti. Chiedersi cosa ne sarà di aree come contrada Carcitella da qui in avanti è fondamentale, perché ne va del modo in cui immaginiamo il futuro e il rapporto con i luoghi che viviamo. In questo senso, il caso Engie dimostra come a essere favoriti, anche sul fronte della remunerazione dei terreni ceduti alle multinazionali, siano spesso grossi proprietari terrieri. Famiglie che in qualche modo ancora oggi rappresentano il volto del latifondo. Per il professore Angelini il discorso, dunque, va oltre la scelta tra rinnovabili – in questo caso il fotovoltaico – e fonti fossili. «Vogliamo sostituire i padroni dell’energia con nuovi monopolisti o vogliamo una società di produttori più equa e democratica?»

      #Sicile #corruption

      voir aussi:
      https://seenthis.net/messages/1007935

  • #Harcèlement à #Lyon-2 : #contre-enquête sur la #relaxe d’un professeur

    Suspendu en 2018 suite à des accusations de harcèlement formulées par une doctorante, un professeur de Lyon-2 a obtenu gain de cause en appel devant le #conseil_national_de_l’enseignement_supérieur_et_de_la_recherche. Problème : selon les informations de Mediacités, la décision repose sur des éléments faux ou sujets à caution.

    « Comment est-ce possible en #France ? Cette décision est scandaleuse. Le conseil a tranché alors qu’il disposait de #preuves contraires. J’accepte de témoigner pour qu’aucune femme n’ait plus à endurer ce que j’ai vécu. » Comme toujours, Lina* est calme. Mais sous sa voix posée gronde une colère sourde. En 2017, alors étudiante à Lyon-2, elle dénonce le harcèlement de son directeur de thèse, un professeur très reconnu dans le milieu universitaire. Conséquence, en 2018, Lyon-2 décide de le suspendre avec privation de salaire pendant un an. L’affaire avait à l’époque fait du bruit. Elle était loin d’être terminée…

    Le 10 septembre 2020, en appel, la #section_disciplinaire du Conseil national de l’enseignement supérieur et de la recherche (#Cneser) a relaxé le professeur en question, qui n’a jamais repris ses cours à Lyon-2 (il est aujourd’hui professeur invité à l’université canadienne de Dubaï). La décision passe alors inaperçue, malgré la médiatisation de l’affaire deux ans plus tôt. Or, comme nous l’avons découvert au cours de notre enquête, dans son analyse du dossier, le Cneser s’est appliqué à décrédibiliser le témoignage de l’étudiante sur la base d’éléments faux.

    Après la libération de la parole et les errements de la direction à l’École normale supérieure de Lyon (ENS) [lire les enquêtes de Mediacités ici : https://www.mediacites.fr/enquete/lyon/2021/03/22/violences-sexuelles-a-lens-de-lyon-une-si-laborieuse-et-tardive-prise-de- et là : https://www.mediacites.fr/complement-denquete/lyon/2021/06/14/violences-sexuelles-a-lens-de-lyon-la-mediatisation-a-fait-bouger-les-choses/], après la gestion laborieuse d’un étudiant de Science Po Lyon accusé de viols par plusieurs femmes dévoilée par Mediacités (https://www.mediacites.fr/enquete/lyon/2021/03/02/violences-sexuelles-les-errements-de-sciences-po-lyon), après les récentes révélations de Rue89Lyon (https://www.rue89lyon.fr/2021/09/06/sous-emprise-monsieur-cinema-universite-lyon-2) sur le harcèlement subi par plusieurs étudiantes de #Jacques_Gerstenkorn à Lyon-2 (https://www.mediacites.fr/revue-de-presse/lyon/2021/09/06/jacques-gerstenkorn-monsieur-cinema-de-luniversite-lyon-2-accuse-de-harce), notre contre-enquête éclaire sous un autre jour la question des violences sexistes et sexuelles au sein de l’#enseignement_supérieur. Elle illustre le décalage entre un discours officiel qui encourage les victimes à dévoiler les harcèlements dont elles font l’objet et des procédures disciplinaires lentes et archaïques incapables de leur rendre justice.

    (#paywall)

    https://www.mediacites.fr/enquete/lyon/2021/09/14/harcelement-a-lyon-2-contre-enquete-sur-la-relaxe-dun-professeur

    #justice (really ?) #ESR #université #violences_sexistes #violences_sexuelles

    –-

    ajouté à la métaliste sur le harcèlement à l’université :
    https://seenthis.net/messages/863594

    ping @_kg_

    • Violences sexuelles à l’ENS de Lyon : le rapport d’enquête épingle la présidence

      Après des violences sexuelles et sexistes au sein de l’École normale supérieure (ENS) de Lyon, le ministère de l’Enseignement supérieur et de la recherche avait diligenté une enquête. Et les inspecteurs se montrent sévère avec la présidence de l’ENS, dans un rapport d’enquête publié mercredi 27 octobre, estimant que l’établissement « n’avait pas suffisamment pris la mesure du problème ».

      L’enquête menée par l’Inspection générale de l’éducation, du sport et de la recherche (IGESR), à la suite de révélations dans la presse, a permis de reconstituer « une liste anonymisée de 27 situations de violences sexuelles et sexistes, dont la première remonte à 2017 ».

      Neuf cas « relèveraient de la qualification de viol », d’après la synthèse du rapport, précisant que les victimes sont des étudiantes, à l’exception d’un cas masculin. « Les personnes mises en cause sont pour la moitié d’entre elles des étudiants, ajoutent les inspecteurs. Pour l’autre moitié, il s’agit de cinq enseignants, de cinq autres personnels de l’ENS, de quatre personnes extérieures ou non identifiées. »
      Le « peu d’empressement à agir » de la direction

      La présidence de l’ENS n’était informée que de 15 de ces situations et « hormis une situation très récente, sur les 14 situations traitées par la présidence, une seule a donné lieu à une procédure disciplinaire », relèvent les enquêteurs de l’IGESR. « Toutes les autres sont demeurées sans décision formalisée de la part de l’ENS. »

      Selon le rapport d’enquête, « le manque de cohérence dans le traitement des situations, le peu d’empressement à agir, a conduit à une impossibilité de clôturer les instructions » et « a contribué à construire un sentiment d’incertitude, de peur et de défiance qui s’est installé chez les victimes présumées ».

      L’enquête a révélé « 27 situations de violences sexuelles et sexistes » depuis 2017. Elle pointe le « manque de cohérence » de la direction lorsqu’elle a été informée.

      https://www.francetvinfo.fr/societe/harcelement-sexuel/violences-sexuelles-a-l-ens-de-lyon-le-rapport-d-enquete-epingle-la-pre

  • 38 millions de données mal gardées par un logiciel de Microsoft
    https://www.letemps.ch/economie/38-millions-donnees-mal-gardees-un-logiciel-microsoft

    Au terme d’une enquête, la société UpGuard a mis en avant un défaut de configuration dans un logiciel de Microsoft, Power Apps, utilisé par diverses entreprises et organisations en 2021

    Quelque 38 millions de données et informations personnelles, dont certaines issues de plateformes pour le traçage des cas contact de coronavirus, ont été rendues vulnérables plus tôt cette année par un défaut de configuration dans un logiciel de Microsoft utilisé par diverses entreprises et organisations.

    La société de sécurité informatique UpGuard a publié, lundi, un compte-rendu d’une enquête sur plusieurs mois montrant que des millions de noms, d’adresses, de numéros d’identification fiscale et autres informations confidentielles ont été exposés - mais non compromis - avant que le problème ne soit résolu.

    American Airlines, Ford, J.B. Hunt et des collectivités comme l’autorité de la santé pour le Maryland ou encore les transports publics de la ville de New York font partie des 47 groupes concernés. Ils ont en commun d’avoir utilisé un logiciel de Microsoft, Power Apps, qui permet de créer facilement des sites internet et applications mobiles d’interaction avec le public.

    Par exemple, si une institution a besoin de mettre rapidement en place un portail de prise de rendez-vous pour des vaccins, ce service du géant informatique fournit aussi bien la façade publique que la gestion des données.

    UpGuard recommande de changer de logiciel
    Mais jusqu’en juin 2021, la configuration du logiciel par défaut n’assurait pas de façon adéquate la protection de certaines données, expliquent les chercheurs d’UpGuard. « Grâce à nos recherches, Microsoft a depuis modifié les portails de Power Apps », précisent-ils.

    « Nos outils permettent de concevoir des solutions à échelle, qui répondent à une grande variété de besoins. Nous prenons la sécurité et la confidentialité au sérieux, et encourageons nos clients à configurer les produits de façon à satisfaire au mieux leurs besoins en matière de confidentialité », a réagi un porte-parole de Microsoft. Le groupe a aussi indiqué qu’il informait systématiquement ses clients quand de potentiels risques de fuites étaient identifiés, pour qu’ils puissent y remédier.

    Mais selon UpGuard, il est préférable de changer le logiciel en fonction de la façon dont s’en servent les clients, plutôt que « de considérer le manque généralisé de confidentialité des données comme une mauvaise configuration par l’utilisateur, ce qui fait perdurer le problème et expose le public à des risques ». « Le nombre de comptes où des infos sensibles étaient vulnérables montre que le risque lié à cette fonctionnalité - la probabilité et l’impact d’une mauvaise configuration - n’avait pas été pris en compte de façon adéquate », ajoutent-ils.

    #microsoft #power_apps #configration #UpGuard

  • ‘white charity’
    Blackness & whiteness on charity and posters

    Billboards of charitable organisations such as ‘Brot für die Welt’, ‘Welthungerhilfe’, ‘Kindernothilfe’ or ‘Care’ are omnipresent in streets, on squares, in train and metro stations in Germany.

    They have a large impact on how Black and white identities in Germany are constructed. The documentary analyses the charity aid posters from a postcolonial perspective.

    ‘white charity’ presents different perspectives: based on the charity ad posters, representatives of charities and scientists discuss about development cooperation, colonial fantasies, racism and power structures.

    ‘white charity’ is an exemplary analysis of racism in images which has relevance far beyond the horizon of development. It supports a sharper analysis of images in commercials, print and TV.

    A film by Carolin Philipp and Timo Kiesel

    With:

    · PD Dr. Aram Ziai, political scientist, Zentrum für Entwicklungsforschung, Bonn

    · Danuta Sacher, former head of the department of politics and campaigns, Brot für die Welt

    · Dr. Grada Kilomba, psychoanalysist and author, Humboldt Universität, Berlin

    · Prof. em. Dr. Klaus-Peter Köpping, anthropologist, Universität Heidelberg

    · Peggy Piesche, literary scholar and cultural scientist, Hamilton College New York

    · Philipp Khabo Köpsell, poet and spoken word artist, Berlin

    · Sascha Decker, press spokesman, Kindernothilfe

    Animations: Jana Döll

    Technical details:
    duration: 48 minutes
    picture: 16:9

    https://www.youtube.com/watch?v=kUSMh8kV-xw

    https://whitecharity.de/film

    #white_charity #charity #charity_aid #blackness #whiteness #Germany #documentary #Brot_für_die_Welt #Welthungerhilfe #Kindernothilfe #Care #posters #images #TV #print #racism #power_structures #postcolonialism #development #development_cooperation

    ping @cdb_77 @deka

    • Africa For Norway - New charity single out now!
      https://www.youtube.com/watch?v=oJLqyuxm96k

      produced by Radi-Aid:

      About

      Radi-Aid is a former awareness campaign created by the Norwegian Students’ and Academics’ Assistance Fund (SAIH). Although we will no longer develop this campaign, we will keep all the resources available. Visit the SAIH webpage for information about our current campaigning.

      Emerging from the satirical campaign and music video ‘Radi-Aid: Africa for Norway’, the campaign has focused on arranging the Radi-Aid Awards (2013-2017), celebrating the best - and the worst - of development fundraising videos. Along with this, we have produced several satirical, awareness-raising videos. In 2017, we also developed the Social Media Guide for Volunteers and Travelers.

      The goal with Radi-Aid is to challenge the perceptions around issues of poverty and development, to change the way fundraising campaigns communicate, and to break down dominating stereotypical representations.

      Since 2012, our videos have been selected as one of the best practices on development communication by OECD (2012), one of the best “Ads worth spreading” by TED (2014), and joined The Guardian’s list of the best aid parodies (2014). In addition to wide international media attention, we have been invited to speak about our work at TedX talks, workshops and a numerous of conferences around the world. Our campaign also been exhibited at various exhibitions, including the German Colonial Museum in Berlin (2016).
      Main objectives

      Radi-Aid aims at addressing the following issues:

      Charity campaigns risk being counterproductive to their own goals if they obscure the actual causes of poverty. We need more nuanced information about development and poverty, not oversimplified half-truths.

      In many charity ads, poor people are portrayed as passive recipients of help, without the ability or desire to make their country a better place to live. This kind of portrayal creates a significant distinction between us and them.

      The last years have shown increasing examples of creative and engaging portrayals in charity ads, demonstrating the many various ways a charity campaign can succeed without traditional and stereotypical representations.

      Stereotypes and oversimplifications lead to poor debates and poor policies. NGO communicators play a crucial role in people’s understanding of development in the world today, and therefore also a crucial role in fighting these representations.

      How we can do it better

      Previous nominees for the Golden Radiator in the Radi-Aid Awards have shown how powerful you can communicate in a nuanced, creative and engaging way, without using stereotypes – and still manage to raise money for your campaign. What characterize these campaigns, is that:

      They avoid one-sided representation and the single story

      The target group is presented with ownership and has an active role in providing solutions, they speak for themselves and no “white hero” is speaking on behalf of them

      Although the goal is to raise money, they avoid exploiting the suffering of people. People are portrayed with dignity – with potential, talents, strengths.

      Some take use of humour and positivity, which helps to not focus on people’s guilt or create apathy among potential donors/supporters, and highlights instead people’s strengths and common humanity. It is okay, and even good to create feelings, but not feelings like pity/feeling sorry for.

      They portray people in a way that resonate with the audience – situations, emotions etc. You feel solidarity and connected with them, instead of feeling sorry and disconnected from their reality

      The potential donors/supporters are inspired to take action beyond donating

      They respect their audience, by not exaggerating the story or suggesting that “with your donation, you have changed a life/saved the world”

      They are clear and transparent about their role in the project

      They provide context and manage to explain the underlying causes of problems, not presenting merely cheap and easy solutions to global issues.

      About SAIH
      The Norwegian Students’ and Academics’ International Assistance Fund (SAIH) is the solidarity organization of students and academics in Norway. In addition to long-term development work, SAIH works with advocacy activities in Norway and internationally, in order to improve the conditions for education and development globally. SAIH runs annual campaigns on topics related to academic freedom and access to higher education. Read more about SAIH.

      https://www.radiaid.com/about

      #radi-aid #song

  • #Brazil Deforests the Amazon by Areas Equivalent to the Size of 230 Manhattans Annually
    https://nightingaledvs.com/brazil-deforests-the-amazon-by-areas-equivalent-to-the-size-of-230-m

    The Amazon is important not just for Brazil, but also for the whole world. Here are four of the many reasons:1) PrecipitationThrough transpiration, the Amazon..

    #Charts #climate_change #Data_Visualization #deforestation #environment #How_To #Power_BI #Tools

  • Sexismus in der Wissenschaft. Gemeinsame Erklärung

    Sexistische Grenzüberschreitungen sind im Arbeitsalltag von Wissenschaftler*innen keine Ausnahme. Sexismus und sexualisierte Diskriminierung und Gewalt sind an deutschen Hochschulen – genauso wie in anderen Bereichen des gesellschaftlichen Lebens – alltäglich. Davon betroffen sind alle Status- und Beschäftigtengruppen, wobei Abhängigkeitsverhältnisse und Hierarchien das Problem oftmals gravierend verschärfen.

    Universitäre Abhängigkeitsverhältnisse sind Grund dafür, dass es Betroffenen häufig schwer fällt, sich zu wehren. Wenn Wissenschaftler*innen auf die Gunst ihrer Vorgesetzten und Betreuer*innen angewiesen sind, überlegen sie sich gut, inwieweit sie aufbegehren. Wir sind gegen das Ausnutzen von Machtpositionen für private Interessen. Sexualisierte und vergeschlechtlichte Diskriminierung im Wissenschaftsbetrieb äußert sich nicht nur in Übergriffen, sondern auch in der strukturellen Benachteiligung von Frauen*/FLINTA. Sexismus beeinträchtigt nicht nur Betroffene in ihrem Arbeitsalltag, er hat auch Auswirkungen auf die Wissensproduktion. Eine Wissenschaft, die den Anspruch hat, der Diversität unserer Gesellschaft zu entsprechen, sollte nicht größtenteils von weißen cis-Männern getragen werden.

    Wir sind gegen die Marginalisierung von Genderthemen. Wir sind für eine Wissenschaft, die mit ihren Gegenständen die Vielfalt der Welt widerspiegelt und gestaltet. Wir sind gegen die Benachteiligung von Müttern* und Töchtern* in der Wissenschaft und für einen Wissenschaftsbetrieb, in dem sich Sorge-Arbeit und Wissenschaft aller Geschlechter strukturell nicht ausschließen. Wir sind gegen Konferenzen, deren Organisatoren und Sprecher ausschließlich weiße cis-Männer sind, und für eine paritätische Tagungskultur. Wir sind dagegen, dass in Instituten und Fachbereichen Professuren überwiegend mit weißen cis-Männern besetzt sind. Auch auf professoraler Ebene muss die Vielfalt zur Norm werden. Wir werden diese sexistischen und diskriminierenden Verhältnisse nicht länger hinnehmen. Wir wollen Reflexionsprozesse in Gang setzen und Veränderungen anstoßen.

    Wir sind dafür, dass alle, die Machtpositionen bekleiden, ihre Privilegien reflektieren und sorgsam mit ihnen umgehen. Wir sind für ein gleichberechtigtes Miteinander unabhängig von u.a. Geschlecht, Alter und Herkunft.

    #Germany #university #academia #higher_education #gender #power_relations #power_abuse #sexsim #discrimination #patriarchy

    https://gender-macht-wissenschaft.de

  • Persönlicher Erfahrungsbericht: Sexuelle Übergriffe und Schweigen an der Universität Basel*

    – von Esther Uzar –

    In diesem Text erzählt eine Person von Übergriffen, die sie durch einen Professor an der Universität Basel erfahren hat. Er enthält detaillierte Beschreibungen von sexualisierter Gewalt. Aus diesem Grund möchten wir Euch bitten bei der Lektüre achtsam zu sein.
    Inhaltswarnungen: Sexualisierte Gewalt (physisch und verbal), Machtmissbrauch, psychische Gewalt, soziale Ausgrenzung.

    Die Autorin trägt die volle Verantwortung für den Inhalt dieses Beitrags.

    Kontakt: esther.uzar@gmail.com

    Die «Transparenzunibas-Gruppe» übernimmt keinerlei Haftung für die Darstellung und Verwendung der darin erhaltenen Angaben.
    Für den Professor gilt die Unschuldsvermutung. Er formulierte den Medien gegenüber, er hätte «ein intimes Verhältnis initiiert» (Tagesanzeiger, 18.02.2019). Er schrieb: «Ich schäme mich zugeben zu müssen, dass es für die von Frau Esther Uzar gegen mich gemachten Vorwürfe eine Basis gibt.» (30.03.2018)

    Ich verliess die Universität Basel nach sieben Jahren Doktorat ohne Abschluss.

    Es ist Zeit zu erzählen.
    Sexuelle Übergriffe

    Auf einer Forschungsreise im Ausland erlebte ich sexuelle Übergriffe durch meinen Professor.

    Der Professor und ich sassen eines Abends am Tisch. Wir arbeiteten an unseren Laptops. Plötzlich stand er auf, beugte sich zu mir und drückte mir einen Kuss auf den Mund. Er ging wieder zu seinem Platz, setzte sich und arbeitete weiter. Ich konnte es kaum glauben. Ich sagte nichts. Später erklärte er auf dem Weg zu seinem Hotelzimmer: ‘Er möchte mich küssen.’ Ich sagte «Nein.» Er küsste mich dennoch. Er fasste an die Brüste. Er sagte zu mir:

    ‘Ich solle Georg Simmel lesen; der würde mich befreien…
    Ich solle nichts sagen und denken; sondern einfach nur fühlen, weil es so schön sei…
    Er hätte zuvor daran gedacht, mich zu küssen…
    Meine Lippen würden sich so schön anfühlen. Er hätte daran gedacht, meinen Hals zu küssen und meine Ohren und meinen Rücken, rauf und runter; ich würde ihn dann verrückt machen…’

    Ich war völlig überrumpelt. Ich wusste damit nichts anzufangen. Ich ging in mein Zimmer. Ich konnte nicht schlafen. Es gab niemanden, mit dem ich hätte sprechen können.

    – Dies war der Anfang. Es folgten sexuelle Aufforderungen. Er machte Bemerkungen über meinen Körper. Er schilderte intime Fantasien. Er drängte. Er ignorierte jede Zurückweisung. Meine Ablehnung stellte er als Verklemmtheit und Schüchternheit dar. Er sagte vier Tage später:

    ‘Mein Körper sei so weiblich. Er würde gerne wissen, wie sich mein Körper anfühlt…
    Wenn ich mich nicht traue, abends in sein Zimmer zu kommen, dann könnte er ja auch zu mir kommen.’

    Ich antwortete direkt «Nein.» Und: «Ich werde nicht mit dir schlafen.»

    Er erwiderte: ‘Was genau heisst «schlafen»? Für ihn sei das Kommen an sich nicht das Wichtigste. Am Schönsten fände er es, wenn er in eine Frau eindringt. Es wäre wirklich eine Ehre für ihn, mit mir zu schlafen…
    Ich sollte das geniessen, so einen schönen Körper zu haben…
    Er möchte mich gerne zwischen meinen Beinen küssen.’

    Ich protestierte lautstark.

    Am darauffolgenden Tag äusserte er, während wir durch die Stadt gingen:

    ‘Er möchte mit mir schlafen. Das sei ein Problem, hm? Ich müsse ihm ja nicht gleich was dazu sagen. Er sei wie ein westafrikanischer Händler, der verhandelt um zu kriegen was er will.’

    Zwei weitere Tage später kam er mittags in mein Zimmer. Er wollte meine Jeans aufmachen. Ich widersprach und schob seine Hände weg. Er reagierte, indem er sagte:

    ‘Er hätte sich schon so oft ausgemalt, wie er mit mir schlafen würde, wie er in mich eindringt, mich küssen würde, er mich von hinten nimmt – und das sei so schön gewesen. Die Fantasie sei eh das Schönste.’

    12 Male hatte ich den Professor zurückgewiesen. Dann schlief ich mit ihm.

    Nach der Forschungsreise kamen die sexuellen Avancen immer mal wieder. Er schrieb mir Emails. Er rief mich an. Er fragte im Büro, auf Konferenzen, bei Institutsveranstaltungen und bei Besprechungen meiner Dissertation. Einige Male schlief ich mit ihm. 24 weitere Male sagte ich «Nein.» Ohne Effekt.
    Isolation am Institut, akademische Ausgrenzung, Betreuerwechsel und Fachwechsel

    Im dritten PhD-Jahr entschied ich, mich vom Institut fernzuhalten. Zuerst arbeitete ich nur nachts, wenn niemand im Büro war. Dann blieb ich ganz fern.

    Ich empfand so viel Wut, Kränkung, Entwürdigung, Ohnmacht und Enttäuschung. Ich empfand Hass und Schmerz.

    Ein halbes Jahr später sah ich eine Veranstaltungsankündigung: Mitarbeiter und Professor hatten eine Konferenz geplant und organisiert – zu meinem Themenbereich. Sie hatten mich nicht einbezogen. Das war ein Schock. Ich konnte nicht mehr atmen. Ich sprach den Institutskoordinator darauf an. Er antwortete, ‘Oops, sorry, sie hätten mich vergessen.‘ Der Professor sagte zu mir, ‘Ich sei ja nicht sichtbar, weil ich nicht ins Büro komme‘ (15.07.2015).

    Bei der darauffolgenden Konferenz wurde ich wieder ausgeschlossen. Der Geschäftsführer merkte, dass ich aufgehört hatte, ins Büro zu kommen. Er kam auf mich zu und sprach mit mir: ‘Da ich kaum noch im Büro schaffen würde, sollte ich auch keinen Büroschlüssel mehr haben!‘

    Im März 2018 sah ich im Internet einen Sammelband, den der Professor zu meinem Dissertationsthema herausgab. Er hatte nicht gefragt, ob ich einen Beitrag schreiben wolle.

    Betreuerwechsel war schwierig. Zweimal hatte ich andere Professoren gefragt, ob sie die Arbeit betreuen würden. Sie hatten Interesse; doch mein Professor war nicht einverstanden. Beim ersten Mal reagierte er per Email: «Ich verstehe, dass es für dich besser wäre, einen anderen Betreuer zu haben. [Prof. B] kann dir sicherlich gut helfen. Er müsste aber eine Ablöse zahlen, denn ich möchte deine Arbeit weiterhin betreuen!» Beim zweiten Versuch fand mein Professor, der Prof. C würde meine Dissertation nicht kritisch genug prüfen; ausserdem würde ein Wechsel nicht gut ausschauen.

    Beim dritten Anlauf fragte ich nicht. Ich informierte ihn per Email: «Ich habe entschieden, unser Betreuungsverhältnis aufzulösen» (07.02.2018). Inzwischen war ich Doktorandin im siebten Jahr. Mein «Zweitbetreuer» wollte die Arbeit ungern übernehmen. Er sagte: «Eigentlich möchte ich diese Dissertation nicht übernehmen. Aber ich möchte Sie auch nicht im Regen stehen lassen. Ich werde die Arbeit später mit einer 4 – 4.5 bewerten» (06.03.2018).

    Eine andere Professorin meinte, ‘Sie wisse nicht, was vorgefallen sei; und sie müsse das auch nicht wissen‘ (17.04.2018).

    Ich arrangierte ein komplett neues Betreuungsteam. Dafür musste ich mein gewünschtes Promotionsfach aufgeben. Ich bat den Promotionsausschuss, mein Fach beibehalten zu dürfen. Dies war nicht möglich.
    Beratung: “Schweig und verlass die Uni Basel!”

    Ich schämte mich unendlich. Fünf Jahre sprach ich mit niemandem darüber.

    Im Frühsemester 2017 launchte die Universität die Kampagne «Wer zu nah kommt, geht zu weit». Überall hingen Poster gegen sexuelle Belästigung. Ich ging mit zwei Studentinnen in der Mensa essen; beide erzählten von ihren Erfahrungen: Avancen durch einen Gastdozenten sowie Übergriffe durch einen Lehrer in der Schulzeit. Eine Studentin meinte, die Rektorin nähme dieses Thema ernst. Nach diesem Essen ging ich zu meinem Institut; in der Eingangstür hing ein Flyer gegen sexuelle Belästigung. Ich sah es als ein Zeichen.

    Ich machte ein Beratungsgespräch an der Universität, am 19 Juni 2017. Die beratende Person empfahl mir: Ich solle die Erlebnisse für mich persönlich aufarbeiten; an der Universität jedoch still schweigen. Er habe ähnliche Fälle bei Doktorandinnen mehrfach mitbekommen. Dabei habe er noch nicht erlebt, dass eine Doktorandin ein Verfahren gewonnen hätte. Selbst ein Betreuerwechsel wäre riskant: Der Professor könnte destruktiv reagieren und mir schaden. Ich solle versuchen, die Dissertation bei ihm abzuschliessen, niemandem am Institut etwas sagen und anschliessend an eine andere Universität gehen.

    In diesem Sinne meinte auch die beratende Person für Nachwuchsförderung, mir bliebe wohl nichts anderes übrig, als die Uni Basel nach der Dissertation zu verlassen (05.02.2018).

    Ich machte einen weiteren Termin bei einer Uni-Ansprechperson für sexuelle Belästigung. Diese sagte mir am 22 Juni 2017, eine «Affäre» sei kein Fall für ein Verfahren; und Nachteile hätte ich dadurch nicht erfahren. Ich solle ‘den Professor zum Zweitbetreuer machen.‘
    Professor entschuldigt sich; Institut möchte nichts wissen

    Ein Jahr später beschwerte ich mich erneut. Ich schrieb eine offensive Email an den Institutskoordinator, die Forschungsdekanin und den Human Resources Leiter (25.03.2018). Eine Woche später lud eine Anwältin mich zu einer Beratung ein. Die externe Juristin war von dem Human Resources Leiter informiert worden. Ich wollte kein formelles Verfahren. Ich hatte Angst. Ich wollte eine Aussprache, eine Aufarbeitung und eine Entschuldigung.

    Zwei Wochen später schrieb die Anwältin, der Professor hätte eine sechs-seitige Stellungnahme geschrieben. Ich wollte diese Stellungnahme nicht lesen. Ich fragte den Professor per Email nach dem Inhalt. Er antwortete, Gegenstand seiner Stellungnahme wäre sein «Versagen» und sein «gravierendes Fehlverhalten». Der Professor schrieb:

    «Wenn die Universität mich rauswirft, und dazu wäre sie berechtigt, muss ich diese Entscheidung akzeptieren und respektieren.
    Dich trifft keine Schuld. Du bist ein Opfer.» (24.04.2018)

    Eine Woche später bekam ich die schriftliche Stellungnahme von der Anwältin zugeschickt. Mich traf der Schlag. Er leugnete alles. Es waren sechs Seiten Herabwertungen über mich. Ich stand drei Tage unter Schock. Der Professor hatte seine Stellungnahme nicht allein geschrieben; der Geschäftsführer des Instituts hatte ihm geholfen.

    Da zerbrach etwas in mir. Ich dachte, ich verliere den Glauben an die Menschheit. Noch einmal suchte ich das Gespräch mit dem Institut. Der Geschäftsführer lehnte ab. Er schrieb mir:

    «Ich muss mich auch schützen. Mir reicht der Umstand, dass Ihr eine Beziehung hattet. Relevant ist in diesem Sinne lediglich, zu welchen Zeitpunkten … etwas passiert ist, was dann eben für das Betreuungsverhältnis relevant ist. Details, wie Du sie unten beschreibst, möchte ich jedoch nicht kennen und ich bitte Dich, das zu berücksichtigen.» (07.05.2018).

    Ich war fassungslos. Relevant? Eine «Beziehung»? «Details» wolle er nicht kennen? Ich möge bitte auf ihn Rücksicht nehmen? Er bräuchte für sich einen schützenden Raum?

    Der Geschäftsführer schrieb eine weitere Email: Wenn er etwas gewusst hätte, «Ich hätte da auf jeden Fall interveniert und frühzeitig eine andere Betreuung oder sogar einen Wechsel der Universität vorgeschlagen» (04.05.2018). Diese Antwort kennen wir bereits: Ein Professor benutzt eine Doktorandin und Assistierende für Sex und die Lösung soll sein, dass SIE die Universität verlässt.
    Verfahren; Doktoranden-Kollegen haben Angst

    Die Anwältin beriet mich. Sie informierte mich, dass man eine Strafanzeige stellen könnte wegen «sexueller Ausnützung eines Abhängigkeitsverhältnisses» (StGB 193, d.h. in einem Arbeits-, Beratungs-, Behandlungs- oder Betreuungsverhältnis).

    Darüber hinaus würde die Universität die Kosten für eine psychologische Betreuung übernehmen. Am 21. Mai 2018 reichte ich eine formelle Beschwerde an der Universität ein. Das «Abklärungsverfahren» wurde eingeleitet. Zwei externe Juristinnen führten die Anhörungen und Befragungen von Auskunftspersonen in einer Anwaltskanzlei durch.

    Die Reaktionen von Doktoranden aus der Graduiertenschule waren ambivalent:

    ‘Ich solle den Mund halten; der Professor würde mich wegen Verleumdung verklagen!‘ ‘Wie könne man nur so dumm sein; jeder wisse doch, dass man mit seinem Professor nichts anfängt!‘

    Eine Kollegin empfahl mir, während des Verfahrens nicht im kurzen, roten Kleid herumzulaufen. Meine Chancen stünden ausserdem besser, wenn ich zum Professor nicht so «fies» sein würde. Ob es wirklich nötig sei, intime Details anzugeben; ich hätte schliesslich «eingewilligt»?

    Eine Kollegin beschwerte sich, ich würde mich ihr gegenüber so «aggressiv» und «angriffig» verhalten.

    Ich wollte meinen Fall innerhalb der Graduiertenschule teilen. Eine Doktorandin warnte mich: ‘Die Mit-Doktoranden hätten vermutlich wenig Verständnis; es würde mir schaden; dann könnte ich meinen Abschluss vergessen; der Professor würde eventuell seinen Job verlieren; alle wären auf ihn sauer; und die Strukturen würde es nicht ändern.‘
    Persönliche Aufarbeitung

    Ich brauchte einen Raum zum Erzählen. Ich brauchte jemanden zum Zuhören. Ich ging zu einer Psychologin, acht Monate lang. Ich hatte Glück: Ich landete bei der besten Psychologin der Welt. Ja, wirklich – die weiseste Frau, die ich je kennenlernte.

    Ich machte einen Wen-Do-Selbstverteidigungskurs, von Limit finanziert.

    Das Verfahren war eine extreme Belastung; aber unendlich wertvoll, weil es meine Aufarbeitung in Gang setzte. Ich las alte Emails, Nachrichten und Tagebücher. Dabei begleitete mich ein Buch: Der Basler Experte Dr. Werner Tschan beschäftigt sich seit 30 Jahren mit dem Thema; «Missbrauchtes Vertrauen. Sexuelle Grenzverletzungen in professionellen Beziehungen (2005).» Tschan beschreibt Täter-Opfer-Dynamiken. Er gibt Empfehlungen für Institutionen.
    Abschluss: Nach dem Schweigen ist vor dem Schweigen

    Das Verfahren wurde abgeschlossen. Die Anwältin schrieb mir:

    «Ich kann Ihnen mitteilen, dass das von Ihnen angehobene Beschwerdeverfahren abgeschlossen ist. Die Universitätsleitung hat entsprechend reagiert und mit Herrn Prof. hat ein Gespräch stattgefunden» (28.11.2018).

    Ein «Gespräch» ist die geringste Sanktion, nach Reglement von 2010. Im Reglement von 2015 steht kein Massnahmenkatalog.

    Ich informierte das Institut in einer Email. Die Mitarbeiter waren schockiert. Sie hatten nicht gewusst, dass ein Verfahren lief. Es tat gut, sich auszutauschen. Eine Mitarbeiterin war «wenig überrascht»; sie hatte am Institut «so viel Alltags-Sexismus, Diskriminierung und blinde Flecken erfahren und beobachtet» (10.12.2018).

    Dann passierte etwas Verheerendes: Der Pressesprecher und der HR Leiter wiesen das Institut an, keinerlei Informationen zu den Geschehnissen herauszugeben. Der Geschäftsführer erzählte daraufhin allen: Über meinen Fall dürfe nicht gesprochen werden!

    Das Institut lud zur Vollversammlung ein. Das Thema: «Schaffen einer sicheren Lern- und Arbeitsatmosphäre». Zuvor instruierte der Geschäftsführer mich: «Entscheidend ist, dass allgemein und zukunftsgerichtet orientiert und diskutiert wird, und nicht über einen konkreten Fall – da setzen die Regeln der Universität klare Grenzen» (30.01.2019). Ich ging zu dieser Vollversammlung. Die Mitarbeiter sprachen zwei Stunden über «den Fall», ohne über das Vorgefallene zu sprechen. Ich fühlte mich wie ein Geist bei meiner eigenen Beerdigung.

    Die Instituts-Sprecherin erklärte mir: Das Institut wolle sich nicht mit meinem Fall auseinandersetzen, sondern «die grössere Dimension, die hinter dem Sie betreffenden Fall steht, aufgreifen» (30.01.2019).

    Das Institut lud eine Expertin zu sexueller Belästigung ein. Sie führte einen Workshop mit Doktoranden durch. Die Expertin schrieb mir vorher: ‘Es sei nicht zu empfehlen, dass ich an dem Workshop teilnehme – zu meinem eigenen Schutz‘ (17.12.2018).

    Die Graduiertenschule organisierte eine Gesprächsrunde über «Machtmissbrauch und sexuelle Belästigung». In der Rundmail hiess es: «Wir wollen Eure Bedürfnisse und Vorschläge anhören. Es geht darum, Eure Anliegen zu hören und nächste Schritte zu planen. Bitte nimm zur Kenntnis, dass an dem Treffen nicht diskutiert werden soll, was passierte.» (29.01.2019) Ich ging nicht hin.

    Auch das Departement organisierte eine Informationsveranstaltung zu sexueller Belästigung. Dazu erhielt ich keine Einladung.

    Ich hatte meine institutionelle Heimat verloren. Ich war sieben Jahre Doktorandin; aber habe mit keiner Person aus meinem Fachbereich eine Freundschaft aufrecht erhalten.

    Ich exmatrikulierte mich am 21. Februar 2019.
    Entscheid: Entschädigung für Betroffene? Boundary-Training für Professor?

    Der Tagesanzeiger berichtete über das Schweigen und die Ausgrenzung:

    Simone Rau, 18.02.2019, «Du bist ein Opfer»
    https://m.tagesanzeiger.ch/articles/14990208

    Daraufhin teilte die Rektorin mir den Entscheid mit. Dieses Abschlussgespräch bedeutete mir viel. Ich war froh. Die Rektorin sagte: «Es tut uns furchtbar leid, dass solche Dinge passiert sind. Wir finden das scheusslich. Es ist unglaublich. Es passiert immer wieder auf der Doktorandenstufe» (25.02.2019). Auch das verantwortliche Rektoratsmitglied drückte Mitgefühl aus: «Es tut mir ausserordentlich leid, was Sie erlebt haben an der Universität Basel. Es hat mich auch erschüttert, als ich diesen Fall gesehen habe.»

    Den Sanktionsentscheid vom 06.11.2018 erfuhr ich mündlich am 25.02.2019:

    1. Der Professor verstoss gegen das Reglement der Universität Basel.

    2. Sein Verhalten ist nicht vereinbar mit dem geltenden Verbot jeglicher sexueller Belästigung. Er hat sich zu verpflichten, fortan diese Richtlinien einzuhalten.

    3. Dem Professor wird eine schriftliche Abmahnung erteilt; unter Androhung weiterer personalrechtlicher Massnahmen im Wiederholungsfall, bis hin zur Kündigung.

    4. Der Professor wird verpflichtet, sämtliches Bildmaterial, wie Video oder Fotos von sexuellen Handlungen, zu löschen und zu bestätigen, diese nicht weiterverbreitet zu haben.

    Der Entscheid enthält vier Punkte. Die Rektorin bezeichnete ihn als «eine recht grosse Strafe» (25.02.2019). Dabei fehlen zwei Massnahmen, die während des Verfahrens besprochen worden sind:

    (1) Ich hatte eine Therapie für den Professor gefordert (Email an Anwältin und Human Resources Leiter; 21.05.2018; an Institut am 07.12.2018): Das Basler «Beratungszentrum Sexuelle Grenzverletzungen in professionellen Beziehungen» bietet Boundary-Training für Führungskräfte an.

    (2) Zweitens hatte die Anwältin am 5. Juli 2018 gesagt: Sie werde dem Professor unterbreiten, eine finanzielle Entschädigung zwischen CHF 60’000 bis 160’000 zu zahlen. Die beiden Anwältinnen selbst schlugen dies vor.

    Ob diese Massnahmen an der Universität besprochen worden sind, weiss ich nicht. Die Tagesanzeiger-Journalistin Simone Rau schrieb mir am 12. Dezember 2019: Der Professor hatte der Anwältin „Ja“ zu einer Entschädigung gesagt. Dies erfahre ich 13 Monate nach Verfahrensabschluss.

    Rektoratsentscheide sind ausschliesslich «Sanktionen». Der Entscheid fokussiert auf die Tat_Person und gilt als deren private Angelegenheit. Die Bereiche «Prävention» und «Wiedergutmachung» sind bisher kein Bestandteil von Verfahrensabschlüssen. Die Interessen von Betroffenen, von Mit- und zukünftigen Studierenden sind bisher nicht enthalten.

    Studierende der Universität Basel haben in Reaktion auf Beschriebenes gemeinsam einen offenen Brief formuliert, in dem sie Umstrukturierungen an der Uni fordern, um ein antidiskriminatorisches Klima zu schaffen. Der Brief, sowie weitere Beiträge können auf dem Blog eingesehen werden.

    #sexualized_harassment #Basel #university #academia #PhD #power_abuse #Esther_Uzar

    https://transparenzunibas.wordpress.com/2019/12/18/personlicher-erfahrungsbericht-sexuelle-ubergriffe-und-

    ping @cdb_77 —> tu peux ajouter à la métaliste https://seenthis.net/messages/863594 tout au début pour #Suisse?

  • Nicht jeder half uneigennützig

    –-> available as Podcast on website

    Wer während der NS-Zeit in den Untergrund ging, um sich vor der Deportation zu retten, war angewiesen auf Helfer, ob in Deutschland oder im besetzten Europa. Die Helfer riskierten viel – und oft verlangten sie eine Gegenleistung: Jüdinnen sollten sexuell gefügig sein. Von einigen sind Erinnerungen überliefert.

    „Die Situation spitzte sich zu. Wenn wir nicht auf die Straße gesetzt werden wollten, so dachte ich, musste ich etwas tun. Das bedeutete: Ich musste dem Ehemann dieser Frau zu Willen sein. Ich war in sexueller Hinsicht schon erfahren und dachte: Was soll’s, bringen wir’s hinter uns. Es passierte auch nur zwei Mal. Herr Waldmann und ich gingen in das einstmals sehr gutbürgerliche jüdische Hotel ‚König von Portugal‘. Und wen traf ich da auf der Treppe? Meine Turnlehrerin! Wir lächelten uns an. Die war also auch mit einem Mann da. Und ich war noch Schülerin.“ (Marie Jalowicz)

    „Es war völlig – in der Retrospektive – für sie selbstverständlich, dass alles im Leben seinen Preis hat und dass sie diesen Preis eben häufig nicht wollte, aber zahlen musste, mit ihrem Körper. Und das hat sie ganz klar gesehen und ausgesprochen.“

    Was der Historiker Hermann Simon über seine Mutter Marie Jalowicz erzählt, wirft ein Licht auf ein Kapitel der Schoah, das lange kaum beachtet wurde: sexuelle Gewalt gegen untergetauchte Jüdinnen und Juden.

    Dass zur Geschichte der Schoah auch sexuelle Gewalt gehört, kann bei näherer Betrachtung kaum überraschen. Denn überall dort, wo es eine Hierarchie der Macht und Gewaltausübung gibt, wo Menschen schutzlos ausgeliefert sind, wo Rechte nichts gelten und die Würde des Anderen nicht zählt, ist jedweder Anwendung von Gewalt – der körperlichen, der seelischen, der sexuellen – Tür und Tor geöffnet. Man weiß von Bordellen in den Lagern, wo jüdische Frauen ihren Peinigern in SS-Uniform sexuell zu Diensten sein mussten, bevor sie ins Gas geschickt wurden.
    Bündnisse auf Zeit

    Und doch ist nur wenig davon überliefert. Zaghafte Zeugnisse aus einem an alltäglicher Demütigung und Erniedrigung reichen Gewaltregime in den Lagern. Das gilt auch für sexuelle Übergriffe auf Jüdinnen und Juden im Versteck. Wer in den Untergrund ging, um sich vor der Deportation zu retten, war angewiesen auf mutige Helfer, ob im Deutschen Reich oder im besetzten Europa. Ein täglicher Kampf ums Überleben, den viele, sehr viele verloren.

    Über die Umstände im Versteck, die Abhängigkeitsverhältnisse, die fragilen Bündnisse auf Zeit, geprägt von Heldenmut und Verrat und vielen Grautönen dazwischen, ist noch immer recht wenig bekannt. Überliefert sind meist nur die Geschichten von Überlebenden und das oft kaum mehr als in Bruchstücken. Und es gibt ein paar verfasste Erinnerungen. So wie die von Marie Jalowicz.

    „Insgesamt ist das Thema der Hilfen für verfolgte Juden in der NS-Zeit in Deutschland ein Thema, das über Jahrzehnte hinweg nicht beachtet wurde. Stattdessen wurden diejenigen, die Juden geholfen hatten, auch nach 1945 noch als Verräter angesehenm“, sagt Johannes Tuchel ist Leiter der Gedenkstätte Deutscher Widerstand in Berlin. Erst seit den 1980er Jahren haben sich Forscher eingehender mit Hilfen für verfolgte und untergetauchte Juden beschäftigt. Und es ging noch einmal ein Vierteljahrhundert ins Land, bis im Jahr 2000 mit der Dauerausstellung und zugleich Forschungsstelle „Stille Helden“ den Helfern, ihren Netzwerken und den Schicksalen der Untergetauchten erstmals Raum gegeben wurde.

    „Viele haben aber auch geschwiegen, weil sie ihre eigene Rettungstat für etwas Selbstverständliches hielten. Erst langsam hat sich dann auch ein Bewusstsein dafür breitgemacht, wie vielfältig die Hilfen für Verfolgte gewesen sind, aber wie vielfältig auch die Motivlage gewesen ist“, sagt Johannes Tuchel.

    Sichtbar wurden auch Schattenseiten des stillen Heldentums. Nicht jeder half uneigennützig. Johannes Tuchel spricht von einem ganzen Motivbündel, das Menschen dazu brachte, verfolgte Juden zu verstecken. Das konnte von einer ganz spontanen, der Situation geschuldeten Hilfe bis hin zu einem organisierten Netzwerk reichen. Auf jeden Untergetauchten kamen Helfer, meist nicht nur ein oder zwei, sondern oft ein ganzes Netz.

    Politische Gegnerschaft zum Nationalsozialismus fand sich dabei ebenso wie schlicht kommerzielle Interessen. Manchmal ging es auch weiter.
    „Kampf uns Überleben in jedem Augenblick“

    „Zu dieser Vielfalt von Motiven gehörte auch, dass Männer Frauen geholfen haben und dann sich in entsprechender Art und Weise von diesen Frauen eine Gegenleistung erhofften“, sagt Johannes Tuchel.

    Was Marie Jalowicz Jahrzehnte später ihrem Sohn erzählte, war, so ist anzunehmen, keine Seltenheit.

    „Und da ist dann die Frage, ist das noch ambivalent oder ist das ein Ausnutzen der Situation gewesen? Es gehören aber auch immer zwei dazu. Ist ja nicht nur so gewesen, dass der Helfer einen Entschluss fassen musste. Musste ja auch erst einmal derjenige einen Entschluss fassen, der sagt, ich gehe in den Untergrund. Und da stellte sich die Frage: Was nehme ich alles auf mich?

    Von schätzungsweise 10.000 Jüdinnen und Juden geht die Forschung heute aus, die während des Krieges im gesamten Deutschen Reich im Untergrund lebten. Die größte Zahl in der Reichshauptstadt, auch, weil sich hier die Deportationen über einen längeren Zeitraum zogen und es Möglichkeiten zum Untertauchen gab, die in einer Kleinstadt nicht gegeben waren.

    5.000-7.000 haben in Berlin den Sprung in den Untergrund gewagt, doch viele schützte die Zeit im Versteck nicht. Man schätzt, dass vielleicht 2.000 von ihnen den Krieg überlebten. Und das unter kaum vorstellbaren Zuständen. Marie Jalowicz erinnert sich: „Von Augenblick zu Augenblick habe ich darum gekämpft zu überleben. Alles, was ich erlebt habe, war sehr kompliziert, zum Teil qualvoll, zum Teil zum Verzweifeln.“

    Die Geschichte von Marie Jalowicz ist besonders. Nicht weil das, was sie durchlitten hat, sich grundsätzlich unterscheiden würde von den Erlebnissen anderer. Marie Jalowicz Geschichte ist besonders, weil wir davon in einer unglaublichen Detailfülle wissen.

    Weil ihr Sohn, der Historiker Hermann Simon, langjähriger Chef des Berliner Centrum Judaicum, ein altes Vorhaben der Mutter, kurz vor ihrem Tod umsetzte. „Du wolltest doch immer mal Deine Geschichte erzählen“, sagte er eines Tages zu ihr, als sie schon hochbetagt im Krankenhaus lag und hielt ihr ein kleines Aufnahmegerät hin. Was folgte, waren sich über ein Jahr hinziehende Interviews, in denen sich die Mutter Kapitel für Kapitel ihrer eigenen dramatischen Geschichte bis zu ihrer Befreiung im Frühjahr 1945 näherte. Es war auch ein Stück Selbstverpflichtung.

    Simon: „Ja, das spielte bei ihr eine Rolle, aber das hat sie sich wahrscheinlich erst wieder klar gemacht während der Diktate, denn sonst hätte sie, denke ich mal, nicht so lange gezögert. (…) Ich glaube schon, dass viele dieser Geschichten im täglichen Leben präsent waren, sehr viel präsenter, als wir als Familie das wahrgenommen haben und gewusst haben.Hermann Simon beim Unterschreiben von Büchern bei einer Buchvorstellung. (imago/Gerhard Leber)Hermann Simon beim Unterschreiben von Büchern bei einer Buchvorstellung. (imago/Gerhard Leber)

    Zu dem, was sie in bemerkenswerter Klarheit und präziser Erinnerung ein halbes Jahrhundert später ihrem Sohn ins Mikrofon sprach, gehörten Momente höchster Intimität. Herrman Simon sagt: „Sie hat es gar nicht bewertet. Sie hat es einfach berichtet, unsentimental, so war das eben. Aber es schwang immer so ein bisschen mit, glaube ich sagen zu können, das ging doch allen so. Nur die anderen erzählen es nicht.“

    Etwas später verkündete der Gummidirektor: Ich muss Dir mal was sagen, was mir sehr schwerfällt, ich mach’s auch kurz. Mit gesenktem Kopf und mit Tränen in den Augen erklärte er, er müsse mich enttäuschen. Er sei zu keiner wie immer gearteten sexuellen Beziehung mehr im Stande. Ich versuchte, das neutral und freundlich hinzunehmen, aber mich überwältigte ein solcher Jubel und eine solche Erleichterung, dass ich nicht mehr sitzenbleiben konnte. Ich floh auf die Toilette. Es wurde der erhabenste und erhebenste Klobesuch meines Lebens. Ich stellte mir, natürlich in Kurzfassung, einen Freitagabendgottesdienst vor, wie ich ihn in der alten Synagoge oft erlebt hatte. Ich rufe euch meine lieben Chorknaben singen, dachte ich, und ließ sie in meiner Erinnerung singen. All das das diente dazu, gaumel zu benschen, das heißt, für die Errettung aus Lebensgefahr zu danken. (Marie Jalowicz)

    Marie Jalowicz wurde 1922 in Berlin geboren. Ab Frühjahr 1940 musste sie Zwangsarbeit bei Siemens verrichten. Ihre Mutter starb 1938, ihr Vater, ein Anwalt, 1941. Der Verhaftung durch die Gestapo im Juni 1942 entging sie nur um Haaresbreite. Fortan lebte sie bis zu ihrer Befreiung 1945 im Untergrund. Drei quälend lange Jahre. In welche Gefahren sie dabei geriet, illustriert die Begegnung mit dem sogenannten Gummidirektor. Sie traf den unbekannten Mann an einem bitterkalten Winterabend in einer Kneipe. Sie brauchte dringend ein Versteck für die Nacht und so ging sie, ihre wahre Identität verbergend, mit ihm zu seiner Laube, in der er wohnte.

    Er entpuppte sich als überzeugter Nazi und, davon ging die junge Frau aus, als sie ihn auf wackligen Beinen sah, er litt wohl an Syphilis.

    Ich weiß zwar nicht, worunter Galetzki damals wirklich litt, aber ich hielt ihn für einen Syphilitiker. Wenn ich das Bett mit ihm hätte teilen müssen, wäre ich in Lebensgefahr gewesen. Nachdem ich wusste, dass es dazu nicht kommen würde, war ich zutiefst erleichtert und fühlte mich zutiefst befreit. Ha Shem... Gott ist mit mir. Ich fürchte nichts, rezitierte ich im Stillen, bevor ich zu ihm zurückkehrte. (Marie Jalowicz)

    Die Historikerin Barbara Schieb trägt in der Berliner Gedenkstätte „Stille Helden“ Stück für Stück die Geschichten von Untergetauchten und ihren Helfern zusammen.

    „Wir unterscheiden zwischen Helfern, die wirklich aus uneigennützigen Motiven geholfen haben. Und wir wissen ganz genau, dass es viele Menschen gegeben hat, die geholfen haben, aber dafür auch eine Gegenleistung haben wollten. Und eigentlich ist es auch für die Untergetauchten mit der Gegenleistung gar nicht so unwillkommen gewesen. Wenn man einen Deal hat, ich bekomme eine Leistung, dafür gebe ich auch etwas. Das Beste wäre natürlich gewesen, die Leistung mit Geld zu bezahlen, das Handelsübliche.“
    „Augen zu und durch“

    Doch den meisten Untergetauchten war das nicht möglich. Und so geriet man sehr schnell in eine Abhängigkeit, sagt Barbara Schieb.

    Barbara Schieb: „Man war immer abhängig von dem guten Willen anderer Leute und man wusste, man musste etwas bezahlen. Bei Frauen war das eben öfter mal die sexuelle Gegenleistung und das war den meisten Frauen auch völlig klar, dass das so ist. Sie haben sich über alle gefreut, die diese Gegenleistung nicht gefordert haben. Aber sie hielten es für durchaus auch völlig selbstverständlich, dass es so gefordert wurde. Wie Marie Jalowicz, die ganz genau wusste: so, Augen zu und durch.“

    Eine dieser Untergetauchten war Ilse Stillmann. Sie hat später von ihren Erlebnissen berichtet. Die so zwielichtige wie komplexe Problematik fasste Ilse Stillmann in ein paar dünnen Worten zusammen:

    Ja, ich hatte ja Erfahrungen gemacht. Frauen wollten billige Dienstmädchen und Männer wollten mit einem schlafen und dazu war ich nicht bereit. (Ilse Stillmann)

    Doch ob das so stimmt? Das ist die große Schwierigkeit bei einem Thema, das einem Schatten im Schatten gleicht. Vielleicht war es so, dass Ilse Stillmann tatsächlich nein sagen konnte. Barbara Schieb: „Also sie hat ganz explizit gesagt, nein das wollte ich nicht, dann bin ich auf diese Deals nicht eingegangen, dann hat sie sich einen anderen Schlafplatz gesucht.“

    Als ich mich immer noch nicht rührte und auch nichts zu sagen wagte, begann er, sanft meinen Arm zu streicheln, und sagte leise: ‚Berthy, du bist kein Kind mehr... mein Leben ist so viel lebendiger, so viel schöner, seit du hier bist. Ich möchte...‘ Er stockte erneut. Ich war mir nicht sicher, ob es gut wäre, wenn er jetzt weitersprechen würde. ‚Onkel Wim, bitte lass uns doch einfach so unbeschwert zusammen sein wie bisher‘, flüsterte ich endlich zurück. (Cilly Levitus-Peiser)

    Cilly ist noch jung, gerade 17 Jahre alt. Onkel Wim ist der Vater einer holländischen Bauernfamilie, die Cilly, genannt Berthy, nach ihrer Flucht aus Nazideutschland für einige Zeit verstecken. Auf der Flucht hatte sie sich in einen anderen jüdischen Jungen, Yakov, verliebt, erste Zärtlichkeiten erlebt. Sie mochte Bauer Wim, der sie in seinem Haus versteckte. Aber da waren diese Annäherungsversuche des 40-Jährigen Mannes.

    Wie sollte ich mich nur verhalten? Ich mochte Onkel Wim gern, sicher lieber als seine Frau. Aber wie weit wollte er jetzt gehen? Und was konnte ich tun? Was sollte ich tun? Mein Herz begann zu rasen, weil mir nichts einfiel, wie ich mich aus dieser Situation hätte retten können. ‚Berthy, hab keine Angst...‘, begann Onkel Wim nun wieder und fuhr zum ersten Mal mit der Hand unter meinen Schlafanzug. Dieser Abend blieb nicht der einzige. Er wiederholte sich viele Male. (Cilly Levitus-Peiser)
    Schweigen aus Scham

    Cilly Levitus-Peiser, die als 13-Jährige mit einem Kindertransport im November 1938 ins holländische Exil geschickt wurde, hat Jahrzehnte über diese Erlebnisse bei den Bauern geschwiegen. Aus Scham, wie sie später in ihren Erinnerungen schrieb.

    Vielleicht, weil ich mich geschämt habe zuzugeben, dass ich mich nicht wirklich gewehrt habe. Dass ich es manchmal sogar ein wenig genoss. Diese Aufmerksamkeit, diese Zärtlichkeit. Onkel Wim war kein schlechter Mensch. Er war einer von denen, die damals mein Leben gerettet haben. Aber er hat die Situation eines siebzehnjährigen Mädchens, dessen Leben von ihm abhing, ausgenutzt. (Cilly Levitus-Peiser)

    Die Berliner Kinderärztin und Psychotherapeutin Marguerite Marcus hat sich in ihrer Arbeit mit Überlebenden und deren Nachkommen viel mit fortwirkenden Traumata beschäftigt. Sexuelle Gewalt als Erfahrung von Überlebenden im Versteck sei dabei eigentlich nie zur Sprache gekommen, sagt sie.

    Marguerite Marcus: „Das Thema spielt keine Rolle, das ist so schambesetzt. Keiner redet darüber, dass er auch schwach war. Die Überlebenden reden gerne über die Stellen in ihrem Leben, wo sie stark waren und was ihnen geholfen hat zu überleben und sie waren ja so mutig. Das wichtigste war, überlebt zu haben. Die haben weite Teile auch verdrängt, weil sie auch in so depressiven Phasen waren, oft den Lebensmut verloren haben und alles haben über sich ergehen lassen. Manchmal war eben die sexuelle Gewalt gar nicht das Schlimmste. Manchmal war die mentale Gewalt von einer Frau, die einen als Aschenputtel in seinem Haus schrubben ließ auch nicht besser als der Mann, der dann wenigstens zärtlich war und der einen als Mensch begegnet hat.“
    Der „liebe Onkel von nebenan“

    Es wirkt umso erstaunlicher, mit welcher Offenheit Marie Jalowicz von den Übergriffen erzählt. Ihr Sohn Hermann Simon kannte im Wesentlichen all die Geschichten, bevor er das Interview-Projekt am Lebensabend seiner Mutter startete. Er erinnert sich an einen Fall: Ein „lieber Onkel“ von nebenan, zu dem er als Kind gern ging.

    Er erzählt: „In meinen Augen im besten Sinne des Wortes ein Proletarier, Fabrikarbeiter, mit Herz auf dem rechten Fleck, so habe ich den in meiner Erinnerung aus der Kindheit. Die Frau hat meiner Mutter, war ne ganz anständige Frau, in der unmittelbaren Nachkriegszeit geholfen. Und dieser Mann nähert sich meiner Mutter, ich glaube, sie war da nur eine Nacht und konnte da nicht lange bleiben, das ist eine hellhöriges Haus, ich weiß genau, wo das ist, ist ne feste Größe meiner Kindheit, und der nähert sich meiner Mutter, steht da, zitternd, im Nachthemd, beschreibt sie ja ziemlich genau, vor ihrem Bett, also, ja... muss ja eigentlich für eine junge Frau auch ekelhaft gewesen sein.“

    Barbara Schieb: „Das ist einfach eine absolute Schutzlosigkeit und ein Angewiesensein auf Menschen, die einem weiterhelfen in vielerlei Hinsicht. Man brauchte Lebensmittel, man brauchte einen Schlafplatz, man brauchte falsche Papiere, man brauchte einen Job, man brauchte Geld und man brauchte vielleicht auch emotionale Zuwendung. Man war einfach ein in die Welt geworfenes Wesen, das überhaupt nichts mehr mit dem alten Leben zu tun hatte.“

    Ein Foto zeigt den Umschlag des Buches „Untergetaucht“ (undatiertes Foto). In dem Buch sind die Erinnerungen der damals 20 jährigen Jüdin Marie Jalowicz Simon an die Nazi-Diktatur in Deutschland zusammengefasst. (S. Fischer Verlag/dpa)Buchtitel zu den Erinnerungen von Marie Jalowicz (S. Fischer Verlag/dpa)

    Herrmann Simon: „Die ganze Situation war eine Ausnahmesituation für alle Beteiligten. Keiner wusste, wie lange er noch zu leben hat.“

    Dass das Thema der „stillen Helden“ so wenig Beachtung fand, lag vor allem an der deutschen Nachkriegsgesellschaft, sagt Gedenkstättenleiter Johannes Tuchel:

    „In dem Moment, wo Sie eine Geschichte von Menschen erzählen, die verfolgten Juden geholfen haben, wird deutlich, es gab eine Alternative. Und dieses Aufzeigen von Handlungsalternativen hat man natürlich in der Nachkriegsgesellschaft äußerst ungern gesehen. Denn, um einen verfolgten Juden zu verstecken, mussten Sie kein hoher Offizier sein, nicht in irgendeiner Machtposition sein. Sie konnten Ottonormaldeutscher sein, der half.“

    Rein formal sei das Verstecken eines Juden kein Vergehen gewesen. Aber die Nazis konstruierten genügend andere Delikte, für die man belangt werden konnte: Wer einen Juden mit Lebensmitteln versorgte, verstieß gegen die Kriegswirtschaftsordnung. Wer zu falschen Papieren verhalf, beging Urkundenfälschung. Nicht die direkte Hilfe war strafbar, oft aber die begleitenden Handlungen.
    Helden oder Täter?

    Waren Helfer, die sich die Situation zunutze machten und Sex als Preis verlangten, stille „Helden“ oder Täter?

    Herrmann Simon: „Die Helfer haben geholfen. Die Helfer haben objektiv geholfen. Sie haben meiner Mutter das Leben gerettet und haben ihr Leben riskiert. Dass die nicht so selbstlos waren, wie wir das gerne hätten, steht auf einem anderen Blatt. Wenn wir hier irgendwas lernen können, dann doch das, dass die Geschichte nicht schwarz-weiß ist. Ist grau, bestenfalls.“

    Hermann Simons Mutter Marie Jalowicz hatte einen Grundsatz, sagt ihr Sohn: Nach vorne leben, nicht rückwärtsgewandt und schon gar nicht, dieser dunklen Zeit in ihrem Leben, diesen 12 Jahren, zu großen Raum schenken. Es habe für seine Mutter, die in der Zeit des Untertauchens eine junge Frau von Anfang 20 war, auch noch ein Leben danach gegeben. Kinder und Familie, die wissenschaftliche Karriere als Altphilologin und Philosophiehistorikerin an der Berliner Humboldt-Universität, Erfolge, Misserfolge, alles, was so zum Leben dazugehört.

    Herrmann Simon: „Sie wusste und so hat es sie auch gesagt, dass sie einen Preis dafür zu zahlen hat. Der Preis war hoch, aber das war auch mit ihrer Befreiung vorbei. Da fängt ein komplett neues Leben an. Schreibt sie ja auch, dass sie ausspuckt und sagt, jetzt ist Schluss. Jetzt will ich die sein, zu der ich erzogen worden bin.“

    #sexual_harassment #rape #Shoah #National_Sozialism #power_abuse #helper #return_service #underground

    https://www.deutschlandfunk.de/versteckte-juedinnen-in-der-ns-zeit-nicht-jeder-half.2540.de.html?dr

  • La « vente » des données de santé est déjà amorcée
    https://www.journaldemontreal.com/2020/08/28/la-vente-des-donnees-de-sante-est-deja-amorcee

    Un obscur organisme a été créé pour partager les informations avec les pharmas Le ministère de l’Économie finance déjà des projets visant à « exploiter » les données de santé des Québécois avec des multinationales pharmaceutiques. Son ministre Pierre Fitzgibbon a causé une controverse la semaine dernière en commission parlementaire en déclarant vouloir vendre des données de santé des Québécois pour attirer des compagnies pharmaceutiques. Ce qu’il n’a toutefois pas dit, c’est que son ministère a déjà ouvert (...)

    #données #BigPharma #santé

    ##santé

  • Power Pop
    Mélodie, choeurs et rock’n’roll
    1970 - 2019
    Christophe Brault
    https://lemotetlereste.com/musiques/powerpop


    https://power-pop.tumblr.com

    À travers cette sélection de cent #albums, Christophe Brault invite le lecteur à plonger dans l’univers de la #power_pop. Ce subtil mélange entre une mélodie pop façon Beatles où des chœurs renforcent l’harmonie et dont l’ensemble est augmenté par une forte dose de guitare #rock’n’roll, est un cocktail né sur les traces des Kinks, des Who et, bien entendu, des Fab Four en 1970. Ses initiateurs ? Ils ont pour nom : Badfinger, Raspberries, Big Star ou Flamin’ Groovies. Avec l’arrivée de la génération punk, la power pop vit son âge d’or grâce aux Cars, à Blondie ou aux Knack. En retrait dans la deuxième moitié des 80’s, elle revient en trombe dans les 90’s et se perpétue encore aujourd’hui comme une niche musicale riche et active dont les étendards sont les Teenage Fan Club, Posies, Fountains Of Wayne ou les Weezer.

    Conférencier rock, Christophe Brault a été disquaire pendant 15 ans et a collaboré à de nombreuses radios (France Bleu Armorique, Fréquence Ille etc.). Aux éditions Le mot et le reste, il est aussi l’auteur de Rock garage.

    The Nerves - Hanging on the Telephone
    https://www.youtube.com/watch?v=ZiUgasXVcCY

    Hoodoo Gurus - « I Was a Kamikaze Pilot »
    https://www.youtube.com/watch?v=5DOsCpHxoPw


    #musique

  • Typology: #Power_station | Thinkpiece | Architectural Review
    https://www.architectural-review.com/essays/typology-power-station/10040432.article

    Faced with planetary catastrophe, does the future of energy generation lie in a return to its historical origins?

    Of all the failures currently threatening global politics, none is quite so baleful as the refusal to tackle climate change. Architecture is, like all technological activities, deeply complicit in this negligence. Although this is a systemic problem, which can in no way be reduced to a single type of building, the power station can be taken as emblematic of this failure, not least for its ongoing proliferation. And yet, as well as failure, the power station also represents a great success story, which has – at least for the time being – transformed the lives of so many people for the better.

    #architecture #bâtiments_industriels

  • “Le #Power_Point rend les étudiants bêtes et les profs ennuyeux” - Les Echos Start
    https://start.lesechos.fr/continuer-etudes/master-ms-mba/le-power-point-rend-les-etudiants-betes-et-les-profs-ennuyeux-7576.ph

    De plus en plus de profs se basent sur des slides pour donner leurs cours. Mais l’un d’entre eux, Paul Ralph s’élève contre cette pratique, qui selon lui baisse dangereusement le niveau des universités comme leurs exigences vis-à-vis des étudiants.

    “Vous pensez vraiment que regarder un prof lire des centaines de slides Power Point vous rend plus intelligent ?” Dans une tribune publiée sur Business Insider UK, le professeur d’informatique Paul Ralph explique pourquoi, selon lui, cette façon d’enseigner est totalement inefficace.

    • #bof... tout dépend du prof, des étudiant·es et dudit #ppt #powerpoint

      J’utilise des ppt, mais mes étudiant·es ont l’air d’écouter, et moi je ne suis pas ennuyeuse, hein ?

      Powerpoint est un instrument, tout dépend comme on l’utilise...

      “Vous pensez vraiment que regarder un prof lire des centaines de slides Power Point vous rend plus intelligent ?”

      A cette question je réponds volontiers :
      vous pensez qu’un prof qui lit son texte écrit sur une bonne vielle feuille papier c’est plus fun ?

    • Cela doit faire une dizaine d’années maintenant que je suis professionnellement exposé à des power choses à raison de plusieurs fois par semaine, je constate, avec plaisir, qu’aucune des informations auxquelles j’ai été exposé de la sorte n’ont eu le moindre retentissement sur ma mémoire.

      De même j’ai longtemps eu la réputation professionnelle (délétère) de feindre que, soit mon poste, soit le vidéo projecteur, ne fonctionnaient pas et de produire mes exposés avec un tableau magnétique et un feutre. Je peux le dire maintenant c’est souvent moi qui démontait l’ampoule du vidéo-projecteur cinq minutes avant la réunion et de même j’ai remarqué à l’usage que comme plus personne n’utilise le tableau magnétique et le paperboard, mes exposés schématiques avaient une certaine longévité en salle de réunion, et étaient souvent mémorisés plus ou moins consciemment par les participants d’autres réunions qui s’ennuyaient devant les diapositives des collègues plus modernes.

      Je ne rendrais pas les ampoules subtilisées. Parfaitement compatibles (parfois le monde est bien fait) avec mon vidéo projecteur avec lequel je projette des images pendant des spectacles.