• L’#homme_mesuré

    « L’homme mesuré » sortira dans les prochaines semaines en Allemagne. Premier film à raconter l’histoire du massacre des #Hereros et de #Namas en #Namibie par l’armée coloniale allemande au début du XXe siècle.

    C’est un film très attendu outre-rhin. Ça s’appelle « L’homme mesuré », réalisé par #Lars_Kraume, et présenté il y a un mois au festival de Berlin.

    C’est la première fois que cette page de l’#histoire peu connue de l’#Allemagne sera portée à l’écran : le massacre de 60 000 hereros et de 10 000 namas, deux #peuples_indigènes de Namibie, internés en camp de concentration et tués par l’armée coloniale allemande entre 1884 et 1915.

    Un génocide que l’Allemagne n’a reconnu qu’en 2021. Une page très sombre éclipsée pendant des décennies par les crimes nazis.

    Le réalisateur de « L’homme mesuré », Lars Kraume, espère que « ce film permettra une #prise_de_conscience de cette #histoire_refoulée. » L’Allemagne ajoute t-il a nié son #passé_colonial pendant 120 ans, la plupart des gens ignorent cette partie de l’histoire, ce n’est même pas enseigné dans les écoles."

    Un génocide désormais reconnu par l’Etat allemand

    Ce génocide est donc désormais reconnu par l’Etat allemand, qui a passé un accord financier il y a deux ans avec la Namibie pour aider les descendants des familles Hereros et Namas. Un milliard d’euros de soutien financier.

    Pas question de parler de réparation ni même de prononcer d’excuses. Un accord remis en question à l’heure actuelle par la Namibie, qui l’estime insuffisant.

    Ces dernières semaines, le réalisateur s’est rendu en Namibie pour projeter son film grâce à un cinéma mobile alimenté par de l’énergie solaire. Il doit sortir au cinéma dans quelques semaines en Europe.

    https://www.radiofrance.fr/franceinter/podcasts/sous-les-radars/le-bruit-du-monde-sous-les-radars-du-mercredi-22-mars-2023-7410141
    #film #peuples_autochtones #massacre #génocide #histoire #camps_de_concentration

    ping @reka

  • « Imagine, vivre à la mer et ne pas pouvoir y accéder ? » : en Italie, ils luttent pour des plages libres
    https://reporterre.net/Imagine-vivre-a-la-mer-et-ne-pas-pouvoir-y-acceder-en-Italie-ils-luttent

    Sur le littoral italien, près d’une plage sur deux est privée. Par endroits, ce sont même neuf sur dix. Face à cette situation, des militants se mobilisent pour un accès libre et gratuit à ce bien public.

    Sur la promenade du Corso Italia, à Gênes, Valentina et son ami Maroun s’arrêtent net devant le grand panneau qui annonce « Spiaggia libera » à l’entrée de l’ancienne plage privée Capo Marina. « Cette plage est devenue publique ? C’est incroyable », s’exclame l’éducatrice de 39 ans.

    Un coup d’œil au littoral en contrebas suffit pour saisir son étonnement. Sur les 2,5 km de plages, seulement trois parcelles sont accessibles gratuitement. Le reste est jonché de transats et de parasols rangés par couleur, permettant de différencier la dizaine d’établissements balnéaires collés les uns aux autres.

    #néolibéralisme #privatisation #plage #italie

  • Privilegi fiscali delle compagnie aeree europee, un biglietto da 34,2 miliardi di euro

    I colossi dell’aviazione civile del continente, che hanno già beneficato di sussidi pubblici durante la pandemia, sfruttano generose esenzioni sul cherosene, sulle emissioni e sui prezzi dei biglietti. Evitando ogni anno di pagare tasse che potrebbero essere investite dagli Stati in modalità di trasporto più sostenibili. Il report di T&E

    Nel 2022 i Paesi europei hanno perso 34,2 miliardi di euro a causa delle tasse non pagate dalle compagnie aeree, pari a circa quattro milioni di euro all’ora. Quanto si sarebbe speso per installare oltre 1.400 chilometri di rete ferroviaria ad alta velocità.

    Lo evidenzia lo studio pubblicato a luglio della Federazione europea per il trasporto e l’ambiente (Transport&Environment, T&E) che analizza e stima i danni causati dai privilegi fiscali di cui godono le compagnie aree sui voli passeggeri (la componente cargo non è stata considerata).

    “Questa differenza è dovuta a tre componenti: zero tasse sull’acquisto del cherosene (il carburante utilizzato per i voli aerei, ndr), Iva assente o molto ridotta sul costo dei biglietti e infine la tassazione delle emissioni secondo il mercato europeo (Emission trading scheme, Ets) solo sui voli tra scali europei”, si legge nella relazione.

    Dei 34,2 miliardi di euro non pagati la maggior parte (20,5 miliardi) sarebbero dovuti alle mancate imposte su carburante ed emissioni. Se non verranno presi provvedimenti, con la ripresa e la crescita del settore, questa quota è destinata ad aumentare, superando i 47 miliardi di euro nel 2025, quando il numero di voli sarà tornato ai livelli pre pandemia da Covid-19.

    Il settore dell’aviazione è tra i più emissivi, ed è infatti responsabile del 2,5% delle emissioni di CO2 a livello globale, un valore in forte crescita. Se nel 2013 l’impronta di carbonio era di 706 milioni di tonnellate di CO2 (MtCO2) nel 2019 questo valore era salito a 920. Nonostante il forte calo dei voli durante la pandemia da Covid-19, è previsto che il numero di partenze e arrivi dai Paesi dell’Unione europea aumenti del 62% al 2050 (rispetto ai livelli pre pandemici). Uno dei motivi di questa crescita, secondo T&E, è dovuto proprio agli ampi vantaggi fiscali del settore che non solo favoriscono le aziende ma non le incentivano a ridurre le proprie emissioni, ad esempio tramite l’utilizzo di carburanti alternativi o a emissioni nette nulle.

    Applicare una tassazione equa permetterebbe di ottenere numerosi vantaggi ambientali ed economici. A iniziare dall’incentivare la transizione ecologica del settore rendendo i combustibili fossili mono convenienti, oltre a diminuire la forbice tra voli e trasporto ferroviario favorendo mezzi di trasporto più ecologici (come indica anche Greenpeace). Inoltre, con le tasse pagate dalle aziende si potrebbero finanziare investimenti in tecnologie sostenibili non solamente nel settore dei trasporti. Il tutto secondo il principio per il quale dovrebbero essere le aziende più inquinanti a dover pagare per le proprie emissioni.

    Eppure dall’analisi di T&E emerge come siano proprio le compagnie aeree con le emissioni più alte ad aver beneficiato di uno sconto maggiore. Poco più della metà (il 56%) del tax gap è dovuto infatti alle 15 compagnie aeree più inquinanti d’Europa. A guidare questa classifica sono Air France e Lufthansa che sono le due maggiori responsabili del tax gap in Europa, a causa delle dimensioni della loro attività. L’Europa ha perso rispettivamente 2,4 e 2,3 miliardi di euro di entrate derivanti dalle attività di queste compagnie aeree.

    Come è possibile? Torniamo alle tre “cause”, partendo dal carburante. In Europa solo Norvegia e Svizzera impongono una tassa sul cherosene ma questa è limitata ai voli domestici. La Norvegia impone una tassa pari a 17 centesimi di euro per litro e nel 2022 ha portato a entrate per “soli” 68 milioni di euro. Mentre in Svizzera si pagano 45 centesimi per ogni litro consumato, ma la componente di voli domestici nel Paese è così bassa da rendere le sue entrate trascurabili.

    La seconda è la tassazione sui biglietti. Tutti i Paesi europei applicano un’aliquota Iva nulla al trasporto aereo internazionale e cinque (Cipro, Danimarca, Irlanda, Malta e Regno Unito) la impongono anche per le tratte domestiche. Gli altri Stati applicano un’aliquota ridotta (ad esempio Francia, Svezia) o l’aliquota Iva generale (ad esempio Grecia, Ungheria). T&E stima che l’Iva imposta ai viaggi aerei sia stata pari a 1,1 miliardi di euro nel 2022, con Italia (221 milioni) e Spagna (182 milioni) che hanno ottenuto il maggior gettito.

    La terza componente è dovuta all’esclusione dei voli extra-europei dal mercato del carbonio (Ets), il che comporta che la compagnia non debba compensare affatto le emissioni su questi voli. L’esclusione di queste tratte, che nonostante rappresentino solo il 6% dei voli sono responsabili del 51% delle emissioni del settore, non è solo problematica dal punto di vista ambientale ma favorisce compagnie di grandi dimensioni (come Air France, appunto) rispetto alle low cost, in quanto queste ultime, a causa della maggior quota di tratte europee, pagano un’imposta media maggiore sulle emissioni. Per queste ragioni nel febbraio 2022 quattro compagnie low cost (easyJet, Ryanair, Jet2 e Wizz Air), con il supporto di T&E, hanno scritto una lettera alla Commissione europea per chiedere di mettere fine a questo privilegio.

    Non solo i governi europei mantengono una fiscalità agevolata verso le compagnie aeree ma, in particolare durante la pandemia, hanno anche elargito loro finanziamenti pubblici. “La crisi da Covid-19 ha evidenziato la posizione favorevole delle compagnie aeree nell’accesso ai fondi statali. Ciò sottolinea che i governi tengono artificialmente a galla un settore ad alta intensità di carbonio con sussidi considerevoli. Durante la pandemia, il governo britannico ha fornito sostegno finanziario a British Airways, easyJet, Wizz air e Ryanair, per un ammontare di due miliardi di euro. La Svizzera ha destinato 1,8 miliardi di euro al settore dell’aviazione, di cui 1,2 miliardi a Swiss e 568 milioni di euro a Swissport, Gategroup e Sr technics. La Norvegia ha salvato le sue compagnie aeree con 559 milioni di euro -denuncia ancora T&E-. Questi sussidi non rientrano nella nostra analisi, ma sono importanti da menzionare quando si parla dell’accesso privilegiato dell’aviazione ai fondi pubblici”.

    Secondo la Federazione è necessario perciò che i Paesi europei pongano fine alle esenzioni fiscali ingiustificate sul carburante per aerei, garantendo che i mercati del carbonio coprano le emissioni di tutte le compagnie aeree (anche e soprattutto per i voli a lungo raggio) e applicando un’Iva del 20% su tutti i biglietti aerei. “Nel breve termine, i governi nazionali dovrebbero applicare le proprie tasse sui biglietti al livello necessario per colmare questo divario fiscale, in assenza di questi cambiamenti. In media, queste tasse vanno dai 23 euro per un viaggio nazionale, ai 51 euro per un viaggio intra-europeo e ai 259 euro per i viaggi extra-europei -suggerisce T&E-. Oltre a garantire che parte delle entrate raccolte sia reinvestita in tecnologie pulite come le energie rinnovabili e la produzione di carburanti sintetici (i cosiddetti e-fuel, combustibili a emissioni neutre necessari per la decarbonizzazione dei trasporti aerei e navali a lungo raggio) o nella promozione di modalità di trasporto alternative più pulite come la ferrovia”.

    Ciò potrebbe comportare una diminuzione della domanda e un risparmio di emissioni di CO2. Lo studio rileva che porre fine alle esenzioni nel 2022 avrebbe consentito di evitare la produzione di 35 milioni di tonnellate di CO2.

    “La tassazione non dovrebbe essere percepita come una punizione ma come un modo di far pagare in modo equo a coloro che beneficiano maggiormente della sotto regolamentazione dell’aviazione. Le persone più agiate della società hanno pagato troppo poco per le loro abitudini di volo -spiega Jo Dardenne, responsabile per l’aviazione presso T&E-. Un aumento delle imposte non ridurrà l’innovazione ma, al contrario, porterà benefici ai cittadini e al settore nel lungo periodo, poiché i governi interverranno per finanziare la transizione verso l’energia pulita, anche per i trasporti aerei”.

    https://altreconomia.it/privilegi-fiscali-delle-compagnie-aeree-europee-un-biglietto-da-342-mil
    #transport_aérien #compagnies_aériennes #subventions #fisc #exonération_fiscale #privilèges_fiscaux #avions #contradiction #absurdistan #absurdité #changement_climatique #fiscalité

    #OnEstPasAUneContradictionPrès

  • North Africa a ’testing ground’ for EU surveillance technology

    The EU is outsourcing controversial surveillance technologies to countries in North Africa and the Sahel region with no human rights impact assessments, reports say.

    Controversial surveillance technologies are being outsourced by the European Union to countries in North Africa and the Sahel region with no transparency or regulation, according to two new reports.

    Funding, equipment and training is funnelled to third countries via aid packages, where autocratic governments use the equipment and techniques to surveil the local population.

    Beyond the borders of Europe, the movements of asylum seekers are being policed and eventually used to assess their asylum applications.

    Antonella Napolitano, author of a report for human rights group EuroMed Rights, told Middle East Eye that the implementation of these projects is opaque and lacks proper consideration for the rights of civilians and the protection of their data.

    “There aren’t enough safeguards in those countries. There aren’t data protection laws,” Napolitano said. “I think the paradox here is that border externalisation means furthering instability [in these countries].”

    The complex web of funding projects and the diversity of actors who implement them make the trails of money difficult to track.

    “This enables states to carry out operations with much less transparency, accountability or regulation than would be required of the EU or any EU government,” Napolitano told MEE.

    The deployment of experimental technologies on the border is also largely unregulated.

    While the EU has identified AI regulation as a priority, its Artificial Intelligence Act does not contain any stringent provision for the use of the technologies for border control.

    “It’s creating a two-tiered system,” Napolitano told MEE. “People on the move outside the EU don’t have the same rights by design.”
    Asylum claims

    The surveillance of migrants on the move outside of Europe is also brought to bear back inside Europe.

    A Privacy International report published in May found that five companies were operating GPS tagging of asylum seekers for Britain’s Home Office.

    “It’s been massively expanded in the past couple of years,” Lucie Audibert, legal officer at Privacy International, told MEE.

    Other, less tangible forms of surveillance are also deployed to monitor asylum seekers. “We know, for example, that the Home Office uses social media a lot… to assess the veracity of people’s claims in their immigration applications,” Audibert told MEE.

    According to the reports, surveillance equipment and training is supplied by the EU to third countries under the guise of development aid packages.

    These include the EU Emergency Trust Fund for Africa (EUTF for Africa) and now the Neighbourhood, Development and International Cooperation Instrument.

    The reports cite multiple instances of how these funding instruments served to bolster law enforcement agencies in Algeria, Egypt, Libya and Tunisia, furnishing them with equipment and training that they then used against the local population.

    The EUTF for Africa allocated 15 million euros ($16.5m USD) in funding to these countries to train up a group of “cyber specialists” in online surveillance and data extraction from smart devices.

    A Privacy International investigation into the role of CEPOL, the EU law enforcement training agency, revealed that it had supplied internet surveillance training to members of Algeria’s police force.

    The investigation highlights a potential connection between these tactics, which contravened the EU’s own policies on disinformation, and the wave of online disinformation and censorship driven by pro-regime fake accounts in the aftermath of the 2019 Hirak protests in Algeria.
    A dangerous trend

    For journalist Matthias Monroy, the major development in border surveillance came after the so-called migration crisis of 2015, which fuelled the development of the border surveillance industrial complex.

    Prior to that, Europe’s border agency, Frontex, was wholly dependent on member states to source equipment. But after 2015, the agency could acquire its own.

    “The first thing they did: they published tenders for aircraft, first manned and then unmanned. And both tenders are in the hands of private operators,” Monroy told MEE.

    Frontex’s drones are now manned by the British company Airbus. “The Airbus crew detected the Crotone boat,” Monroy told MEE, referring to a shipwreck off the coast of Crotone, Italy, in February.

    “But everybody said Frontex spotted the boat. No, it was Airbus. It’s very difficult to trace the responsibility, so if this surveillance is given to private operators, who is responsible?”

    Almost 100 people died in the wreck.

    Since 2015, with the expansion of the border surveillance industrial complex, its digitisation and control has been concentrated increasingly in the hands of private actors.

    “I would see this as a trend and I would say it is very dangerous,” Monroy said.

    https://www.middleeasteye.net/news/eu-north-africa-surveillance-technology-testing-ground

    #surveillance #technologie #test #Afrique_du_Nord #Sahel #asile #migrations #réfugiés #frontières #intelligence_artificielle #IA #EU_Emergency_Trust_Fund_for_Africa (#EUTF_for_Africa) #développement #Emergency_Trust_Fund #Algérie #Egypte #Tunisie #Libye #complexe_militaro-industriel #contrôles_frontaliers #Frontex #Airbus #drones #privatisation

    ping @_kg_

    • The (human) cost of Artificial Intelligence and Surveillance technology in migration

      The ethical cost of Artificial Intelligence tools has triggered heated debates in the last few months. From chatbots to image generation software, advocates and detractors have been debating the technological pros and societal cons of the new technology.

      In two new reports, Europe’s Techno-Borders and Artificial Intelligence: The New Frontier of the EU’s Border Externalisation Strategy, EuroMed Rights, Statewatch and independent researcher Antonella Napolitano have investigated the human and financial costs of AI in migration. The reports show how the deployment of AI to manage migration flows actively contribute to the instability of the Middle East and North African region as well as discriminatory border procedures, threatening the right to asylum, the right to leave one’s country, the principle of non-refoulement as well as the rights to privacy and liberty.

      European borders and neighbouring countries have been the stage of decades-long efforts to militarise and securitise the control of migration. Huge sums of public money have been invested to deploy security and defence tools and equipment to curb arrivals towards the EU territory, both via externalisation policies in countries in the Middle East and North Africa and at the EU’s borders themselves. In this strategy of “muscling-up” the borders, technology has played a crucial role.

      EuroMed Rights’ new reports highlight how over the decades, surveillance technology has become a central asset in the EU’s migration policies with serious impacts on fundamental rights and privacy. In Artificial Intelligence: The New Frontier of the EU’s Border Externalisation Strategy we analyse how surveillance technology has been a crucial part of the European policy of externalisation of migration control. When surveillance technologies are deployed with the purpose of anti-smuggling, trafficking or counterterrorism in countries where democracies are fragile or there are authoritarian governments, they can easily end up being used for the repression of civic space and freedom of expression. What is being sold as tools to curb migrant flows, could actually be used to reinforce the security apparatus of repressive governments and fuel instability in the region.

      At the same time, Europe’s Techno-Borders highlights how this security obsession has been applied to the EU’s borders for decades, equipping them with ever-more advanced technologies. This architecture for border surveillance has been continuously expanding in an attempt to detect, deter and repel refugees and migrants. For those who manage to enter, they are biometrically registered and screened against large-scale databases, raising serious concerns on privacy violations, data protection breaches and questions of proportionality.

      Decades of “muscling-up” the EU’s borders keep showing the same thing: military, security, defence tools or technology do not stop migration, they only make it more dangerous and lethal. Nonetheless, the security and surveillance apparatus is only expected to increase: more and more money is being invested to research and develop new tech tools to curb migration, including through Artificial Intelligence.

      In a context that is resistant to public scrutiny and accountability, and where the private military and security sector has a vested interest in expanding the surveillance architecture, it is crucial to keep monitoring and denouncing the use of these technologies, in the struggle for a humane migration policy that puts the right of people on the move at the centre!

      Read our reports here:

      - Artificial Intelligence: the new frontier of the EU’s border externalisation strategy: https://euromedrights.org/wp-content/uploads/2023/07/Euromed_AI-Migration-Report_EN-1.pdf
      - Europe’s Techno-Borders: https://euromedrights.org/wp-content/uploads/2023/07/EuroMed-Rights_Statewatch_Europe-techno-borders_EN-1.pdf

      https://euromedrights.org/publication/the-human-cost-of-artificial-intelligence-and-surveillance-technology
      #rapport #EuroMed_rights

  • Frais faramineux, personnalités grassement payées… Le juteux #business d’un pionnier de l’#enseignement_supérieur_privé

    Révélées à l’occasion de l’#affaire_Delevoye, les largesses passées de #Roger_Serre, fondateur du réseau d’#écoles_privées #IGS, font l’objet d’une #plainte contre X déposée par le nouveau directeur, #Stéphane_de_Miollis.

    Souvenez-vous, décembre 2019, l’affaire Jean-Paul Delevoye : le haut-commissaire à la réforme des retraites d’Emmanuel Macron a dû démissionner, avant d’être condamné à quatre mois de prison avec sursis et 15 000 euros d’amende pour avoir omis de déclarer à la Haute autorité pour la transparence de la vie publique certaines rémunérations. Parmi elles, un contrat avec un groupe soudain mis en lumière : l’#Institut_de_gestion_sociale, ou IGS.

    Depuis lors, les soupçons pèsent sur ce poids lourd de l’#éducation_privée, réunissant dix écoles (de marketing, management, communication, etc.) aux acronymes abscons : #Esam, #Esin, #Imis, #Imsi, #Ffollozz… hormis la faussement select #American_Business_School_of_Paris. Trois campus, cinq centres de formation, le tout créé sous un statut associatif, financé à plus de 60 % par des #fonds_publics. Les enquêteurs de l’Office central de lutte contre la corruption et les infractions financières ont perquisitionné le siège de l’IGS et une plainte contre X a été déposée, le 2 mars 2023. Elle émane du nouveau directeur général exécutif d’IGS, Stéphane de Miollis, un ancien cadre d’Adecco, résolu à saisir la justice après avoir mis le nez dans les comptes et commandé un audit au prestigieux cabinet #August_Debouzy.

    « J’ai découvert des montages étonnants pour une fédération d’associations à but non lucratif : des factures de consultants, des notes de frais faramineuses, relate-t-il. Il fallait réagir pour nos enseignants, les 15 000 jeunes qu’on forme chaque année, ne pas se contenter de laver le linge sale en famille. » Dans son viseur, Roger Serre, 78 ans, le fondateur d’IGS, fils de traiteurs marseillais et ancien élève de l’#Essec_Business_School. Dès 1975, il fonde de nombreuses écoles, armé de son entregent et de ses amitiés politiques, notamment avec #Michel_Rocard. Doué pour décrocher les subventions et convaincre les entreprises (Bouygues, Lafarge, IBM… ), il flèche leur #taxe_d’apprentissage vers IGS.

    Appartements et bonnes bouteilles

    « Bienvenue dans le monde des possibles », avait-il comme slogan, insistant toujours sur son engagement associatif, social, humaniste. En réalité, Roger Serre n’a, semble-t-il, jamais oublié de servir ses intérêts. Il a créé, à l’ombre d’IGS, ses propres sociétés, grassement rémunérées pour des missions de communication et de publicité dans les journaux, les salons étudiants. L’une d’elles détient même la propriété des marques des écoles, ce qui les contraint chaque année à reverser des droits pour pouvoir utiliser leur propre nom. Le businessman de l’apprentissage a en parallèle bâti un autre groupe d’écoles, aux initiales quasi similaires, #ISC, dont il est actionnaire. La plainte, aujourd’hui révélée par Libération, pointe un « détournement des ressources du groupe IGS au bénéfice de Roger Serre et de ses proches ». Elle détaille notamment des notes de taxis princières (près de 80 000 euros en 2021), des billets de train ou d’avion, ainsi que la location d’un appartement pour sa fille près des Champs-Elysées. Le fondateur aurait aussi eu l’habitude d’offrir de bonnes bouteilles – de 500 euros à plus de 1 700 euros chaque année et par récipiendaire – à des élus, parlementaires, édiles (Anne Hidalgo en tête), ou collaborateurs de ministres…

    La plainte relève enfin l’embauche de « personnes politiquement exposées » : #Jean-Paul_Delevoye aurait ainsi été rémunéré, sans « trace de travail effectif évidente », à hauteur de 8 250 euros par mois en 2017, et de 6 925 euros en 2018, pour quarante-deux jours de travail. L’ancien ministre était logé dans un appartement de 66 m², près du parc Monceau, alors même qu’il était encore Haut-commissaire à la réforme des retraites. Aujourd’hui retiré de la vie publique, et récemment destitué de la Légion d’honneur, Delevoye plaide l’erreur : « J’aurais dû démissionner quand j’ai été nommé, mais j’ai vraiment bien travaillé avec Roger Serre, longtemps bénévolement d’ailleurs, pour éveiller les futurs managers aux humanités et à la culture. »

    « Couteau dans le dos »

    Autre ami du fondateur, #Jean-Paul_Huchon, ancien président socialiste de la région Ile-de-France. Le haut fonctionnaire a été employé dès la fin de son mandat, après l’embauche de son épouse, recrutée quant à elle comme « chargée de mission stratégie insertion », 1 500 euros par mois, pour deux jours de travail hebdomadaires. Selon l’audit, l’ex-cacique du PS a pu percevoir jusqu’à 122 294 euros en 2018. La seule trace apparemment retrouvée de son travail est un cours de vingt et une heures donné dans une école de management sur… le rock’n’roll. « C’était bien plus, deux à trois fois par semaine, et des cours très pointus, où je passais des vidéos, des bandes-son », se défend Huchon, en apprenant la plainte.

    « Jean-Paul est un spécialiste mondial », assure Roger Serre lors d’une rencontre début juillet, avec ses avocats. L’octogénaire, tout chic, pochette en soie bleue assortie à ses yeux, ne comprend manifestement pas la tempête juridique qui le guette. Il détaille, lèvres madrées, la construction d’IGS : « Toute ma vie ». Un actif immobilier de 200 millions d’euros laissé au groupe, qui lui valut de figurer – à tort, prétend-il – dans le classement des cent plus grandes fortunes de France.

    Il savoure les réseaux sans cesse retissés, jusqu’au secrétaire général de l’Elysée, Alexis Kohler, approché en tant qu’ancien de l’Essec. Son sésame pour rencontrer le Président. « J’ai essayé de convaincre Macron de ne pas nationaliser la taxe d’apprentissage, en vain… » Roger Serre s’étonne que son groupe pâtisse tant de l’affaire Delevoye, « une petite négligence de Jean-Paul ». Il admet ne pas être un « champion de la gestion », jure que le redressement fiscal d’IGS sera léger. Et s’indigne que son successeur lui plante aujourd’hui un « couteau dans le dos », alors qu’il l’a désigné, après avoir lâché les rênes, en échange d’un contrat de consultant en stratégie de 50 000 euros par mois. « Pourquoi cherche-t-on aujourd’hui à m’abattre ? A qui profite le crime ? » interroge le fondateur, en pointant la « #financiarisation_de_l’éducation » avec des géants détenus par des fonds d’investissement qui ont sans doute repéré IGS, et son chiffre d’affaires de plus de 130 millions d’euros. « Les vautours rôdent », s’essouffle-t-il. En attendant, ce sont les juges qui l’attendent au tournant.

    https://connexion.liberation.fr/autorefresh?referer=https%3a%2f%2fwww.liberation.fr%2fsociete%2
    #ESR #enseignement_supérieur #privatisation #université #France #financiarisation #justice

  • La CGT pénitentiaire : un syndicat comme les autres ? - Le Numéro Zéro
    https://lenumerozero.info/La-CGT-penitentiaire-un-syndicat-comme-les-autres-5207

    Les surveillant·e·s pénitentiaires travaillent pour l’État, à maintenir enfermée une partie de la population, majoritairement pauvre. Ils ont peut-être de mauvaises conditions de travail. Alors pourquoi les revendications de leurs syndicats reviennent-elles principalement… à durcir la vie des prisonniers et des prisonnières ?

    Leurs sites internet sont explicites : selon eux l’administration pénitentiaire respecte plus les « voyous » que les gardiens – ah bon ?! –, leur autorité est menacée, les prisonniers et prisonnières ne sont jamais assez sanctionnés… Ils réclament « des réponses pénales sévères », de la sécurité, de la répression, des fouilles [1] tant qu’ils veulent.
    Bien sûr, il y a des conflits entre les gardiens et leur hiérarchie. Mais quiconque est concerné par la prison sait très bien que, au fond, leur intérêt commun est de maintenir l’ordre en détention. Quitte à détruire la vie des prisonniers, des prisonnières et de leurs proches. Quand les gardiens font grève, ils ne bloquent pas leurs supérieurs, ils ne menacent pas d’ouvrir les cellules pour que les prisonniers prennent l’air. Ils bloquent les détentions. Ils rendent l’enfermement encore plus violent : restriction drastique de nourriture, pas d’activité, pas de douches, parfois même pas de parloirs. Les « usagers pris en otage » ne sont jamais interviewés.

    lors des mobilisations à l’appel du collectif national contre les violences policières et le racisme, la CGT se fait représenter par sa n°2, Céline Verzeletti, syndiquée à la CGT pénitentiaire

    #prison #syndicat #CGT

  • La moitié des nouveaux #médicaments mis sur le marché n’ont pas de valeur thérapeutique ajoutée
    https://www.lemonde.fr/sante/article/2023/07/21/la-moitie-des-nouveaux-medicaments-mis-sur-le-marche-n-ont-pas-de-valeur-the

    Et pire pour les indications secondaires.

    […] une étude publiée le 5 juillet dans le British Medical Journal […] révèle que moins de la moitié des médicaments approuvés par les autorités européenne et américaine entre 2011 et 2020 ont une valeur ajoutée substantielle pour leur première indication thérapeutique – maladie ou symptômes pour lesquels ils sont développés – par rapport aux produits déjà existants. Les secondes indications thérapeutiques, obtenues ensuite et qui élargissent le champ d’application de la molécule, sont quant à elles 37 % moins susceptibles d’être à forte valeur thérapeutique.

    #santé #prix #pharma

  • La prison de Villeneuve-lès-Maguelone au bord de l’implosion, selon le syndicat Ufap-Unsa Justice
    https://www.francebleu.fr/infos/faits-divers-justice/la-prison-de-villeneuve-les-maguelone-au-bord-de-l-implosion-selon-le-syn

    La maison d’arrêt de Villeneuve-lès-Maguelone compte 780 places mais actuellement, elle abrite 950 détenus. Alors que les effectifs sont au plus bas déplore Marine Orengo secrétaire locale de l’Ufap-Unsa Justice. « Pour faire fonctionner le centre pénitentiaire, on a besoin de 17 postes de surveillants tous les jours. Or vendredi il n’y avait que neuf postes couverts et ce dimanche matin, nous sommes à seulement six sur 17. »

    (C’est la prison de #Montpellier.)

  • Des nouvelles de l’union des droites : au Blanc-Mesnil (93) le Sénateur-Maire Thierry Meigne fait régner un climat de terreur politique
    https://threadreaderapp.com/thread/1679231229810425858.html

    Le maire et les Tilleuls : tension et répulsion
    https://www.bondyblog.fr/politique/municipales2020/le-maire-et-les-tilleuls-tension-et-repulsion
    Pourquoi les banlieues rouges passent à droite. Le Blanc-Mesnil, un cas d’école, Samir Hadj Belgacem

    Thierry Meignen
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Thierry_Meignen

    La nouvelle équipe municipale supprime les subventions du Forum culturel, salle de spectacle conventionnée inaugurée en 1993 et réputée l’une des grandes réussites de l’acte II de la décentralisation, afin de marquer une rupture avec la politique culturelle des précédentes administrations3.

    En juillet 2014, l’auteur de bande dessinée Remedium lance Titi Gnangnan, une bande dessinée publiée sous forme de daily strip sur Tumblr. Le personnage principal, maire nouvellement élu de la commune fictive d’Alba-Villa, est inspiré Thierry Meignen, qui menace de porter plainte contre l’auteur4 puis résilie son bail dans un logement conventionné de la commune, mais en octobre 2016 le tribunal administratif de Montreuil annule cette décision pour « détournement de pouvoir » de l’édile et condamne la municipalité à verser 1 000 € au dessinateur.

    Le maire a quitté les Républicains pour rejoindre Soyons libres créé par la présidente du conseil régional Valérie Pécresse.

    #émeutes #IDF #porcherie #banlieue_rouge #gauche #PCF_chauvin #droite #épuration #union_des_droites #Reconquête #cités #pauvres #association #culture #syndicalisme #privatisation #spéculation_immobilière #Valérie_Pécresse

  • Moins on mange, plus ils encaissent : l’inflation gave les bourgeois
    https://www.frustrationmagazine.fr/inflation-bourgeois

    C’est à n’y rien comprendre. C’est la crise, l’inflation reste très élevée, l’économie n’est ni remise du Covid ni de la guerre en Ukraine qui se poursuit. Et pourtant, les profits atteignent des records, les dividendes sont plus hauts que le ciel, et les milliardaires n’ont jamais accumulé autant de milliards. Si on n’y regarde […]

    • Moins on mange, plus ils encaissent : l’#inflation gave les bourgeois

      C’est à n’y rien comprendre. C’est la crise, l’inflation reste très élevée, l’économie n’est ni remise du Covid ni de la guerre en Ukraine qui se poursuit. Et pourtant, les profits atteignent des records, les #dividendes sont plus hauts que le ciel, et les #milliardaires n’ont jamais accumulé autant de milliards. Si on n’y regarde pas de plus près, on pourrait considérer comme paradoxale une situation qui est parfaitement logique. Pour accumuler les milliards, il faut accumuler les dividendes. Pour accumuler les dividendes, il faut accumuler les profits. Pour accumuler les profits, il faut appauvrir la population en augmentant les #prix et en baissant les #salaires réels. Ça vous parait simpliste ? Alors, regardons de plus près les chiffres.

      Selon l’INSEE, au premier trimestre de cette année, l’#excédent_brut_d’exploitation (#EBE) des entreprises de l’#industrie_agro-alimentaire (c’est-à-dire le niveau de profit que leur activité génère) a progressé de 18%, pour ainsi s’établir à 7 milliards d’euros. Les industriels se font donc de plus en plus d’argent sur le dos de leurs salariés et, plus globalement, sur celui des Français qui galèrent pour se nourrir correctement : les ventes en volume dans la #grande_distribution alimentaire ont baissé de 9% au premier trimestre 2023 par rapport à la même période l’année précédente. La #consommation en France est ainsi tombée en-dessous du niveau de 2019, alors que la population a grossi depuis de 0,3%. Selon François Geerolf, économiste à l’OFCE (Observatoire français des conjonctures économiques), cette baisse de la #consommation_alimentaire n’a aucun précédent dans les données compilées par l’Insee depuis 1980. Dans le détail, sur un an, on constate des baisses de volumes vendus de -6% l’épicerie, -3% sur la crèmerie, -1,6% pour les liquides, etc. Cela a des conséquences concrètes et inquiétantes : en avril dernier, l’IFOP montrait que presque la moitié des personnes gagnants autour du SMIC se privait d’un repas par jour en raison de l’inflation.

      Une baisse de la consommation pilotée par les industriels

      Comment les entreprises peuvent-elles se faire autant d’argent, alors que nous achetons de moins en moins leurs produits ? Tout simplement, car cette baisse de la consommation est pilotée par les industriels. Ils choisissent d’augmenter massivement leurs prix, en sachant que la majorité des gens accepteront malgré eux cette hausse, car ils considéreront qu’elle est mécaniquement liée à l’inflation ou tout simplement, car ces industriels sont en situation de quasi-monopole et imposent donc les prix qu’ils veulent (ce qu’on appelle le #pricing_power dans le jargon financier). Ils savent très bien que beaucoup de personnes n’auront par contre plus les moyens d’acheter ce qui leur est nécessaire, et donc que les volumes globaux qu’ils vont vendre seront plus bas, mais cette baisse de volume sera très largement compensée par la hausse des prix.

      Sur le premier trimestre 2023, en Europe, #Unilever et #Nestlé ont ainsi augmenté leurs prix de 10,7%, #Bonduelle de 12,7% et #Danone de 10,3 %, alors que l’inflation tout secteur confondu passait sous la barre des 7%. La quasi-totalité d’entre eux voient leurs volumes vendus chuter dans la même période. Les plus pauvres, pour lesquels la part de l’alimentaire dans la consommation est mécaniquement la plus élevée, ne peuvent plus se nourrir comme ils le souhaiteraient : la #viande et les #céréales sont particulièrement touchés par la baisse des volumes vendus. Certains foyers sautent même une partie des repas. Les #vols se multiplient, portés par le désespoir et les grandes enseignes poussent le cynisme jusqu’à placer des #antivols sur la viande et le poisson.

      Les hausse des profits expliquent 70% de la hausse des prix de l’alimentaire

      Comme nous avons déjà eu l’occasion de l’écrire, les hausses de profit des #multinationales sont déterminantes dans l’inflation que nous traversons. Même le FMI le dit : selon une étude publiée le mois dernier, au niveau mondial depuis 2022, la hausse des profits est responsable de 45 % de l’inflation. Le reste de l’inflation vient principalement des coûts de l’#énergie et des #matières_premières. Plus spécifiquement sur les produits alimentaires en France, d’après les calculs de l’institut La Boétie, « la hausse des prix de #production_alimentaire par rapport à fin 2022 s’explique à plus de 70 % par celle des profits bruts ». Et cela ne va faire qu’empirer : en ce début d’année, les prix des matières premières chutent fortement, mais les prix pratiqués par les multinationales poursuivent leur progression, l’appétit des actionnaires étant sans limites. L’autorité de la concurrence s’en inquiète : « Nous avons un certain nombre d’indices très clairs et même plus que des indices, des faits, qui montrent que la persistance de l’inflation est en partie due aux profits excessifs des entreprises qui profitent de la situation actuelle pour maintenir des prix élevés. Et ça, même la Banque centrale européenne le dit. », affirme Benoît Cœuré, président de l’Autorité de la concurrence, au Parisien.

      La stratégie des multinationales est bien rodée : augmenter massivement les prix, mais aussi bloquer les salaires, ainsi non seulement leur #chiffre_d’affaires progresse fortement, mais ils génèrent de plus en plus de profits grâce à la compression de la #masse_salariale. Les calculs sur longue période de l’Institut La Boétie donnent le vertige : « entre 2010 et 2023, le salaire brut horaire réel (c’est-à-dire corrigé de l’inflation) a baissé de 3,7 %, tandis que les profits bruts réels, eux, ont augmenté de 45,6 % ». Augmenter massivement les prix tout en maintenant les salaires au ras du sol permet d’augmenter le vol légal que les #actionnaires commettent sur les salariés : ce qu’ils produisent est vendu de plus en plus cher, et les patrons ne les payent par contre pas davantage.

      La Belgique a le plus bas taux d’inflation alors que les salaires y sont indexés

      L’une des solutions à cela est bien connue, et était en vigueur en France jusqu’en 1983 : indexer les salaires sur les prix. Aujourd’hui seul le SMIC est indexé sur l’inflation et la diffusion des hausses du SMIC sur les salaires plus élevés est quasi inexistante. Les bourgeois s’opposent à cette mesure en affirmant que cela risque de favoriser encore davantage l’inflation. Les statistiques prouvent pourtant le contraire : la Belgique est le pays affichant le plus bas taux d’inflation en avril 2023 (moins de 5% tandis qu’elle atteint 6,6% en France) alors que là-bas les salaires s’alignent automatiquement sur les prix. Il est urgent de mettre en œuvre ce genre de solutions en France. En effet, la situation devient de plus en plus intenable : la chute des #conditions_de_vies de la majorité de la population s’accélère, tandis que les bourgeois accumulent de plus en plus de richesses.

      Cela dépasse l’entendement : selon le magazine Challenges, le patrimoine professionnel des 500 plus grandes fortunes de France a progressé de 17 % en un an pour s’établir à 1 170 milliards d’euros cette année ! En 2009, c’était 194 milliards d’euros… Les 500 plus riches détiennent donc en #patrimoine_professionnel l’équivalent de presque la moitié de la #richesse créée en France par an, mesurée par le PIB. Et on ne parle ici que de la valeur des actions qu’ils détiennent, il faudrait ajouter à cela leurs placements financiers hors du marché d’actions, leurs placements immobiliers, leurs voitures, leurs œuvres d’art, etc.

      La #France au top dans le classement des gros bourges

      La fortune de #Bernard_Arnault, l’homme le plus riche du monde, est désormais équivalente à celle cumulée de près de 20 millions de Français et Françaises d’après l’ONG Oxfam. Sa fortune a augmenté de 40 milliards d’euros sur un an pour s’établir à 203 milliards d’euros. Ce type a passé sa vie à exploiter des gens, ça paye bien (à peine sorti de polytechnique, Bernard Jean Étienne avait pris la direction de l’entreprise de son papa). Au classement des plus grands bourges du monde, la France est donc toujours au top, puisque non seulement on a l’homme le plus riche, mais aussi la femme, en la personne de #Françoise_Bettencourt_Meyers (patronne de L’Oréal, 77 milliards d’euros de patrimoine professionnel). Mais il n’y a pas que le luxe de représenté dans ce classement, la grande distribution est en bonne place avec ce cher #Gérard_Mulliez (propriotaire des #Auchans notamment) qui détient 20 milliards d’euros de patrimoine ou #Emmanuel_Besnier, propriétaire de #Lactalis, le 1er groupe mondial de produits laitiers, qui émarge à 13,5 milliards.

      Les chiffres sont vertigineux, mais il ne faut pas se limiter à une posture morale se choquant de ces #inégalités sociales et appelant, au mieux, à davantage les taxer. Ces fortunes ont été bâties, et progressent de plus en plus rapidement, grâce à l’exploitation du travail. L’augmentation de valeur de leurs entreprises est due au travail des salariés, seul créateur de valeur. Tout ce qu’ils détiennent est ainsi volé légalement aux salariés. Ils doivent donc être pris pour cible des mobilisations sociales futures, non pas principalement parce qu’ils sont #riches, mais parce qu’ils sont les plus gros voleurs du monde : ils s’emparent de tout ce qui nous appartient, notre travail, notre vie, notre monde. Il est temps de récupérer ce qui nous est dû.

      https://www.frustrationmagazine.fr/inflation-bourgeois

      #profit #économie #alimentation #chiffres #statistiques

  • Grenoble instaure une ZFE à temps partiel pour les particuliers latribune.fr
    Les prolos, dehors, du lundi au vendredi, de 7h à 19h

    C’est un arrêté qui ne passe pas inaperçu alors que, depuis plusieurs semaines, les tensions se cristallisent autour des ZFE, ces zones à faibles émissions où les véhicules les plus polluants sont progressivement interdits. La métropole grenobloise vient d’instaurer sa ZFE pour les particuliers. Cela ne concerne pour l’instant que les véhicules Crit’Air 5, avec une période de « pédagogie » de six mois pendant laquelle aucune verbalisation ne sera appliquée. Au 1er janvier 2024, l’interdiction s’étendra aux véhicules Crit’Air 4, puis au 1er janvier 2025 aux Crit’Air 3.

    Mais la métropole a aménagé les restrictions de circulation. Elles ne seront pas permanentes. Elles s’appliqueront uniquement du lundi au vendredi, de 7h à 19h. Cette ZFE ne concerne par ailleurs que 13 des 49 communes de la métropole grenobloise. Certains axes seront également exemptés : voies desservant les parking-relais et les gares, voies rapides, voies d’accès à certains centres hospitaliers, et voies d’accès aux massifs montagneux.


    « Nous voulions permettre plus de flexibilité et accompagner les changements de comportement », a souligné Cécile Cénatiempo, conseillère déléguée à la qualité de l’Air de la métropole grenobloise, lors d’une conférence de presse.

    La métropole avait déjà mis en place, il y a trois ans, une ZFE pour les utilitaires et poids lourds, cette fois à temps complet.

    Nombreuses dérogations
    D’autres dérogations seront appliquées, notamment en faveur des « petits rouleurs » (moins de 5.000 km par an), des travailleurs en horaires décalés, des véhicules d’intérêt général... Un passe journalier, utilisable 12 fois dans une année, sera aussi disponible pour tous. Des « évolutions » et des « ajustements » pourront se faire sur ces éléments pendant la mise en œuvre de la ZFE, a indiqué Cécile Cénatiempo, mentionnant une « clause de revoyure » d’ici à 2026.

    Une manière pour la métropole grenobloise de répondre aux critiques de part et d’autre du spectre politique. La majorité écologiste de la ville de Grenoble avait réclamé des mesures « plus ambitieuses » tandis que les opposants, élus ou citoyens, ont dénoncé une mesure « inefficace écologiquement et injuste socialement ».

    Il est vrai que le sujet divise et pourrait se transformer en bombe sociale au niveau national. Dans ce contexte, un rapport formulant « 25 propositions pour allier transition écologique et justice sociale » a été remis ce lundi au ministre de la Transition écologique, Christophe Béchu. Un rapport co-écrit par Jean-Luc Moudenc, président divers droite de Toulouse Métropole, et Anne-Marie Jean, élue écologiste de la Métropole de Strasbourg. Il vise une application « plus juste » et « plus cohérente » des zones à faibles émissions (ZFE). Le document propose notamment des mesures supplémentaires pour aider les plus modestes à changer de véhicule. Le gouvernement a annoncé préparer des mesures « d’acceptabilité sociale » pour l’automne.

    Assouplissement des restrictions décidé par le gouvernement
    Cet arrêté de l’agglomération grenobloise intervient alors même que le gouvernement annonce dispenser justement Grenoble, mais aussi Toulouse et Reims, de renforcer davantage les restrictions de circulation liées aux Zone à faibles émissions (ZFE). Selon des chiffres publiés ce lundi par le ministère de la Transition écologique, la qualité de l’air s’est améliorée l’an dernier dans ces trois agglomérations.

    Elles basculent cette année « en zone de vigilance », selon une nouvelle classification présentée aujourd’hui par le gouvernement. Ce qui veut dire qu’elles peuvent ainsi « décider de suspendre les prochaines étapes de leur calendrier de restrictions ». Reims avait pris les devants en mars avec un moratoire sur les Crit’air 3, qui donne un répit jusqu’en 2029 aux véhicules équipés de cette vignette.

    « Tordre le cou à des rumeurs et aux fake news »
    Avec cette nouvelle classification, le gouvernement entend « préciser les règles applicables » et « tordre le cou à des rumeurs, des +fake news+ », a souligné le ministre de la Transition écologique Christophe Béchu lors d’une conférence de presse. Selon lui, le RN comme LR, qui ont proposé de supprimer les ZFE, et les Insoumis, qui ont proposé un moratoire, surestiment l’effet de ces zones sur les automobilistes.

    Cinq métropoles dépassent encore « de manière régulière » les seuils réglementaires de qualité de l’air : Paris, Lyon, Aix-Marseille, Rouen et Strasbourg. Ces dernières sont désormais classées comme « territoires ZFE » et doivent ainsi continuer à appliquer progressivement les restrictions fixées par la loi : interdiction des Crit’Air 4 au 1er janvier 2024 (voitures diesel de plus de 18 ans), puis des Crit’Air 3 en 2025 (voitures diesel de plus de 14 ans et voitures essence de plus de 19 ans).

    #exclusion #racisme #air #ségrégation #privilèges #racisme #inégalités #Grenoble #eelv #bourgeoisie #Éric_Piolle #voiture #zfe #guerre_aux_pauvres #fichage #surveillance #contrôle

    Source : https://www.latribune.fr/entreprises-finance/services/transport-logistique/grenoble-instaure-une-zfe-a-temps-partiel-pour-les-particuliers-969185.htm

  • Crimes violents et sexuels Quelle prison pour les détenues trans ? Tristan Péloquin - La Presse.ca

    Au moment où l’Écosse suspend les transferts de personnes transgenres détenues pour des crimes violents vers des prisons pour femmes, un rapport du Service correctionnel du Canada montre que 91 % des femmes transgenres détenues dans les pénitenciers fédéraux du pays purgent des peines pour des infractions violentes, contre 72 % pour la population carcérale masculine.

    Ce portrait, dressé par le Service correctionnel du Canada (SCC) et obtenu par La Presse grâce à la Loi sur l’accès à l’information, précise que 44 % des détenues transgenres (personnes s’identifiant comme femmes dont le sexe de naissance était masculin) incarcérées dans les pénitenciers fédéraux ont déjà été condamnées pour des crimes de nature sexuelle, et que 41 % purgent une peine liée à un homicide.

    Dans plus de 9 condamnations pour crimes sexuels sur 10, les infractions ont été commises alors que le délinquant vivait selon l’identité correspondant à son sexe biologique de naissance (alors qu’il était ou s’identifiait comme un homme), indique le document de 64 pages, intitulé Examen des délinquants de diverses identités de genre. « La majorité des victimes étaient des enfants ou des femmes », souligne un résumé de l’étude également obtenue par la Loi sur l’accès à l’information.

    L’étude dresse ce portrait en se basant sur les données démographiques, la nature des infractions et le type de peines de 99 délinquants de diverses identités de genre, identifiés par le SCC entre 2017 et 2020.

    Une directive officielle du SCC permet depuis 2017 à tous les détenus d’être placés dans leur « type d’établissement préféré », selon ce « qui correspond le mieux à leur identité ou expression de genre », et ce, « peu importe leur sexe ou leur marqueur de genre/sexe dans les documents d’identification ».

    Aucune intervention chirurgicale transformative ni aucun examen psychologique n’est nécessaire ; la politique se base sur l’autodéclaration du genre faite par le délinquant.

    Plus d’une douzaine de détenues transgenres, dont certaines au passé très violent, ont à ce jour été transférées d’établissements pour hommes vers des prisons pour femmes en vertu de cette politique. Le seul critère officiel de refus de transfert est l’existence de « préoccupations dominantes en matière de santé ou de sécurité ».

    Le cabinet du ministre de la Sécurité publique, Marco Mendicino, a pris connaissance du portrait dressé par le SCC, mais ne remet pas en question la directive permettant aux détenues trans sous responsabilité fédérale d’être transférées vers des prisons pour femmes. « Nous ne prévoyons pas revoir dans un avenir proche la politique en vigueur. [Ces données] soulèvent de bonnes questions, c’est inquiétant, et ce sont des choses qui seront discutées par notre cabinet. Mais dans un avenir proche, il n’y a pas de changement de politique en vue », a indiqué le directeur du cabinet, Alexander Cohen.

    Volte-face en Écosse
    L’adoption d’une politique carcérale semblable par l’Écosse a provoqué ces derniers jours un débat public qualifié de « hautement émotif » par le ministre écossais de la Justice, Keith Brown, qui a décrété une « pause » dans le transfert de détenues transgenres vers des pénitenciers pour femmes.

    Nous ne devons pas permettre que s’enracine la perception que les femmes trans sont un problème inhérent pour les femmes. Ce sont les hommes prédateurs qui sont un risque pour les femmes.
    Keith Brown, ministre écossais de la Justice

    Le ministre écossais a néanmoins exigé une « révision urgente » du cas d’Isla Bryson, une femme transgenre condamnée pour deux agressions sexuelles violentes commises contre des femmes en 2016 et 2019, alors qu’elle s’identifiait comme un homme connu sous le nom d’Adam Graham. Ce n’est qu’une fois que les accusations ont été déposées par la justice qu’elle a commencé à s’identifier comme une femme, et qu’elle a pu être incarcérée dans une prison pour femmes, à sa demande.

    Isla Bryson, alors qu’elle s’identifiait toujours comme un homme du nom d’Adam Graham

    La romancière J. K. Rowling, auteure des best-sellers Harry Potter, a contribué à braquer les projecteurs sur ce cas, en déplorant à ses 14 millions d’abonnés sur Twitter le fait que les opposants à la politique carcérale sur les transgenres aient été traités de « transphobes » et d’« intolérants » par les groupes de pression LGBTQ+.

    La rapporteuse spéciale de l’ONU pour la violence contre les femmes et les filles, Reem Alsalem, ainsi que la rapporteuse spéciale de l’ONU sur la torture et les autres peines cruelles, Alice J. Edwards, ont toutes deux dénoncé l’absence de balises en Écosse pour les transfèrements de transgenres ayant commis des violences sexuelles. « Combien de fois nous a-t-on dit qu’il était ridicule d’évoquer l’idée que des prédateurs masculins puissent tirer avantage de failles systémiques pour s’approprier des espaces réservés aux femmes ? », a demandé Mme Alsalem sur Twitter.

    Perception nuancée des détenues cisgenres
    Au Canada tout comme en Écosse, les détenues transgenres qui demandent un transfert vers une prison pour femmes représentent moins de 1 % de la population carcérale.

    Une étude publiée dans le British Journal of Criminology, en juillet dernier, s’est penchée pour la première fois sur la perception qu’ont les prisonnières cisgenres (nées avec un sexe féminin et qui s’identifient comme des femmes) de leur cohabitation avec des femmes transgenres.

    « Je viens d’un milieu où j’ai vécu de la violence conjugale extrême, et je ne trouve pas les [femmes transgenres] inquiétantes du tout. En fait, je me sens plus en sécurité avec elles », a relaté une détenue questionnée dans le cadre de cette étude.

    L’auteur, Matthew Maycock, affirme que la perception selon laquelle les femmes cisgenres détenues doivent être considérées comme vulnérables face aux détenues transgenres a été « rejetée par plusieurs participantes ». « Certaines femmes sont vulnérables […], mais cela ne veut pas dire [que les détenues transgenres] les prendront comme proies », a affirmé une des détenues.

    « Il y a des détenues cisgenres qui représentent un danger plus important pour les femmes vulnérables que [le risque] que peuvent représenter les détenues transgenres », a indiqué une autre.

    L’étude souligne que la perception de l’« authenticité » et de la « sincérité » du changement de genre des détenues transgenre a toutefois un impact important sur le sentiment de sécurité des détenues. « Je me sens vraiment en sécurité [avec les détenues transgenres], sauf s’ils jouent une comédie et ne sont pas vraiment des transgenres », a résumé une participante.

    Peines sévères
    Le portrait des détenus de diverses identités de genre obtenu par La Presse par la Loi sur l’accès à l’information révèle que la moitié des 61 femmes transgenres incarcérées dans des pénitenciers fédéraux purgent des peines à durée indéterminée ou à perpétuité, qui sont réservées aux délinquants à contrôler ou considérés comme trop dangereux pour être libérés d’office. La proportion est de 25 % dans l’ensemble de la population carcérale fédérale.

    En revanche, 71 % des 21 hommes transgenres (femmes s’identifiant comme hommes) incarcérés dans des prisons pour femmes purgeaient une peine de six ans ou moins. Aucune demande de transfèrement vers des prisons pour hommes n’a à ce jour été reçue par le SCC.

    Aucun homme transgenre n’était par ailleurs incarcéré pour un crime de nature sexuelle, alors que c’était le cas pour 44 % des femmes transgenres.

    Parmi l’ensemble des détenus de diverses identités de genre, 70 % ont vécu des abus sexuels, émotionnels, physiques ou psychologiques pendant leur enfance, révèle le rapport.

    Ce que les groupes de féministes en pensent
    Les conditions de détention des femmes au Québec sont déplorables et les situations de violences entre détenues ne représentent qu’une fraction des violences que les femmes peuvent vivre en prison. Nous pensons que toutes les femmes incarcérées doivent être traitées humainement dans des conditions exemptes de violence. Notre féminisme est trans-inclusif et nous refuserons toujours que le féminisme serve de prétexte à la transphobie envers les femmes trans incarcérées.
    La Fédération des femmes du Québec

    En tant qu’organisation féministe, on pense au droit des femmes d’abord. Les femmes n’ont pas été consultées, comme si leurs instances étaient secondaires face aux besoins des personnes trans. On leur impose la présence d’hommes biologiques dangereux dans un environnement qui leur est réservé, sans leur demander si elles ont peur ou se sentent brimées dans leur intimité.
    Élaine Grisé, membre militante du groupe Pour le droit des femmes du Québec

    Des ailes réservées aux femmes trans
    Au Royaume-Uni, le Service des prisons de Sa Majesté a créé dans une prison pour femmes une aile consacrée spécifiquement aux détenues transgenres violentes, séparée du reste de la population carcérale. Un sondage indique que 50 % des Canadiens seraient favorables à la création d’une unité semblable au pays.

    Connue sous le nom d’« E Wing », l’unité spéciale britannique est réservée aux femmes transgenres qui représentent un « danger élevé » pour les détenues féminines, afin d’assurer à l’ensemble des détenues un espace « sécuritaire, décent et sûr où les individus à haut risque peuvent être encadrés, tout en maintenant l’ordre, le contrôle et la sécurité de toutes les résidantes ».

    L’aile de 16 cellules a aussi été créée afin d’« éviter de placer en isolement les femmes transgenres qui présentent un risque élevé », précise la politique publiée par le Service des prisons de Sa Majesté (HM Prison Service).

    La décision d’y transférer des détenues transgenres est prise par un comité spécial, le Transgender Complex Case Board, et les candidates doivent détenir un Certificat de reconnaissance de genre pour y être admises. L’anatomie, « y compris les considérations liées à la force physique » et aux « pulsions sexuelles » de la délinquante, de même que sa prise d’hormonothérapie sont considérées dans la décision, précise la politique.

    Il est aussi spécifié que le ratio de surveillants pour chaque détenue doit être supérieur à celui du reste de la population carcérale, pour des raisons de sécurité.

    Sondage auprès des Canadiens
    Selon un sondage réalisé pour le compte de l’Institut MacDonald-Laurier, un groupe de réflexion politique d’Ottawa qui se dit « indépendant » et « non partisan », la moitié des Canadiens sont favorables à la création d’une telle unité.

    Le coup de sonde indique que 78 % des Canadiens estiment important que les prisons continuent de séparer les détenus de sexes masculin et féminin. Cette proportion est légèrement plus faible (71 %) chez les répondants québécois.

    Chez les Québécois, ce sont 40 % des répondants qui appuient l’idée de placer les détenues trans dans des unités consacrées, séparées du reste de la population carcérale. Une proportion égale (41 %) de répondants québécois estime que les femmes transgenres devraient être placées dans des prisons pour femmes.

    Dans l’ensemble du pays, près d’un répondant sur deux a affirmé que les détenus ayant un sexe biologique masculin ne devraient pas pouvoir changer leurs conditions d’incarcération en s’identifiant comme femmes une fois accusés ou condamnés. Autour de 40 % croient que le type de crime commis doit être pris en compte.

    Le sondage est basé sur un panel web de 1006 répondants recrutés par la firme Digit et questionnés dans le cadre d’un sondage omnibus.

    Des cas troublants au Canada
    Au Canada, la Cour de justice de l’Ontario s’est penchée au début du mois de février sur la cause de Shane « Stephanie » Green, délinquant sexuel condamné pour deux agressions sexuelles, qui se définit désormais comme une femme, mais qui n’en a pas les apparences.

    Green, âgée de 25 ans, est accusée d’avoir agressé sexuellement une cochambreuse dans un refuge pour femmes violentées, alors qu’elle était en libération conditionnelle en août 2022.

    Dès son arrivée dans l’établissement, son apparence physique (Green porte la barbe et a des seins) ainsi que son habillement masculin ont mis le personnel et les résidantes mal à l’aise, indique un résumé des faits présenté devant la Cour. Green aurait touché les fesses d’une des résidantes et tenté, à une autre occasion, de l’embrasser sans son consentement dans une pièce commune.

    Green a déjà plaidé coupable à trois chefs de non-respect de conditions dans cette affaire, notamment parce qu’elle a omis d’avertir son agent de probation de son changement de nom et d’adresse. Les chefs d’accusation d’agression sexuelle ne seront toutefois débattus devant le tribunal qu’en avril prochain.

    Au Québec, la Cour du Québec s’est penchée vendredi dernier, sur la sanction à donner à Jody Matthew Burke, un délinquant sexuel notamment reconnu coupable d’agression sexuelle armée, qui a commencé à s’identifier comme une femme après avoir été condamné. Burke, un ancien combattant d’arts martiaux mixtes qui veut maintenant se faire appeler Amber, continue de prendre des suppléments hormonaux de testostérone en prison, malgré son intention de s’afficher comme une femme.

    En mars 2021, Samantha Mehlenbacher, détenue trans autrefois connue sous le nom de Steven, a aussi été accusée d’avoir agressé sexuellement une codétenue au pénitencier pour femmes de Kitchener, en Ontario. Le chef d’accusation d’agression sexuelle a été retiré en juin, après qu’elle eut plaidé coupable à un chef d’accusation de harcèlement criminel. Mehlenbacher, qui dément avoir agressé sexuellement la codétenue, a écopé d’une peine de quatre mois, purgée en partie dans une maison de transition de Montréal, selon l’entente conclue avec la Couronne que La Presse a pu consulter.

    #transgenre #violence #prison #crimes_sexuels #LGBTQ+ #viol #culture_du_viol #fumisterie #Femmes

    Source : https://www.lapresse.ca/actualites/justice-et-faits-divers/2023-02-26/crimes-violents-et-sexuels/quelle-prison-pour-les-detenues-trans.php

  • LFI veut mettre des hommes dans les prisons pour femmes.
    https://www.youtube.com/watch?v=zze3YIVbaPo

    L’amendement est ici
    https://www.assemblee-nationale.fr/dyn/16/amendements/1440/AN/1056.pdf

    Et voici une lettre type à envoyé à votre député LFI que j’ai trouvé en commentaire sous la vidéo d’Antastesiaa

    A partir de lundi 3 juillet 2023, un projet de loi « Organisation et programmation du ministère de la justice 2023-27 » sera examiné en séance publique à l’assemblée nationale.

    Jeudi 29 juin, des députés LFI ont déposé un amendement à ce texte qui permettrait à n’importe que homme incarcéré d’être placé en prison de femmes.

    Voila le texte de l’amendement n°1056, déposé le jeudi 29 juin 2023 : « la mise à l’écrou est effectuée en fonction de l’identité de genre déclarée de la personne condamnée, indépendamment du genre indiqué à l’état civil au moment de la condamnation. ».

    Si ce texte était adopté, il permettrait à n’importe quel homme déclarant son « identité de genre » femme d’être placé en prison de femmes, qu’importe la nature de l’infraction pour laquelle il est par ailleurs condamné.

    Un violeur pourrait ainsi être incarcéré avec des femmes détenues sur simple déclaration, et sans même entamer d’autres démarches pour modifier la mention de son sex à l’état civil.

    Malheureusement, de trop nombreux exemples dans d’autres pays ayant adopté une législation ultra libérale en matière d’autodétermination de « genre » démontrent le danger que cela constitue dans les prisons pour femmes.

    Ainsi, en 2018 au royaume Uni, Karen White, un homme ayant été incarcéré en prison de femmes a été accusé de viols sur ses codétenues.

    L’amendement n°1056 représente donc un danger considérable pour les femmes détenues, qui constituent une des populations les plus marginalisées et qui n’ont aucun moyen de faire entendre leur voix et de défendre leur dignité.

    La sécurité et la dignité des femmes détenues doivent prévaloir sur les sentiments des hommes incarcérés, c’est pourquoi j’attire votre attention sur cet amendement inacceptable.

    #sexisme #masculinisme #misogynie #culture_du_viol #non_mixité #féminisme #transhumanisme #transactivisme #genre #prison

    Il y a des pays qui ont appliqué ce type d’amendement à la demande des femmes trans. Les hommes trans eux ne demandent pas à être incarcéré avec les hommes et on ne se demande pas pourquoi.

    Au moment où l’Écosse suspend les transferts de personnes transgenres détenues pour des crimes violents vers des prisons pour femmes, un rapport du Service correctionnel du Canada montre que 91 % des femmes transgenres détenues dans les pénitenciers fédéraux du pays purgent des peines pour des infractions violentes, contre 72 % pour la population carcérale masculine.

    https://www.lapresse.ca/actualites/justice-et-faits-divers/2023-02-26/crimes-violents-et-sexuels/quelle-prison-pour-les-detenues-trans.php

    Ce portrait, dressé par le Service correctionnel du Canada (SCC) et obtenu par La Presse grâce à la Loi sur l’accès à l’information, précise que 44 % des détenues transgenres (personnes s’identifiant comme femmes dont le sexe de naissance était masculin) incarcérées dans les pénitenciers fédéraux ont déjà été condamnées pour des crimes de nature sexuelle, et que 41 % purgent une peine liée à un homicide.

    Dans plus de 9 condamnations pour crimes sexuels sur 10, les infractions ont été commises alors que le délinquant vivait selon l’identité correspondant à son sexe biologique de naissance (alors qu’il était ou s’identifiait comme un homme), indique le document de 64 pages, intitulé Examen des délinquants de diverses identités de genre. « La majorité des victimes étaient des enfants ou des femmes », souligne un résumé de l’étude également obtenue par la Loi sur l’accès à l’information.


    L’étude dresse ce portrait en se basant sur les données démographiques, la nature des infractions et le type de peines de 99 délinquants de diverses identités de genre, identifiés par le SCC entre 2017 et 2020.

    Une directive officielle du SCC permet depuis 2017 à tous les détenus d’être placés dans leur « type d’établissement préféré », selon ce « qui correspond le mieux à leur identité ou expression de genre », et ce, « peu importe leur sexe ou leur marqueur de genre/sexe dans les documents d’identification ».

    Aucune intervention chirurgicale transformative ni aucun examen psychologique n’est nécessaire ; la politique se base sur l’autodéclaration du genre faite par le délinquant.

    Plus d’une douzaine de détenues transgenres, dont certaines au passé très violent, ont à ce jour été transférées d’établissements pour hommes vers des prisons pour femmes en vertu de cette politique. Le seul critère officiel de refus de transfert est l’existence de « préoccupations dominantes en matière de santé ou de sécurité ».

    Le cabinet du ministre de la Sécurité publique, Marco Mendicino, a pris connaissance du portrait dressé par le SCC, mais ne remet pas en question la directive permettant aux détenues trans sous responsabilité fédérale d’être transférées vers des prisons pour femmes. « Nous ne prévoyons pas revoir dans un avenir proche la politique en vigueur. [Ces données] soulèvent de bonnes questions, c’est inquiétant, et ce sont des choses qui seront discutées par notre cabinet. Mais dans un avenir proche, il n’y a pas de changement de politique en vue », a indiqué le directeur du cabinet, Alexander Cohen.
    Volte-face en Écosse

    L’adoption d’une politique carcérale semblable par l’Écosse a provoqué ces derniers jours un débat public qualifié de « hautement émotif » par le ministre écossais de la Justice, Keith Brown, qui a décrété une « pause » dans le transfert de détenues transgenres vers des pénitenciers pour femmes.

    Nous ne devons pas permettre que s’enracine la perception que les femmes trans sont un problème inhérent pour les femmes. Ce sont les hommes prédateurs qui sont un risque pour les femmes.

    Keith Brown, ministre écossais de la Justice

    Le ministre écossais a néanmoins exigé une « révision urgente » du cas d’Isla Bryson, une femme transgenre condamnée pour deux agressions sexuelles violentes commises contre des femmes en 2016 et 2019, alors qu’elle s’identifiait comme un homme connu sous le nom d’Adam Graham. Ce n’est qu’une fois que les accusations ont été déposées par la justice qu’elle a commencé à s’identifier comme une femme, et qu’elle a pu être incarcérée dans une prison pour femmes, à sa demande.

    PHOTO FOURNIE PAR POLICE SCOTLAND, ARCHIVES REUTERS

    Isla Bryson, alors qu’elle s’identifiait toujours comme un homme du nom d’Adam Graham

    La romancière J. K. Rowling, auteure des best-sellers Harry Potter, a contribué à braquer les projecteurs sur ce cas, en déplorant à ses 14 millions d’abonnés sur Twitter le fait que les opposants à la politique carcérale sur les transgenres aient été traités de « transphobes » et d’« intolérants » par les groupes de pression LGBTQ+.

    La rapporteuse spéciale de l’ONU pour la violence contre les femmes et les filles, Reem Alsalem, ainsi que la rapporteuse spéciale de l’ONU sur la torture et les autres peines cruelles, Alice J. Edwards, ont toutes deux dénoncé l’absence de balises en Écosse pour les transfèrements de transgenres ayant commis des violences sexuelles. « Combien de fois nous a-t-on dit qu’il était ridicule d’évoquer l’idée que des prédateurs masculins puissent tirer avantage de failles systémiques pour s’approprier des espaces réservés aux femmes ? », a demandé Mme Alsalem sur Twitter.
    Perception nuancée des détenues cisgenres

    Au Canada tout comme en Écosse, les détenues transgenres qui demandent un transfert vers une prison pour femmes représentent moins de 1 % de la population carcérale.

    Une étude publiée dans le British Journal of Criminology, en juillet dernier, s’est penchée pour la première fois sur la perception qu’ont les prisonnières cisgenres (nées avec un sexe féminin et qui s’identifient comme des femmes) de leur cohabitation avec des femmes transgenres.

    « Je viens d’un milieu où j’ai vécu de la violence conjugale extrême, et je ne trouve pas les [femmes transgenres] inquiétantes du tout. En fait, je me sens plus en sécurité avec elles », a relaté une détenue questionnée dans le cadre de cette étude.

    L’auteur, Matthew Maycock, affirme que la perception selon laquelle les femmes cisgenres détenues doivent être considérées comme vulnérables face aux détenues transgenres a été « rejetée par plusieurs participantes ». « Certaines femmes sont vulnérables […], mais cela ne veut pas dire [que les détenues transgenres] les prendront comme proies », a affirmé une des détenues.

    « Il y a des détenues cisgenres qui représentent un danger plus important pour les femmes vulnérables que [le risque] que peuvent représenter les détenues transgenres », a indiqué une autre.

    L’étude souligne que la perception de l’« authenticité » et de la « sincérité » du changement de genre des détenues transgenre a toutefois un impact important sur le sentiment de sécurité des détenues. « Je me sens vraiment en sécurité [avec les détenues transgenres], sauf s’ils jouent une comédie et ne sont pas vraiment des transgenres », a résumé une participante.

    Avec William Leclerc, La Presse
    Peines sévères

    Le portrait des détenus de diverses identités de genre obtenu par La Presse par la Loi sur l’accès à l’information révèle que la moitié des 61 femmes transgenres incarcérées dans des pénitenciers fédéraux purgent des peines à durée indéterminée ou à perpétuité, qui sont réservées aux délinquants à contrôler ou considérés comme trop dangereux pour être libérés d’office. La proportion est de 25 % dans l’ensemble de la population carcérale fédérale.

    En revanche, 71 % des 21 hommes transgenres (femmes s’identifiant comme hommes) incarcérés dans des prisons pour femmes purgeaient une peine de six ans ou moins. Aucune demande de transfèrement vers des prisons pour hommes n’a à ce jour été reçue par le SCC.

    Aucun homme transgenre n’était par ailleurs incarcéré pour un crime de nature sexuelle, alors que c’était le cas pour 44 % des femmes transgenres.

    Parmi l’ensemble des détenus de diverses identités de genre, 70 % ont vécu des abus sexuels, émotionnels, physiques ou psychologiques pendant leur enfance, révèle le rapport.
    Ce que les groupes de féministes en pensent

    Les conditions de détention des femmes au Québec sont déplorables et les situations de violences entre détenues ne représentent qu’une fraction des violences que les femmes peuvent vivre en prison. Nous pensons que toutes les femmes incarcérées doivent être traitées humainement dans des conditions exemptes de violence. Notre féminisme est trans-inclusif et nous refuserons toujours que le féminisme serve de prétexte à la transphobie envers les femmes trans incarcérées.

    La Fédération des femmes du Québec

    En tant qu’organisation féministe, on pense au droit des femmes d’abord. Les femmes n’ont pas été consultées, comme si leurs instances étaient secondaires face aux besoins des personnes trans. On leur impose la présence d’hommes biologiques dangereux dans un environnement qui leur est réservé, sans leur demander si elles ont peur ou se sentent brimées dans leur intimité.

    Élaine Grisé, membre militante du groupe Pour le droit des femmes du Québec
    Des ailes réservées aux femmes trans

    Au Royaume-Uni, le Service des prisons de Sa Majesté a créé dans une prison pour femmes une aile consacrée spécifiquement aux détenues transgenres violentes, séparée du reste de la population carcérale. Un sondage indique que 50 % des Canadiens seraient favorables à la création d’une unité semblable au pays.

    Connue sous le nom d’« E Wing », l’unité spéciale britannique est réservée aux femmes transgenres qui représentent un « danger élevé » pour les détenues féminines, afin d’assurer à l’ensemble des détenues un espace « sécuritaire, décent et sûr où les individus à haut risque peuvent être encadrés, tout en maintenant l’ordre, le contrôle et la sécurité de toutes les résidantes ».

    L’aile de 16 cellules a aussi été créée afin d’« éviter de placer en isolement les femmes transgenres qui présentent un risque élevé », précise la politique publiée par le Service des prisons de Sa Majesté (HM Prison Service).

    La décision d’y transférer des détenues transgenres est prise par un comité spécial, le Transgender Complex Case Board, et les candidates doivent détenir un Certificat de reconnaissance de genre pour y être admises. L’anatomie, « y compris les considérations liées à la force physique » et aux « pulsions sexuelles » de la délinquante, de même que sa prise d’hormonothérapie sont considérées dans la décision, précise la politique.

    Il est aussi spécifié que le ratio de surveillants pour chaque détenue doit être supérieur à celui du reste de la population carcérale, pour des raisons de sécurité.
    Sondage auprès des Canadiens

    Selon un sondage réalisé pour le compte de l’Institut MacDonald-Laurier, un groupe de réflexion politique d’Ottawa qui se dit « indépendant » et « non partisan », la moitié des Canadiens sont favorables à la création d’une telle unité.

    Le coup de sonde indique que 78 % des Canadiens estiment important que les prisons continuent de séparer les détenus de sexes masculin et féminin. Cette proportion est légèrement plus faible (71 %) chez les répondants québécois.

    Chez les Québécois, ce sont 40 % des répondants qui appuient l’idée de placer les détenues trans dans des unités consacrées, séparées du reste de la population carcérale. Une proportion égale (41 %) de répondants québécois estime que les femmes transgenres devraient être placées dans des prisons pour femmes.

    Dans l’ensemble du pays, près d’un répondant sur deux a affirmé que les détenus ayant un sexe biologique masculin ne devraient pas pouvoir changer leurs conditions d’incarcération en s’identifiant comme femmes une fois accusés ou condamnés. Autour de 40 % croient que le type de crime commis doit être pris en compte.

    Le sondage est basé sur un panel web de 1006 répondants recrutés par la firme Digit et questionnés dans le cadre d’un sondage omnibus.
    Des cas troublants au Canada

    Au Canada, la Cour de justice de l’Ontario s’est penchée au début du mois de février sur la cause de Shane « Stephanie » Green, délinquant sexuel condamné pour deux agressions sexuelles, qui se définit désormais comme une femme, mais qui n’en a pas les apparences.

    Green, âgée de 25 ans, est accusée d’avoir agressé sexuellement une cochambreuse dans un refuge pour femmes violentées, alors qu’elle était en libération conditionnelle en août 2022.

    Dès son arrivée dans l’établissement, son apparence physique (Green porte la barbe et a des seins) ainsi que son habillement masculin ont mis le personnel et les résidantes mal à l’aise, indique un résumé des faits présenté devant la Cour. Green aurait touché les fesses d’une des résidantes et tenté, à une autre occasion, de l’embrasser sans son consentement dans une pièce commune.

    Green a déjà plaidé coupable à trois chefs de non-respect de conditions dans cette affaire, notamment parce qu’elle a omis d’avertir son agent de probation de son changement de nom et d’adresse. Les chefs d’accusation d’agression sexuelle ne seront toutefois débattus devant le tribunal qu’en avril prochain.

    Au Québec, la Cour du Québec s’est penchée vendredi dernier, sur la sanction à donner à Jody Matthew Burke, un délinquant sexuel notamment reconnu coupable d’agression sexuelle armée, qui a commencé à s’identifier comme une femme après avoir été condamné. Burke, un ancien combattant d’arts martiaux mixtes qui veut maintenant se faire appeler Amber, continue de prendre des suppléments hormonaux de testostérone en prison, malgré son intention de s’afficher comme une femme.

    En mars 2021, Samantha Mehlenbacher, détenue trans autrefois connue sous le nom de Steven, a aussi été accusée d’avoir agressé sexuellement une codétenue au pénitencier pour femmes de Kitchener, en Ontario. Le chef d’accusation d’agression sexuelle a été retiré en juin, après qu’elle eut plaidé coupable à un chef d’accusation de harcèlement criminel. Mehlenbacher, qui dément avoir agressé sexuellement la codétenue, a écopé d’une peine de quatre mois, purgée en partie dans une maison de transition de Montréal, selon l’entente conclue avec la Couronne que La Presse a pu consulter.

    Autre source en Anglais qui montre que la criminalité des hommes qui se transidentifient à des femmes est comparable à celle des hommes et non à celle des femmes.
    https://fairplayforwomen.com/transgender-male-criminality-sex-offences

  • Le Parlement hongrois adopte une réforme remettant en question le statut des professeurs
    https://www.rfi.fr/fr/europe/20230704-le-parlement-hongrois-adopte-une-r%C3%A9forme-remettant-en-question-le-

    Le Parlement hongrois, largement dominé par le parti de Viktor Orban, a adopté mardi 4 juillet une loi controversée qui modifie le statut des enseignants. Ces derniers vont perdre leur statut de fonctionnaire. La réforme qui entrera en vigueur le 1er janvier 2024 rend les enseignants taillables et corvéables à merci.

    Depuis la suppression du ministère de l’Éducation, les enseignants hongrois étaient déjà sous la tutelle du ministère de l’Intérieur. (...)

    ici, on s’efforce de ne pas gâcher une crise sociale et politique. on a trouvé moins coûteux que le SNU obligatoire :
    Après les émeutes, Emmanuel Macron veut durcir l’Éducation nationale pour remettre de l’autorité à l’école
    https://www.lefigaro.fr/politique/apres-les-emeutes-emmanuel-macron-veut-durcir-l-education-nationale-pour-re :

    pernicieux. l’État de la société de concurrence proclame "il faut tout désétatiser" . on donnera « du prestige aux enseignants » en restructurant les modalités de leur précarisation pour en faire encore davantage des matons de la réussite, c’est à dire de l’échec du grand nombre.

    #éducation #privatisation #précarisation #discipline

  • Mohamed Sifaoui, les zones d’ombre d’un intrigant de l’Algérie au fonds Marianne
    https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2023/07/07/de-l-algerie-au-fonds-marianne-les-zones-d-ombre-de-l-intrigant-mohamed-sifa

    Epinglé par le rapport du Sénat sur le fonds Marianne dont il a bénéficié, le journaliste franco-algérien s’est imposé comme une figure de la lutte contre l’islam radical, adoubée par une partie de la gauche. Depuis son exil en France en 1999, son parcours dessine un personnage clivant et intéressé.

    [...]

    Mohamed Sifaoui est invité à « Tout le monde en parle », le talk-show de Thierry Ardisson. « Arrêt sur images » y consacre une émission. Sur le plateau de Daniel Schneidermann, Florence Bouquillat semble émettre, à demi-mot, des réserves sur sa collaboration avec son collègue [Enquête sur un réseau (islamiste), diffusé le 27 janvier 2003 sur France 2] : « J’ai fait attention dans ma manière de travailler avec lui, par exemple à toujours garder les cassettes avec moi. » Publiquement, elle en restera à cette phrase sibylline.

    Sauf à de très rares proches, la journaliste n’a jamais raconté que, quelques jours avant la diffusion du documentaire, elle a reçu un coup de fil des policiers du Quai des Orfèvres l’invitant à venir les voir. Intriguée, elle s’y rend. Et découvre qu’ils connaissent les moindres détails des entretiens réalisés. Pour elle, cela ne fait guère de doute que Sifaoui les avait tenus informés de l’état d’avancement de leur enquête.

    Contactée, Florence Bouquillat n’a ni infirmé ni confirmé cet épisode. En parallèle de ses activités de journaliste, Sifaoui travaillait-il avec la police française ? Patron de la Crim’ à l’époque, Frédéric Péchenard ne le confirme pas, sans pour autant l’exclure : « A ma connaissance, jamais M. Sifaoui ne nous a donnés d’informations, mais il se disait qu’il en donnait aux RG [Renseignements généraux], mais je ne sais pas si c’était vrai. » Quoi qu’il en soit, Florence Bouquillat et Mohamed Sifaoui ne se parleront plus jamais.


    Le journaliste franco-algérien Mohamed Sifaoui, devant le supermarché Hyper Cacher de la Porte de Vincennes, à Paris, le 10 janvier 2015. ALAIN GUILHOT/DIVERGENCE

    https://justpaste.it/atkiv

    #escroc #SOS_Racisme #Licra #Printemps_républicain #Bauveau #Franc-Tireur #Fonds_Marianne

  • Mitard, l’angle mort - Regarder le documentaire complet | ARTE
    https://www.arte.tv/fr/videos/109744-000-A/mitard-l-angle-mort

    Suicides de détenus, réels ou suspects… Le #mitard, le quartier disciplinaire, constitue l’angle mort des #prisons_françaises. Au travers de saisissants témoignages, ce documentaire alerte sur l’inhumanité de cet outil de répression.

  • Chronique d’audience – « Tout le monde dehors ! » | La sellette
    https://blogs.mediapart.fr/la-sellette/blog/060723/chronique-d-audience-tout-le-monde-dehors

    Le prévenu raconte avoir été tabassé par la police. La proc a une solution : « Si ce monsieur estime avoir été brutalisé, il peut toujours porter plainte. » Dans le public, certain⋅es ricanent d’un air sceptique, la présidente explose : « Ça suffit ! Tout le monde dehors ! »

    #justice #prison

  • #Emeutes_urbaines : « Ce qu’elles révèlent, ce n’est pas tant l’échec de la #politique de la #ville que celui de toutes les #politiques_publiques »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/07/06/emeutes-urbaines-ce-qu-elles-relevent-ce-n-est-pas-tant-l-echec-de-la-politi

    Depuis le début des années 1980, les vagues émeutières embrasant les quartiers populaires s’accompagnent de controverses interprétatives enflammées dans les médias. Les explications proposées ont varié au fil du temps, mais un argument traverse les décennies qui semble faire consensus chez tous les commentateurs : l’émeute marquerait l’échec de la politique de la ville. La politique ainsi mise en cause a pourtant connu d’importantes évolutions au cours des quarante dernières années, le plus souvent à la suite d’épisodes émeutiers. Si échec de la politique de la ville il y a, ce n’est pas la même politique qui a échoué au début des années 1990, en 2005 ou aujourd’hui.

    Le jugement d’échec semble d’autant plus incontestable en 2023 que l’Etat aurait mobilisé, depuis une quinzaine d’années, des budgets considérables pour les quartiers populaires. Les annonces récurrentes d’un nouveau « plan banlieue » ont pu donner crédit à cette idée d’une politique de la ville richement dotée. Bien que ces annonces soient le plus souvent restées des annonces, elles ont ouvert la voie à la dénonciation des « milliards pour les banlieues », au profit de populations qui ne le mériteraient pas.

    Portée par des entrepreneurs de fracture sociale, cette critique a été d’autant plus ravageuse qu’elle s’est prolongée par une mise en concurrence des souffrances territoriales, opposant les quartiers défavorisés des métropoles et une « France périphérique » aux contours flous mais dont la couleur est claire. Les premiers bénéficieraient d’une discrimination positive, au détriment des villes moyennes, des espaces périurbains et des territoires ruraux, dont les populations sont pourtant durement affectées par les recompositions industrielles et la précarisation de l’emploi, les politiques d’austérité et les fermetures de services publics, ainsi que par l’augmentation du coût de la vie.

    La critique de l’inefficacité se mue alors en une mise en cause de la légitimité même de la politique de la ville, illustrée par cette formule qui fait florès à l’extrême droite : on déshabille la « France périphérique » pour habiller celle qui vit de l’autre côté du périph.

    Moins de 1 % du budget de l’Etat

    Il faut pourtant le répéter inlassablement : les quartiers qui cumulent toutes les difficultés sociales ne bénéficient pas d’un traitement de faveur. Les crédits de la politique de la ville ont toujours été limités, inférieurs à 1 % du budget de l’Etat. Comme l’ont montré de nombreux travaux de recherche et d’évaluation ainsi que plusieurs rapports de la Cour des comptes, les moyens alloués au titre de cette politique ne suffisent pas à compenser l’inégale allocation des budgets des autres politiques publiques (éducation, emploi, santé, sécurité…) qui s’opère systématiquement au détriment des quartiers dits « prioritaires » et de leurs habitants.

    Les seuls milliards dont ces quartiers ont vu la couleur sont ceux de l’Agence nationale pour la rénovation urbaine (ANRU), qui ne proviennent que marginalement de l’Etat : sa contribution se limite à 10 % du budget de l’agence, loin derrière Action Logement (70 %) et l’Union sociale pour l’habitat (20 %). Ce sont donc les cotisations des employeurs pour le logement de leurs salariés et les contributions du monde HLM (habitation à loyer modéré) qui financent la rénovation urbaine et non les impôts des Français.

    Bien qu’infondée, la critique des « milliards pour la banlieue » n’a pas été sans effet, conduisant les gouvernants à désinvestir la politique de la ville par crainte de susciter le ressentiment d’une fraction importante de l’électorat populaire sensible aux discours du Rassemblement national sur l’abandon de la France périphérique. Cette crainte a été amplifiée par le mouvement des « gilets jaunes », à la suite duquel la politique de la ville et les quartiers qu’elle cible ont disparu de l’agenda politique.

    La « séquence banlieue » ouverte lundi 26 juin par Emmanuel Macron à Marseille visait à répondre aux maires de banlieue et aux acteurs de terrain qui, depuis l’enterrement du rapport Borloo (dont il n’est pas inutile de rappeler aujourd’hui le sous-titre : « pour une réconciliation nationale »), critiquent ce désintérêt de l’exécutif pour les quartiers populaires.

    Défiance généralisée

    Le grand débat organisé dans la cité de la Busserine devait mettre en scène un président à l’écoute, mobilisant des moyens exceptionnels pour l’égalité des chances dans des quartiers nord délaissés par les élus locaux. La séquence se prolongeait le lendemain à Grigny (Essonne), avec le lancement des célébrations des 20 ans de l’ANRU, dont les réalisations ont produit des transformations visibles du cadre de vie de centaines de quartiers, à défaut de leur situation sociale. Elle devait se conclure à Chanteloup-les-Vignes (Yvelines), avec un comité interministériel des villes (CIV) maintes fois repoussé, où allaient enfin être annoncées les mesures du plan Quartiers 2030 concocté par Olivier Klein.

    La séquence était bien préparée mais rien ne s’est passé comme prévu. S’il a permis au président de renouer avec un exercice qu’il affectionne, le grand débat a surtout révélé l’exaspération des habitants, l’épuisement des acteurs associatifs et la défiance généralisée à l’égard du pouvoir politique. L’explosion de colère qui a suivi la mort du jeune Nahel a éclipsé les images de vingt ans de rénovation urbaine, et contraint le gouvernement à rapatrier à Matignon un CIV dont les annonces ont été repoussées à une date indéterminée. Ce report peut être utile s’il amène le gouvernement à réviser sa copie, pour envisager des réformes structurelles plutôt qu’un catalogue de programmes exceptionnels et de mesures expérimentales.

    Car ce que révèlent les #émeutes, ce n’est pas tant l’échec de la #politique_de_la_ville que celui de toutes les politiques publiques qui laissent se déployer la #ségrégation, la #stigmatisation et les #discriminations, voire y contribuent. A cet égard, on ne peut que regretter l’abandon en mai dernier du plan de #mixité_scolaire envisagé par Pap Ndiaye. Mais ce que rappellent d’abord les émeutes, c’est l’état plus que dégradé des relations entre la #police et les #populations_racisées des #quartiers_populaires, et la nécessité d’une transformation profonde des #pratiques_policières. Même si elle est politiquement difficile, l’ouverture de ce chantier s’impose, tant elle conditionne la #réconciliation_nationale.

    by https://twitter.com/renaud_epstein

    • Fabien Jobard, politiste : « Le législateur a consacré l’ascendant de la police sur la jeunesse postcoloniale »
      https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/07/05/fabien-jobard-politiste-le-legislateur-a-consacre-l-ascendant-de-la-police-s

      Le spécialiste des questions policières revient, dans un entretien au « Monde », sur les spécificités françaises dans les rapports entre les forces de l’ordre et la jeunesse des quartiers populaires issue de l’immigration. Il éclaire le contexte dans lequel prennent place les émeutes ayant suivi la mort de Nahel M. à Nanterre.

      Directeur de recherche au CNRS, Fabien Jobard est politiste, chercheur au Centre de recherche sociologique sur le droit et les institutions pénales. Il est l’auteur, avec le sociologue Olivier Fillieule, de Politiques du désordre. La police des manifestations en France (Seuil, 2020), avec Daniel Schönpflug, de Politische Gewalt im urbanen Raum (« violence politique en milieu urbain », Gruyter, 2019, non traduit), avec Jérémie Gauthier, de Police : questions sensibles (Presses universitaires de France, 2018) et, avec Jacques de Maillard, de Sociologie de la police. Politiques, organisations, réformes (Presses universitaires de France, 2015). Directeur du Groupe européen de recherches sur les normativités (GERN), Fabien Jobard publie en septembre une bande dessinée réalisée avec Florent Calvez : de la création des bobbys anglais aux dystopies policières contemporaines, Global Police. La question policière à travers le monde et l’histoire (Delcourt/Encrage) interroge la nature et le devenir de nos polices.

      Les événements de Nanterre, qu’il s’agisse de la mort de Nahel M. ou des émeutes qui ont suivi, montrent à quel point les relations entre la police et les jeunes des quartiers populaires sont dégradées. S’agit-il d’une spécificité française ?

      Les événements auxquels nous avons assisté ces derniers jours ne sont pas propres à la France : on en observe de comparables aux Etats-Unis, en Belgique, aux Pays-Bas – parfois au Royaume-Uni ou en Suède. Or, Suède mise à part, ces pays ont en commun une histoire contemporaine marquée soit par la prégnance de l’esclavage des populations noires, soit par la présence d’une population issue des territoires coloniaux. Le contraste avec l’Allemagne est frappant : dans ce pays qui a été privé de ses colonies africaines par le traité de Versailles, en 1919, les tensions avec les populations minoritaires existent mais elles sont bien moins fréquentes et bien moins intenses...

      La suite #paywall

    • De quelle manière cette histoire coloniale française pèse-t-elle ?

      [Fabien Jobard ] La guerre d’Algérie et la colonisation sont à mille lieues des préoccupations des policières et policiers de notre pays : ce ne sont pas eux, individuellement, qui portent cette histoire et la font perdurer. Savoir si les policiers sont racistes ou non n’aide d’ailleurs pas vraiment à comprendre ce qui se joue. Ce qui fait que la police est un lieu de perpétuation du rapport colonial sur notre sol est la collision de deux phénomènes historiques.

      Le premier est le fait que les populations issues des territoires nord-africains ont été installées à la va-vite dans des grands ensembles de nos banlieues. Ces villes étaient sous-administrées – pas ou presque pas de police, quelques brigades de gendarmerie, des commissariats isolés. A cette époque, la police faisait avec ce qu’elle avait et, de surcroît, recrutait peu d’effectifs nouveaux. La doctrine et les chefs disponibles étaient donc ceux des années 1950-1960, ceux de la #guerre_en_métropole, lorsque la gestion des populations nord-africaines reposait sur la mise à distance, le contrôle, l’imposition d’une obligation de déférence permanente – bref, la subordination sous férule policière. Dans un tel schéma, le #contrôle_d’identité avec fouille est central : c’est l’instrument majeur d’imposition de l’autorité policière comme préalable non négociable.

      Une telle gestion des populations subalternes aurait pu s’éteindre peu à peu, silencieusement emportée par la croissance et le renouvellement des générations, tant du côté de la police que du côté de la jeunesse. Mais au milieu des années 1970, la France s’est engagée sur une voie économique singulière, celle de la #désindustrialisation – et c’est le second phénomène historique décisif. De 1975 à nos jours, plus de 2 millions d’emplois industriels se sont évaporés : la France est devenue un pays de services et cette mutation a pénalisé en tout premier lieu les jeunes hommes sortis du système scolaire sans qualification – les jeunes femmes s’en sortent mieux. Or, dans quels rangs se recrutent principalement ces jeunes hommes ? Dans ceux des familles les moins favorisées, les moins dotées – les familles immigrées.

      C’est un contraste marquant avec la trajectoire historique allemande : l’Allemagne a protégé son industrie. Lorsque les jeunes sortent du système scolaire sans qualification – le système allemand est bien plus soucieux de la formation aux métiers manuels –, une place les attend à l’usine, sur la chaîne, à l’atelier. Outre-Rhin, l’industrie parvient donc à absorber ces « jeunes à problèmes », comme on dit là-bas, comme autrefois [ces saloperies de, ndc] Renault et Citroën absorbaient nos blousons noirs.

      En France, dès le milieu des années 1970, une #population_oisive essentiellement formée des jeunes issus de l’immigration coloniale s’est constituée au pied des tours. Cette jeunesse est disponible aux tensions avec la police : de #Toumi_Djaidja, fils de harki victime, en 1983, un soir de ramadan, aux Minguettes, d’un tir policier dans le ventre alors qu’il tentait de venir en aide à un de ses amis aux prises avec un chien policier, à Nahel, à Nanterre, en 2023, les relations sont explosives. La dynamique socio-économique française a fourni à la police une clientèle, essentiellement issue des populations coloniales, qui est enfermée, avec elle, dans un face-à-face mortifère et sans issue. [une bien trop grande proximité, ndc]

      Les pratiques de la police sont encadrées par le droit. Quelle a été l’évolution des textes depuis les années 1970 ?

      Sur ce plan, il est frappant de constater que le droit, notre droit républicain, n’a pas corrigé les pratiques mais les a, au contraire, garanties. Je reprends les contrôles d’identité. Ces pratiques se développaient de manière assez sauvage : le droit positif ne les prévoyait pas. En février 1981, le gouvernement de Raymond Barre a fait adopter une loi décriée par la gauche qui a « créé » les contrôles d’identité (art. 78-2 du code de procédure pénale). En réalité, cette loi consacre ces contrôles : elle « couvre », en quelque sorte, des pratiques dont nos recherches ont démontré qu’elles visent essentiellement la jeunesse postcoloniale. Ce geste, que la gauche n’a pas abrogé, est significatif d’une dynamique qui s’est enclenchée dans d’autres domaines de l’action policière : les pratiques et les perceptions policières ont été relayées par les politiques publiques.

      Quelles étaient ces politiques publiques ?

      A partir des années 1990, une décennie marquée par des émeutes urbaines localisées engendrées par des faits policiers mortels (ou la rumeur de tels faits), deux choix ont été très explicitement arrêtés. Le premier, c’est le renforcement de l’arsenal pénal contre les #mineurs auteurs de faits de #délinquance_de_voie_publique : les circulaires de politique pénale, puis la loi elle-même, encouragent la fermeté à l’égard de ces jeunes délinquants qui se recrutent essentiellement parmi les jeunes de cité, ce qui vient rétrospectivement légitimer l’action policière à leur égard. La politique pénale est telle qu’aujourd’hui le législateur offre aux policiers la possibilité de sanctionner eux-mêmes des délits par une amende dite « délictuelle » . Or, ces délits étant ceux habituellement commis par les jeunes de cité, ce pouvoir de sanction exorbitant confié par le législateur à la police consacre son ascendant sur cette fraction de la jeunesse.

      La seconde trajectoire de politique publique est l’abandon de ce que l’on appelait, il n’y a pas si longtemps encore, les politiques d’accompagnement social de la délinquance. Pour des raisons à la fois idéologiques et budgétaires, les gouvernements successifs ont concentré la dépense publique sur les forces de l’ordre (15 milliards d’euros et 8 500 agents supplémentaires sont prévus dans la loi d’orientation et de programmation du ministère de l’intérieur du 24 janvier 2023) et ont privé les communes et les départements de fonds permettant une action sociale portée par les éducateurs spécialisés, les éducateurs de rue, les travailleurs sociaux. Même les emplois précaires – les emplois-jeunes puis les emplois aidés – ont été supprimés, les premiers sous le gouvernement de Jean-Pierre Raffarin, les seconds sous celui d’Edouard Philippe. J’insiste sur la dimension budgétaire de ces choix : en Allemagne, les communes et l’Etat disposent encore de moyens financiers pour l’action sociale.

      La France pourrait-elle s’inspirer des politiques mises en place en Allemagne ?

      L’Allemagne a perdu ses colonies il y a un siècle, elle n’a pas fait le choix de se défaire de son industrie, elle n’a pas renoncé au social au profit du sécuritaire. Et le caractère décentralisé et régional de la police, qui était une des conditions de la sortie du nazisme en 1945-1949, a fait que « la » police existe à peine en tant qu’institution et, surtout, en tant que groupe d’intérêts. Les syndicats policiers n’y sont pas engagés dans un défi permanent lancé aux politiques et aux magistrats, facteur considérable d’apaisement des passions policières et de discipline dans les rangs. Plus qu’un modèle dont on importerait telle ou telle recette, l’Allemagne offre plutôt un horizon dans lequel s’inscrit la question policière.
      Cette question ne pourra pas être dénouée seule : libérer la police française de sa colonialité ne passe pas par je ne sais quelle réforme isolée – type « revenir-à-la-police-de-proximité » – mais par l’investissement massif dans la formation, l’emploi et l’accompagnement social d’une jeunesse que les gouvernements successifs ont bien lâchement confiée aux soins presque exclusifs de la police.

      heureusement qu’il y a une gauche qui veut libérer la police ah ah ah

    • #Didier_Fassin : en France, « la #police a gagné la #bataille_idéologique » | Mediapart
      https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/070723/didier-fassin-en-france-la-police-gagne-la-bataille-ideologique

      #post_colonialisme

      DidierDidier Fassin est professeur au Collège de France, directeur d’études à l’#EHESS, et enseigne également à l’Institute for Advanced Study de #Princeton.

      Il a publié aux éditions du Seuil La Force de l’ordre. Une anthropologie de la police des quartiers, dans lequel il étudiait des brigades anticriminalité (BAC) dont les insignes exhibaient les barres d’une cité prise dans la lunette de visée d’un fusil, des meutes de loups devant des tours d’habitation, une panthère déchirant de ses griffes un quartier plongé dans l’obscurité ou encore une araignée emprisonnant dans sa toile un ensemble d’immeubles. Il y observait des pratiques relevant souvent d’une logique « #postcoloniale ».

      Pour Mediapart, il revient sur les situations avant – et les mobilisations après – la mort de #George_Floyd aux États-Unis en 2020 et celle de #Nahel M. en 2023.

      Mediapart : Dans La Force de l’ordre. Une anthropologie de la police des quartiers, écrit à partir d’une enquête inédite menée pendant 15 mois, entre 2005 et 2007, avec une BAC de la région parisienne, vous dressiez un constat catastrophique de l’action des BAC dans les banlieues, qui relevait davantage d’un processus de chasse dans une « jungle » que d’une opération de maintien de l’ordre ou de lutte contre la délinquance. On a pu vous dire alors que cette unité n’était pas représentative de la police française : ce qui se passe aujourd’hui vous ferait-il dire qu’elle était plutôt préfigurative de tendances racistes de la police française ? 

      Didier Fassin : Je ne généraliserais pas de la sorte pour ce qui est de tous les policiers. Lorsque mon livre est sorti, on a dit en effet que j’avais dû étudier des unités très atypiques, car j’indiquais la sympathie que les agents avec lesquels je patrouillais manifestaient ouvertement à l’égard de Jean-Marie Le Pen. Six ans plus tard, en 2017, on découvrait que les deux tiers des policiers en activité avaient voté pour sa fille au premier tour de l’élection présidentielle, soit plus de trois fois plus que la population générale.

      Mais plutôt que le racisme individuel, ce qui m’intéresse, et m’inquiète, c’est le racisme institutionnel, qu’il soit celui de la police en général, dont on voit qu’elle ne sanctionne pas les pratiques violentes et discriminatoires de ses agents, ou de certains syndicats en particulier, dont on vient de lire qu’ils considéraient les jeunes des quartiers difficiles comme des « nuisibles » qu’il faut mettre « hors d’état de nuire ».

      Dans cette perspective, je pense que les choses se sont encore aggravées depuis que j’ai conduit mon enquête, et c’est largement la responsabilité des gouvernements successifs qui, d’une part, n’ont pas cessé de céder devant les exigences de l’institution et des syndicats, et, d’autre part, n’ont jamais tenté d’engager de réforme.

    • Nayra : « Vous leur avez craché dessus et vous leur demandez de se calmer ? »
      Après la mort de Nahel, tué à bout portant par un policier à Nanterre le 27 juin 2023, une partie des quartiers populaires s’embrase. Dans le fracas, des adolescents disent une réalité ancienne de ségrégation et de racisme. #Mediapart donne la parole aux #rappeuses et aux #rappeurs qui se tiennent du côté de ces #révoltes. Épisode 1 : #Nayra, rappeuse de #Saint-Denis.

    • super interview aussi d’un spécialiste (anthropologue, U. Saint-denis) qui recence les émeutes (dans une liste quasi exhaustive) partout ds le monde depuis 2007.

      #au_poste par l’excellent @davduf

      https://www.auposte.fr/le-soulevement-des-quartiers-ce-quil-dit-et-ce-quon-ne-dit-pas

      pas encore écouté ceux-là par contre :

      https://www.auposte.fr/soulevement-2023-leloge-de-lemeute-avec-jacques-deschamps-philosophe

      https://www.auposte.fr/soulevement-2023-vers-une-secession-des-quartiers-populaires-rencontre-avec-

    • De la répression coloniale aux violences policières. @survie
      https://survie.org/billets-d-afrique/2021/303-dec-2020-janv-2021/article/de-la-repression-coloniale-aux-violences-policieres

      Au moment où la France est traversée par une série de révoltes à la suite du meurtre de Nahel par la police, et pour alimenter les reflexions sur la colonialité de la police française, nous republions cet article de Florian Bobin, étudiant-chercheur en Histoire africaine, paru en janvier 2021 dans Billets d’Afrique. Il a été publié préalablement en anglais dans Africa is A Country puis dans Jacobin , et en français dans la revue Contretemps. Il retrace l’histoire de la structuration de la #police_française, au service des intérêts esclavagistes, colonialistes puis néocolonialistes. Il montre la continuité de cette histoire avec la culture et les pratiques actuelles des forces de l’ordre en France, notamment vis-à-vis des jeunes Africains et Afro-descendants, mais aussi de celles de ses anciennes colonies africaines.

    • Didier Fassin : en France, « la police a gagné la bataille idéologique »

      Pour George Floyd, toute la société s’était mobilisée, il y avait eu des manifestations dans tout le pays. Ça a été un choc majeur. Pour Nahel, seuls les quartiers populaires ont bougé. Le lendemain, on ne parlait plus que de désordres urbains et, le surlendemain, de l’incendie de la maison d’un maire.

      https://justpaste.it/9hjxo

      #police #quartiers_populaires

  • A #Tataouine, ville des #candidats_à_l’exil : « Toute la #Tunisie souffre, mais ici, c’est pire »

    L’#exode des #jeunes de Tataouine, ce sont les parents qui en parlent le mieux. Le père de Wajdi porte beau, mais son costume élimé raconte aussi bien l’usure du tissu que celle de son propriétaire : « Tout nous est interdit. Les places dans les entreprises publiques et les compagnies pétrolières sont toujours pour les autres. Même commercer avec la Libye est devenu compliqué. Mon fils est parti l’an dernier pour la France. Je lui souhaite d’être heureux, car ici, c’est difficile. »

    Installé à la terrasse du café Ennour, donnant sur le principal rond-point de la ville, à 540 km au sud de Tunis, l’homme de 56 ans, qui refuse de donner son nom, résume en cinq minutes des décennies de marginalisation. A l’horizon, les collines rocailleuses entourant la ville accentuent le sentiment d’oppression. Tataouine est connue pour avoir donné son nom à la planète Tatooine dans la saga Star Wars. Dans la réalité, la région bascule du côté obscur de la Force. Quelque 12 000 jeunes, soit 8% du gouvernorat (équivalent d’une préfecture), sont partis en 2022 pour l’Europe, selon le sociologue du cru Mohamed Nejib Boutaleb, ancien professeur de l’Université de Tunis.

    Les Tataouinois ne sont pas les seuls à s’exiler. Selon le ministère italien de l’Intérieur, l’arrivée de clandestins tunisiens a augmenté de 55% depuis le début de l’année. En 2023, la Tunisie est même devenue le principal pays de départ des migrants souhaitant traverser la Méditerranée, devant la Libye voisine. Une hausse qui inquiète les Européens, en particulier l’Italie, qui redoute qu’un effondrement économique de la Tunisie, très endettée (80% du PIB), amplifie ce phénomène.

    La crise est telle qu’elle a conduit la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, accompagnée de la cheffe du gouvernement italien et du Premier ministre néerlandais, à se rendre à Tunis le week-end dernier. L’objectif : proposer une aide financière de plus d’1 milliard d’euros à long terme, dont 100 millions d’euros pour le « contrôle » de ses frontières. Un outil supplémentaire qui permet à l’Union européenne d’externaliser ses frontières, en déléguant la gestion des flux migratoires à des pays tiers, souvent peu réputés pour le respect des droits humains.
    De solides réseaux

    Pour éviter la dangereuse traversée de la Méditerranée et ses contrôles renforcés, Tataouine a donc cherché une autre route, celle des Balkans. Jusqu’au 20 novembre, les Tunisiens n’avaient pas besoin de visa pour se rendre en Serbie. Ils arrivaient donc à Belgrade en avion avant de franchir illégalement la frontière avec la Hongrie. Dans ses travaux, Mohamed Nejib Boutaleb a ainsi recensé, en 2022, 11 200 demandes d’autorisation parentale de voyage émanant du gouvernorat. Pour juguler le départ de combattants jihadistes dans les zones de combat, les autorités ont rendu ce document obligatoire pour les citoyens de moins de 35 ans.

    Une place dans un bateau pour traverser la Méditerranée coûte pourtant bien moins cher : 1 000 dinars (300 euros) contre environ 25 000 dinars (7 500 euros) pour le trajet de l’aéroport de Tunis à la France, via les Balkans. D’autant que la région méridionale est l’une des plus pauvres du pays, avec un chômage autour de 30%, deux fois supérieur au niveau national. Mais ses habitants s’appuient sur la solidarité régionale. Le père de Wajdi précise qu’il a contracté un prêt à la consommation de 3 500 dinars pour le départ de son fils. Un de ses amis, venu le rejoindre au café, embraye : « Moi, j’ai vendu 35 000 dinars un terrain de 400 m² pour payer le trajet à mon fils. C’est beaucoup plus sûr que de prendre la mer. » Et si les parents ne peuvent pas, la diaspora prend le relais.

    Depuis les années 60 et la première vague d’émigration, lancée par la France désireuse de main-d’œuvre bon marché, les Tataouinois ont eu le temps de construire de solides réseaux. Des entrepreneurs dans le secteur du bâtiment et de la boulangerie-pâtisserie acceptent de payer une partie des frais de leurs futurs employés. Rafik sort du coiffeur après avoir rafraîchi sa coupe, car il s’apprête à travailler dans un hôtel de Djerba pour la saison touristique. Sa famille a préféré miser sur son petit frère pour le grand départ : « Son patron lui a avancé de l’argent. Moi, je lui ai filé 4 000 dinars. Il bosse maintenant dans une boulangerie en région parisienne. »

    L’exode se ressent visuellement dans la ville. Les personnes âgées y sont plus visibles, bien que le gouvernorat possède le taux de fécondité le plus élevé du pays – 4,6 enfants par femme contre 3,4 au niveau national. Ce jour-là, les rues sont animées. L’équipe de football locale rencontre le Club africain, une des deux équipes phares de la capitale, Tunis. Une occasion rare d’échapper au quotidien. Au stade, dans la tribune des locaux, des supporteurs célèbrent aussi les buts des adversaires. Ils sont fiers d’être d’ici, mais au football comme dans la vie, ils aiment aller droit au but : l’US Tataouine peut difficilement prétendre au titre, tout comme les jeunes du coin à une vie meilleure. Sedki, un supporteur du Club africain qui a fait le déplacement, confirme à sa manière : « C’est mort cette ville. Même à Médenine, Gafsa ou Ben Guerdane [des villes marginalisées du sud, ndlr], tu peux faire du shopping. »

    Chaque été, quand les Tataouinois de France débarquent, les locaux ressentent plus profondément la déréliction dans laquelle ils vivent le reste de l’année : « Cette coutume de la diaspora de revenir avec une belle voiture, des vêtements à la mode et les accessoires faussement indispensables exacerbe la frustration des jeunes », avance l’anthropologue Mohamed Bettaieb. Vêtu d’un maillot de l’Espérance sportive de Tunis, l’autre grand club de la capitale, Amir Maiez a déjà tenté deux fois de se rendre en Europe. « Toute la Tunisie souffre, mais à Tataouine, c’est pire. On n’a rien alors qu’on devrait être riche ! » Pour l’athlète aux larges épaules, comme pour la majorité des jeunes rencontrés, la source de l’hémorragie se nomme « el-Kamour », du nom de la région pétrolière à proximité.

    « Kaïs Saïed n’est jamais venu écouter les doléances de notre jeunesse »

    Contrairement à ses voisins algériens et libyens, la Tunisie n’est pas une grande productrice de pétrole, mais, à l’échelle du pays, c’est une manne précieuse : le déficit de la balance commerciale énergétique pèse lourd (6,8% du PIB en 2022). Et environ la moitié du pétrole produit vient de Tataouine. Au printemps 2017, les jeunes ont organisé à el-Kamour un sit-in et ont fermé les vannes des oléoducs pour exiger que les revenus de l’or noir bénéficient directement au reste de la région. Plusieurs accords ont été signés, dont le dernier en novembre 2020. Il prévoyait notamment la création de deux fonds de développement et d’investissement régionaux pour l’équivalent de 48 millions d’euros, le recrutement de 125 locaux dans les compagnies pétrolières ou encore une enveloppe de 2,2 millions de dinars pour financer les projets entrepreneuriaux des jeunes. Les résultats se font encore attendre.

    Mardi 13 juin, le personnel de l’hôpital s’est mis en grève pour dénoncer le manque de moyens : « Il n’y a pas de réanimateur, les cardiologues viennent de Sfax [à 290 km au nord, ndlr] seulement quelques jours par semaine et il n’y a pas assez de gynécologues à la maternité », énumère un médecin. « Les jeunes ont acté l’échec du projet socio-économique du gouvernement qui n’a pas réussi à les inclure, analyse Mohamed Nejib Boutaleb, qui a intitulé son étude “D’el-Kamour à l’Europe, via les Balkans”. Ils ont vieilli aussi. Ils pensent à leur vie personnelle. »

    « Si je veux partir, c’est parce que je veux me marier. Et il faut de l’argent [il est de tradition pour l’homme de payer une dot]. Je me fais 600 dinars [180 euros] par mois comme livreur, ce n’est pas assez », explique Malik, pour qui la migration est une étape de la vie. Le jeune homme a déjà atteint deux fois l’Europe par les Balkans, en 2021 et 2022, avant d’être expulsé. A chacun de ses retours à l’aéroport de Tunis, les policiers l’ont laissé repartir chez lui sans formalité.

    Une mansuétude surprenante dans un pays qui aime ficher ses jeunes, mais que Mosbah Chnib, membre du bureau politique du parti d’opposition al-Joumhouri (centre) et Tataouinois, explique : « Il est manifeste que les autorités favorisent le départ des jeunes de la région pour éviter une nouvelle contestation d’envergure. Malgré les promesses, Kaïs Saïed n’est jamais venu pour écouter les doléances de notre jeunesse. » Malik partira une troisième fois. La route des Balkans s’est fermée avec l’instauration de visas, mais d’autres voies s’ouvrent, comme celle du Royaume-Uni.

    Chedly (1) est l’un des premiers à l’avoir empruntée, avec une facilité déconcertante et moyennant 7 000 euros. Un contact lui a promis un visa de six mois pour l’Angleterre, puis de s’occuper de sa traversée de la Manche par camion. « Après une semaine, on me dit de venir à Tunis, à côté de TLS [une société internationale qui gère les demandes de visas pour de nombreux pays]. Un homme masqué me remet des documents. Je les dépose directement et, un mois après, j’ai mon visa. Un vrai, j’insiste. » Après dix jours à attendre outre-Manche que le camion se remplisse de dix migrants, il arrive en France, « sans un contrôle ».
    Mutation de la population

    La société tunisienne dépérit d’« anémie sociale », selon Mohamed Nejib Boutaleb. L’émigration a appauvri les familles et l’heure du retour sur investissement – l’envoi d’euros – tarde. Notamment à cause des difficultés des émigrés à se faire une place dans une Europe de plus en plus fermée. Une difficulté économique qui s’ajoute à l’inflation (9,6 % en mai) et à la difficulté accrue de recourir au marché informel. Historiquement, les familles de la région avaient l’habitude d’arrondir les fins de mois en ramenant de Libye climatiseurs, écrans plats, bidons d’essence, etc. Mais, depuis l’édification en 2016 d’obstacles (fossés et murs de sable) à la frontière, seuls les 4x4 des gros trafiquants peuvent circuler.

    Les colons français ont développé la ville pour fixer la population nomade et enfermer civils et militaires récalcitrants dans le célèbre bagne, à l’origine de l’expression « partir à Tataouine » (partir dans un lieu hostile). Les citadins d’aujourd’hui veulent « partir de Tataouine ». La population a irrémédiablement mué. Les jeunes qui « font » la ville viennent dorénavant des régions limitrophes (Gafsa, Médenine), des villages reculés, voire de pays subsahariens pour pallier le déficit de main-d’œuvre.

    Entouré d’hibiscus en fleurs et dégustant un café avec sa fiancée sous un kiosque, Lotfi (1) savoure cet instant précieux. Originaire du très conservateur village de Remada, 80 km plus au sud, il apprécie les avantages liés à la ville : « Ici, on peut s’installer dans un parc sans que personne ne vérifie ce que tu fais, ni avec qui. » Ce même jardin public est moqué par les locaux qui pointent, eux, les jeux d’enfants cassés, les installations vieillottes et l’ennui. Malgré tout, la ville n’est pas exempte de distractions. La piscine est très utilisée, et pas seulement par l’association militaire. « Récemment une quarantaine de jeunes m’ont demandé de leur apprendre à nager », raconte Farouk Haddad, un des maîtres-nageurs. Ils s’apprêtent à traverser la Méditerranée.

    (1) Le prénom a été changé.

    https://www.liberation.fr/international/afrique/a-tataouine-ville-des-candidats-a-lexil-toute-la-tunisie-souffre-mais-ici

    #migrations #émigration #marginalisation #oppression #facteurs_push #facteurs-push #push-factors #route_des_Balkans #visa #Serbie #autorisation_parentale #pauvreté #chômage #prêt #prix #coût #frustration #pétrole #industrie_pétrolière #anémie_sociale

  • #Rafik_Chekkat : En train d’assister aux #audiences de #comparutions_immédiates des personnes arrêtées à #Marseille ces derniers jours. Une #justice_expéditive. 15 mins à peine pour revenir sur des faits, un parcours de vie, le contexte général. Les peines requises puis prononcées sont lourdes.

    Gros incident d’audience. La prise de parole virulente de l’avocat de la Métropole (partie civile) entraîne des réactions du public présent dans la salle. La présidente fait immédiatement évacuer tout le public par les forces de l’ordre. L’audience continue donc à huis clos.

    Les premières peines tombent : 4 mois de prison ferme pour une jeune femme de 19 ans rentrée dans le magasin Snipes sans avoir rien pris ; 1 an ferme pour des vols au Monoprix ; 10 mois ferme pour un étudiant malien en Master à Aix pour le vol de deux pantalons chez Hugo Boss.

    La Procureure fait des réquisitions d’ordre très général. Elle demande à chaque fois de la prison ferme « pour l’exemple ». Mais les faits jugés ne sont pas exemplaires mais terriblement communs (un pantalon, une paire de lunettes..). Aucune des personnes poursuivies n’a de casier

    Les audiences se poursuivent. 3 hommes (sans casier) poursuivis pour recel. Ils ont ramassé des pantalons Hugo Boss devant le magasin après qu’il ait été pillé. Les vidéos montrent que les 3 ne sont pas entrés dans le magasin. La Procureure demande de la prison ferme.

    Les faits ne sont pas clairement établis. Les 3 hommes ont sans doute touché les objets, mais rien n’indique qu’ils les aient pris. Les éléments d’enquête sont en réalité très minces. On juge à la chaîne en fonction du climat davantage qu’en fonction des éléments matériels.

    Les 3 hommes ont été reconnus coupables et condamnés à une peine d’un an avec sursis. Un lycéen (majeur) a été reconnu coupable et condamné à un an de prison dont 10 mois avec sursis. Il passera l’été en prison.

    Un homme de 58 ans est jugé pour recel pour avoir ramassé des objets au sol des heures après les pillages. Les avocats des parties civiles (Métropole ou enseignes de luxe comme Hugo Boss) tiennent des propos très durs. Ils invoquent un préjudice moral qui me semble assez suspect

    L’homme de 58 ans a été déclaré coupable de recel et condamné à une peine d’un an de prison ferme. Pour avoir ramassé des objets au sol 3h après les pillages. Du jamais vu

    3 hommes (21, 34 et 39 ans) jugés pour avoir pénétré dans le magasin Monoprix. Pour 2 les faits ont été requalifiés en tentative de vol (ils n’avaient pas de nourriture en leur possession). Ils ont été condamnés à 10 mois ferme. Le 3e homme à 1 an ferme. La Présidente a ordonné le maintien en détention. Pas de témoins ni de vidéos. Seuls les PV d’interpellation font foi.

    le maintien en détention. Sans témoignages ni exploitation des vidéos, seul le PV d’interpellation fait foi. Les 3 hommes ne se connaissent pas. Ils ont été jugés ensemble uniquement pour avoir été interpellés en même temps. Peine assortie de 3 ans d’interdiction du territoire.

    Un homme (29 ans) accusé du vol de 2 t-shirts (marque Rive Neuve). Il conteste être entré dans le magasin et demande l’exploitation des vidéos. Seul le PV d’interpellation des policiers fait foi (pas de témoignages, vidéos ou confrontations). « Pourquoi avez vous fui la police ? »

    Demande la Présidente ? Après son interpellation le Préfet a émis une OQTF alors qu’une demande de régularisation est en cours. Il a été relaxé en l’absence flagrante d’éléments. La Présidente lui précise que ça ne signifie pas qu’il n’a pas commis les faits, mais pas de preuves.

    2 hommes (25 et 28 ans) interpellés ensemble alors qu’ils étaient en scooter. Le conducteur dit avoir été gazé par la police et perdu le contrôle du scooter. On a retrouvé sur eux du fromage en provenance de Monoprix, une paire de lunettes et un peu de résine de cannabis.

    Le conducteur a été reconnu coupable de refus d’obtempérer (qu’il conteste) et de recel d’objets volés (fromage et lunettes). Il est condamné à un an ferme pour le refus, 6 mois ferme pour le recel et 3 d’interdiction du territoire. Le 2e homme est condamné à 8 mois avec sursis.

    Un homme (31 ans) poursuivi pour avoir jeté une pierre en direction d’une zone où il y avait des policiers. Il est reconnu une heure après par un policier et a reconnu tout de suite être l’auteur du jet. Il est placé en GAV puis incarcéré. Il souffre de graves problèmes de santé

    L’homme vient d’être condamné à 18 mois de prison ferme. C’est jusque-là la peine la plus lourde prononcée.

    3 hommes (53, 37 et 34 ans) qui ne se connaissent pas interpellés au même moment par des agents de la BAC. 2 dans le magasin Auchan, le 3e devant le magasin. 2 disent avoir été frappés par les policiers. L’un a la mâchoire et 2 doigts cassés. L’autre blessé à la jambe, boitille

    Un policier de la BAC dit avoir reçu un coup de casque au visage (5 jours ITT) mais son certificat médical n’indique aucune blessure au visage. C’est parole contre parole. Le policier dit avoir perdu une chaîne en or d’une valeur de 500€. Son avocate demande son remboursement.

    Les 3 hommes sont poursuivis pour tentative de vol. 2 sont aussi poursuivis pour rébellion (pour avoir résisté selon les policiers à l’interpellation). L’un des hommes dit être rentré pour prendre des fruits, car il n’en mange plus depuis 2 ans à cause de l’inflation

    Aucun des 3 n’a de casier. Les avocats ont soulevé des exceptions de nullité pour des manquements sérieux lors de la GAV (absence de notification de droits, pas d’intervention du magistrat, etc.). Exceptions non retenues. Là aussi, pas de témoignages, vidéos ou confrontations.

    L’homme rentré pour les fruits est condamné à 6 mois avec sursis (simple). Celui qui a les doigts et la mâchoire cassée (et qui exerce comme chauffeur poids lourds) à 1 an, dont 10 mois avec sursis. Le dernier à 18 mois ferme, 1 000 € à verser au policier de la BAC au titre du Préjudice moral, 500 € en dédommagement de la chaîne en or perdue et 800 € au titre de l’article 475-1 du CPP. Dans ce dossier, c’était la parole des policiers de la BAC Nord contre celle des accusés.

    La Procureure a rendu hommage aux forces de l’ordre et déclaré : « Dans une société hiérarchisée, on ne parle pas aux policiers comme à des égaux, on obtempère ».

    Dernier cas de la journée (pour ce qui est de la salle 4) : Clément, 18 ans, SDF depuis 2 ans. Il souffre de multiples troubles psychiatriques (dont schizophrénie). Interpellé dans le magasin Louis Vuiton et poursuivi pour tentative de vol. Dit avoir voulu voler pour se nourrir

    Il bénéficie d’un suivi médical. La Procureure a requis 1 an ferme. Ajoutant :"Il aura en détention le temps de réfléchir et de se prendre en main médicalement". Il a été reconnu coupable et écope d’une peine de 4 mois (aménagée). Il avait l’air totalement perdu.

    https://twitter.com/r_chekkat/status/1675864605703254016

    #tribunal #Marseille #Nahel #émeutes #révolte #vols #justice #emprisonnement #peines #prison_ferme

  • « Il n’y a pas de justice pour nous » : à Pontoise, l’écrasement judiciaire de la révolte se poursuit
    https://www.revolutionpermanente.fr/Il-n-y-a-pas-de-justice-pour-nous-a-Pontoise-l-ecrasement-judic

    Quand vient le moment des délibérés, des policiers envahissent les petites salles d’audience du Tribunal de Pontoise et enserrent de façon anxiogène les rangs du public. Un homme noir, installé dans le public, regarde un instant son téléphone, un policer le menace immédiatement de le poursuivre pour outrage. Du côté des détenus aussi, derrière les vitres, le nombre de policiers est doublé, faisant pressentir à tout le monde la lourdeur des peines à venir et la colère que l’institution judiciaire est consciente qu’elle va déclencher.

    Le couperet tombe enfin et comme partout, les peines sont insoutenables. Pourtant la plupart sont sans casier, les dossiers vides, les preuves très faibles, comme le répètent les avocats, mais la plupart prennent des peines de prison ferme. Le groupe d’adolescents de 18 ans, poursuivis pour « groupement… », obtient une peine de 8 mois d’emprisonnement à domicile avec bracelet électronique. « On est soulagés qu’ils ne retournent pas en prison ce soir même si une peine de 8 mois d’emprisonnement à domicile, c’est énorme pour des gens sans casier et pour des faits comme ceux-là. Ils écopent aussi d’une interdiction de paraître à Argenteuil, alors qu’ils y vivent… » conclut Louisa.

    Partout les familles et les amis sont brisés par les condamnations. Un lycéen de 18 ans, sans casier prend 12 mois de prison ferme avec mandat de dépôt (départ en prison depuis l’audience). Il est accusé d’avoir fourni le briquet qui aurait servi à l’incendie d’une voiture. A la lecture du délibéré, sa mère s’effondre. Dans une autre salle, on annonce qu’un chauffeur de bus, père de famille, part en prison lui aussi pour 12 mois ferme. On lui reproche d’avoir transporté des feux d’artifice et d’avoir été interpellé avec du cannabis sur lui.

    Dans la foulée, un jeune homme est condamné lui aussi à 12 mois ferme avec mandat de dépôt pour conduite sans permis et refus d’obtempérer, sans participation aux émeutes. A la nouvelle, sa compagne, enceinte, s’effondre par terre et fait une crise d’épilepsie. Derrière la vitre, son mari la voit, paniqué, et est violemment immobilisé par les policiers autour de lui. Pendant ce temps la juge s’époumone en hurlant sur la famille de quitter la salle, alors même que la jeune femme est inanimée par terre face à elle. Une femme de la famille, est en pleurs : « On a moins quand on est un violeur aujourd’hui en France ».

  • audiences de comparutions immédiates des personnes arrêtées à Marseille ces derniers jours
    https://threadreaderapp.com/thread/1675864605703254016.html

    En train d’assister aux audiences de comparutions immédiates des personnes arrêtées à #Marseille ces derniers jours. Une #justice expéditive. 15 mins à peine pour revenir sur des faits, un parcours de vie, le contexte général. Les peines requises puis prononcées sont lourdes.

    Gros incident d’audience. La prise de parole virulente de l’avocat de la Métropole (partie civile) entraîne des réactions du public présent dans la salle. La présidente fait immédiatement évacuer tout le public par les forces de l’ordre. L’audience continue donc à huis clos.

    Les premières peines tombent : 4 mois de prison ferme pour une jeune femme de 19 ans rentrée dans le magasin Snipes sans avoir rien pris ; 1 an ferme pour des vols au Monoprix ; 10 mois ferme pour un étudiant malien en Master à Aix pour le vol de deux pantalons chez Hugo Boss.

    La Procureure fait des réquisitions d’ordre très général. Elle demande à chaque fois de la #prison ferme « pour l’exemple ». Mais les faits jugés ne sont pas exemplaires mais terriblement communs (un pantalon, une paire de lunettes..). Aucune des personnes poursuivies n’a de casier
    Les audiences se poursuivent. 3 hommes (sans casier) poursuivis pour recel. Ils ont ramassé des pantalons Hugo Boss devant le magasin après qu’il ait été pillé. Les vidéos montrent que les 3 ne sont pas entrés dans le magasin. La Procureure demande de la prison ferme.

    [...]

    Un homme (31 ans) poursuivi pour avoir jeté une pierre en direction d’une zone où il y avait des policiers. Il est reconnu une heure après par un policier et a reconnu tout de suite être l’auteur du jet. Il est placé en GAV puis incarcéré. Il souffre de graves problèmes de santé

  • À Bobigny, des dizaines de jeunes écopent de peines de prison ferme - Bondy Blog
    https://www.bondyblog.fr/societe/a-bobigny-des-dizaines-de-jeunes-ecopent-de-peines-de-prison-ferme

    Au lendemain d’une quatrième nuit de heurts à la suite de la mort de Nahel, le ministère de la Justice appelle à une extrême fermeté. Quitte à requérir des peines de prisons ferme à l’encontre de dizaines de très jeunes interpellés. Reportage au tribunal de Bobigny, samedi.

    sur @la_sellette
    https://lasellette.org/reprimer-la-contestation

    L’usage de la procédure de #comparution_immédiate pour réprimer la colère n’est pas nouveau. À cet égard, l’automne 2005 marque un tournant. Le 27 octobre 2005, Zyed Benna et Bouna Traoré trouvent la mort à Clichy-sous-Bois en voulant échapper à la police. C’est le début d’un véritable soulèvement des #quartiers_populaires en France. S’ensuivent vingt-deux jours de révolte, qui font l’objet d’une surenchère politique et médiatique célébrant la réactivité de l’appareil répressif. Le ministre de la Justice Pascal Clément communique tous les jours sur le traitement judiciaire des émeutiers. Le 9 novembre, en visite au tribunal d’Évry, il demande aux magistrat⋅es de recourir à la comparution immédiate, mais surtout d’avoir une « politique de communication dynamique » : « Je souhaite que les décisions les plus emblématiques, soit parce qu’elles sont sévères, soit parce qu’elles concernent des faits qui ont marqué nos concitoyens, soient systématiquement portées à la connaissance des médias et des élus. »