• Slovenia, carceri sovraffollate di passeur della Rotta Balcanica. Sono quasi la metà

    Gli arresti compiuti nei confronti dei trafficanti di esseri umani, colloquialmente noti come passeur, sta generando un sovraffollamento delle carceri della Slovenia. La Rotta Balcanica e in generale l’immigrazione clandestina si ripercuote pertanto anche sul sistema carcerario sloveno; un problema noto a Trieste e in Friuli Venezia Giulia dove la mancanza di spazi e di condizioni adeguate per i detenuti costituiscono una problematica sollevata più volte dalle istituzioni attive nell’ambito.
    Le centinaia di arresti compiuti negli ultimi anni hanno portato a una saturazione delle carceri della Slovenia. Vi sono 1808 persone detenute in totale; in particolare “tutte le sezioni maschili sono sovraffollate” ha comunicato l’amministrazione slovena alla STA – Slovenian Press Agency.
    La situazione maggiormente grave è, qual è naturale, a Lubiana dove l’occupazione sfonda il 200%; a Maribor è del 171%, a Celje del 165%; il carcere di maggiori dimensioni in Slovenia, a Dob, ha un’occupazione pari al 128%.
    Sugli odierni 1808 carcerati, 850 figurano come cittadini stranieri implicati nella tratta di esseri umani.

    Vi è attualmente un nuovo carcere in via di costruzione a Dobrunje, a est di Lubiana, il cui completamento è previsto entro il 2025. Tuttavia, anche se venisse inaugurato in questi giorni, non risolverebbe il sovraffollamento odierno. In mancanza di alternative, similmente a quanto avviene in Italia, ci si limita a spostare i condannati di carcere in carcere; si sta inoltre valutando se ridurre o meno la durata della pena. Non migliora la situazione la carenza di personale addetto al sistema penitenziario; appena 550 addetti per gestire quasi duemila detenuti. Parte del personale penitenziario è inoltre prossimo alla pensione.
    Man mano che la Rotta Balcanica, col giungere della primavera -estate 2024, ritornerà a essere attiva il problema si ripresenterà tanto in Slovenia, quanto in Friuli Venezia Giulia, dove le difficoltà di gestione delle carceri costituiscono un argomento ricorrente.

    https://www.triesteallnews.it/2024/03/slovenia-carceri-sovraffollate-di-passeur-della-rotta-balcanica-sono-
    #Slovénie #criminalisation_de_la_migration #trafiquants #passeurs #asile #migrations #réfugiés #emprisonnement #prisons #frontière_sud-alpine #Balkans #route_des_Balkans

    • https://www.youtube.com/watch?v=rq0z_cWXFCg&t=13s

      Well, there’s eighteen hammers standing in a line
      Well, there’s eighteen hammers standing in a line

      Well, they ring like silver and they shine like gold
      Well, they ring like silver and they shine like gold

      There ain’t no hammer sure, that’ll ring like mine
      No, there ain’t no hammer sure, that’ll ring like mine

      When I ring this hammer good, gonna so loud
      When I ring this hammer boy, gonna ring like mine

      Well, you cut your corner boys like I cut mine
      Well, you cut your corner boys like I cut mine

      Well, I’ll be living when you be dying
      Well, I’ll be living when you be dying

      Well, I shot me a dead man, got a hundred years
      Well, I shot me a dead man, got a hundred years

      Well, a tree fall on me, I done been mo care
      Well, a tree fall on me, I done been mo care

      Well, I raised up my hammer, let it drop on down
      Well, I raised up my hammer, let it drop on down

      Well, look over yonder boys, all dressed in red
      Well, it looks like the children that Moses led

      #prison #musique #chanson #prisons #USA #Etats-Unis #Mississippi #blues #marteaux

  • « Eux, ils arrivent à quinze, ils te foutent la misère, mais toi, tu es toute seule » : Nine revient sur 19 années de placard – L’envolée
    https://lenvolee.net/eux-ils-arrivent-a-quinze-ils-te-foutent-la-misere-mais-toi-tu-es-toute-se

    Émission de l’Envolée du vendredi 12 janvier 2024

    On diffuse un long et très fort entretien avec Nine, prisonnière #longue_peine et correspondante de longue date de l’Envolée, récemment sortie et qui revient sur ses 19 années de placard pendant lesquelles elle s’est fait trimballée dans les toutes les #prisons_pour_femmes de #France. Elle raconte les décès, les trafics et les violences des matons, des #ERIS et des ELAC, les fouilles abusives, et les #viols et les #violences_sexuelles des surveillants dans le quartier pour femmes des #Baumettes. Mais aussi les solidarités et les révoltes, et toutes les fois où elle s’est battue pour ses codétenues. Pendant toute sa détention, elle n’a jamais arrêté de se bagarrer contre l’administration pénitentiaire qui lui a fait payer très cher. Elle décrit aussi les façons dont la tôle l’a détruite et les séquelles qu’elle découvre depuis sa sortie il y a quelques mois.

    « J’ai pris grave. Pour prendre 51 CRI au total, c’est qu’ils n’y sont pas allés avec le dos de la cuillère ! Les Elac m’ont massacrée pour me sortir du QD alors que le téléphone ne m’appartenait pas. Donc oui, ils sont rentrés, à quinze. Et les Eris, et les Elac, à coup de pieds, le plastique dans la gueule, plaquée contre le mur, menottée, tirée comme un chien par les menottes, comme une merde, à éclater mon bras, etc. Mon doigt en charpente, le dos éclaté, la bouche qui coule du sang. Il te prend le crâne et il te plaque boum ! la tête contre le mur, tu crois quoi ? C’est gratuit ? Après il faut apprécier ces gens-là ? Moi je peux pas. »

    « Taper dans les barreaux collectivement c’est pas illégal, puisqu’il faudrait une caméra qui filme tout le monde. Sauf que tout le monde met un rideau de l’autre côté de la fenêtre et tes barreaux sont à l’intérieur. Tu prends ta casserole et bim bim bam ! Je te garantis que quand c’est 200 femmes qui le font, ah ça fait du bruit ! Les voisins ils sont contents hein ! Ça commence à 20h, ça finit à minuit. »

    https://www.mediafire.com/file_premium/zyoudwhih3ma7c0/lenvolee-24-01-12.mp3


    L’abonnement au journal est gratuit pour les prisonniers et les prisonnières.
    #lenvolée

  • Libia. Il Consiglio di sicurezza Onu conferma le sanzioni ai guardacoste-trafficanti

    Approvato all’unanimità l’inasprimento delle sanzioni per i boss del traffico di esseri umani, petrolio e armi. Dal guardacoste «#Bija» ai capi della «polizia petrolifera» fino al direttore dei «#lager»

    La Libia non è un porto sicuro di sbarco, e le connessioni dirette tra guardia costiera libica e trafficanti di esseri umani, petrolio e armi, sono il motore della filiera dello sfruttamento e dell’arricchimento. All’unanimità il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha accolto le richieste degli investigatori Onu, che hanno proposto l’inasprimento delle sanzioni contro i principali boss di un sistema criminale che tiene insieme politica, milizie e clan.

    La decisione mette in difficoltà il governo italiano e le direttive Piantedosi, secondo cui le organizzazioni del soccorso umanitario dovrebbero prima coordinarsi con la cosiddetta guardia costiera libica, che invece l’Onu indica tra i principali ingranaggi del sistema criminale. Dopo una lunga discussione interna il Consiglio di sicurezza ha accolto le richieste degli investigatori Onu in Libia a cui è stato rinnovato il mandato fino al 2025. Gli esponenti per i quali è richiesto il blocco dei beni e il divieto assoluto di viaggio sono cinque, ma uno risulta deceduto il 16 marzo di quest’anno in Egitto. Gli altri componenti del «poker libico» sono nomi pesanti, a cominciare da #Saadi_Gheddafi, il figlio ex calciatore del colonnello Gheddafi, che sta tentando di vendere una proprietà in Canada aggirando le sanzioni anche attraverso il consolato libico in Turchia. Il cinquantenne Gheddafi avrebbe viaggiato indisturbato e il 27 giugno 2023, gli esperti Onu hanno scritto al governo turco «in merito all’attuazione delle misure di congelamento dei beni e di divieto di viaggio. Non è stata ricevuta alcuna risposta». Secondo gli investigatori la firma di Gheddafi su una procura depositata in Turchia, costituisce «una prova della mancata osservanza da parte della Turchia della misura di divieto di viaggio».

    Se i Gheddafi rappresentano il passato che continua a incombere sulla Libia, soprattutto per lo smisurato patrimonio lasciato dal patriarca dittatore e mai realmente quantificato, nella lista dei sanzionati ci sono i nuovi boss della Libia di oggi. Come #Mohammed_Al_Amin_Al-Arabi_Kashlaf. «Il Gruppo di esperti ha stabilito che la #Petroleum_Facilities_Guard di Zawiyah è un’entità che è nominalmente sotto il controllo del Governo di unità nazionale», dunque non una polizia privata in senso stretto ma un gruppo armato affiliato alle autorità centrali e incaricato di sorvegliare i principali stabilimenti petroliferi, da cui tuttavia viene fatta sparire illegalmente un certa quantità di idrocarburi che poi vengono immessi nel mercato europeo grazie a una fitta rete di contrabbandieri. «Il gruppo di esperti - si legge ancora - ha chiesto alle autorità libiche di fornire informazioni aggiornate sull’attuazione del congelamento dei beni e del divieto di viaggio nei confronti di questo individuo, compresi i dettagli sullo status attuale e sulla catena di comando della Petroleum Facilities Guard a Zawiyah, nonché sulle sue attività finanziarie e risorse economiche personali». Anche in questo caso le autorità libiche «non hanno ancora risposto».

    Collegato a Kashlaf è #Abd_al-Rahman_al-Milad, forse il più noto del clan. Noto anche come “Bija”, ha utilizzato «documenti delle Nazioni Unite contraffatti nel tentativo di revocare il divieto di viaggio - si legge - e il congelamento dei beni imposti nei suoi confronti». Bija si è però mosso trovando appoggi sia «nel governo libico che in interlocutori privati all’interno della Libia», con l’obiettivo di ottenere il sostegno «alla sua richiesta di cancellazione» delle sanzioni. In particolare, gli investigatori Onu sono in possesso «di un documento ufficiale libico, emesso il 28 settembre 2022 dall’Ufficio del Procuratore Generale, in cui si ordina alle autorità responsabili - denunciano gli esperti - di rimuovere il nome di #Al-Milad dal sistema nazionale di monitoraggio degli arrivi e delle partenze». Una copertura al massimo livello della magistratura, che lo aveva già assolto dalle accuse di traffico di petrolio, e che «consentirebbe ad Al-Milad di lasciare la Libia con i beni in suo possesso, in violazione della misura di congelamento dei beni». Il 25 gennaio 2023 «il Gruppo di esperti ha chiesto alle autorità libiche di fornire informazioni aggiornate sull’effettiva attuazione del congelamento dei beni e del divieto di viaggio nei confronti di Al-Milad. La richiesta è stata fatta a seguito della ripresa delle sue funzioni professionali nelle forze armate libiche, compresa la nomina a ufficiale presso l’Accademia navale di Janzour dopo il suo rilascio dalla custodia cautelare l’11 aprile 2021». A nove mesi di distanza, le autorità libiche «non hanno ancora risposto».

    La risoluzione approvata dal Consiglio di sicurezza si basa anche su un’altra accusa del «Panel of Expert» i quali hanno «hanno stabilito che il comandante della Petroleum Facilities Guard di Zawiyah, Mohamed Al Amin Al-Arabi Kashlaf , e il comandante della Guardia costiera libica di #Zawiyah, Abd al-Rahman al-Milad (Bija), insieme a #Osama_Al-Kuni_Ibrahim, continuano a gestire una vasta rete di traffico e contrabbando a Zawiyah». Le sanzioni non li hanno danneggiati. «Da quando i due comandanti sono stati inseriti nell’elenco nel 2018, hanno ulteriormente ampliato la rete includendo entità armate che operano nelle aree di Warshafanah, Sabratha e Zuara». Tutto ruota intorno alle prigioni per i profughi. «La rete di Zawiyah continua a essere centralizzata nella struttura di detenzione per migranti di Al-Nasr a Zawiyah, gestita da Osama Al-Kuni Ibrahim», il cugino di Bija identificato grazie ad alcune immagini pubblicate da Avvenire nel settembre del 2019. Il suo nome ricorre in diverse indagini. Sulla base «di ampie prove di un modello coerente di violazioni dei diritti umani, il Gruppo di esperti ha rilevato - rincara il “panel” - che Abd al-Rahman al-Milad e Osama al-Kuni Ibrahim, hanno continuano a essere responsabili di atti di tortura, lavori forzati e altri maltrattamenti nei confronti di persone illegalmente confinate nel centro di detenzione di Al-Nasr», allo scopo di estorcere «ingenti somme di denaro e come punizione».

    Il modello di #business criminale è proprio quello che Roma non vuole riconoscere, ma che gli investigatori Onu e il Consiglio di sicurezza ribadiscono: «La rete allargata di Zawiyah - si legge nel rapporto - comprende ora elementi della 55esima Brigata, il comando dell’Apparato di Supporto alla Stabilità a Zawiyah, in particolare le sue unità marittime, e singoli membri della Guardia Costiera libica, tutti operanti al fine di eseguire il piano comune della rete di ottenere ingenti risorse finanziarie e di altro tipo dalle attività di traffico di esseri umani e migranti».

    Al Consiglio di Sicurezza è stato mostrato lo schema che comprende «quattro fasi operative: (a) la ricerca e il ritorno a terra dei migranti in mare; (b) il trasferimento dai punti di sbarco ai centri di detenzione della Direzione per la lotta alla migrazione illegale; (c) l’abuso dei detenuti nei centri di detenzione; (d) il rilascio dei detenuti vittime di abusi». Una volta rimessi in libertà i migranti, rientrano nel ciclo dello sfruttamento: rimessi in mare, lasciando che una percentuale venga catturata dai guardacoste per giustificare il sostegno italiano ed europeo alla cosiddetta guardia costiera libica, e di nuovo «trasferimento dai punti di sbarco ai centri di detenzione della Direzione per la lotta alla migrazione illegale; l’abuso dei detenuti nei centri di detenzione; il rilascio dei detenuti vittime di abusi».

    Il rapporto Onu e il voto unanime dei 15 Paesi che siedono nel Consiglio di sicurezza sono uno schiaffo. «Per quanto riguarda il divieto di viaggio e il congelamento dei beni - si legge in una nota riassuntiva della seduta al Palazzo di Vetro -, gli Stati membri, in particolare quelli in cui hanno sede le persone e le entità designate, sono stati invitati a riferire» al Comitato delle sanzioni circa «le rispettive azioni per attuare efficacemente entrambe le misure in relazione a tutte le persone incluse nell’elenco delle sanzioni». Tutte gli esponenti indicati dal «Panel of expert» sono inclusi nell’elenco degli «alert» dell’Interpol. La risoluzione approvata ieri riguarda anche il contrabbando di petrolio e di armi. Il Consiglio di Sicurezza ha prorogato «l’autorizzazione delle misure per fermare l’esportazione illecita di prodotti petroliferi dalla Libia e il mandato del gruppo di esperti che aiuta a supervisionare questo processo».

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/libia-il-consiglio-di-sicurezza-conferma-le-sanzioni-ai-guardacoste-traffic
    #gardes-côtes_libyens #sanctions #migrations #asile #réfugiés #Libye #externalisation #sanctions #conseil_de_sécurité_de_l'ONU #conseil_de_sécurité #ONU #détention #prisons

  • La population pénitentiaire a atteint des sommets en 2022 - rtbf.be
    https://www.rtbf.be/article/la-population-penitentiaire-a-atteint-des-sommets-en-2022-11258370

    Selon le Conseil central de #surveillance_pénitentiaire (CCSP), en 2022, la population pénitentiaire a atteint des sommets jamais franchis dans les prisons belges. L’organe de contrôle a épinglé, lors de la présentation de son rapport annuel 2022 l’impact de la #surpopulation_carcérale sur les droits des prisonniers. Leur nombre moyen dans les 35 prisons surveillées était l’an dernier 11.302, tandis que la capacité moyenne est de 9.641 personnes. Taux moyen surpopulation : 17%. Cette situation affecte gravement les conditions de détention, porte atteinte à la dignité et aux droits des personnes détenues, pointe le CCSP.
    S’appuyant sur les observations faites par les commissions de surveillance, le Conseil cite les conditions matérielles indignes, parmi lesquelles les matelas au sol au nombre de 82 à 248 dans les #prisons surveillées, le manque d’intimité et d’hygiène, la réduction du temps passé à l’air libre, l’accès restreint aux soins médicaux ou encore la pression exercée sur le personnel pénitentiaire. Il évoque aussi l’insécurité, la difficulté de maintenir des contacts avec l’extérieur, la réinsertion plus compliquée, l’aggravation des problèmes psychologiques, et l’augmentation des #suicides et tentatives de suicide.

    Le CCSP recommande de prendre des mesures appropriées et suffisantes pour mesurer et contrôler la croissance de la population carcérale et garantir des conditions de détention humaines et dignes aux personnes privées de liberté. Il demande aussi que des mesures soient prises en concertation avec les acteurs concernés pour encourager le recours aux sanctions non-privatives de liberté.

    Il plaide enfin pour une sensibilisation des juges et des procureurs au rôle qu’ils ont à jouer dans la surpopulation carcérale.

    https://www.prison-insider.com/articles
    #prison_insider

  • Les chaînes sans fin, histoire illustrée du tapis roulant - Yves Pagès Lundi Matin - lundi.am

    Parmi les machines qui hantent nos vies quotidiennes, le tapis roulant est celle qui traverse le plus insidieusement tous les secteurs d’activité : des tapis mobiles sur chaîne d’assemblage aux tapis de caisse de la moindre supérette en passant par ceux dévolus à l’exercice corporel du fitness. Travail posté, rituel consumériste et souci hygiénique de soi : trois postures qui, chacune à sa manière, nous condamnent à l’éternel recommencement d’une marche forcée. Pour cette rentrée et ce lundisoir, nous avons invité Yves Pagès à venir parler de son dernier livre : Les chaînes sans fin, histoire illustrée du tapis roulant.

    https://www.youtube.com/watch?v=kQRmvv2dvcs

    Depuis Petites natures mortes au travail, qui documentait en brefs récits les « bullshit jobs » et le plus récent Il était une fois sur cent, illustrant les dégâts de la folie statistiques, Yves Pagès nous a habitués à saisir dans leur singularité concrète les formes contemporaines de l’aliénation. Avec Les Chaînes sans fin, à travers la naissance et l’évolution d’un dispositif technique il propose une contribution importante à la généalogie du travail moderne. Qu’est-ce qui relie les treadmills des prisons britanniques du début du XIXe siècle et les tapis de course de cette salle de sport dont la vision, au-dessus d’une magasin de pompes funèbres, fut le déclencheur de ce livre ? Peut-être bien le convoyeur « couplant la punition rédemptrice et l’efficacité physiologique dans les hangars industrieux de la modernité fordienne ». Comment ne pas voir, un résumé parfait de la rationalité techno-capitaliste cette devise publicitaire, exhumée entre tant d’autres documents passionnants : « Aller nulle part, très vite » ?

    #escalator #tapis_roulants #luttes #henry_ford #convoyeur #stakanovisme #travail #exploitation #treadmills #prisons anglaises #capitalisme

    Source : https://lundi.am/Une-histoire-illustree-du-tapis-roulant

  • La prison de Villeneuve-lès-Maguelone au bord de l’implosion, selon le syndicat Ufap-Unsa Justice
    https://www.francebleu.fr/infos/faits-divers-justice/la-prison-de-villeneuve-les-maguelone-au-bord-de-l-implosion-selon-le-syn

    La maison d’arrêt de Villeneuve-lès-Maguelone compte 780 places mais actuellement, elle abrite 950 détenus. Alors que les effectifs sont au plus bas déplore Marine Orengo secrétaire locale de l’Ufap-Unsa Justice. « Pour faire fonctionner le centre pénitentiaire, on a besoin de 17 postes de surveillants tous les jours. Or vendredi il n’y avait que neuf postes couverts et ce dimanche matin, nous sommes à seulement six sur 17. »

    (C’est la prison de #Montpellier.)

  • Mitard, l’angle mort - Regarder le documentaire complet | ARTE
    https://www.arte.tv/fr/videos/109744-000-A/mitard-l-angle-mort

    Suicides de détenus, réels ou suspects… Le #mitard, le quartier disciplinaire, constitue l’angle mort des #prisons_françaises. Au travers de saisissants témoignages, ce documentaire alerte sur l’inhumanité de cet outil de répression.

  • #Prison_insider

    Prison Insider est une #plateforme de production et de diffusion d’informations sur les prisons dans le #monde. Son objectif est d’informer, comparer et témoigner sur les #conditions_de_détention au regard des #droits_fondamentaux.
    À cette fin, Prison Insider recense et vérifie les données disponibles ; produit des informations, des connaissances et des savoirs et les rend accessibles au plus grand nombre (vulgarisation, diffusion, traduction,…). Prison Insider développe, mobilise et anime un réseau diversifié d’acteurs impliqués à travers le monde. Sa finalité est de donner les moyens d’agir.

    https://www.prison-insider.com
    https://www.youtube.com/watch?v=BeSATljy2Dw&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.prison-insider.


    #prisons #emprisonnement #témoignages #privation_de_liberté

  • La contrôleuse générale des lieux de privation de liberté alerte une nouvelle fois sur les conditions de détention déplorables
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/05/11/la-controleuse-generale-des-lieux-de-privation-de-liberte-alerte-une-nouvell

    Dans son rapport annuel d’activité, Dominique Simonnot dénonce une réalité invivable rendue possible par un « calcul à court terme, sans vision ni réalisme, répondant au populisme par des incantations et des roulements de biceps ». [...]

    Nouveau record d’incarcérations

    Le premier point soulevé par le rapport est d’importance : la surpopulation carcérale et les atteintes à la dignité en prison. Avec 73 080 détenus au 1er avril et un taux d’occupation moyen des maisons d’arrêt à 142,2 %, la France a atteint un nouveau record d’incarcérations. « Aucune des visites du CGLPL dans les maisons d’arrêt et quartiers maison d’arrêt (seuls touchés par la surpopulation) n’a permis de voir un taux d’occupation inférieur à 135 %, et trois prisons affichaient des taux supérieurs à 200 % au moment du contrôle », indique le rapport, qui évoque une situation inacceptable au regard des droits de l’homme. La vie en prison devient alors intenable, puisque la surpopulation a pour conséquence directe les violences, un manque d’hygiène, l’entrave aux activités, au travail et à l’enseignement. [...]

    « [On] a laissé la prison se substituer aux asiles »

    Autre point soulevé par le rapport annuel : la psychiatrie. Là aussi, l’état des lieux est sévère, notamment en raison du manque de personnel. Conséquence : emplois vacants ; lacunes dans l’organisation de soins ; prévention insuffisante des risques, conduisant à des hospitalisations en urgence qui pourraient être évitées ; recours excessif à la contrainte ; nombreuses atteintes à la liberté d’aller et venir. Cependant, Mme Simonnot et ses équipes notent que « les conditions matérielles de prise en charge observées sont en général correctes, sous réserve de deux difficultés. L’une, de plus en plus fréquente, résulte de la saturation des espaces (…). L’autre, en voie de résorption, est la protection insuffisante de la sécurité des patients ou de leurs biens ».

    La question psychiatrique ne se résume pas aux établissements spécialisés mais déborde sur les prisons, avec des conséquences souvent dramatiques. « [On] a laissé la prison se substituer aux asiles d’antan, enfermant dans ses murs plus de 30 % des prisonniers atteints de troubles graves. Voilà comment, à leur corps défendant, surveillants et détenus ont, en quelque sorte, été contraints de se muer en infirmiers psychiatriques. » [...]

    Manque d’hygiène et de maintenance

    Le document de près de 200 pages met en évidence également une « gestion de plus en plus sécuritaire de la rétention des étrangers ». Les auteurs notent que certains locaux connaissent de graves défauts d’entretien, avec un manque d’hygiène et de maintenance. Les personnes retenues le sont « dans des espaces sales et dégradés », et disent « souffrir de faim et maigrissent pendant leur séjour ». D’autres centres sont entretenus et servent de la nourriture correcte, précise néanmoins le rapport.

    De plus, l’enfermement des enfants se poursuit malgré les « demandes insistantes du CGLPL » et la jurisprudence européenne. « Leur hébergement se déroule parfois sans jouets ni matériel de puériculture, y compris lorsque tout cela existe mais reste inaccessible car les fonctionnaires en ignorent l’existence », peut-on encore lire.

    https://jpst.it/3d7ba

    #prisons #détention #santé_mentale #droits_humains

    • Rappelons qu’au dernier congrès de la CGT, lors de l’élection du poste de secrétaire générale, Céline Verzeletti avait été mise en avant pour contrer la candidature de Marie Buisson.

      M. Buisson, qui incarnait la filiation politique avec la ligne Martinez est secrétaire générale de la FERC (fédération de l’enseignement, de la recherche et de la culture).

      C. Verzeletti, censée représenter « la ligne dure de la CGT » est une travailleuse de la fonction publique d’État, en l’occurrence, la pénitentiaire.

      À plusieurs reprises, lors de débats avec des militants de base de la CGT, j’ai reçu une appréciation très négative de la candidature Buisson, sous prétexte que sa fédération représentait un poids insignifiant dans la conf (sous-entendu qu’il s’agissait « d’intellos » et pas de « vrais travailleurs » ).

      Par contre, à aucun moment je n’ai entendu que l’hypothèse d’une ancienne matonne élue à la tête de la CGT pourrait poser le moindre problème.

    • Plus de 73 000 personnes détenues : arrêtons les frais !
      https://oip.org/communique/plus-de-73-000-personnes-detenues-arretons-les-frais-prison-record

      Un nouveau record vient d’être battu pour la troisième fois en six mois. 73 000 personnes s’entassent désormais dans les prisons françaises. Le gouvernement ne peut continuer de rester indifférent devant l’indignité des conditions de détention et sourd aux appels répétés des observateurs nationaux et internationaux à diminuer le nombre de détenus.

  • Le calvaire des #femmes palestiniennes dans les #prisons israéliennes

    Au cours des 74 dernières années, Israël a arrêté plus de 10 000 femmes palestiniennes, les soumettant à des traitements cruels et brutaux… Elles sont anciennes détenues ou membres d’association de défense des droits des prisonniers. Elles dénoncent les #conditions_de_détention, les #agressions, le #harcèlement, les #attouchements, le retrait du voile, mais aussi la #torture, les #raids ou la #négligence_médicale. Car au-delà de l’enfermement, la peine est aussi politique et religieuse.

    https://www.rfi.fr/fr/podcasts/grand-reportage/20230324-le-calvaire-des-femmes-palestiniennes-dans-les-prisons-isra%C3%A9lienne
    #emprisonnement #femmes_palestiniennes #Israël #audio #podcast #patriarcat

  • Record de détenus en France avec 72’809 personnes derrière les barreaux furr avec afp - RTS
    https://www.rts.ch/info/monde/13578478-record-de-detenus-en-france-avec-72809-personnes-derriere-les-barreaux.

    Avec 72’809 personnes derrière les barreaux, le nombre de détenus en France s’établit à un niveau record absolu en novembre, au-delà de celui enregistré juste avant le confinement mi-mars 2020.

    Le « fol espoir » de résorber définitivement le surpeuplement structurel des prisons, comme l’avait enjoint la Cour européenne des droits de l’Homme (CEDH) à la France en janvier 2020, s’évanouit donc.

    Densité carcérale de 120%
    Selon les données statistiques du ministère de la Justice, https://www.justice.gouv.fr/art_pix/Statistique_etablissements_et_personnes_ecrouees_en_France_202211_.pdf
    les établissements pénitentiaires français comptaient au 1er novembre 72’809 détenus pour 60’698 places opérationnelles, soit une densité carcérale de 120%. Elle était de 115,4% il y a un an.

    Le précédent record (72’575 détenus) datait de mars 2020, à la veille du confinement décidé pour lutter contre la pandémie de Covid-19 et qui avait entraîné une chute drastique du nombre de prisonniers : il y avait eu moins d’entrées en détention et des mesures de libérations anticipées.

    Depuis, les statistiques sont remontées régulièrement jusqu’à frôler ce plus-haut historique le mois dernier, avec 72’350 personnes incarcérées au 1er octobre.

    Condamnation de la CEDH
    Cette tendance, un mal structurel qui avait valu à la France en janvier 2020 une condamnation de la CEDH, va à rebours de celle enregistrée dans les voisins européens de la France où le taux d’incarcération a baissé ces dix dernières années : -12,9% en Allemagne, -17,4% aux Pays-Bas.

    Sur une année, on dénombre 2997 prisonniers en plus en France - ils étaient 69’812 au 1er octobre 2021 - soit une hausse de 4,3%.

    Selon les chiffres officiels, 15’469 détenus sont actuellement en surnombre par rapport aux places disponibles dans les établissements pénitentiaires (contre 13’170 il y a un an). En raison de cette surpopulation, 2225 sont contraints de dormir sur des matelas posés à même le sol.

    Peu de femmes et de mineurs
    3,5% des personnes incarcérées sont des femmes et 0,8%, des mineurs. Plus du quart des détenus (26,9%) sont des prévenus, c’est-à-dire des personnes en attente de jugement - et donc présumés innocents.

    La densité carcérale dans les maisons d’arrêt, où sont incarcérés ces prévenus et les condamnés à de courtes peines, grimpe à 142,8%. Cinquante-six prisons françaises affichent une densité supérieure à 150% (51 en métropole et cinq en Outre-mer).

    Cette densité dépasse même 200% dans six établissements (contre trois le mois dernier) : #Carcassonne (215,6%), #Nîmes (214,5%), #Perpignan (204,6%), #Foix (203,1%), #Majicavo à Mayotte (200,9%) et #Bordeaux-Gradignan. Dans ce dernier centre pénitentiaire du Sud-Ouest, elle grimpe à 206,6% : 350 places opérationnelles pour 723 détenus, et à la clé des conditions de vie régulièrement dénoncées.

    « Atteinte grave et massive aux droits fondamentaux »
    L’Observatoire international des prisons (OIP), l’Ordre des avocats du barreau de Bordeaux et une association de défense des droits des détenus (A3D), ont tenté des actions en justice pour faire cesser cette « atteinte grave et massive aux droits fondamentaux des personnes détenues ». Le Conseil d’Etat a rejeté leur requête le 11 novembre.

    Dans son « plan d’action » contre la surpopulation carcérale adressé à l’Europe, le gouvernement français affiche la construction de 15’000 nouvelles places de prison d’ici 2027 et un recours accru aux mesures alternatives à la détention.

    #prisons #enMarche #justice #France #emmanuel_macron #détenus #record #statistiques

  • En Biélorussie, les sous-traitants d’Ikea profitent du système répressif de la dictature
    https://disclose.ngo/fr/article/bielorussie-sous-traitants-ikea-profitent-du-systeme-repressif-de-la-dicta

    Plusieurs entreprises biélorusses ayant travaillé pour Ikea ces dix dernières années ont recours au travail forcé dans des colonies pénales où sont détenus des prisonniers politiques, et dans lesquelles se pratiquent la torture et les privations. Lire l’article

  • Derrière les murs d’un centre de « réhabilitation » pour #mineurs
    https://metropolitiques.eu/Derriere-les-murs-d-un-centre-de-rehabilitation-pour-mineurs.html

    Offrant une plongée derrière les murs du centre Cité-des-Prairies à #Montréal, l’adaptation en #bande_dessinée d’une recherche ethnographique conduite par Nicolas Sallée met en cases les paradoxes du traitement pénal des déviances juvéniles. La bande dessinée est en passe de devenir un médium classique pour la diffusion de la sociologie, comme en témoignent les nombreuses initiatives qui ont fleuri ces dix dernières années. Au-delà des réalisations individuelles, comme le fameux Riche, pourquoi pas toi ?, #Commentaires

    / bande dessinée, #délinquance, #justice, #prison, mineurs, #protection_de_la_jeunesse, Montréal, #Canada, (...)

    #Québec
    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met-lancelevee.pdf

  • L’illusion du « toujours plus » carcéral
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/05/03/l-illusion-du-toujours-plus-carceral_6124556_3232.html

    La surpopulation des #prisons_françaises, source de violence et de tensions, a atteint un nouveau record. A l’heure où l’Allemagne et les Pays-Bas montrent que cette fuite en avant n’est pas une fatalité, il est temps d’assumer une politique contrôlée de désinflation carcérale.

    Le quinquennat côté prisons : beaucoup de bruit pour rien
    https://oip.org/analyse/le-quinquennat-cote-prisons-beaucoup-de-bruit-pour-rien
    https://twitter.com/OIP_sectionfr
    https://lenvolee.net/permis-de-tuer-des-flics-appels-depuis-les-cra-de-vincennes-et-du-mesnil-a

    Discussion autour de deux récents meurtres policiers : Zakaria Mennouni est décédé le 27 avril, parce que le 21 avril des flics l’avaient tasé, avaient tiré au LBD puis au flingue sur lui ; dimanche 24 avril, le soir de la réélection d’Emmanuel Macron, un policier a tué deux personnes au fusil d’assaut en plein centre de Paris, vers le Pont Neuf. Un syndicat fasciste de flics a appelé à un rassemblement pour revendiquer encore une fois son permis de tuer, le lundi 2 mai. Urgence notre police assassine a appellé à un contre rassemblement au même endroit : place Saint-Michel, à 12h.

    #lenvolée #OIP #macron_démission #surpopulation_carcérale

  • Will The Reckoning Over Racist Names Include These Prisons?

    Many prisons, especially in the South, are named after racist officials and former plantations.

    Not long after an #Alabama lawyer named #John_Darrington began buying up land in Southeast #Texas, he sent enslaved people to work the soil. They harvested cotton and sugarcane, reaping profits for their absentee owner until he sold the place in 1848.

    More than a century and a half later, men—mostly Black and brown—are still forced to work in the fields. They still harvest cotton. They still don’t get paid. And they still face punishment if they refuse to work.

    They are prisoners at the #Darrington Unit, one of Texas’s 104 prisons. And not the only one in the South named after slaveholders.

    While the killing of George Floyd has galvanized support for tearing down statues, renaming sports teams and otherwise removing markers of a (more) racist past, the renewed push for change hasn’t really touched the nation’s prison system. But some say it should. Across the country, dozens of prisons take their names from racists, Confederates, plantations, segregationists, and owners of slaves.

    “Symbols of hate encourage hate, so it has been time to remove the celebration of figures whose fame is predicated on the pain and torture of Black people,” said DeRay McKesson, a civil rights activist and podcast host.

    Some candidates for new names might be prisons on former plantations. In #Arkansas, the #Cummins Unit—now home to the state’s death chamber—was once known as the #Cummins_plantation (though it’s not clear if the namesake owned slaves). In North Carolina, Caledonia Correctional Institution is on the site of #Caledonia_Plantation, so named as a nostalgic homage to the Roman word for Scotland. Over the years, the land changed hands and eventually the state bought that and other nearby parcels.

    “But the state opted to actually keep that name in what I would say is a kind of intentional choice,” said Elijah Gaddis, an assistant professor of history at Auburn University. “It’s so damning.”

    Among several state prison systems contacted by The Marshall Project, only North Carolina’s said it’s in the early stages of historical research to see what name changes might be appropriate. Spokesman John Bull said the department is “sensitive to the cultural legacy issues sweeping the country,” but its priority now is responding to the COVID pandemic.

    Two of the most infamous and brutal plantations-turned-prisons are #Angola in #Louisiana and #Parchman in #Mississippi—but those are their colloquial names; neither prison formally bears the name of the plantation that preceded it. Officially, they’re called Louisiana State Penitentiary and the Mississippi State Penitentiary.

    In some parts of the South, many prisons are former plantations. Unlike Darrington or Cummins, the vast majority at least bothered to change the name—but that isn’t always much of an improvement.

    In Texas, for example, most of the state’s lock-ups are named after ex-prison officials and erstwhile state politicians, a group that predictably includes problematic figures. Arguably one of the worst is Thomas J. Goree, the former slave owner and Confederate captain who became one of the first superintendents of the state’s penitentiaries in the 1870s, when prison meant torture in stocks and dark cells.

    “Goree was a central figure in the convict leasing system that killed thousands of people and he presided over the formal segregation of the prison system,” said Robert Perkinson, a University of Hawaii associate professor who studies crime and punishment. “Even though he thought of himself as a kind of benevolent master, he doesn’t age well at all.”

    In his book “Texas Tough,” Perkinson describes some of the horrors of the convict leasing practices of Goree’s era. Because the plantation owners and corporations that rented prisoners did not own them, they had no incentive to keep them alive. If you killed an enslaved person, it was a financial loss; if you killed a leased convict, the state would just replace him. For decades, Texas prison laborers were routinely whipped and beaten, and the leasing system in Goree’s day sparked several scandals, including one involving torture so terrible it was known as the “Mineola Horror.” Goree defended the system: “There are, of course, many men in the penitentiary who will not be managed by kindness.” Plus, he explained, prisoners in the South needed to be treated differently because they were different from those in the north: “There, the majority of men are white.”

    The present-day Goree Unit is in Huntsville, an hour’s drive north of Houston, but his family’s former plantation in Lovelady—about 20 miles further north—has been turned into another prison: The Eastham Unit, named for the later landowners who used it for convict leasing.

    James E. #Ferguson—namesake of the notoriously violent Ferguson Unit, also near Huntsville—was a governor in the 1910s who was also an anti-Semite and at one point told the Texas Rangers he would use his pardoning power if any of them were ever charged with murder for their bloody campaigns against Mexicans, according to Monica Muñoz Martinez, historian and author of “The Injustice Never Leaves You.”

    Ferguson got forced out of office early when he was indicted and then impeached. Afterward, he was replaced by William P. Hobby, a staunch segregationist who opposed labor rights and once defended the beating of an NAACP official visiting the state to discuss anti-lynching legislation.

    #Hobby, too, has a prison named after him.

    “In public he tried to condemn lynchings, but then when you look at his role in suppressing anti-lynching organizing he was trying to suppress those efforts,” Martinez said of Hobby. “It’s horrific to name a prison after a person like him. It’s an act of intimidation and it’s a reminder that the state is proud of that racist tradition.”

    Northwest of Abilene, the Daniel Unit takes its name from #Price_Daniel, a mid-20th-century governor who opposed integration, like most Texas politicians of the era. As attorney general he fought desegregating the University of Texas Law School, and later he signed the Southern Manifesto condemning the Supreme Court’s decision in Brown v. Board of Education.

    The namesakes of the #Billy_Moore Unit and the frequently-sued Wallace Pack Unit were a pair of prison officials—a major and a warden—who died in 1981 while trying to murder a Black prisoner. According to Michael Berryhill, a Texas Southern University journalism professor who wrote a book on the case, it was such a clear case of self-defense that three Texas juries decided to let the prisoner off.

    “They should not have prisons named after them,” Berryhill said. He called it “a stain” on the Texas prison system’s reputation.

    In Alabama, the #Draper Correctional Center is named after #Hamp_Draper, a state prison director who also served as an interim leader—or “imperial representative”—in the #Ku_Klux_Klan, as former University of Alabama professor Glenn Feldman noted in his 1999 book on the state’s Klan history. The prison closed for a time in 2018 then re-opened earlier this year as a quarantine site for new intakes.

    In New York City, the scandal-prone #Rikers Island jail is one of a few that’s actually generated calls for a name change, based on the namesake family’s ties to slavery. One member of the Dutch immigrant clan, #Richard_Riker, served as a criminal court judge in the early 1800s and was known as part of the “#Kidnapping_Club” because he so often abused the Fugitive Slave Act to send free Blacks into slavery.

    To be sure, most prisons are not named for plantations, slave owners or other sundry racists and bigots—at least not directly. Most states name their prisons geographically, using cardinal directions or nearby cities.

    But some of those geographic names can be problematic. In Florida, Jackson Correctional Institution shares a name with its home county. But Jackson County is named after the nation’s seventh president, #Andrew_Jackson, who was a slave owner obsessed with removing Native people to make room for more plantations. Less than an hour to the south, #Calhoun Correctional Institution also bears the name of its county, which is in turn named after John C. Calhoun—Jackson’s rabidly pro-slavery vice president. The same is true of Georgia’s Calhoun State Prison.

    Also in #Georgia, Lee State Prison is in Lee County, which is named in honor of #Henry_Lee_III, the patriarch of a slave-owning family and the father of Robert E. Lee. A little further northeast, Lee County in South Carolina—home to violence-plagued Lee Correctional Institution—is named after the Confederate general himself.

    In #Arkansas, the namesake of #Forrest City—home to two eponymous federal prisons—is #Nathan_Bedford_Forrest, a Grand Wizard in the Ku Klux Klan who also controlled leased convicts in the entire state of Mississippi at one point.

    To many experts, the idea of changing prison names feels a bit like putting lipstick on a pig: No matter what you call it, a prison is still a prison. It still holds people who are not free. They are still disproportionately Black and brown.

    “If you are talking about the inhumanity, the daily violence these prisons perform, then who these prisons are named after is useful in understanding that,” Martinez said. “But what would it do to name it after somebody inspiring? It’s still a symbol of oppression.”

    But to Anthony Graves, a Texas man who spent 12 years on death row after he was wrongfully convicted of capital murder, the racist names are a “slap in the face of the justice system itself.” New names could be a powerful signal of new priorities.

    “At the end of the day the mentality in these prisons is still, ‘This is my plantation and you are my slaves,’” he said. “To change that we have to start somewhere and maybe if we change the name we can start to change the culture.”

    https://www.themarshallproject.org/2020/07/29/will-the-reckoning-over-racist-names-include-these-prisons

    #prisons #USA #Etats-Unis #toponymie #toponymie_politique #esclavage #Thomas_Goree #Goree #James_Ferguson #William_Hobby #John_Calhoun

  • Larmes de crocodiles et oubli, suite au décès de madeleine albright, qui avait provoqué la mort de 500 000 enfants irakiens, c’est à dire plus qu’à Hiroshima en Nagasaki !

    Nos médias officiels font le silence sur le passé de cette ancienne secrétaire d’Etat américaine.

    Rappel : madeleine albright, secrétaire d’Etat de Clinton, avait ainsi répondu à une question sur le blocus US qui avait provoqué la mort de 500 000 enfants irakiens : « Je pense que c’était un choix difficile, mais oui, ça en valait la peine » . (Emission « Sixty Minutes » (CBS) du 12 mai 1996). L’interview a remporté un Emmy Award.

    En bonus, guerre en Serbie et au Kosovo.
    Fin octobre 2012, lors de la signature d’un livre dans la librairie de Prague Palác Knih Luxor, #madeleine_albright, recevant la visite d’un groupe de militants de l’organisation tchèque « Přátelé Srbů na Kosovu », qui avaient apporté des photos de guerre, dont certaines montraient des victimes serbes de la guerre du Kosovo de 1999, est filmée leur disant : « Sortez, Serbes dégoûtants ! 

    • Les étudiants de l’essec confrontés aux conséquences de ce qui est enseigné dans leur école. À Cergy, les étudiants de l’essec face à l’insécurité Nicolas Daguin - Le figaro

      Tout commence par un mail anonyme adressé au Figaro en novembre 2021. Un certain « Tyler », qui se présente comme un étudiant de l’Essec - l’une des premières écoles de commerce en France -, souhaite nous faire part du climat d’insécurité qui se serait installé autour du campus, situé à Cergy (Val-d’Oise). La situation aurait « énormément empiré » ces derniers temps et serait « devenue invivable », selon ses mots. Il est question d’agressions, de vols avec violence et même de tentatives d’enlèvements. Le jeune homme affirme aussi que « nombre d’étudiants [seraient] traumatisés et ne [voudraient] plus prendre de cours terminant après le coucher du soleil par peur de rentrer seuls la nuit ».

      S’il n’a personnellement jamais été victime d’aucune agression, Tyler assure que plusieurs de ses camarades n’ont pas eu sa chance. Ce dernier en veut pour preuve le groupe Facebook « ESSAFE », créé en 2017. « Nous l’avons ouvert après avoir constaté une recrudescence des agressions autour du campus, dans l’idée… ..

      La suite payante, mais on en a pas besoin : https://www.lefigaro.fr/actualite-france/ce-n-est-pas-normal-de-mettre-sa-vie-en-danger-pour-etudier-a-cergy-les-etu

      #essec #winner #écoles_de_commerce #management #valeurs #libéralisme #marketing #capitalisme

    • #belgique : Quatre nouveaux centres fermés pour personnes en séjour irrégulier forcées au retour
      https://www.vrt.be/vrtnws/fr/2022/03/23/quatre-nouveaux-centres-fermes-pour-personnes-en-sejour-irreguli

      Le gouvernement fédéral a approuvé la construction de trois nouveaux centres fermés et un centre de départ, créant ainsi plus de 500 places supplémentaires affectées au retour forcé de personnes en séjour irrégulier. Les autorités libèrent 100 millions d’euros pour un plan stratégique. Les nouveaux centres - prévus à Jabbeke, Zandvliet, Jumet et Steenokkerzeel - devraient permettre de presque doubler le nombre de places pour les personnes en séjour illégal d’ici 2030.


      Cette décision historique marque un véritable tournant. Nous créons plus de capacité de retour que jamais et pouvons faire un pas de géant dans la politique de retour de notre pays", soulignait le Secrétaire d’Etat à la Migration sammy mahdi. Les trois nouveaux centres pour migrants illégaux se situent à Jumet (près de Charleroi), à Zandvliet (près d’Anvers) et à Jabbeke (près de Bruges).Ce dernier remplacera d’ailleurs l’actuel centre fermé de Bruges.

      Un centre de départ sera par ailleurs établi à Steenokkerzeel (Zaventem) : les personnes n’y resteront idéalement qu’un jour ou deux pour permettre un retour rapide vers le pays d’origine. Le gouvernement fédéral a approuvé rapidement le marché public pour le développement de ce projet.

      La Belgique compte six centres fermés d’une capacité maximale de 635 places. Avec la construction de trois nouveaux centres et de ce centre de départ, la capacité totale passera à 1.145 places, soit plus de 500 supplémentaires par rapport à aujourd’hui. Les appels d’offre pour le bâtiment de Steenokkerzeel seront publiés cette semaine, la construction pouvant commencer en 2024. Pour les centres de Jabbeke, Jumet et Zandvliet, la construction est prévue entre 2027 et 2029.
      . . . . . .

      #centres_fermés pseudo #prisons #réfugiés #asile #migrations #racisme #police #frontières #migrants #migration

    • Le Royaume-Uni finance 4 caméras de vidéoprotection à Brighton, un hameau de Cayeux-sur-Mer
      https://actu.fr/hauts-de-france/cayeux-sur-mer_80182/le-royaume-uni-finance-4-cameras-de-videoprotection-a-brighton-un-hameau-de-cay

      Quatre caméras de vidéoprotection vont apparaître à Brighton-les-Pins, hameau de Cayeux-sur-Mer (2445 habitants), dans la Somme. Le projet est principalement financé par un fonds britannique.

      « Une opération blanche pour la commune. » C’est avec ces mots que Jean-Paul Lecomte qualifie le projet d’installation de 4 caméras de vidéoprotection dans le hameau de Brighton-les-Pins. En effet, le maire de Cayeux-sur-Mer (Somme) ne mettra pas la main au portefeuille.

      « C’est de l’argent qui tombe du ciel »
      « La situation est idéale pour la commune », commente-t-il. Pour cause, le Royaume-Uni finance une grosse partie de l’installation via un fonds de lutte contre l’immigration clandestine. Sur les 67 000 € du coût total du projet, 11 185 € seront financés par la Fédération Départementale d’Énergie (FDE).

      Les Britanniques apporteront leur pierre à l’édifice à hauteur de 55 923 €. « C’est de l’argent qui tombe du ciel », ironise l’élu.

      Les études de protection réalisées par la gendarmerie nationale ont reconnu deux zones à Cayeux-sur-Mer. La première s’étend du Hourdel à l’entrée de la ville. La seconde se situe plus au sud. À terme, une trentaine de caméras devraient être installées dans ces deux secteurs. Mais pour l’instant, la première tranche ne concerne que quatre caméras à Brighton-les-Pins.

      « Quatre départs de migrants ont été constatés dans la commune », se souvient l’édile. « Deux au sud et deux autres au niveau de la carrière de galets Silmer, à Brighton. »

      Une caméra sera donc placée à cet endroit. Les trois autres seront installées au niveau du foyer de vie, au phare et à l’entrée de la ville. Cette dernière permettra la lecture de plaques d’immatriculation notamment.


      Qui s’occupera de l’entretien des caméras ?
      Une petite interrogation avait tout de même été émise par Philippe Prouvost, conseiller municipal : « Qui s’occupera de l’entretien de ces caméras ? » Jean-Paul Lecomte a assuré que « l’installation et l’entretien seront gérés par la FDE qui passera par l’entreprise Citéos ».

      Le centre de visionnage des images captées par les caméras sera installé dans les locaux des agents de surveillance de la voie publique (ASVP). « Lorsqu’il y aura un problème dans ce coin, une seule personne sera habilitée à visionner ces images », explique le maire.

      Si la zone nord doit faire l’objet des attentions du conseil municipal en 2023, les dossiers pour ces quatre premières caméras viennent d’être envoyés à la préfecture. La date d’installation est encore floue.

      #foutage_de_gueule #surveillance #vidéo-surveillance #réfugiés #algorithme #migrations #police #france

  • user et abuser

    Portrait de la militante anarchiste Louise Michel, sur les murs du centre de détention d’Ecrouves

    de et par C215, @christianguemy

    C215 (artiste)
    https://fr.wikipedia.org/wiki/C215_(artiste)

    Christian Guémy est né en octobre 1973 à Bondy. En janvier 2021, il révèle que sa naissance est le fruit d’un viol commis dans le cadre familial et que sa mère s’est suicidée à l’âge de 18 ans, alors qu’il en avait 51.Ses grands-parents l’ont ensuite élevé. Il est inscrit dans un collège catholique2. À l’université, il obtient plusieurs diplômes : maîtrise d’histoire, master d’histoire de l’architecture, et un autre d’histoire de l’art à la Sorbonne3,4. Parallèlement à ses études, Christian Guémy contribue à l’encyclopédie des Compagnons du devoir. Ensuite, il devient chargé d’études pour un syndicat de meubles (sic) , avant de travailler comme responsable export dans l’industrie textile, puis dans la finance.

    Christian Guémy réalise ses premières œuvres sur le tard, à partir de 2006. Enfant, il dessine toutefois avec du matériel que possédait sa mère et dans sa jeunesse, il réalise des bandes dessinées pour le journal de l’école ainsi que des caricatures de professeurs et d’élèves7. « Adolescent, j’avais un peu taggé, mais ça n’avait rien de sérieux », confie-t-il5. À l’été 1989, à l’âge de 15 ans, il graffe un peu, mais laisse tomber, ne se sentant pas en adéquation avec le mouvement hip-hop.

    Christian Guémy s’installe à Vitry-sur-Seine en 2006 et commence à faire du pochoir3. Il participe au MUR dès 2007 et réalise, en 2013, un mur peint de 25 mètres à Paris, métro Nationale, représentant un chat.

    En 2013, il peint également le visage de la ministre de la Justice, Christiane Taubira, alors cible d’attaques racistes9. Connu au niveau international, Christian Guémy présente des œuvres peintes sur objets de recyclage dans de nombreuses galeries, en France et dans le monde.

    (...) Le 4 janvier 2016, l’artiste réalise au pochoir sur une boîte à feu un portrait multiple du #policier Ahmed Merabet orné du fameux « Je suis Ahmed »13. L’œuvre a été réalisée à la demande du commandant Stéphane Motel, du commissariat du 11e arrondissement de Paris où travaillait Ahmed. Le portrait, conçu sur le boulevard Richard-Lenoir, a été dévoilé devant une centaine de personnes parmi lesquelles les collègues du policier et sa famille au complet14. (...)

    À la suite de la campagne présidentielle de 2017, C215, sur une commande du magazine L’Obs, aborde le sujet du candidat de La France insoumise Jean-Luc Mélenchon et réalise plusieurs portraits à son effigie [1] [archive]16. En juin 2017, il dénonce le fait que La République en marche dans le XIIIe arrondissement de Paris utilise une de ses fresques en en-tête de leur page Facebook et Twitter17,18.

    En décembre 2017, Christian Guémy réalise bénévolement le visuel de la journée « Toujours Charlie ! De la mémoire au combat », à partir du logo créé par les trois associations produisant l’événement, le Comité Laïcité République, la LICRA et le Printemps Républicain. Ce visuel est dévoilé le samedi 6 janvier 2018 en ouverture de la journée, au théâtre des Folies Bergère.

    (...) Début juin 2020 il réalise le portrait d’Aïcha Issadounène, première #caissière victime du Covid, sur un mur de la ville de Saint-Ouen où elle résidait26. [et merde, ndc]

    (...) Christian Guémy intervient bénévolement dans les #prisons françaises depuis 2014. Il a notamment peint plusieurs œuvres :

    au sein de la maisons d’arrêt pour femmes de Versailles38 (2014)
    au sein de la maison d’arrêt de Bois d’Arcy39 (2015)
    au sein de la maison d’arrêt de Nice (2016)
    au sein de la maison d’arrêt de Nîmes (2017)
    au sein de l’établissement pénitentiaire pour mineurs de Porcheville (2017)
    au sein de la maison d’arrêt de Reims (2018)40
    au sein du centre pénitentiaire de Liancourt (2018)
    au sein de la maison d’arrêt de Nanterre (2019)
    au sein de la maison d’arrêt de Fresne, où il a peint, entre autres portraits, les visages de détenus « historiques » de l’établissement (2020)41
    au sein du centre pénitentiaire de Grenoble Varces (2020) 42

    il n’a pas effacé que la Nouvelle Calédonie (Cayenne, ça frappe !)... c’était pas l’École normale, c’était pas l’Essec, c’étaient des études d’histoires.

    #justice #artiste #art_urbain #fils_de_son_père #falsification #sans_vergogne

  • #Personne_ici_ne_sait_qui_je_suis

    Mille accents s’entremêlent dans les cours de français donnés dans ce centre social de quartier.
    Demandeurs d’asile, salariés, réfugiés, femmes et hommes des quatre coins du monde, lettrés ou jamais scolarisés, jeunes et personnes âgées, tous viennent apprendre une langue et tromper la solitude de l’étranger en France.
    Ce livre leur donne la parole.

    http://www.lemondealenvers.lautre.net/livres/personne_ici.html

    #BD #livre #bande_dessinée #Coline_Picaud

    #ateliers_socio-linguistiques #FLE #migrerrance #solidarité #attente #santé_mentale #migrations #étrangers #réfugiés #migrations #Grenoble #langue #apprentissage #parcours_migratoires #itinéraires_migratoires

    –-

    Les autres BD de Coline Picaud signalées sur seenthis :
    https://seenthis.net/tag/coline_picaud

  • Des soldates auraient été « prostituées », admet le chef de la prison de Gilboa Par Times of Israel Staff 24 novembre 2021
    https://fr.timesofisrael.com/le-chef-de-la-prison-gilboa-semble-admettre-que-des-soldates-aurai

    Des geôlières ont raconté avoir été mises en contact avec des détenus afin d’être reluquées ou agressées en échange de concessions ; l’enquête a été classée et les plaintes enterrées.


    Le commandant de la prison de Gilboa, Freddy Ben Shitrit, arrive pour son témoignage devant le comité d’inspection du gouvernement pour enquêter sur l’évasion des prisonniers de sécurité de la prison de Gilboa, à Modiin, le 24 novembre 2021. (Crédit : Flash90)

    Le commandant de la prison de Gilboa, Freddy Ben Shitrit, a semblé confirmer mercredi des informations rendues publiques en 2018 qui avaient laissé entendre que des soldates qui effectuaient leur service militaire en tant que gardiennes dans la milieu carcéral avaient été « prostituées » et contraintes à avoir des relations sexuelles avec des terroristes palestiniens.

    Plusieurs anciennes gardiennes de la prison ont déclaré avoir été utilisées comme monnaie d’échange avec les détenus et délibérément mises en danger par leurs supérieurs afin d’obtenir des concessions de la part des prisonniers.

    M. Ben Shitrit a déclaré que la prison « faisait du proxénétisme avec les soldates » et « qu’elle remettait des femmes soldats à des terroristes à des fins sexuelles », faisant apparemment référence à une pratique présumée consistant à placer les femmes soldats en contact étroit avec les prisonniers comme des objets sexuels à reluquer, voire à agresser.

    « L’incident de proxénétisme a été un incident massif », a-t-il déclaré.

    Ce drame aurait eu lieu avant l’arrivée de Ben Shitrit à la tête de la prison.

    Ces accusations avaient été rapportées pour la première fois en 2018 par la Vingtième chaîne et fermement démenties par le service pénitentiaire. Une première enquête a été classée en raison d’un manque de preuves, ont rapporté les médias israéliens mercredi soir.

    Ben Shitrit a tenu ces propos alors qu’il témoignait devant un panel du gouvernement concernant les défaillances qui ont permis l’évasion de terroristes palestiniens, au mois de septembre. L’évasion a révélé des défaillances généralisées dans la prison, essentiellement liées à la pénurie de ressources humaines et matérielles.

    L’une des soldates qui a déclaré avoir été agressée sexuellement lors de l’incident a réclamé mercredi la réouverture de l’enquête.

    La soldate, dont le nom n’a pas été révélé, a déclaré à Walla qu’elle et d’autres gardiennes avaient été agressées sexuellement par un terroriste palestinien nommé Muhammad Atallah. Les gardiens ont affirmé que la direction de la prison était au courant de ces abus et les a couverts jusqu’à ce que des reportages médiatiques sur l’affaire les révèlent en juin 2018.


    Un gardien de prison dans une tour de surveillance à la prison de Gilboa, dans le nord d’Israël, le 6 septembre 2021. (Crédit : Flash90)

    Selon ces informations, un agent de renseignement de la prison aurait placé des gardiennes dans le quartier de sécurité de l’établissement à la demande du terroriste.

    La Douzième chaîne a déclaré que trois soldates étaient impliquées dans cette affaire.

    La soldate qui a témoigné a déclaré qu’elle avait reçu l’ordre d’accompagner Atallah dans l’établissement, ce qui lui donnait l’occasion de l’agresser, notamment en lui tripotant les fesses, tandis que ses supérieurs fermaient les yeux.

    En échange, Atallah, une figure puissante parmi les autres prisonniers, assurait la tranquillité de l’établissement pour le personnel de la prison, selon la Douzième chaîne.

    « Ils m’ont envoyée faire des missions que je n’étais pas censée faire pour être un objet sexuel afin d’obtenir des renseignements », a déclaré l’une des victimes présumées à la Douzième chaîne. « L’un des prisonniers de la sécurité a agi comme il le voulait envers moi. Insultes, offenses sexuelles, agressions verbales. Chaque fois que je venais prendre mon service, j’étais déprimée. »

    Elle a dit qu’elle était utilisée « comme un objet, comme une jolie fille, comme une tentatrice. Pour être juste un objet sexuel pour obtenir des informations d’eux ».

    « Mes commandants ne se souciaient pas de ce que je ressentais ou de ce que je vivais », a-t-elle déclaré.


    Une gardienne de prison avoir été utilisée par ses supérieurs comme monnaie d’échange avec les détenus. (Capture d’écran/Douzième chaîne)

    L’officier a reconnu avoir mis des gardiennes avec le prisonnier après que celui-ci a réclamé leur présence spécifique, a rapporté Walla.

    L’officier a été suspendu, mais a depuis réintégré l’administration pénitentiaire.

    L’ancienne soldate qui a demandé une enquête a déclaré : « J’attends du ministère public et de la police qu’ils rouvrent le dossier d’enquête. Ils doivent déposer un acte d’accusation contre l’officier de renseignement qui nous a livrées à des terroristes et contre tous ceux qui étaient au courant et se sont tus, et il y avait beaucoup de gens comme ça dans la prison. Nous nous sommes plaints que le prisonnier nous agressait sexuellement et on nous a dit de ne pas faire de commentaires. »

    L’avocate de la soldate, Galit Smilovitch, a déclaré que les commentaires de Ben Shitrit mercredi confortaient les accusations de sa cliente.

    « Il s’agit essentiellement d’un aveu indiquant que tout était planifié », a-t-elle déclaré. « Le ministère public doit s’occuper du problème à sa racine et ordonner la réouverture du dossier et le dépôt d’actes d’accusation contre toutes les personnes impliquées. »

    L’administration pénitentiaire a déclaré mercredi que les allégations ravivées étaient une tentative de détourner l’attention du témoignage de Ben Shitrit sur la mauvaise gestion de la prison.

    L’affaire a été « instruite sous la direction d’un précédent commissaire et classée par le bureau du procureur de l’État », a déclaré l’administration pénitentiaire dans un communiqué.

    « Si Ben Shitrit a entre les mains de nouvelles informations qui justifient la réouverture de l’enquête, il doit immédiatement les transmettre aux autorités chargées de l’application de la loi. »

    La ministre des Transports, Merav Michaeli, a qualifié les propos de Ben Shitrit de « choquants » et a déclaré que le ministre de la Sécurité intérieure, Omer Barlev, avait formé une commission chargée d’enquêter sur cette affaire.

    « Je suis sûre que tous les manquements et toutes les atrocités qui se sont produits dans la prison ces dernières années seront découverts et rectifiés », a-t-elle déclaré.

    #femmes #israël #Palestine #prison #prisons #soldates #proxénétisme  #prostitution #culture_du_viol #sexisme #exploitation #patriarcat #violence
     #femmes_soldats #objets_sexuels #atrocités

  • >Ban Public - Le portail d’information sur les prisons
    http://prison.eu.org/budget-penitentiaire-2022-prison

    Dans le cadre du projet de loi de finances pour 2022, les membres de l’Assemblée nationale examinent aujourd’hui, lundi 25 octobre, les crédits de la mission Justice et, parmi eux, ceux dédiés à l’administration pénitentiaire. Une fois de plus, les priorités budgétaires sont aux antipodes des véritables besoins et traduisent une orientation stratégique où la prison reste, encore et toujours, la peine de référence.

    Une promesse enfin tenue pour Macron et Castex, en 2022 plus personne à la rue, tous en taule ?
    #administration_pénitentiaire #LaREM #prisons #institution_carcérale

  • « Le massacre de la Saint-Barthélemy s’est joué entre voisins »
    https://www.lemonde.fr/le-monde-des-religions/article/2021/10/24/le-massacre-de-la-saint-barthelemy-s-est-joue-entre-voisins_6099676_6038514.


    « Le Massacre de la Saint-Barthélemy », une huile sur bois du peintre François Dubois, est exposée au musée cantonal des Beaux-Arts de Lausanne (Suisse).
    WIKIPEDIA

    C’est une vision inédite du massacre de 1572 que l’historien Jérémie Foa offre dans son ouvrage « Tous ceux qui tombent ». Reconstituant une microhistoire soucieuse de nommer les victimes anonymes, il exhume les « vies minuscules » emportées.

    « Saint-Barthélemy » : le nom revient souvent dans le débat comme un spectre, synonyme de la folie d’un meurtre collectif. Mais qui connaît réellement ce massacre d’août 1572, si emblématique des guerres de religion ?

    Grâce à un travail d’archives approfondi, Jérémie Foa, maître de conférences en histoire moderne à l’université d’Aix-Marseille, offre une nouvelle perspective sur cet épisode jusque-là essentiellement raconté depuis les grands du royaume. Dans Tous ceux qui tombent. Visages du massacre de la Saint-Barthélemy (La Découverte, 352 pages, 19 euros), l’historien, actuellement en résidence au prestigieux Institute for Advanced Study de Princeton, aux Etats-Unis, a cherché à raconter l’événement par le bas, en rendant un visage aux anonymes massacrés.

    A travers 25 enquêtes pointilleuses, l’auteur met au jour les victimes et les tueurs, simples passants ou ardents massacreurs, dans leur humaine trivialité, et exhume ainsi ces « vies minuscules » emportées lors de ce funeste massacre.

    • Dans quel contexte advient le massacre de la Saint-Barthélemy ?

      La France connaît des guerres de religion depuis dix ans lorsque la Saint-Barthélemy éclate, dans la nuit du 23 au 24 août 1572. Ces conflits opposent les catholiques à la minorité protestante, qui représente environ 2 millions de sujets sur les 20 millions du royaume. Le protestantisme est légal en France depuis 1562, grâce à un édit de la reine Catherine de Médicis.

      Malgré plusieurs poussées de violence, la Saint-Barthélemy advient dans un contexte de paix, qui dure depuis l’édit de Saint-Germain, en août 1570. C’est pour le consolider que Catherine de Médicis a l’idée de marier sa propre fille, Marguerite de Valois – la future reine Margot –, à un grand aristocrate protestant, Henri de Navarre, qui deviendra Henri IV. Cette union est censée pérenniser la paix. Le mariage a lieu le 18 août 1572, à Paris. Pour l’occasion, de nombreux grands protestants s’y rendent, ce qui va créer des tensions avec les habitants – le culte protestant étant alors interdit dans la ville.

      Dans cette situation explosive survient un nouveau fait : l’amiral de Coligny, aristocrate protestant très proche du roi, est visé, le 22 août, par un tireur embusqué qui le cible à l’arquebuse, et le blesse sans le tuer. Le tireur a été envoyé par les Guise, grande famille catholique opposée depuis toujours à la réconciliation avec les protestants. Les aristocrates huguenots, furieux, menacent donc de prendre les armes.

      Qu’est-ce qui déclenche précisément le massacre ?

      Dans la nuit du 23 au 24 août se tient un conseil du roi Charles IX, au Louvre, lors duquel les conseillers catholiques décident d’une liste d’une vingtaine de grands protestants à abattre. Si le détail de cette séance reste flou, on sait que, peu après minuit, des soldats quittent le Louvre avec pour mission de les tuer : ils vont notamment défenestrer Coligny.
      Cette initiative pousse les habitants de Paris, et en particulier les miliciens, qui sont des bourgeois élus pour garantir la sécurité, à suivre eux aussi le geste royal en l’interprétant comme une autorisation à tuer leurs voisins protestants. Au total, quelque 3 000 d’entre eux seront massacrés entre cette nuit et le 28 août.

      Malgré les lettres répétées du roi pour faire cesser les exactions, la vague se répand en province, en particulier à Orléans, Lyon et Toulouse. Cette séquence ne s’arrêtera que mi-octobre, faisant environ 10 000 morts au total.

      Pourquoi avoir fait le choix de raconter cet épisode à travers les « vies minuscules » ?

      Les enjeux posés par la Saint-Barthélemy me captivent, et plus globalement le XVIe siècle – ma thèse portait sur les édits de pacification sous Charles IX (1560-1574). Je cherche à comprendre comment une personne peut soudain tuer son propre voisin, et à éclairer la logique qui conduit à tuer au nom de Dieu.

      Cela résonne avec d’autres génocides, comme en Yougoslavie et au Rwanda : le XVIe siècle me permet ainsi d’interroger d’autres époques. La Saint-Barthélemy me tient particulièrement à cœur, bien que je ne sois pas protestant, ni même croyant : je ne peux m’empêcher d’éprouver une empathie pour les victimes – et, a contrario, une antipathie pour les meurtriers.

      Cet intérêt pour les vies minuscules me vient en particulier de mes lectures rattachées au courant de la « #microhistoire », ainsi que des travaux de la spécialiste du XVIIIe siècle Arlette Farge. La Saint-Barthélemy a fait l’objet d’innombrables études, mais toujours depuis les palais et les grands ; je voulais donc traiter l’événement à travers les petits, les humbles.

      Quel regard nouveau cette approche par le bas permet-elle de jeter sur la Saint-Barthélemy ?

      L’élément le plus saisissant est que ce sont des voisins qui ont tué leurs voisins ! L’image d’absolutisme de l’Etat ne correspond pas du tout à la réalité : sa présence est très légère, et l’administration n’avait aucun moyen d’identifier qui était protestant ou pas. On a souvent accusé Catherine de Médicis du massacre, mais elle était bien incapable de reconnaître les personnes à cibler.

      Les études se sont souvent intéressées aux donneurs d’ordre, mais pas aux exécutants du massacre. Or seuls les habitants pouvaient savoir qui n’allait pas à la messe un dimanche, ou qui s’était absenté pour combattre de l’autre côté durant la dernière guerre de religion. Cette étude par le bas montre que le massacre s’est joué dans le voisinage, car il ne pouvait être mis en œuvre que par les riverains, et en particulier les miliciens.

      Tous les Parisiens étaient-ils impliqués ?

      Non, et c’est une autre surprise : les archives montrent que la plupart des Parisiens se livrent à de nombreuses autres activités que celle de tuer. C’est ce que j’ai appelé « les archives sans sang ». Celles-ci, troublantes pour l’historien, documentent des occupations ordinaires pour des milliers de Parisiens continuant leur routine dans ce massacre – mettre son enfant en apprentissage, faire du commerce, acheter des biens…

      On réalise ainsi, de façon saisissante, que l’ordinaire persiste dans l’extraordinaire. La question est alors : faut-il l’interpréter comme de l’égoïsme, ou comme un moyen de rester dans la banalité pour ne pas céder à la violence ?
      Enfin, mon enquête met aussi au jour l’existence de « Justes », qui ont par exemple aidé des protestants en rédigeant des certificats de catholicité ou en les hébergeant. Ainsi, même dans une période de crise radicale, il demeure toujours une marge de liberté : on peut décider de sauver son voisin, d’être indifférent à son sort ou de le tuer.

      Quel était le « modus operandi » du massacre ?

      Comme ce sont des voisins qui connaissent leurs victimes, la plupart du temps, ils frappent simplement à la porte. On tire la clochette, la victime descend, et soit celle-ci est abattue sur le champ, d’un coup d’épée, soit elle l’est en pleine rue. Mais je pense que la majorité des assassinats ont néanmoins eu lieu dans les #prisons car ces lieux de réclusions sont les plus efficaces pour éliminer sans trace.

      Beaucoup de protestants s’y sont rendus sans imaginer ce qui allait leur arriver, par habitude d’y avoir déjà été envoyés par le passé pour leur religion. Ces prisons étant en bord de Seine, elles ont facilité l’évacuation des cadavres, jetés à l’eau. Ces massacres dans les prisons se sont également produits à Lyon et à Toulouse.

      Comment expliquez-vous qu’une telle dynamique de la haine se soit déclenchée ?

      L’explication la plus convaincante est celle de l’historien Denis Crouzet, qui souligne l’angoisse eschatologique puissante éprouvée par les catholiques à cette époque. La peste n’est pas si loin et des bouleversements interviennent – guerres, maladies, mais aussi découverte de l’Amérique et réforme protestante.

      Cette sensation de vivre la fin des temps décuple l’angoisse face au jugement dernier. Les catholiques s’interrogent alors : peut-on tolérer la présence d’hérétiques, comme le sont les protestants, sans que cela nuise à notre salut ? Tuer des hérétiques est ainsi une façon de s’assurer place au paradis.

      Vous empruntez à Sigmund Freud sa notion de « narcissisme des petites différences ».

      En effet, et c’est la seconde explication à mon sens : pour ces riverains catholiques qui vivent à côté de protestants, il n’y a finalement rien de plus insupportable que ces « hérétiques » qui leur ressemblent autant. Cette absence de signe distinctif de l’ennemi génère aussi de l’angoisse, comme si le diable leur ressemblait. Le massacre devient une occasion de faire cesser cette ressemblance, d’où les défigurations massives sur les victimes – yeux arrachés, nez coupés –, comme pour différencier enfin les hérétiques et les rendre physiquement diaboliques.

      Quels destins exhumés des archives vous ont le plus touché ?

      J’ai été très ému par Marye Robert, dont l’histoire constitue le premier chapitre. Elle n’était jusqu’alors connue que sous le nom de son mari au moment du meurtre, via une simple phrase, terrible : « Le commissaire Aubert remercia les meurtriers de sa femme. » Cela m’a horrifié, faisant notamment écho à un drame arrivé dans mon entourage personnel. Pour des raisons à la fois scientifiques et intimes, j’ai donc été fier de retrouver son inventaire après décès et de pouvoir lui rendre son nom.

      Il semble que la confession protestante de Marye Robert ait valu à son mari une incarcération en 1569, pour des œufs trouvés à leur domicile en plein Carême. Cet homme, qui occupe un office très prestigieux, trouva peut-être dans l’élimination de sa femme un moyen commode de supprimer les menaces sur sa carrière, dans ce temps où divorcer était presque impossible.

      La mort de Louis Chesneau m’a aussi touché. Ce protestant est un savant hébraïste, dont les dernières années de sa vie montrent une descente aux enfers : sa foi lui vaut de perdre son emploi et d’être exilé de Paris durant trois ans. Devenu indigent, il vit de mendicité et est contraint de vendre ses livres. Le jour de la Saint-Barthélemy, il se réfugie chez un ami, Ramus, ce qui revenait à se jeter dans la gueule du loup car celui-ci était un protestant célèbre. Chesneau est mort défenestré.

      Et du côté des tueurs ?

      Le troisième visage que je retiens est celui de Thomas Croizier, qui est l’un des meurtriers principaux de la Saint-Barthélemy. Cet orfèvre habitait quai de la Mégisserie – qu’on appelle alors « vallée de Misère » –, et sa maison avait une trappe donnant sur la Seine : il a pu ainsi se débarrasser de nombreux cadavres, car il a tué beaucoup de protestants chez lui. Après le massacre, il continuera à régner dans les rues durant trente ans. Puis il s’est soudain exilé, à la fin de sa vie, après avoir participé à une expédition punitive, sans qu’on sache si cette ultime vie en ermite était motivée par l’envie d’échapper à la justice, ou par la seule culpabilité.

      Plus largement, en me penchant sur le devenir des tueurs, je me suis aperçu que la plupart ont vécu dans l’aisance et parfois les honneurs. Pour beaucoup, le crime paie. Comme pour Thomas Croizier qui, six mois après la Saint-Barthélemy, achètera à un prix dérisoire, avec l’aval de Catherine de Médicis, l’hôtel particulier d’une de ses victimes… La morale de l’histoire conduit à constater qu’il n’y en a pas : les pires criminels sont morts dans le confort de leur lit.

      Face à ce déchaînement de violence, n’y avait-il aucun anticorps ?

      Il y a d’abord ceux que j’ai qualifiés par anachronisme de « Justes », comme Jean de Tambonneau. Ce catholique, conseiller au Parlement, vivait sur l’île de la Cité dans une grande demeure où il cachera une quarantaine de protestants : c’est un exemple de grandeur morale, comme il y en a parfois dans les circonstances tragiques.

      Ensuite, les logiques familiales dans les familles mixtes ont permis à de nombreux protestants de trouver un refuge pour échapper au massacre. Enfin, dans plusieurs villes, comme Saint-Affrique dans l’Aveyron, des pactes d’amitié entre catholiques et protestants ont été signés : l’idée de citoyenneté prévaut sur la différence religieuse, et c’est une façon de vivre ensemble qui s’invente alors.

      Quels enseignements la Saint-Barthélemy offre-t-elle pour notre temps ?

      La première leçon est que la proximité peut engendrer de la haine lorsque la fréquentation de la différence n’est pas acceptée et assimilée. Il est donc très important de trouver des stratégies pour appréhender les différences, et savoir les valoriser plus que les livrer à la haine par le silence.

      Cet événement montre aussi qu’il subsiste, même dans les pires crises de notre histoire, une marge de manœuvre. Et cette liberté, qui distingue les bourreaux des justes, aucun événement de l’histoire ne peut la supprimer : il existe toujours la possibilité de choisir.

      Paradoxe, les éditions la Découverte qui publient actuellement tant de travaux de choix appartiennent à Bolloré.

      #Saint-Barthélemy #histoire #Paris

    • y avait aussi sur Médiapart : https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/191021/la-saint-barthelemy-matrice-des-guerres-civiles

      La Saint-Barthélemy, matrice des guerres civiles
      19 octobre 2021 Par Joseph Confavreux

      Comment peut-on renouveler un objet d’histoire autant parcouru que la Saint-Barthélemy dont, il y a déjà un siècle, l’historien Henri Hauser jugeait qu’il avait fait couler « à peine moins d’encre que de sang » ? L’historien Jérémie Foa, maître de conférences à l’université Aix-Marseille convainc, avec son ouvrage intitulé Tous ceux qui tombent. Visages du massacre de la Saint-Barthélemy (La Découverte), de la possibilité et de la nécessité de revenir sur cette nuit parisienne de la fin août 1572, inaugurant plusieurs semaines de massacres partout en France, conclues par la mort d’environ 10 000 protestants.

      Parce qu’il écrit de manière aussi précise qu’élégante, parce qu’il propose une micro-histoire faisant revivre les liens entre victimes et tueurs, parce que le chercheur s’est éreinté les yeux dans des archives inédites, parce qu’il propose, à partir de là, des hypothèses importantes, Jérémie Foa répond par le fait à la question qu’il pose lui-même en ouverture de son ouvrage : pourquoi « s’échiner à bêcher ces terroirs du déjà-lu et du si bien dit » ?

      Certes, la légende noire et longtemps dominante d’une préméditation du massacre par la Couronne, et plus précisément par la reine Catherine de Médicis, a été depuis longtemps détricotée notamment par l’historien Denis Crouzet, tandis que la chercheuse Barbara Diefendorf a, quant à elle, montré le rôle décisif de la milice parisienne dans les violences.

      Mais Jérémie Foa déplace la focale sur les « vies minuscules » prises dans les massacres pour mieux partir à la rencontre des « épingliers, des menuisiers, des brodeurs, des tanneurs d’Aubusson, des rôtisseurs de la Vallée de Misère, des poissonniers normands, des orfèvres de Lyon et des taverniers de la place Maubert ». Avec une question qui traverse tout le livre et taraude son auteur : « Comment des hommes ordinaires ont-ils pu soudain égorger leurs voisins de toujours ? »

      En effet, comme le montre l’ensemble du livre, « la Saint-Barthélemy est un massacre de proximité, perpétré en métriques pédestres par des voisins sur leurs voisins. Les tueries de l’été 1572 ont le quartier non seulement pour théâtre mais surtout pour condition – c’est parce qu’ils partageaient le quotidien de leurs cibles que les assassins ont su si vite où, comment et qui frapper ». À l’été 1572, écrit-il, « les liens de voisinage sont des chaînes ».

      Sources peu exploitées

      Une perspective qui évoque, plus proche de nous, certains des massacres commis pendant les guerres de Yougoslavie ou le génocide des Tutsis au Rwanda, à propos desquels Jérémie Foa cite la chercheuse Hélène Dumas, auteure du livre Le Génocide au village (Le Seuil, 2014), dans lequel elle pointait le fait qu’au « cœur de l’intimité sociale, affective et topographique entre les tueurs et les victimes se situe la question redoutable de la réversibilité des liens forgés dans le temps d’avant, lorsque le voisinage, la camaraderie, la pratique religieuse, jusqu’aux liens familiaux, se muent en autant de moyens favorisant la traque et la mise à mort ».

      Pour saisir ces « meurtres infimes et infâmes », Jérémie Foa a travaillé notamment à partir des registres d’écrou de la Conciergerie, alors la principale prison parisienne, « parsemés d’indices sur l’identité voire l’intimité de victimes à venir et des bourreaux en herbe ». Mais surtout à partir de sources peu exploitées, les minutes notariales, a priori « peu réputées pour conserver la mémoire des évènements ».

      Jérémie Foa réussit néanmoins à faire parler ces dernières, parfois plusieurs décennies après les massacres, parce qu’un inventaire après décès permet de saisir l’identité de celui qui s’est approprié les biens des huguenots ou parce qu’un nom permet de comprendre une carrière établie sur les cadavres des protestants.

      Jérémie Foa ouvre ainsi ses micro-histoires par un chapitre qu’il intitule « La femme du commissaire ». Dans Les mémoires de l’Estat de France, un martyrologe protestant rédigé par le pasteur Simon Goulart dans la décennie 1570, égrenant les vies de huguenots morts en raison de leur foi pendant les guerres de religion, un passage a particulièrement marqué le chercheur. Il est aussi bref que sordide, et ainsi rédigé : « Le commissaire Aubert demeurant en la rue Simon le France près la fontaine Maubué, remercia les meurtriers qui avoyent massacré sa femme. »

      Même s’il n’est pas possible d’exclure, dans de telles lignes, un artifice rhétorique donnant l’exemple d’un monstrueux écart à la norme pour mieux montrer que « le massacre est un temps d’inversion radicale », l’historien décide de persévérer et d’aller fouiller dans les archives notariales laissées derrière lui par ce commissaire Aubert. Cela lui permet de redonner un nom à cette victime restée jusque-là anonyme, allant même jusqu’à retrouver la liste des vêtements que la morte a sans doute portés.

      Une autre recherche dans les archives de la préfecture de police lui apprend ensuite que Nicolas Aubert fut enfermé, en 1570, à la Conciergerie, au motif qu’on avait trouvé en sa maison un morceau de jambon et plusieurs œufs en période de carême. Les réformés ne croyaient pas en l’effet des interdits alimentaires sur la foi. Nicolas Aubert a beau, contrairement à sa femme, être catholique, les achats faits par sa femme de foi huguenote lui vaudront d’être jeté en prison et d’y croupir de longs mois.

      « Est-ce durant ce temps qu’il en vient à haïr sa femme au point de souhaiter sa mort ? », alors que cela fait plus de trente ans que les époux sont mariés, interroge Jérémie Foa avant de conclure : « Il est probable que ce “merci” ait été inventé de toutes pièces par Simon Goulart pour rythmer son récit, dramatiser la scène et émouvoir le lecteur. Mais c’est ce merci obscène qui, en rendant l’enquête inévitable, m’a permis de redonner nom à la femme laissée sans vie un soir d’été 1572 : Marye Robert. »

      Ceux qui tuent en tirent profit

      Le livre accumule ensuite d’autres histoires saisies à « ras du sang », enchâssées dans les grands événements que l’on croit connaître mais qui se donnent à voir de façon plus fine une fois le livre refermé sur deux conclusions qui résonnent plus globalement avec la façon dont se déclenchent, se déroulent et se concluent les guerres civiles.

      La première est que non seulement ceux qui inaugurent les guerres civiles finissent par en tirer profit, au moins à court terme. Mais aussi que, même si le pouvoir n’est pas le responsable direct des exactions en amont, quand il a laissé faire, il finit par les accompagner et les légitimer en aval. Ainsi, constate Jérémie Foa, « quinze ans après le massacre, tout est oublié. Partout, les tueurs, leurs amis, leurs familles ont prospéré, gravi les échelons du cursus honorum ; ils sont entourés et honorés de la présence des puissants ».

      En effet, non seulement les tueurs de la Saint-Barthélémy n’ont pas été jugés et ont bénéficié de fait d’une amnistie complète, mais ils ont même été choyés par la monarchie. Une « chose est de savoir si quelqu’un a ordonné, au sommet, les massacres », écrit alors l’historien sans prétendre trancher définitivement la question. Mais « une autre est de constater que les massacreurs ont bénéficié leur vie entière du soutien de la Couronne, de Catherine de Médicis, d’Henri III, qu’ils ont profité des ressources symboliques, politiques, militaires et économiques de la monarchie ».

      Un massacre préparé

      La seconde conclusion dont on ne peut s’empêcher de penser qu’elle nous concerne encore est que l’ouvrage étaye « obstinément une thèse a priori paradoxale : sans être préméditée, la Saint-Barthélemy a été préparée ». L’extermination de 1572 est, pour le chercheur, une « actualisation d’habitus cohérents, elle mobilise des groupes de travail soudés antérieurement, qui attestent la troublante continuité entre l’avant et l’instant du crime, entre l’arrière-plan de la vie et le front des tueries ».

      D’autres situations de violence ont montré que les basculements sanglants, en dépit des brutalisations inédites qu’ils opèrent, n’étaient soudains qu’aux yeux de celles et ceux qui ne voulaient pas les voir. Jérémie Foa rappelle ainsi que des massacres peuvent se former dans un « entre-deux » et une « zone grise entre ordinaire et extraordinaire » qui se déploie lorsque les digues se fracturent ou que la vigilance se dissout, même si cette « zone grise » se transforme alors en zone de guerre dont la violence donne un sentiment d’assister à quelque chose d’incroyable quelque temps auparavant.

      Le plus tragique, en la matière, étant la façon dont les huguenots, comme d’autres victimes collectives de l’histoire, « habitués au harcèlement par une décennie de persécutions, anesthésiés par la présence faussement rassurante de leurs voisins », comprirent « trop tard qu’en dépit de gestes fort semblables à ceux des ans passés, malgré les airs déjà vus des bruits de bottes et les vociférations familières des miliciens, il y avait quelque chose d’inouï, de radicalement inédit dans la Saint-Barthélémy ».

    • TOUS CEUX QUI TOMBENT. VISAGES DU MASSACRE DE LA SAINT-BARTHÉLÉMY, Jérémie Foa [Note de lecture]
      https://antiopees.noblogs.org/post/2021/10/24/jeremie-foa-tous-ceux-qui-tombent-visages-du-massacre-de-la-saint

      Pas de planification centrale du massacre de masse, donc. Par contre, Jérémie Foa s’élève contre l’image d’une populace hurlante, sauvage, barbare, participant en masse à la curée. Loin de là, il peut même intituler l’un de ses chapitres : « Saint-Barthélémy, connais pas ». Entendons-nous, il y parle bien des contemporains du massacre, habitant les mêmes villes, à commencer par Paris, que celles où il fut perpétré. Par déformation professionnelle, si je puis dire, les historiens ont pour habitude de chercher dans les archives les traces de l’événement, et ont tendance à ignorer l’énorme silence de la grande majorité des actes « ordinaires ». Jérémie Foa cite quelques extraits de documents datés de ce 24 août 1572, testaments, pactes de mariage, contrat de location… « Que faire de ces archives sans sang ? demande-t-il. Que faire de ce dont on ne parle pas d’habitude ? Car, bien sûr, si l’on parcourt haletant des milliers de pages de paléographie, c’est pour trouver du spectaculaire. Las. On trouve en masse des documents qui parlent de tout sauf des violences et qui composent pourtant le bruit de fond du massacre. » (p. 124) Mais alors, devrait-on parler d’une sorte de « séparation » entre l’événement – le massacre – et la vie « ordinaire » ? « Cette imperméabilité des temps et des espaces, poursuit Foa, fut-elle sincère ou artificielle ? Si certains n’ont vraiment rien vu, d’autres ont détourné les yeux et fait semblant de ne rien voir. L’important est de percevoir la persévérance d’un rythme ordinaire à travers les nombreux actes administratifs sur lesquels la curiosité savante est souvent passée bien vite. Combien d’historiens les ont laissés de côté et, c’est compréhensible, ignorés précisément parce qu’ils ne relevaient pas du “contexte” ? Pourtant, ces documents qui ne parlent pas du massacre en parlent malgré eux : ils témoignent de l’épaisseur d’un monde capable de ne pas s’émouvoir, avançant imperturbable. Ce stoïcisme du social est aussi un moyen de survivre. Fermer les yeux, regarder ailleurs. » (p. 126, soulignement de l’auteur.) On pourrait désespérer du genre humain qui « laisse faire », voire est complice par défaut des pires horreurs. Mais on peut aussi suivre Jérémie Foa dans la conclusion de ce chapitre : « […] braquer le projecteur sur la vie quotidienne pendant le massacre, c’est pointer du doigt les vrais responsables : dire que de très nombreux Parisiens ont, les jours d’hécatombe, fait tout autre chose que la chasse aux huguenots, ce n’est pas nier les tueries. Il est toujours délicat d’interpréter le sens et les conséquences de cette passivité ordinaire : détourner les yeux, est-ce approuver, consentir, participer du bout des lèvres ? Les archives des notaires ne permettent pas de répondre à ces questions. Mais elles invitent à recentrer le regard vers la poignée de miliciens […], le groupe d’hommes motivés et organisés, qui ont mis en œuvre les massacres, tandis que la majorité de leurs voisins catholiques faisaient autre chose, vaquaient à leurs occupations, vivaient leur vie. S’intéresser aux sources de l’ordinaire, c’est refuser de pointer en bloc les Parisiens, pire, le « peuple », trop souvent accusé des pires tueries, pour mieux s’arrêter sur ceux, bons bourgeois, capables, en temps voulu, d’organiser un impitoyable massacre de civils. » (p. 128)