• Sortie japonaise en salles #Un_pays_qui_se_tient_sage 映画『暴力をめぐる対話』9/24~全国公開
    http://www.davduf.net/sortie-japonaise-en-salles-un-pays-qui-se-tient

    Samedi prochain, « Un pays qui se tient sage » sort en salles au pays du soleil levant. Big in Japan :-) Pour l’occasion, le [distributeur->http://bouryoku-taiwa2022.com a édité sa propre affiche, elle est superbe. Et il y a quelques jours, débats et interviews avec la presse nippone furent passionnants, tant les polices françaises et japonaises sont différentes. Et le rapport des citoyens à... l’ordre (pas de manifs au japon depuis les années 1960/1970). On a causé ordre, police, Macron, justice, (...) Un pays qui se tient sage

    / Une, Prix & Récompenses

    #Prix_&_Récompenses
    http://bouryoku-taiwa2022.com

  • Retours sur la conférence de presse de #RTE du mercredi 14 septembre : Perspectives du système électrique pour l’hiver 2022-2023.

    Monsieur Bidouille sur Twitter

    C’est parti pour la conférence qui vous dira si vous avez bien fait d’acheter des bougies 🕯️

    https://threadreaderapp.com/thread/1569959420372680711.html
    https://twitter.com/MrBidouille/status/1569959420372680711

    La conférence de presse en question : https://www.rte-france.com/actualites/conference-presse-mercredi-14-septembre-perspectives-systeme-electrique-

    #électricité #prix #inflation #EDF #RTE

  • #Nioro_du_Sahel, une ville sous tension

    #Nioro du Sahel. Une ville du #Mali isolée à la frontière mauritanienne, à près de 500 kilomètres de pistes de Bamako, Bref, Nioro n’est pas une priorité économique et n’a jamais été électrifiée par l’État malien. Le soir venu, les Niorois s’organisent... et les familles aisées se distinguent au bruit de leur groupe électrogène. Le courant, lui, suit les liens de parenté et de voisinage.
    Mais, depuis quelques années, une équipe de Français s’est lancée dans l’électrification de la ville. Au-delà des câbles et des poteaux, le réseau électrique révèle rapidement son enjeu social et politique. Le projet dépasse alors « l’objet technique » des Français et dévoile de profondes tensions...

    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/5046_1

    Un film intéressant qui permet de se rendre compte de ce qui se passe quand on fait une intervention technique sans prendre en compte les rapports sociaux et les enjeux de pouvoir...

    A partir de la minute 18’18 (part 2) :

    Quand les électriciens français se rendent compte que probablement les habitants n’auront pas l’argent pour se payer l’électricité dans leurs foyers...
    Electricien 1 :

    « Il faut savoir se remettre en question. Est-ce qu’ils l’ont bien compris ? »

    Electricien 2 :

    « C’est pas eux qui ont été demandeurs, c’est nous qui avons voulu améliorer leur vie. Est-ce qu’en faisant comme ça nous n’avons pas fait une mauvaise approche ? Parce que eux, ils ne demandaient rien, ils voulaient bien avoir un peu de courant pour avoir un peu de télévision »

    #film #film_documentaire #électricité #électrification #coopération_au_développement #aide_au_développement #développement #documentaire #Nioro-du-Sahel
    #groupe_électrogène #jumelage #solidarité_internationale #EDF #club_CODEV #Limours #bénévolat #coût #prix #incompréhension #inégalités #rapports_de_pouvoir

  • Vienne met 2,5 milliards d’euros sur la table pour alléger la facture d’électricité des ménages autrichiens – EURACTIV.fr
    https://www.euractiv.fr/section/energie/news/vienne-alloue-25-milliards-deuros-pour-alleger-la-facture-delectricite-des-

    Un « frein au prix de l’électricité » : c’est ce qui a été révélé dimanche (4 septembre) dans la feuille de route du gouvernement afin d’alléger la facture d’électricité des ménages. Une baisse des prix sera effective sur 80 % de la consommation d’électricité individuelle.

    (...)

    L’allégement s’appliquera à tous les ménages, quel que soit le nombre de personnes ou le revenu moyen.

    Les économies devraient s’élever à 500 euros par an, et environ 3000 kilowattheures (kWh) d’électricité seront utilisés avec une réduction de 10 centimes par kWh. 2,5 milliards d’euros seront affectés à la subvention des factures d’électricité.

    La mesure doit être adoptée par le Parlement mercredi (7 septembre).

    (...)

  • Il giusto prezzo: lo sfruttamento lavorativo nell’agricoltura biologica

    Il prezzo di frutta e verdura bio è più alto, ma le condizioni in cui lavorano i braccianti in alcuni casi non sono migliori. Eppure il biologico è l’unica via per rendere l’agricoltura europea sostenibile

    3,22 euro contro 4,50 euro. Il primo è il prezzo cui viene venduta on line una confezione di passata di pomodori datterini biologici. A produrla e commercializzarla è l’OP Principe di Puglia che, sul suo sito internet, si definisce «una delle più importanti aziende produttrici di verdura e frutta biologica del territorio pugliese». Il secondo è il compenso orario che, stando alle testimonianze raccolte dagli inquirenti, una delle imprese del circuito aziendale dell’OP Principe di Puglia pagava ad Aboubacar Baman, un bracciante della Costa d’Avorio di 34 anni, che, con fatica e senza diritti, quei pomodorini biologici li raccoglieva. Nell’aprile 2021, l’OP Principe di Puglia è stata al centro di un’operazione della Procura di Foggia contro l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro. In pratica, contro il caporalato. Ora si attende il rinvio a giudizio.

    L’agricoltura biologica è molto cresciuta negli ultimi anni, è sempre più richiesta da certe fasce di consumatori e ora è anche sostenuta dall’Unione europea con la strategia Farm to fork. Chi compra bio sceglie di pagare di più per avere prodotti buoni per la salute e l’ambiente. Ma questi prodotti sono buoni anche per chi li produce? Casi come quello dell’OP Principe di Puglia portano a chiedersi se e quanto, grazie a sussidi e a prezzi più corretti, il biologico possa contribuire a migliorare le condizioni dei lavoratori agricoli e a cambiare, anche a livello generazionale, l’agricoltura italiana.

    La definizione di biologico

    Per provare a rispondere, è bene partire dalle definizioni. Il biologico, spiega Aiab, è «un metodo di coltivazione e di allevamento che ammette solo l’impiego di sostanze naturali, presenti cioè in natura, escludendo l’utilizzo di sostanze di sintesi chimica». Le aziende biologiche, quindi, sono tenute, come tutte le altre aziende, a rispettare le norme sul lavoro ma le certificazioni che devono ottenere non riguardano i lavoratori: riguardano i prodotti e il modo in cui vengono ottenuti. Questo non vuol dire, però, che il mondo del bio non mostri attenzione anche per gli aspetti più sociali dell’agricoltura. Secondo Ifoam, una delle più antiche organizzazioni internazionali ad occuparsi della materia, «coloro che sono coinvolti nell’agricoltura biologica dovrebbero condurre le relazioni umane in modo da assicurare l’equità a tutti i livelli e a tutte le parti – agricoltori, lavoratori, trasformatori, distributori, commercianti e consumatori».

    È forse ispirandosi a questo principio che, nel 2020, Federbio ha annunciato che si sarebbe costituita parte civile in un altro procedimento pugliese riguardante produzioni agricole biologiche. «FederBio – commentò allora la presidente Maria Grazia Mammuccini – collabora da sempre con la magistratura e le forze dell’ordine per tutelare le vere produzioni biologiche e a difesa del lavoro etico e sostenibile, equamente remunerato. Queste pratiche criminali vanno combattute ed eliminate per difendere la maggioranza di imprese oneste del biologico italiano». Il caso in questione era quello di Settimio Passalacqua.

    Nel luglio 2020, l’imprenditore di Apricena, sempre in provincia di Foggia, è stato accusato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. All’epoca, le aziende riconducibili alla sua famiglia impiegavano centinaia di braccianti per un volume di affari di alcuni milioni di euro, in gran parte legato a prodotti biologici. Ora si attende il rinvio a giudizio, ma, secondo l’accusa, alcune delle aziende avrebbero pagato fino a 3,33 euro l’ora i lavoratori, in gran parte stranieri e residenti nei ghetti della zona. Il più noto è quello di Rignano Garganico, un insediamento irregolare in piena campagna, tra gli ulivi, composto da casali occupati, baracche, roulotte e altri ripari di fortuna. «Solitamente ci vivono circa 800 persone, ma durante l’estate può arrivare ad ospitarne anche il doppio. Sono lavoratori dell’Africa subsahariana», spiega Khady Sene, operatrice della Caritas di Foggia.
    Voci dal ghetto di Rignano Garganico. Anche tra i lavoratori del bio

    Joseph, nel ghetto, ci ha abitato per un anno. Poi, ha trovato lavoro in un’azienda agricola biologica del territorio, che gli garantiva anche un posto letto. «Eravamo in otto in stanza e pagavo 185 euro al mese. Mi sono dovuto pagare anche i guanti, le calze, l’acqua», racconta a IrpiMedia. «Prendevo tre euro all’ora. Facevo otto ore, nove, a volte undici, quando c’era bisogno, sia nei campi sia in magazzino», continua Joseph. Secondo le sue descrizioni, l’azienda per cui lavorava arrivava ad occupare oltre 200 persone e produce tuttora verdure e ortaggi biologici, in larga parte per l’esportazione. «Ho capito piano piano che qualcosa non andava. Ho chiesto spiegazioni al capo italiano, ma mi ha detto che queste erano le condizioni. Così, dopo un anno e mezzo, me ne sono andato», ricorda oggi Joseph. Il suo non era lavoro nero, ma grigio, una forma di sfruttamento tanto diffusa quanto difficile da scoprire. E, come mostrano i casi fin qui raccontati, che tocca anche l’agricoltura biologica.

    «Vertenze e segnalazioni le abbiamo anche nel biologico. Non si può dire che il settore sia esente dalle tentazioni di sfruttamento e caporalato», ragiona Jean René Bilongo, sindacalista e responsabile osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil. Per Giulia Laganà, analista dell’Open Society European Policy Institute, «l’agricoltura biologica ha gli stessi problemi di quella convenzionale: la grande distribuzione e gli intermediari causano sfruttamento con i loro prezzi bassi».

    Un mercato in crescita con le sovvenzioni Ue

    Dal 2010 al 2020, il numero degli operatori è aumentato del 71% e le superfici coltivate dell’88%. Anche i consumi sono cresciuti: il valore del mercato interno è salito del 104% negli ultimi cinque anni arrivando a 3,6 miliardi, pari al 4% del comparto agroalimentare. Con la strategia Farm to fork, poi, la Commissione europea ha proposto di raggiungere il 25% di terreni Ue coltivati a biologico entro il 2030, un obiettivo che non è vincolante, ma potrebbe stimolare ulteriormente la crescita del comparto. Per Ifoam, l’Italia ha le potenzialità per arrivare al 41% di superfici bio. «Il settore biologico – riprende Bilongo – è in grande ascesa: le vertenze sindacali sono la spia di un malessere che si annida anche lì. Il caso StraBerry è eloquente».

    StraBerry è una start up agricola lombarda che produce frutti di bosco biologici alle porte di Milano sui terreni della Società Agricola Cascina Pirola Srl, biologica dal 2017. Ad agosto 2021, il fondatore di StraBerry Guglielmo Stagno d’Alcontres è stato rinviato a giudizio. Stando all’imputazione, l’imprenditore, sua madre e altri due imputati avrebbero sottoposto dal 2018 in poi 73 lavoratori stranieri a «condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno», minacciandoli, insultandoli e pagandoli 4 euro all’ora. I braccianti della start up, che puntava molto sulla sostenibilità del suo marchio e vendeva i suoi prodotti bio con degli Apecar in centro a Milano, erano prevalentemente richiedenti asilo, provenienti dall’Africa subsahariana e ospiti dei centri di accoglienza del territorio. Abdulai Mohamed Kargbo è uno di loro. Agli inquirenti ha spiegato che «Capo grasso [Guglielmo Stagno d’Alcontres, ndr] urlava sempre, tu non hai finito tuo lavoro domani non c’è lavoro per te, tu non hai fatto 25 cassette domani non c’è lavoro per te, lui urlava sempre, era sempre arrabbiato e diceva sempre parolacce».

    Esempi come questo sono la conferma che i casi di sfruttamento in agricoltura biologica si contano in molte parti d’Italia. Anche in Piemonte. Al tribunale di Cuneo, a febbraio, dovrebbe arrivare a sentenza il primo processo per caporalato nel distretto della frutta di Saluzzo. Tra gli imputati, Diego Gastaldi e sua madre Marilena Bongiasca. La famiglia rappresenta una realtà imprenditoriale storica e solida del territorio. Anche le loro aziende si sono convertite al biologico negli ultimi anni e, durante il procedimento, Diego Gastaldi ha sostenuto che la transizione al biologico è stata una delle difficoltà per le quali i braccianti venivano pagati in parte fuori busta, in contanti, in nero. Secondo l’accusa, infatti, lui e la madre avrebbero corrisposto ad alcuni lavoratori africani «retribuzioni in modo palesemente difforme dalla legge e dai contratti collettivi […] ed in modo comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato», con «una paga minima di 5 euro all’ora» (contro i 7,47 decisi dalla contrattazione collettiva) e senza «il versamento di almeno due terzi dei contributi previdenziali».

    Bio conviene, a prescindere dall’etica

    Il punto è cercare di capire se questi casi sono episodi isolati o, invece, spie di una più ampia e preoccupante tendenza. Secondo Riccardo Bocci bisogna «vedere se la crescita di questo settore tiene il passo delle sue ambizioni etiche, sociali e politiche». Bocci è direttore tecnico di Rete semi rurali e ha una lunga esperienza nel campo. «Oggi – prosegue – l’aumento delle vendite dei prodotti bio legato alla grande distribuzione organizzata e, soprattutto, ai discount pone dei dubbi sull’eticità, per i diritti dei lavoratori ma anche per tutto il sistema di consumo e produzione». Anche Lucio Cavazzoni è un esperto di biologico ed è stato presidente di Alce Nero, uno dei maggiori marchi italiani del settore. A suo parere, «casi di grandi e medie aziende agricole che passano al biologico perché hanno dei vantaggi» esistono e «lo sfruttamento è sfruttamento, anche nel biologico». «Credo però – continua – che la grande massa dei produttori biologici sia lontana da queste pratiche».

    L’ong Terra! ha lavorato con chi non è solo lontano da queste pratiche, ma le contrasta attivamente. Il progetto IN CAMPO! senza caporale ha garantito a una quindicina di braccianti provenienti dall’Africa subsahariana formazione, sostegno nel lasciare i ghetti e inserimento regolare in alcune aziende del foggiano. Tra queste vi è Aquamela bio, di Cerignola, comune di 60 mila abitanti con una delle superfici agricole più estese d’Italia.

    «Il bio è ossigeno», dice Vito Merra, mentre raccoglie l’uva insieme a una squadra di braccianti, in parte italiani in parte stranieri. Aquamela bio è sua e di suo fratello Roberto: sono 23 ettari, sui quali coltivano anche cereali e olive, usate per produrre olio in proprio. I lavoratori sono tutti in regola: Aquamela bio paga loro tutte le giornate che effettivamente lavorano e consente loro di raggiungere così il numero minimo di giorni necessari per la disoccupazione. «I prodotti biologici hanno più valore e ci garantiscono margini più alti. E poi anche gli incentivi aiutano», spiega Merra.

    L’esperienza di Terra! è positiva, ma piccola. Riguarda alcune decine di lavoratori e poche imprese, a fronte di oltre 70 mila aziende agricole biologiche attive in Italia e circa 180 mila braccianti vulnerabili stimati dalla Flai-Cgil in tutto il Paese. È significativa, però, perché mette in evidenza quale potrebbe essere il contributo di questo tipo di agricoltura nella lotta allo sfruttamento.

    Il biologico, poiché è considerato positivo per l’ambiente e la salute, è sostenuto da incentivi pubblici. L’Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, è lo stato europeo che ha ottenuto più fondi per il biologico dalla Politica agricola comune dell’Ue. I prodotti bio, inoltre, vengono venduti a prezzi più alti rispetto a quelli convenzionali. Secondo i dati Ismea, le arance biologiche vengono pagate ai produttori, in media, il 24% in più di quelle convenzionali, i pomodori il 53%, le mele il 103%. Per contro, non utilizzando la chimica, il biologico può avere una produzione meno ricca del convenzionale e ha dei costi aggiuntivi come quelli di certificazione, pesanti soprattutto per le piccole aziende. Nel complesso, però, il gioco può valere la candela. «Il biologico – riprende Merra – dà ad Aquamela bio la capacità economica di rispettare i diritti dei lavoratori».

    Il biologico, quindi, può aiutare, ma da solo non è sufficiente a cambiare la situazione. Secondo operatori ed esperti del settore, servono più controlli da parte dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, il cui organico va potenziato, e criteri più rigidi per le certificazioni biologiche. Inoltre, sarebbe importante ragionare su quanto le leggi italiane in materia di immigrazione creino un serbatoio di lavoratori stranieri senza alternative: i cittadini extracomunitari la cui presenza in Italia è spesso legata al contratto di lavoro. «Ho sempre accettato di essere sfruttato per il semplice motivo che altrimenti non avrei ottenuto il rinnovo del permesso di soggiorno», ha spiegato con disarmante semplicità un bracciante africano nel corso di un’u

    La “condizionalità sociale” dei fondi europei

    Anche i fondi europei giocano un ruolo importante: per molte aziende agricole, biologiche e non, sono vitali e quindi la loro erogazione andrebbe collegata al rispetto dei diritti dei lavoratori, come previsto dalla nuova Politica agricola comune (Pac) Ue. «Francamente non vedo differenza tra agricoltura convenzionale e biologica: lo sfruttamento dei lavoratori rappresenta una piaga che non a caso abbiamo deciso di contrastare con l’inserimento della condizionalità sociale nella riforma della Pac. Questo strumento dovrà garantire che i fondi pubblici non vadano più nelle tasche di chi non rispetta i diritti», commenta Paolo De Castro, ex ministro dell’Agricoltura, oggi eurodeputato del Partito Democratico – Gruppo S&D.

    La nuova Politica agricola comune, che il gruppo S&D ha votato, prevede una condizionalità sociale volontaria dall’anno prossimo e obbligatoria dal 2025. Per Daniel Freund, eurodeputato tedesco per i Verdi, che invece si sono opposti alla riforma della Pac, non è sufficiente. «Perché ci vuole così tanto tempo solo per rispettare le norme sociali e sanitarie di base in aziende agricole che a volte sono davvero spaventose? Le norme [per tutelare i lavoratori, ndr] esistono già. Perché non vengono applicate subito?», si chiede Freund.

    Secondo i legislatori, il periodo di transizione è necessario per consentire agli stati Ue di organizzarsi, dal momento che le modalità con cui i fondi verranno erogati (o negati) saranno decise a livello nazionale. Per Enrico Somaglia, vice segretario generale di Effat, la Federazione europea dei sindacati dei settori alimentari, agricoltura e turismo, «la condizionalità sociale va applicata il prima possibile e in modo corretto. Il meccanismo si basa su controlli ed ispezioni, che oggi sono troppo deboli e troppo poco frequenti». «Come sindacati – ragiona – sosteniamo la strategia Farm to fork e la crescita del bio per ragioni ambientali, ma la transizione ecologica deve essere un’occasione per migliorare le condizioni di lavoro e non una minaccia».

    C’è poi la questione generazionale. Al tribunale di Cuneo, durante il dibattimento, è emerso che Diego Gastaldi era in disaccordo con il padre Graziano in merito al tipo di agricoltura che le aziende famigliari avrebbero dovuto praticare. Il genitore avrebbe voluto continuare col metodo convenzionale che aveva sempre usato. Il figlio, nato nel 1993, spingeva invece per passare al biologico, come effettivamente poi avvenuto. Questa differenza di vedute è paradigmatica in un momento di passaggio per l’agricoltura italiana. Oltre il 60% dei capi delle aziende agricole italiane ha più di 55 anni, il 38% addirittura più di sessantacinque. In un settore composto in gran parte da aziende famigliari, la generazione dei figli è spesso più istruita di quella dei genitori e si ritrova a valutare con maggiore interesse il biologico. Per convinzione o per opportunità.

    Un sindacalista che preferisce rimanere anonimo spiega di aver parlato con imprenditori interessati a regolarizzare la posizione dei loro braccianti, anche in seguito alle azioni anti-caporalato di forze di polizia e magistratura. «Si interessano al bio perché pensano che possa essere un modo per mettere in regola i lavoratori mantenendo l’azienda sostenibile dal punto di vista economico», dice il sindacalista. Per il momento, si tratta di casi isolati. Ma in futuro, con l’avanzare del ricambio generazionale, l’entrata in vigore della condizionalità sociale, una maggiore repressione e una crescente domanda di prodotti biologici, potrebbero aumentare.

    Intanto, anche ad Aquamela bio, a Cerignola, le generazioni si alternano. Vito Merra, oggi, coltiva insieme al fratello Roberto sulla terra che il nonno ottenne con la seconda riforma agraria nel dopoguerra. «La sua generazione era battagliera, era la generazione di Di Vittorio», dice, riferendosi allo storico segretario della Cgil nato proprio a Cerignola. Anche il padre dei fratelli Merra, che ora è in pensione, ha lavorato come agricoltore e presto, tra ulivi e viti, arriverà un’altra generazione, quella del figlio di Roberto. «Sta facendo agronomia all’università», dice il padre, con orgoglio.

    AGGIORNAMENTO 11 APRILE 2022: Il giudice Alice Di Maio del Tribunale di Cuneo ha condannato in primo grado a 5 anni di reclusione Diego Gastaldi e la madre Marilena Bongiasca nell’ambito del primo procedimento per caporalato in provincia di Cuneo. Il padre di Diego Gastaldi, Graziano Gastaldi, è stato invece assolto.

    https://irpimedia.irpi.eu/invisibleworkers-agricoltura-bio
    #conditions_de_travail #bio #agriculture_biologique #agriculture #prix #Italie #statistiques #chiffres

  • 56 % des Canadiens n’arrivent pas à suivre l’augmentation du coût de la vie Radio-Canada - Avec les informations de Jenna Benchetrit, de CBC News
    https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1907088/canadiens-inflation-rythme-cout-vie-etude


    Les trois quarts des répondants au sondage Angus Reid ont affirmé être « stressés par l’argent ». Photo : Reuters / Andrew Kelly

    Plus de la moitié des Canadiens peinent à adapter leurs finances à l’augmentation rapide du prix des biens, des services et des taux d’intérêt, selon les résultats d’un sondage publié lundi par l’Institut Angus Reid.

    Selon la firme, qui a interrogé 2279 adultes canadiens membres du Forum Angus Reid entre le 8 et le 10 août, 56 % des répondants ont affirmé avoir du mal à suivre le rythme de l’inflation et des taux d’intérêt élevés qui les obligent à se serrer la ceinture de plus en plus.

    Quatre répondants sur cinq, soit 80 %, ont déclaré avoir dû réduire leurs dépenses au cours des derniers mois pour faire face à l’inflation.

    Pour aider à payer les produits de première nécessité, plus de 40 % des personnes sondées ont aussi affirmé avoir retardé des achats importants, en plus de limiter leurs déplacements en voiture ces derniers mois.

    Trente-deux pour cent ont quant à eux annulé ou réduit leurs projets de voyage, tandis que plus de 25 % ont choisi de réduire leurs dons de charité pour arriver à boucler leur budget.

    L’inflation affecte aussi l’épargne. Dix-neuf pour cent des sondés ont dit qu’ils reportaient les contributions à leur compte d’épargne libre d’impôt et à leur régime d’épargne-retraite afin d’arriver à la fin du mois.


    De nombreux sondés réduisent leur épargne pour boucler les fins de mois. Photo : iStock

    Dans leur étude, les sondeurs ont proposé aux répondants un scénario dans lequel ils recevraient un don non conditionnel de 5000 $. Au moins 10 % ont dit qu’ils l’utiliseraient pour faire face à des obligations financières immédiates, tandis que 38 % l’utiliseraient pour des besoins à long terme ; 43 % épargneraient l’argent, tandis que 9 % en profiteraient pour faire un achat coûteux.

    Mais si le contraire se produisait – c’est-à-dire s’ils devaient faire une dépense imprévue de 1000 $ ou plus – la moitié d’entre eux ont dit qu’ils ne seraient pas en mesure d’assumer cette dépense. Treize pour cent ont aussi affirmé que toute dépense imprévue serait “trop importante”, souligne l’institut de sondage dans son rapport.

    La flambée du prix de l’énergie, des biens de consommation, des services et du crédit qui sévit depuis plusieurs mois au pays inquiète les Canadiens. En dépit d’un recul de l’Indice des prix à la consommation à 7,6 % en juillet dernier par rapport à 8,1 % en juin – du jamais vu au pays depuis 39 ans – les trois quarts des répondants au sondage Angus Reid ont affirmé être stressés face à leur situation financière.

    L’inflation a beau avoir affiché son premier recul depuis un an au Canada le mois dernier, le prix des aliments, lui, demeure 10 % plus élevé que l’an dernier, tout comme le prix du litre d’essence ordinaire qui oscille toujours entre 1,60 $ et 2 $.

    Les entreprises en profitent ?
    Fait à noter, une forte proportion des personnes sondées dans cette étude partagent la conviction que les chaînes d’alimentation profitent indûment de l’inflation pour augmenter leurs prix et accroître leurs bénéfices – un phénomène appelé en anglais “greedflation”, qu’on pourrait traduire en français par “cupidiflation”.

    Selon Angus Reid, 78 % des répondants estiment que c’est actuellement le cas.

    Or, ce n’est pas vrai, selon les grandes chaînes d’alimentation, notamment Empire et Loblaws, qui affirment que les hausses de bénéfices qu’ils enregistrent sont plutôt dues à des gains d’efficacité.

    Toutefois, le 11 août dernier, la publication d’une étude de l’Institut de recherche et d’informations socioéconomiques (IRIS) https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1904742/inflation-profits-entreprise-taux-interet-iris-profits soulignait que les profits des entreprises canadiennes n’ont jamais été aussi élevés en plus de 20 ans, dans un contexte où l’inflation est pourtant en forte poussée depuis plusieurs mois.

    L’IRIS affirmait avoir observé une augmentation de plus de 10 % des profits des entreprises canadiennes au cours des quatre derniers trimestres. Ce qui est bien supérieur à la hausse des salaires. Selon les auteurs de l’étude, les entreprises canadiennes semblent avoir largement profité du contexte d’inflation pour majorer leurs prix, une manœuvre qui leur aurait permis d’engranger des profits records tout en contribuant à l’accélération de l’inflation.

    L’Institut Angus Reid a réalisé son sondage en ligne auprès de 2279 adultes canadiens membres du Forum Angus Reid entre le 8 et le 10 août 2022. À des fins de comparaison uniquement, un échantillon probabiliste de cette taille comporte une marge d’erreur de plus ou moins deux points de pourcentage, 19 fois sur 20.

    #prix #inflation #marge_bénéficiaire #marge #profits #alimentation

  • « Don’t Pay UK » : le mouvement qui inquiète le gouvernement britannique- OCL
    http://oclibertaire.lautre.net/spip.php?article3297

    Après une hausse de 50 % en avril dernier, et plus de 6,5 millions de personnes en précarité énergétique, les tarifs de l’électricité devraient augmenter encore de 50 à 60% voire plus en octobre. Un appel vient d’être lancé au Royaume-Uni pour boycotter le paiement des factures d’électricité. - (...) @Mediarezo Actualité / #Mediarezo

  • Bienvenue chez #Frange_Radicale, #salon_de_coiffure sans prix genrés et sans patron

    Ouvert après le deuxième confinement, l’établissement parisien Frange Radicale propose une alternative aux salons de coiffure traditionnels. Rencontre.

    Depuis l’ouverture du salon en décembre 2020, les fauteuils de Frange Radicale ne désemplissent pas.

    Pas évident pourtant de distinguer l’entrée du salon quand on passe par la rue Carducci, nichée dans le 19e arrondisssement de #Paris, à quelques minutes des Buttes Chaumont. Il faut connaitre l’adresse pour savoir que derrière les bosquets se cache un salon de coiffure. Ou plutôt une « coopérative de coiffure », comme il est écrit en rose au-dessus de la baie vitrée.

    Le salon de coiffure attire les gens du quartier, mais une bonne partie de sa clientèle passe aussi l’entrée parce que Frange Radicale n’est pas un salon tout à fait comme les autres.

    On y coupe les cheveux certes, mais à des tarifs abordables et non genrés, et surtout, on y fait en sorte que vous vous y sentiez bien, même quand vous avez fui les salons des années durant, échaudées par l’ambiance normative parfois pesante qui y règnent.

    Se lancer en pleine pandémie

    Chez Frange Radicale, la déco est épurée, les plantes vertes nombreuses, et les fauteuils vintage stylés. Bref, on s’y sent déjà bien, et pas juste parce qu’on arrive pile au moment où la playlist du salon passe du Aya Nakamura.

    Aux commandes : Léa, Pierre et Anouck, qui ont fait le pari d’ouvrir leur salon en pleine pandémie.

    Ce n’est pas que l’amour du coup de ciseaux qui les a réunis. Tous les trois se sont croisés dans des squats autonomes et à l’école de coiffure, avant de monter Frange Radicale : « On a tous été salariés dans différents salons de coiffure et on s’est rendues compte que ce modèle ne nous convenait pas », explique Anouck.

    « Pour les salariés, il faut toujours travailler plus, plus vite, et on avait envie d’expérimenter un nouveau modèle, de monter notre coopérative, notre entreprise détenue et gérée par nous, les salariés. »

    Un argument qui marche auprès des clientes, à l’instar de Marion, venue pour la première fois après avoir entendu parler du salon par ses collègues : « L’idée de la coopérative m’a plu. C’est un projet politique cool, alors je suis venue pour soutenir. »

    Tout le monde au même prix

    Chez Frange Radicale, on applique la règle des prix non genrés, à l’instar de quelques salons comme Bubble Factory à Paris, Holy Cut à Bordeaux, ou bien Queer Chevelu, qui pratique le prix libre.

    Les tarifs sont fixés en fonction de la coupe et non en fonction du genre du ou de la cliente : 35€ la coupe longue, 25€ la coupe courte, 15€ la coupe tondeuse, et la couleur sur devis.

    Un choix qui répond à la logique la plus élémentaire, même si la majeure partie des salons perpétue aujourd’hui la tradition des coupes « femmes » à des prix largement supérieurs aux coupes « hommes » :

    « Ça veut dire que les femmes qui ont les cheveux courts paient plus cher pour un travail qui est souvent similaire, et les hommes qui ont les cheveux longs, ce qui est quand même la mode en ce moment, paieraient moins cher qu’une femme qui a les cheveux longs ? », s’agace Léa.

    Si tant de salons n’ont pas (encore) franchi le pas, c’est aussi que les coiffeurs et les coiffeuses sont formées à envisager leurs coupes en fonction du genre des clients, comme l’explique Anouck :

    « Ça commence dès l’école de coiffure où on t’apprend qu’une coupe femme, tu ne la fais pas en trente minutes comme une coupe homme, il faut y mettre plus de temps, il faut être plus raffiné au niveau des tempes… Il y a plein d’arguments… qui sont des arguments à la con parce qu’on fait ce qu’on veut avec ses cheveux ! Mais ce sont aussi des arguments qui vont justifier une tarification supérieure pour les femmes. »

    Un coup de ciseau dans la binarité

    En pratiquant des tarifs égalitaires, Frange Radicale s’est rapidement forgé une réputation de salon où tout le monde est bienvenu, où une femme peut demander une coupe ultra courte sans être regardée de travers et où toutes les audaces capillaires sont acceptées.

    S’il n’a pas été pensé comme un salon destiné spécifiquement aux personnes queers, Frange Radicale attire une clientèle qui a longtemps fui les salons classiques où s’exercent les normes binaires et hétéronormatives. « Ici, nos corps et nos coupes ne sont pas étranges », explique Clémence, cliente fidèle à la nuque bien dégagée :

    « Ça diffère tellement des salons où une coiffeuse un jour m’a quand même dit “attention je laisse les pattes sinon c’est des femmes qui vont vous draguer hihi”. Ce à quoi j’ai répondu : « Rasez, merci ! » »

    Politique, le cheveu ? « Les cheveux, ça a toujours été quelque chose de revendicatif, depuis toujours, que ce soient les crêtes des punk, les afros, ou les cheveux longs pour les gars, ou les mulets », assène Léa.

    Pour Anouck, c’est non seulement un marqueur d’identité, mais aussi un signe de reconnaissance : « Moi, j’arrive à savoir si une fille est gouine à sa coupe de cheveux. », plaisante-t-elle.

    « Et il ne faut pas oublier les salons en tant que lieux », insiste Pierre :

    « Les gens s’y croisent, s’y reconnaissent, il y a des journées où trois voisins de la résidence d’en face se croisent ici. Ça crée du lien social. Et on en a vraiment besoin en ce moment… »

    Clichés tenaces et discriminations

    Être coiffeuse, c’est encore aujourd’hui s’exposer à pas mal d’idées reçues rarement bien intentionnées. Anouck et Léa en ont régulièrement fait l’expérience :

    « Quand tu rencontres des gens et que tu leur dis que tu es coiffeuse, on te fait sentir que c’est naze. Et quand tu es une meuf, il y a un côté hyper sexiste, car tout de suite ça veut dire que tu es stupide, que tu es une fille facile, ou que tu es un peu bébête. »

    Anouck se souvient de cette cliente qui lui a lancé : « Et donc, toi t’aimais pas l’école ? » :

    « J’ai trouvé ça bizarre, mais je n’ai pas compris tout de suite. Ce n’est qu’après que j’ai compris qu’elle me disait ça parce que je suis coiffeuse. Bah si, j’étais bonne à l’école… mais ça n’a rien à voir ! »

    Derrière ces réactions, c’est aussi tout un corps de métier où les comportements sexistes et racistes sont encore monnaie courante.

    Tous les trois l’ont vu dès l’école et leurs premiers stages : ce sont des patrons qui demandent aux filles de changer leur prénom à consonance étrangère, des employées à qui on demande de ne pas parler parce qu’on estime qu’elles ne parlent pas assez bien le français, à qui on demande de se lisser les cheveux, ou de porter jupe et talons pour faire plus féminine.

    Tenter l’aventure

    Anouck, Pierre et Léa en avaient assez de l’abattage, des coupes standardisées faites à la chaîne. Avec Frange Radicale, on prend le temps et cela leur permet de réenchanter leur travail, d’évoluer dans des conditions plus respectueuses. « Ça améliore grave la qualité de notre travail, j’ai l’impression que même nos coupes sont beaucoup mieux », assure Anouck.

    « On est trois avec un salon, c’est très ambitieux de vouloir revaloriser tout le métier », reconnaît Pierre. Pas envie d’être des donneurs de leçons, les trois coiffeurs et coiffeuses espèrent au contraire que leur salon donnera envie à d’autres de se lancer. Et ce n’est pas si inaccessible, affirme Léa :

    « On n’a pas fait quelque chose de si exceptionnel. On a grave galéré, mais on est trois, on se partage tout, et c’est pas du tout insurmontable. On a le salon qu’on veut, on fait exactement ce qu’on veut, on a les congés qu’on veut, on se paye comme on veut… c’est tout bénéf’ ! »

    Frange Radicale ne transformera peut-être pas le monde de la coiffure, en tout cas pas tout de suite, mais à son petit niveau, le salon pourrait bien faire naître des envies d’indépendance et d’autonomie à d’autres dans la profession.

    https://www.madmoizelle.com/bienvenue-chez-frange-radicale-salon-de-coiffure-parisien-sans-prix-gen

    #coopérative #tarif #prix #tarif_non-genré #genre #cheveux

    ping @isskein

  • Hausse des prix, à qui profite le crime ?
    https://www.frustrationmagazine.fr/hausse-des-prix

    L’inflation est depuis des mois au cœur des préoccupations médiatiques et politiques. À juste titre, car la population française la moins fortunée subit de plein fouet la hausse des prix, en particulier de l’énergie et des produits de grande consommation. Au global, l’inflation a atteint en juillet 6,1% sur un an, selon l’Insee. Nous alertions […]

  • Le nocciole turche (e chi le raccoglie) ostaggio del mercato

    La Turchia primo produttore globale. Ieri il presidente Erdogan ha annunciato il prezzo base per il 2022. Produttori e sindacati denunciano i guasti del monopolio Ferrero.

    La Turchia è il numero uno a livello mondiale nella produzione della nocciola. Seguita in seconda posizione dall’Italia. Ma nel 2021, mentre in Italia la produzione calava del 70%, in Turchia si registrava un aumento radicale. Una crescita che tuttavia non si è tradotta in un equo e proporzionale guadagno per i produttori. Nel 2015 la Turchia ha prodotto 240.134 tonnellate di nocciola e dalla vendita ha incassato circa 3 miliardi di dollari; nel 2021 la produzione è salita a 344.370 tonnellate, eppure l’incasso è sceso a 2.2 miliardi. Secondo le analisi di mercato, le inchieste giornalistiche e i report dei sindacati la situazione è il risultato del monopolio che l’azienda italiana Ferrero ha costruito negli anni in Turchia, in collaborazione con il governo centrale.

    ALI EKBER YILDIRIM, che scrive sul portale di notizie Dunya, sostiene che questa situazione è dovuta al fatto che a stabilire il prezzo della nocciola è la stessa Ferrero, che controlla circa il 70% del mercato nazionale. Ovviamente il fatto che dal 2003, gradualmente, lo Stato abbia deciso di non comprare più dai contadini le nocciole a prezzo garantito – è la prima volta che accade dalla fondazione della Repubblica – limitandosi a stabilire un prezzo minimo, ha permesso all’acquirente principale di arrivare a controllare il mercato più velocemente e a dettare le sue regole.

    «L’approccio che utilizza Ferrero nell’interfacciarsi con i produttori è quello di creare dei contratti stagionali, ovvero Ferrero scrive sul contratto il prezzo e le condizioni d’acquisto, ma qualora qualcosa non andasse come previsto, sarebbe facilmente il produttore a uscirne penalizzato». A parlare della situazione è Seyit Aslan, segretario generale del più grande sindacato del comparto alimentare, Gida-Is. «In questo settore – prosegue – i fattori naturali generano la quantità e la qualità del prodotto. Per esempio se parliamo del nord della Turchia, si tratta di una zona soggetta a vari fenomeni climatici estremi, quindi alla fine del raccolto il produttore si trova spesso a dover gestire notevoli perdite economiche».

    «NEL 2021 – PROSEGUE ASLAN – la nostra delegazione sindacale insieme ad alcuni membri del ministero del Lavoro ha fatto un grosso lavoro di monitoraggio sul campo. Le condizioni di lavoro sono estremamente precarie, i lavoratori prima di tutto sono stagionali e senza contratto, le loro condizioni abitative consistono semplicemente in tende, senza una lavanderia e nemmeno un servizio igienico. Ci sono parecchi lavoratori minorenni che nel periodo di impiego non seguono il ciclo scolastico. Ovviamente nelle zone di produzione non esiste nessun tipo di controllo».

    Il leader sindacale sottolinea il fatto che lungo la costa del Mar Nero per raccogliere le nocciole arrivano tanti lavoratori dal sud-est del paese. Sono spesso cittadini poveri e curdi che subiscono in questo periodo di lavoro numerosi atti di discriminazione. Secondo Aslan ciò che si vede nei media turchi è una piccolissima parte di quello che devono affrontare questi lavoratori, che per via di un’opportunità lavorativa di breve durata non si sentono di denunciare gli abusi. Nella raccolta delle nocciole in Turchia è dominante il sistema del caporalato, denuncia Aslan. Inoltre le persone qui sono obbligate a produrre o le nocciole o il tè, perché nella regione ormai impera il sistema della monocoltura.

    «IL SISTEMA CONTRATTUALE che ha deciso di adottare Ferrero, senza nessun tipo di intervento dello Stato, in questi ultimi due anni possiamo dire che è diventato un elemento estremamente penalizzante – aggiunge Aslan – considerando la profonda crisi economica. Per esempio i fertilizzanti, il costo del lavoratore e le tasse sono molto più alte rispetto agli anni precedenti. Dunque è evidente che la Ferrero abbia costruito un monopolio nel settore in Turchia adottando dei meccanismi dannosi».

    Da quando è entrata nel mercato turco, l’azienda italiana ha comprato diversi piccoli attori del settore, alcuni dal passato discutibile, e anche questo l’ha aiutata a diventare il numero uno del settore. Nel 2018 il partito politico Mhp e successivamente nel 2021 il Chp hanno chiesto al Comitato antitrust di aprire un’indagine perché avevano registrato «comportamenti e scelte mafiose» da parte della Ferrero.

    IERI IL PRESIDENTE ERDOGAN nella città di Ordu ha comunicato il prezzo d’acquisto della nocciola, visto il periodo della raccolta: 54 lire turche al chilo (2,95 euro). Secondo Aslan e secondo i produttori con la crisi economica profonda e con queste condizioni di lavoro estremamente precarie la cifra dovrebbe essere al di sopra della soglia delle 80 lire (4,35 euro).

    Questa è la condizione in cui si trova il produttore numero uno delle nocciole, grazie a un governo che crea le basi dello sfruttamento. Pian piano la produzione agricola viene distrutta e la dignità umana calpestata.

    https://ilmanifesto.it/le-nocciole-turche-e-chi-le-raccoglie-ostaggio-del-mercato

    #Turquie #noisettes #Ferrero #multinationales #globalisation #mondialisation #industrie_agro-alimentaire #Nutella #prix #monopole #conditions_de_travail #travail #caporalato #monoculture #agriculture

  • En France, la presse jeu vidéo perd des points de vie
    https://www.lefigaro.fr/jeux-video/en-france-la-presse-jeu-video-perd-des-points-de-vie-20220710

    Externalisation des contenus, prix du papier, concurrence des influenceurs, manque de perspectives : les médias spécialisés font grise mine malgré la popularité et le chiffre d’affaires croissant du secteur.

    Le paradoxe est cruel. Pendant que le marché du jeu vidéo s’accroît d’année en année à l’international et a dépassé, en termes de chiffre d’affaires, le secteur de la musique et du cinéma, les médias spécialisés ont toujours autant du mal à survivre, tandis que leurs journalistes s’interrogent sur l’avenir.

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #business #audience #influence #tf1 #presse #presse_spécialisée #journalisme #rédaction #marché #tf1 #unify #reword_media #auto_plus #grazia #science_et_vie #gamekult #melty #la_crème_du_gaming #supersoluce #gamelove #webedia #jeuxvideo_com #breakflip #wsc #jérémy_parola #payant #gratuit #publicité #les_numériques #prix_du_papier #papier #canard_pc #jeuxvidéo_fr #clubic #julien_chièze #carole_quintaine #gauthier_andres #gautoz #julie_le_baron #valentin_cébo

  • #métaliste sur la mise en place de l’#externalisation des #procédures_d'asile au #Rwanda par l’#Angleterre
    –-> 2022

    #UK #Royaume-Uni

    –---

    voir aussi la métaliste sur les tentatives de différentes pays européens d’#externalisation non seulement des contrôles frontaliers (https://seenthis.net/messages/731749), mais aussi de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers :
    https://seenthis.net/messages/900122

    #procédure_d'asile #externalisation_de_la_procédure #modèle_australien

  • Grano : una guerra globale

    Secondo molti osservatori internazionali, la guerra in corso in Ucraina si esprimerebbe non solo mediante l’uso dell’artiglieria pesante e di milizie ufficiali o clandestine, responsabili di migliaia di morti, stupri e deportazioni. Esisterebbero, infatti, anche altri campi sui quali il conflitto, da tempo, si sarebbe spostato e che ne presuppongono un allargamento a livello globale. Uno di questi ha mandato in fibrillazione gli equilibri mondiali, con effetti diretti sulle economie di numerosi paesi e sulla vita, a volte sulla sopravvivenza, di milioni di persone. Si tratta della cosiddetta “battaglia globale del grano”, i cui effetti sono evidenti, anche in Occidente, con riferimento all’aumento dei prezzi di beni essenziali come il pane, la pasta o la farina, a cui si aggiungono quelli dei carburanti, oli vari, energia elettrica e legno.
    La questione del grano negli Stati Uniti: il pericolo di generare un tifone sociale

    Negli Stati Uniti, ad esempio, il prezzo del grano tenero, dal 24 febbraio del 2022, ossia dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, al Chicago Mercantile Exchange, uno dei maggiori mercati di riferimento per i contratti cerealicoli mondiali, è passato da 275 euro a tonnellata ai circa 400 euro dell’aprile scorso. Un aumento esponenziale che ha mandato in tensione non solo il sistema produttivo e distributivo globale, ma anche molti governi, legittimamente preoccupati per le conseguenze che tali aumenti potrebbero comportare sulle loro finanze e sulla popolazione. In epoca di globalizzazione, infatti, l’aumento del prezzo del grano tenero negli Stati Uniti potrebbe generare un “tifone sociale”, ad esempio, in Medio Oriente, in Africa, in Asia e anche in Europa. I relativi indici di volatilità, infatti, sono ai massimi storici, rendendo difficili previsioni di sviluppo che si fondano, invece, sulla prevedibilità dei mercati e non sulla loro instabilità. Queste fibrillazioni, peraltro, seguono, in modo pedissequo, le notizie che derivano dal fronte ucraino. Ciò significa che i mercati guardano non solo agli andamenti macroeconomici o agli indici di produzione e stoccaggio, ma anche a quelli derivanti direttamente dal fronte bellico e dalle conseguenze che esso determinerebbe sugli equilibri geopolitici globali.
    I processi inflattivi e la produzione di grano

    Anche secondo la Fao, per via dell’inflazione che ha colpito la produzione di cereali e oli vegetali, l’indice alimentare dei prezzi avrebbe raggiunto il livello più alto dal 1990, ossia dall’anno della sua creazione.

    Le origini della corsa a questo pericoloso rialzo sono molteplici e non tutte direttamente riconducibili, a ben guardare, alla sola crisi di produzione e distribuzione derivante dalla guerra in Ucraina. I mercati non sono strutture lineari, dal pensiero algoritmico neutrale. Al contrario, essi rispondono ad una serie molto ampia di variabili, anche incidentali, alcune delle quali derivano direttamente dalle ambizioni e dalle strategie di profitto di diversi speculatori finanziari. I dati possono chiarire i termini di questa riflessione.

    Il Pianeta, nel corso degli ultimi anni, ha prodotto tra 780 e 800 milioni di tonnellate di grano. Una cifra nettamente superiore rispetto ai 600 milioni di tonnellate prodotte nel 2000. Ciò si deve, in primis, alla crescita demografica mondiale e poi all’entrata di alcuni paesi asiatici e africani nel gotha del capitalismo globale e, conseguentemente, nel sistema produttivistico e consumistico generale. Se questo per un verso ha sollevato gran parte della popolazione di quei paesi dalla fame e dalla miseria, ha nel contempo determinato un impegno produttivo, in alcuni casi monocolturale, che ha avuto conseguenze dirette sul piano ambientale, sociale e politico.
    Il grano e l’Africa

    L’area dell’Africa centrale, ad esempio, ha visto aumentare la produzione agricola in alcuni casi anche del 70%. Eppure, nel contempo, si è registrato un aumento di circa il 30% di malnutrizione nella sua popolazione. Ciò è dovuto ad un’azione produttiva privata, incentivata da fondi finanziari internazionali e governativi, che ha aumentato la produzione senza redistribuzione. Questa produzione d’eccedenza è andata a vantaggio dei fondi speculativi, dell’agrobusiness o è risultata utile per la produzione occidentale, ma non ha sfamato la popolazione locale, in particolare di quella tradizionalmente esposta alla malnutrizione e alla fame. Un esempio emblematico riguarda l’Etiopia e i suoi 5 milioni circa di cittadini malnutriti. Questo paese dipende ormai interamente dagli aiuti alimentari e umanitari. Allo stesso tempo, migliaia di tonnellate di grano e di riso etiope sono esportate ogni anno in Arabia Saudita per via del land grabbing e degli accordi economici e finanziari sottoscritti. In Sudan si registra il medesimo fenomeno. Il locale governo ha infatti ceduto 1,5 milioni di ettari di terra di prima qualità agli Stati del Golfo, all’Egitto e alla Corea del Sud per 99 anni, mentre risulta contemporaneamente il paese al mondo che riceve la maggiore quantità di aiuti alimentari, con 6 milioni di suoi cittadini che dipendono dalla distribuzione di cibo. Basterebbe controllare i piani di volo degli aeroporti di questi paesi per rendersi conto di quanti aerei cargo decollano giornalmente carichi di verdura fresca e rose, con destinazione finale gli alberghi degli Emirati Arabi e i mercati di fiori olandesi. Come ha affermato l’ex direttore dell’ILC (International Land Coalition), Madiodio Niasse: «La mancanza di trasparenza rappresenta un notevole ostacolo all’attuazione di un sistema di controllo e implementazione delle decisioni riguardo alla terra e agli investimenti ad essa inerenti».

    L’Angola ha varato un piano di investimenti così ambizioso da attrarre sei miliardi di dollari esteri nel solo 2013. Prima dello scoppio del conflitto civile, durato trent’anni, questo paese riusciva a nutrire tutti i suoi abitanti ed esportava caffè, banane e zucchero. Oggi, è costretto a comprare all’estero metà del cibo destinato al consumo interno, mentre solo il 10% della sua superficie arabile è utilizzata. Ciò nonostante, ha ritenuto legittimo incentivare l’accaparramento dei propri terreni agricoli da parte di multinazionali dell’agrobusiness e fondi finanziari di investimento. Ragioni analoghe guidano Khartoum a negoziare migliaia di ettari con i paesi del Golfo. Tra il 2004 e il 2009, in soli cinque paesi, Mali, Etiopia, Sudan, Ghana e Madagascar circa due milioni e mezzo di ettari coltivabili sono finiti nel portafoglio finanziario di multinazionali e dei fondi sovrani.
    Non solo Ucraina

    Quanto descritto serve per superare un’ottica monofocale che tende a concentrarsi, per ciò che riguarda il tema della terra e del grano, esclusivamente sull’Ucraina. Nello scacchiere globale della produzione e dell’approvvigionamento rientrano, infatti, numerosi paesi, molti dei quali per anni predati o raggirati mediante accordi capestro e obblighi internazionali che hanno fatto del loro territorio un grande campo coltivato per i bisogni e i consumi occidentali.
    Il ruolo della Russia

    Anche la Russia, in quest’ambito, svolge un ruolo fondamentale. Mosca, infatti, ha deciso di conservare per sé e in parte per i suoi alleati, a fini strategici, la propria produzione cerealicola, contribuendo a generare gravi fibrillazioni sui mercati finanziari di tutto il mondo. Nel 2021, ad esempio, il paese governato da Putin era il primo esportatore di grano a livello mondiale (18%), piazzandosi sopra anche agli Stati Uniti. Questa enorme quantità di grano esportato non risulta vincolata come quello occidentale, ma riconducibile al consumo interno e al bilanciamento dei relativi prezzi per il consumatore russo che in questo modo paga meno il pane o la carne rispetto ad un occidentale. Non è però tutto “rose e fiori”. Sulla Russia incidono due fattori fondamentali. In primis, le sanzioni occidentali che limitano i suoi rapporti commerciali e impediscono a numerose merci e attrezzature di entrare, almeno in modo legale, per chiudere la filiera produttiva e commerciale in modo controllato. Secondo, l’esclusione della Russia dai mercati finanziari comporta gravi conseguenze per il paese con riferimento alla situazione dei pagamenti con una tensione crescente per il sistema finanziario, bancario e del credito. Non a caso recentemente essa è stata dichiarata in default sui circa 100 milioni di dollari di obbligazioni che non è riuscita a pagare. In realtà, il default non avrà un peso straordinario almeno per due ragioni. In primo luogo perché il paese è da molto tempo economicamente, finanziariamente e politicamente emarginato. Secondo poi, il fallimento sarebbe dovuto non alla mancanza di denaro da parte della Russia, ma alla chiusura dei canali di trasferimento da parte dei creditori. A completare il quadro, c’è una strategica limitazione delle esportazioni di grano da parte ancora della Russia nei riguardi dei paesi satelliti, come ad esempio l’Armenia o la Bielorussia. Ciò indica la volontà, da parte di Putin, di rafforzare le scorte per via di un conflitto che si considera di lungo periodo.
    Il grano “bloccato”

    A caratterizzare questa “battaglie globale del grano” ci sono anche altri fattori. Da febbraio 2020, ad esempio, circa 6 milioni di tonnellate di grano ucraino sono bloccati nel porto di Mikolaiv, Odessa e Mariupol. È una quantità di grano enorme che rischia di deperire nonostante lo stato di crisi alimentare in cui versano decine di paesi, soprattutto africani. Sotto questo profilo, i paesi occidentali e vicini all’Ucraina dovrebbero trovare corridoi speciali, militarmente difesi, per consentire l’esportazione del cereale e successivamente la sua trasformazione a tutela della vita di milioni di persone. D’altra parte, sui prezzi intervengo fattori non direttamente riconducibili all’andamento della guerra ma a quelli del mercato. Ad esempio, l’aumento del costo delle derrate cerealicole si deve anche all’aumento esponenziale (20-30%) dei premi assicurativi sulle navi incaricate di trasportarlo, attualmente ferme nei porti ucraini. Su questo aspetto i governi nazionali potrebbero intervenire direttamente, calmierando i premi assicurativi, anche obtorto collo, contribuendo a calmierai i prezzi delle preziose derrate alimentati. Si consideri che molti industriali italiani del grano variamente lavorato stanno cambiando la loro bilancia di riferimento e relativi prezzi, passando ad esempio dal quintale al chilo e aumentando anche del 30-40% il costo per allevatori e trasformatori vari (fornai e catene dell’alimentare italiano).
    Le ricadute di una guerra di lungo periodo

    Una guerra di lungo periodo, come molti analisti internazionali ritengono quella in corso, obbligherà i paesi contendenti e i relativi alleati, a una profonda revisione della produzione di grano. L’Ucraina, ad esempio, avendo a disposizione circa 41,5 milioni di ettari di superficie agricola utile, attualmente in parte occupati dai carri armati russi e da un cannoneggiamento da artiglieria pesante e attività di sabotaggio, vende in genere il 74% della sua produzione cerealicola a livello globale. Non si tratta di una scelta politica occasionale ma strategica e di lungo periodo. L’Ucraina, infatti, ha visto aumentare, nel corso degli ultimi vent’anni, la sua produzione di grano e l’ esportazione. Si consideri che nel 2000, il grano ucraino destinato all’esportazione era il 60% di quello prodotto. La strategia ovviamente non è solo commerciale ma anche politica. Chi dispone del “potere del grano”, infatti, ha una leva fondamentale sulla popolazione dei paesi che importano questo prodotto, sul relativo sistema di trasformazione e commerciale e sull’intera filiera di prodotti derivati, come l’allevamento. Ed è proprio su questa filiera che ora fa leva la Russia, tentando di generare fibrillazioni sui mercati, azioni speculative e tensioni sociali per tentare di allentare il sostegno occidentale o internazionale dato all’Ucraina e la morsa, nel contempo, delle sanzioni.

    Esiste qualche alternativa alla morsa russa su campi agricoli ucraini? Il terreno ucraino seminato a grano e risparmiato dalla devastazione militare russa, soprattutto lungo la linea Sud-Ovest del paese, può forse rappresentare una speranza se messo a coltura e presidiato anche militarmente. Tutto questo però deve fare i conti con altri due problemi: la carenza di carburante e la carenza di manodopera necessaria per concludere la coltivazione, mietitura e commercializzazione del grano. Su questo punto molti paesi, Italia compresa, si sono detti pronti ad intervenire fornendo a Zelensky mezzi, camion, aerei cargo e navi ove vi fosse la possibilità di usare alcuni porti. Nel frattempo, il grano sta crescendo e la paura di vederlo marcire nei magazzini o di non poterlo raccogliere nei campi resta alta. Ovviamente queste sono considerazioni fatte anche dai mercati che restano in fibrillazione. Circa il 70% dei carburanti usati in agricoltura in Ucraina, ad esempio, sono importanti da Russia e Bielorussia. Ciò significa che esiste una dipendenza energetica del paese di Zelensky dalla Russia, che deve essere superata quanto prima mediante l’intervento diretto dei paesi alleati a vantaggio dell’Ucraina. Altrimenti il rischio è di avere parte dei campi di grano ucraini pieni del prezioso cereale, ma i trattori e le mietitrici ferme perché prive di carburante, passando così dal danno globale alla beffa e alla catastrofe mondiale.

    Una catastrofe in realtà già prevista.
    Un uragano di fame

    Le Nazioni Unite, attraverso il suo Segretario generale, Antonio Guterres, già il 14 marzo scorso avevano messo in guardia il mondo contro la minaccia di un “uragano di fame” che avrebbe potuto generare conflitti e rivolte in aree già particolarmente delicate. Tra queste ultime, in particolare, il Sudan, l’Eritrea, lo Yemen, e anche il Medio Oriente.

    Gutierres ha parlato addirittura di circa 1,7 miliardi di persone che possono precipitare dalla sopravvivenza alla fame. Si tratta di circa un quinto della popolazione mondiale, con riferimento in particolare a quarantacinque paesi africani, diciotto dei quali dipendono per oltre il 50% dal grano ucraino e russo. Oltre a questi paesi, ve ne sono altri, la cui tenuta è in tensione da molti anni, che dipendono addirittura per il 100% dai due paesi in guerra. Si tratta, ad esempio, dell’Eritrea, della Mauritania, della Somalia, del Benin e della Tanzania.

    In definitiva, gli effetti di una nuova ondata di fame, che andrebbe a sommarsi alle crisi sociali, politiche, ambientali e terroristiche già in corso da molti anni, potrebbero causare il definitivo crollo di molti paesi con effetti umanitari e politici a catena devastanti.
    Il caso dell’Egitto

    Un paese particolarmente sensibile alla crisi in corso è l’Egitto, che è anche il più grande acquirente di grano al mondo con 12 milioni di tonnellate, di cui 6 acquistate direttamente dal governo di Al Si-si per soddisfare il programma di distribuzione del pane. Si tratta di un programma sociale di contenimento delle potenziali agitazioni, tensioni sociali e politiche, scontri, rivolte e migrazioni per fame che potrebbero indurre il Paese in uno stato di crisi permanente. Sarebbe, a ben osservare, un film già visto. Già con le note “Primavere arabe”, infatti, generate dal crollo della capacità di reperimento del grano nei mercati globali a causa dei mutamenti climatici che investirono direttamente le grandi economie del mondo e in particolare la Cina, Argentina, Russia e Australia, scoppiarono rivolte proprio in Egitto (e in Siria), represse nel sangue. L’Egitto, inoltre, dipende per il 61% dalla Russia e per il 23% dall’Ucraina per ciò che riguarda l’importazione del grano. Dunque, questi due soli paesi fanno insieme l’84% del grano importato dal paese dei faraoni. Nel contempo, l’Egitto fonda la sua bilancia dei pagamenti su un prezzo del prezioso cereale concordato a circa 255 dollari a tonnellata. L’aumento del prezzo sui mercati globali ha già obbligato l’Egitto ad annullare due contratti sottoscritti con la Russia, contribuendo a far salire la tensione della sua popolazione, considerando che i due terzi circa dei 103 milioni di egiziani si nutre in via quasi esclusiva di pane (chiamato aish, ossia “vita”). Secondo le dichiarazioni del governo egiziano, le riserve di grano saranno sufficienti per soddisfare i relativi bisogni per tutta l’estate in corso. Resta però una domanda: che cosa accadrà, considerando che la guerra in Ucraina è destinata ad essere ancora lunga, quando le scorte saranno terminate?

    Anche il Libano e vari altri paesi si trovano nella medesima situazione. Il paese dei cedri dipende per il 51% dal grano dalla Russia e dall’Ucraina. La Turchia di Erdogan, invece, dipende per il 100% dal grano dai due paesi coinvolti nel conflitto. Ovviamente tensioni sociali in Turchia potrebbero non solo essere pericolose per il regime di Erdogan, ma per la sua intera area di influenza, ormai allargatasi alla Libia, Siria, al Medio Oriente, ad alcuni paesi africani e soprattutto all’Europa che ha fatto di essa la porta di accesso “sbarrata” dei profughi in fuga dai loro paesi di origine.
    Anche l’Europa coinvolta nella guerra del grano

    Sono numerosi, dunque, i paesi che stanno cercando nuovi produttori di cereali cui fare riferimento. Tra le aree alle quali molti stanno guardando c’è proprio l’Unione europea che, non a caso, il 21 marzo scorso, ha deciso di derogare temporaneamente a una delle disposizioni della Pac (Politica Agricola Comune) che prevedeva di mettere a riposo il 4% dei terreni agricoli. Ovviamente, questa decisione è in funzione produttivistica e inseribile in uno scacchiere geopolitico mondiale di straordinaria delicatezza. Il problema di questa azione di messa a coltura di terreni che dovevano restare a riposo, mette in luce una delle contraddizioni più gravi della stessa Pac. Per anni, infatti, sono stati messi a riposo, o fatti risultare tali, terreni non coltivabili. In questo modo venivano messi a coltura terreni produttivi e fatti risultare a riposo quelli non produttivi. Ora, la deroga a questa azione non può produrre grandi vantaggi, in ragione del fatto che i terreni coltivabili in deroga restano non coltivabili di fatto e dunque poco o per nulla incideranno sull’aumento di produzione del grano. Se il conflitto ucraino dovesse continuare e l’Europa mancare l’obiettivo di aumentare la propria produzione di grano per calmierare i prezzi interni e nel contempo soddisfare parte della domanda a livello mondiale, si potrebbe decidere di diminuire le proprie esportazioni per aumentare le scorte. Le conseguenze sarebbero, in questo caso, dirette su molti paesi che storicamente acquistano grano europeo. Tra questi, in particolare, il Marocco e l’Algeria. Quest’ultimo paese, ad esempio, consuma ogni anno circa 11 milioni di tonnellate di grano, di cui il 60% importato direttamente dalla Francia. A causa delle tensioni politiche che nel corso degli ultimi tre anni si sono sviluppate tra Algeria e Francia, il paese Nord-africano ha cercato altre fonti di approvvigionamento, individuandole nell’Ucraina e nella Russia. Una scelta poco oculata, peraltro effettuata abbassando gli standard di qualità del grano, inferiori rispetto a quello francese.
    L’India può fare la differenza?

    Un nuovo attore mondiale sta però facendo il suo ingresso in modo prepotente. Si tratta dell’India, un paese che da solo produce il 14% circa del grano mondiale, ossia circa 90 milioni di tonnellate di grano. Questi numeri consentono al subcontinente indiano di piazzarsi al secondo posto come produttore mondiale dopo la Cina, che ne produce invece 130 milioni. L’India del Presidente Modhi ha usato gran parte della sua produzione per il mercato interno, anch’esso particolarmente sensibile alle oscillazione dei prezzi del bene essenziale. Nel contempo, grazie a una produzione che, secondo Nuova Delhi e la Fao, è superiore alle attese, sta pensando di vendere grano a prezzi vantaggiosi sul mercato globale. Sotto questo profilo già alcuni paesi hanno mostrato interesse. Tra questi, ad esempio, Iran, Indonesia, Tunisia e Nigeria. Anche l’Egitto ha iniziato ad acquistare grano dall’India, nonostante non sia di eccellente qualità per via dell’uso intensivo di pesticidi. Il protagonismo dell’India in questa direzione, ha fatto alzare la tensione con gli Stati Uniti. I membri del Congresso statunitense, infatti, hanno più volte sollevato interrogativi e critiche rispetto alle pratiche di sostegno economico, lesive, a loro dire, della libera concorrenza internazionale, che Nuova Delhi riconosce da anni ai suoi agricoltori, tanto da aver chiesto l’avvio di una procedura di infrazione presso l’Organizzazione mondiale per il Commercio (Omc). Insomma, le tensioni determinate dal conflitto in corso si intersecano e toccano aspetti e interessi plurimi, e tutti di straordinaria rilevanza per la tenuta degli equilibri politici e sociali globali.

    https://www.leurispes.it/grano-una-guerra-globale

    #blé #prix #Ukraine #Russie #guerre_en_Ukraine #guerre_globale_du_blé #produits_essentiels #ressources_pédagogiques #Etats-Unis #USA #Inde #instabilité #marché #inflation #céréales #indice_alimentaire #spéculation #globalisation #mondialisation #production #Afrique #production_agricole #malnutrition #excédent #industrie_agro-alimentaire #agrobusiness #faim #famine #Ethiopie #Arabie_Saoudite #land_grabbing #accaparemment_des_terres #Soudan #Egypte #Corée_du_Sud #exportation #aide_alimentaire #Angola #alimentation #multinationales #pays_du_Golfe #Mali #Madagascar #Ghana #fonds_souverains #sanctions #marchés_financiers #ports #Odessa #Mikolaiv #Mariupol #assurance #élevage #sanctions #dépendance_énergétique #énergie #ouragan_de_faim #dépendance #Turquie #Liban #pac #politique_agricole_commune #EU #UE #Europe #France #Maroc #Algérie

  • Électricité : les prix risquent de tripler en France cet hiver
    https://www.latribune.fr/entreprises-finance/industrie/energie-environnement/electricite-la-france-s-oriente-vers-des-prix-deux-a-trois-fois-plus-eleve

    Alors que le pays fonce tout droit vers un déficit de production d’électricité cet hiver, les capacités d’importation depuis les pays voisins pour combler le manque de marges risquent d’être fortement limitées. De quoi inquiéter les marchés, qui anticipent une défaillance, ce qui fait grimper encore plus qu’ailleurs les prix de gros dans l’Hexagone. Explications.
    (Crédits : Reuters)

    « Il n’y a aucun risque de coupure » de courant l’hiver prochain, affirmait Emmanuel Macron début juin, au moment-même où le gouvernement allemand tirait la sonnette d’alarme et lançait son plan d’urgence énergétique. Et pour cause, « quand il y a des besoins, on s’approvisionne sur le marché européen », justifiait le chef de l’Etat, affirmant vouloir « rassurer » les Français.

    Et pourtant, depuis cette déclaration, les signaux pour le moins inquiétants se multiplient. Jusqu’à faire bondir les prix au plafond : dans l’Hexagone, ceux-ci se négocient actuellement au prix hallucinant de 790 euros le mégawattheure (MWh) pour octobre-décembre 2022 sur la bourse EPEX, soit deux à trois fois plus que dans les pays voisins ! Et frôlent même les 1.500 euros le MWh pour ce qui est des prix de pointe, contre moins de 500 euros en Allemagne. Une « différence énorme » qui montre que le marché « anticipe une défaillance » en France, alerte Nicolas Goldberg, spécialiste de l’énergie chez Colombus Consulting. Pour rappel, avant la crise sanitaire, le prix s’élevait à une cinquantaine d’euros le mégawattheure.
    L’atout nucléaire se retourne contre la France

    De fait, le pays fait face à une situation « spécifique », qui aggrave encore la crise et accroît la probabilité d’une pénurie de courant cet hiver, explique Jacques Percebois, économiste et directeur du Centre de Recherche en Economie et Droit de l’Energie (CREDEN). En effet, alors que son mix électrique repose toujours, en théorie, à presque 70% sur le parc nucléaire, celui-ci traverse une période d’indisponibilité historique. Selon le réseau européen des gestionnaires de réseau de transport d’électricité ENTSO-E, 27 des 56 réacteurs du territoire se trouvent en effet à l’arrêt.

    En cause : le décalage des maintenances du fait du coronavirus, qui tombent donc, pour plusieurs centrales, en ce moment-même, mais surtout l’identification récente d’un défaut de corrosion sur plusieurs infrastructures, et dont les causes et l’ampleur réelle restent inconnues. En février, EDF avait ainsi présenté un programme de contrôles afin de vérifier le nombre de réacteurs concernés par l’anomalie, et annoncé qu’il arrêterait en priorité, et d’ici à fin avril, Bugey 3 et 4, Cattenom 3, Chinon 3 et Flamanville 1 et 2.

    « Sans ce problème de fissuration qui pousse EDF à fermer une partie du parc, on aurait un réseau sans marges, mais pas à marge négative, comme c’est le cas actuellement », commente Nicolas Goldberg.

    Autrement dit, « l’avantage français du nucléaire se transforme en élément de faiblesse, et le restera tant que les réacteurs seront indisponibles, et le problème irrésolu », ajoute Jacques Percebois.

    Congestions aux frontières

    Ainsi, la France importera forcément de grandes quantités d’électricité pour satisfaire la demande cet hiver, affirme Jacques Percebois. Et notamment lors des pointes de consommation, celles-ci étant « habituellement plus fréquentes et fortes en France qu’ailleurs en Europe, étant donné que l’on se chauffe bien plus à l’électrique que nos voisins », précise l’économiste.

    Seulement voilà : les pays frontaliers risquent, eux aussi, de faire face à de fortes tensions d’approvisionnement, ou du moins de ne pas disposer de suffisamment de surplus pour satisfaire les besoins français. Pour s’en prémunir, l’Allemagne a notamment décidé de garder en activité près de 14 GW de centrales à charbon qui devaient fermer dès cette année. Mais même avec cette puissance supplémentaire, Berlin anticipe une pénurie dans le cas où la Russie décidait de réduire encore son offre de gaz, toujours essentielle pour alimenter ses centrales électriques.

    Surtout, les possibilités d’échange seront de toute façon restreintes par des freins techniques. « Il faut s’attendre à des goulots d’étranglement liés aux capacités d’interconnexion des réseaux, aujourd’hui limitées à 13 GW environ. C’est pour cela qu’en période de tension, il y a toujours des congestions aux frontières. Cela explique aussi que le prix de gros ne soit pas le même partout », note Jacques Percebois.

    Par conséquent, ce dernier devrait bien exploser en France, malgré la connexion du pays au marché européen de l’électricité. Reste à voir l’impact de ce phénomène sur les factures des consommateurs. En effet, l’Etat avait mis en place l’hiver dernier un bouclier tarifaire, aujourd’hui toujours en vigueur, afin de protéger les citoyens de la flambée des prix. Mais alors que la situation promet d’empirer, un tel dispositif pourrait peser lourd sur les finances publiques.

    « Pour limiter la hausse du tarif réglementé de vente à 4% plutôt que 40%, les pouvoirs publics sont déjà intervenus massivement, à tous les échelons. Ils ont mis sous perfusion les fournisseurs, tout en donnant des aides aux consommateurs, afin de faire en sorte que le marché tienne. C’est un interventionnisme extraordinaire, qui a coûté des fortunes aux contribuables », soulignait à La Tribune il y a quelques mois Xavier Pinon, cofondateur et dirigeant du courtier en énergie Selectra.

    Un manque criant de marges pilotables

    Dans ces conditions, le gouvernement n’a d’autre choix que de sonner le branle-bas de combat, soit pour accroître la production d’électricité nationale, soit pour diminuer la demande. Il a notamment annoncé son intention de rouvrir en urgence la centrale à charbon Emile Huchet, et d’engager un plan « sobriété », censé pousser l’Hexagone à économiser un maximum d’énergie sur le territoire.

    Mais en cas d’hiver froid, ces recours resteront largement insuffisants, tant le pays dispose de peu de marges de manœuvre pilotables en dehors du nucléaire.

    « Pendant de nombreuses années, nous n’avons plus construit de moyens de production pilotables [qui permettent de fournir de l’électricité sans variation liée aux conditions météorologiques ou géographiques, ndlr]. Nous en avons même fermé, en ne construisant que des éoliennes et des panneaux solaires à la place. Forcément, cela a déstabilisé le réseau, et accru le risque d’une non satisfaction de la demande », glissait à La Tribune André Merlin, le premier directeur de RTE, en avril dernier.

    Le gouvernement a notamment acté la fin de la centrale nucléaire de Fessenheim, en Alsace, définitivement mise à l’arrêt en 2020. « Celle-ci ne représentait qu’1,8 GW, son maintien n’aurait donc pas suffi, même s’il aurait apporté des marges bienvenues. Mais nous avons par ailleurs fermé plus de 10 GW d’énergies fossiles depuis 2012. Ce qui est bon pour le climat, mais aboutit logiquement à un manque significatif de pilotables. A cela s’ajoute notre retard sur l’efficacité énergétique, notamment dans les bâtiments, qui permettrait de réduire en parallèle la consommation », selon Nicolas Goldberg.

    D’autant que les rares projets mis en route pour compenser ces fermetures ont accumulé les déboires. Notamment la construction du réacteur nucléaire EPR de Flamanville (1,6 GW), qui essuie plus de dix ans de retard, et n’est toujours pas raccordée au réseau. Mais aussi la centrale au gaz de Landivisiau, opérée par TotalEnergies et mise en service en avril dernier, après de très nombreux glissements du calendrier.

    Du côté des installations non pilotables, le bilan de la France s’avère également peu reluisant, puisque l’Hexagone ne compte qu’un seul parc éolien en mer, raccordé au réseau il y a quelques semaines seulement. De manière globale, la filière éolienne reste à la peine : au 31 mars 2022, la puissance installée s’élevait à un peu plus de 19 GW, soit près de deux fois moins que les objectifs de la Programmation pluriannuelle de l’énergie (PPE). Et pour ce qui est de l’énergie solaire photovoltaïque, la France n’en produit que 2,2%, soit trois fois moins que l’Allemagne ou l’Italie.

    Une « conjonction de facteurs défavorables », résume Jacques Percebois, dont les conséquences pourraient être majeures. En cas de pénurie, « les consommateurs domestiques seront de toute façon prioritaires », rappelle-t-il. Autrement dit, les entreprises seront les premières à se voir rationner, notamment les plus énergivores, ce qui n’est pas arrivé depuis les années 1950. A tel point que certains industriels cherchent à prendre les devants, comme Stellantis qui cherche un partenaire pour produire sa propre énergie.

    En avril dernier, l’exécutif avait ainsi publié un décret prévoyant le délestage, autrement dit la réduction momentanée et planifiée de la consommation de gaz naturel par certains consommateurs en cas de pénurie. Seraient d’abord concernés les 5.000 sites qui brûlent plus de 5 GW/h par an, en dehors de ceux assurant des missions d’intérêt général (écoles, hôpitaux, Ehpad...). Ce qui pourrait peser lourd sur le tissu industriel français, déjà ébranlé par une explosion des prix qui n’en finit pas.

    #sources_d'énergie #marché_de_l'électricité #interconnexion #centrales_nucléaires

  • Nous pouvons (et devons) stopper la crise sur les marchés internationaux – Fondation FARM
    https://fondation-farm.org/crise-alimentaire-securite-mondiale

    Bien sûr, la guerre en Ukraine n’a rien arrangé. Cette région du monde (Ukraine + Russie) produit une part significative du blé et du maïs exporté sur les marchés internationaux (environ 20%) et il en est de même pour les huiles végétales (notamment celle de tournesol) et pour les engrais azotés. Pour l’instant, ce n’est pas tant la production qui est compromise que les exportations (qui se faisaient traditionnellement par les ports de la mer Noire).
    Mais l’essentiel de la hausse des prix s’est produit avant la guerre en Ukraine. Et il ne s’agit pas là d’un détail. Car si les prix alimentaires, notamment ceux du maïs, du blé et des huiles végétales, ont fortement augmenté depuis la mi-2020, c’est parce qu’ils ont été entraînés à la hausse par le prix des énergies fossiles (pétrole et gaz naturel). Ce qui est en cause, c’est donc notre modèle de production agricole basé sur l’utilisation intense de ces énergies : intrants chimiques (notamment les engrais azotés fabriqués avec du gaz naturel), mécanisation, transport à grande distance. Ce qui est en cause, c’est surtout notre utilisation massive de produits alimentaires pour fabriquer du carburant, surtout aux Etats-Unis (maïs) et dans l’Union européenne (colza). Une utilisation qui lie très fortement le prix des céréales (maïs et blé) et des huiles végétales aux prix des énergies fossiles.
    Alors bien sûr la guerre en Ukraine a prolongé et amplifié la crise mais lui en attribuer l’entière responsabilité est factuellement inexact. Nous (Européens et Américains du nord) avons aussi notre (grande) part de responsabilité et il nous revient de l’assumer.

    #marchés_céréales #crise_ukraine #biocarburant

  • Le système alimentaire mondial menace de s’effondrer

    Aux mains de quelques #multinationales et très liée au secteur financier, l’#industrie_agroalimentaire fonctionne en #flux_tendu. Ce qui rend la #production mondiale très vulnérable aux #chocs politiques et climatiques, met en garde l’éditorialiste britannique George Monbiot.

    Depuis quelques années, les scientifiques s’évertuent à alerter les gouvernements, qui font la sourde oreille : le #système_alimentaire_mondial ressemble de plus en plus au système financier mondial à l’approche de 2008.

    Si l’#effondrement de la finance aurait été catastrophique pour le bien-être humain, les conséquences d’un effondrement du #système_alimentaire sont inimaginables. Or les signes inquiétants se multiplient rapidement. La flambée actuelle des #prix des #aliments a tout l’air du dernier indice en date de l’#instabilité_systémique.

    Une alimentation hors de #prix

    Nombreux sont ceux qui supposent que cette crise est la conséquence de la #pandémie, associée à l’#invasion de l’Ukraine. Ces deux facteurs sont cruciaux, mais ils aggravent un problème sous-jacent. Pendant des années, la #faim dans le monde a semblé en voie de disparition. Le nombre de personnes sous-alimentées a chuté de 811 millions en 2005 à 607 millions en 2014. Mais la tendance s’est inversée à partir de 2015, et depuis [selon l’ONU] la faim progresse : elle concernait 650 millions de personnes en 2019 et elle a de nouveau touché 811 millions de personnes en 2020. L’année 2022 s’annonce pire encore.

    Préparez-vous maintenant à une nouvelle bien plus terrible : ce phénomène s’inscrit dans une période de grande #abondance. La #production_alimentaire mondiale est en hausse régulière depuis plus de cinquante ans, à un rythme nettement plus soutenu que la #croissance_démographique. En 2021, la #récolte mondiale de #blé a battu des records. Contre toute attente, plus d’humains ont souffert de #sous-alimentation à mesure que les prix alimentaires mondiaux ont commencé à baisser. En 2014, quand le nombre de #mal_nourris était à son niveau le plus bas, l’indice des #prix_alimentaires [de la FAO] était à 115 points ; il est tombé à 93 en 2015 et il est resté en deçà de 100 jusqu’en 2021.

    Cet indice n’a connu un pic que ces deux dernières années. La flambée des prix alimentaires est maintenant l’un des principaux facteurs de l’#inflation, qui a atteint 9 % au Royaume-Uni en avril 2022 [5,4 % en France pour l’indice harmonisé]. L’alimentation devient hors de prix pour beaucoup d’habitants dans les pays riches ; l’impact dans les pays pauvres est beaucoup plus grave.

    L’#interdépendance rend le système fragile

    Alors, que se passe-t-il ? À l’échelle mondiale, l’alimentation, tout comme la finance, est un système complexe qui évolue spontanément en fonction de milliards d’interactions. Les systèmes complexes ont des fonctionnements contre-intuitifs. Ils tiennent bon dans certains contextes grâce à des caractéristiques d’auto-organisation qui les stabilisent. Mais à mesure que les pressions s’accentuent, ces mêmes caractéristiques infligent des chocs qui se propagent dans tout le réseau. Au bout d’un moment, une perturbation même modeste peut faire basculer l’ensemble au-delà du point de non-retour, provoquant un effondrement brutal et irrésistible.

    Les scientifiques représentent les #systèmes_complexes sous la forme d’un maillage de noeuds et de liens. Les noeuds ressemblent à ceux des filets de pêche ; les liens sont les fils qui les connectent les uns aux autres. Dans le système alimentaire, les noeuds sont les entreprises qui vendent et achètent des céréales, des semences, des produits chimiques agricoles, mais aussi les grands exportateurs et importateurs, et les ports par lesquels les aliments transitent. Les liens sont leurs relations commerciales et institutionnelles.

    Si certains noeuds deviennent prépondérants, fonctionnent tous pareil et sont étroitement liés, alors il est probable que le système soit fragile. À l’approche de la crise de 2008, les grandes banques concevaient les mêmes stratégies et géraient le risque de la même manière, car elles courraient après les mêmes sources de profit. Elles sont devenues extrêmement interdépendantes et les gendarmes financiers comprenaient mal ces liens. Quand [la banque d’affaires] Lehman Brothers a déposé le bilan, elle a failli entraîner tout le monde dans sa chute.

    Quatre groupes contrôlent 90 % du commerce céréalier

    Voici ce qui donne des sueurs froides aux analystes du système alimentaire mondial. Ces dernières années, tout comme dans la finance au début des années 2000, les principaux noeuds du système alimentaire ont gonflé, leurs liens se sont resserrés, les stratégies commerciales ont convergé et se sont synchronisées, et les facteurs susceptibles d’empêcher un #effondrement_systémique (la #redondance, la #modularité, les #disjoncteurs, les #systèmes_auxiliaires) ont été éliminés, ce qui expose le système à des #chocs pouvant entraîner une contagion mondiale.

    Selon une estimation, quatre grands groupes seulement contrôlent 90 % du #commerce_céréalier mondial [#Archer_Daniels_Midland (#ADM), #Bunge, #Cargill et #Louis_Dreyfus]. Ces mêmes entreprises investissent dans les secteurs des #semences, des #produits_chimiques, de la #transformation, du #conditionnement, de la #distribution et de la #vente au détail. Les pays se divisent maintenant en deux catégories : les #super-importateurs et les #super-exportateurs. L’essentiel de ce #commerce_international transite par des goulets d’étranglement vulnérables, comme les détroits turcs (aujourd’hui bloqués par l’invasion russe de l’Ukraine), les canaux de Suez et de Panama, et les détroits d’Ormuz, de Bab El-Mandeb et de Malacca.

    L’une des transitions culturelles les plus rapides dans l’histoire de l’humanité est la convergence vers un #régime_alimentaire standard mondial. Au niveau local, notre alimentation s’est diversifiée mais on peut faire un constat inverse au niveau mondial. Quatre plantes seulement - le #blé, le #riz, le #maïs et le #soja - correspondent à près de 60 % des calories cultivées sur les exploitations. La production est aujourd’hui extrêmement concentrée dans quelques pays, notamment la #Russie et l’#Ukraine. Ce #régime_alimentaire_standard_mondial est cultivé par la #ferme_mondiale_standard, avec les mêmes #semences, #engrais et #machines fournis par le même petit groupe d’entreprises, l’ensemble étant vulnérable aux mêmes chocs environnementaux.

    Des bouleversements environnementaux et politiques

    L’industrie agroalimentaire est étroitement associée au #secteur_financier, ce qui la rend d’autant plus sensible aux échecs en cascade. Partout dans le monde, les #barrières_commerciales ont été levées, les #routes et #ports modernisés, ce qui a optimisé l’ensemble du réseau mondial. On pourrait croire que ce système fluide améliore la #sécurité_alimentaire, mais il a permis aux entreprises d’éliminer des coûts liés aux #entrepôts et #stocks, et de passer à une logique de flux. Dans l’ensemble, cette stratégie du flux tendu fonctionne, mais si les livraisons sont interrompues ou s’il y a un pic soudain de la demande, les rayons peuvent se vider brusquement.

    Aujourd’hui, le système alimentaire mondial doit survive non seulement à ses fragilités inhérentes, mais aussi aux bouleversements environnementaux et politiques susceptibles de s’influencer les uns les autres. Prenons un exemple récent. À la mi-avril, le gouvernement indien a laissé entendre que son pays pourrait compenser la baisse des exportations alimentaires mondiales provoquée par l’invasion russe de l’Ukraine. Un mois plus tard, il interdisait les exportations de blé, car les récoltes avaient énormément souffert d’une #canicule dévastatrice.

    Nous devons de toute urgence diversifier la production alimentaire mondiale, sur le plan géographique mais aussi en matière de cultures et de #techniques_agricoles. Nous devons briser l’#emprise des #multinationales et des spéculateurs. Nous devons prévoir des plans B et produire notre #nourriture autrement. Nous devons donner de la marge à un système menacé par sa propre #efficacité.

    Si tant d’êtres humains ne mangent pas à leur faim dans une période d’abondance inédite, les conséquences de récoltes catastrophiques que pourrait entraîner l’effondrement environnemental dépassent l’entendement. C’est le système qu’il faut changer.

    https://www.courrierinternational.com/article/crise-le-systeme-alimentaire-mondial-menace-de-s-effondrer

    #alimentation #vulnérabilité #fragilité #diversification #globalisation #mondialisation #spéculation

    • C’est un petit terminal à l’écart de l’aéroport de Marignane. Les panneaux indiquent « aviation générale ». La machine à café est en panne et, vu le présentoir à journaux, on se croirait chez le dentiste. Mais, c’est là, juste à côté de l’aéroclub, que nichent les compagnies de jets privés. Avec salles de réunion, de conférence… Dans un coin, un bureau un peu plus austère. Celui de la « police de l’air et des frontières » (PAF).

      D’après le collectif « Marseille contre les CRA », qui y a mené une action début avril (1), c’est depuis ce terminal que la « PAF » procède à des reconduites à la frontière vers la Tunisie. Grâce à Twin Jet, la plus petite compagnie hexagonale, basée à Aix, et dont la flotte est constituée essentiellement d’appareils d’une vingtaine de places.

      Ce matin, le bureau de la PAF est fermé et, sur place, personne ne pipe mot. A la Sécurité, on nous confirme qu’il y a bien, de temps en temps, des expulsions mais on nous dit d’aller au bureau principal de la PAF au terminal 1. Lorgnant sur notre carte de presse, le policier lance : « C’était vous, au terminal Aviation générale ? » Son supérieur, lui, n’a rien à dire à la presse !

      Démarche « solidarité »

      Le syndicat Unité Police est plus disert : « C’est un petit avion qui vient de Paris. S’il passe par Marignane, c’est surtout pour refaire le plein. Et aussi pour récupérer, s’il y a lieu, des personnes à expulser. Mais pas grand monde. L’Algérie refuse d’accueillir ses ressortissants et la Tunisie, c’est au compte-goutte… Après, c’est vrai que durant le confinement, tous les vols commerciaux avaient été suspendus. Mais même les collègues se plaignent. C’est un petit avion, pas très confortable. »

      Le « Petit Poucet du ciel français » dixit Les Echos, spécialisé dans les trajets régionaux, ne met guère cette activité en avant. Ni sur le net. Ni sur sa plaquette à la gloire du « plus important opérateur de Beechcraft 1900D en Europe », le nom de ces petits coucous. Qui préfère insister sur son agrément pour le « transport sanitaire » ou de « marchandises dangereuses ». Et de tartiner sur sa « démarche environnementale » et « solidarité ». Notamment sa participation au « programme alimentaire mondial » : « Pour chaque passager transporté, nous offrons deux repas à un enfant », lit-on juste à côté d’un dessin où des mômes dansent autour du globe.

      Mais pas besoin de chercher longtemps, Twin Jet se fait régulièrement épingler par les médias, notamment lorsque ses avions ont servi à vider la « jungle » de Calais. Et de défrayer la chronique fin 2017, la presse évoquant l’intervention d’un policier de la PAF pour favoriser Twin Jet lors de l’attribution du marché en 2014 au détriment de Chalair Aviation. En 2020 la Cour administrative d’appel a condamné l’État à verser à cette compagnie « 331 928 euros » d’indemnités. Sollicité, Alain Battisti, son PDG (et patron de la fédération de l’aviation marchande) refusera de « s’exprimer sur le sujet ».

      En 2018, pour 4 ans et 6 millions d’euros, Twin Jet a de nouveau raflé la mise. Contacté début mai, le PDG Guillaume Collinot, précisant que le marché arrive à terme, ne cache pas son agacement : « On met notre appareil à disposition. Après, ce qui est fait ne nous regarde pas. » Rappelant qu’il y a « plus de reconduites par les appareils classiques que par les nôtres », il grince : « La police utilise des véhicules Renault ou Peugeot. Personne ne le leur reproche. Alors pourquoi le faire avec nous ? »

      Commande publique

      Et de rester flou quant à l’utilité pour la police de recourir à de si petits avions. Alors qu’un rapport parlementaire de 2019 évalue le coût d’une expulsion à « 14 000 euros » et recense plus de 3000 refus d’embarquer de la part des personnes éloignées ainsi qu’une centaine des commandants de bord, d’après un militant du collectif anti-CRA selon lequel il y aurait des « expulsions toutes les semaines, le vendredi », ce serait « plus discret » et ça permettrait de contourner le test PCR obligatoire, le refus de test permettant de retarder l’expulsion : « C’est ce que nous ont dit des personnes expulsées. » Réplique du patron de Twin Jet : « C’est faux ! Nos avions sont soumis aux mêmes contraintes sanitaires que les autres. »

      Pour le PDG d’une compagnie qui, d’après la presse économique, aurait traversé la crise sanitaire sans aide, cette activité ne représente qu’une « part infime » du chiffre d’affaire. Sauf qu’en 2021, Twin Jet a perdu 3 millions d’euros, obligeant le fondateur (et résident suisse) Olivier Manaut à mettre la main à la poche via une augmentation de capital de 6 millions. Quant aux salariés, depuis la fin 2021, ils sont en activité partielle. Alors, quand on lui demande s’il postulerait à nouveau à un tel marché, Collinot n’hésite pas une seconde : « Avec la crise sanitaire, le trafic a fortement baissé. Et il n’y a rien de mieux que la commande publique. Il en va de l’emploi de nos salariés. »

      Ça tombe bien : mi-mai, le ministère vient de relancer un nouveau marché. Pour 4 ans (et 1400 heures de vol par an). Et pour la bagatelle de près de 10 millions d’euros ! Mais Collinot, n’ayant guère apprécié de se voir attribuer le Ravi de plâtre, ne veut plus nous parler. Il aurait préféré, précise-t-il par SMS, que l’on rappelle que « dans cette période difficile, Twin Jet a eu une dimension sociétale en faisant de nombreux vols sanitaires, en maintenant tous les emplois salariés et en proposant aux salariés de nombreuses formations ». De l’argument de haut vol. Qui rappelle le très acide détournement par René Binamé du tube de Dominique A : « Si seulement nous avions /l e courage des avions »…

      (1). Publié sur mars-infos.org

      https://leravi.org - Enquête et Satire - PACA mais pas que.
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  • "Complément d’enquête". Frontières : des milliards, des ratés et des #barbelés

    C’est un chiffre impressionnant : entre 2005 et 2021, le budget de #Frontex, l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes, est passé de 6 à 544 millions d’euros. Multiplié par 90 ! Contrôler les frontières extérieures de l’Europe est devenu la grande affaire des membres de l’Union européenne.

    Tout a basculé en 2015 avec la crise syrienne et les millions de migrants qui ont pris la route, notamment vers le Vieux Continent. Depuis, l’Europe a durci sa politique migratoire, et lourdement investi : Frontex va ainsi embaucher 10 000 hommes d’ici cinq ans. Mais l’agence, sanctionnée pour son manque de transparence, est-elle réellement efficace ? Les traversées illégales des frontières de l’UE sont au plus haut depuis six ans.

    Longtemps taboue, la question des murs « anti-migrants » est désormais d’actualité, portée par la Pologne ou la Hongrie. Pour maîtriser l’immigration, l’Europe confie aussi son destin à ses voisins, comme le Maroc ou la Turquie : une arme diplomatique dont ces pays savent user.

    Mais comment mettre sous cloche un continent entier ? Et à quel #prix ? Car clôtures, barbelés et caméras high-tech font des heureux : les #industriels_de_la_défense. Petites start-up ou multinationales veulent toutes leur part du gâteau : l’Europe va dépenser 23 milliards d’euros d’ici à 2027 pour surveiller ses frontières.

    Du Maroc à la Hongrie, en passant par le Luxembourg, « Complément d’enquête » a parcouru des milliers de kilomètres pour vous raconter cette Europe forteresse et ses zones d’ombres.

    https://www.francetvinfo.fr/replay-magazine/france-2/complement-d-enquete/complement-d-enquete-frontieres-des-milliards-des-rates-et-des-barbeles
    #budget #coût #frontières #contrôles_frontaliers #complexe_militaro-industriel #technologie #profit #business #vidéo #enquête #film

    ping @isskein @karine4

  • Le plus grand immeuble de Suisse porte bien ses 60 années

    Le bâtiment central de la cité du #Lignon mesure plus d’un kilomètre. C’est le plus grand ensemble locatif de Suisse. La #qualité_de_vie est réelle dans ce quartier de 6500 habitants, mais des tensions existent entre anciens, nouveaux venus et jeunes adultes.
    C’était l’année 1974. Michèle Finger se souvient de son arrivée dans la #Cité_du_Lignon. Elle était en voiture avec celui qui deviendrait son mari. La cité s’allongeait devant elle avec son kilomètre de long, ses 2780 logements et 84 allées. « C’était inimaginable, immense. Je n’arrivais pas à visualiser un bâtiment de cette taille », se remémore-t-elle. Une fois à l’intérieur, Michèle est rassurée. « Mon ami était installé dans un quatre pièces. C’était bien conçu et très lumineux. La vue était grandiose, sans vis-à-vis. C’était étrange, on ne se sentait pas coincé dans une cité », raconte cette ancienne comptable, originaire de Porrentruy. Le temps est passé, les enfants sont partis et désormais, Michèle et son mari se préparent à déménager dans une maison avec un encadrement socio-médical, tout en restant près du Lignon.

    Le promoteur et architecte genevois #Georges_Addor (1920-1982), chef de ce projet, prévu initialement pour loger jusqu’à 10’000 personnes, aurait été ravi d’entendre Michèle. « Le bonheur des gens ? C’est la préoccupation la plus grande d’un architecte qui construit un ensemble de cette taille », affirmait-il en 1966 devant les caméras de la RTS. « Dès lors qu’une personne a compris qu’elle aura quatre voisins autour d’elle, avoir 15 étages en-dessous ou au-dessus d’elle ne changera rien », expliquait ce fils de la grande bourgeoisie immobilière du canton. « Il était encarté à gauche et roulait en Maserati », résume au sujet d’Addor, l’architecte #Jean-Paul_Jaccaud. Son bureau a participé à la #rénovation_énergétique de 1200 appartements du Lignon, un travail primé fin 2021 par le magazine alémanique « Hochparterre » et le Musée du design de Zurich. Le travail s’est étalé sur dix ans et aura coûté 100 millions de francs.

    Une construction rapide et fonctionnelle

    Tout dans l’histoire du Lignon s’écrit avec de grandes lettres. Le projet a d’abord été élevé en un temps record. Nous sommes à 5 kilomètres du centre. Il y a de la place pour construire dans des zones tracées par l’État pour organiser le développement du canton sans le miter. Durant la première étape, entre 1963 et 1967, 1846 #appartements sont réalisés. « Aujourd’hui, une telle rapidité serait impensable, comme d’ailleurs la conception d’un projet de ce type », estime Jean-Paul Jaccaud. L’œuvre est moderniste et fonctionnelle. L’État et la commune de #Vernier visent la #mixité_sociale. Le grand serpent du Lignon, dont les allées descendent vers le Rhône par petits degrés offre des appartements conçus à l’identique, qu’il s’agisse d’un logement social ou d’un appartement en propriété par étages. Tous les appartements sont traversants. Les prix sont définis en fonction de la taille des logements et de l’étage. Jean-Paul Jaccaud cite l’exemple d’un 6 pièces proposé à 2800 francs mensuel.

    https://www.youtube.com/watch?time_continue=1&v=pAoTel16ZnQ&feature=emb_logo

    « …comme dans une ruelle du Moyen-Âge »

    On pénètre dans le quartier en passant sous une arche. Le côté intérieur du serpent est silencieux. On chemine à l’abri du trafic. Les parkings sont cachés sous de grandes pelouses. Dessiné par l’architecte-paysagiste Walter Brugger, l’espace public est ponctué de fontaines, de places. Les rez-de-chaussée sont transparents. Un bel escalier en pierre blanche permet de descendre vers le Rhône en pente douce, « comme dans une ruelle du Moyen-Âge », compare Jean-Paul Jaccaud. Georges Addor a bâti en hauteur et en ligne afin de préserver les 280’000 mètres carrés de terrain disponibles pour l’ensemble du projet, avec au bout une surface identique de plancher habitable. Non seulement le bâtiment central est long, mais il est aussi très élevé, atteignant 50 mètres par endroits. Jusqu’aux années 1990, la plus haute tour du Lignon, qui en compte deux, était également la plus haute de Suisse. « Rares sont les bâtiments de ce type à avoir aussi bien vieilli », commente Jean-Paul Jaccaud.

    Du calme, de la lumière et des services à la population

    Au 10e étage de la plus petite des deux tours de la Cité, qui constituent le haut du panier au Lignon, nous visitions un appartement qui vient d’être rénové. Les travaux ont permis d’améliorer la performance énergétique de 40%. La conception initiale n’était pas mauvaise, indique l’architecte genevois. En effet, un immeuble tout en longueur limite le nombre de parois à isoler. En ce matin de janvier, le soleil inonde les pièces. La vue est grandiose, on découvre un bras du Rhône et au-delà le Jura. Autre astuce d’Addor ? Les deux tours en question ont été élevées au point le plus bas, « pour éviter de les rendre dominantes », explique Jean-Paul Jaccaud.

    Tous les habitants du Lignon le disent : la Cité est une ville à la campagne. Elle permet aussi d’y vivre en autonomie. Au cœur du Lignon bat un petit centre commercial d’un étage. Il y a là tout le nécessaire : tea-room, restaurant, brasserie, cordonnier, coiffeur, poste, boucherie, clinique. Et aussi une paroisse protestante, une église catholique, un terrain multi-sport, une ludothèque, un local pour les adolescents et deux groupes scolaires.

    Chaque samedi, l’ancien pasteur Michel Monod, qui vit ici depuis 1973, se poste entre la Migros et la Coop pour saluer les gens. « Techniquement, c’est un ensemble parfait », dit-il. Avant de déplorer le manque de liens entre les habitants, dans cette Cité qui compte plus de 100 nationalités. « C’est le règne de l’individualisme de masse », juge-t-il.

    De jeunes adultes en mal d’un lieu de vie

    Michel Monod co-dirige le Contrat de quartier du Lignon, dont le but est d’aider les gens à réaliser des projets communautaires. Chaque jour, il rejoint un auvent situé sous la salle de spectacle du Lignon. Là, à l’abri des regards, de jeunes adultes du quartier se réunissent, se réchauffant parfois au feu d’un brasero artisanal. Michèle Finger connaît le lieu. Ce regroupement de jeunes qui fument et boivent des bières en écoutant du rap suscite chez elle un sentiment d’insécurité, dans cette cité où elle se reconnaît moins qu’avant. Certes, le loyer des époux Finger est dérisoire, soit 1200 francs pour un cinq pièces, charges et garage compris. Mais cette habitante, qui s’investit dans plusieurs associations du quartier, déplore des détritus s’amoncelant devant des lieux de collecte, des crachats dans l’ascenseur et le fait que des jeunes squattent le bas des allées. « Je ne connais pas les locataires installés récemment dans mon immeuble. Les gens ne prennent même plus la peine de relever le journal du quartier », dit-elle, pointant un manque d’intérêt des « nouveaux étrangers » arrivant au Lignon.

    Travailleur social au Lignon depuis 2012, Miguel Sanchez, 39 ans, connaît ce discours et comprend ce malaise. « Avec ses loyers peu chers, le Lignon offre une solution à des personnes issues de la migration. Cette mixité ethnique et sociale, dans un contexte général économique plus tendu, rend peut-être la création de liens plus compliquée que par le passé », analyse-t-il. « Mais le Lignon n’est pas une cité dortoir, comme il en existe en France. Elle est équipée et entretenue. D’ailleurs les jeunes sont fiers de vivre ici. Il n’y a jamais eu de gros souci de sécurité ou de criminalité. Il faut plutôt parler d’incivilités », décrit l’animateur socio-culturel.

    En fait, Michel Monod prête aux jeunes du brasero des qualités qui feraient défaut aux résidents du Lignon. « Ils sont extrêmement fidèles en amitié. Des gens me disent, enfermez-les ! Je leur dis : ce sont vos enfants. » Lui aussi, lors de son arrivée au Lignon avait trouvé le quartier hors de proportion. « Je m’étais dit : ce n’est pas possible de vivre comme dans une termitière et je m’étais donné comme mission de réunir les gens. » Mais lui aussi aime le Lignon.

    https://www.swisscommunity.org/fr/nouvelles-et-medias/revue-suisse/article/le-plus-grand-immeuble-de-suisse-porte-bien-ses-60-annees
    #Le_Lignon #Genève #Suisse #urbanisme #architecture #logements_sociaux #prix #Walter_Brugger #espace_public #Rhône #autonomie #liens #liens_sociaux #incivilités #sécurité #criminalité

  • How Russia’s War In Ukraine Threatens Wheat Shortages, Rising Food Prices - Bloomberg
    https://www.bloomberg.com/news/features/2022-04-05/will-russia-s-war-in-ukraine-cause-wheat-shortages-raise-food-prices-more

    Disruptions in the flows of grains and oilseeds — staples for billions of people and animals across the world — are sending prices soaring. Countries fearing potential food shortages are scrambling to find alternative suppliers and new trades are emerging.

    #ukraine_food via Filou

  • #Vomir #Canada : D’ici 2028, les vaches laitières devraient pouvoir mettre bas sans être enchaînées Julie Vaillancourt - Radio Canada
    https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1871152/vaches-laitieres-enchainees-agriculture

    Au Canada, la majorité des vaches laitières sont élevées en stabulation entravée, ce qui implique qu’elles mettent souvent bas, enchaînées, dans des stalles trop petites pour elles. Ça pourrait changer : les experts recommandent maintenant de leur donner plus de liberté de mouvement pour améliorer leur bien-être.


    Il manque d’espace dans les stalles régulières pour que les vaches mettent bas à leur aise. Photo : Radio-Canada

    La scène est désolante aux yeux du profane : une vache, la chaîne au cou, qui met bas dans sa stalle, souvent trop petite pour lui permettre de se mouvoir avec agilité. L’animal tente de se retourner pour voir son veau, mais son carcan métallique l’entrave partiellement ; le producteur laitier doit apporter le nouveau-né en face de sa mangeoire pour que la vache puisse enfin le lécher.

    Une action plus fréquente au Québec qu’ailleurs au Canada, car c’est dans la province qu’on retrouve le plus de fermes en stabulation entravée, un système où chaque vache garde toute sa vie une place fixe dans l’étable, enchaînée à une barre d’attache.


    Un des principes les plus importants, pour le vétérinaire Edwin Quigley, est que les vaches doivent faire le plus possible d’exercice. Photo : Radio-Canada

    Pour le vétérinaire Edwin Quigley, qui pratique dans la région de Chaudière-Appalaches, le fait que 72 % des vaches de la province vivent ainsi (contrairement à la moyenne canadienne de 44 %) est consternant. “Des vaches attachées dans un espace de quatre pieds par six à l’année longue et qui ne changent pas de place, il manque quelque chose.”

    Ce “quelque chose”, c’est la liberté de mouvement, beaucoup plus présente en stabulation libre, une façon d’élever les bovins laitiers dans des espaces à aire ouverte. Avec ce modèle, les vaches disposent de logettes individuelles où elles vont manger ou se reposer à leur guise, sans jamais être immobilisées de force.

    Les chiffres parlent d’eux-mêmes : en stabulation entravée, la prévalence de blessures aux jarrets chez l’animal est de 56 % comparativement à 47 % en stabulation libre, de 43 % pour les blessures aux genoux comparativement à 24 % en stabulation libre.

    Conséquence, entre autres, d’une surface de couchage souvent trop abrasive en comparaison avec la litière de plus de 15 centimètres d’épaisseur qu’on retrouve régulièrement dans les étables en stabulation libre.

    Quant aux 33 % de blessures au cou en stabulation entravée, elles trouvent évidemment leur source dans le port constant de la chaîne.


    Au Canada, les vaches qui passent leur vie dans des stalles entravées ont plus de blessures qu’avec d’autres systèmes d’élevage. Photo : Radio-Canada

    Le “Code de pratique pour le soin et la manipulation des bovins laitiers”, un outil de référence à l’intention des producteurs laitiers canadiens, est actuellement en révision, puisque la dernière mouture date de 2009.

    Nous avons obtenu la version préliminaire du nouveau code, dont l’élaboration sera terminée d’ici la fin de l’année. Elle propose dorénavant de loger les vaches laitières au pâturage ou en stabulation libre afin qu’elles aient la possibilité de se mouvoir davantage. Quant au vêlage, les producteurs devraient obligatoirement permettre aux vaches de mettre bas en stabulation libre d’ici 2028, s’il n’en tient qu’aux experts canadiens qui se penchent présentement sur la question.

    https://fr.scribd.com/document/566235947/Code-de-pratique-pour-le-soin-et-la-manipulation-des-bovins-laitiers#down

    Ce serait la moindre des choses aux yeux d’Edwin Quigley, qui supervise présentement l’agrandissement de l’étable d’un de ses clients, Dave Kelly, un producteur laitier de Saint-Nazaire-de-Dorchester, dans la région de Chaudière-Appalaches.


    Dave Kelly, producteur laitier, veut améliorer le bien-être de ses vaches et collabore avec son vétérinaire pour changer les choses. Photo : Radio-Canada

    M. Kelly tente d’améliorer le bien-être de ses vaches à la mesure de ses moyens. “Il y a des gens qui pensent qu’on utilise les vaches comme des machines, moi, je ne suis pas d’accord avec ça, mais il faut qu’elles soient bien dans ce qu’elles ont à faire, c’est important.”

    Au programme chez lui, des travaux de construction pour bâtir une section où ses vaches pourront mettre bas en stabulation libre : un enclos de groupe où les vaches auront le loisir de bouger à leur guise pendant le vêlage sans être gênées par l’étroitesse de leurs stalles ou, pire encore, leurs chaînes.


    En stabulation, la litière disposée sur le sol rend la surface plus confortable et aide à éviter l’abrasion. Photo : Radio-Canada

    Un virage pris par de plus en plus de producteurs laitiers du Québec qui, massivement, convertissent leurs troupeaux à l’élevage en stabulation libre pour l’ensemble de leurs opérations, et non uniquement le vêlage. “On fait du rattrapage, soutient Daniel Gobeil, président des Producteurs de lait du Québec.”

    “Des vaches attachées toute leur vie, on tend à éliminer ces pratiques-là. On est à la croisée des chemins en termes de bien-être animal”, conclut-il.

    #chaînes #beurk #boycott #alimentation #sirop_d'érable #assiette #malbouffe #agriculture #élevage #élevage #alimentation #vaches #viande #agrobusiness #lait #agro-industrie #quelle_agriculture_pour_demain_ #violence #torture #capitalisme

    • Monsieur trudeau, vous êtes une honte pour la démocratie ! Veuillez nous épargner votre présence Christine Anderson, députée européenne (Allemande) au Parlement européen

      Après parlé avec des parlementaires européens lors de sa visite officielle de deux jours à Bruxelles, la parole a été donnée à la députée allemande Christine Anderson qui a interpellé le Premier ministre canadien, disant qu’il ne devrait pas pouvoir s’exprimer au Parlement européen.

      Anderson a accusé Trudeau d’admirer ouvertement la dictature de base chinoise et a appelé le Premier ministre pour avoir piétiné “les droits fondamentaux en persécutant et en criminalisant ses propres citoyens en tant terroristes simplement parce qu’ils osent s’opposer à son concept pervers de démocratie”.

      le Canada est passé du statut de symbole du monde moderne à celui de « symbole de la violation des droits civils » sous la « chaussure semi-libérale » de Trudeau.

      Elle a terminé son discours en disant à Trudeau qu’il était « une honte pour toute démocratie. Veuillez nous épargner votre présence.
      https://www.youtube.com/watch?v=vtnfcVAZB6I


      Le député croate Mislav Kolakusic a également dénoncé Trudeau pour avoir violé les droits civils des Canadiens qui ont participé aux manifestations du « Freedom Convoy ». Lors de son propre discours cinglant devant ses collègues parlementaires européens, Kolakusic a déclaré à Trudeau que ses actions en promulguant la loi sur les urgences étaient « une dictature de la pire espèce ».
      Trudeau s’est assis et a écouté Kolakusic informer le premier ministre que de nombreux Européens l’ont vu « piétiner des femmes avec des chevaux » et bloquer « les comptes bancaires de parents célibataires ».
      L’eurodéputé roumain Christian Terhes a également refusé d’assister au discours de Trudeau aux autres membres de l’UE.

      Source :
      https://thecanadian.news/vous-etes-une-honte-un-depute-allemand-interpelle-trudeau-en-face-lors
      https://twitter.com/lemairejeancha2/status/1507033759278940161
      https://vk.com/wall551774088_43985?z=video640533946_456239116%2Fa7ea5429d710b84557%2Fpl_post_55

      NDR Cette députée allemande est de droite, mais la vérité ne fait pas de politique.

       #canada #justin_trudeau #trudeau la #violence #contrôle_social #police #dictature #violences_policières #violence_policière #répression #violence #maintien_de_l'ordre #brutalité_policière #manifestation #violences_policieres

    • Salaire mirobolant et logement de fonction : le train de vie princier du directeur du Fresnoy à Tourcoing Pierre Leibovici
      https://www.mediacites.fr/lu-pour-vous/lille/2022/03/24/salaire-mirobolant-et-logement-de-fonction-le-train-de-vie-princier-du-di

      Les angles morts, Quelques obscurcissements, Prolongations… Le titre de ces romans signés Alain Fleischer était-il prémonitoire ? Il résonne en tout cas avec le rapport publié, vendredi 18 mars, par la Chambre régionale des comptes des Hauts-de-France sur l’association Le Fresnoy — Studio national des arts contemporains, dont il est le directeur.


      Ouvert au public en 1997, l’imposant bâtiment du Fresnoy, situé dans le quartier du Blanc Seau à Tourcoing, abrite une école supérieure d’art ainsi qu’un lieu de représentation et de production (cinéma, danse, photo, arts numériques). L’établissement, imaginé dès 1987 par l’artiste Alain Fleischer à la demande du ministère de la Culture, est aujourd’hui mondialement reconnu. Trente-cinq ans plus tard, et malgré son âge de 78 ans, il n’a toujours pas lâché le bébé.

      Un salaire brut de 91 000 euros
      « Le cinéaste », « l’auteur », « le photographe, le plasticien » : le parcours d’Alain Fleischer est fièrement détaillé sur le site Internet du Fresnoy, qui lui consacre une page entière. « L’ambassadeur du Fresnoy », ajoute la Chambre régionale des comptes dans son rapport : « il en est pilote stratégique, notamment pour l’évolution vers le projet de StudioLab international [un programme de collaboration entre artistes et scientifiques], il initie les grands partenariats et exerce les fonctions de responsable pédagogique ».

      « Le montant de sa rémunération ne s’appuie pas sur son contrat de travail »
      Pour remplir ces missions, Alain Fleischer bénéficie d’un confortable salaire de 91 000 euros bruts par an, soit 7 600 euros bruts par mois. Un montant stable sur la période allant de 2016 à 2019, sur laquelle se sont penchés les magistrats financiers, mais qui interroge : « le montant de sa rémunération ne s’appuie sur aucun élément présent dans son contrat de travail qui date de plus de 30 ans, pas plus que des avenants ultérieurs dont le dernier date, en tout état de cause, de 2002 ». La Chambre demande donc instamment une révision du contrat de travail du directeur et sa validation par le conseil d’administration de l’association.

      Un immeuble pour logement de fonction
      Dans la suite de leur rapport, les magistrats recommandent aussi que le conseil d’administration valide la mise à disposition d’un logement de fonction pour Alain Fleischer. Ou plutôt d’un « immeuble d’habitation », peut-on lire sans plus de précisions. Ce bâtiment, ainsi qu’un autre d’une surface de 11 000 m2, est la propriété de la région Hauts-de-France, principal financeur du Fresnoy.

      Quelle est la valeur de l’avantage en nature consenti à l’association et à son directeur ? Difficile à dire : la dernière évaluation, réalisée en 2002, tablait sur un coût de 455 823 euros par an. Un montant sans doute bien plus élevé vingt ans plus tard, d’autant que la région prend à sa charge les travaux et la majeure partie de l’entretien des bâtiments. « Une réévaluation de la valeur de ces biens immobiliers qui figurent dans les comptes de l’association serait nécessaire », acte la Chambre régionale des comptes.

      Gouvernance à clarifier
      Autre recommandation adressée au studio d’art contemporain : la clarification de la gouvernance de l’association. À l’heure actuelle, un conseil d’administration cohabite avec une assemblée générale. Mais les deux instances, dont les missions diffèrent, sont composées des mêmes membres : 10 membres de droit et 14 personnalités qualifiées. Pour mettre fin à cette « confusion », les magistrats appellent donc l’association à revoir ses statuts.

      Cette dernière recommandation vaut aussi pour la rémunération de certains membres du conseil d’administration. Car, d’après la Chambre régionale des comptes, « des membres du conseil d’administration, du fait de leurs fonctions et qualités professionnelles et artistiques, peuvent être amenés à remplir le rôle de commissaire de certaines expositions du Fresnoy ou à effectuer des missions de représentation, donnant lieu à versement d’émoluments ». Et de conclure, en des termes toujours policés, que l’association devrait réviser ses statuts « par souci de sécurité juridique ».

      Sollicité à l’issue de l’audit des magistrats financiers, le président de l’association, Bruno Racine, s’est engagé à suivre toutes leurs recommandations et à mettre à jour les statuts dans un délai de six mois. « Cette révision permettra de préciser les modalités de recrutement du directeur », a-t-il affirmé. Écrivain et haut-fonctionnaire, aujourd’hui âgé de 70 ans, Bruno Racine a toutes les raisons de prêter attention aux recommandations de la Chambre régionale des comptes : il a un temps été conseiller-maître à la Cour des comptes.

      #Fresnoy #Tourcoing #argent #fric #art #art_press #claude_leveque @legrandmix #art_contemporain pour #bobo #ruissèlement #ruissellement #photographie #guerre_aux_pauvres

    • Énergie : au Royaume-Uni, même les pommes de terre deviennent trop chères LePoint.fr
      https://www.msn.com/fr-fr/finance/other/%C3%A9nergie-au-royaume-uni-m%C3%AAme-les-pommes-de-terre-deviennent-trop-ch%C3%A8res/ar-AAVqibD?ocid=msedgdhp&pc=U531#

      Durant des siècles, les pommes de terre ont été, par excellence, l’aliment de base des populations pauvres. Faciles à cultiver, peu chères à l’achat et nourrissantes, elles étaient l’élément de base ? sinon le seul - de populations entières. À tel point qu’au XIXe siècle, l’apparition du mildiou en Irlande ? une maladie qui anéantit presque totalement la culture de la pomme de terre ? provoqua une famine ? et la mort de près d’un million de personnes.

      Par les temps qui courent, cependant, la pomme de terre semble perdre son avantage auprès des populations dans le besoin. En effet, selon The Guardian, https://www.theguardian.com/business/2022/mar/23/food-bank-users-declining-potatoes-as-cooking-costs-too-high-says-icela de plus en plus de personnes ayant recours aux banques alimentaires refusent les pommes de terre, ne pouvant se permettre la dépense énergétique nécessaire à la longue cuisson de ces dernières.

      Une inflation record en 30 ans
      « C’est incroyablement inquiétant », a expliqué le gérant d’une chaîne de supermarchés low cost sur la BBC. « Nous entendons parler de certains utilisateurs de banques alimentaires qui refusent des produits tels que les pommes de terre et d’autres légumes-racines parce qu’ils n’ont pas les moyens de les faire bouillir », détaille-t-il, parlant de « la crise du coût de la vie » comme du « plus important problème intérieur » au Royaume-Uni.

      Outre-Manche, le coût de la vie continue d’augmenter rapidement, rapporte The Guardian. L’inflation a atteint 6,2 % en février, selon les chiffres de l’Office for National Statistics, une première depuis trente ans. Elle est alimentée par la hausse du coût de l’essence et du diesel et d’un large éventail de produits de nourriture aux jouets et jeux. En 2021, l’inflation spécifique aux produits alimentaires a été de 5,1 % au Royaume-Uni.

      #pauvreté #prix de l’#énergie #spéculation #capitalisme #marché_libre-et_non_faussé #électricité #spéculation #alimentation #banques_alimentaires #pommes_de_terre

  • 2 euros le litre de #carburant, ce n’est qu’une étape
    http://carfree.fr/index.php/2022/03/14/2-euros-le-litre-de-carburant-ce-nest-quune-etape

    Depuis l’invasion de l’Ukraine par la #russie, le #prix du carburant n’arrête pas d’augmenter, pour atteindre et désormais dépasser les 2 euros/litre, que ce soit pour l’essence ou le diesel. Lire la suite...

    #Fin_de_l'automobile #Fin_du_pétrole #dépendance #économie #énergie #essence #Europe #guerre #pétrole #politique #société