1.Le conclusioni del Consiglio dei ministri dell’interno dell’Unione Europea riuniti a Lussembugo lo scorso 8 giugno sono state propagandate come una vittoria della linea tenuta dal governo Meloni fino alle ultime ore di una convulsa trattativa, che si è conclusa con una spaccatura che avrà certamente ripercussioni sulla prossima fase di codecisione sulle politiche migratorie e sulle procedure di asilo, nella quale analoghe divisioni si potrebbero riprodurre all’interno del Parlamento europeo.
La materia sulla quale i ministri del’interno dei diversi paesi europei hanno alla fine trovato una soluzione di compromesso, su cui il ministro Piantedosi ha espresso soddisfazione, riguarda buona parte della vigente legislazione europea in materia di imigrazione ed asilo, sia per quanto riguarda la cd. dimensione esterna, con riferimento ai paesi terzi di origine e transito, che per quanto concerne i cd. meccanismi di solidarietà, in materia di rimpatri forzati e al fine di contrastare i cd. movimenti secondari, con una sostanziale rivisitazione del vigente Regolamento Dublino III del 2013. A tale riguardo si prevede espressamente che “Gli Stati membri hanno piena discrezionalità quanto al tipo di solidarietà cui contribuiscono. Nessuno Stato membro sarà mai obbligato a effettuare ricollocazioni”. Una sconfitta che il governo italiano non può nascondere dietro i propositi di espellere o respingere i richiedenti asilo denegati nei paesi di transito.
I ministri dell’interno dei diversi paesi dell’Unione Europea hanno così trovato a maggioranza una intesa che però appare come una scatola vuota, se si pensa alla mole delle normative (dal Regolamento frontiere Schengen alla Direttiva 2008/115/ CE sui rimpatri) che dovrebbero essere modificate per approvare definitivamente quanto si è deciso a Lussemburgo, ed all’esiguo tempo che manca in vista delle prosime elezioni europee, dopo tre anni di stallo seguiti alla prima versione del Patto sull’immigrazione e l’asilo adottata dalla Commissione nel 2020. Inoltre la spaccatura tra i paesi di Visegrad Ungheria e Polonia, ed i conservatori del gruppo della Meloni, non lasciano presagire risultati definitivi nel breve periodo.
2. La proposta di regolamento sulla procedura di asilo (Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council on asylum and migration management and amending Council Directive (EC) 2003/109 and the proposed Regulation (EU) XXX/XXX [Asylum and Migration Fund] tenta di stabilire una procedura comune in tutta l’UE che gli Stati membri devono seguire quando le persone fanno richiesta di protezione internazionale. Si snelliscono le disposizioni procedurali (ad esempio la durata della procedura) e si stabiliscono norme per i diritti del richiedente asilo (ad esempio, la fornitura del servizio di un interprete o il diritto all’assistenza e alla rappresentanza legali). La procedura di frontiera si applicherebbe quando un richiedente asilo presenta domanda a un valico di frontiera esterna, a seguito di arresto in relazione a un attraversamento illegale della frontiera e in seguito allo sbarco dopo un’operazione di ricerca e soccorso. Ma anche quando proviene da un paese terzo ritenuto sicuro. La procedura è obbligatoria per gli Stati membri se il richiedente rappresenta un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico, ha ingannato le autorità con informazioni false o nascondendo informazioni e se il richiedente ha una nazionalità di un paese con un tasso di riconoscimento delle richieste di asilo inferiore al 20%.
Il punto sul quale in Italia il governo Meloni ed il ministro dell’interno Piantedosi hanno insistito di più, a livello di comunicazione, ma anche come base per una intensa attività diplomatica che conducono da mesi senza risultati effettivi, riguardava la possibilità di rinviare nei paesi di transito i richiedenti asilo denegati dopo la procedura in frontiera, già prevista in modo più rigoroso dalla legge 50 del 2023 (ex Decreto Cutro). Una legge approvata senza il parere delle competenti Comissioni Affari costituzionali, che sta già facendo vitime, con espulsioni comminate dai prefetti “in automatico” a persone già inserite in Italia, che chiedono il rinnovo del permesso di soggiorno per protezione speciale, ma che ad oggi appare in contrasto non solo con importanti principi fondamentali del nostro ordinamento (come gli articoli 10, 13,24,32,113 della Costituzione), ma anche con molti dei principi di garanzia ribaditi con grande nettezza dalle proposte legislative adottate a Lussemburgo dal Consiglio dei ministri dell’interno dell’Unione Europea.
Durante l’iter di conversione del decreto legge in Parlamento, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR- UNHCR) aveva inviato una “Nota tecnica” al governo, nel tentativo di avviare un confronto su diversi punti “critici” che non rispettavano norme internazionali o Direttive dell’Unione Europea. Come ha dichiarato la rappresentante dell’UNHCR per l’Italia, “Avevamo rappresentato queste criticità, confidando che nel procedimento legislativo alcuni correttivi potessero essere apportati”.
Nella sua ultima nota tecnica, l’UNHCR evidenzia innanzitutto come la nuova legge 50/2023 “ estende la preesistente procedura accelerata di frontiera ai richiedenti provenienti da Paesi di origine designati come sicuri e dispone il trattenimento per quei richiedenti, tra coloro che siano stati avviati a tale procedura, i quali non abbiano consegnato il “passaporto o altro documento equipollente” o non prestino “idonea garanzia finanziaria”. Il trattenimento avverrà nei punti di crisi (hotspot) esistenti presso i maggiori luoghi di sbarco, nelle strutture analoghe ai punti di crisi che verranno individuate o nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) che si trovino in prossimità della frontiera. I minori e tutte le altre persone con esigenze particolari, come da disposizioni vigenti, sono esonerati da ogni forma di procedura accelerata”.
L’ACNUR dopo una generale considerazione positiva delle procedure accelerate in frontiera, soprattuto nei casi in cui appare maggiormente probabile l’esito positivo della domanda di protezione, “Raccomanda, tuttavia, di incanalare in procedura di frontiera (con trattenimento) solo le domande di protezione internazionale che, in una fase iniziale di raccolta delle informazioni e registrazione, appaiano manifestamente infondate.
In particolare, la domanda proposta dal richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro non deve essere incanalata in tale iter quando lo stesso abbia invocato gravi motivi per ritenere che, nelle sue specifiche circostanze, il Paese non sia sicuro. Si sottolinea, a tal fine, la centralità di una fase iniziale di screening, volta a far emergere elementi utili alla categorizzazione delle domande (triaging) e alla conseguente individuazione della procedura più appropriata per ciascun caso.
3. La nozione di Paese terzo sicuro è presente nella legislazione eurounitaria con la direttiva 2005/85/Ce del Consiglio del 1° dicembre 2005. L’art. 29 prevedeva che il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, potesse adottare un elenco comune minimo dei paesi terzi considerati dagli Stati membri paesi d’origine sicuri. Tale disposizione fu annullata dalla Corte di giustizia perché introduceva una riserva di competenza in favore del Consiglio, con semplice obbligo di consultazione del Parlamento europeo, che non poteva essere prevista da un atto derivato.
Con la cd. direttiva procedure (dir. 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013) la traccia è stata ripresa e ampliata.
Gli articoli da 36 a 39 disciplinano infatti in termini molto dettagliati i contorni della nozione di Paese di origine sicuro e le conseguenze di tale nozione sulle procedure di valutazione delle domande.
L’art. 36 detta le condizioni soggettive alle quali è subordinato il riconoscimento della natura di Paese sicuro di un determinato richiedente: questi deve essere cittadino del Paese di provenienza definito sicuro o apolide che in quel Paese soggiornasse abitualmente; inoltre, non deve avere invocato gravi motivi a lui riferibili, tesi a escludere che il Paese di origine sia sicuro.
L’art. 37 fa rinvio all’allegato I della stessa direttiva, dove sono dettate le condizioni alle quali è possibile designare un Paese come sicuro. Il testo dell’Allegato I è il seguente: “Un paese è considerato paese di origine sicuro se, sulla base dello status giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE, né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
Per effettuare tale valutazione si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui viene offerta
protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante:
a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del paese ed il modo in cui sono applicate;
b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e sociali
L’art. 38 della Direttiva atualmente in vigore, fino a quando non verrà espressamente abrogata, fornisce il: “Concetto di paese terzo sicuro”.
1. Glic Stati membri possono applicare il oncetto di paese terzo sicuro solo se le autorità competenti hanno accertato che nel paese terzo in questione una persona richiedente protezione internazionale riceverà un trattamento conforme ai seguenti criteri:
a) non sussistono minacce alla sua vita ed alla sua libertà per ragioni di razza, religione,
nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale;
b) non sussiste il rischio di danno grave definito nella direttiva 2011/95/UE;
c) è rispettato il principio di «non-refoulement» conformemente alla convenzione di Ginevra;
d) è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né
trattamenti crudeli, disumani o degradanti, sancito dal diritto internazionale; e
e) esiste la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e, per chi è riconosciuto come rifugiato,
ottenere protezione in conformità della convenzione di Ginevra.
2. L’applicazione del concetto di paese terzo sicuro è subordinata alle norme stabilite dal diritto nazionale, comprese:
a) norme che richiedono un legame tra il richiedente e il paese terzo in questione, secondo le quali sarebbe ragionevole per detta persona recarsi in tale paese;
b) norme sul metodo mediante il quale le autorità̀ competenti accertano che il concetto di paese terzo sicuro può̀ essere applicato a un determinato paese o a un determinato richiedente. Tale metodo comprende l’esame caso per caso della sicurezza del paese per un determinato richiedente e/o la designazione nazionale dei paesi che possono essere considerati generalmente sicuri;
c) norme conformi al diritto internazionale per accertare, con un esame individuale, se il paese terzo interessato sia sicuro per un determinato richiedente e che consentano almeno al richiedente di impugnare l’applicazione del concetto di paese terzo sicuro a motivo del fatto che quel paese terzo non è sicuro nel suo caso specifico. Al richiedente è altresì data la possibilità di contestare l’esistenza di un legame con il paese terzo ai sensi della lettera a)”
4. Secondo la nuova proposta legislativa sulle procedure di asilo, approvata dal Consiglio dei ministri del’interno dell’Unione Europea a Lussemburgo, gli Stati membri dovrebbero avere la possibilità di applicare il concetto di terzo sicuro paese […] come motivo di inammissibilità ove esista la possibilità per il richiedente[…] di chiedere e, se ne ricorrono i presupposti, di ricevere effettivo protezione in un paese terzo, dove la sua vita e la sua libertà non sono minacciate conto di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica, dove lui o lei non è soggetto a persecuzione né affronta un rischio reale di danno grave come definito nel regolamento (UE) n. XXX/XXX [Nuovo Regolamento sulle Qualifiche ancora da approvare] ed è tutelato contro il respingimento e contro l’allontanamento, o contro le violazioni del diritto alla protezione dalla tortura e da trattamenti crudeli, inumani o degradanti prevista dal diritto internazionale.
Si aggiungono poi nuove condizioni per considerare inammissibile una domanda di asilo.
Si prevede in particolare che Il concetto di un paese terzo sicuro può essere applicato solo se esiste […] un collegamento tra il richiedente e […] il paese terzo in base al quale sarebbe […] ragionevole[…] che il richiedente […] si rechi in quel paese […], compreso il fatto che […] ha transitato […] in quel paese terzo. La connessione in particolare tra il richiedente e il paese terzo sicuro potrebbe essere considerata stabilita dove i membri della famiglia del richiedente siano presenti in quel paese o dove il richiedente si è stabilito o ha soggiornato in quel paese. Nella fase convulsa di ricerca del compromesso finale, nella notte dei ministri del’interno a Lussemburgo, è saltata la previsione sostenuta dall’Italia che anche un transito temporaneo avrebbe potuto comportare l’acertamento di questa “commessione” e dunque comportare l’inammissibilità della domanda di protezione già nella procedura in frontiera e la possibilità di respingimento o espulsione con immediato accompagnamento forzato. La posizione dei cittadini di paesi terzi “in transito” rimane comunque molto a rischio e sarà sicuramente oggetto di trattative in sede di rinegoziazione degli accordi bilaterali già esistenti.
Al Considerando 37b) si prevede comunque che, “Nel valutare se i criteri per una protezione effettiva come stabilito nel presente Regolamento sono soddisfatte da un paese terzo, l’accesso ai mezzi di sussistenza sufficienti a mantenere un tenore di vita adeguato dovrebbe essere inteso come comprensivo dell’accesso a vitto, vestiario, alloggio o alloggio e il diritto a svolgere un’attività lavorativa remunerata a condizioni non meno favorevoli di quelle previste per gli stranieri del Paese terzo generalmente nelle stesse circostanze”. Anche nella proposta di nuovo Regolamento oltre alla situazione dei transitanti nei paesi terzi ritenuti sicuri si deve aggiungere anche la considerazione della maggiore ampiezza operativa che si sta attribuento, anche a livello interno, alla categoria di paese di origine sicuro.
Al Considerando (46) si aggiunge che […] Dovrebbe essere possibile designare un paese terzo come paese di origine sicuro con eccezioni per parti specifiche del suo territorio o categorie chiaramente identificabili di persone. Inoltre, il fatto che un paese terzo sia incluso in una lista di paesi di origine sicuri non può stabilire una garanzia assoluta di sicurezza per i cittadini di tale paese paese, anche per coloro che non appartengono a una categoria di persone per le quali tale è fatta eccezione, e quindi non dispensa dalla necessità di condurre un’adeguata esame individuale della domanda di protezione internazionale. Per sua stessa natura, la valutazione sottesa alla designazione non può che tener conto del carattere generale, civile, circostanze legali e politiche in quel paese e se autori di persecuzioni, torture o trattamenti o punizioni inumani o degradanti sono soggetti a sanzione quando ritenuti responsabili in quel paese. Per questo motivo, dove il richiedente può dimostrare elementi che giustificano il motivo per cui il concetto di paese di origine sicuro non è applicabile a lui, la designazione del paese come sicuro non può più essere considerata rilevante per lui o lei.
5. Il governo italiano si vanta di avere costretto l’Unione europea a spostare l’attenzione dai problemi che interssano maggiormente agli Stati continentali, e dunque dai cd. “movimenti secondari” alla questione dei “movimenti primari”, con particolare riferimento alle frontiere esterne del Mediteraneo. La prospettiva che si persegue, magari in collaborazione con l’UNHCR, che però ha posizioni di garanzia molto precise sul punto, è di favorire la “deportazione” in questi paesi, ritenuti “sicuri”, di immigrati irregolari di diversa nazionalità, dopo il diniego sulla domanda di protezione, alla fine della “procedura in frontiera”. Sfugge evidentemente alla premier Meloni, o si preferisce nascondere, la situazione dei diritti umani nei paesi nordafricani di transito, come l’Egitto, la Libia, la Tunisia, l’Algeria, che pure ministri e sottosegretari italiani hanno intensamente frequentato in questi ultimi mesi. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Adesso ci riproveranno a Tunisi, con la visita in programma per domenica 11 giugno in cui la Meloni sarà accompagnata adirittura da Ursula Von der Layen a nome della Commissione europea e dal premier olandese Rutte.
Nella propaganda governativa si omette di ricordare che nessun accordo di riammissione stipulato con paesi terzi, anche quello tuttora vigente con la Tunisia, prevede deportazioni di cittadini provenienti da altri Stati e giunti irregolarmente nel nostro territorio, o che hanno ricevuto un diniego sulla richiesta di protezione internazionale. A parte la considerazione che l’ingresso per ragioni di soccorso non può essere equiparato all’ingresso clandestino. E questo lo chiarisce bene la Corte di Cassazione con la sentenza sul caso Rackete n.6626/2020. Si vedrà se la prossima missione della Meloni a Tunisi, in compagnia della Presidente della Commissione europea convincerà l’autocrate Saied che sta espellendo sistematicamente dal suo paese tutti i migranti subsahariani, ad accettare di riprendersi cittadini non tunisini sbarcati in Italia. Ed è pure abbastanza improbabile che aumenti la quota di cittadini tunisini che, in base agli accordi vigenti, vengono espulsi o respinti (respingimento differito) verso Tunisi, sulla base degli accordi bilaterali già vigenti con l’Italia. Due voli alla settimana, o poco più per circa sessanta persone. Difficile immaginare una intensificazione dei rimpatri con accompagnamento di polizia. In questi casi, come osserva il Garante nazionale per le persone private della libertà personale in un recente rapporto, “L’aspetto di maggiore criticità è che “le regole dell’attività di rimpatrio forzato da parte della Polizia di Stato sono in larga parte definite da semplici circolari e disposizioni interne e non da fonti normative di rango primario. Manca cioè un quadro legislativo che specifichi le regole operative e ciò ha inevitabili ricadute”. Per esempio, “la disciplina compiuta del possibile ricorso all’impiego della forza, al di là di principi generali, che definisca i possibili strumenti contenitivi, le modalità e la durata del loro impiego. Così come mancano disposizioni operative sui controlli di sicurezza, la cui attuazione talvolta si avvicina a una perquisizione personale, pratica eccezionale anche in contesti ben più problematici”. Ma anche in Tunisia la discrezionalità di polizia sconfina sempre più spesso nell’arbitrio.
Come denuncia l’ASGI, “Alla luce dell’attuale trasformazione autoritaria dello Stato tunisino e dell’estrema violenza e persecuzione della popolazione nera, delle persone in movimento, degli oppositori politici e degli attori della società civile, noi, le organizzazioni firmatarie, rilasciamo questa dichiarazione per ricordare che la Tunisia non è né un paese di origine sicuro né un paese terzo sicuro e pertanto non può essere considerato un luogo sicuro di sbarco (Place of Safety, POS) per le persone soccorse in mare”.
Come riferisce il sito Meltingpot, a margine di un diniego dopo la richiesta di protezione internazionale alla competente Commissione territoriale, il Tribunale di Cagliari ha accolto la richiesta di sospensiva di un cittadino tunisino. La situazione è peculiare e occorrerà attendere il merito per approfondirla ma il decreto è significativo perché, il Tribunale “smentisce” il fatto che la Tunisia sia un Paese Sicuro“. Si tratta naturalmente di decisioni che valgono per casi individuali, e sarà fondamentale provare la situazione di ciascuna persona che in frontiera, ma anche nei CPR, possa risultare destinataria di un provedimento di allontanbamento forzato verso la Tunisia.
6. La seconda proposta legislativa su nuovi criteri di gestione in materia di immigrazione ed asilo di portata più ampia approvata a Lussemburgo lo scorso 8 giugno (Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council on asylum and migration management and amending Council Directive (EC) 2003/109 and the proposed Regulation (EU) XXX/XXX [Asylum and Migration Fund] non prevede particolari impegni dell’Unione Europea per sostenere le politiche di rimpatrio forzato di citt che adini di paesi terzi verso gli Stati da cui sono transitati prima di entrare in territorio europeo. Materia che richiederebbe una modifica radicale della Direttiva rimpatri 2008/115/CE.
Il nuovo regolamento sulla gestione della migrazione e dell’asilo dovrebbe sostituire, una volta concordato, l’attuale regolamento Dublino che stabilisce norme che determinano quale Stato membro è competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale. Il nuovo Regolamento dovrebbe semplificare queste regole e ridurre i termini. Ad esempio, l’attuale complessa procedura di ripresa in carico finalizzata al trasferimento di un richiedente nello Stato membro responsabile della sua domanda sarà sostituita da una semplice notifica di ripresa in carico. Rimane comunque confermata la responsabilità primaria dei paesi di primo ingresso, quello che Salvini voleva evitare ricattando i paesi membri con la chiusura dei porti. Lo Stato membro di primo ingresso sarà competente per la domanda di asilo per una durata di due anni. Quando un paese vuole trasferire una persona nello stato membro che è effettivamente responsabile del migrante e questa persona fugge (ad esempio quando il migrante si nasconde per eludere un trasferimento) la responsabilità passerà allo stato membro di trasferimento solo dopo tre anni.
La nuova proposta legislativa su immigrazione ed asilo, faticosamente elaborata a Lussemburgo, si limita, con l’art. 7 (Cooperazione con i paesi terzi per facilitare il rimpatrio e la riammissione), a prevedere che dove la Commissione e il Consiglio ritengano che un terzo paese non collabora sufficientemente alla riammissione di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, la Commissione e il Consiglio, nell’ambito delle rispettive competenze, prendono in considerazione le azioni appropriate tenendo conto delle competenze dell’Unione e delle relazioni generali degli Stati membri con il paese terzo.
In particolare, in questi casi, 1. […] La Commissione può, sulla base dell’analisi effettuata a norma dell’articolo 25 bis, paragrafi 2 o 4, del regolamento (UE) n. 810/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio e di qualsiasi altra informazione disponibile dagli Stati membri, nonché dall’Unione istituzioni, organi e organismi, […] presentare al Consiglio una relazione comprendente, se del caso, l’identificazione di eventuali misure che potrebbero essere adottate per migliorare la cooperazione di tale paese terzo in materia di riammissione, tenendo conto dell’Unione e delle relazioni generali degli Stati membri con il paese terzo.
7. Al di là delle perplessità sui tempi di attuazione delle proposte varate dal Consiglio dei ministri dell’interno dell’Unione europea e della loro dubbia compatibilità con il vigente diritto eurounitario e con il diritto internazionale umanitario e dei rifugiati, si deve rimarcare come il governo italiano, con un decreto interministeriale approvato lo scorso marzo, abbia ulteriormente ampliato la lista di paesi terzi sicuri che preclude di fatto sia l’esame approfondito delle domande di protezione nelle procedure in frontiera, che il rinnovo della maggior parte dei permessi di soggiorno finora concessi per protezione speciale. Con questo ultimo aggiornamento di marzo 2023 vengono ritenuti paesi terzi sicuri: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia.
La categoria di “paese terzo sicuro” esisteva da anni nella legislazione italiana e nella normativa europea, ma è stato con il Decreto sicurezza Salvini n.113 del 2018 che se ne è estesa la portata e assieme ad altre modifiche legislative, ha ridotto di molto la portata effettiva del diritto di asilo riconosciuto dall’art. 10 della Costituzione italiana.
L’art. 7-bis del dl 4 ottobre 2018, n. 113 (cd. decreto sicurezza), introdotto in sede di conversione dall’art. 1 della l. 1°dicembre 2018, n. 132, ha inserito nel d.lgs 28 gennaio 2008, n. 25 l’art. 2-bis, intitolato «Paesi di origine sicuri». E’ dunque chiaro che nell’ordinamenro italiano non esiste al momento alcuna categoria di paese di transito “sicuro” e dunque questo criterio, ancora allo stato di proposta legislativa da parte del Conisglio dei ministri dell’interno dell’Unione Europea NON potrà avere nell’immediato alcuna portata normativa, almeno fino a quando, al termine della procedura di codecisione, un nuovo Regolamento che lo preveda non venga pubblicato nella Gazzetta Ufficiale europea.
L’art. 2-bis del d. lgs n. 25 del 2008, modificato dal decreto sicurezza del 2018, era articolato in cinque commi:
«Art. 2-bis (Paesi di origine sicuri). – 1. Con decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia, è adottato l’elenco dei Paesi di origine sicuri sulla base dei criteri di cui al comma 2. L’elenco dei Paesi di origine sicuri è aggiornato periodicamente ed è notificato alla Commissione europea.
2. Uno Stato non appartenente all’Unione europea può essere considerato Paese di origine sicuro se, sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione quali definiti dall’articolo 7 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone.
3. Ai fini della valutazione di cui al comma 2 si tiene conto, tra l’altro, della misura in cui è offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del Paese ed il modo in cui sono applicate; b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, aperto alla firma il 19 dicembre 1966, ratificato ai sensi della legge 25 ottobre 1977, n. 881, e nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 10 dicembre 1984, in particolare dei diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della predetta Convenzione europea; c) il rispetto del principio di cui all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra; d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà.
4. La valutazione volta ad accertare che uno Stato non appartenente all’Unione europea è un Paese di origine sicuro si basa sulle informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, che si avvale anche delle notizie elaborate dal centro di documentazione di cui all’articolo 5, comma 1, nonché su altre fonti di informazione, comprese in particolare quelle fornite da altri Stati membri dell’Unione europea, dall’EASO, dall’UNHCR, dal Consiglio d’Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti.
5. Un Paese designato di origine sicuro ai sensi del presente articolo può essere considerato Paese di origine sicuro per il richiedente solo se questi ha la cittadinanza di quel Paese o è un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in quel Paese e non ha invocato gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova».
8. Adesso si sta tentando di estendere la nozione di paese terzo sicuro non solo ai cittadini di quel paese, ma anche a coloro che provengono da altri paesi e sono transitati nel paese terzo “sicuro”. Anche per queste persone, con la sola eccezione di MSNA (minori non accompagnati) e di altri soggetti vulnerabili, si prevedono procedure accelerate in frontiera e un numero più ampio di casi di trattenimento amministrativo, per facilitare respingimenti ed espulsioni al termine delle procedure in frontiera, in modo forse da dissuadere le partenze verso l’Italia e l’Europa, aspirazione di vari governi, che comunque, nel corso degli anni, è stata sistematicamente smentita dai fatti. Non si vede peraltro con quali mezzi, risorse umane e luoghi di detenzione amministrativa, si potrà attuare il trattenimento dei richiedenti asilo nelle procedure in frontiera, subito dopo gli sbarchi. Le norme al riguardo, tra l’altro, non saranno operative per 90 giorni dall’entrata in vigore della legge n.50/2023, in assenza del decreto interministeriale che dovrebbe fissare l’entità delle risorse economiche che il richiedente asilo dovrebbe dimostrare per evitare il trattenimento nella prima fase di esame della sua richiesta di protezione. Per tutta l’estate, dunque, la situazione nei punti di sbarco, ma anche nei centri di prima accoglienza, resterà caotica, e sarà affidata esclusivamente ai provvedimenti delle autorità amministrative, prefetti e questori, senza una chiara cornice legislativa.
Su questo sarà battaglia legale, e solidarietà verso chi chiede comunque protezione, soprattutto nei territori più vicini alle frontiere esterne, sempre che sia possibile esercitare i diritti di difesa, e che le misure di accompagnamento forzato non vengano eseguite prima del riesame da parte della giurisdizione, dato l’abbattimento dei casi di effetto sospensivo del ricorso, ed i precedenti purtroppo non sono molti. La sentenza della Cassazione (Sez. 1, 18 novembre 2019, n. 29914) ha cassato una precedente decisione di merito che aveva rigettato la domanda di protezione internazionale, facendo leva sul principio, già più volte enunciato, secondo cui “nei giudizi di protezione internazionale, a fronte del dovere del richiedente di allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, la valutazione delle condizioni socio-politiche del Paese d’origine del richiedente deve avvenire, mediante integrazione istruttoria officiosa, tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche di cui si dispone pertinenti al caso, aggiornate al momento dell’adozione della decisione, sicché il giudice del merito non può limitarsi a valutazioni solo generiche ovvero omettere di individuare le specifiche fonti informative da cui vengono tratte le conclusioni assunte, potendo incorrere in tale ipotesi, la pronuncia, ove impugnata, nel vizio di motivazione apparente”. Rimane quindi alto il rischio che la categoria dei paesi terzi sicuri, o dei paesi di transito sicuri, considerate anche le nuove procedure in frontiera introdotte dalla legge n.50 del 2023, riducano fortemente la portata effettiva del diritto di asilo costituzionale.
Il Diritto di asilo previsto nelle sue diverse forme dall’art. 10 della Costituzione italiana, e ribadito nelle Direttive europee e nei Regolamenti fin qui vigenti, ha natura individuale e costituisce un dirito fondamentale della persona. La ratio fondante di tutta la disciplina in materia di protezione internazionale consiste proprio nella protezione dei singoli da condotte gravemente lesive dei loro diritti umani. Ciò è confermato con grande apertura e
chiarezza dalla nostra Costituzione, all’art. 10, co. 3 che ha una portata molto più ampia della formulazione dello stesso diritto nella Convenzione di Ginevra del 1951 e nelle Direttive europee. Al contrario, la nozione di «Paesi di origine sicuri» si fonda su una valutazione di «safety for the majority» che difficilmente si concilia con la dimensione individuale del diritto di asilo, fortemente sminuendo «the role of individual case by case assessment»”previsto dalle Convenzioni internazionali. In Italia la legge vigente prevede soltanto una presunzione relativa di sicurezza rispetto al Paese di origine, ma senza alcun riferimento automatico alla situazione in questo paese o al transito in un altro paese terzo ritenuto sicuro. Il richiedente e la Commissione teritoriale, e poi il giudice in caso di ricorso giurisdizionale, sono tenuti a cooperare per fare emergere i necesari elementi probatori per affermare o escludere un diritto alla protezione. Ma non ci può essere alcun automatismo nel diniego di uno status di protezione nei confronti di chi provenga o sia transitato da un paese terzo sicuro.
Si deve ricordare a tale proposito la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo del 21 novembre 2019, Ilias and Ahmed c. Ungheria, che ha accertato la violazione dell’art. 3 della CEDU da parte dell’Ungheria, le cui autorità avevano rigettato la domanda di protezione di due cittadini bengalesi espulsi verso la Serbia, sul semplice presupposto che tale Stato era stato incluso in un elenco governativo sui Paesi sicuri, senza compiere una
valutazione seria e approfondita del caso specifico e senza preoccuparsi degli effetti di
un respingimento a catena verso altri Stati.
9. La pressione dei governi europei, e del governo italiano in particolare, sulle procedure in frontiera e sulla possibilità di ricorrere alle categorie di paese terzo di origine o di transito “sicuro” apre scenari inquietanti, soprattutto dopo che con la legge n.50/2023 si sono introdotte norme procedurali che intaccano i diritti di difesa dei richiedenti asilo giunti in frontiera, sia pure a seguito di operazioni di soccorso in mare. Toccherà operare un attento monotoraggio sul riconoscimento effettivo dei diritti fondamentali, a partire dai diritti all’informazione ed alla comprensione linguistica, e dal diritto di accesso effettivo ad una procedura di asilo, in tutti i luoghi di frontiera soprattutto in quelli che sono definiti “punti di fontiera esterna”. Ocorrerà vigilare sulla attuazione degli accordi con i paesi di transito e origine che possano essere ritenuti “sicuri”, ma solo sulla carta, dalle autorità amministrative. Bisogna impedire che attraverso l’esecuzione immediata di misure di allontanamento forzato, adottate magari con modalità sostanzialmente uniformi e collettive, senza riguardo alla situazione individuale delle singole persone, o delle loro condizioni psico-fisiche, possano ripetersi quelle violazioni dei diritti umani che hanno già portato a pesanti condanne dell’Italia da parte dei Tribunali internazionali, come nei tre fondamentali casi Hirsi, Sharifi e Khlaifia.