• Gli utili record dei padroni del cibo a scapito della sicurezza alimentare

    I cinque principali #trader di prodotti agricoli a livello mondiale hanno fatto registrare utili e profitti record tra il 2021 e il 2023. Mentre il numero di persone che soffrono la fame ha toccato i 783 milioni. Il report “Hungry for profits” della Ong SOMO individua le cause principali di questa situazione. E propone una tassa sui loro extra-profitti

    Tra il 2021 e il 2022 -anni in cui il numero di persone che soffrono la fame nel mondo è tornato ad aumentare, così come i prezzi dei beni agricoli spinti verso l’alto da inflazione e speculazione finanziaria- i profitti dei primi cinque trader di materie prime agricole a livello globale sono schizzati verso l’alto.

    Nel 2022 le multinazionali riunite sotto l’acronimo Abccd (Archer-Daniels-Midland company, Cargill, Cofco e Louis Dreyfus Company) hanno comunicato ai propri stakeholder un aumento degli utili per il 2021 compreso tra il 75% e il 260% rispetto al 2016-2020. “Mentre nel 2022 i profitti netti sono raddoppiati o addirittura triplicati rispetto allo stesso periodo. In base ai rapporti finanziari trimestrali disponibili al pubblico, i profitti netti dei commercianti di materie prime agricole sono rimasti eccessivamente alti nei primi nove mesi del 2023”, si legge nel rapporto “Hungry for profits” curato dalla Ong olandese Somo. Dati che fanno comprendere meglio quali sono i fattori che influenzano l’andamento del costo dei prodotti agricoli e -soprattutto- chi sono i reali vincitori dell’attuale sistema agroindustriale.

    La statunitense Cargill è la prima tra i Big five in termini di ricavi (165 miliardi di dollari nel 2022) e utili (6,6 miliardi), seguita dalla cinese Cofco (che nello stesso anno ha superato i 108 miliardi di dollari e i 3,3 miliardi di utili) e da Archer-Daniels-Midland company (Adm, con 101 miliardi di ricavi e 4,3 miliardi di utili). Nello stesso anno il numero di persone che soffrono la fame ha raggiunto i 783 milioni (122 milioni in più rispetto al 2019) e i prezzi dei prodotti alimentari hanno continuato a crescere, spinti dall’inflazione.

    Complessivamente questi cinque colossi detengono una posizione di oligopolio sul mercato globale dei prodotti di base come i cereali (di cui controllano una quota che va dal 70-90%), soia e zucchero. “Questo alto grado di concentrazione e il conseguente controllo sulle più importanti materie prime agricole del mondo, conferisce loro un enorme potere contrattuale per plasmare il panorama alimentare globale”, spiega Vincent Kiezebrink, ricercatore di Somo e autore della ricerca.

    La posizione dominante che di fatto ricoprono sul mercato globale rappresenta uno dei fattori che ha permesso agli Abccd di registrare profitti e utili da record negli ultimi tre anni. “La sola Cargill è responsabile della movimentazione del 25% di tutti i cereali e i semi di soia prodotti dagli agricoltori statunitensi -si legge nel report-. Anche il principale mercato agricolo per l’approvvigionamento di soia, l’America Latina, è dominato dagli Abccd: oltre la metà di tutte le esportazioni di questo prodotto passano da loro”.

    La situazione non cambia se si guarda a quello che succede in Europa: l’olandese Bunge e la statunitense Cargill da sole sono responsabili di oltre il 30% delle esportazioni di soia dal Brasile verso l’Unione europea. Bunge, in particolare, è il principale fornitore di soia per l’industria della carne dell’Ue con una chiara posizione di monopolio in alcuni mercati come il Portogallo, dove controlla il 90-100% delle vendite di olio di soia grezzo.

    Questa concentrazione è stata costruita nel tempo attraverso fusioni e acquisizioni che non sono state limitate dalle autorità per la concorrenza: quelle europee, ad esempio, hanno valutato un totale di 60 fusioni relative alle società Abccd dal 1990 a oggi. “Tutte le operazioni, tranne una, sono state autorizzate incondizionatamente -si legge nel report-. La prossima grande fusione in arrivo è quella tra la canadese Viterra (specializzata nella produzione e nel commercio di cereali, ndr) e Bunge. Un’operazione senza precedenti nel settore agricolo globale e che avvicinerà la nuova società alle dimensioni di Adm e Cargill”.

    Un secondo elemento che ha permesso a queste Big five di accumulare ricavi senza precedenti in questi anni è poi la loro capacità di influenzare la disponibilità dei beni alimentari attraverso un’enorme potenzialità di stoccaggio. “Il rapporto speciale 2022 del Gruppo internazionale di esperti sui sistemi alimentari sostenibili (Ipes) ha evidenziato che i trader conservano notevoli riserve di cereali -si legge nel report-. E sono incentivati ‘a trattenere le scorte fino a quando i prezzi vengono percepiti come massimi’”. Per avere un’idea delle quantità di materie prime in ballo, basti pensare che la capacità di stoccaggio combinata di Adm, Bunge e Cofco, è pari a circa 68 milioni di tonnellate, è simile al consumo annuo di grano di Stati Uniti, Turchia e Regno Unito messi assieme.

    Terzo e ultimo elemento individuato nel report è il fatto che queste società sono integrate verticalmente e hanno il pieno controllo della filiera produttiva dal campo alla tavola: forniscono cioè agli agricoltori prestiti, sementi, fertilizzanti e pesticidi; immagazzinano, trasformano e trasportano i prodotti alimentari.

    A fronte di questa situazione, Somo ha invitato la Commissione europea a intervenire per porre un freno alla crescente monopolizzazione del comparto: “L’indagine dovrebbe concentrarsi sul potere che può essere esercitato nei confronti dei fornitori per comprimere i loro margini di profitto -concludono i ricercatori-. È preoccupante che alle multinazionali sia stato permesso di triplicare i loro profitti facendo salire i prezzi degli alimenti, mentre le persone in tutto il mondo soffrono di una crisi del costo della vita e i più poveri sono alla fame”. Per questo motivo l’organizzazione suggerisce di applicare un’imposta sugli extra-profitti delle società Abccd che, con un’ipotetica aliquota fiscale del 33%. A fronte di utili che hanno toccato i 5,7 miliardi di dollari nel 2021 e i 6,4 miliardi nel 2022, permetterebbe di generare un gettito fiscale pari rispettivamente a 1,8 e 2 miliardi di dollari.

    https://altreconomia.it/gli-utili-record-dei-padroni-del-cibo-a-scapito-della-sicurezza-aliment
    #agriculture #business #profits #industrie_agro-alimentaire #sécurité_alimentaire #inflation #Archer-Daniels-Midland_company #Cargill #Cofco #Louis_Dreyfus_Company (#Abccd) #oligopole #céréales #soja #sucre

  • Vivre et lutter dans un monde toxique. #Violence_environnementale et #santé à l’âge du #pétrole

    Pour en finir avec les success stories pétrolières, voici une histoire des territoires sacrifiés à la transformation des #hydrocarbures. Elle éclaire, à partir de sources nouvelles, les #dégâts et les #luttes pour la santé au XXe siècle, du #Japon au #Canada, parmi les travailleurs et travailleuses des enclaves industrielles italiennes (#Tarento, #Sardaigne, #Sicile), auprès des pêcheurs et des paysans des « #Trente_Ravageuses » (la zone de #Fos / l’étang de# Berre, le bassin gazier de #Lacq), ou encore au sein des Premières Nations américaines et des minorités frappées par les #inégalités_environnementales en #Louisiane.
    Ces différents espaces nous racontent une histoire commune : celle de populations délégitimées, dont les plaintes sont systématiquement disqualifiées, car perçues comme non scientifiques. Cependant, elles sont parvenues à mobiliser et à produire des savoirs pour contester les stratégies entrepreneuriales menaçant leurs #lieux_de_vie. Ce livre expose ainsi la #tension_sociale qui règne entre défense des #milieux_de_vie et #profits économiques, entre santé et #emploi, entre logiques de subsistance et logiques de #pétrolisation.
    Un ouvrage d’une saisissante actualité à l’heure de la désindustrialisation des #territoires_pétroliers, des #conflits sur la #décarbonation des sociétés contemporaines, et alors que le désastre de #Lubrizol a réactivé les interrogations sur les effets sanitaires des dérivés pétroliers.

    https://www.seuil.com/ouvrage/vivre-et-lutter-dans-un-monde-toxique-collectif/9782021516081

    #peuples_autochtones #pollution #toxicité #livre

    • Ces territoires sacrifiés au pétrole

      La société du pétrole sur laquelle s’est bâtie notre prospérité ne s’est pas faite sans sacrifices. Gwenola Le Naour et Renaud Bécot, co-directeurs d’un ouvrage sur ce sujet, lèvent le voile sur les dégâts causés par cette « pétrolisation » du monde, en France et à l’étranger.

      Si le pétrole et ses produits ont permis l’émergence de notre mode de vie actuel, l’activité des raffineries et autres usines de la pétrochimie a abîmé les écosystèmes et les paysages et a des effets de long terme sur la santé humaine. Dans le livre qu’ils ont coordonné, Vivre et lutter dans un monde toxique (Seuil, septembre 2023), Gwénola Le Naour et Renaud Bécot lèvent le voile sur les dégâts causés par cette « pétrolisation » du monde, selon leurs propres mots. Ils ont réuni plusieurs études de cas dans des territoires en France et à l’étranger pour le démontrer. Un constat d’autant plus actuel que la société des hydrocarbures est loin d’être révolue : la consommation de pétrole a atteint un record absolu en 2023, avec plus de 100 millions de barils par jour en moyenne.

      À la base de votre ouvrage, il y a ce que vous appelez « la pétrolisation du monde ». Que recouvre ce terme ?
      Gwenola Le Naour1. Dans les années 1960, s’est développée l’idée que le pétrole était une énergie formidable, rendant possible la fabrication de produits tels que le plastique, les textiles synthétiques, les peintures, les cosmétiques, les pesticides, qui ont révolutionné nos modes de vie et décuplé les rendements agricoles. La pétrolisation désigne cette mutation de nos systèmes énergétiques pendant laquelle les hydrocarbures se sont imposés partout sur la planète et ont littéralement métamorphosé nos territoires physiques et mentaux.

      L’arrivée du pétrole et de ses dérivés nous est le plus souvent présentée comme une épopée, une success story. On a mis de côté la face sombre de cette pétrolisation, avec ses territoires sacrifiés comme Fos-sur-Mer, qui abrite depuis 1965 une immense raffinerie représentant aujourd’hui 10 % de la capacité de raffinage de l’Hexagone, ou Tarente, dans le sud de l’Italie, où se côtoient une raffinerie, une usine pétrochimique, un port commercial, une décharge industrielle et la plus grande aciérie d’Europe.

      Comment des territoires entiers ont-ils pu être ainsi abandonnés au pétrole ?
      Renaud Bécot2. L’industrie du pétrole et des hydrocarbures n’est pas une industrie comme les autres. Les sociétés pétrolières ont été largement accompagnées par les États. Comme pour le nucléaire, l’histoire de l’industrie pétrolière est étroitement liée à l’histoire des stratégies énergétiques des États et à la manière dont ils se représentent leur indépendance énergétique. L’État a soutenu activement ces installations destinées à produire de la croissance et des richesses. Pour autant, ces industries ne se sont pas implantées sans résistance, malgré les discours de « progrès » qui les accompagnaient.

      Des luttes ont donc eu lieu dès l’installation de ces complexes ?
      G. L. N. Dès le début, les populations locales, mais aussi certains élus, ont compris l’impact que ces complexes gigantesques allaient avoir sur leur environnement. Ces mobilisations ont échoué à Fos-sur-Mer ou au sud de Lyon, où l’installation de la raffinerie de Feyzin et de tout le complexe pétrochimique (le fameux « couloir de la chimie ») a fait disparaître les bras morts du Rhône et des terres agricoles... Quelques-unes ont cependant abouti : un autre projet de raffinerie, envisagé un temps dans le Beaujolais, a dû être abandonné. Il est en revanche plus difficile de lutter une fois que ces complexes sont installés, car l’implantation de ce type d’infrastructures est presque irréversible : le coût d’une dépollution en cas de fermeture est gigantesque et sans garantie de résultat

      Les habitants qui vivent à côté de ces installations finissent ainsi par s’en accommoder… En partie parce qu’ils n’ont pas d’autre choix, et aussi parce que les industriels se sont efforcés dès les années 1960-1970 et jusqu’à aujourd’hui de se conduire en « bons voisins ». Ils négocient leur présence en finançant par exemple des infrastructures culturelles et/ou sportives. Sans oublier l’éternel dilemme entre les emplois apportés par ces industries et les nuisances qu’elles génèrent. Dans le livre, nous avons qualifié ces arrangements à l’échelle des districts pétrochimiques de « compromis fordistes territorialisés ».

      Que recouvre ce terme de compromis ?
      R. B. En échange de l’accaparement de terres par l’industrie et du cortège de nuisances qui l’accompagne, les collectivités locales obtiennent des contreparties qui correspondent à une redistribution partielle des bénéfices de l’industrie. Cette redistribution peut être régulière (via la taxe professionnelle versée aux communes jusqu’en 2010, notamment), ou exceptionnelle, après un accident par exemple. Ainsi, en 1989, après une pollution spectaculaire qui marque les habitants vivant près de Lubrizol en Normandie, l’entreprise a versé 100 000 francs à la municipalité du Petit-Quevilly pour qu’elle plante quatre-vingts arbres dans la ville...

      Mais ce type de compromis a également été très favorable aux industries en leur offrant par exemple des allégements fiscaux de long terme, comme en Sicile près de Syracuse où se situe l’un des plus grands sites chimiques et pétrochimiques qui emploie plus de 7 000 personnes, voire une totale exonération fiscale comme en Louisiane, sur les rives du Mississippi. Des années 1950 aux années 1980, pas moins de 5 000 entreprises sur le sol américain – majoritairement pétrochimiques, pétrolières, métallurgiques ainsi que des sociétés gazières – ont demandé à bénéficier de ces exonérations, parmi lesquelles les sociétés les plus rentables du pays telles que DuPont, Shell Oil ou Exxon...

      Ces pratiques, qui se sont développées surtout lors des phases d’expansion de la pétrochimie, rendent plus difficile le retrait de ces industries polluantes. Les territoires continuent de penser qu’ils en tirent un bénéfice, même si cela est de moins en moins vrai.

      On entend souvent dire, concernant l’industrie pétrolière comme le nucléaire d’ailleurs, que les accidents sont rares et qu’on ne peut les utiliser pour remettre en cause toute une industrie… Est-ce vraiment le cas ?
      G. L. N. On se souvient des accidents de type explosions comme celle de la raffinerie de Feyzin, qui fit 18 morts en 1966, ou celle d’un stock de nitrates d’ammonium de l’usine d’engrais AZF à Toulouse en 2001, qui provoqua la mort de 31 personnes – car ils sont rares. Mais si l’on globalise sur toute la chaîne des hydrocarbures, les incidents et les accidents – y compris graves ou mortels pour les salariés – sont en réalité fréquents, même si on en entend rarement parler au-delà de la presse locale (fuites, explosions, incendies…). Sans oublier le cortège des nuisances liées au fonctionnement quotidien de ces industries, telles que la pollution de l’air ou de l’eau, et leurs conséquences sur la santé.

      Pour qualifier les méfaits des industries pétrochimiques, sur la santé notamment, vous parlez de « violence lente ». Pouvez-vous expliquer le choix de cette expression ?
      G. L. N. Cette expression, créée par l’auteur nord-américain Rob Nixon, caractérise une violence graduelle, disséminée dans le temps, caractéristique de l’économie fossile. Cette violence est également inégalitaire car elle touche prioritairement des populations déjà vulnérables : je pense notamment aux populations noires américaines de Louisiane dont les générations précédentes étaient esclaves dans les plantations…

      Au-delà de cet exemple particulièrement frappant, il est fréquent que ces industries s’installent près de zones populaires ou touchées par la précarité. On a tendance à dire que nous respirons tous le même air pollué, or ce n’est pas vrai. Certains respirent un air plus pollué que d’autres. Et ceux qui habitent sur les territoires dévolus aux hydrocarbures ont une qualité de vie bien inférieure à ceux qui sont épargnés par la présence de ces industries.

      Depuis quand la nocivité de ces industries est-elle documentée ?
      G. L. N. Longtemps, les seules mesures de toxicité dont on a disposé étaient produites par les industriels eux-mêmes, sur la base des seuils fixés par la réglementation. Pourtant, de l’aveu même de ceux qui la pratiquent, la toxicologie est une science très imparfaite : les effets cocktails ne sont pas recherchés par la toxicologie réglementaire, pas plus que ceux des expositions répétées à faibles doses sur le temps long. De plus, fixer des seuils est à double tranchant : on peut invoquer les analyses toxicologiques pour protéger les populations, l’environnement, ou les utiliser pour continuer à produire et à exposer les gens, les animaux, la nature à ces matières dangereuses. Ainsi, ces seuils peuvent être alternativement présentés comme des seuils de toxicité, ou comme des seuils de tolérance… Ce faisant, la toxicologie produit de l’imperceptibilité.

      R. B. Des études alternatives ont cependant commencé à émerger, avec des méthodologies originales. Au Canada, sur les territoires des Premières Nations en Ontario, au Saskatchewan précisément, une étude participative a été menée au cours de la décennie 2010 grâce à un partenariat inédit entre un collectif de journalistes d’investigation et un groupe de chercheurs. En distribuant très largement des kits de mesure, peu coûteux et faciles d’utilisation, elle a permis de démontrer que les populations étaient exposées aux sulfures d’hydrogène, un gaz toxique qui pénètre par les voies respiratoires. Grâce à cette démarche participative, des changements de règlementation et une meilleure surveillance des pollutions ont été obtenus. Il s’agit d’une réelle victoire qui change la vie des gens, même si l’industrie n’a pas été déplacée.

      Qu’en est-il des effets sur la santé de tous ces polluants ? Sont-ils documentés ?
      G. L. N. En France, les seuls travaux menés à ce jour l’ont été autour du gisement de gaz naturel de Lacq, exploité de 1957 à 2013 dans les Pyrénées. Une première étude, conduite en 2002 par l’université, concluait à un surrisque de cancer. Deux autres études ont été lancées plus récemment : une étude de mortalité dévoilée en 2021, qui montre une plus forte prévalence des décès par cancer, et une étude de morbidité toujours en cours. À Fos-sur-Mer, l’étude « Fos Epseal », conduite entre 2015 et 20223, s’est basée sur les problèmes de santé déclarés par les habitants. Ses résultats révèlent que près des deux-tiers des habitants souffrent d’au moins une maladie chronique – asthme, diabète –, ainsi que d’un syndrome nez-gorge irrités toute l’année qui n’avait jamais été identifié jusque-là.

      R. B. Ce que soulignent les collectifs qui évoquent des problèmes de santé liés à l’industrie pétrochimique – maladies chroniques de la sphère ORL, diabètes, cancers, notamment pédiatriques, etc. –, c’est la difficulté de prouver un lien de corrélation entre ces maladies et telle ou telle exposition toxique.

      L’épidémiologie conventionnelle ne le permet pas, en tout cas, car elle travaille à des échelles larges, sur de grands nombres, et est mal adaptée à un déploiement sur de plus petits territoires. C’est pourquoi les collectifs militants et les scientifiques qui travaillent avec eux doivent faire preuve d’inventivité, en faisant parfois appel aux sciences humaines et sociales, avec des sociologues qui vont recueillir des témoignages et trajectoires d’exposition, des historiens qui vont documenter l’histoire des lieux de production…

      Cela suppose aussi la mise au point de technologies, d’outils qui permettent de mesurer comment et quand les gens sont exposés. Cela nécessite enfin une coopération de longue haleine entre chercheurs de plusieurs disciplines, militants et populations. Car l’objectif est d’établir de nouveaux protocoles pour mieux documenter les atteintes à la santé et à l’environnement avec la participation active de celles et ceux qui vivent ces expositions dans leurs chairs.

      https://lejournal.cnrs.fr/articles/ces-territoires-sacrifies-au-petrole

  • Large Language Publishing, par Jeff Pooley
    https://doi.org/10.54900/zg929-e9595

    Analyse très intéressante sur l’Open access dans la science, ses limites notamment en termes de licence et de droit d’utilisation et de l’usage des articles scientifiques pour entrainer l’intelligence artificielle (#AI) avec la question de la captation des profits associés alors que les éditeurs scientifiques ne rémunèrent jamais, quant à eux, les producteurs de connaissance scientifique et au contraire, exploitent les universités et leurs financements publics sous forme d’abonnements des bibliothèques aux revues ou de APC (charges payées par les scientifiques pour être publiés en #open_access). Le texte soulève d’intéressants paradoxes sur ces enjeux, en faisant un parallèle avec le procès que les grands journaux comme le New York Times ont lancé contre OpenAI et autres entreprises d’intelligence artificielle pour avoir entrainé les logiciels d’AI sans autorisation et surtout sans paiement leurs archives.

    Thus the two main sources of trustworthy knowledge, science and journalism, are poised to extract protection money—to otherwise exploit their vast pools of vetted text as “training data.” But there’s a key difference between the news and science: Journalists’ salaries, and the cost of reporting, are covered by the companies. Not so for scholarly publishing: Academics, of course, write and review for free, and much of our research is funded by taxpayers. The Times suit is marinated in complaints about the costly business of journalism. The likes of Taylor & Francis and Springer Nature won’t have that argument to make. It’s hard to call out free-riding when it’s your own business model.
    [...]
    Enter Elsevier and its oligopolistic peers. They guard (with paywalled vigilance) a large share of published scholarship, much of which is unscrapable. A growing proportion of their total output is, it’s true, open access, but a large share of that material carries a non-commercial license. Standard OA agreements tend to grant publishers blanket rights, so they have a claim—albeit one contested on fair-use grounds by OpenAI and the like—to exclusive exploitation. Even the balance of OA works that permit commercial re-use are corralled with the rest, on propriety platforms like Elsevier’s ScienceDirect. Those platforms also track researcher behavior, like downloads and citations, that can be used to tune their models’ outputs.
    [...]
    As the Times lawsuit suggests, there’s a big legal question mark hovering over the big publishers’ AI prospects. The key issue, winding its way through the courts, is fair use: Can the likes of OpenAI scrape up copyrighted content into their models, without permission or compensation? The Silicon Valley tech companies think so; they’re fresh converts to fair-use maximalism, as revealed by their public comments filed with the US Copyright Office. The companies’ “overall message,“ reported The Verge in a round-up, is that they “don’t think they should have to pay to train AI models on copyrighted work.” Artists and other content creators have begged to differ, filing a handful of high-profile lawsuits.

    The publishers haven’t filed their own suits yet, but they’re certainly watching the cases carefully. Wiley, for one, told Nature that it was “closely monitoring industry reports and litigation claiming that generative AI models are harvesting protected material for training purposes while disregarding any existing restrictions on that information.” The firm has called for audits and regulatory oversight of AI models, to address the “potential for unauthorised use of restricted content as an input for model training.“ Elsevier, for its part, has banned the use of “our content and data” for training; its sister company LexisNexis, likewise, recently emailed customers to “remind” them that feeding content to “large language models and generative AI” is forbidden.
    [...]
    One near-term consequence may be a shift in the big publishers’ approach to open access. The companies are already updating their licenses and terms to forbid commercial AI training—for anyone but them, of course. The companies could also pull back from OA altogether, to keep a larger share of exclusive content to mine. Esposito made the argument explicit in a recent Scholarly Kitchen post: “The unfortunate fact of the matter is that the OA movement and the people and organizations that support it have been co-opted by the tech world as it builds content-trained AI.“ Publishers need “more copyright protection, not less,“ he added. Esposito’s consulting firm, in its latest newsletter, called the liberal Creative Commons BY license a “mechanism to transfer value from scientific and scholarly publishers to the world’s wealthiest tech companies.“ Perhaps, though I would preface the point: Commercial scholarly publishing is a mechanism to transfer value from scholars, taxpayers, universities to the world’s most profitable companies.
    [...]
    There are a hundred and one reasons to worry about Elsevier mining our scholarship to maximize its profits. I want to linger on what is, arguably, the most important: the potential effects on knowledge itself. At the core of these tools—including a predictable avalanche of as-yet-unannounced products—is a series of verbs: to surface, to rank, to summarize, and to recommend. The object of each verb is us—our scholarship and our behavior. What’s at stake is the kind of knowledge that the models surface, and whose knowledge.
    [...]
    These dynamics of cumulative advantage have, in practice, served to amplify the knowledge system’s patterned inequalities—for example, in the case of gender and twentieth-century scholarship, aptly labeled the Matilda Effect by Margaret Rossiter.

    The deployment of AI models in science, especially proprietary ones, may produce a Matthew Effect on the scale of Scopus, and with no paper trail. The problem is analogous to the well-documented bias-smuggling with existing generative models; image tools trained on, for example, mostly white and male photos reproduce the skew in their prompt-generated outputs. With our bias-laden scholarship as training data, the academic models may spit out results that, in effect, double-down on inequality. What’s worse is that we won’t really know, due to the models’ black-boxed character. Thus the tools may act as laundering machines—context-erasing abstractions that disguise their probabilistic “reasoning.” Existing biases, like male academics’ propensity for self-citation, may win a fresh coat of algorithmic legitimacy. Or consider center-periphery dynamics along North-South and native-English-speaking lines: Gaps traceable to geopolitical history, including the legacy of European colonialism, may be buried still deeper. The models, in short, could serve as privilege multipliers.
    [...]
    So it’s an urgent task to push back now, and not wait until after the models are trained and deployed. What’s needed is a full-fledged campaign, leveraging activism and legislative pressure, to challenge the commercial publishers’ extractive agenda. One crucial framing step is to treat the impending AI avalanche as continuous with—as an extension of—the publishers’ in-progress mutation into surveillance-capitalist data businesses.
    [...]
    So far the publishers’ data-hoovering hasn’t galvanized scholars to protest. The main reason is that most academics are blithely unaware of the tracking—no surprise, given scholars’ too-busy-to-care ignorance of the publishing system itself. The library community is far more attuned to the unconsented pillage, though librarians—aside from SPARC—haven’t organized on the issue. There have been scattered notes of dissent, including a Stop Tracking Science petition, and an outcry from Dutch scholars on a 2020 data-and-publish agreement with Elsevier, largely because the company had baked its prediction products into the deal. In 2022 the German national research foundation, Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG), released its own report-cum-warning—“industrialization of knowledge through tracking,” in the report’s words. Sharp critiques from, among others Bjorn Brembs, Leslie Chan, Renke Siems, Lai Ma, and Sarah Lamdan have appeared at regular intervals.

    None of this has translated into much, not even awareness among the larger academic public. A coordinated campaign of advocacy and consciousness-raising should be paired with high-quality, in-depth studies of publisher data harvesting—on the example of SPARC’s recent ScienceDirect report. Any effort like this should be built on the premise that another scholarly-publishing world is possible. Our prevailing joint-custody arrangement—for-profit publishers and non-profit universities—is a recent and reversible development. There are lots of good reasons to restore custody to the academy. The latest is to stop our work from fueling the publishers’ AI profits.

    #profits #Elsevier #science #commons #inégalités

  • (16-17.12.2023)

    ⛰️💥 Ce week-end, nous étions plus de 2000 dans les #Alpes_Apuanes pour lutter contre l’extractivisme et défendre un autre avenir pour nos montagnes.


    Dans les Apuanes, en #Italie, de nombreux collectifs de citoyens se battent contre un modèle mortifère d’exploitation du territoire, qui crée d’énormes #profits mais concentrés dans les mains de quelques-uns, au détriment de la #santé des gens et du vivant

    🏗 Ici, l’#industrie_du_marbre a façonné la ville et les montagnes en fonction de ses intérêts économiques. Comme cela a été rappelé lors de la conférence, chaque année, plus de 5 millions de tonnes de #marbre sont extraites des carrières, dont la plupart finissent dans les mains de #multinationales pour produire du #carbonate_de_calcium, une poudre utilisée dans les dentifrices, les médicaments et l’industrie alimentaire... on est bien loin de l’utilisation qu’en faisait Michelangelo pour son art !

    💧 Ces processus d’extraction ont un impact élevé sur les écosystèmes, les nappes phréatiques et les eaux des rivières, et augmentent le #risque_hydrogéologique dans une zone déjà extrêmement délicate, avec des conséquences dévastatrices pour la ville de #Carrare, qui a été à plusieurs reprises le théâtre de graves inondations

    Les premiers à payer sont donc les citoyens et les mineurs eux-mêmes, soumis à des travaux extrêmement lourds avec un risque élevé d’accidents - dont le dernier s’est produit ce samedi matin.

    Les Alpes Apuanes sont ainsi l’emblème d’un système extractif.

    Mais n’en est-il pas de même dans le reste des Alpes ? Alors que nos glaciers fondent à grande vitesse et que les événements extrêmes se multiplient partout, au lieu de tout faire pour prévenir et réduire les dégâts, on va dans le sens inverse, pour s’accaparer un maximum de ressources, et extraire jusqu’au dernier centime. Qu’il s’agisse de retenues de neige artificielle, de stations de ski ou de méga-événements sportifs, c’est toujours la même logique extractiviste sans limite qui domine..

    (Photo de la manifestation de Michele Lapini)

    https://www.linkedin.com/feed/update/urn:li:activity:7142511937828937728
    #résistance #manifestation #extractivisme #marbre #Alpes #montagne

    • Carrara, una giornata per le Apuane

      Oggi si è tenuta la giornata nazionale “Le montagne non ricrescono. Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque”: quasi 500 persone al convegno della mattina, in migliaia al corteo del pomeriggio.

      «Questo convegno che ha aperto la due giorni di riflessione e proposta sulle Apuane ha reso evidente come oggi il sistema estrattivo non rispetti nessuna delle tre gambe della sostenibilità: quella ambientale, quella sociale e quella economica. Le norme che regolano l’attività estrattiva esistono, ma se non vengono rispettate sono assolutamente inutili. Il loro rispetto è la prima cosa che vogliamo chiedere. Dopo la giornata di oggi, è necessario che tutti coloro che hanno a cuore questo territorio, la popolazione, le associazioni e gli operatori, si uniscano in una sola voce con un obiettivo primario: il Parco regionale delle Alpi Apuane deve diventare nazionale, questo è l’unico sistema per garantire salvaguardia ambientale e sviluppo sostenibile a questo territorio, sottraendolo a pressioni locali».

      Con queste parole il Presidente generale del Cai Antonio Montani ha concluso questa mattina a Carrara, davanti a quasi 500 persone, il convegno che ha aperto la giornata nazionale “Le montagne non ricrescono. Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque”.

      Una giornata promossa dal Club alpino italiano, con la Commissione centrale tutela ambiente montano e il Gruppo regionale Cai Toscana, Arci, Athamanta, Comitato Comunità Civica della Cappella di Seravezza (LU), Coordinamento ambientalista apuoversiliese e Italia Nostra, riuniti nell’"Assemblea per l’accesso alla montagna". Oltre a loro, sono state un centinaio le realtà aderenti alla giornata, tra cui diverse Sezioni Cai.

      Tra coloro che stamane hanno portato il proprio saluto, il presidente del Cai Toscana Giancarlo Tellini, che ha evidenziato come il concetto di “estrattivismo”, che non vada confuso con “estrazione”: «si tratta di un sistema che vede il mondo imprenditoriale legato alle cave, appoggiato dalla politica locale, perseguire il proprio interesse economico ignorando gli impatti ambientali della propria attività, un costo che viene scaricato sulla collettività. Pensiamo, ad esempio, alle sorgenti d’acqua, sempre più inquinate a causa della marmettola».
      Tellini ha poi sottolineato l’attuale presenza di una settantina di cave nel Parco Regionale delle Alpi Apuane, all’interno delle aree contigue di cava. «Questo non è accettabile, questo territorio è il simbolo della peggiore gestione ambientale possibile».

      I contenuti del convegno

      Le relazioni sono state di Maura Benegiamo (Ricercatrice dell’Università di Pisa), Matteo Procuranti (Blanca Teatro), Nadia Ricci (Presidente Federazione Speleologica Toscana), Ildo Fusani (Circolo Arci Chico e Marielle), Rossanna Giannini (Comitato Civico La Cappella) e Alessandro Gogna (alpinista e storico dell’alpinismo).

      I concetti chiave espressi sono stati innanzitutto che nel modello estrattivista gli interessi privati vengono confusi con i bisogni sociali. Questo sistema totalizza ogni aspetto della vita del territorio, compresi quelli identitari e culturali, oltre a essere incompatibile con il vincolo paesaggistico e con l’idea di conservazione del patrimonio naturale per le generazioni future.
      Tutto ciò nonostante il fatto che fino al 95% del materiale estratto sia di scarto. Questo materiale, infatti, ha comunque un importante mercato, in quanto da esso si ricava il carbonato di calcio.
      Si deve scavare meno dunque, e solo quello che la comunità è in grado di lavorare e valorizzare.

      Ampio spazio ha ricevuto la già citata marmettola, che, oltre a inquinare la maggior parte delle sorgenti d’acqua delle Apuane, riduce la porosità degli ammassi rocciosi e occlude i condotti, aumentando in modo improvviso la portata dei corsi d’acqua e, di conseguenza, il rischio idraulico. Non è mancata la denuncia dei sentieri Cai interrotti o cancellati a causa delle attività estrattive nelle aree che li intercettano, un fatto che ostacola l’accesso e la frequentazione da parte degli escursionisti e contrasta lo sviluppo di economie sostenibili alternative.

      Si è parlato anche di lavoro, con la disoccupazione che, dal 2009 al 2021 nella provincia di Massa Carrara, è stata quattro volte superiore alla media regionale e due volte sopra quella nazionale. Dato dovuto anche al fatto che, con i nuovi sistemi di escavazione, la forza lavoro richiesta nelle cave sia in costante diminuzione.

      L’ultimo intervento, quello di Alessandro Gogna, ha posto l’accento sul concetto di limite, che deve valere non solo per l’alpinismo e per il turismo montano, ma anche per l’attività estrattiva. Il limite presuppone umiltà, nei confronti degli altri, di se stessi, ma anche dell’ambiente in cui viviamo. Un limite che non viene imposto, ma che ognuno dovrebbe scegliere per non offendere la natura e l’umanità intera.

      Il corteo e la giornata di domenica

      In più di un migliaio, nel pomeriggio, hanno partecipato al corteo che, dallo Stadio dei Marmi, si è snodato lungo le vie del centro cittadino, con la partecipazione di diverse Sezioni Cai. I manifestanti hanno voluto ribadire che estrattivismo non sia sinonimo di estrazione, bensì sia un modello che concentra i profitti nelle mani di pochi, socializzandone i costi.

      Domani la manifestazione continua con tavoli di approfondimento e dibattito diffusi in diversi spazi sociali e circoli della città, con l’obiettivo di avviare un percorso collettivo che sia in grado di dialogare con la comunità proponendo alternative sostenibili per questi territori montani.

      https://www.loscarpone.cai.it/dettaglio/carrara-una-giornata-per-le-apuane

  • Florence Sutcliffe-Braithwaite · ‘We’ve messed up, boys’: Bad Blood
    https://www.lrb.co.uk/the-paper/v45/n22/florence-sutcliffe-braithwaite/we-ve-messed-up-boys

    Bayer’s heat-treated Factor VIII product was licensed in the US in February 1984, but it kept making the untreated version until August that year and didn’t stop selling old stock until the following summer. Armour’s parent company was told in October 1985 that its heat-treatment method wasn’t completely effective against HIV, but denied everything; only after two children in Birmingham and four patients in Newcastle were infected with HIV did the company admit to the DHSS that its product was unsafe. If non-heat-treated Factor VIII was banned in one country, the companies just sold it elsewhere. In the first quarter of 1985, #Bayer exported twenty thousand vials – more than five million units – of its old Factor VIII from the US to other parts of the world. Competition between pharmaceutical companies sometimes stimulated innovation, but it could just as easily generate a race to the bottom. The head of the CDC’s Aids taskforce told the companies that their actions ‘ultimately led to not only a lot of death and misery, but a destruction of your customers’. As McGoogan points out, the parallels with the present-day opioid crisis in the US are clear.

    #hémophilie #dérivés_sanguins #profits #grande_Bretagne

  • ‘Hamas has created additional demand’: #Wall_Street eyes big #profits from war | Arms trade | The Guardian
    https://www.theguardian.com/world/2023/oct/30/wall-street-morgan-stanley-td-bank-ukraine-israel-hamas-war

    The death toll – which so far includes more than 8,000 Palestinians and over 1,400 Israelis – wasn’t top of mind for TD Cowen’s Cai von Rumohr, managing director and senior research analyst specializing in the aerospace industry. His question was about the upside for General Dynamics, an aerospace and weapons company in which TD Asset Management holds over $16m in stock.

    Joe Biden has asked Congress for $106bn in military and humanitarian aid for Israel and Ukraine and humanitarian assistance for Gaza. The money could be a boon to the aerospace and weapons sector which enjoyed a 7-percentage point jump in value in the immediate aftermath of Hamas’s 7 October attack on Israel and the beginning of Israel’s bombardment of Gaza in response.

    “Hamas has created additional demand, we have this $106bn request from the president,” said Von Rumohr, during General Dynamics’ earnings call on 25 October. “Can you give us some general color in terms of areas where you think you could see incremental acceleration in demand?”

    #bave

  • Grosses marges, ventres vides : le scandale des profits de l’industrie agroalimentaire - Basta !

    L’inflation sur les produits alimentaires est majoritairement nourrie par une hausse des profits des entreprises de l’agroalimentaire, alors que près d’une personne sur trois a du mal en France à se payer trois repas par jour.

    Et dedans
    https://www.60millions-mag.com/2023/08/31/avec-l-inflation-les-aliments-essentiels-deviennent-inaccessibles-21
    https://www.famillesrurales.org/trimestre-antiinflation-consommateurs-perdants

    +50% d’augmentation sur le sucre ! wtf ya plus de limite

    #alimentation #agroalimentaire #inflation (mon cul) #marge #profits #santé #grande_distribution

  • « Les #gestionnaires_d'actifs ont pris possession d’#infrastructures fondamentales de notre vie quotidienne » | Alternatives Economiques
    https://www.alternatives-economiques.fr/gestionnaires-dactifs-ont-pris-possession-dinfrastructures-fondament/00108262

    Géographe à l’université Uppsala en Suède, Brett Christophers a étudié ces poids lourds de la #finance dans son dernier livre Our Lives in Their Portfolios. Why Asset Managers Own the World (Verso, 2023, non traduit). Il a constaté notamment leur intérêt croissant pour l’acquisition de logements, de routes, d’antennes-relais, de parcs éoliens ou de réseaux d’eau, en somme pour toutes ces infrastructures dont dépendent les populations, au point que nous vivons, selon le chercheur, dans « une #société de gestionnaires d’actifs ».

    […]

    Cette société, est-elle une utopie ou une #dystopie ?

    B. C :
    En effet, on peut se demander : qu’est-ce que ça peut faire que les propriétaires de ces #infrastructures soient des #gestionnaires_d’actifs ? Ces dernières affirment que c’est mieux pour tout le monde quand les infrastructures sont entre leurs mains plutôt qu’entre celles d’autres propriétaires, notamment les #pouvoirs_publics : les usagers bénéficieraient de meilleurs services, les clients de meilleurs rendements et l’#Etat pourrait se focaliser sur ses missions. En réalité, aucun de ces arguments ne tient. Le livre consiste justement à les déconstruire.

    Concernant les usagers, des reportages ont documenté les dérives des gestionnaires d’actifs. Mais on pourrait se dire que ces histoires sont anecdotiques ou qu’ils ne font pas pire que les autres. Après tout, ce n’est pas parce que ces #infrastructures sont publiques qu’elles sont forcément bien gérées. Je viens du #Royaume-Uni et on ne peut pas dire que quand le gouvernement détient ces infrastructures ce soit un modèle à suivre…

    Mais, en réalité, plusieurs études ont montré que ce n’est pas anecdotique. Par exemple, les taux d’expulsion sont plus élevés pour les logements possédés par des gestionnaires d’actifs que pour ceux appartenant à d’autres propriétaires. De même, les maisons de retraite sont plus chères, alors que le nombre d’heures par patient des infirmières y est plus bas, ce qui explique probablement pourquoi la mortalité y est plus élevée.

    #rentabilité #profits

  • How a #Big_Pharma Company Stalled a Potentially Lifesaving Vaccine in Pursuit of Bigger #Profits — ProPublica
    https://www.propublica.org/article/how-big-pharma-company-stalled-tuberculosis-vaccine-to-pursue-bigger-pro

    A vaccine against tuberculosis, the world’s deadliest infectious disease, has never been closer to reality, with the potential to save millions of lives. But its development slowed after its corporate owner focused on more profitable vaccines.

    #surnuméraires #GSK #vaccins #tuberculose

  • 🛑 La faim justifie les moyens... - Contre Attaque

    Se nourrir coûte 25% de plus qu’en janvier 2022 selon l’UFC Que Choisir. Dans le même temps, les salaires n’ont quasiment pas augmenté. L’argument du gouvernement pour ne pas rehausser les salaires était que cela risquait d’accélérer l’inflation. L’inflation est là, et les salaires stagnent. Cela veut dire qu’en valeur réelle, les salaires ont massivement baissé. C’est comme si tous les patrons avaient amputé massivement toutes les paies ! (...)

    ⚡️ #capitalisme #CAC40 #patronat #profits #bénéfices #milliardaires
    #anticapitalisme #inégalité #précarité #pauvreté #faim...

    ⏩ Lire l’article complet...

    ▶️ https://contre-attaque.net/2023/09/03/la-faim-justifie-les-moyens-2

  • 🛑 Les dividendes continuent d’augmenter dans le monde, et encore plus en France...

    Les plus grandes entreprises dans le monde ont versé plus de 560 milliards de dollars de dividendes au deuxième trimestre, un record sur cette période, avec une tendance encore plus accentuée en France.
    Entre avril et juin, les 1 200 plus importantes entreprises cotées en Bourse, recensées par le gestionnaire d’actifs Janus Henderson, ont redistribué 568,1 milliards de dollars en dividendes à leurs actionnaires (...)

    #capitalisme #profits #dividendes... #anticapitalisme

    ⏩ Lire l’article complet...

    ▶️ https://www.nouvelobs.com/economie/20230830.OBS77496/les-dividendes-continuent-d-augmenter-dans-le-monde-et-encore-plus-en-fra

  • ★ Les libertaires ont-ils perdu la bataille des idées ? - GLJD Le Libertaire

    (...) Si l’on prend le terme anglo-américain woke (« éveillé ») et qui désigne le fait d’être conscient des problèmes liés à la justice sociale et à l’égalité raciale, les anarchistes peuvent être considérés comme partisans du wokisme.
    Cela fait longtemps que les libertaires sont conscients des injustices subies par les minorités ethniques, sexuelles, religieuses, ou de toutes formes de discrimination. Cela recoupe souvent l’exploitation capitaliste. Prenons l’exemple des catholiques irlandais en Ulster, ces derniers ne trouvaient du travail qu’après les protestants dans les années 1970. Dire aujourd’hui que les musulmans sont discriminés, ce n’est un scoop pour personne. Lucy Parson connaissait parfaitement les discriminations raciales. Emma Goldman parla dans ses meetings de l’homosexualité…
    (...) Dire que l’on ne peut pas écrire sur l’Islam car c’est la religion des opprimés, c’est un non-sens pour un anarchiste car toute religion opprime. La religion est liberticide ; elle opprime les hommes, les femmes, les enfants, les animaux. Elle opprime souvent bien plus les femmes ; c’est un constat intemporel. Et les islamistes ainsi que leurs séides, idiots utiles ou pas, peuvent toujours nous traiter d’islamophobes, cela ne changera pas notre conception de la liberté. Et Dieu et l’Etat de Bakounine est un ouvrage qui restera d’actualité tant que les Etats et les religions existeront. Et nous souhaitons à l’Islam et aux autres religions, le sort de l’église catholique qui périclite d’année en année (...)
    Grâce au wokisme, il existe maintenant un véritable clivage dans le féminisme. S’il y a toujours consensus contre le patriarcat, les viols, les féminicides, le harcèlement… ça se déchire sur le port du voile par exemple, les Trans…. Parallèlement à aucun moment le wokisme analyse la domination des femmes aux postes de pouvoir. Elles y exercent aussi tyranniquement que les hommes. De mémoire, Margaret Thatcher en Grande-Bretagne. Aujourd’hui, c’est la Méloni en Italie et peut-être demain Marine Le Pen en France. Elles font aussi bien le travail que les hommes pour ce que le capital exige (...)

    #Anarchisme #émancipation...
    🛑 #wokisme #discrimination #oppression #injustice #capitalisme #extrêmedroite #étatisme #pouvoir #luttedesclasses #féminisme #patriarcat #femmes #marchandisation #profits #GPA #homophobie #validisme... ...

    ⏩ Lire l’article complet...
    ▶️ https://le-libertaire.net/7807-2
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  • Carbon cash machine

    As the world burns, shareholders are getting record cash pay outs from their fossil fuel investments. Cash earnings made by shareholders in the UK’s two largest oil companies BP and Shell are now triple the amount they were when the Paris Agreement was signed in December 2015.

    This is the headline finding of our new report written and researched in collaboration with Corporate Watch.

    The report uses a unique analysis of financial data to calculate the combined earnings of shareholders derived from dividend pay outs and share buybacks.

    We found that shareholders in BP and Shell have earned a total of £131 billion in dividends and share buybacks combined since the Paris Agreement was signed. And this is just the value of cash earnings; the value of their shares has risen significantly in this period.

    In the same period, the top 8 shareholders have significantly expanded their holdings in BP and Shell; those 8 companies alone have raked in a total of £28.7bn in cash earnings from both BP and Shell. The report analyses the environmental and social strategies of those top eight shareholders in BP and Shell and raises major questions about the failure of fossil fuel divestment strategies and market solutions to climate change.

    Those shareholders are not likely to be influenced by campaigners demanding divestment since they all use passive investment strategies. Passive investing is the strategy of buying and holding stocks and based on sector and market benchmarks, such as stock market indices such as Dow Jones, S&P 500 or Nasdaq. Passive investment strategies therefore involve fewer judgement calls and are more automated, making them less responsible to non-financial considerations.

    Asset management firms deploying passive investment strategies have ensured that the tidal wave of fossil fuel investment has not abated, despite growing demands for divestment. While some investors have decreased their shareholding in Shell and BP since 2016, a large majority have retained or increased their stakes in the two companies.

    The report concludes that we will not be able to stem the flow of oil unless we stem the flow of cash to rich investors. The report therefore raises fundamental questions about the limits facing divestment campaigns. While investment and divestment patterns will be explored in more detail in a follow-up report next month, the analysis we present here demonstrates that a move away from fossil fuels at a pace necessary to abate climate change is simply not possible while power is becoming even more concentrated in the hands of asset managers.

    https://ccccjustice.org/2023/08/08/carbon-cash-machine

    Pour télécharger le #rapport :
    https://ccccjustice.org/wp-content/uploads/2023/08/Carbon-Cash-Machine.pdf

    #énergies_fossiles #investissement #pétrole #combustibles_fossiles #énergie_fossile #BP #Shell #profits #dividendes #business

  • We Get What We Pay For : The Cycle of Military Spending, Industry Power, and Economic Dependence | Costs of War
    https://watson.brown.edu/costsofwar/papers/2023/WhatWePayFor

    Decades of high levels of military spending have changed U.S. government and society — strengthening its ability to fight wars, while weakening its capacities to perform other core functions. Investments in infrastructure, healthcare, education, and emergency preparedness, for instance, have all suffered as military spending and industry have crowded them out. Increased resources channeled to the military further increase the political power of military industries, ensuring that the cycle of economic dependence continues — militarized sectors of the economy see perpetual increases in funding and manpower while other human needs go unmet.

    […]

    This report further shows that reducing military funding and increasing funding to areas like healthcare, education, infrastructure, or clean energy, will create jobs. Dollar for dollar, these alternative areas of federal spending create between 9 percent and 250 percent more jobs than the military . And a “Just Transition” is possible in order to ease the transition for workers and communities that are dependent on military spending, as investments are made and jobs are created in other industries.

    #états-unis
    #leadership #milliers_de_milliards

    Ce qui n’est pas discuté, comme quasiment toujours, ce sont les gigantissimes #profits engrangés par une minorité grâce aux moindres investissements publics dans les domaines de l’éducation, de la santé et autres secteurs nécessaires au plus grand nombre.

  • Le retour du travail des enfants est le dernier signe du déclin des Etats-Unis Steve Fraser

    En 1906, un vieux chef amérindien visitait New York pour la première fois. Il était curieux de la ville et la ville était intéressée à lui. Un journaliste d’un magazine demande au chef amérindien ce qui l’a le plus surpris dans ses déplacements en ville. « Les petits enfants qui travaillent », répondit le visiteur.

    Le travail des enfants aurait pu choquer cet étranger, mais il n’était que trop banal à l’époque dans les Etats-Unis urbains et industriels (et dans les fermes où il était habituel depuis fort longtemps). Plus récemment, cependant, il est devenu beaucoup plus rare. La loi et la pratique l’ont presque fait disparaître, supposent la plupart d’entre nous. Et notre réaction face à sa réapparition pourrait ressembler à celle de ce chef : choc, incrédulité.


    Mais nous ferions mieux de nous y habituer, car le travail des enfants revient en force. Un nombre impressionnant d’élus entreprennent des efforts concertés ( The New Yorker , « Child Labor is on the Rise », 4 juin 2023 sur le site) pour affaiblir ou abroger les lois qui ont longtemps empêché (ou du moins sérieusement freiné) la possibilité d’exploiter les enfants.

    Reprenez votre souffle et considérez ceci : le nombre d’enfants au travail aux Etats-Unis a augmenté de 37% entre 2015 et 2022. Au cours des deux dernières années, 14 États ont introduit ou promulgué des lois annulant les réglementations qui régissaient le nombre d’heures pendant lesquelles les enfants pouvaient être employés, réduisaient les restrictions sur les travaux dangereux et légalisaient les salaires minimums pour les jeunes.

    L’État de l’Iowa autorise désormais les jeunes de 14 ans à travailler dans des blanchisseries industrielles. A l’âge de 16 ans, ils peuvent occuper des emplois dans les domaines de la toiture, de la construction, de l’excavation et de la démolition et peuvent utiliser des machines à moteur. Les jeunes de 14 ans peuvent même travailler de nuit et, dès l’âge de 15 ans, ils peuvent travailler sur des chaînes de montage. Tout cela était bien sûr interdit il n’y a pas si longtemps.
    +++
    Les élus donnent des justifications absurdes à ces entorses à des pratiques établies de longue date. Le travail, nous disent-ils, éloignera les enfants de leur ordinateur, de leurs jeux vidéo ou de la télévision. Ou encore, il privera le gouvernement du pouvoir de dicter ce que les enfants peuvent ou ne peuvent pas faire, laissant aux parents le contrôle – une affirmation déjà transformée en fantasme par les efforts visant à supprimer la législation sociale protectrice et à permettre aux enfants de 14 ans de travailler sans autorisation parentale formelle.

    En 2014, l’Institut Cato, un groupe de réflexion de droite, a publié « A Case Against Child Labor Prohibitions » (Un cas contre les interdictions du travail des enfants), arguant que de telles lois étouffaient les perspectives pour l’avenir des enfants pauvres, et en particulier les enfants noirs. La Foundation for Government Accountability (Fondation pour l’obligation du gouvernement de rendre des comptes), un groupe de réflexion financé par une série de riches donateurs conservateurs, dont la famille DeVos [Betsy DeVos, secrétaire d’Etat à l’Education sous l’administration Trump], a été le fer de lance des efforts visant à affaiblir les lois sur le travail des enfants, et Americans for Prosperity, la fondation milliardaire des frères Koch [très engagés dans les investissements pétroliers], s’est jointe à eux.

    Ces attaques ne se limitent pas aux États rouges (républicains) comme l’Iowa ou ceux du Sud. La Californie, le Maine, le Michigan, le Minnesota et le New Hampshire, ainsi que la Géorgie et l’Ohio, ont également été l’objet d’interventions dans ce sens. Au cours des années de pandémie, même le New Jersey a adopté une loi, augmentant temporairement les heures de travail autorisées pour les jeunes de 16 à 18 ans.


    +++
    La vérité toute crue est que le travail des enfants est rentable et qu’il est en train de devenir remarquablement omniprésent. C’est un secret de Polichinelle que les chaînes de restauration rapide emploient des mineurs depuis des années et considèrent simplement les amendes occasionnelles comme faisant partie du coût de fonctionnement. Dans le Kentucky, des enfants d’à peine 10 ans ont travaillé dans de tels centres de restauration et d’autres, plus âgés, ont dépassé les limites horaires prescrites par la loi. En Floride et au Tennessee, les couvreurs peuvent désormais avoir 12 ans.

    Récemment, le Département du Travail a découvert plus de 100 enfants âgés de 13 à 17 ans travaillant dans des usines de conditionnement de viande et des abattoirs du Minnesota et du Nebraska. Et il ne s’agissait pas d’opérations véreuses. Des entreprises comme Tyson Foods et Packer Sanitation Services – qui appartient au fonds d’investissement BlackRock, la plus grande société de gestion d’actifs au monde [voir l’article sur ces fonds publié sur ce site le 7 juillet 2023] – figuraient également sur la liste.

    A ce stade, la quasi-totalité de l’économie est remarquablement ouverte au travail des enfants. Les usines de vêtements et les fabricants de pièces automobiles (qui fournissent Ford et General Motors) emploient des enfants immigrés, parfois pendant des journées de travail de 12 heures. Nombre d’entre eux sont contraints d’abandonner l’école pour ne pas être pénalisés. De la même manière, les chaînes d’approvisionnement de Hyundai et de Kia dépendent des enfants qui travaillent en Alabama.

    Comme l’a rapporté le New York Times en février dernier (« Alone and Exploited, Migrant Children Work Brutal Jobs Across the U.S. » par Hannah Dreier, 25 février 2023) – contribuant à faire connaître le nouveau marché du travail des enfants – des enfants mineurs, en particulier des migrants, travaillent dans des usines d’emballage de céréales et des usines de transformation alimentaire. Dans le Vermont, des « illégaux » (parce qu’ils sont trop jeunes pour travailler) font fonctionner des machines à traire. Certains enfants participent à la confection de chemises J. Crew [grande firme de prêt-à-porter] à Los Angeles, préparent des petits pains pour Walmart [le plus grand distributeur des Etats-Unis] ou travaillent à la production de chaussettes Fruit of the Loom [firme très connue]. Le danger guette. Les Etats-Unis sont un environnement de travail notoirement dangereux et le taux d’accidents chez les enfants travailleurs est particulièrement élevé, avec un inventaire effrayant de colonnes vertébrales brisées, d’amputations, d’empoisonnements et de brûlures défigurantes.

    La journaliste Hannah Dreier a parlé d’une « nouvelle économie de l’exploitation », en particulier lorsqu’il s’agit d’enfants migrants. Un instituteur de Grand Rapids, dans le Michigan, observant la même situation difficile, a fait la remarque suivante : « Vous prenez des enfants d’un autre pays et vous les mettez presque en servitude industrielle. »

    Il y a longtemps, aujourd’hui
    Aujourd’hui, nous pouvons être aussi stupéfaits par ce spectacle déplorable que l’était ce chef amérindien au tournant du XXe siècle. Nos ancêtres, eux, ne l’auraient pas été. Pour eux, le travail des enfants allait de soi.

    En outre, les membres des classes supérieures britanniques qui n’étaient pas obligés de travailler dur ont longtemps considéré le travail comme un tonique spirituel capable de réfréner les impulsions indisciplinées des classes inférieures. Une loi élisabéthaine de 1575 prévoyait l’affectation de fonds publics à l’emploi d’enfants en tant que « prophylaxie contre les vagabonds et les indigents ».

    Au XVIIe siècle, le philosophe John Locke [1632-1704, auteur de l’ Essai sur l’entendement humain , un des principaux acteurs de la Royal African Company, pilier de la traite négrière], alors célèbre « défenseur de la liberté », soutenait que les enfants de trois ans devaient être inclus dans la force de travail. Daniel Defoe, auteur de Robinson Crusoé , se réjouissait que « les enfants de quatre ou cinq ans puissent tous gagner leur propre pain ». Plus tard, Jeremy Bentham [1748-1832, précurseur du libéralisme], le père de l’utilitarisme, optera pour quatre ans, car sinon, la société souffrirait de la perte de « précieuses années pendant lesquelles rien n’est fait ! Rien pour l’industrie ! Rien pour l’amélioration, morale ou intellectuelle. »

    Le rapport sur l’industrie manufacturière publié en 1791 par le « père fondateur » états-unien Alexander Hamilton [1757-1804, secrétaire au Trésor de 1789 à 1795] notait que les enfants « qui seraient autrement oisifs » pourraient au contraire devenir une source de main-d’œuvre bon marché. L’affirmation selon laquelle le travail à un âge précoce éloigne les dangers sociaux de « l’oisiveté et de la dégénérescence » est restée une constante de l’idéologie des élites jusqu’à l’ère moderne. De toute évidence, c’est encore le cas aujourd’hui.


    +++
    Lorsque l’industrialisation a effectivement commencé au cours de la première moitié du XIXe siècle, les observateurs ont noté que le travail dans les nouvelles usines (en particulier les usines textiles) était « mieux fait par les petites filles de 6 à 12 ans ». En 1820, les enfants représentaient 40% des travailleurs des usines dans trois Etats de la Nouvelle-Angleterre. La même année, les enfants de moins de 15 ans représentaient 23% de la main-d’œuvre manufacturière et jusqu’à 50% de la production de textiles de coton (« Child Labor in the United States », Robert Whaples, Wake Forest University).

    Et ces chiffres ne feront qu’augmenter après la guerre de Sécession [1861-1865]. En fait, les enfants d’anciens esclaves ont été ré-esclavagisés par le biais d’accords d’apprentissage très contraignants. Pendant ce temps, à New York et dans d’autres centres urbains, les padroni italiens ont accéléré l’exploitation des enfants immigrés tout en les traitant avec brutalité. Même le New York Times s’est offusqué : « Le monde a renoncé à voler des hommes sur les côtes africaines pour kidnapper des enfants en Italie. »

    Entre 1890 et 1910, 18% des enfants âgés de 10 à 15 ans, soit environ deux millions de jeunes, ont travaillé, souvent 12 heures par jour, six jours par semaine.Leurs emplois couvraient le front de mer – trop littéralement puisque, sous la supervision des padroni , des milliers d’enfants écaillaient les huîtres et ramassaient les crevettes. Les enfants étaient également des crieurs de rue et des vendeurs de journaux. Ils travaillaient dans des bureaux et des usines, des banques et des maisons closes. Ils étaient « casseurs » et « ouvreurs de portes en bois permettant l’accès d’air » dans les mines de charbon mal ventilées, des emplois particulièrement dangereux et insalubres. En 1900, sur les 100 000 ouvriers des usines textiles du Sud, 20 000 avaient moins de 12 ans.

    Les orphelins des villes sont envoyés travailler dans les verreries du Midwest. Des milliers d’enfants sont restés à la maison et ont aidé leur famille à confectionner des vêtements pour des ateliers clandestins. D’autres emballent des fleurs dans des tentes mal ventilées. Un enfant de sept ans expliquait : « Je préfère l’école à la maison. Je n’aime pas la maison. Il y a trop de fleurs. » A la ferme, la situation n’est pas moins sombre : des enfants de trois ans travaillent à décortiquer des baies.

    Dans la famille
    Il est clair que, jusqu’au XXe siècle, le capitalisme industriel dépendait de l’exploitation des enfants, moins chers à employer, moins capables de résister et, jusqu’à l’avènement de technologies plus sophistiquées, bien adaptés aux machines relativement simples en place à l’époque.


    En outre, l’autorité exercée par le patron était conforme aux principes patriarcaux de l’époque, que ce soit au sein de la famille ou même dans les plus grandes des nouvelles entreprises industrielles de l’époque, détenues en grande majorité par des familles, comme les aciéries d’Andrew Carnegie. Ce capitalisme familial a donné naissance à une alliance perverse entre patron et sous-traitants qui a transformé les enfants en travailleurs salariés miniatures.

    Pendant ce temps, les familles de la classe ouvrière étaient si gravement exploitées qu’elles avaient désespérément besoin des revenus de leurs enfants. En conséquence, à Philadelphie, au tournant du siècle, le travail des enfants représentait entre 28% et 33% du revenu des familles biparentales nées dans le pays Monthly Labor Review, « History of child labor in the United States—part 1 : little children working », January 2017) . Pour les immigrés irlandais et allemands, les chiffres étaient respectivement de 46% et 35%. Il n’est donc pas surprenant que les parents de la classe ouvrière se soient souvent opposés aux propositions de lois sur le travail des enfants. Comme l’a noté Karl Marx, le travailleur n’étant plus en mesure de subvenir à ses besoins, « il vend maintenant sa femme et son enfant, il devient un marchand d’esclaves ».

    Néanmoins, la résistance commence à s’organiser. Le sociologue et photographe Lewis Hine a scandalisé le pays avec des photos déchirantes d’enfants travaillant dans les usines et dans les mines. (Il put accéder à à ces lieux de travail en prétendant qu’il était un vendeur de bibles.) Mother Jones [1837-1930], la militante syndicaliste, a mené une « croisade des enfants » en 1903 au nom des 46 000 ouvriers du textile en grève à Philadelphie. Deux cents délégués des enfants travailleurs se sont rendus à la résidence du président Teddy Roosevelt [1901-1909] à Oyster Bay, Long Island, pour protester, mais le président s’est contenté de renvoyer la balle, affirmant que le travail des enfants relevait de la compétence des Etats et non de celle du gouvernement fédéral.

    Ici et là, des enfants tentent de s’enfuir. En réaction, les propriétaires ont commencé à entourer leurs usines de barbelés ou à faire travailler les enfants la nuit, lorsque leur peur de l’obscurité pouvait les empêcher de s’enfuir. Certaines des 146 femmes qui ont péri dans le tristement célèbre incendie de la Triangle Shirtwaist Factory en 1911 dans le Greenwich Village de Manhattan – les propriétaires de cette usine de confection avaient verrouillé les portes, obligeant les ouvrières prises au piège à sauter vers la mort depuis les fenêtres des étages supérieurs – n’avaient pas plus de 15 ans. Cette tragédie n’a fait que renforcer la colère grandissante à l’égard du travail des enfants.
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    Un comité national sur le travail des enfants a été créé en 1904. Pendant des années, il a fait pression sur les Etats pour qu’ils interdisent, ou du moins limitent, le travail des enfants. Les victoires, cependant, étaient souvent à la Pyrrhus, car les lois promulguées étaient invariablement faibles, comportaient des dizaines d’exemptions et étaient mal appliquées. Finalement, en 1916, une loi fédérale a été adoptée qui interdisait le travail des enfants partout. En 1918, cependant, la Cour suprême l’a déclarée inconstitutionnelle.

    En fait, ce n’est que dans les années 1930, après la Grande Dépression, que les conditions ont commencé à s’améliorer. Compte tenu de la dévastation économique, on pourrait supposer que la main-d’œuvre enfantine bon marché aurait été très prisée. Cependant, face à la pénurie d’emplois, les adultes, et en particulier les hommes, ont pris le dessus et ont commencé à effectuer des tâches autrefois réservées aux enfants. Au cours de ces mêmes années, le travail industriel a commencé à incorporer des machines de plus en plus complexes qui s’avéraient trop difficiles pour les jeunes enfants. Dans le même temps, l’âge de la scolarité obligatoire ne cessait de s’élever, limitant encore davantage le nombre d’enfants travailleurs disponibles.
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    Plus important encore, l’air du temps a changé. Le mouvement ouvrier insurrectionnel des années 1930 détestait l’idée même du travail des enfants. Les usines syndiquées et les industries entières étaient des zones interdites aux capitalistes qui cherchaient à exploiter les enfants. En 1938, avec le soutien des syndicats, l’administration du New Deal du président Franklin Roosevelt a finalement adopté la Fair Labor Standards Act qui, du moins en théorie, a mis fin au travail des enfants (bien qu’elle ait exempté le secteur agricole dans lequel ce type de main-d’œuvre restait courant).

    En outre, le New Deal de Roosevelt a transformé les mentalités à l’échelle du pays. Un sentiment d’égalitarisme économique, un nouveau respect pour la classe ouvrière et une méfiance sans bornes à l’égard de la caste des entreprises ont rendu le travail des enfants particulièrement répugnant. En outre, le New Deal a inauguré une longue ère de prospérité, avec notamment l’amélioration du niveau de vie de millions de travailleurs et travailleuses qui n’avaient plus besoin du travail de leurs enfants pour joindre les deux bouts.

    Retour vers le passé
    Il est d’autant plus étonnant de découvrir qu’un fléau, que l’on croyait banni, revit. Le capitalisme états-unien est un système internationalisé, ses réseaux s’étendent pratiquement partout. Aujourd’hui, on estime à 152 millions le nombre d’enfants au travail dans le monde. Bien sûr, tous ne sont pas employés directement ou même indirectement par des entreprises états-uniennes. Mais ces millions devraient certainement nous rappeler à quel point le capitalisme est redevenu profondément rétrograde, tant chez nous qu’ailleurs sur la planète.

    Les vantardises sur la puissance et la richesse de l’économie des Etats-Unis font partie du système de croyances et de la rhétorique des élites. Cependant, l’espérance de vie aux Etats-Unis, mesure fondamentale de la régression sociale, ne cesse de diminuer depuis des années. Les soins de santé sont non seulement inabordables pour des millions de personnes, mais leur qualité est devenue au mieux médiocre si l’on n’appartient pas au 1% supérieur. De même, les infrastructures du pays sont depuis longtemps en déclin, en raison de leur âge et de décennies de négligence.

    Il faut donc considérer les Etats-Unis comme un pays « développé » en proie au sous-développement et, dans ce contexte, le retour du travail des enfants est profondément symptomatique. Même avant la grande récession qui a suivi la crise financière de 2008, le niveau de vie avait baissé, en particulier pour des millions de travailleurs mis à mal par un tsunami de désindustrialisation qui a duré des décennies. Cette récession, qui a officiellement duré jusqu’en 2011, n’a fait qu’aggraver la situation. Elle a exercé une pression supplémentaire sur les coûts de la main-d’œuvre, tandis que le travail devenait de plus en plus précaire, de plus en plus dépourvu d’avantages sociaux et non syndiqué. Dans ces conditions, pourquoi ne pas se tourner vers une autre source de main-d’œuvre bon marché : les enfants ?

    Les plus vulnérables d’entre eux viennent de l’étranger, des migrants du Sud, fuyant des économies défaillantes souvent liées à l’exploitation et à la domination économiques états-uniennes. Si ce pays connaît aujourd’hui une crise frontalière – et c’est le cas – ses origines se trouvent de ce côté-ci de la frontière [et non pas avant tout en Amérique centrale ou au Mexique].

    La pandémie de Covid-19 de 2020-2022 a créé une brève pénurie de main-d’œuvre, qui est devenue un prétexte pour remettre les enfants au travail (même si le retour du travail des enfants est en fait antérieur à la pandémie). Il faut considérer ces enfants travailleurs au XXIe siècle comme un signe distinct de la pathologie sociale présente. Les Etats-Unis peuvent encore tyranniser certaines parties du monde, tout en faisant sans cesse étalage de leur puissance militaire. Mais chez eux, ils sont malades.

    #capitalisme #profits #travail des #enfants #exploitation #usa #Etats-Unis #élites #esclavage #ouvrières #ouvriers #migrants #Lewis_Hine

    Source originale : Tom Dispatch https://tomdispatch.com/caution-children-at-work
    Traduit de l’anglais par A l’encontre https://alencontre.org/ameriques/americnord/usa/le-retour-du-travail-des-enfants-est-le-dernier-signe-du-declin-des-etat

  • 🛑 Moins on mange, plus ils encaissent : l’inflation gave les bourgeois - Frustration

    C’est à n’y rien comprendre. C’est la crise, l’inflation reste très élevée, l’économie n’est ni remise du Covid ni de la guerre en Ukraine qui se poursuit. Et pourtant, les profits atteignent des records, les dividendes sont plus hauts que le ciel, et les milliardaires n’ont jamais accumulé autant de milliards. Si on n’y regarde pas de plus près, on pourrait considérer comme paradoxale une situation qui est parfaitement logique. Pour accumuler les milliards, il faut accumuler les dividendes. Pour accumuler les dividendes, il faut accumuler les profits. Pour accumuler les profits, il faut appauvrir la population en augmentant les prix et en baissant les salaires réels. Ça vous parait simpliste ? Alors, regardons de plus près les chiffres (...)

    #inflation #capitalisme #profits #bourgeoisie... #anticapitalisme !

    ▶️ via @frustration1

    ⏩ Lire l’article complet…

    ▶️ https://www.frustrationmagazine.fr/inflation-bourgeois

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  • Europe’s Inflation Outlook Depends on How Corporate Profits Absorb Wage Gains

    Higher prices so far mostly reflect increases in profits and import costs, but labor costs are picking up

    Rising corporate profits account for almost half the increase in Europe’s inflation over the past two years as companies increased prices by more than spiking costs of imported energy. Now that workers are pushing for pay rises to recoup lost purchasing power, companies may have to accept a smaller profit share if inflation is to remain on track to reach the European Central Bank’s 2-percent target in 2025, as projected in our most recent World Economic Outlook.

    Inflation in the euro area peaked at 10.6 percent in October 2022 as import costs surged after Russia’s invasion of Ukraine and companies passed on more than this direct increase in costs to consumers. Inflation has since retreated to 6.1 percent in May, but core inflation—a more reliable measure of underlying price pressures—has proven more persistent. This is keeping the pressure on the ECB to add to recent interest-rate rises even though the euro area slipped into recession at the start of the year. Policymakers raised rates to a 22-year high of 3.5 percent in June.

    As the Chart of the Week shows, the higher inflation so far mainly reflects higher profits and import prices, with profits accounting for 45 percent of price rises since the start of 2022. That’s according to our new paper, which breaks down inflation, as measured by the consumption deflator, into labor costs, import costs, taxes, and profits. Import costs accounted for about 40 percent of inflation, while labor costs accounted for 25 percent. Taxes had a slightly deflationary impact.

    In other words, Europe’s businesses have so far been shielded more than workers from the adverse cost shock. Profits (adjusted for inflation) were about 1 percent above their pre-pandemic level in the first quarter of this year. Meanwhile, compensation of employees (also adjusted) was about 2 percent below trend. This is not the same as saying that profitability has increased, as discussed in our paper.

    Previous episodes of surging energy prices suggest that labor costs’ contribution to inflation should grow going forward. In fact, it has already picked up over recent quarters. At the same time, the contribution from import prices has fallen since its peak in mid-2022.

    This lag in wage gains makes sense: wages are slower than prices to react to shocks. This is partly because wage negotiations are held infrequently. But after seeing their wages drop by about 5 percent in real terms in 2022, workers are now pushing for pay rises. The key questions are how fast wages will rise and whether companies will absorb higher wage costs without further increasing prices.

    Assuming that nominal wages rise at a pace of around 4.5 percent over the next two years (slightly below the growth rate seen in the first quarter of 2023) and labor productivity stays broadly flat in the next couple of years, businesses’ profit share would have to fall back to pre-pandemic levels for inflation to reach the ECB’s target by mid-2025. Our calculations assume that commodity prices continue to decline, as projected in April’s World Economic Outlook.

    Should wages increase more significantly—by, say, the 5.5 percent rate needed to guide real wages back to their pre-pandemic level by end-2024—the profit share would have to drop to the lowest level since the mid-1990s (barring any unexpected increase in productivity) for inflation to return to target.

    As noted in our recent review of the euro-area economy, macroeconomic policies thus need to remain tight to anchor expectations and maintain subdued demand. This would coax firms to accept a compression of the profit share and real wages could recover at a measured pace.

    https://www.imf.org/en/Blogs/Articles/2023/06/26/europes-inflation-outlook-depends-on-how-corporate-profits-absorb-wage-gains
    #inflation #multinationales #économie #profits #salaires #statistiques #chiffres

    • Euro Area Inflation after the Pandemic and Energy Shock: Import Prices, Profits and Wages

      We document the importance of import prices and domestic profits as a counterpart to the recent increase in euro area inflation. Through a novel consumption deflator decomposition, we show that import prices account for 40 percent of the average change in the consumption deflator over 2022Q1 – 2023Q1, while domestic profits account for 45 percent. The increase in nominal profits was largest in sectors benefiting from increasing international commodity prices and those exposed to recent supply-demand mismatches. While the results show that firms have passed on more than the nominal cost shock, and have fared relatively better than workers, the limited available data does not point to a widespread increase in markups. Looking ahead, assuming nominal wage growth of around 4.5 percent over 2023-24 – slightly below the level seen in Q1 2023 – and broadly unchanged productivity, a normalization of the profit share to the average level over 2015-19 will be necessary to achieve a convergence of inflation to target over the next two years. Monetary policy will thus need to remain restrictive to anchor expectations and maintain subdued demand such that workers and firms settle on relative price setting that is consistent with disinflation.

      https://www.imf.org/en/Publications/WP/Issues/2023/06/23/Euro-Area-Inflation-after-the-Pandemic-and-Energy-Shock-Import-Prices-Profits-a

  • L’affare CPR, un sistema che fa gola a detrimento dei diritti

    Sono 56 i milioni di euro previsti complessivamente, nel periodo 2021-2023, dagli appalti per affidare la gestione dei #Centri_di_Permanenza_per_il_Rimpatrio (CPR) ai soggetti privati. Costi da cui sono esclusi quelli relativi alla manutenzione delle strutture e del personale di polizia. Cifre che fanno della detenzione amministrativa una filiera molto remunerativa che, non a caso, ha attratto negli ultimi anni gli interessi economici di grandi multinazionali e cooperative. La privatizzazione della gestione è, infatti, uno degli aspetti più controversi di questa forma di detenzione senza reato e ne segna un ulteriore carattere di eccezionalità: il consentire che su quella privazione della libertà personale qualcuno possa trarne profitto.

    Ad illustrare questa situazione è la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD), che questa mattina a Roma ha presentato un nuovo rapporto sul tema, intitolato “L’affare CPR. Il profitto sulla pelle delle persone migranti”, all’interno del quale grande attenzione è stata dedicata alle multinazionali #Gepsa e #ORS, alla società #Engel s.r.l. e alle Cooperative #Edeco-Ekene e #Badia_Grande che hanno contribuito, negli anni recenti, a fare la storia della detenzione amministrativa in Italia.

    Una storia tutt’altro che nobile fatta di sistematiche violazioni dei diritti delle persone detenute, con la possibilità per gli enti gestori di massimizzare -in maniera illegittima- i propri profitti anche a causa della totale assenza di controlli da parte delle pubbliche autorità. Nel Rapporto, infatti, si dà ampio spazio alla denuncia delle condizioni di detenzione che rischiano di configurarsi come inumane e degradanti e alla strutturale negazione dei diritti fondamentali dei detenuti. Il diritto alla salute, alla difesa, alla libertà di corrispondenza non sono, infatti, tutelati all’interno dei CPR: luoghi brutali che consentono ai privati di speculare sulla pelle dei reclusi, grazie anche alla totale assenza di vigilanza da parte del pubblico.

    “Da sempre questi centri – ha dichiarato Arturo Salerni, presidente di CILD – hanno rappresentato un buco nero per l’esercizio dei diritti da parte delle persone trattenute. Essi rappresentano un buco nero anche sotto il profilo delle modalità e dell’entità della spesa, a carico dell’erario, a fronte delle gravi carenze nella gestione e delle condizioni in cui si trovano a vivere i soggetti che incappano nelle maglie della detenzione amministrativa, ovvero della privazione della libertà in assenza di qualunque ipotesi di reato. Il proposito del governo di aumentarne il numero è il frutto di scelte dettate da un approccio tutto ideologico che non trova fondamento nell’analisi del fenomeno. L’esperienza degli ultimi 25 anni, a prescindere dalla gestione pubblica o privata dei centri, ci dice che bisogna guardare a forme alternative e non coercitive per affrontare la questione delle presenze irregolari sul territorio nazionale, che bisogna accompagnare le persone in percorsi di regolarizzazione e di emersione, cancellando l’obbrobrio della detenzione senza reato”.

    https://cild.eu/blog/2023/06/08/laffare-cpr-un-sistema-che-fa-gola-a-detrimento-dei-diritti

    Une #carte localisant les lieux de rétention administrative en Italie :


    #cartographie

    Pour télécharger le rapport :
    https://wp-buchineri.cild.eu/wp-content/uploads/2023/06/ReportCPR_2023.pdf

    #rapport #CPR #CILD #détention_administrative #rétention #business #privatisation #Italie #multinationales #coopératives #profits #droits_humains #CIE

    –—

    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

    • “L’affar€ CPR”: un rapporto di CILD mette alla sbarra gli enti gestori

      Il profitto sulla pelle delle persone migranti

      Nel giugno scorso la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) ha pubblicato un accurato rapporto dal titolo “L’affar€ CPR: il profitto sulla pelle delle persone migranti” 1, che analizza la gestione dei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) italiani da parte delle principali cooperative e imprese private che ne detengono o ne hanno detenuto l’appalto, vincendo i diversi bandi di gara istituiti dalle prefetture.

      Introdotta formalmente nel 1998 2 la detenzione amministrativa in Italia prevedeva inizialmente la facoltà per i questori, qualora non fosse possibile eseguire immediatamente l’espulsione delle persone extracomunitarie, di disporne il trattenimento per un massimo di 20 giorni (prorogabile di ulteriori 10) all’interno dei CPTA, Centri di Permanenza Temporanea e di Assistenza.

      Nel 2008 3, i CPTA diventano Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), e, nel 2009 4, i termini massimi di trattenimento vengono estesi a 180 giorni, per poi venire portati a 18 mesi nel 2011 5. Nel 2017 6, la c.d legge Minniti-Orlando ha ulteriormente modificato la denominazione di tali centri, rinominandoli Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR). Infine, il decreto Lamorgese del 2020 ha emendato alcune disposizioni, riducendo i termini massimi di trattenimento a 90 giorni per cittadini stranieri il cui paese d’origine ha sottoscritto accordi in materia di rimpatri con l’Italia 7.

      Inizialmente, i CPTA erano gestiti dall’ente pubblico Croce Rossa Italiana, e già all’ora diverse organizzazioni della società civile avevano denunciato le pessime condizioni di trattenimento, l’inadeguatezza delle infrastrutture e il sovraffollamento. In seguito al “pacchetto sicurezza” varato dal Ministro Maroni nel 2008, la situazione si aggrava, con la progressiva tendenza dello Stato a cercare di contenere i costi il più possibile. Così, diverse cooperative iniziano a partecipare ai bandi di gara, proponendo offerte a ribasso ed estromettendo la Croce Rossa. Infine, dal 2014, non solo le cooperative ma anche grandi multinazionali che già gestiscono centri di trattenimento in tutta Europa, iniziano a presentarsi e vincere i diversi bandi per l’assegnazione della gestione dei CPR.

      Multinazionali che si aggiudicano gare d’appalto proponendo ribassi aggressivi, a totale discapito dei diritti umani delle persone trattenuti. L’esempio più lampante è l’assistenza sanitaria, in quanto nei CPR, non è il SSN ad esserne competente, bensì l’ente gestore. Infine, nel triennio 2021-2023, le prefetture competenti hanno bandito gare d’appalto per la gestione dei 10 CPR presenti in Italia, complessivamente, per 56 milioni di euro, da sommare al costo del personale di polizia e la manutenzione delle strutture.

      Tra le principali imprese messe alla sbarra dal Report di CILD ci sono:

      Gruppo ORS (Organisation for Refugees Services). Multinazionale con sede a Zurigo, gestisce oltre 100 strutture di accoglienza e detenzione tra Svizzera, Austria, Germania e Italia. Sebbene risulti iscritta nel registro delle imprese dal 2018, ha iniziato la sua attività economica in Italia solo nel 2020. Nel 2019, si aggiudica l’appalto per la gestione del CPR di Macomer, in Sardegna (sebbene risultasse ancora “inattiva”). Nel 2020, gestisce il Cas di Monastir (Sardegna), due centri d’accoglienza a Bologna nel 2021, alcuni Cas a Milano, il CPR di Roma (Ponte Galeria) e quello di Torino.

      Nel centro di Macomer, personale medico ha denunciato l’assenza di interventi da parte delle autorità competenti in seguito a diversi episodi che hanno visto i trattenuti mettere a rischio la propria sicurezza. Inoltre, a più riprese è stata riportata l’impossibilità di effettuare ispezioni all’interno del centro da parte del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Infine, un’avvocata che seguiva diversi clienti trattenuti, ha denunciato la sporcizia e l’inadeguatezza delle visite mediche di idoneità, che ha portato, tra l’altro, al trattenimento di soggetti affetti da gravi forme di diabete e soggetti sottoposti a terapia scalare con metadone, condizioni incompatibili con la detenzione amministrativa.

      Nel CPR di Roma è stata più volte denunciata l’insufficienza di personale, l’inadeguatezza dei locali di trattenimento (per esempio, l’assenza di luce naturale) e l’assenza della possibilità, per le persone recluse, di svolgere qualsiasi attività ricreativa. Anche a Torino, la delegazione CILD in visita ha riportato l’illegittimo trattenimento di persone soggette a terapia scalare con metadone, alto tasso di autolesionismo e abuso di psicofarmaci e tranquillanti somministrati.

      Cooperativa EKENE. Cooperativa sociale padovana che nel corso degli ultimi 10 anni ha spesso cambiato nome (nata come Ecofficina, poi Edeco 8 e infine Ekene), in quanto spesso al centro di inchieste giornalistiche, interrogazioni parlamentari e procedimenti giudiziari legati ad una cattiva gestione di alcuni centri d’accoglienza, come lo SPRAR di Due Carrare (Padova), dove la Procura di Padova aveva aperto un’indagine per truffa e falso in atto pubblico, tramutatasi in una maxi indagine estesasi ad alcuni vertici della Prefettura di Padova, per gare truccate e rivelazioni di segreto d’ufficio.

      Nel 2016, diversi giornalisti e ricercatori avevano ripetutamente denunciato il sovraffollamento e la malnutrizione di diversi centri in gestione alla cooperativa, come l’ex Caserma Prandina, il centro di Bagnoli e Cona (VE), dove, nel 2017, la donna venticinquenne Sandrine Bakayoko è morta per una trombosi polmonare, quando all’interno del centro erano ospitate più di 1.300 persone, in una situazione di sovraffollamento e forte carenza di personale. Nel 2016, è stata espulsa da Confcooperative Veneto, con l’accusa di gestire l’accoglienza seguendo un modello che guardava al business a discapito della qualità dei servizi.

      Tuttavia, nel 2019 si aggiudica l’appalto del CPR di Gradisca d’Isonzo, a Gorizia in FVG, un appalto da circa 5 milioni di euro per un anno, attualmente in proroga tecnica. Dalla riapertura nel 2019, il CPR di Gradisca è quello dove si sono verificati più decessi. Dal 2019, quattro persone sono decedute, due per complicazioni in seguito all’abuso di farmaci, e due suicidi. Ciò mette in risalto la malagestione delle visite di idoneità all’ingresso, nonché l’inadeguatezza delle condizioni di trattenimento. Inoltre, diversi avvocati hanno denunciato la difficoltà nello svolgere colloqui coi trattenuti, e come le persone trattenute non venissero nemmeno informate del diritto a fare domanda d’asilo una volta entrate in Italia.
      Nel dicembre 2021 Ekene si aggiudica anche la gestione del CPR di Macomer.

      ENGEL ITALIA S.R.L. Società costituita nel 2012 con sede legale a Salerno. Nata come ente gestore nel settore alberghiero, presto inizia ad occuparsi di strutture d’accoglienza per persone richiedenti asilo nella zona di Capaccio-Paestum. Sebbene sia una società fallibile dal 2020, è riuscita ad ottenere la gestione del CPR di Palazzo San Gervasio (Basilicata) e Via Corelli (Milano), grazie alla cessione di un ramo dell’azienda ad una società terza, Martinina s.r.l, con la stessa persona come amministratrice unica.

      Già nel 2014, Engel era stata al centro della cronaca per la discutibile gestione del centro di accoglienza di Capaccio-Paestum, dove agli ospiti non venivano erogati beni di prima necessità come cibo e vestiti. Era stata denunciata anche l’assenza di corsi d’italiano e l’irregolarità nell’erogazione del pocket money. Inoltre, molti ospiti avevano denunciato abusi e maltrattamenti all’interno del centro.

      Nel 2018 Engel si aggiudica l’appalto del CPR di Palazzo San Gervasio, con un ribasso sul prezzo d’asta del 28,60%, che ha gestito fino al marzo 2023. Fin da subito, il Garante nazionale per le persone private della libertà, in seguito ad una visita al centro, ne aveva denunciato le pessime condizioni: assenza di locali comuni, trattenuti costretti a consumare i pasti in piedi, e la presenza di solo tre docce comuni. Gli ambienti di pernotto, privi di un sistema di isolamento, risultavano caldissimi d’estate e molto freddi d’inverno.

      Sebbene il centro sia stato chiuso a metà del 2020 per lavori e riaperto a febbraio 2021, secondo CILD le condizioni continuerebbero ad essere critiche. Continua a mancare un locale mensa, e in stanze da 25mq sono ospitate fino ad 8 persone. Inoltre, anche per Palazzo San Gervasio è stata denunciata l’inadeguatezza delle visite di idoneità al trattenimento e la difficoltà per i trattenuti di avere accesso alla corrispondenza coi propri avvocati.

      Anche nel CPR di Milano, per il quale Engel ha ottenuto l’appalto nel 2021 e nel 2022, sono state denunciate le terribili condizioni dei locali, e l’incredibile numero di gabbie e reti di ferro, che danno l’impressione di isolamento estremo, non solo dall’esterno ma anche dal personale all’interno del centro. Anche il cibo e i letterecci erogati risultano di pessima qualità.

      GEPSA. Multinazionale francese che dal 2011 inizia ad investire in Italia nel campo dell’accoglienza, si aggiudica diversi appalti proponendo una strategia aggressiva, con un ribasso sulle basi d’asta dal 20% al 30%. Dal 2014 al 2017 gestisce il CIE di Ponte Galeria, dal 2014 al 2017 il CIE di Milano e dal 2015 al 2022 il CIE di Torino. Dal 2011 al 2014 avrebbe dovuto gestire anche il CIE e CARA di Gradisca d’Isonzo, ma l’aggiudicazione è stata annullata dal TAR del Friuli-Venezia Giulia per la mancanza di requisiti adeguati delle imprese facenti parti della rete.

      Del CPR di Torino, era stata denunciata l’eccessiva militarizzazione e la carenza di personale civile, nonché l’assenza di relazioni tra trattenuti ed operatori, che non entravano quasi mai nelle aree di detenzione. In particolare, Il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, in seguito ad una visita al centro, aveva denunciato come i trattenuti fossero costantemente sorvegliati da personale militare, che stavano letteralmente in mezzo tra trattenuti ed operatori, con funzioni di sorveglianza, ma senza interagire coi primi. Sempre nel CIE di Torino, sono stati riportati numerosi casi di malasanità, assenza di personale medico e la presenza di locali per l’isolamento dei trattenuti, che, secondo ASGI, poteva protrarsi fino a 5 mesi, in maniera del tutto arbitraria e illegittima.
      Durante gli anni della gestione Gepsa, nel CPR di Torino si sono verificate due morti e numerosi casi di autolesionismo e rivolta.

      BADIA GRANDE. Cooperativa sociale fondata nel febbraio 2007, con sede legale a Trapani, e presto si impone come colosso nel settore dell’accoglienza migranti nel Sud d’Italia, vincendo numerose gare d’appalto, soprattutto nel siciliano. Dal 2018 al 2022 gestisce il CPR di Bari-Palese e dal 2019 al 2020 quello di Trapani Milo. Nel 2021, diverse fonti giornalistiche denunciano la mala gestione del CPR di Bari, e diverse personalità dipendenti della cooperativa vengono rinviate a giudizio per casi di frode nell’esecuzione del contratto d’affidamento, in particolare nell’assistenza sanitaria e le misure di sicurezza sul lavoro.

      Anche per la gestione del CPR di Trapani la cooperativa viene indagata per frode nelle pubbliche forniture e truffa. Inoltre, in una visita nel 2019, il Garante nazionale riscontra l’assenza di vetri in molte finestre, assenza di porte e separatori che garantiscano la privacy nell’accesso ai servizi igienici, e l’assenza di locali per il consumo dei pasti, che i trattenuti sono obbligati a consumare sui letti o in piedi.

      Il rapporto si conclude con un’accurata riflessione sull’istituto della detenzione amministrativa, e su come ciò si sia dimostrata terreno fertile per “una pericolosissima extraterritorialità giuridica”, in cui non trovano applicazione neanche quei principi costituzionali che dovrebbero considerarsi inderogabili”. Infine, CILD sostiene che, sebbene la detenzione amministrativa abbia progressivamente creato un sistema che consente ad enti privati di “fare profitto sulla pelle delle persone detenute”, la soluzione non sarebbe la gestione dei CPR da parte del settore pubblico, bensì il superamento del sistema della detenzione amministrativa, da collocare in un quadro più ampio di gestione del fenomeno migratorio attraverso politiche più aperte verso la regolarizzazione degli ingressi, per motivi di lavoro, familiari o di protezione internazionale.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/laffare-cpr-un-rapporto-di-cild-mette-alla-sbarra-gli-enti-gestori

  • Merck Sues Over Medicare Drug-Price Negotiation Law - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2023/06/06/business/merck-medicare-drug-prices.html

    Only some drugs will be subject to negotiation with Medicare and only after they have been on the market without competition for years. But Merck, which generated $14.5 billion in profit last year, claimed in a statement on Tuesday that the law would stifle the ability of it and its peers to make risky investments in new cures.

  • Once a fringe theory, “#greedflation” gets its due
    https://www.axios.com/2023/05/18/once-a-fringe-theory-greedflation-gets-its-due

    The idea that #profits drove our current bout of #inflation surfaced in the last few years among progressive economists and lawmakers but was waved away by more #mainstream types as a “conspiracy theory.” That changed earlier this year.

  • 🛑 Les dividendes des entreprises du CAC 40 ont atteint un niveau record en 2022, selon une ONG...

    Plus de 67 milliards de dividendes ont été versés aux actionnaires des sociétés du principal indice boursier français, d’après un rapport de l’Observatoire des multinationales (...)

    ⚡️ #multinationales #capitalisme #profits #SuperProfits #CAC40 #actionnaires #dividendes... #Anticapitalisme !

    ▶️ via l’Observatoire des multinationales
    https://multinationales.org/fr

    ⏩ Lire l’article complet…

    ▶️ https://www.francetvinfo.fr/economie/bourse/les-dividendes-des-entreprises-du-cac-40-ont-atteint-un-niveau-record-e