• Ventimiglia: migranti in ostaggio tra confini militarizzati e nuovi cpr

    La Francia si blinda e Ventimiglia rischia di essere al centro di un nuovo scontro europeo sulla gestione dei flussi migratori.

    Sono ormai giorni che, in nome dell’ “emergenza migranti”, le autorità francesi mantengono un massiccio dispiegamento di mezzi antiterrorismo in frontiera, effettuando controlli sempre più stringenti anche in val Roya, nelle zone collinari a cavallo tra Italia e Francia, sulle principali linee ferroviarie e sui sentieri che connettono i due Paesi a sud-est.

    Una situazione sempre più complessa e gravosa per le persone migranti che cercano di lasciare l’Italia e, al momento, bloccate nella cittadina ligure.
    La partita europea sulla gestione dei flussi migratori continua a esser giocata sulla loro pelle e, in questo quadro, difficile prevedere le conseguenze dirette e indiretta della recente bocciatura dei respingimenti eseguiti dalla Francia sulle frontiere interne da parte della Corte di giustizia dell’Unione Europea.

    A complicare il quadro, l’inizio dei lavori per la realizzazione di un Centro di Identificazione per Migranti sul versante francese della frontiera di #Ponte_San_Ludovico e l’annuncio del Ministro Pientedosi circa la possibile realizzazione, proprio a Ventimiglia, di uno dei nuovi Centri di Permanenza per il Rimpatrio previsti dal #Decreto_Legge_Sud.

    https://www.osservatoriorepressione.info/processano-riace-vogliono-carceri-innocenti

    Interview audio avec Gregorio de #Progetto_20k:
    https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/09/Gregorio-progetto-20k-xxmiglia.mp3


    #CPR #détention_administrative #Centro_di_permanenza_per_rimpatri #centre_d'identification #migrations #asile #réfugiés #frontières #Alpes_Maritimes #Alpes

    voir aussi ce fil de discussion sur la militarisation de la frontière italo-française à #Vintimille (automne 2023):
    https://seenthis.net/messages/1018121

    • Je poste ici des citations tirées de ce texte d’un texte de Fulvio Vassallo Paleologo, en mettant en avant les parties consacrées à la construction de nouveaux centres d’identification (et détention/rétention) dans les zones de frontière prévus dans les nouveaux décrets italiens :

      Oltre le sigle, la detenzione amministrativa si diffonde nelle procedure in frontiera e cancella il diritto di asilo ed i diritti di difesa

      Il governo Meloni con un ennesimo decreto sicurezza, ma se ne attende un’altro per colpire i minori stranieri non accompagnati,” al fine di rendere più veloci i rimpatri”, cerca di raddoppiare i CPR (https://www.openpolis.it/aumentano-i-fondi-per-la-detenzione-dei-migranti) e di creare di nuovi centri di detenzione amministrativa vicino ai luoghi di frontiera (https://pagellapolitica.it/articoli/meloni-errori-centri-rimpatri-blocco-navale), meglio in località isolate, per le procedure accelerate destinate ai richiedenti asilo provenienti da paesi di origine “sicuri”. La legge 50 del 2023 (già definita impropriamente “#Decreto_Cutro”: https://www.a-dif.org/2023/05/06/il-decreto-cutro-in-gazzetta-ufficiale-con-la-firma-del-viminale) prevede che il richiedente asilo, qualora sia proveniente da un Paese di origine sicuro, e sia entrato irregolarmente, possa essere trattenuto per 30 giorni, durante la procedura accelerata di esame della domanda di asilo presentata alla frontiera, al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato.

      (...)

      Di fronte al fallimento delle politiche migratorie del governo Meloni, dopo l’annuncio, da parte dell’ennesimo Commissario all’emergenza, di un piano nazionale per la detenzione amministrativa (https://www.laverita.info/valenti-sbarchi-governo-2663754145.html), al fine di applicare “procedure accelerate in frontiera” in centri chiusi, dei richiedenti asilo, se provengono da paesi di origine definiti “sicuri”. si richiamano una serie di decreti ministeriali (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2023/03/25/23A01952/sg) che hanno formato una apposita lista che non tiene conto della situazione attuale in gran parte dell’Africa, soprattutto nella fascia subsahariana, dopo lo scoppio della guerra civile in Sudan e il rovesciamento in Niger del governo sostenuto dai paesi occidentali. Non si hanno ancora notizie certe, invece, dei nuovi centri per i rimpatri (CPR) che si era annunciato sarebbero stati attivati in ogni regione italiana (https://altreconomia.it/ors-ekene-engel-badia-grande-le-regine-dellaffare-milionario-dei-cpr). Le resistenze delle amministrazioni locali, anche di destra, hanno evidentemente rallentato questo progetto dai costi enormi, per l’impianto e la gestione.

      I rimpatri con accompagnamento forzato nei primi sette mesi dell’anno sono stati soltanto 2.561 (+28,05%) rispetto ai 2.000 dello scorso anno. Nulla rispetto ad oltre 100.000 arrivi ed a oltre 70.000 richieste di asilo, conteggiati proprio il 15 agosto, quando il Viminale dà i suoi numeri, esibendo quando conviene le percentuali e lasciando nell’ombra i dati assoluti. Ed oggi i numeri sono ancora più elevati, si tratta non solo di numeri ma di persone, uomini, donne e bambini lasciati allo sbando dopo lo sbarco, che cercano soltanto di lasciare il nostro paese prima possibile. Per questo il primo CPR targato Piantedosi (https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/23_settembre_20/nuovi-cpr-dalla-valle-d-aosta-alla-calabria-dove-saranno-e-chi-dovra-a) che si aprirà a breve potrebbe essere ubicato a Ventimiglia, vicino al confine tra Italia e Francia, mentre Svizzera ed Austria hanno già annunciato un inasprimento dei controlli di frontiera.

      La prima struttura detentiva entrata in attività lo scorso primo settembre (https://www.regione.sicilia.it/istituzioni/servizi-informativi/decreti-e-direttive/ampliamento-hotspot-pozzallo-l-attivazione-centro-incremento-accogli), per dare applicazione, ancora chiamata “sperimentazione”, alle procedure accelerate in frontiera previste dal Decreto “Cutro”, è ubicata nell’area industriale tra i comuni confinanti di Pozzallo e Modica. dove da anni esiste un centro Hotspot, nella zona portuale, che opera spesso in modalità di “centro chiuso”, nel quale già da tempo è stata periodicamente limitata la libertà personale degli “ospiti”. Si tratta di una nuova struttura da 84 posti nella quale vengono rinchiusi per un mese coloro che provengono da paesi di origine definiti “sicuri”, prima del diniego sulla richiesta di protezione che si dà come scontato e del successivo tentativo di rimpatrio con accompagnamento forzato, sempre che i paesi di origine accettino la riammissione dei loro cittadini giunti irregolarmente in Italia. Le informazioni provenienti da fonti ufficiali non dicono molto, ma la natura detentiva della struttura e i suoi costi sono facilmente reperibili on line.

      (...)

      L’ACNUR dopo una generale considerazione positiva delle procedure accelerate in frontiera (https://www.questionegiustizia.it/articolo/le-nuove-procedure-accelerate-lo-svilimento-del-diritto-di-asilo_), soprattuto nei casi in cui appare maggiormente probabile l’esito positivo della domanda di protezione, “Raccomanda, tuttavia, di incanalare in procedura di frontiera (con trattenimento) solo le domande di protezione internazionale che, in una fase iniziale di raccolta delle informazioni e registrazione, appaiano manifestamente infondate.
      In particolare, la domanda proposta dal richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro non deve essere incanalata in tale iter quando lo stesso abbia invocato gravi motivi per ritenere che, nelle sue specifiche circostanze, il Paese non sia sicuro. Si sottolinea, a tal fine, la centralità di una fase iniziale di screening, volta a far emergere elementi utili alla categorizzazione delle domande (triaging) e alla conseguente individuazione della procedura più appropriata per ciascun caso”.

      https://seenthis.net/messages/1018938

      #décret_Cutro #decreto_Sud #rétention #détention_administrative #Italie #France #frontières #pays_d'origine_sure #pays_sûrs #frontière_sud-alpine #procédure_accélérée #procédures_accélérées #tri #catégorisation

    • Le nuove procedure accelerate : lo svilimento del diritto di asilo

      –-> un texte juridique qui date du 3 novembre 2019, mais qui explique différents éléments des procédures à la frontière

      Numerose sono le deroghe alle procedure ordinarie, sia amministrative sia giurisdizionali, applicabili alle domande di protezione internazionale nelle articolate ipotesi introdotte dal dl 113/2018. L’analisi delle nuove disposizioni rivela profili di incompatibilità sia con la cd. direttiva procedure sia con il diritto di asilo costituzionale

      Premessa

      Il dl 113/18 (cd. Decreto Salvini 1, convertito in l. 132/18) ha profondamente inciso nella configurazione del diritto di asilo in Italia, anche tramite la riforma delle procedure accelerate.

      L’istituto è poco conosciuto e la riforma del dl113/18 su questo aspetto decisamente sottovalutata dagli analisti. Eppure, si tratta di un complesso di norme congegnate in modo tale da svuotare di significato il diritto di asilo, mantenendone l’impalcatura ma di fatto rendendo estremamente difficile il suo reale esercizio.

      Il dl113/18 in gran parte utilizza i margini lasciati aperti dal legislatore europeo con la direttiva procedure (direttiva 2013/32/UE)[1], e in parte va oltre, introducendo norme in contrasto con il diritto europeo la cui legittimità dovrà essere valutata in un prossimo futuro dalla Corte di Giustizia UE e dalla Corte costituzionale[2]. Al contempo, per cogliere il significato pratico di questa parte di riforma, è necessario considerare anche la modifica di alcuni altri istituti, quale la detenzione a fini identificativi, anch’essa introdotta dal dl113/18 e la nuova configurazione della domanda reiterata.

      Secondo la direttiva procedure[3] e la normativa italiana, essere sottoposti ad una procedura accelerata significa subire una contrazione significativa del proprio diritto di difesa, e non solo. Come è noto, in caso di diniego a seguito di una procedura accelerata, il termine per l’impugnazione è (quasi sempre) dimezzato e il ricorso perde il suo effetto sospensivo automatico (in differente misura, come si dirà in seguito). Ma non basta. In caso di procedure accelerate, l’esame della domanda di asilo viene svolto in tempi molto rapidi (di norma sette o quattordici giorni prorogabili alle condizioni di cui all’art. 28-bis comma 3 del d.lgs. 25/2008) e in molte circostanze ciò accade al momento dell’arrivo in Italia, ossia nei luoghi di frontiera e in condizioni di trattenimento. Il richiedente asilo, in questa fase, si trova presumibilmente in una situazione di isolamento sociale, non avendo contatti con le organizzazioni e con gli operatori che svolgono attività di informazione e preparazione all’intervista presso la Commissione territoriale. Eccezion fatta per la possibile presenza in zona di frontiera dell’Unhcr, che su incarico del Ministero dell’Interno fornisce informative generali al momento dell’arrivo, che in nessun modo possono considerarsi realmente propedeutiche alla preparazione del richiedente asilo all’intervista in Commissione. Si tratta di una evoluzione del c.d. approccio hotspot, indebitamente introdotto di fatto e non di diritto dal Ministero dell’interno nell’autunno del 2015 su insistenza della Commissione UE, che ne richiese a gran voce il suo utilizzo con l’agenda UE sulle migrazioni del maggio 2015[4]. L’approccio hotspot viene introdotto come una tecnica di fatto per distinguere i richiedenti asilo dai c.d. presunti migranti economici, mantenendo una postazione di garanzia generale affidata alle Nazioni Unite e ad alcune Ong, su incarico e finanziamento ministeriale, che potessero formalmente garantire il diritto ad essere informati, alle forze di polizia di i cittadini stranieri, immediatamente dopo lo sbarco, quali richiedenti asilo o come migranti economici irregolari e sottoponibili a un respingimento differito o ad una espulsione[5]. Il dl113/18 completa il quadro. Introduce per la prima volta le procedure di frontiera, la nozione di paesi di origine sicuri e il trattenimento a fini identificativi in frontiera, amplia le ipotesi di manifesta infondatezza e riporta il tutto nell’ambito delle procedure accelerate.

      1. Il trattenimento a scopo identificativo del richiedente asilo

      In tale direzione, l’art.3 del dl 113/18 anzitutto introduce, per la prima volta in Italia, la figura del trattenimento a scopo identificativo del richiedente asilo (art. 6 comma 3-bis, d.lgs. 142/15), che potrà essere trattenuto in una struttura di cui all’art. 10 ter d.lgs 286/98 (i c.d. hotspot e la prima accoglienza, ossia i cd. hub) fino a 30 giorni e successivamente fino a 180 gg in un Cpr, ogniqualvolta si renda necessario verificarne o determinarne l’identità o la cittadinanza: dicitura pericolosamente ampia che di fatto potrebbe investire la totalità dei nuovi arrivi in Italia[6]. Il richiedente asilo, quindi, al suo arrivo in Italia può essere trattenuto in una struttura di frontiera o di primissima accoglienza per un tempo sufficiente per essere sentito dalla Commissione territoriale e per ricevere la notifica dell’eventuale diniego. Potrà in seguito essere poi trattenuto in un Cpr per un lasso di tempo di altri 5 mesi, che saranno di norma sufficienti ad arrivare ad un diniego con procedura accelerata con eventuale rigetto della richiesta di sospensiva contenuta nel ricorso. Il richiedente quindi resterebbe in una condizione di grande isolamento, dovrebbe preparare la Commissione in tempi strettissimi e senza un reale sostegno. Inoltre, lo stesso richiedente asilo si troverebbe a disposizione delle Forze di polizia in caso di diniego e per un eventuale rimpatrio forzato.

      In ogni caso, il dl113/18 chiarisce che tutti i richiedenti asilo trattenuti anche solo a fini identificativi saranno sottoposti a procedura accelerata (ai sensi dell’art. 28-bis comma 1 che richiama l’art. 28 comma 1 lett. c) e dunque saranno sentiti dalla Commissione entro 7 giorni dall’invio degli atti da parte della Questura (che provvede “immediatamente” dopo la domanda di asilo). I richiedenti asilo trattenuti riceveranno la risposta nei successivi due giorni e in caso di diniego avranno il diritto di restare in Italia per la presentazione del ricorso (entro 15 giorni) e – in caso di richiesta di sospensiva – fino a quando il Tribunale non avrà respinto tale richiesta (in via definitiva, ossia dopo le eventuali repliche del difensore ai sensi dell’art. 35-bis comma 4 d.lgs. 25/08). La decisione del giudice viene adottata inaudita altera parte, sulla base delle motivazioni trasfuse nel ricorso dal difensore, che ha avuto solo 15 giorni per apprestare la difesa con il suo assistito trattenuto (in un c.d. hotspot o in un Cpr) sin dal suo arrivo in Italia, con presumibile carenza di strumenti comunicativi e limitata cognizione degli elementi rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale in Italia.

      Il trattenimento a scopo identificativo appare in chiaro contrasto con gli artt. 13 e 3 della Costituzione italiana, che delineano una disciplina rigorosa della privazione della libertà solo come extrema ratio e in condizioni di parità di trattamento tra cittadini stranieri e italiani. Tuttavia, la Consulta non ha ancora avuto modo di valutarne la legittimità, in quanto, non essendo ancora mai stati adottati decreti di trattenimento a fini identificativi, la questione di legittimità costituzionale non è stata sollevata. Tuttavia, stante le denunce pubbliche e i ricorsi alla Corte EDU[7], appare molto probabile che il Ministero degli Interni stia ancora ricorrendo al trattenimento di fatto sine titulo dei cittadini stranieri appena giunti in Italia, secondo l’ormai noto schema dell’approccio hotspot: la persona straniera viene trattenuta senza alcun provvedimento nell’hotspot per il tempo necessario a sottoporlo al c.d. foglio notizie e al foto-segnalamento. Con il foglio notizie, come ormai di dominio pubblico[8], il cittadino straniero viene guidato ad autodefinirsi o come richiedente o come migrante economico irregolare e in quest’ultimo caso sottoposto a respingimento differito previo eventuale trattenimento in Cpr.

      2. Le procedure di frontiera

      L’art. 9 del dl 113/18 introduce, anche in questo caso per la prima volta in Italia, la procedura di frontiera, aggiungendo due nuovi commi all’art. 28-bis del d.lgs 25/2008, la norma che si occupa delle procedure accelerate. Più esattamente, il comma 1-ter, secondo cui la procedura accelerata – già vista per i casi di domanda di asilo presentata da richiedenti asilo trattenuti – si applica anche al richiedente che “presenti la domanda di protezione internazionale direttamente alla frontiera o nelle zone di transito (…) dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli (…)” e “nei casi di cui all’art. 28, comma 1, lettera c-ter” (ossia nei casi di cittadino proveniente da paese di origine sicuro) . In tali casi la procedura, “può essere svolta direttamente alla frontiera o nelle zone di transito”. Mentre, il comma 1-quater specifica che “(…) le zone di frontiera o di transito sono individuate con decreto del Ministro dell’interno. Con il medesimo decreto possono essere istituite fino a cinque ulteriori sezioni delle Commissioni territoriali (…) per l’esame delle domande di cui al medesimo comma 1-ter.”. Quindi, ai sensi della nuova norma, chi presenta la domanda in frontiera o nelle zone di transito viene sottoposto a procedura accelerata (7 gg + 2 gg) ogni qualvolta sia stato fermato per aver eluso o tentato di eludere i controlli di frontiera oppure provenga da uno Stato dichiarato dall’Italia come paese di origine sicuro (come meglio si dirà nel prosieguo). In entrambi i casi, si tratta di una domanda presentata in frontiera o zone di transito.

      Il ricorso avverso il rigetto della Commissione anche in questo caso non ha effetto sospensivo automatico (art. 35-bis comma 3 lett. d), e può essere presentato entro 30 giorni (e non 15) dalla relativa notifica, stante la nuova formulazione dell’art. 35-bis comma 2.

      Diviene, anzitutto, fondamentale interpretare correttamente la nozione di elusione delle frontiere. Se la si intende come violazione delle norme di ingresso, la quasi totalità dei richiedenti asilo rientrerà nel suo ambito (essendo per lo più privi di passaporto o di visto di ingresso)[9] . Viceversa, si ritiene che debba interpretarsi secondo l’accezione principale del verbo eludere, ossia “Sfuggire, evitare con astuzia o destrezza”[10], limitando quindi l’applicazione della legge ai soli casi in cui il richiedente non si presenti spontaneamente ai controlli di frontiera (o perfino richiedendo il soccorso) ma venga bloccato quando è in atto un tentativo strutturato di superarli furtivamente.

      In secondo luogo, appare decisiva una corretta delimitazione della nozione di frontiera e zona di transito, per evitare una applicazione indebita della nuova forma di procedura accelerata. Per frontiera deve intendersi necessariamente il luogo di prossimità fisica con il confine territoriale con un territorio non europeo. Tipicamente Lampedusa, ma anche altre parti del sud Italia in caso di sbarco diretto dal mare al porto interessato (meno di frequente, ma sono registrati molti casi in Sicilia, Calabria, Puglia, etc.). Per zone di transito, anche più semplicemente, si devono intendere gli aeroporti e i porti internazionali, dove per convenzione esistono dei passaggi dal vettore aereo o marino al territorio italiano che rappresentano di fatto una frontiera virtuale, perché immettono la persona proveniente da paese extra Schengen in territorio italiano. Non possono essere considerate frontiere o zone di transito i confini con i paesi europei e tanto meno i luoghi non immediatamente prossimi, dove le persone soccorse o bloccate vengono condotte per ragioni logistiche. Dovrà, quindi, in gran parte ritenersi illegittimo il decreto ministeriale[11] emanato nelle scorse settimane ai sensi dell’art. 28-bis comma 1-quater che individua le zone di frontiera in numerose città del centro sud che non sono affatto interessate da arrivi diretti (se non eventualmente negli aeroporti) da zone extra Schengen, ma al contrario sono sedi di accoglienze o Cpr in cui vengono condotti i richiedenti asilo giunti in frontiere molto distanti[12]. Il decreto, a titolo esemplificativo, individua come zona di frontiera la città di Messina, che di certo non è interessata da arrivi diretti di cittadini non comunitari, ma al contrario è la sede di un cd. hotspot dove vengono condotti i cittadini stranieri giunti a Lampedusa[13]. L’intenzione del legislatore europeo di intendere in senso proprio le zone di frontiera come quelle che fisicamente confinano con una zona extra Schengen si evince tra l’altro dall’art. 43, par. 3, direttiva 2013/32 UE (Procedure di frontiera) che recita significativamente “Nel caso in cui gli arrivi in cui è coinvolto un gran numero di cittadini di paesi terzi o di apolidi che presentano domande di protezione internazionale alla frontiera o in una zona di transito, rendano all’atto pratico impossibile applicare ivi le disposizioni di cui al paragrafo 1, dette procedure si possono applicare anche nei luoghi e per il periodo in cui i cittadini di paesi terzi o gli apolidi in questione sono normalmente accolti nelle immediate vicinanze della frontiera o della zona di transito”. Il legislatore UE considera, pertanto, eccezionale l’ipotesi di utilizzo, ai fini delle procedure di frontiera, di un luogo diverso da quello dell’arrivo; anche in questo caso (eccezionale afflusso) prevede, comunque, che si tratti di un luogo collocato nelle immediate vicinanze, cosa che non può dirsi, a scopo esemplificativo, per il cd. hotspot di Messina rispetto alle persone che sbarcano a Lampedusa.

      La procedura di frontiera, dunque, consiste in una procedura accelerata che viene applicata da Commissioni ad hoc in zona di frontiera a chi vi è giunto direttamente da un paese extra Schengen con l’intenzione di sottrarsi dolosamente ai controlli di frontiera[14] (o proviene da un paese di origine sicuro). Questa appare l’interpretazione più consona dei commi 1-ter e 1-quater introdotti dal dl 113/2019, che tuttavia anche in questa lettura appaiono contrari alla direttiva 2013/32/UE. Quest’ultima, infatti, nel combinato disposto degli artt. 43 e 31, par. 8, delineano un sistema di procedure accelerate e procedure di frontiera con l’indicazione di una serie di ipotesi tassative non suscettibili di ampliamenti[15]. Il legislatore europeo è ben consapevole che tali procedure contraggono in modo radicale i diritti dei richiedenti asilo e ne evidenza in modo chiaro il carattere eccezionale, non derogabile. Viceversa, il legislatore italiano con il dl 113/18 sancisce che le procedure di frontiera siano applicate ai richiedenti fermati in frontiera che eludono o cercano di eludere i valichi, ossia in un caso non incluso nella lista tassativa delle ipotesi di procedure accelerate e di frontiera di cui all’art. 31, par. 8, direttiva 2013/32/UE. Sarà dunque possibile disapplicare la norma nazionale posto che quest’ultima disposizione della direttiva procedure è suscettibile di produrre effetti diretti. A tal fine è possibile, sebbene non sia necessario, sollevare una questione pregiudiziale all’interno di un procedimento art. 35-bis d.lgs 25/08 e attendere una sentenza interpretativa della Corte di Giustizia.

      3. I Paesi di origine sicuri

      Un’altra novità del dl 113/2018 (introdotta in sede di conversione), con enormi potenzialità, è rappresentata dall’art. 7-bis (trasfuso nell’art. 2-bis al d.lgs 25/08) che introduce per la prima volta il concetto di Paesi di origine sicuri.

      Il 4 ottobre 2019 il Ministro degli Affari Esteri e il Ministro della Giustizia hanno presentato in conferenza stampa il decreto contenente una lista di 13 paesi di origine sicuri.

      Attraverso l’introduzione dell’art. 2-bis al decreto 25/2008 (cd. Decreto procedure), la norma ha previsto infatti la possibilità per il Ministro degli affari esteri, di concerto con il Ministro della giustizia e con il Ministro dell’interno, di adottare con decreto interministeriale un elenco di paesi di origine sicuri in base ai criteri stabiliti nei commi successivi del medesimo articolo.

      L’introduzione di tale concetto ha potenzialità rivoluzionarie dell’attuale sistema di tutela, comportando un estremo svilimento dell’asilo che passa attraverso lo slittamento della protezione da un piano individuale a un piano collettivo e attuando, attraverso la previsione – come si vedrà, piuttosto confusa – di una procedura estremamente restrittiva delle garanzie del richiedente protezione, uno svuotamento di fatto della possibilità di accedere alla protezione.

      Per quanto riguarda criteri e modalità di valutazione, si prevede (art. 2-bis cc. 2, 3 e 4) che uno stato possa essere considerato paese di origine sicuro ove sia possibile dimostrare, in via generale e costante, che, sulla base del suo ordinamento, dell’applicazione della legge in un sistema democratico e della situazione politica generale, non sussistano atti di persecuzione, tortura, trattamenti inumani o degradanti, una situazione di violenza indiscriminata. Per effettuare tale valutazione si tiene conto della misura in cui è offerta protezione contro persecuzioni e maltrattamenti mediante le disposizioni legislative e la loro applicazione, il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nei principali strumenti internazionali di tutela dei diritti umani, il rispetto del principio di non-refoulement, e un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni. Gli strumenti di cui si dota l’esecutivo per la valutazione di tali criteri sono le informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, da Easo, Unhcr, Consiglio di Europa e da altre organizzazioni internazionali competenti.

      Il decreto recentemente presentato dai Ministri, tuttavia, si limita a riportare una lista di 13 paesi considerati sicuri, attraverso un riferimento a fonti (non pubbliche) del Ministero degli affari esteri e della Commissione nazionale utilizzate per l’individuazione di tali Stati. Alcuna informazione è contenuta nel Decreto relativamente ai criteri sopra elencati. Non viene inoltre utilizzata la possibilità, contenuta all’art. 2-bis, di escludere determinate parti del territorio o determinate categorie di persone dalla valutazione di sicurezza complessiva che viene fatta del paese.

      Gli stati contenuti in tale lista sono: Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Senegal, Serbia, Tunisia e Ucraina.

      È utile rilevare che, trattandosi di una lista determinata da un atto amministrativo (ossia il decreto interministeriale), questa avrà un valore non vincolante per il giudice che in sede di valutazione del ricorso potrà disapplicare il decreto .

      Il paese di origine si considera sicuro per il richiedente che non abbia “invocato gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso richiedente si trova” (art. 2-bis). Questa previsione comporta una radicale modifica nel regime probatorio: la sicurezza del paese di origine per il richiedente asilo si presume, e questi è tenuto a invocare i motivi che rendono il paese insicuro per lui, o, secondo quanto stabilito all’articolo 9 c. 2-bis, addirittura, a dimostrare la sussistenza di tali motivi.

      Ciò che qui interessa sono però le conseguenze connesse alla provenienza di un richiedente asilo da un Paese di origine dichiarato sicuro dal sopracitato decreto interministeriale. Il nuovo articolo 28 d.lgs 25/08 lo inserisce fra le ipotesi di esame prioritario (con scarse conseguenze pratiche), ma soprattutto il nuovo art 28-ter, comma 1 lett. b), lo inserisce nell’elenco delle ipotesi in cui la domanda di asilo può essere considerata manifestamente infondata (concetto su cui si tornerà nel prosieguo). A sua volta, l’art. 28-bis d.lgs 25/08 lo annovera tra le ipotesi di procedura accelerata. Più esattamente, il comma 1-bis stabilisce che, in questi casi (richiedente proveniente da Paese di origine sicuro), “la questura provvede senza ritardo alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che adotta la decisione entro cinque giorni”. Dal tenore letterale, sembrerebbe affermarsi che in queste ipotesi la Commissione operi una valutazione sulla base di quanto dichiarato dal richiedente nella domanda di asilo (modello C3) senza procedere all’audizione.

      Tuttavia, questa interpretazione sarebbe da considerarsi illegittima per chiara contrarietà (tra l’altro) alla direttiva 2013/32/UE, che tassativamente consente di adottare una decisione senza un esame completo della domanda nei soli casi di inammissibilità di cui all’art 33 par. 2, che a sua volta annovera tra le possibilità tassative quella del richiedente proveniente da Paese terzo sicuro di cui all’art. 38, concetto del tutto differente da quello del Paese di origine sicuro di cui agli artt. 36 e 37. Il Paese terzo sicuro è, infatti, una nozione giuridica relativa ai paesi di transito del richiedente asilo e prodromica a un giudizio di ammissibilità che non è stato recepito nel nostro ordinamento. Il concetto di Paese di origine sicuro è, invece, attinente al paese di provenienza del richiedente ed è disciplinato dalla direttiva ai fini di una procedura accelerata, con ordinaria audizione del richiedente.

      Si tratta probabilmente di un errore grossolano del legislatore del dl 113/18, salvo si voglia attribuire un significato compatibile con il diritto UE: quello per cui il nuovo art. 28-bis, comma 1-bis sopra citato, attribuisce alla Commissione – all’interno della procedura accelerata – un termine di 5 giorni invece che di 2 giorni (come al comma 1 sempre dell’art. 28-bis) per adottare la decisione dopo aver effettuato l’audizione del richiedente, che andrebbe convocato presumibilmente nel termine di 7 giorni dalla trasmissione degli atti da parte della questura (come per le ipotesi già analizzata di cui al primo comma dell’art. 28-bis). In definitiva, la specifica procedura accelerata prevista dal comma 1-bis dell’art. 28-bis del dl 25/08 (come modificato dal dl 113/08) o è da considerarsi radicalmente illegittima per contrarietà alla direttiva procedure oppure deve interpretarsi nel senso di prevedere un termine di 7 giorni per la convocazione del richiedente asilo con una nazionalità tra quelle inserite nella lista dei Paesi di origine sicuri e un termine di 5 giorni (invece che 2) per la adozione della decisone da parte della Commissione.

      Inoltre, in caso di diniego della domanda presentata da richiedente che proviene da un Paese di origine sicuro, il termine per la proposizione del ricorso sarà di 15 giorni solo nella ipotesi in cui la domanda di protezione venga dichiarata manifestamente infondata ai sensi dell’art. 28-ter d.lgs 25/08 (che come si dirà più avanti prevede numerose ipotesi, tra cui anche quella del richiedente proveniente da Paese di origine sicuro). Questo poiché l’art. 35-bis, comma 2, nel dimezzare i termini ordinari, non richiama l’art. 28-bis comma 1-bis (quello specifico sui Paesi di origine sicuri) ma il comma 2, che disciplina le ipotesi in cui la Commissione può emanare un diniego con espressa dicitura di manifesta infondatezza ai sensi dell’art. 28 ter (combinato disposto con l’art. 32 comma 1 lett. b-bis), che tra le ipotesi prevede anche il caso di richiedente proveniente da Paese di origine sicuro (ma si tratta evidentemente di una possibilità e non di un automatismo, in quanto anche in questi la domanda potrebbe considerarsi infondata ma non anche manifestamente infondata)[16].

      In termini identici deve risolversi il dubbio interpretativo relativo all’efficacia sospensiva. L’art. 35-bis, comma 3, stabilisce che non è riconosciuta un’efficacia automaticamente sospensiva nei casi espressamente richiamati, tra cui non annovera direttamente quello del Paese di origine sicuro di cui all’art. 28-bis comma 1-bis. Tuttavia, tra le ipotesi contemplate si rinviene quella del diniego per manifesta infondatezza ai sensi del combinato disposto dell’art. 32, comma 1 lett b-bis), e dell’art. 28-ter. Come per il dimezzamento dei termini, dunque, il ricorso avverso il rigetto di una domanda di asilo presentata da un richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro non avrà effetto automaticamente sospensivo nella misura in cui il provvedimento della Commissione espressamente rigetti la domanda per manifesta infondatezza.

      Per i casi di diniego di richiedenti provenienti da paesi di origine sicuri, inoltre, il legislatore del dl 113/18 ha contratto ulteriormente il diritto di difesa, stabilendo che il normale obbligo motivazionale in fatto e in diritto previsto in caso di diniego da parte della Commissione Territoriale, sia sostituito da una motivazione che dà “atto esclusivamente che il richiedente non ha dimostrato la sussistenza di gravi motivi per ritenere non sicuro il Paese designato di origine sicuro in relazione alla situazione particolare del richiedente stesso”. Sembrerebbe, quindi, vincolare o quanto meno consentire alla Commissione di rigettare una domanda di asilo con una stereotipata motivazione, priva degli ordinari elementi valutativi e giustificativi. Così intesa, appare evidente la contrarietà della norma agli ordinari parametri costituzionali in tema di motivazione e razionalità degli atti della pubblica amministrazione e agli obblighi motivazionali in fatto e in diritto a cui sono tenuti gli Stati membri in caso di rigetto della domanda di asilo ai sensi dell’art. 11, par. 2, della direttiva 2013/32/UE. D’altro canto, difficilmente della è immaginabile una lettura costituzionalmente orientata che modifichi l’obbligo motivazionale della Commissione in modo compatibile con la Costituzione e con la Direttiva procedure.

      Infine, come accennato nel precedente paragrafo, la provenienza da un paese di origine sicuro è rilevante anche in un’altra ipotesi, ossia quando il richiedente presenta la domanda di asilo in frontiera o in una zona di transito. Se la domanda di asilo è presentata in uno di questi due luoghi, da un richiedente che provenga da un paese di origine dichiarato sicuro, la Commissione territoriale potrà applicare una procedura accelerata e potrà (inoltre ma non necessariamente) svolgerla in frontiera. Si tratta del già esaminato comma 1 ter dell’art. 28-bis (procedure accelerate), che recita. “La procedura di cui al comma 1 [7 gg + 2 gg] si applica anche nel caso in cui il richiedente presenti la domanda di protezione internazionale direttamente alla frontiera o nelle zone di transito di cui al comma 1-quater (…) nei casi di cui all’articolo 28, comma 1, lettera c-ter). In tali casi la procedura può essere svolta direttamente alla frontiera o nelle zone di transito”. In queste ipotesi, il ricorso avverso l’eventuale diniego non avrà effetti sospensivi automatici (art. 35-bis comma 3 lett. d “La proposizione del ricorso sospende l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, tranne che nelle ipotesi in cui il ricorso viene proposto: …avverso il provvedimento adottato nei confronti dei soggetti di cui all’articolo 28-bis, commi 1-ter …)”[17]. Il termine per l’impugnazione rimarrebbe quello ordinario di 30 giorni. Appare evidente come l’applicazione congiunta delle nuove norme relative alle procedure in frontiera e ai paesi di origine sicuri (tanto più se lasciata a una interpretazione estensiva, come sembra implicare il decreto sulle zone di frontiera o di transito) può condurre a una procedura accelerata svolta in zona di frontiera (in gran fretta e in condizioni di semi-isolamento) di tutti i cittadini che provengono da uno dei paesi dichiarati sicuri (si pensi a tutti i cittadini tunisini che approdano nelle acque siciliane). Con la conseguente massiccia e sistematica contrazione dei diritti di difesa.

      4. La manifesta infondatezza

      Un’altra norma introdotta dal dl 113/18 (art. 7-bis, comma 1 lett. f), in sede di conversione) che potrebbe avere nella pratica un effetto vastissimo è l’art. 28-ter D.lgs 25/08, che prevede una complessa serie di casi di manifesta infondatezza. Precedentemente l’unica ipotesi di manifesta infondatezza era prevista dall’art. 28-bis, tra le ipotesi in cui si poteva applicare una procedura accelerata e di conseguenza giungere ad un eventuale rigetto per manifesta infondatezza. Si trattava dell’ipotesi in cui il richiedente aveva sollevato “esclusivamente questioni che non hanno alcuna attinenza con i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale”. Era già avvertita come norma insidiosa, tanto è vero che la Commissione Nazionale nella circolare del 30.07.2015[18] aveva precisato come, per giungere a un rigetto per manifesta infondatezza, fosse necessario che la decisione collegiale della Commissione territoriale fosse stata adottata all’unanimità, che non riguardasse categorie vulnerabili (di cui all’art. 17 d.lgs 142/15) e che non fosse stata espletata una valutazione sull’attendibilità del richiedente, in quanto relativa a questioni non attinenti alla protezione internazionale dove non si pone neppure un problema di credibilità.

      Inoltre, la Corte di appello di Napoli,[19] nel sistema previgente la riforma 2018, aveva precisato che poteva giungersi a una decisione di manifesta infondatezza solo nella misura in cui fosse stata espletata (con il rispetto dei termini e delle garanzie) una procedura accelerata, mentre non era possibile nel caso di una decisone adottata a seguito di una procedura ordinaria. Ciò in ragione del fatto che l’art. 32 d.lgs 25/08, comma 1 lett.b-bis), nel disciplinare il caso in cui la Commissione poteva adottare una decisione per manifesta infondatezza, faceva espresso richiamo all’art. 28-bis, comma 2, ossia alla procedura accelerata in caso di possibile manifesta infondatezza. La sentenza della Corte di Appello di Napoli aveva posto fine a un dibattito complesso che aveva coinvolto molti attori. Tuttavia, la l. 132/2018, in sede di conversione, a fronte di un confronto serrato tra istituzioni e società civile, è intervenuta con l’art. 7, comma 1 lett. g), che modifica puntualmente il richiamo effettuato dal sopra menzionato art. 32 d.lgs 25/08. Infatti, quest’ultimo, nel prescrivere che il rigetto della Commissione territoriale può avere come contenuto anche una dichiarazione di manifesta infondatezza, non richiama più l’art. 28-bis, che disciplina le ipotesi di procedura accelerata, ma richiama il nuovo art. 28-ter, che introduce una gamma molto più articolata di ipotesi di manifesta infondatezza. Potrebbe dunque sostenersi che, a seguito della l. 132/2018, la Commissione territoriale possa adottare una decisione di manifesta infondatezza anche nel caso in cui abbia espletato una procedura ordinaria e non solo una procedura accelerata.

      Il nuovo art. 28-ter d.lgs 25/08 introduce, come accennato, nuove e rilevanti ipotesi di manifesta infondatezza che si aggiungono a quella appena sopra illustrata che viene confermata.

      La prima nuova ipotesi è quella del comma 1 lett. b), del richiedente che “(…) proviene da un Paese designato di origine sicuro”. Ipotesi già illustrata.

      Al comma 1 lett. c), viceversa si introduce il caso del richiedente che ha “(…) rilasciato dichiarazioni palesemente incoerenti e contraddittorie o palesemente false, che contraddicono informazioni verificate sul Paese di origine”. In questa ipotesi, sarà possibile da parte della Commissione effettuare una valutazione di credibilità, ma il giudizio sarà operato sulla base della evidenza, in quanto si richiede che l’incoerenza e la contraddittorietà del richiedente siano palesi.

      Alla lettera d), la manifesta infondatezza viene sancita per il caso del richiedente che “(…) ha indotto in errore le autorità presentando informazioni o documenti falsi o omettendo informazioni o documenti riguardanti la sua identità o cittadinanza che avrebbero potuto influenzare la decisione negativamente, ovvero ha dolosamente distrutto o fatto sparire un documento di identità o di viaggio che avrebbe permesso di accertarne l’identità o la cittadinanza”. Evidentemente, deve trattarsi di comportamenti posti in essere dal richiedente con la specifica intenzione di trarre in inganno la Commissione: non dovranno rilevare, dunque, i comportamenti finalizzati ad entrare nel territorio italiano (come tipicamente la distruzione del passaporto in zona di transito) o dichiarazioni non veritiere rese al momento della compilazione della domanda di asilo e determinati da mancanza di informazioni, possibili fraintendimenti linguistici o iniziali timori del richiedente appena giunto sul territorio.

      La successiva lett. e) introduce l’ipotesi potenzialmente più insidiosa, che potrebbe investire una gamma molto ampia di soggetti, prevedendo la manifesta infondatezza nel caso del richiedente che “(…) è entrato illegalmente nel territorio nazionale, o vi ha prolungato illegalmente il soggiorno, e senza giustificato motivo non ha presentato la domanda tempestivamente rispetto alle circostanze del suo ingresso”. Moltissimi cittadini stranieri vivono sul territorio italiano privi di un permesso di soggiorno e molto spesso non presentano tempestivamente la domanda di asilo per ragioni non sempre facilmente comprensibili: mancanza di informazioni, timori del tutto infondati, etc. Sarà dunque necessario interpretare la locuzione “senza giustificato motivo” in maniera da tener conto anche della complessità interculturale e della più generale diversità di approccio che possono determinare le scelte dei cittadini stranieri che presentano la domanda di asilo anche molto tempo dopo il loro arrivo in Italia. Ulteriore perplessità suscita l’utilizzo del termine tempestivamente il quale, non essendo riferito ad un arco temporale ben determinato, si presta a dar luogo a numerose e differenziate interpretazioni applicative.

      La lett. f) aggiunge alla lista delle ipotesi quella del richiedente che “(…) ha rifiutato di adempiere all’obbligo del rilievo dattiloscopico a norma del regolamento (UE) n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013”. Infine, la lettera g) è relativa al richiedente “ (…) che si trova nelle condizioni di cui all’articolo 6, commi 2, lettere a), b) e c), e 3, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142”, ossia in condizioni di trattenimento, salvo che nel caso sia determinato dal mero rischio di fuga.

      Le nuove ipotesi di manifesta infondatezza che sono state introdotte con l’art. 28-ter trovano corrispondenza nella Direttiva procedure, che disciplina l’istituto nel combinato disposto dell’art. 32 e dell’art. 31, par. 8. Rimane la necessità di un’interpretazione rigorosa di alcuni requisiti, soprattutto relativi alla lett. e) per evitare un’applicazione distorta dell’istituto, che costituisce un’ipotesi derogatoria dell’ordinaria procedura e genera una contrazione importante dei diritti del richiedente asilo. Infatti, il richiedente che versa in una di queste condizioni potrà essere soggetto ad una procedura accelerata in forza del richiamo dell’art. 28-bis, comma 2 lett. a), d.lgs 25/08 (14 gg per la convocazione e 4 gg per la decisione) e qualora la Commissione confermi l’esistenza dei requisiti richiesti dalla norma sarà possibile un rigetto per manifesta infondatezza ai sensi dell’art. 32, comma 1 lett. b-bis). In tal caso, il ricorso avverso il diniego soggiace al termine per la sua proposizione di 15 giorni (ai sensi dell’art. 35-bis comma 2 d.lgs 25/08) e non avrà un effetto sospensivo automatico (ai sensi dell’art. 35-bis comma 3 lett. c d.lgs 25/08). La Direttiva procedure, tuttavia, stabilisce espressamente nell’art. 46, par. 6 lett. a) ultimo inciso, che non può escludersi l’effetto automaticamente sospensivo in caso di ricorso avverso un rigetto per manifesta infondatezza, qualora quest’ultima sia stata determinata dall’ingresso o dalla permanenza irregolare del richiedente sul territorio dello Stato membro avendo presentato la domanda di asilo in ritardo senza giustificato motivo[20].

      5. La domanda reiterata

      La riforma dell’istituto della domanda reiterata, operata dall’art. 9 del dl 113/18 che ha modificato gli artt. 7, 28, 29 e 29-bis del d.lgs 25/08, è probabilmente quella che assume un peso maggiore nell’effettivo esercizio del diritto di accedere alla procedura di asilo. Un intervento legislativo molto incisivo, strutturato e in gran parte contrario alla direttiva 2013/32/UE.

      In questa sede non sarà possibile una disamina completa, ma ci si limiterà a quei profili utili a completare il quadro dell’operazione portata a termine con la riforma delle procedure accelerate.

      L’art. 29, comma 1 lett. b), disciplina l’ipotesi preesistente di domanda reiterata, ossia quella del richiedente che, dopo aver ricevuto un rigetto definitivo della sua domanda di asilo, ha presentato una seconda domanda di asilo “identica” (…) , “senza addurre nuovi elementi in merito alle sue condizioni personali o alla situazione del suo Paese di origine”. Questa seconda domanda di asilo può essere (come già in precedenza previsto) sottoposta a un giudizio di ammissibilità da parte della Commissione. Ossia un giudizio condotto sulla base del modello C3 e degli altri eventuali documenti prodotti dal richiedente al momento della presentazione della domanda. L’individuazione dei casi da sottoporre al giudizio di ammissibilità è affidata al Presidente della Commissione territoriale (art. 28. comma 1-bis, d.lgs 25/08) mentre la sua valutazione è di competenza della Commissione territoriale in composizione collegiale (art. 29, comma 1, d.lgs 25/08). Il Presidente, dunque, procede a un “esame preliminare” (art. 29, comma 1-bis) senza alcuna audizione del richiedente e la Commissione adotta l’eventuale decisione di inammissibilità. Prima della riforma del dl 113/18, il Presidente aveva l’obbligo di avvisare (ai sensi dell’art. 29 comma 1-bis) il richiedente che si stava svolgendo un esame preliminare ad una dichiarazione di inammissibilità e quest’ultimo, entro 3 giorni, aveva il diritto di inviare una memoria per integrare o meglio illustrare i nuovi elementi posti alla base della sua seconda domanda di asilo. Questa garanzia del richiedente è stata abrogata, in linea con le facoltà concesse a ogni Stato membro dalla Direttiva 2013/32/UE all’art. 42 comma 2 lett. b). Ovviamente, se dall’esame preliminare e cartaceo della domanda di asilo dovesse risultare che “(…) sono emersi o sono stati addotti dal richiedente elementi o risultanze nuovi che aumentano in modo significativo la probabilità che al richiedente possa essere attribuita la qualifica di beneficiario di protezione internazionale” il richiedente sarà convocato per una nuova e ordinaria audizione (art. 40, par. 3, direttiva 2013/32/UE). È evidente che ciò che giuridicamente rileva è l’esistenza nella nuova domanda di asilo (in pratica nel modello C3) che siano stati addotti nuovi elementi e non anche che questi appaiano già fondati ad una prima lettura. Al contempo, devono considerarsi nuovi anche gli elementi che precedentemente non erano stati addotti per una qualsiasi ragione[21] dal richiedente asilo. Infine, tali elementi possono essere relativi alla storia personale del richiedente (ed essere anche intesi come elementi probatori) o alla condizione socio-politico del suo paese di origine.

      La procedura prevista per la dichiarazione di inammissibilità è accelerata ai sensi dell’art. 28-bis, comma 1-bis, d.lgs 25/08, secondo cui in questi casi “(…) la questura provvede senza ritardo alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale che adotta la decisione entro cinque giorni”.

      La decisione di inammissibilità è impugnabile innanzi al Tribunale civile entro 30 giorni dalla notifica (l’art. 35-bis, comma 2, che stabilisce i casi di riduzione a 15 gg del termine di impugnazione, infatti, non richiama il comma 1-bis dell’art. 28-bis). Il ricorso avverso la decisione di inammissibilità non ne sospende automaticamente gli effetti, ma sarà necessario come negli altri casi già esaminati presentare apposita istanza cautelare. Tuttavia, il legislatore del dl 113/18 ha apportato un’importante modifica relativa al diritto del richiedente di attendere in Italia la decisione del Tribunale civile in merito alla propria richiesta di sospensiva. Infatti, il nuovo art. 35-bis, comma 5, d.lgs 25/08 stabilisce che, nel caso di questa ipotesi di inammissibilità, il richiedente ha diritto di permanere in Italia fino al deposito del ricorso (o allo spirare del termine), ma non anche di attendere che il giudice adotti una decisione sulla domanda cautelare di sospensione degli effetti che il richiedente ha avanzato con il ricorso medesimo. Questa previsione, tuttavia, è da considerarsi illegittima per contrarietà alla direttiva 2013/32/UE, art. 41, che espressamente indica i casi in cui è possibile derogare al diritto di rimanere sul territorio del Paese membro in attesa della decisione definitiva del Giudice sull’istanza di sospensiva. I casi previsti dall’art. 41 sono solo due: il primo è quello del richiedente che presenta una terza (o quarta, etc.) domanda di asilo (art. 41, lett. b) e il secondo è relativo al richiedente che ha presentato una seconda domanda di asilo “al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione” di un provvedimento che ne comporterebbe “l’imminente” rimpatrio forzato. Sull’esatto significato di queste due ipotesi si ritornerà a breve, per il momento interessa evidenziare che la limitazione del diritto di rimanere in Italia dopo il deposito del ricorso avverso l’inammissibilità e in attesa della decisone del giudice sulla istanza di sospensiva, sancita dal nuovo art. 35-bis, comma 5, d.lgs 25/08, è illegittima, in quanto la Direttiva procedure nell’art. 41 permette una tale limitazione esclusivamente in altri casi, del tutto differenti, che, infatti (come vedremo a breve), hanno una indipendente disciplina anche nell’ordinamento giuridico italiano.

      Più precisamente, l’art. 46 della Direttiva (Diritto a un ricorso effettivo) al par. 5 detta la regola generale per cui il richiedente ha diritto di attendere sul territorio dello stato membro la decisione del giudice sul merito del ricorso presentato[22]. Il paragrafo 6 stabilisce le eccezioni, chiarendo che in alcuni casi, il diritto a rimanere sul territorio dello Stato membro è limitato e sussiste solo fino alla decisione del giudice sulla richiesta di sospensiva[23]. Tra queste eccezioni, è inclusa quella dell’art. 33 par. 2 lett. d): la domanda è una domanda reiterata, qualora non siano emersi o non siano stati presentati dal richiedente elementi o risultanze nuovi ai fini dell’esame volto ad accertare se al richiedente possa essere attribuita la qualifica di beneficiario di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE. Il paragrafo 8 dell’art. 46 ribadisce il diritto in modo inequivocabile: “Gli Stati membri autorizzano il richiedente a rimanere nel territorio in attesa dell’esito della procedura volta a decidere se questi possa rimanere nel territorio, di cui ai paragrafi 6 e 7”.

      L’art. 35, comma 5, è in definitiva da considerarsi illegittimo e non sembra suscettibile di una lettura costituzionalmente orientata. Si prospetta dunque la disapplicazione da parte del giudice della norma in contrasto con le disposizioni sopra richiamate della direttiva procedure, idonee a produrre effetti diretti, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.

      5.1. La domanda reiterata in fase di esecuzione di un imminente allontanamento

      Esistono viceversa, come accennato, due ipotesi in cui la Direttiva prevede una eccezione al diritto sopra illustrato di attendere la decisone del giudice sulla richiesta di sospensiva. Queste eccezioni sono previste dall’art. 41 della Direttiva procedure[24]. Si tratta dei due casi sopra menzionati, ovverosia quella del richiedente che presenta una terza (o quarta, etc.) domanda di asilo (art. 41 lett. b) e quella del richiedente che ha presentato una seconda domanda di asilo “al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’imminente allontanamento”. I tali casi, l’art. 41 par. 2 lett. c) espressamente attribuisce agli stati membri la facoltà di escludere il paragrafo 8 dell’art. 46 (appena soprariportato), che attribuisce il diritto a rimanere sul territorio dello stato membro fino alla decisione del giudice sulla richiesta di sospensiva. Il legislatore del dl 113/18 ha introdotto per queste due ipotesi una disciplina molto rigida. Il nuovo art. 29-bis (Domanda reiterata in fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento) recita: “Nel caso in cui lo straniero abbia presentato una prima domanda reiterata nella fase di esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale, la domanda è considerata inammissibile in quanto presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione del provvedimento stesso. In tale caso non si procede all’esame della domanda ai sensi dell’articolo 29”. In maniera speculare, il nuovo art. 7 del d.lgs 25/08 (sempre modificato dal dl 113/18), rubricato Diritto di rimanere nel territorio dello Stato durante l’esame della domanda stabilisce che il richiedente è autorizzato a rimanere nel territorio italiano fino alla decisione della Commissione territoriale salvo che: lett. d) [abbia] presentato una prima domanda reiterata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale.

      Bisogna quindi chiedersi, anzitutto, quale sia il significato della locuzione fase di esecuzione di un imminente allontanamento. Ma soprattutto, chi sia designato dalla norma a dichiarare inammissibile la domanda reiterata (ossia una seconda domanda di asilo) in fase di imminente esecuzione e con quale procedura, per valutare così la compatibilità o meno con la Direttive procedure. Si tratta di una operazione ermeneutica complessa, ma che si rende assolutamente necessaria, anche in ragione dell’enorme importanza pratica rivestita da questo istituto. Una importanza, che ancor meglio si può apprezzare dalla lettura della Circolare del Ministero dell’Interno (Commissione Nazionale) del 2 novembre 2019[25] che attribuisce alla Questura il compito di dichiarare inammissibile la domanda di asilo ai sensi dell’art. 29-bis e qualifica tale inammissibilità come automatica (non soggetta a prova contraria): “È stato, inoltre, previsto che nel caso in cui lo straniero presenti una prima domanda reiterata nella fase di esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’allontanamento imminente dal territorio nazionale, la stessa è considerata inammissibile in quanto presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione del provvedimento. Opera, dunque, in tale circostanza, iure et de iure, una presunzione di strumentalità correlata alla concomitanza di due condizioni riferite l’una alla preesistenza di una decisione definitiva sulla domanda precedente e l’altra alla circostanza che sia iniziata l’esecuzione del provvedimento espulsivo. La sussistenza di tali presupposti esclude, pertanto, l’esame della domanda. In tali casi, come concordato con il Dipartimento della Pubblica Sicurezza, la Questura competente comunicherà all’interessato l’inammissibilità della domanda sancita ex lege”. Sulla base di questa circolare, in molte questure italiane, è di fatto precluso l’esercizio del diritto di asilo a chi ha già presentato in passato una prima domanda di asilo. Infatti, molti di questi ultimi hanno già un decreto di espulsione (o di respingimento differito o di un ordine di allontanamento) nel momento i cui si presentano alle forze di polizia per la presentazione della seconda domanda di asilo. La Questura dunque provvede a dichiarare automaticamente la inammissibilità senza sottoporre il caso alla Commissione e senza neppure valutare l’esistenza o meno di nuovi elementi addotti. Dunque, la Questura procede all’esecuzione immediata dell’espulsione. Il cittadino straniero che ha provato a presentare una seconda domanda si ritrova così immediatamente in stato di trattenimento, teso al rimpatrio forzato per una decisione (vincolata) della Questura. Senonché, la direttiva 2013/32/UE stabilisce un principio opposto, secondo cui è sempre necessario che l’autorità accertante (in Italia la Commissione territoriale) proceda all’esame preliminare di una domanda reiterata (anche in fase di esecuzione di un imminente allontanamento), per valutare se sono stati sollevati nuovi elementi al fine di dichiararne la inammissibilità. Secondo la direttiva 2013/32/UE non c’è modo di attribuire in via automatica ad una domanda reiterata la qualifica di domanda inammissibile. La direttiva si limita a prevedere che in casi di imminente allontanamento dal Paese membro possa essere limitato il diritto del cittadino straniero a restare sul territorio dello stato durante la fase giudiziaria di impugnazione della dichiarazione di inammissibilità. La direttiva non ricollega alla imminenza dell’allontanamento alcuna conseguenza in termini di esame preliminare che l’autorità competente (in Italia, la Commissione) deve svolgere per accertarsi che esistano o meno elementi nuovi attinenti alla domanda di asilo.

      Più precisamente, la direttiva sopra richiamata afferma al considerando 36 che: “Qualora il richiedente esprima l’intenzione di presentare una domanda reiterata senza addurre prove o argomenti nuovi, sarebbe sproporzionato imporre agli Stati membri l’obbligo di esperire una nuova procedura di esame completa”. Ciò che si ammette che gli Stati membri possano escludere è l’esame completo (ossia la nuova audizione del richiedente asilo) e non quello preliminare, infatti, l’art. 33 recita: “2. Gli Stati membri possono giudicare una domanda di protezione internazionale inammissibile soltanto se: (...) d) la domanda è una domanda reiterata, qualora non siano emersi o non siano stati presentati dal richiedente elementi o risultanze nuovi ai fini dell’esame volto ad accertare se al richiedente possa essere attribuita la qualifica di beneficiario di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE”. La domanda è inammissibile solo qualora non vi siano nuovi elementi, la cui emersione è possibile solo ad un esame preliminare. Prima di allora la domanda non può essere giudicata inammissibile. L’art. 40, inoltre, ribadisce che: “2. Per decidere dell’ammissibilità di una domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera d), una domanda di protezione internazionale reiterata è anzitutto sottoposta a esame preliminare per accertare se siano emersi o siano stati addotti dal richiedente elementi o risultanze nuovi rilevanti per l’esame dell’eventuale qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95/UE […]. 5. Se una domanda reiterata non è sottoposta a ulteriore esame ai sensi del presente articolo, essa è considerata inammissibile ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera d)”. Solo se una domanda reiterata non è sottoposta a ulteriore esame perché, ad un esame preliminare, non siano emersi elementi nuovi, essa può essere giudicata inammissibile ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera d). L’art. 41 stabilisce, inoltre, che: “1. Gli Stati membri possono ammettere una deroga al diritto di rimanere nel territorio qualora una persona: a) abbia presentato una prima domanda reiterata, che non è ulteriormente esaminata ai sensi dell’articolo 40, paragrafo 5, al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dallo Stato membro in questione”. L’imminente allontanamento rileva dunque ai soli fini di attribuire agli Stati membri la facoltà di circoscrivere il diritto di rimanere in Italia del richiedente asilo che a seguito di un esame preliminare abbia ricevuto una dichiarazione di inammissibilità e decida di avvalersi del diritto di proporre ricorso o riesame avverso tale decisione. L’art. 42 espressamente prevede, altresì, che: “1. Gli Stati membri provvedono affinché i richiedenti la cui domanda è oggetto di un esame preliminare a norma dell’articolo 40 godano delle garanzie di cui all’articolo 12, paragrafo 1. 2. Gli Stati membri possono stabilire nel diritto nazionale norme che disciplinino l’esame preliminare di cui all’articolo 40. Queste disposizioni possono, in particolare: a) obbligare il richiedente a indicare i fatti e a produrre le prove che giustificano una nuova procedura; b) fare in modo che l’esame preliminare si basi unicamente su osservazioni scritte e non comporti alcun colloquio personale, a esclusione dei casi di cui all’articolo 40, paragrafo 6. Queste disposizioni non rendono impossibile l’accesso del richiedente a una nuova procedura, né impediscono di fatto o limitano seriamente tale accesso. 3. Gli Stati membri provvedono affinché il richiedente sia opportunamente informato dell’esito dell’esame preliminare e, ove sia deciso di non esaminare ulteriormente la domanda, dei motivi di tale decisione e delle possibilità di presentare ricorso o chiedere il riesame della decisione”. Lo Stato membro, ai sensi dei paragrafi 1 e 2, può quindi disciplinare ma non eliminare l’esame preliminare (prevedendo una dichiarazione di inammissibilità sancita ex lege). Precisando inoltre al paragrafo 3 che il richiedente deve essere informato dell’esito dell’esame preliminare al fine di apprestare le proprie difese.

      In definitiva, l’art. 29-bis, così come interpretato dal Ministero con la circolare sopra menzionata, sarebbe da considerare sicuramente contrario alla normativa europea e quindi destinato ad essere espunto dall’ordinamento giuridico italiano. Tuttavia, la norma può anche essere interpretata diversamente, in modo da attribuire alla Commissione il compito di analizzare la domanda di asilo anche in questo caso[26], tramite un esame preliminare (identico a quello già visto in relazione alla ordinaria domanda reiterata)[27]. L’art. 29-bis avrebbe dunque il solo effetto di non riconoscere il diritto a un ricorso effettivo. Ma in tal caso bisognerà chiedersi se la sopra illustrata deroga consentita dall’art. 41 all’art. 46 par. 8 (ossia al diritto di attendere una decisione del giudice sull’istanza di sospensiva) possa giustificare anche l’esclusione da tutte le garanzie dell’art. 46 e quindi, in definitiva, consentire il rimpatrio forzato del richiedente asilo immediatamente dopo la notifica della decisione di inammissibilità o se viceversa deve essere conservato il diritto di rimanere in Italia fino alla presentazione del ricorso (che sostanzialmente è la soluzione illegittima che il legislatore del dl 113/18 ha riservato alla domanda reiterata ordinaria).

      In ogni caso, per evitare un uso eccessivamente ampio di questo strumento (come sembra stia accadendo) devono correttamente interpretarsi i concetti di esecuzione/imminente/ allontanamento. Per imminente allontanamento deve intendersi esclusivamente la condizione di chi si trovi nelle ipotesi in cui il processo espulsivo è in stato avanzato, tanto che la Pubblica Amministrazione non solo sia certa di poter coattivamente costringere il cittadino straniero al rimpatrio forzato (quindi che abbia già disposto il suo trattenimento), ma che al contempo abbia già portato a compimento il complesso iter organizzativo necessario in questi casi: fissazione di un appuntamento con l’autorità consolare per il previo riconoscimento e acquisizione del lasciapassare, individuazione certa del vettore e dello specifico volo verso il paese di origine con relativo ordine di spesa ed emanazione dell’ordine di servizio per le forze dell’ordine deputate nel caso specifico ad effettuare l’accompagnamento all’interno del territorio italiano ed eventualmente durante la scorta internazionale. L’art. 29-bis quindi non troverebbe applicazione in presenza di un mero decreto di espulsione a carico del cittadino straniero, ma esclusivamente nei casi di presentazione della domanda reiterata in una fase di reale imminenza del rimpatrio, ossia solo quando questo sia effettivamente in corso, a fronte di una già avvenuta individuazione del volo, del personale coinvolto e della specifica tempistica effettiva di rimpatrio.

      Non può nascondersi, infatti, che molti cittadini stranieri non hanno di fatto la possibilità di esercitare appieno il diritto a richiedere la protezione internazionale, tanto più in presenza di un crescente utilizzo delle procedure accelerate e dell’approccio hotspot. Le prime, di fatto, mettono molti richiedenti nella condizione di affrontare l’audizione in Commissione e successivamente il ricorso avverso il diniego con pochissimi strumenti a causa della tempistica e delle condizioni di isolamento. Allo stesso tempo, l’approccio hotspot conduce moltissimi cittadini stranieri ad auto-dichiararsi al loro arrivo migranti economici, subendo così un decreto di respingimento differito o di espulsione che li conduce in stato di trattenimento e quindi ad affrontare ancora una volta la prima domanda di asilo (sempre che riescano nei Cpr a formalizzarla) in tempi strettissimi e con pochissimi strumenti. Ecco che dunque l’estrema rigidità con cui è stata disciplinata dal legislatore del dl 113/18 la domanda reiterata, oltre che per molti versi illegittima, appare pericolosamente nei fatti appartenere a una più ampia operazione di svuotamento del diritto di asilo.

      Relativamente alla domanda reiterata, infine, sarà necessario nel tempo interpretare correttamente anche l’ipotesi prevista dal nuovo art. 7 comma 2 lett. e) del d.lgs 25/08 come modificato dall’art. 9 del dl 113/08, secondo cui, il richiedente perde il diritto di attendere in Italia la decisione della Commissione territoriale nel caso in cui manifesti “la volontà di presentare un’altra domanda reiterata a seguito di una decisione definitiva che considera inammissibile una prima domanda reiterata ai sensi dell’articolo 29, comma 1, o dopo una decisione definitiva che respinge la prima domanda reiterata ai sensi dell’articolo 32, comma 1, lettere b) e b-bis)”. Si tratta del caso in cui il richiedente manifesti la volontà di presentare una terza (quarta, ecc.) domanda di asilo. In questo caso, conformemente alla Direttiva procedura (come sopra esposto) si disciplina diversamente la condizione del richiedente, che esprime la volontà, ancor prima di formalizzarla. Dal tenore delle norme della Direttiva, si evince chiaramente che in tal caso al richiedente non venga assicurato il diritto ad attendere che la Commissione si esprima, ma rimangono dubbi alcuni profili. In particolare, se deve comunque essergli riconosciuto il diritto di formalizzare la domanda di asilo prima del rimpatrio forzato (e quindi attendere nel proprio paese di asilo una eventuale decisone della Commissione) e se la convalida del suo trattenimento e dell’esecuzione del rimpatrio forzato debba considerarsi di competenza del Tribunale civile (come per tutti i casi di richiedenti asilo) o del giudice di pace (come per i casi dei cittadini stranieri non richiedenti asilo).

      6. Il cd. procedimento immediato di cui all’art. 32 comma 1-bis d.lgs 25/08

      L’art. 10 del dl 113/18 ha, infine, introdotto un nuovo istituto al comma 1.bis dell’art. 32 del d.lgs 25/08, secondo cui: “Quando il richiedente è sottoposto a procedimento penale per uno dei reati di cui agli articoli 12, comma 1, lettera c), e 16, comma 1, lettera d-bis), del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, e successive modificazioni, e ricorrono le condizioni di cui all’articolo 6, comma 2, lettere a), b) e c), del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, ovvero è stato condannato anche con sentenza non definitiva per uno dei predetti reati, il questore, salvo che la domanda sia già stata rigettata dalla Commissione territoriale competente, ne dà tempestiva comunicazione alla Commissione territoriale competente, che provvede nell’immediatezza all’audizione dell’interessato e adotta contestuale decisione, valutando l’accoglimento della domanda, la sospensione del procedimento o il rigetto della domanda. Salvo quanto previsto dal comma 3, in caso di rigetto della domanda, il richiedente ha in ogni caso l’obbligo di lasciare il territorio nazionale, anche in pendenza di ricorso avverso la decisione della Commissione. A tal fine si provvede ai sensi dell’articolo 13, commi 3, 4 e 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”. In sostanza, nel caso in cui il richiedente asilo sia sottoposto a procedimento penale o sia stato condannato per taluni reati (tra cui alcuni di media gravità) viene sottoposto immediatamente all’audizione della Commissione territoriale, con una sorta di procedura accelerata. In caso di diniego[28] (anche in forza all’art. 35-bis comma 4 d.lgs 25/08) perde il diritto ad attendere in Italia non solo l’esito del ricorso ma anche quello della eventuale domanda cautelare di sospensione degli effetti del diniego stesso. Al pari di quanto sopra illustrato per il caso di inammissibilità della domanda reiterata “ordinaria” ex art. 29 comma 1 lett.b). Avrebbe dunque solo il diritto di rimanere in Italia per il tempo necessario a depositare il ricorso, ossia 30 giorni dalla notifica del diniego. Inoltre, nel caso in cui dovesse già trovarsi (al momento dell’apertura del procedimento penale) in sede di ricorso cesserebbero gli effetti della sospensione automatica, aprendo così la via al rimpatrio forzato immediato.

      Brevemente, si tratta di una disposizione che va evidentemente incontro all’esigenza mediatica, più volte espressa da alcune forze politiche, di procedere in tempi rapidi al rimpatrio forzato di richiedenti asilo che vengono accusati di aver commessi dei reati. Tuttavia, come si evince chiaramente anche dalle norme già analizzate della Direttiva procedure, si tratta di una disposizione del tutto illegittima in quanto totalmente estranea alle ipotesi (tassative) che la Direttiva stessa ha previsto in deroga alla ordinaria procedura di asilo. E’ una norma destinata ad essere espunta dall’ordinamento giuridico italiano, seppur è immaginabile che troverà applicazione fino a quando il complesso iter giurisdizionale non ne decreterà la illegittimità.

      Oltre alle ipotesi di procedura accelerata già analizzate e che sono state introdotte o riformate dal legislatore del dl 113/18, è opportuno ricordare che l’art. 28-bis d.lgs 25/08 ne prevede un’altra che non è stato oggetto di modifiche sostanziali. Questo articolo al comma 2 lett. c) stabilisce una procedura accelerata (14 gg per l’audizione e 4 per la decisione, prorogabili ai sensi del comma 3 dell’art. 28-bis) nei casi in cui il richiedente ha presentato “(…) la domanda dopo essere stato fermato in condizioni di soggiorno irregolare, al solo scopo di ritardare o impedire l’adozione o l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento”. Ai sensi dell’art. 35-bis comma 2 d.lgs 25/08 il termine per proporre ricorso avverso il diniego della Commissione territoriale è ridotto a 15 giorni e non è previsto l’effetto sospensivo automatico del ricorso stesso (art. 35-bis comma 3). La previsione appare conforme alla Direttiva procedure.

      7. Considerazioni conclusive

      In conclusione, le norme introdotte in tema di procedure accelerate dal decreto 113/18 e dalla relativa legge di conversione destano fortissima preoccupazione per la potenziale capacità di svuotare, di fatto, il diritto di asilo, soprattutto se operate in concomitanza con talune prassi illegittime (come quelle connesse al c.d approccio hotpot) e in presenza di importanti carenze strutturali del sistema italiano (privo in frontiera e nei Cpr di reali servizi di supporto e di vigilanza). La riforma in parte sfrutta al massimo i margini lasciati aperti dalla direttiva procedure 2013/32/UE e in parte sconfina nella aperta illegittimità, anche se può leggersi in quest’ultima una forte propensione ad anticipare con grande zelo le nuove politiche legislative che da anni vengono promosse dalla Commissione Europea, che già a partire dal maggio del 2015 (con la prima agenda sulle immigrazioni) sostiene uno stravolgimento del Ceas (il sistema europeo comune di asilo), non da ultimo anche con le proposte di riforma dell’aprile 2016[29]. Una complessa riforma, bloccata nel 2019 dalla fine del mandato europeo, che immagina un sistema che conservi un’impeccabile impalcatura di principi generali in cui l’Unione Europea riesca a specchiare la propria superiorità giuridica e culturale, ma che allo stesso tempo si munisca di strumenti che possano ridurre drasticamente il numero delle persone che riescono a raggiungere l’Europa per avanzare la domanda di asilo (c.d. esternalizzazione) e riescano ad incanalare questi ultimi in una serie di procedure di eccezione (che di fatto sostituiscono la regola) con cui si riducono drasticamente di fatto le possibilità di ottenere una protezione internazionale, condannando per lo più i cittadini stranieri giunti sul territorio dell’UE ad una condizione di subalterna irregolarità. Un ritorno ad una concezione elitaria del diritto di asilo, dove a fronte di ampie dichiarazioni di principio si aprono canali reali di protezione internazionale solo per pochi altamente scolarizzati o con un ruolo politicamente strategico a cui chiedere un atto di abiura nei confronti del proprio paese di origine.

      [*] Qualifiche: Avv. Salvatore Fachile, socio Asgi Foro di Roma; Avv. Loredana Leo, socia Asgi Foro di Roma; dott.ssa Adelaide Massimi, socia Asgi - progetto “In Limine”.

      [1] Direttiva 2013/32/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (rifusione);

      [2] Per una più ampia disamina relativa ai profili di illegittimità costituzionale delle norme introdotte dal dl 113/2018, si veda l’analisi pubblicata da Asgi nell’ottobre del 2018: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2018/10/ASGI_DL_113_15102018_manifestioni_illegittimita_costituzione.pdf.

      [3] Si veda la Direttiva 2013/32/UE, in particolare l’articolo 31 par. 8 (che individua le ipotesi in cui possono essere applicate procedure accelerate e/o in frontiera) e il par. 9 che stabilisce che “gli Stati membri stabiliscono termini per l’adozione di una decisione nella procedura di primo grado di cui al par. 8. I termini sono ragionevoli”. Si veda, inoltre, l’art. 46 parr. 6, 7 e 8 circa l’effetto sospensivo della presentazione del ricorso;

      [4] Agenda Europea sulla migrazione, Bruxelles, 13.5.2015 COM(2015) 240 final https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52015DC0240&from=EN;

      [5] Per un’analisi più approfondita dell’approccio hotspot si veda: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2019/02/2018-Lampedusa_scenari-_di_frontiera_versione-corretta.pdf; e https://www.law.ox.ac.uk/research-subject-groups/centre-criminology/centreborder-criminologies/blog/2018/04/detention-and

      [6] Non sembra che ad oggi sia mai stata utilizzata questa nuova forma di detenzione, che appare chiaramente in contrasto con l’art. 13 della Costituzione italiana. Nell’ambito del progetto In Limine, Asgi ha chiesto e ottenuto informazioni in tal senso dal Ministero dell’Interno e dalle Prefetture competenti, che, in base alla Circolare ministeriale del 27 dicembre, sono incaricate di individuare gli appositi locali adibiti al trattenimento dei richiedenti asilo. Ad oggi alcuna Prefettura ha infatti individuato gli “appositi locali” in cui eseguire il trattenimento. Si veda: https://inlimine.asgi.it/il-trattenimento-dei-richiedenti-asilo-negli-hotspot-tra-previsioni-le.

      [7] Si veda a tal proposito il lavoro svolto da Asgi, Cild, ActionAid e IndieWatch nell’ambito del progetto In Limine per quanto riguarda i ricorsi presentati alla Corte Edu: http://www.indiewatch.org/wp-content/uploads/2018/11/Lampedusa_web.pdf; il lavoro di monitoraggio e denuncia delle pratiche di trattenimento arbitrario: https://inlimine.asgi.it/il-trattenimento-dei-richiedenti-asilo-negli-hotspot-tra-previsioni-le; https://inlimine.asgi.it/da-un-confinamento-allaltro-il-trattenimento-illegittimo-nellhotspot-d; e il lavoro svolto in relazione alla procedura di supervisione della sentenza Khlaifia in collaborazione con A Buon Diritto: https://inlimine.asgi.it/lattualita-del-caso-khlaifia; https://inlimine.asgi.it/hotspot-litalia-continua-a-violare-il-diritto-alla-liberta-personale-d; https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2018/07/Khlaifia_-hotspot-Lampedusa_Progetto-In-limine_ITA-giugno-2018.pdf; https://hudoc.exec.coe.int/eng#{%22EXECIdentifier%22:[%22DH-DD(2019)906E%22]}.

      [8]A tal proposito si vedano i numerosi approfondimenti condotti circa l’utilizzo del foglio notizie e le problematiche legate alle modalità di compilazione dello stesso e le denunce presentate dalla società civile: https://www.law.ox.ac.uk/research-subject-groups/centre-criminology/centreborder-criminologies/blog/2018/04/detention-and; https://www.meltingpot.org/Determinazione-della-condizione-giuridica-in-hotspot.html; https://www.asylumineurope.org/reports/country/italy/asylum-procedure/access-procedure-and-registration/hotspots; http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/resources/cms/documents/6f1e672a7da965c06482090d4dca4f9c.pdf; https://www.asgi.it/notizie/hotspot-violazioni-denuncia-associazioni-lampedusa-catania.

      [9] Questa lettura era stata già in passato sistematicamente sostenuta dalle Forze di polizia nell’ambito di una norma che richiama l’identica nozione allo scopo di determinare quali categorie di soggetti fossero obbligati ad essere accolti nei cd. CARA. Il Tribunale di Roma con l’ordinanza dd 13.04.2010 aveva già chiarito sul punto che: “le fattispecie per le quali è disposta l’ ‘ospitalità’ presso il centro Cara sono disciplinati per legge e non sono suscettibili di interpretazione estensiva perché di fatto incidono sul diritto alla libera circolazione del richiedente asilo (l’allontanamento dal centro senza giustificato motivo comporta, tra l’altro, che la Commissione territoriale possa decidere senza la previa audizione del richiedente, cfr. art 21 del d.lgs 25/08) e debbono poter essere esaminati e verificati dal giudice in sede di ricorso avverso il provvedimento amministrativo e di preliminare istanza di sospensione del provvedimento impugnato”. V. anche Trib. di Roma sent. n. 733 del 10.12.2012.

      [10] Dal Devoto-Oli, Dizionario della Lingua italiana, Le Monnier, 2011.

      [11] Decreto 5 agosto 2019, Individuazione delle zone di frontiera o di transito ai fini dell’attuazione della procedura accelerata di esame della richiesta di protezione internazionale, pubblicato in CU Serie Generale n. 210 del 07.09.2019.

      [12] A tal proposito si veda inoltre il commento di Asgi al dm del 5 agosto del 2019: https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2019/10/2019_scheda_ASGI_decreto_zone_frontiera.pdf

      [13] Si veda, sul punto, la nota condivisa di Asgi, ActionAid, Arci, Borderline Sicilia, IndieWatch, MEDU, SeaWatch sulla situazione dei migranti sbarcati dalla Sea Watch 3 in condizione di detenzione arbitraria a Messina, Sa un confinamento all’altro. Il trattenimento illegittimo nell’hotspot di Messina dei migranti sbarcati dalla SeaWatch, 10.07.2019, https://inlimine.asgi.it/da-un-confinamento-allaltro-il-trattenimento-illegittimo-nellhotspot-d.

      [14] Si noti come il modello di procedura di frontiera disegnato dalla “Direttiva procedure” prevede un terzo elemento caratterizzante questa fattispecie, ossia la possibilità di detenere per un tempo massimo di 4 settimane il richiedente asilo in frontiera o zona di transito allo scopo di condurre la procedura di frontiera medesima. Tuttavia, il legislatore italiano ha preferito immaginare una forma di detenzione amministrativa simile ma differente, ossia quella sopra analizzata del trattenimento a scopo identificativo nei cd. hotspot e negli hub. Una procedura che nei fatti potrebbe molto somigliare alla detenzione in frontiera ma che giuridicamente si incardina su altre motivazioni, ossia sull’esigenza di identificazione, che probabilmente è apparsa al legislatore del dl 113/08 più vicina ai canoni costituzionali (rispetto a una detenzione basata esclusivamente sull’arrivo in frontiera).

      [15] Le ipotesi di procedura accelerata previste dall’art. 31 c. 8 della direttiva 2013/32 sono le seguenti:

      “a) nel presentare domanda ed esporre i fatti il richiedente ha sollevato soltanto questioni che non hanno alcuna pertinenza per esaminare se attribuirgli la qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95/UE; oppure
      il richiedente proviene da un paese di origine sicuro a norma della presente direttiva; o
      il richiedente ha indotto in errore le autorità presentando informazioni o documenti falsi od omettendo informazioni pertinenti o documenti relativi alla sua identità e/o alla sua cittadinanza che avrebbero potuto influenzare la decisione negativamente; o
      è probabile che, in mala fede, il richiedente abbia distrutto o comunque fatto sparire un documento d’identità o di viaggio che avrebbe permesso di accertarne l’identità o la cittadinanza; o
      il richiedente ha rilasciato dichiarazioni palesemente incoerenti e contraddittorie, palesemente false o evidentemente improbabili che contraddicono informazioni sufficientemente verificate sul paese di origine, rendendo così chiaramente non convincente la sua asserzione di avere diritto alla qualifica di beneficiario di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE; o
      il richiedente ha presentato una domanda reiterata di protezione internazionale inammissibile ai sensi dell’art. 40, paragrafo 5; o
      il richiedente presenta la domanda al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione anteriore o imminente che ne comporterebbe l’allontanamento; o
      il richiedente è entrato illegalmente nel territorio dello Stato membro o vi ha prolungato illegalmente il soggiorno e, senza un valido motivo, non si è presentato alle autorità o non ha presentato la domanda di protezione internazionale quanto prima possibile rispetto alle circostanze del suo ingresso; oIT l. 180/78 Gazzetta ufficiale dell’Unione europea;
      il richiedente rifiuta di adempiere all’obbligo del rilievo dattiloscopico a norma del regolamento (UE) n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che istituisce «Eurodac» per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione del regolamento (UE) n. 604/2013 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide e sulle richieste di confronto con i dati Eurodac presentate dalle autorità di contrasto degli Stati membri e da Europol a fini di contrasto ( 1 ); o
      il richiedente può, per gravi ragioni, essere considerato un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico dello Stato membro o il richiedente è stato espulso con efficacia esecutiva per gravi motivi di sicurezza o di ordine pubblico a norma del diritto nazionale.”

      [16] Inoltre, da una attenta lettura dell’art. 35-bis comma 2 (che stabilisce i casi di dimezzamento del termine di impugnazione) si potrebbe dedurre che i termini sono dimezzati solo nel caso in cui la manifesta infondatezza (anche eventualmente per provenienza da paese di origine sicuro) sia dichiarata a seguito di una procedura accelerata e non anche di una procedura ordinaria. Infatti l’art. 35-bis comma 2 richiama l’art. 28-bis, ossia quello delle procedure accelerate (e non invece l’art. 28-ter o l’art. 32 comma 1 b-bis, che disciplinano in generale la manifesta infondatezza derivante sia da procedura ordinaria che accelerata). Sarebbe dunque la natura accelerata della procedura (coniugata con la motivazione di manifesta infondatezza del diniego) a comportare la contrazione del termine per l’impugnazione. Sul punto si dovrà necessariamente ritornare in separata sede, per una lettura più analitica delle norme e degli spunti giurisprudenziali.

      [17] Una corretta lettura dovrebbe portare a ritenere che la mancanza di effetto sospensivo sia esclusivamente ricollegata all’adozione di una procedura accelerata. Nel caso in cui non venga adottata una tale procedura (con il correlativo rispetto della tempistica prevista) si dovrà ritenere che il ricorso avverso il diniego abbia effetto sospensivo automatico (salvo ovviamente che il diniego rechi la dicitura di manifesta infondatezza, che comporterebbe il ricadere in una diversa ipotesi in cui il ricorso viene privato del suo ordinario effetto sospensivo automatico). Il punto non può che essere affrontato con maggiore analiticità in una differente sede.

      [18] Ministero dell’Interno – Commissione nazionale per il diritto di asilo, Circolare prot. 00003718 del 30.07.2015 avente ad oggetto “Ottimizzazione delle procedure relative all’esame delle domande di protezione internazionale. Casi di manifesta infondatezza dell’istanza”.

      [19] Corte d’Appello di Napoli, sent. n. 2963 del 27.06.2017.

      [20] Direttiva procedure art. 46 par. 5. Fatto salvo il par. 6, gli Stati membri autorizzano i richiedenti a rimanere nel loro territorio fino alla scadenza del termine entro il quale possono esercitare il loro diritto a un ricorso effettivo oppure, se tale diritto è stato esercitato entro il termine previsto, in attesa dell’esito del ricorso. Par. 6. Qualora sia stata adottata una decisione: a) di ritenere una domanda manifestamente infondata conformemente all’art. 32, par. 2, o infondata dopo l’esame conformemente all’articolo 31, par. 8, a eccezione dei casi in cui tali decisioni si basano sulle circostanze di cui all’articolo 31, par. 8, lettera h).

      [21] Infatti, il legislatore non si è avvalso della clausola di cui al par. 4 art. 40 Direttiva procedure, secondo cui: “Gli Stati membri possono stabilire che la domanda sia sottoposta a ulteriore esame solo se il richiedente, senza alcuna colpa, non è riuscito a far valere, nel procedimento precedente, la situazione esposta nei parr. 2 e 3 del presente articolo, in particolare esercitando il suo diritto a un ricorso effettivo a norma dell’articolo 46.”

      [22] Par. 5 art. 46 direttiva 2013/32/UE: “Fatto salvo il paragrafo 6, gli Stati membri autorizzano i richiedenti a rimanere nel loro territorio fino alla scadenza del termine entro il quale possono esercitare il loro diritto a un ricorso effettivo oppure, se tale diritto è stato esercitato entro il termine previsto, in attesa dell’esito del ricorso”.

      [23] Par. 6 art. 46 direttiva 2013/32/UE: “Qualora sia stata adottata una decisione: (…) b) di ritenere inammissibile una domanda a norma dell’articolo 33, paragrafo 2, lettere a), b) o d); (…) un giudice è competente a decidere, su istanza del richiedente o d’ufficio, se autorizzare o meno la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro, se tale decisione mira a far cessare il diritto del richiedente di rimanere nello Stato membro e, ove il diritto nazionale non preveda in simili casi il diritto di rimanere nello Stato membro in attesa dell’esito del ricorso”.

      [24] “Gli Stati membri possono ammettere una deroga al diritto di rimanere nel territorio qualora una persona: a) abbia presentato una prima domanda reiterata, che non è ulteriormente esaminata ai sensi dell’articolo 40, paragrafo 5, al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione di una decisione che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dallo Stato membro in questione; o b) manifesti la volontà di presentare un’altra domanda reiterata nello stesso Stato membro a seguito di una decisione definitiva che considera inammissibile una prima domanda reiterata ai sensi dell’articolo 40, paragrafo 5, o dopo una decisione definitiva che respinge tale domanda in quanto infondata”.

      [25] Ministero dell’Interno – Commissione Nazionale per il Diritto d’asilo, Circolare prot. n. 0000001 del 02.01.2019 avente ad oggetto Decreto-legge del 4 ottobre 2018, n. 113, recante ‘Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata’, convertito, con modificazioni, dalla legge 1 dicembre 2018, n. 132;

      [26] Più precisamente, anzitutto bisogna rilevare che la direttiva 2013/32/UE sin dai considerando (in particolare n. 16) prevede che: “È indispensabile che le decisioni in merito a tutte le domande di protezione internazionale siano adottate sulla base dei fatti e, in primo grado, da autorità il cui organico dispone di conoscenze adeguate o ha ricevuto la formazione necessaria in materia di protezione internazionale”. Tale autorità è quella che nel prosieguo della direttiva è definita “autorità accertante”. In Italia, tale ruolo è assolto dalle Commissioni territoriali nominate dal Ministero dell’interno. La direttiva ammette che in luogo dell’autorità accertante alcune specifiche funzioni in materia siano svolte da altra autorità, purché adeguatamente formata. L’art. 4 della Direttiva “Autorità responsabili”, infatti, prevede che: “1. Per tutti i procedimenti gli Stati membri designano un’autorità che sarà competente per l’esame adeguato delle domande a norma della presente direttiva. (…) 2. Gli Stati membri possono prevedere che sia competente un’autorità diversa da quella di cui al paragrafo 1 al fine di: a) trattare i casi a norma del regolamento (UE) n. 604/2013 [c.d. Regolamento Dublino, ndr]; e b) accordare o rifiutare il permesso di ingresso nell’ambito della procedura di cui all’articolo 43, secondo le condizioni di cui a detto articolo e in base al parere motivato dell’autorità accertante [c.d. Procedure di frontiera, ndr].”. Inoltre, ai sensi dell’art. 34 “Norme speciali in ordine al colloquio sull’ammissibilità”: “[…] 2. Gli Stati membri possono disporre che il personale di autorità diverse da quella accertante conduca il colloquio personale sull’ammissibilità della domanda di protezione internazionale. In tal caso gli Stati membri provvedono a che tale personale riceva preliminarmente la necessaria formazione (…)”.

      Le competenze che possono essere attribuite ad autorità diversa da quella accertante possono riguardare, quindi, l’applicazione del cd. Regolamento Dublino e le procedure di frontiera (entrambe estranee al caso in esame), nonché la possibilità di condurre anche nei procedimenti sulle domande reiterate il colloquio del richiedente, ma non anche di assumere la decisione sulla domanda. Si consideri tuttavia che il colloquio con il richiedente costituisce una misura differente rispetto all’esame preliminare teso a valutare l’esistenza di elementi nuovi: si tratta di un eventuale fase del procedimento di inammissibilità a garanzia del richiedente che tuttavia nel caso di domande reiterate può essere escluso dal legislatore di ciascun Paese membro. Così come infatti ha deciso di fare il legislatore italiano che ha semplicemente escluso la fase del colloquio del richiedente nei casi di domanda reiterata. Per cui in Italia non è previsto il colloquio, ossia l’unica fase nel procedimento di valutazione della prima domanda reiterata che poteva essere affidata ad una autorità diversa (ossia alla Questura). Infatti ai sensi dell’art. 34 paragrafo 1 “Prima che l’autorità accertante decida sull’ammissibilità di una domanda di protezione internazionale, gli Stati membri consentono al richiedente di esprimersi in ordine all’applicazione dei motivi di cui all’articolo 33 alla sua situazione particolare. A tal fine, gli Stati membri organizzano un colloquio personale sull’ammissibilità della domanda. Gli Stati membri possono derogare soltanto ai sensi dell’articolo 42, in caso di una domanda reiterata”. La Direttiva quindi rende obbligatorio l’esame preliminare (valutazione cartacea sulla base della domanda scritta del richiedente) ma facoltativo il colloquio (unica fase affidabile ad una autorità diversa). In attuazione della Direttiva, l’art. 29 del D.lgs. n. 25/2008 “casi di inammissibilità della domanda” esclude il colloquio in caso di domanda reiterata, prevedendo espressamente che il Presidente delle Commissione Territoriale conduca un esame preliminare sulla domanda. A sua volta, l’art. 29-bis del Dl.lgs. n.25/2008, recita: “Nel caso in cui lo straniero abbia presentato una prima domanda reiterata nella fase di esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’imminente allontanamento dal territorio nazionale, la domanda è considerata inammissibile in quanto presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione del provvedimento stesso. In tale caso non si procede all’esame della domanda ai sensi dell’articolo 29”, nulla aggiungendo in merito alla competenza a giudicare inammissibile la domanda reiterata. Dunque si potrebbe interpretare l’art. 29-bis in modo differente da quanto proposto dal Ministero con la circolare del 2.01.2019 e con il decreto di inammissibilità qui impugnato.

      [27] Il Tribunale di Roma ha avuto modo di esprimersi in differenti occasioni annullando il decreto di inammissibilità emanato dalla Questura per difetto di competenza, ribadendo che si tratta di una prerogativa della Commissione, cfr. Trib. di Roma, decreto dd. 03.04.2019. Si veda, sul punto, G. Savio, Accesso alla procedura di asilo e poteri “di fatto” delle Questure, in Questione Giustizia, www.questionegiustizia.it/articolo/accesso-alla-procedura-di-asilo-e-poteri-di-fatto-delle-questure_29-05-2019.php;

      [28] Si dovrà comunque valutare anche l’esistenza di una necessità di riconoscere ai sensi dell’art. 32 comma 3 una protezione speciale, ossia il ricorrere delle condizioni di non refoulement di cui all’art. 19 comma 1 e 1.1 del D.lgs 286/98.

      [29] Sul punto si veda: Asgi, I nuovi orientamenti politico-normativi dell’Unione Europea – La prospettiva di nuove e radicali chiusure al diritto di asilo, settembre 2017, https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2017/09/2017_9_Articolo_politiche-_UE_ok.pdf;

      https://www.questionegiustizia.it/articolo/le-nuove-procedure-accelerate-lo-svilimento-del-diritto-di-asilo_
      #procédures_de_frontière

    • Nuovi Cpr, Piantedosi: «Pensiamo a un centro per migranti a Ventimiglia»

      Al via il monitoraggio in 12 regioni per individuare le nuove strutture che saranno controllare (all’esterno) dalle forze dell’ordine. Si pensa ad ex caserme e aree industriali, comunque lontane dai centri abitati.

      Entro due mesi il ministero della Difesa dovrà avere la lista dei nuovi Centri di permanenza per i rimpatri decisi dal Consiglio del ministri lo scorso 18 settembre per fare fronte all’emergenza migranti, soprattutto di quelli irregolari. Un’operazione complessa, già iniziata da qualche settimana comunque dopo che il ministro dell’Interno #Matteo_Piantedosi ha espresso l’indicazione di aprire una struttura in ogni regione. Attualmente ci sono nove Cpr attivi, mentre quello di Torino è stato chiuso per i danneggiamenti causati da chi si trovava all’interno e deve essere ristrutturato. Ne mancano quindi 12 all’appello. Il ministro stesso nel pomeriggio ha annunciato in diretta tv (al programma «Cinque Minuti» su Rai 1), durante un’intervista. «Ventimiglia ha sempre sofferto, soffre dei transiti di migranti. Noi stiamo collaborando con la Francia per il controllo di quella frontiera ed è uno di qui luoghi a cui stiamo dedicando attenzione per la realizzazione di una di quelle strutture che abbiamo in animo di dedicare proprio per contenere il fenomeno».
      Chi sarà trattenuto nei Cpr?

      Innanzitutto in queste strutture vengono accompagnati gli stranieri irregolari considerati una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica, quelli condannati, anche con sentenza non definitiva, per gravi reati e i cittadini che provengono da Paesi terzi con i quali risultino vigenti accordi in materia di cooperazione o altre intese in materia di rimpatri. Secondo la direttive il trattenimento in un Cpr è utile per evitare la dispersione sul territorio nazionale di persone che sono irregolari per quanto riguarda il soggiorno in Italia quando non sia possibile eseguirne con immediatezza il rimpatrio (per la necessità di accertarne l’identità, trattandosi spesso di stranieri privi di documenti di riconoscimento, di acquisire il lasciapassare delle autorità consolari del Paese di origine o semplicemente di organizzare le operazioni di allontanamento). Anche coloro che hanno richiesto asilo in Italia possono ritrovarsi in un Cpr ma soltanto se nei guai con la legge oppure se persone considerate pericolose o ancora se bisogna ancora analizzare gli elementi su cui si basa la domanda di protezione internazionale, che non potrebbero essere acquisiti senza il trattenimento e se c’è al tempo stesso il rischio di fuga.

      Dove si trovano i Cpr e dove saranno costruiti gli altri 12?

      Attualmente i Centri sono a Bari, Brindisi, Caltanissetta, Roma, Torino (chiuso, come detto), Palazzo San Gervasio (Potenza), Trapani, Gorizia, Macomer (Nuoro) e Milano. A oggi ci sono 1.338 posti su una capienza effettiva di 619 posti. Il più grande è quello romano a Ponte Galeria, uno dei primi ex Cie d’Italia con 117 posti utilizzabili. Gli altri dovranno essere costruiti Calabria, Molise, Campania, Marche, Abruzzo, Toscana, Emilia Romagna, Veneto, Liguria, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta in strutture che saranno individuate dalla Difesa e poi adattate dal Genio militare. Si pensa ad ex caserme ma anche a complessi in aree industriali che rispondono alle esigenze descritte dal governo: lontano da centri abitati, controllabili e perimetrabili. La vigilanza sarà affidata a polizia e carabinieri e comunque non all’Esercito che si limiterà all’organizzazione logistica.

      Quanto tempo i clandestini rimarranno nei Cpr?

      Al massimo 18 mesi, come stabilito nel corso dell’ultimo Cdm, partendo da sei mesi prorogabili ogni tre mesi, come consentito dalla normativa europea per gli stranieri che non hanno fatto domanda di asilo, per i quali sussistano esigenze specifiche (se lo straniero non collabora al suo allontanamento o per i ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione da parte dei Paesi terzi). Attualmente nei Cpr si rimane per 90 giorni con una proroga fino a 45. E comunque i richiedenti asilo non possono essere trattenuti per più di un anno. Nel caso il migrante irregolare dovesse invece collaborare subito alla sua identificazione certa e dovesse anche accettare il rimpatrio, allora il suo trattenimento sarebbe molto più breve. In ogni circostanza è il questore a disporre l’accompagnamento al Cpr del soggetto e a inviare entro 48 ore la comunicazione al giudice di pace che deve convalidare il provvedimento. Il magistrato è chiamato anche a decidere sulle eventuali proroghe.
      Chi gestisce un Cpr?

      Ogni struttura è di competenza del prefetto, massima autorità provinciale dello Stato, che con i bandi affida a soggetti privati la gestione dei servizi interni al Cpr, sia sul fronte logistico-organizzativo sia su quello dei rapporti con chi è trattenuto. Le forze dell’ordine pattugliano l’esterno e possono entrare solo su richiesta dei gestori in caso di necessità ed emergenza. Ogni straniero trattenuto può invece presentare istanze e reclami al Garante nazionale e a quelli regionali delle persone detenute o private della libertà personale. La prima autorità può peraltro inviare raccomandazioni ai prefetti e ai gestori su specifici aspetti del trattenimento.
      Da quanto tempo esistono i Cpr?

      I Centri di permanenza per i rimpatri sono stati istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano (art. 12 della legge 40/1998) per adempiere agli obblighi previsti dalla normativa europea. All’inizio furono chiamati Cpt (Centri di permanenza temporanea), poi Cie (Centri di identificazione ed espulsione) dalla legge Bossi-Fini (L.189/2002). Oggi Cpr con la legge Minniti-Orlando (L. 46/2017).

      https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/23_settembre_20/nuovi-cpr-dalla-valle-d-aosta-alla-calabria-dove-saranno-e-chi-dovra-a

  • Agosto 2023: detenzioni abusive e aggressioni da parte della polizia in Costa Azzurra

    Progetto20K: «Questa frontiera produce e riproduce questo tipo di violenza 365 giorni all’anno»

    Progetto20K ha diffuso un comunicato il 24 agosto 2023 con il quale denuncia diversi abusi monitorati al confine di Ventimiglia tra l’Italia e la Francia e in Costa Azzurra.

    Da domenica 20 agosto 2023, sono state segnalate violazioni più allarmanti del solito da parte della polizia presso la stazione di frontiera di Ponte San Luigi a Mentone, nelle Alpi Marittime (Francia). Oltre alle consuete pratiche illegali della polizia, c’è l’attuale detenzione prolungata di circa 70 minori non accompagnati almeno da domenica 20 agosto (quindi già da 4 giorni) ed il rilascio di documenti di espulsione ad almeno 2 minori non accompagnati e l’aggressione fisica di una famiglia su un treno italiano.

    Nonostante il caldo asfissiante, la polizia francese continua a detenere illegalmente le persone in container al posto di frontiera di Ponte San Luigi (che si affaccia sul porto turistico di Mentone) per diverse ore o addirittura per giorni, al punto che decine di persone dormono e aspettano all’esterno, sotto una rete metallica.

    Durante questa ondata di caldo, decine di minori sono stati rinchiusi e ci sono rimasti per diversi giorni. Le informazioni che ci sono state riferite dal personale di un centro di accoglienza per minori non accompagnati nelle Alpi Marittime sono le seguenti:

    – 68 minori, lunedì 21 agosto alle 21.00;
    – 78 minori, mercoledì mattina 23 agosto;
    – 72 minori, mercoledì 23 agosto alle 22.00;

    Questa situazione ricorda la detenzione diffusa, arbitraria e collettiva di minori che si verifica regolarmente alla frontiera: l’episodio più recente risale all’aprile 2023.

    Inoltre, secondo diverse testimonianze di persone espulse in Italia, la polizia falsifica le date di nascita, nonostante le numerose proteste degli ultimi anni contro questa pratica.

    Questa la testimonianza di Siaka 1:

    “Martedì 22 agosto mi hanno chiamato, da solo ed hanno controllato le mie impronte digitali. Le informazioni emerse erano le stesse registrate al mio arrivo in Italia: ho riconosciuto la foto che mi era stata scattata a Lampedusa. Poi mi hanno preso di nuovo le impronte, ma con un’altra macchina, e mi hanno scattato una nuova foto.

    Non sapevo cosa stesse facendo la polizia, non mi hanno chiesto ne spiegato nulla. So che alcuni altri giovani hanno parlato con qualcuno che non era un agente di polizia e che li ha interrogati sulla loro età, sulla loro situazione familiare e su come sono arrivati qui. Ho visto questa persona ma non mi ha parlato. Sono stato riportato nella stanza e dopo un po’ mi hanno chiamato di nuovo. Mi hanno dato dei documenti a mio nome, ma la mia data e il mio luogo di nascita erano stati cambiati. C’era scritto che ero nat* nel 2005, mentre sono nat* nel 2007.

    Non conosco il luogo in cui hanno scritto che sono nat*, e a volte c’è anche confusione tra il mio Paese, la Guinea Conakry, e la Guinea Bissau. Questo documento è un obbligo di lasciare il territorio francese con il divieto di rientrare nel territorio francese per un anno.”

    Siaka è stat* bersaglio di una novità del 2023 nell’arsenale delle pratiche illegali di polizia su questa frontiera: l’emissione di una Obligation de Quitter Territoire Français (Obbligo di lasciare il territorio francese ndR.) (OQTF) a minori, senza alcuna procedura regolare per la valutazione dello status di minore da parte del dipartimento delle Alpi Marittime. Già nel gennaio 2023, un minore è stato respinto con un OQTF senza che il dipartimento gli fornisse alcun tipo di rapporto di valutazione della minore età che giustificasse la sua decisione.

    In questo caso, la polizia non ha potuto ignorare la minore età di Siaka poiché ha presentato una foto del suo certificato di nascita. Hanno anche consultato gli archivi della polizia italiana, che identificavano chiaramente Siaka come un minore.

    Senza procedura, l’assegnazione arbitraria delle date di nascita alle persone da parte della polizia non può che costituire una falsificazione, quindi un reato penale (a maggior ragione se in una scrittura pubblica), mentre la mancata assistenza ai minori non accompagnati è una violazione dei diritti dei bambini/minori.

    Al momento in cui scriviamo, la situazione rimane irrisolta, senza che sia stata fatta giustizia per i/le giovani detenut* e per quell* che si trovano per strada su entrambi i lati del confine.

    Aggressioni della polizia di frontiera: violenza, razzismo e impunità

    Alla fine della giornata del 22 agosto, un treno partito da Ventimiglia e diretto a Cuneo è stato controllato dalla gendarmeria francese. Questo treno è particolare in quanto serve 5 stazioni francesi (in cui avvengono sistematicamente controlli d’identità da parte delle autorità) anche se il suo capolinea è in Italia. All’arrivo alla prima stazione francese (Breil-sur-Roya), la gendarmeria controlla il treno e chiede a* passegger* razzializzat* i loro documenti d’identità, visto che in base ai loro criteri sono loro ad avere maggiori probabilità di viaggiare illegalmente.

    Una famiglia composta da un uomo, una donna incinta di 7 mesi e un bambino piccolo è stata presa di mira da 3 gendarmi della compagnia di intervento “Gendarmeria India 14/6”, con un comportamento eccessivamente violento e ansiogeno, nonostante la presenza di un bambino terrorizzato e di testimoni che riprendevano la scena e gridavano “Basta!”, “Lasciatela andare!“. È stata una scena di violenza inaudita (perché la violenza è la norma qui al confine, ma questo è un nuovo livello).

    https://www.youtube.com/watch?v=twsY-BMKx_w&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.meltingpot.org%

    Un avvocato si è assunto il compito di rappresentare e difendere la donna che è stata arrestata e messa in custodia con l’accusa di “ribellione e violenza nei confronti di una persona che detiene pubblica autorità (PDAP)”.

    Secondo Maître Zia Oloumi, la donna viaggiava con un biglietto e non sapeva che questo treno italiano Ventimiglia-Limone stava attraversando la Francia. Stava andando a chiedere asilo in Italia con il padre di suo figlio e il suo bambino di un anno.

    La mattina successiva il marito e il bambino sono stati rimandati in Italia (a piedi) dopo essere stati trattenuti contro la loro volontà nella stazione di polizia di frontiera di Ponte San Luigi (Mentone). Solo alla fine della giornata, dopo un lungo periodo di detenzione da parte della polizia, la donna ha potuto raggiungerli a Ventimiglia, in Italia.

    Quest’ultimo episodio di violenza da parte della polizia è un altro di una lunga serie di abusi di potere, di profilazione razziale e di attacchi fisici e verbali contro le persone in movimento e, più in generale, contro le persone di colore. Queste pratiche sono avallate dalla retorica politica fascista, così come dai disegni di legge (la nuova legge sull’asilo e l’immigrazione in fase di elaborazione da parte del governo francese) e da poteri di polizia sempre più pericolosi e fuori controllo (la “Border Force” del primo ministro Elisabeth Borne che mira a “rendere sicure le nostre frontiere”, usare droni per pattugliare i sentieri di montagna; con un bilancio destinato alla sicurezza che prevede un aumento di 1,05 miliardi di euro nel bilancio del Ministero dell’Interno tra il 2022 e il 2023, secondo Le Monde).

    Vorremmo anche far notare ai giornalisti, ai rappresentanti eletti e a tutt* che questa frontiera produce e riproduce questo tipo di violenza 365 giorni all’anno e che, se da un lato è importante amplificare e pubblicizzare questi episodi di violenza conclamata, è anche fondamentale istituire centri di osservazione permanenti e strutture di supporto legale e politico direttamente sul posto.

    Gli agenti di polizia possono fare quello che vogliono anche quando sono sorvegliati, quindi sosteniamo gli sforzi di autodifesa collettiva.

    «Filmare la polizia, sostenere i gruppi locali di persone in movimento, prendere posizione contro il razzismo sistemico.»

    https://www.meltingpot.org/2023/08/agosto-2023-detenzioni-abusive-e-aggressioni-da-parte-della-polizia-in-c
    #détention_abusive #détention #mineurs #asile #migrations #réfugiés #frontières #frontière_sud-alpine #Alpes-Maritimes #Alpes #Italie #France #racisme #progetto20k #rapport #Vintimille #Menton #Ponte_San_Luigi #OQTF #obligation_de_quitter_le_territoire_français #violences_policières #impunité

    • Exploitation, vulnérabilité et résistance : le cas des #ouvriers_agricoles indiens dans l’Agro Pontino

      De nombreuses représentations trompeuses continuent à peser sur l’exploitation des ouvriers agricoles étrangers en Italie, rendant difficile la compréhension du phénomène et l’intervention sur ses causes réelles. Cet article tente de questionner les principaux lieux communs sur le sujet, en analysant un cas particulièrement éclairant : celui de la communauté #Pendjabi de #religion_sikh employée sur l’Agro Pontino, dans le Latium. Cette étude de cas permet, d’une part, de faire ressortir les conditions d’exploitation systémiques, masquées derrière des mécanismes apparemment légaux ; de l’autre, il révèle que même les individus les plus vulnérables peuvent résister à l’exploitation et revendiquer activement leurs droits.

      https://www.cairn.info/revue-confluences-mediterranee-2019-4-page-45.htm

    • #In_migrazione

      In Migrazione è una Società Cooperativa Sociale nata nel 2015 dalla volontà di persone impegnate nella ricerca, nell’accoglienza e nel sostegno agli stranieri in Italia.

      Diversi percorsi professionali e umani che hanno attraversato un ampio spaccato di esperienze diverse e che con In Migrazione si sono uniti per dare vita ad un soggetto collettivo, innovativo, aperto e trasparente.

      Una Cooperativa nata per sperimentare nuovi progetti di qualità e innovative metodologie al fine di interpretare e concretizzare percorsi d’aiuto efficaci verso i migranti che vivono nel nostro Paese situazioni di disagio e difficoltà. Esperienze concrete che sappiano diventare buone pratiche riproducibili, per contribuire a migliorare quel sistema di accoglienza e inclusione sociale degli stranieri.

      Le nostre ricerche e le concrete sperimentazioni progettuali mettono al centro la persona, con i suoi peculiari bisogni, aspettative e sogni.

      Mettiamo a disposizione queste esperienze e le nostre metodologie alle altre associazioni, cooperative, Enti pubblici e privati, professionisti e volontari del settore, convinti che nel sociale non possano e non debbano esistere copyright.

      https://www.inmigrazione.it

    • Progetto “Dignità-Joban Singh”, contro la schiavitù dei braccianti

      Una serie di sportelli di accoglienza, ascolto e sostegno, ma anche di assistenza legale, sociale, di formazione e di informazione, in tutta la provincia di Latina. Un progetto per dare voce alle vittime di lavoro schiavo, in memoria del giovane di origini indiane, morto suicida il 6 giugno 2020 a Sabaudia

      Si chiama Dignità-Joban Singh ed è il progetto in corso organizzato dall’associazione Tempi Moderni contro le varie forme di schiavismo e sfruttamento che mortificano e riducono in schiavitù migliaia di persone, immigrati e italiani, indiani e africani, uomini e donne, in questa Italia fondata sul lavoro ma anche su una persistente presenza di razzisti, violenti, mafiosi e di sfruttatori che mortificano la democrazia ed esprimono chiaramente la loro natura predatoria.

      Joban Singh, di appena 25 anni e residente nel residence “Bella Farnia Mare”, nel Comune di Sabaudia, in provincia di Latina, il 6 giugno scorso è stato trovato senza vita all’interno del suo appartamento. Joban decise di impiccarsi dopo essere entrato in Italia mediante un trafficante di esseri umani indiano, essere stato gravemente sfruttato in una delle maggiori aziende agricole dell’Agro Pontino e aver subito il rifiuto da parte del padrone alla sua richiesta di emersione dall’irregolarità mediante art. 103 del Decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) del governo.

      Dedicare questo progetto alla sua memoria, per non dimenticare ciò che significa vivere come uno schiavo in un paese libero, è un impegno che viene sottoscritto da Tempi Moderni ma che può camminare solo sulle gambe di tanti, o meglio di una comunità di persone responsabili e ribelle contro i padroni e i padrini di oggi.

      In questa Italia ci sono, secondo il rapporto Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil (2020), tra 400 e 450mila lavoratori e lavoratrici che solo in agricoltura risultano esposti allo sfruttamento e al caporalato. Di queste ultime, più di 180mila sono impiegate in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale. Secondo il sesto Rapporto Agromafia dell’Eurispes, il business delle agromafie, che comprendono le forme di grave sfruttamento, vale 24,5 miliardi di euro l’anno, con un balzo, nel corso del 2018, del 12,4%.

      Un fiume di denaro che è espressione di un’ideologia della disuguaglianza penetrata nei processi culturali delle società occidentali e troppo spesso relazione fondamentale del mondo del lavoro, in particolare del lavoro di fatica. È questo un sistema che produce lo schiavismo contemporaneo, come più volte il “Rapporto Italia”, ancora dell’Eurispes, ha messo in luce.

      Ancora nel 2019, ad esempio, l’Eurispes aveva esplicitamente dichiarato che lo sfruttamento è una fattispecie criminale le cui principali vittime sono i migranti provenienti dall’Europa dell’Est, dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina. Lo sfruttamento, infatti, risultava più diffuso nei comparti più esposti alle irregolarità, al sommerso e all’abuso, dove chi fornisce prestazioni lavorative è in condizione di maggiore vulnerabilità.

      Si registrano dunque casi più numerosi, ancora secondo l’Eurispes, nell’agricoltura e pastorizia, a danno di polacchi, bulgari, rumeni, originari dell’ex U.R.S.S., africani e, in misura crescente, pakistani e indiani; nell’edilizia, a danno di europei dell’Est; nel settore tessile e manifatturiero, a danno di cinesi; nel lavoro domestico (soprattutto come badanti), a danno di soggetti provenienti dall’Europa dell’Est, dall’ex U.R.S.S., dall’Asia e dall’America del Sud.

      Insomma, uomini e donne a cui viene violata la dignità ogni giorno, costretti ad eseguire gli ordini del padrone, a sottostare ai suoi interessi e logiche di dominio. Quando questo potere si esercita nei confronti delle donne, lo sfruttamento assume caratteri devastanti. Ci sono infatti anche casi di violenza sessuale, di subordinazione delle lavoratrici immigrate alle logiche di dominio del boss, del padrone, del capo di turno.

      In provincia di Latina e precisamente a Sabaudia, appena poco prima di Natale, un’operazione denominata “Schiavo” e condotta dalla guardia di finanza, ha permesso di liberare dallo sfruttamento 290 lavoratori, soprattutto di origine indiana, che da anni venivano retribuiti con salari mensili inferiori anche del 60% rispetto a quelli previsti dal contratto provinciale, senza il riconoscimento degli straordinari, con l’obbligo di lavorare anche la domenica, impiegati senza le necessarie misure di sicurezza.

      Dunque, cosa fare? Avere il coraggio di capire, organizzarsi e agire collettivamente. Non si hanno alternative. La povertà, lo sfruttamento, la schiavitù, la violenza, non si abrogano per decreto. Non basta una legge. Serve un’azione collettiva espressione di una volontà radicale di contrasto di questo fenomeno mediante innanzitutto l’accoglienza e l’ascolto delle sue vittime, la costruzione di una relazione orizzontale con loro, dialettica, professionale e anche in questo coraggiosa, perché si deve prevedere l’azione di denuncia dei padroni insieme a quella della tutela.

      Ed è questa la sintesi perfetta del progetto Dignità–Joban Singh che ha organizzato e avviato una serie di sportelli di accoglienza, ascolto, sostegno e anche di assistenza legale, sociale, di formazione e di informazione, in tutta la provincia di Latina. Si tratta di sportelli che hanno il compito di accogliere e di fornire assistenza legale gratuita alle donne e agli uomini gravemente sfruttati, di qualunque nazionalità, vittime di tratta e caporalato, di violenze, anche sessuali, obbligati al silenzio o alla subordinazione.

      Insomma, un progetto realizzato grazie all’ausilio di avvocati di grande esperienza e con mediatori culturali affidabili e professionali, fondato sulla pedagogia degli oppressi di Freire e gli insegnamenti di Don Milani, Don Primo Mazzolari e Don Sardelli. Un progetto che vuole anche contrastare le strategie (razziste) mediatiche, politiche e sociali di stigmatizzazione, stereotipizzazione ed esclusione di coloro che sono considerati antropologicamente diversi.

      Un progetto che però ha bisogno del sostegno della maggioranza di questo paese, donne e uomini che non vogliono vivere sotto il ricatto delle mafie, dei violenti, degli sfruttatori, dei neoschiavisti, dei razzisti, in favore di un’Italia che merita un futuro diverso, migliore.

      https://www.nigrizia.it/notizia/progetto-dignita-joban-singh-contro-la-schiavitu-dei-braccianti

    • Marco Omizzolo

      Marco Omizzolo is a sociologist, researcher and journalist, who has been documenting and denoucing human rights violations against Sikh migrant workers exploited in the fields in the province of Latina (central Italy). In a context where “agrimafia” is rampant and many farms are controlled by criminal organisations, migrants have to work for up to 13 hours a day in inhumane conditions and under the orders of “caporali” (gangmasters), they earn well below the minimum wage and they have to live in cramped accommodation. To document their situation, Marco has worked undercover in the fields and he also went to Punjab (India) to follow an Indian human trafficker, where he investigated the connections between human trafficking and the system of agrimafia. Marco is also one of the founders of InMigrazione, an organisation that supports migrant workers informing them about their rights, helping them organise and fight for labour rights, and giving them the legal support they might need. In 2016, Marco and some Sikh activists managed to organise the first mass strike in Latina, joined by over 4000 workers.

      Because of his work - and particularly because of his investigations denouncing the criminal organisations involved in the agribusiness and the local food industry - Marco Omizzolo has been receiving serious threats. His car has been repeatedly damaged, he is often under surveillance and he has been forced to relocate because of the threats received.

      https://www.frontlinedefenders.org/en/profile/marco-omizzolo

    • The Indian migrants lured into forced labor on Mussolini’s farmland

      Gurinder Dhillon still remembers the day he realized he had been tricked. It was 2009, and he had just taken out a $16,000 loan to start a new life. Originally from Punjab, India, Dhillon had met an agent in his home village who promised him the world.

      “He sold me this dream,” Dhillon, 45, said. A new life in Europe. Good money — enough to send back to his family in India. Clothes, a house, plenty of work. He’d work on a farm, picking fruits and vegetables, in a place called the Pontine Marshes, a vast area of farmland in the Lazio region, south of Rome, Italy.

      He took out a sizable loan from the Indian agents, who in return organized his visa, ticket and travel to Italy. The real cost of this is around $2,000 — the agents were making an enormous profit.

      “The thing is, when I got here, the whole situation changed. They played me,” Dhillon said. “They brought me here like a slave.”

      On his first day out in the fields, Dhillon climbed into a trailer with about 60 other people and was then dropped off in his assigned hoop house. That day, he was on the detail for zucchini, tomatoes and eggplant. It was June, and under the plastic, it was infernally hot. It felt like at least 100 degrees, Dhillon remembers. He sweated so much that his socks were soaked. He had to wring them out halfway through the day and then put them back on — there was no time to change his clothes. As they worked, an Italian boss yelled at them constantly to work faster and pick more.

      Within a few hours of that first shift, it dawned on Dhillon that he had been duped. “I didn’t think I had been tricked — I knew I had,” he said. This wasn’t the life or the work he had been promised.

      What he got instead was 3.40 euros (about $3.65) an hour, for a workday of up to 14 hours. The workers weren’t allowed bathroom breaks.

      On these wages, he couldn’t see how he would ever repay the enormous loan he had taken out. He was working alongside some other men, also from India, who had been there for years. ”Will it be like this forever?” he asked them. “Yes,” they said. “It will be like this forever.”

      Ninety years ago, a very different harvest was taking place. Benito Mussolini was celebrating the first successful wheat harvest of the Pontine Marshes. It was a new tradition for the area, which for millennia had been nothing but a vast, brackish, barely-inhabited swamp.

      No one managed to tame it — until Mussolini came to power and launched his “Battle for Grain.” The fascist leader had a dream for the area: It would provide food and sustenance for the whole country.

      Determined to make the country self-sufficient as a food producer, Mussolini spoke of “freeing Italy from the slavery of foreign bread” and promoted the virtues of rural land workers. At the center of his policy was a plan to transform wild, uncultivated areas into farmland. He created a national project to drain Italy’s swamps. And the boggy, mosquito-infested Pontine Marshes were his highest priority.

      His regime shipped in thousands of workers from all over Italy to drain the waterlogged land by building a massive system of pumps and canals. Billions of gallons of water were dredged from the marshes, transforming them into fertile farmland.

      The project bore real fruit in 1933. Thousands of black-shirted Fascists gathered to hear a brawny-armed, suntanned Mussolini mark the first wheat harvest of the Pontine Marshes.

      "The Italian people will have the necessary bread to live,” Il Duce told the crowd, declaring how Italy would never again be reliant on other countries for food. “Comrade farmers, the harvest begins.”

      The Pontine Marshes are still one of the most productive areas of Italy, an agricultural powerhouse with miles of plastic-covered hoop houses, growing fruit and vegetables by the ton. They are also home to herds of buffalo that make Italy’s famous buffalo mozzarella. The area provides food not just for Italy but for Europe and beyond. Jars of artichokes packed in oil, cans of Italian plum tomatoes and plump, ripe kiwi fruits often come from this part of the world. But Mussolini’s “comrade farmers” harvesting the land’s bounty are long gone. Tending the fields today are an estimated 30,000 agricultural workers like Dhillon, most hailing from Punjab, India. For many of them — and by U.N. standards — the working conditions are akin to slave labor.

      When Urmila Bhoola, the U.N. special rapporteur on contemporary slavery, visited the area, she found that many working conditions in Italy’s agricultural sector amounted to forced labor due to the amount of hours people work, the low salaries and the gangmasters, or “caporali,” who control them.

      The workers here are at the mercy of the caporali, who are the intermediaries between the farm workers and the owners. Some workers are brought here with residency and permits, while others are brought fully off the books. Regardless, they report making as little as 3-4 euros an hour. Sometimes, though, they’re barely paid at all. When Samrath, 34, arrived in Italy, he was not paid for three months of work on the farms. His boss claimed his pay had gone entirely into taxes — but when he checked with the government office, he found his taxes hadn’t been paid either.

      Samrath is not the worker’s real name. Some names in this story have been changed to protect the subjects’ safety.

      “I worked for him for all these months, and he didn’t pay me. Nothing. I worked for free for at least three months,” Samrath told me. “I felt so ashamed and sad. I cried so much.” He could hardly bring himself to tell his family at home what had happened.

      I met Samrath and several other workers on a Sunday on the marshes. For the Indian Sikh workers from Punjab, this is usually the only day off for the week. They all gather at the temple, where they pray together and share a meal of pakoras, vegetable curry and rice. The women sit on one side, the men on the other. It’s been a long working week — for the men, out in the fields or tending the buffaloes, while the women mostly work in the enormous packing centers, boxing up fruits and vegetables to be sent out all over Europe.

      Another worker, Ramneet, told me how he waited for his monthly check — usually around 1,300 euros (about $1,280) per month, for six days’ work a week at 12-14 hours per day. But when the check came, the number on it was just 125 euros (about $250).

      “We were just in shock,” Ramneet said. “We panicked — our monthly rent here is 600 euros.” His boss claimed, again, that the money had gone to taxes. It meant he had worked almost for free the entire month. Other workers explained to me that even when they did have papers, they could risk being pushed out of the system and becoming undocumented if their bosses refused to issue them payslips.

      Ramneet described how Italian workers on the farms are treated differently from Indian workers. Italian workers, he said, get to take an hour for lunch. Indian workers are called back after just 20 minutes — despite having their pay cut for their lunch hour.

      “When Meloni gives her speeches, she talks about getting more for the Italians,” Ramneet’s wife Ishleen said, referring to Italy’s new prime minister and her motto, “Italy and Italians first.” “She doesn’t care about us, even though we’re paying taxes. When we’re working, we can’t even take a five-minute pause, while the Italian workers can take an hour.”

      Today, Italy is entering a new era — or, some people argue, returning to an old one. In September, Italians voted in a new prime minister, Giorgia Meloni. As well as being the country’s first-ever female prime minister, she is also Italy’s most far-right leader since Mussolini. Her supporters — and even some leaders of her party, Brothers of Italy — show a distinct reverence for Mussolini’s National Fascist Party.

      In the first weeks of Meloni’s premiership, thousands of Mussolini admirers made a pilgrimage to Il Duce’s birthplace of Predappio to pay homage to the fascist leader, making the Roman salute and hailing Meloni as a leader who might resurrect the days of fascism. In Latina, the largest city in the marshes, locals interviewed by national newspapers talked of being excited about Meloni’s victory — filled with hopes that she might be true to her word and bring the area back to its glory days in the time of Benito Mussolini. One of Meloni’s undersecretaries has run a campaign calling for a park in Latina to return to its original name: Mussolini Park.

      During her campaign, a video emerged of Meloni discussing Mussolini as a 19-year-old activist. “I think Mussolini was a good politician. Everything he did, he did for Italy,” she told journalists. Meloni has since worked to distance herself from such associations with fascism. In December, she visited Rome’s Jewish ghetto as a way of acknowledging Mussolini’s crimes against humanity. “The racial laws were a disgrace,” she told the crowd.

      A century on from Italy’s fascist takeover, Meloni’s victory has led to a moment of widespread collective reckoning, as a national conversation takes place about how Mussolini should be remembered and whether Meloni’s premiership means Italy is reconnecting with its fascist past.

      Unlike in Germany, which tore down — and outlawed — symbols of Nazi terror, reminders of Mussolini’s rule remain all over Italy. There was no moment of national reckoning after the war ended and Mussolini was executed. Hundreds of fascist monuments and statues dot the country. Slogans left over from the dictatorship can be seen on post offices, municipal buildings and street signs. Collectively, when Italians discuss Mussolini, they do remember his legacy of terror — his alliance with Adolf Hitler, anti-Semitic race laws and the thousands of Italian Jews he sent to the death camps. But across the generations, Italians also talk about other legacies of his regime — they talk of the infrastructure and architecture built during the period and of how he drained the Pontine Marshes and rid them of malaria, making the land into an agricultural haven.

      Today in the Pontine Marshes, which some see as a place brought into existence by Il Duce — and where the slogans on one town tower praise “the land that Mussolini redeemed from deadly sterility” — the past is bristling with the present.

      “The legend that has come back to haunt this town, again and again, is that it’s a fascist city. Of course, it was created in the fascist era, but here we’re not fascists — we’re dismissed as fascists and politically sidelined as a result,” Emilio Andreoli, an author who was born in Latina and has written books about the city’s history, said. Politicians used to target the area as a key campaigning territory, he said, but it has since fallen off most leaders’ agendas. And indeed, in some ways, Latina is a place that feels forgotten. Although it remains a top agricultural producer, other kinds of industry and infrastructure have faltered. Factories that once bustled here lie empty. New, faster roads and railways that were promised to the city by previous governments never materialized.

      Meloni did visit Latina on her campaign trail and gave speeches about reinvigorating the area with its old strength. “This is a land where you can breathe patriotism. Where you breathe the fundamental and traditional values that we continue to defend — despite being considered politically incorrect,” she told the crowd.

      But the people working this land are entirely absent from Meloni’s rhetorical vision. Marco Omizzolo, a professor of sociology at the University of Sapienza in Rome, has for years studied and engaged with the largely Sikh community of laborers from India who work on the marshes.

      Omizzolo explained to me how agricultural production in Italy has systematically relied on the exploitation of migrant workers for decades.

      “Many people are in this,” he told me, when we met for coffee in Rome. “The owners of companies who employ the workers. The people who run the laborers’ daily work. Local and national politicians. Several mafia clans.”

      “Exploitation in the agricultural sector has been going on for centuries in Italy,” Giulia Tranchina, a researcher at Human Rights Watch focusing on migration, said. She described that the Italian peasantry was always exploited but that the system was further entrenched with the arrival of migrant workers. “The system has always treated migrants as manpower — as laborers to exploit, and never as persons carrying equal rights as Italian workers.” From where she’s sitting, Italy’s immigration laws appear to have been designed to leave migrants “dependent on the whims and the wills of their abusive employers,” Tranchina said.

      The system of bringing the workers to Italy — and keeping them there — begins in Punjab, India. Omizzolo described how a group of traffickers recruits prospective workers with promises of lucrative work abroad and often helps to arrange high-interest loans like the one that Gurinder took out. Omizzolo estimates that about a fifth of the Indian workers in the Pontine Marshes come via irregular routes, with some arriving from Libya, while many others are smuggled into Italy from Serbia across land and sea, aided by traffickers. Their situation is more perilous than those who arrived with visas and work permits, as they’re forced to work under the table without contracts, benefits or employment rights.

      Omizzolo knows it all firsthand. A Latina native, he grew up playing football by the vegetable and fruit fields and watching as migrant workers, first from North Africa, then from India, came to the area to work the land. He began studying the forces at play as a sociologist during his doctorate and even traveled undercover to Punjab to understand how workers are picked up and trafficked to Italy.

      As a scholar and advocate for stronger labor protections, he has drawn considerable attention to the exploitative systems that dominate the area. In 2016, he worked alongside Sikh laborers to organize a mass strike in Latina, in which 4,000 people participated. All this has made Omizzolo a target of local mafia forces, Indian traffickers and corrupt farm bosses. He has been surveilled and chased in the street and has had his car tires slashed. Death threats are nothing unusual. These days, he does not travel to Latina without police protection.

      The entire system could become even further entrenched — and more dangerous for anyone speaking out about it — under Meloni’s administration. The prime minister has an aggressively anti-migrant agenda, promising to stop people arriving on Italy’s shores in small boats. Her government has sent out a new fleet of patrol boats to the Libyan Coast Guard to try to block the crossings, while making it harder for NGOs to carry out rescue operations.

      At the end of February, at least 86 migrants drowned off the coast of Calabria in a shipwreck. When Meloni visited Calabria a few weeks later, she did not go to the beach where the migrants’ bodies were found or to the funeral home that took care of their remains. Instead, she announced a new policy: scrapping special protection residency permits for migrants.

      Tranchina, from Human Rights Watch, explained that getting rid of the “special protection” permits will leave many migrant workers in Italy, including those in the Pontine Marshes, effectively undocumented.

      “The situation is worsening significantly under the current government,” she said. “An army of people, who are currently working, paying taxes, renting houses, will now be forced to accept very exploitative working conditions — at times akin to slavery — out of desperation.”

      Omizzolo agreed. Meloni’s hostile environment campaign against arriving migrants is making people in the marshes feel “more fragile and blackmailable,” he told me.

      “Meloni is entrenching the current system in place in the Pontine Marshes,” Omizzolo said. “Her policies are interested in keeping things in their current state. Because the people who exploit the workers here are among her voter base.”

      And then there’s the matter of money and how people are paid. A few months into her administration, Meloni introduced a proposal to raise the ceiling for cash transactions from 2,000 euros (about $2,110) to 5,000 euros ($5,280), a move that critics saw as an attempt to better insulate black market and organized crime networks from state scrutiny.

      Workers describe that they were often paid in cash and that their bosses were always looking for ways to take them off the books. “We have to push them to pay us the official way and keep our contracts,” Rajvinder, 24, said. “They prefer to give us cash.” Being taken off a contract and paid under the table is a constant source of anxiety. “If I don’t have a work contract, my papers will expire after three months,” Samrath explained, describing how he would then become undocumented in Italy.

      Omizzolo says Meloni’s cash laws will continue to preserve the corruption and sustain a shadow economy that grips the workers coming to the Pontine Marshes. Even for people who once worked above the table, the new government’s laissez-faire attitude towards the shadow economy is pushing them back into obscurity. “That law is directly contributing to the black market — people who used to be on the books, and have proper contracts, are now re-entering the shadow economy,” he said.

      Tranchina, from Human Rights Watch, explained that getting rid of the “special protection” permits will leave many migrant workers in Italy, including those in the Pontine Marshes, effectively undocumented.

      “The situation is worsening significantly under the current government,” she said. “An army of people, who are currently working, paying taxes, renting houses, will now be forced to accept very exploitative working conditions — at times akin to slavery — out of desperation.”

      Omizzolo agreed. Meloni’s hostile environment campaign against arriving migrants is making people in the marshes feel “more fragile and blackmailable,” he told me.

      “Meloni is entrenching the current system in place in the Pontine Marshes,” Omizzolo said. “Her policies are interested in keeping things in their current state. Because the people who exploit the workers here are among her voter base.”

      And then there’s the matter of money and how people are paid. A few months into her administration, Meloni introduced a proposal to raise the ceiling for cash transactions from 2,000 euros (about $2,110) to 5,000 euros ($5,280), a move that critics saw as an attempt to better insulate black market and organized crime networks from state scrutiny.

      Workers describe that they were often paid in cash and that their bosses were always looking for ways to take them off the books. “We have to push them to pay us the official way and keep our contracts,” Rajvinder, 24, said. “They prefer to give us cash.” Being taken off a contract and paid under the table is a constant source of anxiety. “If I don’t have a work contract, my papers will expire after three months,” Samrath explained, describing how he would then become undocumented in Italy.

      Omizzolo says Meloni’s cash laws will continue to preserve the corruption and sustain a shadow economy that grips the workers coming to the Pontine Marshes. Even for people who once worked above the table, the new government’s laissez-faire attitude towards the shadow economy is pushing them back into obscurity. “That law is directly contributing to the black market — people who used to be on the books, and have proper contracts, are now re-entering the shadow economy,” he said.

      The idealistic image of the harvest was powerful propaganda at the time. Not shown were the workers, brought in from all over the country, who died of malaria while digging the trenches and canals to drain the marsh. It also stands in contrast to today’s reality. Workers are brought here from the other side of the world, on false pretenses, and find themselves trapped in a system with no escape from the brutal work schedule and the resulting physical and mental health risks. In October, a 24-year-old Punjabi farm worker in the town of Sabaudia killed himself. It’s not the first time a worker has died by suicide — depression and opioid addiction are common among the workforce.

      “We are all guilty, without exception. We have decided to lose this battle for democracy. Dear Jaspreet, forgive us. Or perhaps, better, haunt our consciences forever,” Omizzolo wrote on his Facebook page.

      Talwinder, 28, arrived on the marsh last year. “I had no hopes in India. I had no dreams, I had nothing. It is difficult here — in India, it was difficult in a different way. But at least [in India] I was working for myself.” His busiest months of the year are coming up — he’ll work without a day off. And although the mosquitoes no longer carry malaria, they still plague the workers. “They’re fatter than the ones in India,” he laughs. “I heard it’s because this place used to be a jungle.”

      Mussolini’s vision for the marsh was to turn it into an agricultural center for the whole of Italy, giving work to thousands of Italians and building up a strong working peasantry. Today, vegetables, olives and cheeses from the area are shipped to the United States and sold in upmarket stores to shoppers seeking authentic, artisan foods from the heart of the old world. But it comes at an enormous price to those who produce it. And under Meloni’s premiership, they only expect that cost to rise.

      “These days, if my family ask me if they should come here, like my nephew or relatives, I tell them no,” said Samrath. “Don’t come here. Stay where you are.”

      https://www.codastory.com/rewriting-history/indian-migrants-italy-pontine-marshes

  • Da #Melilla a #Beni_Mellal: dove sono finiti i respinti tra Spagna e Marocco

    Dopo le brutali violenze al confine con l’enclave spagnola di fine giugno, più di 200 persone sono state allontanate con la forza nel Sud del Marocco, in una zona impreparata alla loro assistenza. Ecco come ha risposto il territorio

    Le immagini dei violenti respingimenti dei migranti avvenuti il 24 giugno scorso da parte delle forze dell’ordine marocchine e spagnole alla frontiera con l’enclave spagnola di Melilla sono rimbalzate su tutte le testate europee. Quei 37 morti e le centinaia di feriti hanno suscitato sgomento e sdegno in tutta la comunità internazionale e diverse riflessioni su come ripensare alla gestione delle migrazioni ai confini dell’Unione europea. Mentre i riflettori erano puntati sul filo spinato dell’ingresso di Barrio Chino, file e file di autobus carichi di migranti partivano da Nador, dieci chilometri a Est di Melilla, e si snodavano lungo le diverse routes nationales del Marocco verso destinazioni il più possibile lontane.

    A 678 chilometri più a Sud, nel cuore della catena montuosa del Medio Atlante la città di Beni Mellal da un giorno all’altro si è trovata ad ospitare un flusso senza precedenti di migranti. Circa 210 persone si sono riparate nei pressi della stazione degli autobus, luogo di elezione dei senzatetto della zona. L’erba dei giardini di Boulevard Mohamed VI a fare da letto e i rami degli alberi a fare ombra dal sole cocente per proteggersi dai 45 gradi tipici della stagione estiva. Beni Mellal è il capoluogo di Beni Mellal-Khenifra, una regione grande come la Sicilia e la Valle d’Aosta messe insieme. A vocazione agricola e con un’intensa attività di estrazione di fosfati, è storicamente sempre stata considerata un’area di emigrazione di cittadini marocchini verso il Nord Italia, specie in Piemonte e Lombardia. Negli ultimi 15 anni però l’area è soggetta alla migrazione di ritorno e circolare. Altro fenomeno che la caratterizza è quello del transito dei migranti provenienti dai Paesi dell’Africa subsahariana che tentano di raggiungere l’Europa. Tuttavia, a causa della pandemia da Covid-19 e del rafforzamento dei controlli alle frontiere di Ceuta e Melilla, per alcuni, soprattutto ivoriani e ciadiani, il transito si è tramutato in uno stanziamento. Si tratta perlopiù di migranti in situazione “irregolare” che vivono in strada o in edifici in costruzione, mendicando agli incroci. L’intersezione tra boulevard Hassan II e boulevard Mohamed VI è stata ribattezzata dagli operatori delle Ong “la rotonda dei migranti”.

    La richiesta d’asilo è valutata prima dall’Unhcr e poi, in caso di esito positivo, da un ufficio del governo marocchino. Nel 2020 sono state riconosciute 847 “carte del rifugiato”

    In Marocco non esiste una legge che regoli il diritto alla protezione internazionale, nonostante dal dicembre 2014 sia in vigore la Strategia nazionale di immigrazione e asilo che ha come obiettivo quello di facilitare l’accesso ai servizi, all’educazione, alla salute e all’alloggio per gli stranieri presenti sul territorio nazionale. Non essendoci un sistema di asilo consolidato nel Regno, è l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) che affianca il governo marocchino prendendo in carico ed esaminando le richieste di protezione internazionale. In caso di esito positivo rilascia un documento che attesta lo status di rifugiato, ma che non regolarizza la posizione sul territorio. Con tale documento è possibile rivolgersi al Bureau des réfugiés et des apatrides (Bra), istituzione dipendente dal governo marocchino, che riesamina la documentazione e in seconda battuta può confermare o rigettare lo status. Nel primo caso, il beneficiario ottiene una “carta del rifugiato” con la quale successivamente è possibile richiedere un titolo di soggiorno e quindi regolarizzare la propria presenza. Nel rapporto di bilancio del 2020 sulla politica di immigrazione e asilo si parla di 847 persone con lo stato di rifugiato riconosciute dal Bra. Le statistiche aggiornate al 31 luglio scorso raccontano di una popolazione di 18.985 persone prese in carico da Unhcr di cui 9.277 richiedenti asilo e 9.708 con un primo esito positivo.

    Dal 25 al 30 giugno 2022, sono stati oltre 40 gli accompagnamenti delle Ong locali al pronto soccorso di Beni Mellal per fratture e ferite al cranio, agli arti e alla schiena

    A fine giugno le Organizzazioni non governative internazionali e le associazioni di Beni Mellal che si occupano di sviluppo, improvvisamente si sono trovate a gestire centinaia di persone, molte delle quali gravemente ferite, senza aver una particolare esperienza nella gestione dell’emergenza. La nazionalità più presente quella dei sudanesi, seguiti da ciadiani, etiopi, nigeriani e nigerini. Età media 23 anni. Nessuna donna. Per comunicare gli operatori internazionali si sono affidati all’intermediazione dei ciadiani che parlando sia francese sia arabo hanno fatto da traduttori per le altre nazionalità arabofone.

    A fare da capofila nella gestione dei primi soccorsi è Progettomondo, un tempo Mlal, Ong veronese attiva in Marocco e in particolare nella regione da circa 20 anni, specializzata in migrazione e sviluppo. La sede, situata nel quartiere di Hay Ghita, si è trasformata nella base operativa di coordinamento della società civile. Hanno unito le forze l’Ong italiana Cefa, partner storico di Progettomondo in Marocco specializzato in accompagnamento dei migranti, la Chiesa cattolica di Beni Mellal che si è offerta di pagare i medicinali e l’operazione per un giovane con il ginocchio in frantumi, l’associazione Cardev sempre disponibile per le attività con i migranti, la Mezzaluna Rossa che ha offerto i propri locali per fare le medicazioni e l’associazione Maroc solidarité médico sociale (MS2), attiva tra Rabat e Oujda, le cui operatrici si sono spostate eccezionalmente a Beni Mellal per mettere a disposizione risorse e competenze nell’accompagnamento medico. Costante la partecipazione degli operatori di Unhcr, attore non presente nella regione ma che proprio il giorno degli episodi di Melilla stava tenendo una formazione alle associazioni locali sul diritto all’asilo. “Nonostante l’area non sia specializzata nell’ emergenza, i vari attori avevano già in atto delle attività di assistenza” spiega Rachid Hsine, senior protection associate a Unhcr.

    “Soprattutto per i sudanesi, che non hanno una rete in Marocco, non c’è interesse a restare. Dati i maggiori controlli a Nord, molti si muovono verso le Isole Canarie” – Hsine

    La comunicazione, secondo Fabrizia Gandolfi, rappresentante Paese di Progettomondo in Marocco è stata la chiave di volta: “Le relazioni e la fiducia delle autorità locali e di sicurezza ci hanno permesso di portare gli aiuti. Per settimane, sono state condotte una decina di distribuzioni di viveri a beneficio di centinaia di persone con il benestare della Prefettura che collabora con Progettomondo da anni. I contatti continui con la Delegazione regionale della salute hanno facilitato l’accesso ai poliambulatori, laddove insorgesse reticenza nell’accogliere migranti irregolari. Anche le precedenti formazioni erogate al personale sanitario sull’accoglienza dei migranti nel corso dei nostri progetti hanno facilitato la ricezione”.

    Solo dal 25 al 30 giugno di quest’anno, sono stati oltre 40 gli accompagnamenti delle Ong locali al pronto soccorso di Beni Mellal per fratture e ferite al cranio, agli arti e alla schiena. Aimée Lokake, agente di terreno dell’Ong Cefa applaude lo staff medico locale: “I primi soccorsi sono stati garantiti a decine di migranti alla volta, nonostante l’arrivo inaspettato e la diffidenza nell’accogliere persone protagoniste di atti di violenza, come riportato dei media locali”. Emblematico della collaborazione tra i diversi attori il caso di Ahmed, sudanese di 22 anni arrivato a Beni Mellal con un piede in cancrena a causa delle medicazioni frettolose e sommarie ricevute all’ospedale di Nador subito dopo gli scontri. La prima diagnosi all’ospedale di Beni Mellal aveva dato un esito nefasto: amputazione. Tuttavia, società civile e istituzioni si sono mobilitate per dare una speranza al giovane. La Delegazione regionale della salute ha fatto da intermediario con medici e assistenti sociali, Progettomondo e Cefa hanno vegliato il ragazzo in ospedale, Unhcr, MS2 e l’Association de planification familiale di Rabat hanno tenuto i contatti con l’ospedale della capitale per verificare la possibilità di trasferimento, infine Progettomondo ha assicurato la presenza di un’ambulanza privata per il trasporto e Cefa si è fatta carico delle cure. A Rabat la diagnosi è stata più clemente, il piede è stato salvato e il giovane è stato inserito nei registri di Unhcr per richiedere la protezione internazionale.

    Sono 360 i milioni di euro versati dall’Ue al Marocco negli ultimi otto anni per la gestione del fenomeno migratorio. Di questi, il 75% (270 milioni) sono stati stanziati per “proteggere” le frontiere europee. Nell’agosto 2022 è trapelata la notizia di un ulteriore finanziamento di 500 milioni di euro che lascia presagire che episodi simili a quelli di Melilla potrebbero ripetersi

    Uno dei problemi emersi è stato quello della presa in carico: “Purtroppo sono le Ong e le associazioni che devono pagare i costi delle cure accessorie. Una volta ricevute quelle di base, i migranti finiscono in strada con conseguenti problemi di igiene. Le organizzazioni si sono trovate a mobilitare fondi straordinari per trovare alloggi consoni” racconta Hsine. Secondo i dati rilasciati da Progettomondo, alla fine di agosto il numero di migranti è sceso a 100. Alcuni hanno preso la volta di Melilla, altri si sono spostati a Casablanca e a Rabat, alcuni sono riusciti ad arrivare in Spagna prendendo il mare da Sud-Ovest. “Soprattutto per i sudanesi, che non hanno una presenza comunitaria in Marocco, non vi è alcun interesse a restare. Dato il rafforzamento dei controlli alle frontiere a Nord del Paese, molti tentano di arrivare alle Isole Canarie attraverso Laayoune (città a circa 30 chilometri dalla costa, ndr)” evidenzia Hsine. Ad agosto la notizia trapelata da fonti comunitarie di un prossimo finanziamento di 500 milioni di euro da parte dell’Unione europea al Marocco per la gestione delle migrazioni lascia presagire che episodi simili a quelli di Melilla potrebbero ripetersi, dato che negli ultimi otto anni 270 su 360 milioni di euro ricevuti sono stati allocati alla protezione delle frontiere.

    “La situazione dei migranti bloccati in Marocco non può essere considerata un’emergenza ma una crisi strutturale alimentata dalle politiche europee” – Gandolfi

    Uno dei nodi è l’utilizzo di questi fondi, considerando che le organizzazioni internazionali stimano che tra le 60 e le 80mila persone all’anno transitino irregolarmente sul territorio marocchino e solo nel 2020 sono stati 40mila i tentativi di ingressi e di uscita bloccati dalle autorità: “Le alternative sono diverse: approccio securitario, adattamento dei programmi alle popolazioni in movimento, intervento umanitario, integrazione oppure intervento nei Paesi di origine”, spiega Hsine. Secondo Gandolfi, la ricetta per far fronte a nuovi flussi massicci è andare oltre la risposta emergenziale: “Dal momento che la situazione delle persone migranti presenti irregolarmente e bloccate in Marocco non può essere considerata un’emergenza ma una crisi strutturale alimentata dalle politiche europee, è necessario creare dei tavoli di coordinamento permanenti tra società civile e collettività territoriali dove elaborare risposte condivise e responsabilizzare le istituzioni sul loro ruolo di governance”. Nel frattempo gli autobus continuano a partire dal Nord verso il Sud del Paese carichi di giovani che prima o poi ritenteranno di passare il confine, sperando di essere tra i fortunati a valicare il muro di quella che ormai sembra sempre di più somigliare a una fortezza.

    https://altreconomia.it/da-melilla-a-beni-mellal-dove-sono-finiti-i-respinti-tra-spagna-e-maroc

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    #toponymie_politique:

    L’intersezione tra boulevard Hassan II e boulevard Mohamed VI è stata ribattezzata dagli operatori delle Ong “la rotonda dei migranti”.

    #toponymie_migrante

    #Maroc #expulsions #renvois #déportation #migrerrance #Atlas_marocain #montagne #migrations #asile #réfugiés #Bureau des_réfugiés_et_des_apatrides (#Bra) #Progettomondo #Cefa #Mlal #Cardev #société_civile #HCR

  • Premio diritti umani ai solidali delle montagne alpine

    Il ministero della Giustizia francese da un lato criminalizza chi solidarizza con i migranti sulle Alpi e dall’altro premia le stesse persone come difensori dei diritti umani.

    Paradossi e cortocircuiti logici di questa epoca di migrazioni, di accoglienza, vera, da parte di privati e associazioni umanitarie, e di repressione, vera anche questa, da parte di forze dell’ordine che pattugliano i confini degli Stati europei pronti a respingere persone in fuga da guerre e carestie.

    Mentre la giustizia francese manda a processo donne e uomini, accusati di crimini di umanità, per aver prestato soccorso nella neve alpina a migliaia di donne, uomini, bambini che in questi anni tentano la sorte del viaggio attraverso valichi alpini, il ministero della Giustizia transalpina ha premiato ieri 10 dicembre in occasione della giornata internazionale per i diritti dell’uomo l’associazione #Tous_Migrants, creata a Briançon sulle Alpi francesi nel 2015 proprio nel tentativo di aiutare i flussi di persone improvvisamente emersi in questi anni. Il premio è stato assegnato dalla Commissione nazionale consultiva dei diritti dell’uomo che fa capo proprio al ministero della Giustizia.

    Benoit Ducos, uno degli uomini a processo per aver soccorso persone al confine, ne sottolinea la schizofrenica assurdità di tutto ciò: «E’ surreale, perché i valori che difendiamo sono condannati dalle decisioni giudiziarie di questo governo, che con l’altro braccio premia il nostro impegno sul campo. Incredibile. Il riconoscimento va a tutti coloro che con coraggio offrono aiuto, cibo, soccorso, in maniera anonima, senza protagonismi. Un premio che ci spinge a continuare a gridare le nostre convinzioni».

    Senza alcuna etichetta politica o religiosa, Tous Migrants è un movimento pacifista di sensibilizzazione e azione dei cittadini nato in reazione alla tragedia umanitaria dei migranti in Europa. Con il sostegno di più di 700 cittadini per la causa che difende, oltre 9800 amici Facebook e 2700 destinatari della sua Newsletter, Tous migrants svolge azioni complementari nella’area del Briançonnais: monitoraggio e condivisione delle informazioni tramite una newsletter periodica, un sito Web e una pagina Facebook, conferenze, dibattiti sul cinema, seminari di scrittura, eventi di supporto artistico o culturale, campagne di sensibilizzazione, azioni legali ...

    L’intervento dei volontari dell’associazione al momento della consegna del premio ha ricodato come «Quattro anni fa eravamo solo persone comuni di montagna, a pochi chilometri dall’Italia, che guardavano in faccia e in modo pragmatico la realtà migratoria, esercitando il dovere di assistere le persone in pericolo e aprendo le nostre porte alla gente proveniente da altrove. Incondizionatamente e spontaneamente.

    Ma in questo approccio fraterno, ci siamo trovati gradualmente e violentemente di fronte all’impensabile:

    • Cacce all’uomo di colore, alcune delle quali sono seguite da morte, disabilità

    • L’abbandono di persone indebolite ed esauste in ambienti ostili

    • abuso psicologico e fisico, ripetute umiliazioni

    • Atti e istigazione al razzismo

    • Bullismo, repressione e condanne giudiziarie per atti di assistenza alle persone in pericolo

    Di conseguenza, il dovere della fraternità è stato criminalizzato.

    Di fronte a questo, nelle nostre montagne, centinaia di persone sono indignate. Dobbiamo chiudere gli occhi e le porte? Abbiamo deciso di continuare a fare rete. Abbiamo deciso di denunciare tutte queste violazioni ai diritti fondamentali. Oggi siamo qui, siamo diventati sentinelle per i diritti umani in Francia ...

    Ringraziamo il coraggio e la lungimiranza del Comitato di assegnarci questa menzione speciale del Premio sui diritti umani della Repubblica francese.

    Questo premio è per tutti i coraggiosi. Tutti noi nelle Hautes-Alpes, e ovunque, in Francia, ai confini, tutti noi che ci alziamo la mattina per portare aiuto e soccorso ai rifugiati; tutti noi che vigiliamo di notte per evitare nuove tragedie. Tutti noi che rispettiamo la libertà, l’uguaglianza e difendiamo questa bellissima fratellanza. È per tutte le vittime delle rotte migratorie che fuggono per proteggere i loro diritti.

    Tuttavia, ricevere questo premio ci rattrista e ci fa arrabbiare perché arriva dopo la morte dei diritti umani nel nostro territorio. Siamo in Francia! Come è possibile che spetti a noi difendere quei diritti che sono la sostanza stessa del nostro paese e che dovrebbero guidare tutte le scelte dei nostri leader e le decisioni della nostra giustizia?

    Ora stiamo tornando sulle nostre montagne perché il tempo sta per scadere, la neve è lì, le vite sono in pericolo, i diritti sono infranti. Per quanto ancora?».

    https://riforma.it/it/articolo/2019/12/11/premio-diritti-umani-ai-solidali-delle-montagne-alpine
    #solidarité #asile #migrations #réfugiés #prix #Alpes #frontière_sud-alpine #frontières #solidarité #droits_humains #ministère_de_la_justice #France #absurdité

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    Extrait:

    «Quattro anni fa eravamo solo persone comuni di montagna, a pochi chilometri dall’Italia, che guardavano in faccia e in modo pragmatico la realtà migratoria, esercitando il dovere di assistere le persone in pericolo e aprendo le nostre porte alla gente proveniente da altrove. Incondizionatamente e spontaneamente. (...) Oggi siamo qui, siamo diventati sentinelle per i diritti umani in Francia ...»

    –-> De l’#humanisme - #humanitarisme (et la #charité) à l’engagement politique...
    #politisation

  • Sulle tracce del marmo della discordia

    Le montagne sventrate, le falde inquinate, il viavai di camion, i morti sul lavoro, le infiltrazioni criminali, la mancata distribuzione di una ricchezza collettiva. Carrara è schiacciata dai signori del marmo. Non sono cave: sono miniere. La roccia estratta qui non nisce in sculture e non alimenta più la liera artigianale locale. Parte per l’Asia oppure, in gran percentuale, finisce nei dentifrici, nella carta e in altre decine di prodotti. È il business del carbonato di calcio. Un’attività dominata dalla multinazionale svizzera #Omya che qui possiede un grosso stabilimento industriale.


    https://www.wereport.fr/articles/sulle-tracce-del-marmo-della-discordia-area
    #marbre #extractivisme #Carrara #Italie #pollution #carbonate_de_calcium #multinationales #Suisse #mondialisation #géographie_de_la_mondialisation #globalisation

    • A Carrara, sulle tracce del marmo della discordia

      Le montagne sventrate, le falde inquinate, il via vai di camion, i morti sul lavoro, la mancata distribuzione di una ricchezza collettiva. Carrara è schiacciata dai signori del marmo. Non sono cave: sono miniere. La roccia estratta qui non finisce in sculture e non alimenta più la filiera artigianale locale. Parte per l’Asia oppure, in gran percentuale, finisce nei dentifrici, nella carta e in altre decine di prodotti. È il business del carbonato di calcio. Un’attività dominata dalla multinazionale svizzera Omya che qui possiede un grosso stabilimento industriale.

      Sembra un ghiacciaio ma è un bacino minerario. Tutto è bianco sporco. Le rocce, le strade, la polvere. Le montagne sono divorate dalle ruspe. Decine di camion, carichi di blocchi o di detriti, scendono a valle da stradine improvvisate. Persino la nostra Panda 4X4 fatica sul ripido pendio sterrato. Stiamo salendo alla cava Michelangelo, una delle più pregiate del bacino marmifero di Carrara, in Toscana. Qui viene estratto lo statuario, il marmo venduto anche a 4.600 franchi la tonnellata. In questa grossa cava lavorano circa una dozzina di persone.

      Riccardo, 52 anni di cui trenta passati a estrarre roccia, sta manovrando un blocco con il filo diamantato. Il sole che batte a picco sul marmo dà l’effetto di un forno. «D’estate è così mentre d’inverno è freddo e umido» ci racconta questo figlio e nipote di cavatori. Riccardo spiega con orgoglio il suo lavoro. Poi conclude: «Spero che mio figlio faccia qualcos’altro nella vita».

      Un lavoro rischioso

      La situazione nelle cave è sicuramente migliorata rispetto a qualche anno fa, ma il lavoro qui resta rischioso. L’ultimo decesso è dello scorso mese di luglio: Luca Savio, 37 anni, papà di un piccolo bambino, è stato travolto da un blocco in un deposito. Aveva un contratto di lavoro di sei giorni. A maggio, Luciano Pampana, un operaio di 58 anni, è invece morto schiacciato sotto una pala meccanica. «Qui i servi della gleba versano sangue» ha esclamato don Raffaello, il parroco di Carrara che nella sua omelia dopo questa morte si è scagliato contro il business del marmo: «Le Apuane sono sfregiate e pochi si arricchiscono!»

      «Le Apuane sono sfregiate e pochi si arricchiscono!».

      Don Raffaele, parroco di Carrara
      Fine della citazione

      I sindacati hanno indetto un giorno di sciopero e chiesto la chiusura delle cave non in regola. Negli ultimi dodici anni vi sono stati undici incidenti mortali, di cui sei tra il 2015 e il 2016. «È decisamente troppo se si calcola che in tutta la provincia i cavatori sono circa 600» esclama Roberto Venturini, segretario della Fillea Cgil di Massa Carrara che ci accompagna nella visita. Per il sindacalista vi è un solo modo per rendere compatibile questa attività con l’ambiente e con una cittadinanza che sempre meno tollera le cave: «Bisogna rallentare la produzione e aumentare il numero di dipendenti».
      «Monocoltura del marmo»

      Carrara e la vicina Massa sono un microcosmo rappresentativo delle attuali problematiche dell’economia: l’automatizzazione, la maledizione delle risorse, la concentrazione delle ricchezze, il conflitto tra ambiente e lavoro. Un conflitto, questo, che è emerso in queste zone già negli anni 80 attorno al polo chimico situato nella piana, verso il mare. Nel 1987 ci fu il primo referendum consultivo d’Europa con cui i cittadini si espressero a favore della chiusura dello stabilimento Farmoplant della Montedison. Ciò che avvenne, però, solo un anno dopo, a seguito dell’esplosione di un serbatoio di Rogor, pesticida cui già il nome dà inquietudine.

      In pochi anni, a catena, tutti gli stabilimenti cessarono le attività lasciando come eredità terreni inquinati e una schiera di disoccupati. Oggi la zona industriale si è trasferita dal mare alle montagne.

      L’unico settore che tira è quello estrattivo tanto che qui si parla di “monocultura del marmo”, in comparazione a quei paesi che hanno fatto di un prodotto destinato all’esportazione la sola attività economica. E così in pochi ci guadagnano mentre alla collettività rimangono le briciole e gli effetti nocivi.

      I ricavi crescono, gli impieghi no

      Nello scorso triennio il settore, dal punto di vista del ricavo, è cresciuto all’incirca del 5% all’anno. Difficile trovare un altro comparto in così rapida crescita. I profitti, però, sono sempre più concentrati.

      Gli addetti sono sempre meno e una crescente percentuale dell’attività di trasformazione è ormai svolta all’estero: dall’inizio degli anni duemila gli impieghi diretti sono diminuiti di oltre il 30%, passando da quasi 7’000 a circa 4’750 unità. Negli ultimi anni nelle cave sempre più meccanizzate sono stati persi più di 300 posti di lavoro; altri 300 sono scomparsi nelle attività di trasformazione e nella lavorazione.

      Ma anche attorno a queste cifre vi è scontro. Da un lato gli ambientalisti, dall’altro i rappresentanti del mondo imprenditoriale con i primi che tendono a sminuirne l’impatto economico e i secondi che mettono in valore l’effetto occupazionale del settore. La sola certezza, qui, è che quel marmo che ha plasmato l’identità ribelle dei carrarrini e fatto conoscere la città nel mondo intero è oggi sinonimo di conflitto.
      «Una comunità arrabbiata e ferita»

      «Dal marmo il territorio si aspetterebbe molto di più», ci spiega Paolo Gozzani, segretario della Cgil di Massa e Carrara. Il quale aggiunge: «Questa è una comunità arrabbiata e ferita che vede i signori del marmo come un potere arrogante, che si accaparra la ricchezza derivata da questa materia prima senza dare al territorio la possibilità di migliorarsi da un punto di vista sociale, dei servizi e senza fare in modo che, attorno al marmo, si sviluppi una vera e propria filiera».

      Un’opinione condivisa da Giulio Milani, uno scrittore che ha dedicato un libro alla devastazione territoriale di questa terra, dalla chimica al marmo: «L’industria del marmo c’è sempre stata in questa zona, ma negli ultimi anni è diventata una turboindustria che sta mettendo in crisi il territorio».

      Milani s’interroga sul presente e sul futuro dei suoi tre figli in un luogo che ha già sofferto per le conseguenze dell’inquinamento della chimica: «Tutte le volte in cui piove i fiumi diventano bianchi come latte a causa della marmittola, la polvere di marmo; a Carrara vi sono state quattro gravi alluvioni in nove anni legate al dissesto idrogeologico del territorio. Per questo parlo di costi sociali di questa attività. Dobbiamo ormai considerare che questo è diventato un distretto minerario vero e proprio e noi ci viviamo dentro».

      A supporto di questa situazione vi è la netta presa di posizione del procuratore capo di Massa, Aldo Giubilaro, che lo scorso mese di maggio ha illustrato l’entità di un’operazione effettuata presso diverse società attive nella lavorazione del marmo dalla quale è emerso uno spaccato di irregolarità ambientali diffuse: «Salvo rari casi, sicuramente encomiabili, sembra essere una regola per le aziende del lapideo al piano, quella di non rispettare le normative sull’impatto ambientale con conseguenze decisamente deleterie per chi vive in questa zona (…). Non si tratta solo di un problema ambientale, ma riguarda anche e soprattutto la salute dei cittadini che vivono in questa provincia, purtroppo maglia nera per il numero di tumori in tutta la Toscana» ha affermato questo magistrato noto per aver più volte criticato l’omertà del settore.
      Il carbonato svizzero

      Lasciata la cava, con la nostra Panda 4X4 ridiscendiamo a valle. Ai lati della strada diversi ravaneti, le vallate dove una volta si riversavano i detriti derivati dalla scavazione.

      Sotto numerosi camion sono in fila per scaricare le loro benne cariche di sassi. Il rumore degli scarichi e della frantumazione è incessante. Siamo di fronte a quello che è chiamato «il mulino»: i sassi qui vengono frantumati in scaglie.

      Una volta effettuata l’operazione, i camion imboccano la Strada dei marmi – sei chilometri di gallerie costati 138 milioni di franchi pubblici e destinati solo al trasporto del marmo – che sbuca verso il mare, a pochi passi da un grosso stabilimento industriale. È la fabbrica della Omya Spa dove le scaglie di marmo vengono lavorate fino a renderle carbonato di calcio, un prodotto sempre più richiesto.

      Questa farina di marmo la si trova dappertutto, nei dentifrici, nella carta e in altre decine di prodotti. La Omya Spa è una filiale della Omya Schweiz, che ha sede nel Canton Argovia. Pur essendo un’impresa familiare, poco nota al grande pubblico e non quotata in borsa, stiamo parlando di una vera e propria multinazionale: con 180 stabilimenti in 55 paesi Omya è il leader mondiale del carbonato di calcio. In Toscana ha campo libero. Nel 2014 il gruppo elvetico ha acquistato lo stabilimento del principale concorrente, la francese Imerys. Non solo: Omya ha preso importanti partecipazioni in quattro aziende attive nell’estrazione che la riforniscono di materia prima.

      Le polveri del boom

      A Carrara e dintorni si respirano le polveri di questo boom. Si stima che i blocchi di marmo rappresentino soltanto il 25% del materiale estratto: il restante 75% sono detriti. Una volta le scaglie erano considerate un rifiuto fastidioso, che impediva l’avanzata degli scavi e che veniva liberato nei ravaneti.

      Poi, nel 1987, arrivò Raul Gardini che con la sua Calcestruzzi Spa entrò nel business delle cave e ottenne un maxi contratto per la desolforazione delle centrali a carbone della Enel: un’attività in cui il carbonato di calcio era essenziale. L’industriale Raul Gardini morì suicida sulla scia di Tangentopoli, ma a Carrara rimase e si sviluppò questa nuova attività.

      Il business del carbonato di calcio ha dato un’accelerata all’attività estrattiva e ha permesso di tenere aperte cave che altrimenti sarebbero già state chiuse. Lo abbiamo visto alle pendici del Monte Sagro, all’interno del Parco delle Apuane, marchio Unesco: questa montagna, come ci ha mostrato Eros Tetti, dell’associazione Salviamo le Apuane, continua ad essere scarnificata per alimentare proprio il commercio del carbonato.

      La corsa alla polvere di marmo tocca anche il versante lucano. A Seravezza, un paesino a mezz’ora di auto da Carrara, abbiamo incontrato un gruppo di cittadini che si batte contro l’aumento incontrollato dell’attività di scavo: «Il comitato – ci spiegano i promotori – nasce proprio in risposta alla riapertura di tre cave di marmo sul Monte Costa. Siamo preoccupati per il nostro territorio e ci siamo interrogati sugli effetti che questi siti estrattivi avranno sulla nostra cittadinanza».
      Le parti nobili partono all’estero

      Se gran parte della roccia viene sbriciolata, la parte nobile – i blocchi di marmo – partono per il mondo. Così, interi e grezzi. Verranno poi lavorati direttamente all’estero, dove la manodopera costa meno.

      Se prima la regione di Massa e Carrara era un centro mondiale dell’arte e dell’artigianato legato al marmo, oggi la filiera legata all’estrazione è praticamente scomparsa. Ce lo racconta Boutros Romhein, un rinomato scultore siriano, da 35 anni a Carrara dove, oltre a realizzare enormi sculture, insegna agli studenti di tutto il mondo i segreti di questa nobile roccia: «Non ci sono ormai più artigiani sulla via Carriona, che parte dalle cave e va fino al mare. Una volta era un tutt’uno di piccole e grandi aziende che producevano sculture o materiale per l’architettura. Oggi possiamo dire che non c’è più nessuno».

      Una percezione confermata dai dati. Nel 2017 l’esportazione dei blocchi di marmo italiano è aumentata del 37%. È stata, in particolare, la provincia di Massa Carrara a realizzare il fatturato estero più alto con un export del valore di circa 212 milioni di euro. In calo, invece, i lavorati di marmo: per la provincia, nel 2017, la diminuzione è stata del 6,6%. I blocchi partono interi per gli Stati Uniti, la Cina, l’India e per i Paesi arabi.
      Il marmo dei Bin Laden

      Significativo di questa dinamica mondiale è lo sbarco a Carrara della famiglia saudita dei Bin Laden. Già grandi acquirenti di marmo per le loro attività edili, i Bin Laden sono ora entrati direttamente nell’attività estrattiva.

      Nel 2014 la famiglia saudita ha investito 45 milioni di euro per assicurarsi il controllo della società Erton che detiene il 50% della Marmi Carrara, il gruppo più importante del comprensorio del marmo, che attraverso la Società Apuana Marmi (Sam) controlla un terzo delle concessioni. Quattro famiglie carraresi si sono così riempite le tasche e messo parte delle cave nelle mani della CpC Holding, società controllata dalla Saudi Binladin Group.
      Un bacino minerario vero e proprio

      A Carrara siamo davanti non più a un’economia di cava, ma ad un bacino minerario vero e proprio. Così come nelle Ande e in Africa, nelle zone cioè dove l’estrazione di minerali è più selvaggia, il lato oscuro di questo business – mischiato alla pesante eredità lasciata dall’industria chimica e al fatto di non aver saputo sviluppare alternative economiche al marmo – hanno generato tutta una serie di effetti negativi: inquinamento, malattie, disoccupazione e disagio sociale.

      Nella graduatoria sulla qualità di vita 2017 curata dal dipartimento di statistiche dell’Università La Sapienza di Roma, la provincia di Massa-Carrara figura al 98esimo posto su 110. Se guardiamo i dettagli di questa classifica, la provincia è addirittura penultima per il fattore ambiente, 107esima per disagio sociale, 103esima per il superamento quotidiano della media di polveri sottili disperse nell’aria e 95esima per gli infortuni sul lavoro.

      Anche se non è possibile fare un legame diretto con il marmo, in questa terra vi è inoltre un’incidenza di malattie oncologiche fra le più elevate in Italia. In particolare vi un indice molto elevato nei mesoteliomi pleurici, la cui causa è quasi certamente dovuta alle tipologie di lavorazioni svolte in passato e all’eredità di prodotti tossici tuttora da smaltire. Per quanto riguarda il lavoro: nel 2017, Massa Carrara è stata la seconda provincia d’Italia con l’incremento più grande di disoccupazione (+36,7%). Il business del marmo e del suo derivato, il carbonato di calcio, sembra anch’esso continuare a crescere.


      https://www.tvsvizzera.it/tvs/cultura-e-dintorni/economia-mineraria_a-carrara--sulle-tracce-del-marmo-della-discordia/44377160
      #décès #risque #accident #morts #travail #Farmoplant #Montedison #Rogor #mécanisation #inondations #environnement #cancer #santé #Strad_dei_marmi #suisse #dentifrice #Argovie #Imerys #Calcestruzzi_Spa #Raul_Gardini #Monte_Sagro #Parco_delle_Apuane #résistance #Salviamo_le_Apuane #Seravezza #Monte_Costa #Bin_Laden #Arabie_Saoudite #Erton #Società_Apuana_Marmi (#Sam) #CpC_Holding #Saudi_Binladin_Group #chômage #pollution

    • “La terra bianca. Marmo, chimica e altri disastri” di #Giulio_Milani

      Mi balena in mente un quadro, come un’epifania, intercettato anni fa nel vivaio del d’Orsay, perché quelle opere respirano e non venitemi a dire che non assorbono luce e non emettono ossigeno. Sono creature folte e sempre assetate. Le spigolatrici di Jean-François Millet incastra tre donne su un lenzuolo di terra. Sono chinate, sono ingobbite, sono stanche e senza volto. La fatica rivendica il possesso feudale di quelle facce. Ma malgrado le loro schiene lontane da ogni verticale, malgrado tutte le ore inarcate e incallite, quelle lavoratrici sanno che il suolo non sputa. Che dal ventre di semi e raccolte dipende la loro vita. E anche quella che non conoscono. Non esiste(va) legame più forte. Perché il tempo presente fa pensare all’imperfetto.

      Il libro di Giulio Milani La terra bianca (Laterza, 2015) è l’ennesimo emblema della frattura, l’ulteriore dolente puntata di una serie d’inchieste sullo stupro più o meno inconsapevole subito dal nostro Paese.

      Siamo avvezzi ai fuochi campani, allo sfregio dell’agro aversano, all’idea che i rifiuti si sommergano, oppure che s-fumino altissimi a ingozzare le nuvole. Tutto già digerito. Il potere dei media gonfia il clamore e poi lo normalizza. Ci anestetizza. Ma la tragedia ambientale cambia dialetto. E in questo caso parla toscano. Nell’enclave assoluta del marmo.

      «Un’onda pietrificata, una sterminata scogliera di fossili» nella zona di confine tra la bassa Liguria e l’Emilia, che comprende la doppia provincia di Massa Carrara, le Alpi Apuane e una costola di Mar Tirreno.

      Giulio Milani, scrittore e direttore responsabile della casa editrice Transeuropa, ha sempre abitato qui, il bacino delle cave, un poligono colonizzato dalle industrie fin dagli anni Cinquanta. «Ex Farmoplant-Montedison. Ex Rumianca-Enichem. Ex Bario-Solvay. Ex Italiana Coke».

      Una sequela di sposalizi chimici e divorzi malconci che hanno divelto, macellato, svuotato un territorio rendendolo una tra le aree più inquinate d’Italia «anche per le polveri sottili prodotte dal traffico incessante dei mezzi pesanti, tra i quali i sempre più numerosi e caratteristici camion coi pianali per il trasporto di blocchi di marmo grandi alle volte come interi container e, in misura molto maggiore, i ribaltabili carichi fino al colmo di scaglie detritiche per i mille usi non ornamentali della pietra». «Fumi di latte», un impasto pestifero sbriciolato nell’aria, che la gente del luogo ingurgita ogni giorno, pensando non sia immaginabile un ipotetico altrimenti. Perché le cave sono lavoro e senza lavoro si muore. Ma a quanto pare anche a causa del lavoro.

      L’inchiesta di Milani parte da un episodio miliare: Il 17 luglio del 1988 il serbatoio di un pesticida (il Rogor), occultato malamente tra i Formulati liquidi per eludere la legge, scoppia come un attentato nello stabilimento Farmoplant- Montedison, partorendo una nube tossica diluita per 2000 kmq, soprattutto su Marina di Massa e Marina di Carrara. Nessun morto e chissà quante vittime. Perché il disastro più maligno è quello che s’incassa tardi, che s’incista nelle crepe, acquattato nelle vie respiratorie, nell’alcova dei polmoni, tra reni e vescica.

      Dopo proteste di ogni tipo la fabbrica fu chiusa, ma non la scia di condanne pronta a chiedere asilo dentro troppi cittadini. Il motivo? Le pratiche più diffuse da molte di quelle aziende riguardavano lo smaltimento “sportivo” dei rifiuti. Ovviamente tossico-nocivi, tramite la termodistruzione per opera dell’inceneritore Lurgi nel caso della Farmoplant, attraverso interramenti silenziosi e consenzienti in tutti gli altri. Abbuffare le zolle di veleni e poi coprirle di ulivi e ammalarsi d’olio e non capirlo mai per tempo.

      Ma il libro di Milani procede oltre, traccia una geometria spazio-temporale molto complessa, diagonali d’analisi che scavalcano il singolo episodio e pennellano il profilo di una provincia abusata attraverso la Storia, in prima istanza dalla fatica delle cave, dove i dispositivi di protezione sono stati per decenni fantasmi senza guanti. Operai falciati come insetti per un cumulo distratto, schiacciati da un peso sfuggito al controllo. Poi il vespaio furioso dell’industria estrattiva e dei suoi sversamenti. E la smania noncurante di usare la terra come un tappeto. Come un sepolcro ben ammobiliato.

      Milani ci racconta per salti, di uomini capaci di opporsi al male, dello stormo partigiano della Resistenza Apuana, negli echi di guerra nelle steppe di Russia (suo argomento di laurea). «Si erano battuti per tre giorni di seguito. Per tre giorni e due notti si erano sacrificati, a turno, ai piedi di una quota da riconquistare». Poi di altri uomini anni in anni più vicini, intenti a riagguantare la pulizia dei fatti, a denunciare gli illeciti, a spingere forze, a non tacere. Come Marcello Palagi, principale esponente del movimento per la chiusura della Farmoplant; come Alberto Grossi, regista del documentario Aut Out.«Se si altera la morfologia di un luogo non ne vengono modificati solo i caratteri distintivi, ma anche quelli invisibili, come l’alimentazione degli acquiferi e il clima. Sono a rischio le sorgenti, si perdono i fiori, e forse anche la poesia». E lo scempio continua.

      Chi pagherà per ogni verso bruciato, per lo sguardo rappreso in un cucchiaio d’orrore? Per la strage travestita da capitolo ordinario, senza nessun dittatore da offendere? Per le diagnosi neoplastiche di cui smettiamo di stupirci? Sempre noi, che se restiamo fermi avremo solo terre sane dipinte in un museo.

      http://www.flaneri.com/2016/05/25/la-terra-bianca-giulio-milani

      #livre

    • La malédiction du marbre de Carrare

      Le fameux marbre de Carrare n’est pas seulement symbole de luxe. Le site est surtout devenu un des hauts lieux de l’extraction du carbonate de calcium, utilisé notamment dans la fabrication des dentifrices. Une exploitation industrielle qui défigure le paysage et s’accompagne de morts sur les chantiers, de pollution et d’accaparement des ressources par une élite locale et par des acteurs internationaux, dont la famille Ben Laden et la multinationale suisse Omya.


      https://www.swissinfo.ch/fre/economie/pollution--maladies-et-gros-profits_la-mal%C3%A9diction-du-marbre-de-carrare/44416350

    • Gli affari sul marmo delle #Apuane e i riflessi su salute e ambiente

      A Massa e Carrara la “#marmettola” prodotta dalla lavorazione della roccia nelle cave impatta sulle falde. Diverse realtà locali denunciano la gestione problematica delle aziende e le ricadute ambientali del settore. Ecco perché

      Sopra la vallata del fiume Frigido, nel Comune di Massa, c’è una cava inattiva da circa tre anni. Ci avviciniamo in un giorno di sole, risalendo il sentiero che si inerpica nel canale tra cumuli di massi bianchi. Dal tunnel scavato nel marmo si sente l’acqua che scroscia. “Le #Alpi_Apuane sono come un serbatoio, è il famoso carsismo: l’acqua penetra in abbondanza nella roccia, in direzioni che non conosciamo perché non seguono quelle dello spartiacque di superficie, e poi scende formando le sorgenti. Quella che senti, però, alla sorgente del Frigido non arriverà mai”, spiega Nicola Cavazzuti del Club alpino italiano (Cai), che da anni denuncia gli impatti ambientali delle circa ottanta cave attive a Carrara alle quali si aggiungono le quindici di Massa. Tra quest’ultime, molte rientrano all’interno del Parco regionale delle Alpi Apuane.

      L’ultima denuncia risale all’inizio di giugno quando il Cai e altre realtà come il Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG) e Italia Nostra hanno presentato un’istanza di accesso civico a una serie di soggetti istituzionali, tra i quali la Regione Toscana, il ministero dell’Ambiente e i carabinieri forestali, per ottenere informazioni sulle azioni intraprese a tutela dell’ambiente, inviando anche un esposto alla procura di Massa. Al centro della denuncia c’è il fenomeno della “marmettola”, la polvere prodotta dall’estrazione e dalla lavorazione del marmo. Per le associazioni, produce un inquinamento “gravissimo, conclamato e ormai cronico delle acque destinate all’uso potabile”.

      Il problema è noto da decenni e anche se oggi viene gestita come un rifiuto e sono aumentate le prescrizioni per evitare che si diffonda nell’ambiente, le realtà del territorio denunciano che spesso è ancora abbandonata sui piazzali delle cave. Così quando piove viene trascinata nei fiumi cementificandone il letto e riducendo l’habitat di microflora e piccoli organismi. “Le situazioni più critiche sono state osservate nel fiume Frigido e nel torrente Carrione”, si legge nelle conclusioni del “#Progetto_Cave” dell’#Agenzia_regionale_per_la_protezione_ambientale_della_Toscana (#Arpat), monitoraggio durato dal 2017 al 2019. In quegli anni l’Arpat ha effettuato una serie di controlli nelle cave di Massa, Carrara e Lucca, anche in merito alla gestione della marmettola, che “hanno evidenziato una diffusa illegalità e dato luogo a un consistente numero di sanzioni amministrative e di notizie di reato all’autorità giudiziaria”. Nel 2018, scrive Arpat, 18 cave su 60 hanno avuto un “controllo regolare”.

      La marmettola finisce anche nelle falde. Secondo un articolo scientifico del 2019, redatto da docenti e ricercatori dell’università di Firenze, dell’Aquila e del Cnr, si è “accumulata negli acquiferi” con effetti “non ancora noti nel dettaglio” ma che potrebbero modificare “l’idrodinamica delle reti carsiche riducendone la capacità di accumulo”.

      A Forno, frazione di Massa dove nasce il Frigido, il problema è esploso il 19 novembre 2022. “La sorgente è diventata bianca e per dieci giorni l’erogazione dell’acqua è stata sospesa -racconta Cavazzuti-. È un problema costante, tanto che negli anni Novanta è stato costruito questo impianto di depurazione”, dice indicando le sue grandi vasche. Pochi metri più a monte, tra i massi di un fosso in secca, si è accumulato uno strato di marmettola. Le immagini di fiumi e torrenti di colore bianco sono una costante sui giornali locali. Quelle del Carrione che attraversa Carrara, scattate il 13 aprile 2023, sono arrivate anche sulla scrivania del ministero dell’Ambiente che ha chiesto all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) di valutare se si tratti di danno ambientale.

      A Forno, frazione di Massa dove nasce il Frigido, il problema è esploso il 19 novembre 2022. “La sorgente è diventata bianca e per dieci giorni l’erogazione dell’acqua è stata sospesa -racconta Cavazzuti-. È un problema costante, tanto che negli anni Novanta è stato costruito questo impianto di depurazione”, dice indicando le sue grandi vasche. Pochi metri più a monte, tra i massi di un fosso in secca, si è accumulato uno strato di marmettola. Le immagini di fiumi e torrenti di colore bianco sono una costante sui giornali locali. Quelle del Carrione che attraversa Carrara, scattate il 13 aprile 2023, sono arrivate anche sulla scrivania del ministero dell’Ambiente che ha chiesto all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) di valutare se si tratti di danno ambientale.

      Il problema della marmettola si è aggravato con l’introduzione di strumenti più efficienti, come il filo diamantato, che ha reso possibile la lavorazione dei blocchi anche a monte. Le nuove tecnologie hanno anche generato un’impennata della quantità di materiale estratto, che oggi ammonta a quattro milioni di tonnellate all’anno. “Le montagne spariscono davanti ai nostri occhi”, commenta Grossi. Nonostante Carrara sia famosa per il suo marmo, secondo dati forniti dal Comune alla sezione locale di Legambiente, nel 2022 solo il 18,6% del materiale è stato estratto in blocchi (utilizzato quindi per uso ornamentale). “Il danno alla montagna viene inferto per ricavare detriti di carbonato di calcio che dagli anni Novanta è diventato un affare perché impiegato per vari usi industriali, dall’alimentazione alle vernici -denuncia Paola Antonioli, presidente di Legambiente Carrara che da 15 anni raccoglie i dati comunali-. Purtroppo non possiamo collegare i dati alle rispettive cave, perché l’amministrazione li ha secretati fornendoli solo in modo anonimo. Ma è importante saperli: alcune aziende estraggono il 90% di detriti e vorremmo che venissero chiuse”. Il Piano regionale cave del 2020 ha affrontato il nodo fissando il quantitativo minimo di blocchi, introducendo però delle deroghe. Per Antonioli “la norma è stata stravolta e le cave che non rispettano i parametri non sono mai state chiuse”.

      Per gli imprenditori del marmo il territorio non può fare a meno di un settore che, secondo un report di Confindustria con dati del 2017, vale il 15% del Pil provinciale per un fatturato totale di quasi un miliardo, di cui 560 milioni di export e rappresenta il 7% degli occupati. Per gli ambientalisti però il marmo grezzo che parte per l’estero, in particolare per la Cina, è sempre di più e i lavoratori sono sempre meno. Dal 1994 al 2020, secondo Fondo Marmo, ente che riunisce industriali e sindacati, il numero di dipendenti è sceso del 36%. Il calo più marcato riguarda i lavoratori impiegati “al piano”: meno 50,9%. Laboratori e segherie, invece, sono crollati del 55%.

      Gli incidenti sul lavoro però non si fermano. Nonostante l’Inail abbia certificato un calo del rischio infortunistico, la provincia di Massa Carrara vanta il primato per gli incidenti mortali nel settore tra il 2015 e il 2019, sette in totale. Anche il 2023 ha già avuto la sua vittima nel bacino apuano, anche se in provincia di Lucca: il 13 maggio Ugo Antonio Orsi, 55 anni, è rimasto schiacciato da un masso che si è staccato dal costone in una cava a Minucciano, in Garfagnana. “Questa è una storia di sfruttamento di beni comuni che arricchiscono le tasche di pochi privati. Ammesso che si possa compensare un simile danno, quasi nulla viene risarcito alla comunità -commenta Paolo Pileri, docente di Pianificazione urbanistica al Politecnico di Milano-. Comparando i canoni di concessione e il contributo di estrazione incassato ogni anno dal comune di Carrara con la quantità di blocchi prodotti, ho calcolato che per ogni tonnellata di marmo rimangono al territorio circa 25 euro a fronte di un prezzo di vendita che va da 800 a 8mila euro. Preciso che si tratta di dati parziali, ottenuti grazie al lavoro di attivisti locali, che non sono resi accessibili così che tutti possano conoscere la situazione. Un pezzo di Paese viene così distrutto per alimentare un modello di sviluppo tossico”.

      https://altreconomia.it/gli-affari-sul-marmo-delle-apuane-e-i-riflessi-su-salute-e-ambiente