• Europe’s (digital) borders must fall: End the expansion of the EU’s #EURODAC database

    110 civil society organisations, including Statewatch, are calling for an end to the expansion of EURODAC, the EU database for the registration of asylum-seekers. EURODAC, designed to collect and store migrants’ data, is being transformed into an expansive, violent surveillance tool that will treat people seeking protection as crime suspects This will include children as young as 6 whose fingerprints and facial images will be integrated into the database.

    Europe’s (digital) borders must fall: End the expansion of the EU’s EURODAC database

    EURODAC is being expanded to enforce the EU’s discriminatory and hostile asylum and migration policies: increasing deportations, detention and a broader climate of racialised criminalisation.

    The endless expansion of EURODAC must be stopped: https://edri.org/wp-content/uploads/2021/10/EURODAC-open-letter.pdf.

    What is EURODAC?

    Since its inception in 2003, the EU has repeatedly expanded the scope, size and function of EURODAC.

    Created to implement the Dublin system and record the country responsible for processing asylum claims, it originally stored only limited information, mostly fingerprints, on few categories of people: asylum-seekers and people apprehended irregularly crossing the EU’s borders. From the start, this system has been a means to enforce a discriminatory and harmful deportation regime, premised on a false framework of ‘illegality’ in migration.

    After a first reform in 2013 allowing police to access the database, the EU continues to detach EURODAC from its asylum framework to re-package it as a system pursuing ‘wider immigration purposes’. The changes were announced in 2020 in the EU Migration Pact, the EU’s so-called ‘fresh start on migration’. Rather than a fresh start, the proposals contain the harshest proposals in the history of the EU’s migration policy: more detention, more violence, and a wider, evolved tool of surveillance in the EURODAC database to track, push back and deport ‘irregular’ migrants.
    How is the EURODAC expansion endangering people’s human rights?

    More people included into the database: Concretely EURODAC would collect a vast swathe of personal data (photographs, copies of travel and identity documents, etc.) on a wider range of people: those resettled, relocated, disembarked following search and rescue operations and arrested at borders or within national territories.

    Data collection on children: The reform would also lower the threshold for storing data in the system to the age of six, extend the data retention periods and weaken the conditions for law enforcement consultation of the database.

    Including facial images into the database: The reform also proposes the expansion to include facial images. Comparisons and searches run in the database can be based on facial recognition – a technology notoriously error-prone and unreliable that threatens the essence of dignity, non- discrimination and privacy rights. The database functions as a genuine tool of violence as it authorises the use of coercion against asylum-seekers who refuse to give up their data, such as detention and forced collection. Not only do these changes contradict European data protection standards, they demonstrate how the EU’s institutional racism creates differential standards between migrants and non-migrants.

    Access by law enforcement: EURODAC’s revamp also facilitates its connection to other existing EU migration and police databases as part of the so-called ‘interoperability’ initiative - the creation of an overarching EU information system designed to increase police identity checks of non-EU nationals, leading to increased racial profiling. These measures also unjustly equate asylum seekers with criminals. Lastly, the production of statistics from EURODAC data and other databases is supposed to inform future policymaking on migration movement trends. In reality, it is expected that they will facilitate illegal pushbacks and overpolicing of humanitarian assistance.
    End the expansion of EURODAC

    The EURODAC reform is a gross violation of the right to seek international protection, a chilling conflation of migration and criminality and an out-of-control surveillance instrument. The far- right is already anticipating the next step, calling for the collection of DNA.

    The EURODAC reform is one of many examples of the digitalisation of Fortress Europe. It is inconsistent with fundamental rights and will undermine frameworks of protection and rights of people on the move.

    We demand:

    – That the EU institutions immediately reject the expansion of EURODAC.
    - For legislators to prevent further violence and ensure protection at and within borders when rethinking the EURODAC system.
    - For legislators and EU Member States to establish safe and regular pathways for migrants and protective reception conditions.

    https://www.statewatch.org/news/2023/december/europe-s-digital-borders-must-fall-end-the-expansion-of-the-eu-s-eurodac
    #base_de_données #surveillance #frontières #frontières_digitales #migrations #asile #réfugiés #Dublin #règlement_Dublin #données_personnelles #reconnaissance_faciale #technologie

  • « #Oltre_La_Valle », un #film di #Virginia_Bellizzi

    Il film, che è stato presentato in anteprima al 41° Torino Film Festival il 26 novembre nella sezione Concorso documentari italiani, è ambientato tra Oulx e Claviere, terra da sempre di transito dove le storie dei migranti si intrecciano a quelle dei volontari che operano nei luoghi di accoglienza.

    https://www.meltingpot.org/2023/12/oltre-la-valle-un-film-di-virginia-bellizzi

    #documentaire #film_documentaire #frontière_sud-alpine #Clavière #Briançon #Val_de_Suse #Italie #Alpes #montagne #France #migrations #asile #réfugiés #frontières #Oulx

    • Oltre la valle

      In una valle al confine fra Italia e Francia, da sempre terra di transito, si incrociano le vite dei migranti e quelle degli operatori di un centro di accoglienza.
      I migranti cercano di attraversare il confine e di arrivare in Francia, consapevoli di poter essere respinti alla frontiera. Le stagioni si susseguono, il presente e il passato si sovrappongono, le traiettorie umane si snodano, sospese nell’atto irreversibile di cercare uno spazio migliore in cui esistere.

      Note di regia

      Il mio prozio emigrò in Argentina durante gli anni Quaranta. Non l’ho mai conosciuto, ma le telefonate che arrivavano dall’altro lato del mondo, da parte dei suoi figli e spesso nel periodo delle feste, hanno sempre avuto un suono prezioso.
      Quando loro ne ricordavano la memoria emergeva sempre una componente di lotta, il desiderio di trovare una strada che potesse portare a un futuro sognato, nonostante le loro parole non lo dichiarassero mai apertamente. Avvertivo anche il suono di quella sofferenza ereditata e un po’ nascosta, di chi ha sbattuto molte volte contro un muro prima di poter andare oltre. Di chi si è sentito un po’ bistrattato, solo per il fatto di essersi immaginato altrove, e di averne inseguito l’atto più definitivo, quasi fosse una scelleratezza. È strano come la storia, pur ripetendosi, si dimentichi. Per questo, molti anni dopo quelle telefonate, in tempi in cui le barriere del Mediterraneo e i margini dell’Europa diventano sempre più alti, abbiamo sentito l’esigenza di fermarci, per fotografare un luogo e le storie che lo attraversano. Ma non per cristallizzarlo, al contrario, per coglierne il transito. Il periodo di osservazione si è svolto alla frontiera italo-francese, precisamente nell’Alta Val di Susa fra Oulx e Claviere, cittadina sul versante italiano del Colle del Monginevro fino agli anni Settanta tagliata a metà dal confine. È incredibile come da qui, la Francia sembri vicinissima e lontanissima allo stesso tempo. La sua geografia cambia a seconda del tipo di documento: dista solo pochi minuti per chi ha una macchina e una targa europea, oppure cinque ore di cammino per chi viene dalla rotta balcanica. Ma è stata solo la prima di una serie di dicotomie che continuavano a ripetersi, che condividevano quella terra di confine scandendone il tempo e lo spazio: col passare delle stagioni, ogni anno, le distese di neve lasciano il posto a immensi prati, turisti e attivisti gravitano intorno alle stesse seggiovie e campi da golf, il nostro passato ritorna nel presente di chi attraversa. La frontiera, si muove su un meccanismo ben oliato, una giostra drammatica vissuta dagli stessi migranti come un gioco dell’assurdo, tanta è la loro abitudine a essere respinti e a riattraversare il giorno successivo, rischiando ogni volta la vita. È stato molto difficile ottenere qualsiasi tipo di permesso, e incontro umano dopo incontro umano, anche l’atto di filmare si è inserito negli argini di inevitabili contrappunti: "sono un solidale, sto aiutando e rischiando, il confine fra ciò che si può fare e non si può fare è molto sottile”.
      “Sono un migrante, eppure non posso attraversare il confine. Ma il confine qui... dov’é precisamente?”
      Forse il confine si trova dove c’è il cippo di pietra con le lettere F e I, anche se a volte è nascosto nel bosco, ed è difficile da intravedere. Forse è un po’ prima, là dove cammina il gendarme. Forse non c’è mai stato, oppure non è una linea retta. Rispettare le mille anime di questa Valle, e voler allo stesso tempo raccontare con oggettività ciò che stava accadendo, ha implicato una continua ricerca di equilibri e un’incessante reinterpretazione della realtà. Uno stare in bilico, come su una linea sottile. La pandemia e la guerra in Ucraina, hanno mutato nuovamente gli equilibri, mettendoci davanti altre realtà delicate e irreversibili.
      “Oltre la Valle” è una storia vista con un caleidoscopio, in cui i frammenti, o i pezzi del puzzle, vogliono ritrarre un mondo reale che sembra astratto e inverosimile, dove le montagne sono ancora sovrastate da fortezze, e i confini di un regno sono contesi nella rievocazione di un’antica battaglia. Dove i tunnel possono essere il tramite verso la meta o possono riportare al punto di partenza. Dove esiste un rifugio in cui gli ospiti provengono da un’altra Europa, dall’Africa e dall’Asia, e un operatore sogna di diventare qualcos’altro, perché in fondo, tutto, nella nostra vita, può essere di passaggio.

      https://filmitalia.org/it/film/183118

  • Avant la guerre, une filière d’émigration des Gazaouis vers l’Europe en plein essor
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/29/avant-la-guerre-une-filiere-d-emigration-des-gazaouis-vers-l-europe-en-plein

    Avant la guerre, une filière d’émigration des Gazaouis vers l’Europe en plein essor
    En 2023, les Palestiniens représentaient la population la plus importante parmi les nouveaux demandeurs d’asile sur les îles grecques. Ils passaient par la Turquie qui leur accordait des facilités pour obtenir un visa.
    Par Marina Rafenberg(Athènes, correspondance)
    Publié le 29 novembre 2023 à 14h00
    « La situation économique était dramatique. Je ne voyais plus d’autre solution que de partir pour l’Europe », raconte-t-il, une cigarette à la main. En seulement deux semaines et contre 220 dollars, il obtient son visa. Une seule agence de voyages à Gaza est autorisée à fournir ce précieux sésame. « Cette agence a un accord avec le consulat turc basé à Tel-Aviv et avec le Hamas. Nos empreintes digitales y sont prises », explique Gihad. D’autres documents sont requis pour bénéficier du visa : « Un certificat assurant que tu travailles à ton compte ou que tu es employé, un passeport à jour et un compte en banque avec au moins 1 000 dollars. » « Mais ces documents peuvent être falsifiés facilement par l’agence contre 100 dollars », avoue-t-il.
    Gihad montre sur son téléphone portable une photo de la foule qui attend devant l’agence. Elle est composée d’hommes qui n’ont pas plus de 30 ans et veulent échapper à une situation asphyxiante à Gaza, avant la guerre déclenchée par l’attaque du Hamas contre Israël, le 7 octobre. Début septembre, plusieurs médias palestiniens se sont fait l’écho de cette vague de départs. Le 19 septembre, la chaîne Palestine TV a diffusé une émission intitulée « L’émigration de Gaza. Ce dont personne ne parle ». Quelques jours auparavant, le 9 septembre, de violents affrontements entre de jeunes Palestiniens et des agents de sécurité avait eu lieu devant l’agence de voyages ayant le monopole des visas. Plusieurs personnes auraient été blessées, d’après les médias palestiniens, ce qui aurait obligé l’agence à fermer plusieurs jours. Le journal en ligne palestinien Al-Quds a rendu compte de l’incident et affirmé qu’en seulement quelques jours, avant cette altercation, plus de 18 000 jeunes Gazaouis avaient fait une demande de visa pour la Turquie.
    Hady, la vingtaine, se souvient de cette journée. « Le Hamas ne veut pas de mauvaise publicité, affirme-t-il. Dire que les jeunes partent en Europe pour un avenir meilleur, c’est évidemment le signe que des problèmes existent à Gaza. » Le jeune fermier qui élevait des poulets dans l’enclave est parti pour des « raisons économiques », mais aussi « pour vivre dans un pays qui respecte les droits de l’homme ».Après avoir obtenu leur visa, Hady et Gihad ont dû se rendre au Caire pour prendre l’avion. La première étape est le passage de la frontière, à Rafah. A partir de mai 2018, le président égyptien, Abdel Fattah Al-Sissi, a facilité l’accès au territoire égyptien pour les Gazaouis. Mais, dans les faits, les hommes de moins de 40 ans ne sont pas autorisés à quitter l’enclave, « sauf contre des bakchichs aux gardes-frontières égyptiens et aux membres du Hamas », précise Hady.
    Contre 400 dollars chacun, les deux acolytes ont pu franchir la frontière, puis se rendre à l’aéroport du Caire sous escorte policière. « A l’aéroport, une salle spéciale est conçue pour les Palestiniens voyageant hors de Gaza. Quand tu vas prendre ton billet d’avion, la police te suit et te surveille jusqu’à ce que tu montes dans l’avion », raconte Gihad, qui a encore dépensé 350 dollars pour son billet.
    Groupe le plus importantUne fois à Istanbul, les jeunes hommes entrent en contact avec un passeur arabe. Ils déboursent encore plus de 2 000 dollars chacun pour rejoindre une île grecque. Gihad est arrivé à Lesbos, dans un canot transportant vingt-trois personnes parmi lesquelles onze autres Palestiniens de Gaza. « Nous avons été chanceux, car nous n’avons pas été renvoyés en Turquie. De nombreuses personnes voyageant avec moi sur ce bateau avaient déjà tenté une fois de venir en Grèce et avaient été renvoyées de force vers les eaux turques », rapporte-t-il. Le gouvernement grec est accusé, depuis 2020, par les organisations non gouvernementales et des enquêtes journalistiques, d’avoir généralisé les refoulements illégaux de migrants aux frontières, ce qu’il nie.A Izmir, en Turquie, d’où il est parti pour Lesbos, Gihad assure qu’en septembre tous les hôtels étaient pleins de migrants, des Palestiniens plus particulièrement, voulant passer en Grèce. En 2023, selon le Haut-Commissariat aux réfugiés (HCR), les Palestiniens représentaient plus de 20 % des arrivées sur les îles grecques, le groupe le plus important parmi les nouveaux demandeurs d’asile. La hausse des arrivées de réfugiés palestiniens avait commencé en 2022, selon le HCR.
    Selon le ministère des migrations grec, « un peu moins de 3 000 demandeurs d’asile palestiniens se trouvent actuellement dans les camps [installés pour leur hébergement] ». « Il existait [avant l’attaque du 7 octobre] un petit flux de Palestiniens de Gaza qui passaient par Le Caire, puis par Istanbul, pour rejoindre certaines îles de l’est de la mer Egée, comme Cos, ajoute le porte-parole du ministère. Le désastre humanitaire à Gaza et le déplacement massif des Gazaouis du nord vers le sud de l’enclave nous inquiètent, mais il n’existe aujourd’hui ni réflexion ni projet pour l’accueil des réfugiés palestiniens dans le pays. » Gihad comme Hady n’ont maintenant qu’une idée en tête : que leurs familles puissent sortir de l’« enfer de la guerre » et les rejoignent en Europe.

    #Covid-19#migrant#migration#gaza#palestinien#exil#emigration#turquie#grece#egype#HCR#sante#deplacement#refugie#demandeurdasile

    • C’est hallucinant :

      « Le Hamas ne veut pas de mauvaise publicité, affirme-t-il. Dire que les jeunes partent en Europe pour un avenir meilleur, c’est évidemment le signe que des problèmes existent à Gaza. » Le jeune fermier qui élevait des poulets dans l’enclave est parti pour des « raisons économiques », mais aussi « pour vivre dans un pays qui respecte les droits de l’homme ».

      Hallucinant

      La seule fois où il est question de l’état sioniste :

      Gihad montre sur son téléphone portable une photo de la foule qui attend devant l’agence. Elle est composée d’hommes qui n’ont pas plus de 30 ans et veulent échapper à une situation asphyxiante à Gaza, avant la guerre déclenchée par l’attaque du Hamas contre Israël, le 7 octobre.

      Trop c’est trop

      #sans_vergogne #MSM

  • Border justice

    Instead of forging safe, legal pathways to protection, European states and the EU are fostering strategies of deterrence, exclusion and externalization. Most people on the move are left with no alternative but to cross borders irregularly. When they do, state actors routinely detain, beat and expel them – mostly in secret, with no assessment of their situation, and denying them access to legal safeguards.

    These multiple human rights violations are all part of the pushback experience. Often reliant on racial profiling, pushbacks have become a normalized practice at European borders. ECCHR challenges this state of rightlessness through legal interventions and supports affected people to document and tell their stories. Together we hold states accountable and push for changes in border practice and policies.

    Our team brings together a diverse group of lawyers and interdisciplinary researchers, working transnationally with partners to develop legal strategies and tackle rights violations at borders. We meticulously reconstruct and verify the experiences of those subjected to pushbacks. Confronted with states’ denial of the reality at Europe’s borders, we collect, analyze and publicise in-depth knowledge. Our aim is to enforce the most basic of legal principles: the right to have rights.

    https://www.ecchr.eu/en/border-justice

    #frontières #justice #refoulements #push-backs #violence #migrations #réfugiés #asile #justice_frontalière #justice_migratoire #Espagne #rapport #Ceuta #Grèce #Macédoine_du_Nord #Libye #Italie #hotspots #Allemagne #Croatie #Slovénie #frontière_sud-alpine #droit_d'asile #ECCHR

  •  »Vor Mauern und hinter Gittern« 

    Kinderrechte werden an den Außengrenzen der Europäischen Union mit Füßen getreten


    Kinder und Jugendliche werden an den Außengrenzen der EU gewaltsam zurückgeschoben (»Pushbacks«) und nach Ankunft in der EU inhaftiert – eine systematisch angewandte Praxis in mehreren Außengrenzstaaten der EU. Anlässlich des Treffens der EU-Innenminister*innen nächste Woche zeigt terre des hommes mit dem aktuellen Bericht »Vor Mauern und hinter Gittern« am Beispiel von Ungarn, Griechenland, Bulgarien und Polen die kinderrechtswidrigen Praktiken genauer auf. Der Bericht bezieht sich vor allem auf die Erfahrungen und Hinweise zivilgesellschaftlicher Projektpartnerorganisationen und verweist auch auf die Mitverantwortung der EU, deren Institutionen das Verhalten der Mitgliedsstaaten billigen und stützen.

    »Migrationshaft bei Kindern und Jugendlichen ist trotz ihrer Unvereinbarkeit mit der UN-Kinderrechtskonvention Realität in drei der vier untersuchten Mitgliedstaaten« sagt Teresa Wilmes, Programmreferentin für Deutschland und Europa bei terre des hommes. »In Ungarn, dem vierten untersuchten Mitgliedsstaat, wurde die Inhaftierung von geflüchteten Minderjährigen nur deswegen beendet, weil Pushbacks den Zugang zu einem Asylverfahren bereits nahezu vollständig verhindern.«

    Die Folgen für Betroffene sind gravierend: Infolge einer Inhaftierung leiden Kinder und Jugendliche häufig an Depressionen, posttraumatischen Belastungsstörungen und Angstzu­ständen. Auch die Erfahrung von Gewalt gegen sie selbst oder Verwandte und Freunde ist für Kinder und Jugendliche traumatisierend und begleitet sie oft ein Leben lang.

    Rückendeckung erhalten die Mitgliedsstaaten dabei von der EU und ihren Institutionen: »Die Europäische Union, allen voran die EU-Kommission, macht sich für die Verletzung von Kinderrechten an den europäischen Außengrenzen mitverantwortlich. Zahlreiche Beispiele dafür finden sich im Bericht: vom europäischen Pilotprojekt zum Grenzschutz in Bulgarien über die EU-Finanzierung haftähnlicher Einrichtungen auf Griechenland bis hin zur Rolle der EU-Agentur FRONTEX,« erklärt Sophia Eckert, rechtspolitische Referentin bei terre des hommes. »Unser Bericht zeigt, dass die europäische Gemeinschaft maßgebliche Einflussmöglichkeiten darauf hat, ob der Schutz, das Wohl und die Rechte geflüchteter Kinder und Jugendlicher in der EU gelten oder einer ausgeklügelten Abschottungspolitik der EU-Mitgliedsstaaten zum Opfer fallen sollen.«

    Mit Blick auf das Treffen der europäischen Innenminister*innen in der kommenden Woche fordert terre des hommes eine Kehrtwende der Reform des Gemeinsamen Europäischen Asylsystems. Dazu Sophia Eckert: »Dass die geplanten Reformvorschläge die im Bericht beschrieben Problemlagen beenden werden, ist illusorisch. Vielmehr ist zu befürchten, dass die Reform die Missstände an den europäischen Außengrenzen weiter verschärft, indem sie den Rechtsverletzungen einen europäischen Rahmen gibt. Wir fordern daher die Entscheidungsträger*innen in der EU auf, diese unsäglichen Reformpläne zu stoppen. Von einem menschenwürdigen europäischen Asylsystem erwarten wir den Zugang zu Asyl statt rechtswidriger Abschiebung, Kindeswohl statt Lagerhaft und faire Asylverfahren statt beschleunigter Grenzverfahren.«

    Pour télécharger le rapport :
    https://www.tdh.de/fileadmin/user_upload/inhalte/04_Was_wir_tun/Themen/Weitere_Themen/Fluechtlingskinder/tdh_Bericht_Kinderrechtsverletzungen-an-EU-Aussengrenzen.pdf

    https://www.tdh.de/was-wir-tun/arbeitsfelder/fluechtlingskinder/meldungen/vor-mauern-und-hinter-gittern-kinderrechte-an-den-eu-aussengrenzen

    #enfants #enfance #frontières #migrations #asile #réfugiés #rapport #terre_des_hommes #enfermement #push-backs #refoulements #Hongrie #Grèce #Bulgarie #Pologne #Balkans #route_des_Balkans #droit_d'asile #traumatisme #santé #santé_mentale

  • Get out ! Zur Situation von Geflüchteten in Bulgarien
    (publié en 2020, ajouté ici pour archivage)

    „Bulgaria is very bad“ ist eine typische Aussage jener, die auf ihrer Flucht bereits etliche Länder durchquert haben. Der vorliegende Bericht geht der Frage nach, warum Bulgarien seit Langem einen extrem schlechten Ruf unter den Geflüchteten genießt.

    Hierzu wird kenntnisreich die massive Gewalt nachgezeichnet, die Bulgarien im Zuge sogenannter „Push-Backs“ anwendet. Auch auf die intensive Kooperation mit der Türkei beim Schutz der gemeinsamen Grenze wird eingegangen. Da die Inhaftierung von Geflüchteten in Bulgarien obligatorisch ist, werden überdies die rechtlichen Hintergründe hierfür und die miserablen Haftbedingungen beschrieben. Weiterhin wird das bulgarische Asylsystem thematisiert und auf die besondere Situation von Geflüchteten eingegangen, die im Rahmen der Dublin-Verordnung nach Bulgarien abgeschoben wurden. Das bulgarische Integrationskonzept, das faktisch nur auf dem Papier existiert, wird ebenfalls beleuchtet.

    https://bordermonitoring.eu/berichte/2020-get-out
    #migrations #asile #réfugiés #frontières #rapport #Bulgarie #push-backs #refoulements #pull-backs #violence #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #milices #extrême_droite #enfermement #Dublin #renvois_Dublin #droit_d'asile #encampement #camps

  • Le dessous des images. Derniers instants avant le naufrage

    Au large de la Grèce, une équipe de garde-côtes survole et capture cette scène depuis un hélicoptère. Des centaines de migrants appellent au secours depuis un chalutier. La plupart ne survivront pas au naufrage. Mais à quoi a servi cette image ? Présenté par Sonia Devillers, le magazine qui analyse les images de notre époque.

    Ce cliché du 13 juin 2023 est repris dans toute la presse internationale. Les autorités grecques ont photographié ce bateau de pêche qu’ils savent bondé et fragile, et dont les passagers sont affamés et déshydratés. Pourtant, ils ne seront pas capables de les secourir. La responsabilité des garde-côtes sera mise en cause par médias et ONG. Arthur Carpentier, journaliste au Monde et coauteur d’une enquête sur ce naufrage, nous explique en quoi les images ont permis de reconstituer le drame. Le chercheur suisse Charles Heller nous aide à comprendre l’impact médiatique, politique et symbolique des images de migrants et de naufrages en Méditerranée.

    https://www.arte.tv/fr/videos/110342-133-A/le-dessous-des-images

    Citation de #Charles_Heller :

    « Ces #images cristallisent toutes les #inégalités et les #conflits du monde dans lequel on vit. Elles nous disent aussi la #normalisation de la #violence des #frontières, sur la large acceptation de dizaines de milliers de #morts aux frontières européennes, et en #Méditerranée en particulier »

    #naufrage #migrations #réfugiés #mer #Méditerranée #mer_Méditerranée #Grèce #reconstruction #Pylos #géolocalisation #architecture_forensique #images #mourir_en_mer #morts_en_mer #garde-côtes #Frontex #reconstitution #SAR #mer_Egée #border_forensics #domination #imaginaire #invasion #3_octobre_2013 #émoi #émotions #normalisation_de_la_violence

    ping @reka

  • "Wie ein zweiter Tod"

    Am griechisch-türkischen Grenzfluss Evros enden Versuche, in die EU zu gelangen, immer wieder mit dem Tod. Die Verstorbenen werden oft spät gefunden und bleiben namenlos - ein Trauma für die Angehörigen.

    Am 17. Oktober 2022 überquert die 22-jährige Suhur den Evros, den Grenzfluss zwischen der Türkei und Griechenland. Ein Schlepper verspricht der Frau aus Somalia, sie bis nach Thessaloniki zu bringen. Auf der griechischen Seite angekommen, geht es schnell weiter durch einen Wald.

    Doch Suhur hat starke Bauchschmerzen, nach einigen Kilometern kann sie nicht mehr weiterlaufen. Die anderen aus der Gruppe lassen sie alleine zurück, ihre Freundin verspricht Hilfe zu suchen. Doch dazu dazu kommt es nicht. Tage später findet die Polizei ihre Leiche.

    Es ist Suhurs Onkel Fahti, der ihre Geschichte erzählt, nachdem er ihre Leiche im Universitätskrankenhaus in Alexandroupoli identifiziert hat.
    Engmaschige Kontrollen entlang des Ufers

    Suhur ist eine von vielen Menschen, die versuchen, über den Evros zu gelangen, um Europa zu erreichen. Der Fluss markiert eine Außengrenze der Europäischen Union. Entlang der griechischen Uferseite allerdings wird engmaschig kontrolliert, regelmäßig sind unterschiedliche Polizeieinheiten in der Gegend unterwegs.

    In der Grenzzone selbst ist der Zutritt streng verboten, nur mit Sondererlaubnis darf man in die Nähe des Flusses gehen. Seit 2020 wird ein Grenzzaun errichtet, 38 Kilometer ist er bereits lang, er soll Migranten von einem illegalen Übertritt abhalten.

    Weiterhin traurige Rekorde

    Doch offenbar verfehlen die Maßnahmen ihre erwünschte Wirkung. So erreichten allein im Jahr 2022 laut UNHCR 6022 Flüchtlinge über den Landweg Griechenland, das sind ähnlich hohe Zahlen wie vor der Verschärfung der Kontrollen.

    Einen traurigen Rekord stellt die Zahl der Toten auf, die gefunden werden. Mindestens 63 Menschen sind nach offiziellen Angaben auf der Flucht gestorben, die tatsächlichen Zahlen dürften noch deutlich höher liegen.

    https://www.tagesschau.de/multimedia/sendung/tagesthemen/video-1153371.html

    Ein Rechtsmediziner zählt die Toten

    In Alexandroupoli, auf griechischer Seite, arbeitet Pavlos Pavlidis als Rechtsmediziner der Region. Jeder am Evros gefundene tote Flüchtling wird von ihm obduziert.

    Pavlidis führt Protokoll über die Anzahl der Toten am Evros. Auch der tote Körper der Somalierin Suhur wurde ihm aus einem Waldstück nahe des Flusses gebracht.

    Aus London angereist, um die Nichte zu identifizieren

    Nun sitzt ihr Onkel Fahti auf einem Sofa in seinem Büro. Sie sei eine wunderschöne Frau gewesen, sagt er. Fathi ist aus London angereist, um seine Nichte zu identifizieren.

    Die Freundin von Suhur, so erzählt es Fathi, habe sich der griechischen Polizei gestellt, um sie zu der schwer erkrankten Suhur zu führen. Doch die Polizei habe nicht nach ihr gesucht, und die Freundin sofort zurück in die Türkei abgeschoben.

    Verifizieren lässt sich diese Version der Geschehnisse nicht mehr. Die „Push-Back“-Praxis, das Abschieben von Migranten ohne Verfahren, wurde offiziell nie von der griechischen Regierung bestätigt.Trotzdem gibt es viele ähnliche Berichte von Betroffenen.

    Rechtsmediziner Pavlidis hat Suhurs toten Körper obduziert und kommt zu dem Ergebnis: Die junge Frau habe auf der Flucht einen Magendurchbruch erlitten, voraussichtlich hervorgerufen durch großen Stress. Am Ende sei sie an einer Sepsis gestorben. Durch Erschöpfung hervorgerufene Krankheiten seien eine häufige Todesursache am Evros, die häufigste aber Ertrinken im Fluss.

    Viel Flüchtlinge können kaum schwimmen

    Pavlidis sagt, die Verantwortung für die vielen Toten trügen zunächst die Schlepper, die die Schlauchboote völlig überladen, so, dass sie schnell kenterten. Viele Flüchtlinge könnten kaum schwimmen, so werde der Fluss zur Gefahr für ihr Leben.

    Die Flüchtlinge selbst unterschätzen offenbar die Gefährlichkeit der Überfahrt. Aber auch die strenge Abschirmung der Grenze bedeutet für sie eine Gefahr. Um den Grenzschützern auszuweichen, schlagen sie immer gefährlichere Routen ein.

    Wer aufgegriffen wird, muss Angst haben, abgeschoben zu werden. Verletzt sich einer aus der Gruppe, muss dieser damit rechnen, alleine zurückgelassen zu werden. Denn Hilfe zu holen, würde für alle bedeuten, dass ihre teuer bezahlte Flucht erst einmal gestoppt ist.

    Aktuell 52 ungeklärte Todesfälle

    Immer wieder findet die Polizei Tote also auch in den bewaldeten Bergen entlang des Flusses. Die Leichen sind schon nach wenigen Tagen kaum noch zu identifizieren. Pavlidis versucht es trotzdem, sucht nach Todesursache und Todeszeitpunkt und nach Antworten auf die Frage, wer ist dieser Mensch war.

    Aktuell erzählt Pavlidis von 52 ungeklärten Fällen. Hinter jedem einzelnen stünden Angehörige, die diese Menschen vermissten. Die Identität zu verlieren, sei wie ein zweiter Tod, sagt der Rechtsmediziner.

    Etwa 200 Grabsteine erinnern an die namenlosen Toten

    Um den namenlosen Toten eine letzte Ruhestätte zu geben, entstand in dem in den Bergen, nahe der Gemeinde Sidiro, ein Friedhof, der ihnen gewidmet ist. Etwa 200 Grabsteine stehen hier auf einer leichten Anhöhe. Auf den Platten stehen Nummern. Pavlidis führt eine Liste mit den entsprechenden Nummern in seinem Büro.

    Falls doch irgendwann ein Angehöriger zu ihm käme und mit Hilfe einer DNA-Probe einen Toten identifiziere, könne der auf dem Friedhof der Namenlosen ausgegraben und umgebettet werden.

    Im Fall der Somalierin Suhur ist Pavlidis eine Identifizierung gelungen. Ihr Onkel Fathi lebte wochenlang mit der Ungewissheit, was seiner Nichte geschehen sein könnte.

    Nachdem er bei der griechischen Polizei eine Suchanzeige abgegeben hat, lebt er nun mit der brutalen Gewissheit, dass Suhur gestorben ist. Wenigstens habe er nun Klarheit, sagt er, so dass seine Familie und er nun von Suhur Abschied nehmen könnten.

    https://www.tagesschau.de/multimedia/audio/audio-154699.html
    https://www.tagesschau.de/ausland/europa/eu-aussengrenze-migration-101.html

    #frontières #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #Evros #fleuve #Turquie #Grèce #Pavlos_Pavlidis #cimetière #migrations #asile #réfugiés #identification #murs #barrières_frontalières

  • Le #village_sous_la_forêt, de #Heidi_GRUNEBAUM et #Mark_KAPLAN

    En #1948, #Lubya a été violemment détruit et vidé de ses habitants par les forces militaires israéliennes. 343 villages palestiniens ont subi le même sort. Aujourd’hui, de #Lubya, il ne reste plus que des vestiges, à peine visibles, recouverts d’une #forêt majestueuse nommée « Afrique du Sud ». Les vestiges ne restent pas silencieux pour autant.

    La chercheuse juive sud-africaine, #Heidi_Grunebaum se souvient qu’étant enfant elle versait de l’argent destiné officiellement à planter des arbres pour « reverdir le désert ».

    Elle interroge les acteurs et les victimes de cette tragédie, et révèle une politique d’effacement délibérée du #Fonds_national_Juif.

    « Le Fonds National Juif a planté 86 parcs et forêts de pins par-dessus les décombres des villages détruits. Beaucoup de ces forêts portent le nom des pays, ou des personnalités célèbres qui les ont financés. Ainsi il y a par exemple la Forêt Suisse, le Parc Canada, le Parc britannique, la Forêt d’Afrique du Sud et la Forêt Correta King ».

    https://www.villageunderforest.com

    Trailer :

    https://www.youtube.com/watch?v=ISmj31rJkGQ

    #israel #palestine #carte #Israël #afrique_du_sud #forêt #documentaire

    #film #documentaire #film_documentaire

    (copier-coller de ce post de 2014 : https://seenthis.net/messages/317236)

    • Documentary Space, Place, and Landscape

      In documentaries of the occupied West Bank, erasure is imaged in the wall that sunders families and communities, in the spaces filled with blackened tree stumps of former olive groves, now missing to ensure “security,” and in the cactus that still grows, demarcating cultivated land whose owners have been expelled.

      This materiality of the landscape becomes figural, such that Shehadeh writes, “[w]hen you are exiled from your land … you begin, like a pornographer, to think about it in symbols. You articulate your love for your land in its absence, and in the process transform it into something else.’’[x] The symbolization reifies and, in this process, something is lost, namely, a potential for thinking differently. But in these Palestinian films we encounter a documenting of the now of everyday living that unfixes such reification. This is a storytelling of vignettes, moments, digressions, stories within stories, and postponed endings. These are stories of interaction, of something happening, in a documenting of a being and doing now, while awaiting a future yet to be known, and at the same time asserting a past history to be remembered through these images and sounds. Through this there arises the accenting of these films, to draw on Hamid Naficy’s term, namely a specific tone of a past—the Nakba or catastrophe—as a continuing present, insofar as the conflict does not allow Palestinians to imagine themselves in a determinate future of place and landscape they can call their own, namely a state.[xi]

      In Hanna Musleh’s I’m a Little Angel (2000), we follow the children of families, both Muslim and Christian, in the area of Bethlehem affected by the 2000 Israeli armed forces attacks and occupation.[xii] One small boy, Nicola, suffered the loss of an arm when he was hit by a shell when walking to church with his mother. His kite, seen flying high in the sky, brings delighted shrieks from Nicola as he plays on the family terrace from which the town and its surrounding hills are visible in the distance. But the contrast between the freedom of the kite in this unlimited vista and his reduced capacity is palpable as he struggles to control it with his remaining hand. The containment of both Nicola and his community is figured in opposition to a possible freedom. What is also required of us is to think not of freedom from the constraints of disability, but of freedom with disability, in a future to be made after. The constraints introduced upon the landscape by the occupation, however, make the future of such living indeterminate and uncertain. Here is the “cinema of the lived,”[xiii] of multiple times of past and present, of possible and imagined future time, and the actualized present, each of which is encountered in the movement in a singular space of Nicola and his kite.


      http://mediafieldsjournal.squarespace.com/documentary-space-place-and-la/2011/7/18/documentary-space-place-and-landscape.html;jsessioni
      #cactus #paysage

    • Memory of the Cactus

      A 42 minute documentary film that combines the cactus and the memories it stands for. The film addresses the story of the destruction of the Palestinian villages of Latroun in the Occupied West Bank and the forcible transfer of their civilian population in 1967. Over 40 years later, the Israeli occupation continues, and villagers remain displaced. The film follows two separate but parallel journeys. Aisha Um Najeh takes us down the painful road that Palestinians have been forcefully pushed down, separating them in time and place from the land they nurtured; while Israelis walk freely through that land, enjoying its fruits. The stems of the cactus, however, take a few of them to discover the reality of the crime committed.

      https://www.youtube.com/watch?v=DQ_LjknRHVA

    • Aujourd’hui, j’ai re-regardé le film « Le village sous la forêt », car je vais le projeter à mes étudiant·es dans le cadre du cours de #géographie_culturelle la semaine prochaine.

      Voici donc quelques citations tirées du film :

      Sur une des boîtes de récolte d’argent pour planter des arbres en Palestine, c’est noté « make wilderness bloom » :

      Voici les panneaux de quelques parcs et forêts créés grâce aux fonds de la #diaspora_juive :

      Projet : « We will make it green, like a modern European country » (ce qui est en étroit lien avec un certaine idée de #développement, liée au #progrès).

      Témoignage d’une femme palestinienne :

      « Ils ont planté des arbres partout qui cachaient tout »

      Ilan Pappé, historien israëlien, Université d’Exter :

      « ça leur a pris entre 6 et 9 mois poru s’emparer de 80% de la Palestine, expulser la plupart des personnes qui y vivaient et reconstruire sur les villes et villages de ces personnes un nouvel Etat, une nouvelle #identité »

      https://socialsciences.exeter.ac.uk/iais/staff/pappe

      Témoignage d’un palestinien qui continue à retourner régulièrement à Lubya :

      « Si je n’aimais pas cet endroit, est-ce que je continuerais à revenir ici tout le temps sur mon tracteur ? Ils l’ont transformé en forêt afin d’affirmer qu’il n’y a pas eu de village ici. Mais on peut voir les #cactus qui prouvent que des arabes vivaient ici »

      Ilan Pappé :

      « Ces villages éaient arabes, tout comme le paysage alentour. C’était un message qui ne passait pas auprès du mouvement sioniste. Des personnes du mouvement ont écrit à ce propos, ils ont dit qu’ils n’aimaient vraiment pas, comme Ben Gurion l’a dit, que le pays ait toujours l’air arabe. (...) Même si les Arabes n’y vivent plus, ça a toujours l’air arabe. En ce qui concerne les zones rurales, il a été clair : les villages devaient être dévastés pour qu’il n’y ait pas de #souvenirs possibles. Ils ont commencé à les dévaster dès le mois d’août 1948. Ils ont rasé les maisons, la terre. Plus rien ne restait. Il y avait deux moyens pour eux d’en nier l’existence : le premier était de planter des forêts de pins européens sur les villages. Dans la plupart des cas, lorsque les villages étaient étendus et les terres assez vastes, on voit que les deux stratégies ont été mises en oeuvre : il y a un nouveau quartier juif et, juste à côté, une forêt. En effet, la deuxième méthode était de créer un quartier juif qui possédait presque le même nom que l’ancien village arabe, mais dans sa version en hébreu. L’objectif était double : il s’agissait d’abord de montrer que le lieu était originellement juif et revenait ainsi à son propriétaire. Ensuite, l’idée était de faire passer un message sinistre aux Palestiniens sur ce qui avait eu lieu ici. Le principal acteur de cette politique a été le FNJ. »

      #toponymie

      Heidi Grunebaum, la réalisatrice :

      « J’ai grandi au moment où le FNJ cultivait l’idée de créer une patrie juive grâce à la plantation d’arbres. Dans les 100 dernières années, 260 millions d’arbres ont été plantés. Je me rends compte à présent que la petite carte du grand Israël sur les boîtes bleues n’était pas juste un symbole. Etait ainsi affirmé que toutes ces terres étaient juives. Les #cartes ont été redessinées. Les noms arabes des lieux ont sombré dans l’oubli à cause du #Comité_de_Dénomination créé par le FNJ. 86 forêts du FNJ ont détruit des villages. Des villages comme Lubya ont cessé d’exister. Lubya est devenu Lavie. Une nouvelle histoire a été écrite, celle que j’ai apprise. »

      Le #Canada_park :

      Canada Park (Hebrew: פארק קנדה‎, Arabic: كندا حديقة‎, also Ayalon Park,) is an Israeli national park stretching over 7,000 dunams (700 hectares), and extending from No man’s land into the West Bank.
      The park is North of Highway 1 (Tel Aviv-Jerusalem), between the Latrun Interchange and Sha’ar HaGai, and contains a Hasmonean fort, Crusader fort, other archaeological remains and the ruins of 3 Palestinian villages razed by Israel in 1967 after their inhabitants were expelled. In addition it has picnic areas, springs and panoramic hilltop views, and is a popular Israeli tourist destination, drawing some 300,000 visitors annually.


      https://en.wikipedia.org/wiki/Canada_Park

      Heidi Grunebaum :

      « Chaque pièce de monnaie est devenue un arbre dans une forêt, chaque arbre, dont les racines étaient plantées dans la terre était pour nous, la diaspora. Les pièces changées en arbres devenaient des faits ancrés dans le sol. Le nouveau paysage arrangé par le FNJ à travers la plantation de forêts et les accords politiques est celui des #parcs_de_loisirs, des routes, des barrages et des infrastructures »

      Témoignage d’un Palestinien :

      « Celui qui ne possède de #pays_natal ne possède rien »

      Heidi Grunebaum :

      « Si personne ne demeure, la mémoire est oblitérée. Cependant, de génération en génération, le souvenir qu’ont les Palestiniens d’un endroit qui un jour fut le leur, persiste. »

      Témoignage d’un Palestinien :

      "Dès qu’on mange quelque chose chez nous, on dit qu’on mangeait ce plat à Lubya. Quelles que soient nos activités, on dit que nous avions les mêmes à Lubya. Lubya est constamment mentionnées, et avec un peu d’amertume.

      Témoignage d’un Palestinien :

      Lubya est ma fille précieuse que j’abriterai toujours dans les profondeurs de mon âme. Par les histoires racontées par mon père, mon grand-père, mes oncles et ma grande-mère, j’ai le sentiment de connaître très bien Lubya.

      Avi Shlaim, Université de Oxford :

      « Le mur dans la partie Ouest ne relève pas d’une mesure de sécurité, comme il a été dit. C’est un outil de #ségrégation des deux communautés et un moyen de s’approprier de larges portions de terres palestiniennes. C’est un moyen de poursuivre la politique d’#expansion_territoriale et d’avoir le plus grand Etat juif possible avec le moins de population d’arabes à l’intérieur. »

      https://www.sant.ox.ac.uk/people/avi-shlaim

      Heidi Grunebaum :

      « Les petites pièces de la diaspora n’ont pas seulement planté des arbres juifs et déraciné des arbres palestiniens, elles ont aussi créé une forêt d’un autre type. Une vaste forêt bureaucratique où la force de la loi est une arme. La règlementation règne, les procédures, permis, actions commandées par les lois, tout régulé le moindre espace de la vie quotidienne des Palestiniens qui sont petit à petit étouffés, repoussés aux marges de leurs terres. Entassés dans des ghettos, sans autorisation de construire, les Palestiniens n’ont plus qu’à regarder leurs maisons démolies »

      #Lubya #paysage #ruines #architecture_forensique #Afrique_du_Sud #profanation #cactus #South_african_forest #Galilée #Jewish_national_fund (#fonds_national_juif) #arbres #Palestine #Organisation_des_femmes_sionistes #Keren_Kayemeth #apartheid #résistance #occupation #Armée_de_libération_arabe #Hagana #nakba #exil #réfugiés_palestiniens #expulsion #identité #present_absentees #IDPs #déplacés_internes #Caesarea #oubli #déni #historicisation #diaspora #murs #barrières_frontalières #dépossession #privatisation_des_terres #terres #mémoire #commémoration #poésie #Canada_park

    • The Carmel wildfire is burning all illusions in Israel

      “When I look out my window today and see a tree standing there, that tree gives me a greater sense of beauty and personal delight than all the vast forests I have seen in Switzerland or Scandinavia. Because every tree here was planted by us.”

      – David Ben Gurion, Memoirs

      “Why are there so many Arabs here? Why didn’t you chase them away?”

      – David Ben Gurion during a visit to Nazareth, July 1948


      https://electronicintifada.net/content/carmel-wildfire-burning-all-illusions-israel/9130

      signalé par @sinehebdo que je remercie

    • Vu dans ce rapport, signalé par @palestine___________ , que je remercie (https://seenthis.net/messages/723321) :

      A method of enforcing the eradication of unrecognized Palestinian villages is to ensure their misrepresentation on maps. As part of this policy, these villages do not appear at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. Likewise, they do not appear on first sight on Google Maps or at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. They are labelled on NGO maps designed to increase their visibility. On Google Maps, the Bedouin villages are marked – in contrast to cities and other villages – under their Bedouin tribe and clan names (Bimkom) rather than with their village names and are only visible when zooming in very closely, but otherwise appear to be non-existent. This means that when looking at Google Maps, these villages appear to be not there, only when zooming on to a very high degree, do they appear with their tribe or clan names. At first (and second and third) sight, therefore, these villages are simply not there. Despite their small size, Israeli villages are displayed even when zoomed-out, while unrecognized Palestinian Bedouin villages, regardless of their size are only visible when zooming in very closely.


      http://7amleh.org/2018/09/18/google-maps-endangering-palestinian-human-rights
      Pour télécharger le rapport :
      http://www.7amleh.org/ms/Mapping%20Segregation%20Cover_WEB.pdf

    • signalé par @kassem :
      https://seenthis.net/messages/317236#message784258

      Israel lifted its military rule over the state’s Arab community in 1966 only after ascertaining that its members could not return to the villages they had fled or been expelled from, according to newly declassified archival documents.

      The documents both reveal the considerations behind the creation of the military government 18 years earlier, and the reasons for dismantling it and revoking the severe restrictions it imposed on Arab citizens in the north, the Negev and the so-called Triangle of Locales in central Israel.

      These records were made public as a result of a campaign launched against the state archives by the Akevot Institute, which researches the Israeli-Palestinian conflict.

      After the War of Independence in 1948, the state imposed military rule over Arabs living around the country, which applied to an estimated 85 percent of that community at the time, say researchers at the NGO. The Arabs in question were subject to the authority of a military commander who could limit their freedom of movement, declare areas to be closed zones, or demand that the inhabitants leave and enter certain locales only with his written permission.

      The newly revealed documents describe the ways Israel prevented Arabs from returning to villages they had left in 1948, even after the restrictions on them had been lifted. The main method: dense planting of trees within and surrounding these towns.

      At a meeting held in November 1965 at the office of Shmuel Toledano, the prime minister’s adviser on Arab affairs, there was a discussion about villages that had been left behind and that Israel did not want to be repopulated, according to one document. To ensure that, the state had the Jewish National Fund plant trees around and in them.

      Among other things, the document states that “the lands belonging to the above-mentioned villages were given to the custodian for absentee properties” and that “most were leased for work (cultivation of field crops and olive groves) by Jewish households.” Some of the properties, it adds, were subleased.

      In the meeting in Toledano’s office, it was explained that these lands had been declared closed military zones, and that once the structures on them had been razed, and the land had been parceled out, forested and subject to proper supervision – their definition as closed military zones could be lifted.

      On April 3, 1966, another discussion was held on the same subject, this time at the office of the defense minister, Levi Eshkol, who was also the serving prime minister; the minutes of this meeting were classified as top secret. Its participants included: Toledano; Isser Harel, in his capacity as special adviser to the prime minister; the military advocate general – Meir Shamgar, who would later become president of the Supreme Court; and representatives of the Shin Bet security service and Israel Police.

      The newly publicized record of that meeting shows that the Shin Bet was already prepared at that point to lift the military rule over the Arabs and that the police and army could do so within a short time.

      Regarding northern Israel, it was agreed that “all the areas declared at the time to be closed [military] zones... other than Sha’ab [east of Acre] would be opened after the usual conditions were fulfilled – razing of the buildings in the abandoned villages, forestation, establishment of nature reserves, fencing and guarding.” The dates of the reopening these areas would be determined by Israel Defense Forces Maj. Gen. Shamir, the minutes said. Regarding Sha’ab, Harel and Toledano were to discuss that subject with Shamir.

      However, as to Arab locales in central Israel and the Negev, it was agreed that the closed military zones would remain in effect for the time being, with a few exceptions.

      Even after military rule was lifted, some top IDF officers, including Chief of Staff Tzvi Tzur and Shamgar, opposed the move. In March 1963, Shamgar, then military advocate general, wrote a pamphlet about the legal basis of the military administration; only 30 copies were printed. (He signed it using his previous, un-Hebraized name, Sternberg.) Its purpose was to explain why Israel was imposing its military might over hundreds of thousands of citizens.

      Among other things, Shamgar wrote in the pamphlet that Regulation 125, allowing certain areas to be closed off, is intended “to prevent the entry and settlement of minorities in border areas,” and that “border areas populated by minorities serve as a natural, convenient point of departure for hostile elements beyond the border.” The fact that citizens must have permits in order to travel about helps to thwart infiltration into the rest of Israel, he wrote.

      Regulation 124, he noted, states that “it is essential to enable nighttime ambushes in populated areas when necessary, against infiltrators.” Blockage of roads to traffic is explained as being crucial for the purposes of “training, tests or maneuvers.” Moreover, censorship is a “crucial means for counter-intelligence.”

      Despite Shamgar’s opinion, later that year, Prime Minister Levi Eshkol canceled the requirement for personal travel permits as a general obligation. Two weeks after that decision, in November 1963, Chief of Staff Tzur wrote a top-secret letter about implementation of the new policy to the officers heading the various IDF commands and other top brass, including the head of Military Intelligence. Tzur ordered them to carry it out in nearly all Arab villages, with a few exceptions – among them Barta’a and Muqeible, in northern Israel.

      In December 1965, Haim Israeli, an adviser to Defense Minister Eshkol, reported to Eshkol’s other aides, Isser Harel and Aviad Yaffeh, and to the head of the Shin Bet, that then-Chief of Staff Yitzhak Rabin opposed legislation that would cancel military rule over the Arab villages. Rabin explained his position in a discussion with Eshkol, at which an effort to “soften” the bill was discussed. Rabin was advised that Harel would be making his own recommendations on this matter.

      At a meeting held on February 27, 1966, Harel issued orders to the IDF, the Shin Bet and the police concerning the prime minister’s decision to cancel military rule. The minutes of the discussion were top secret, and began with: “The mechanism of the military regime will be canceled. The IDF will ensure the necessary conditions for establishment of military rule during times of national emergency and war.” However, it was decided that the regulations governing Israel’s defense in general would remain in force, and at the behest of the prime minister and with his input, the justice minister would look into amending the relevant statutes in Israeli law, or replacing them.

      The historical documents cited here have only made public after a two-year campaign by the Akevot institute against the national archives, which preferred that they remain confidential, Akevot director Lior Yavne told Haaretz. The documents contain no information of a sensitive nature vis-a-vis Israel’s security, Yavne added, and even though they are now in the public domain, the archives has yet to upload them to its website to enable widespread access.

      “Hundreds of thousands of files which are crucial to understanding the recent history of the state and society in Israel remain closed in the government archive,” he said. “Akevot continues to fight to expand public access to archival documents – documents that are property of the public.”

    • Israel is turning an ancient Palestinian village into a national park for settlers

      The unbelievable story of a village outside Jerusalem: from its destruction in 1948 to the ticket issued last week by a parks ranger to a descendent of its refugees, who had the gall to harvest the fruits of his labor on his own land.

      Thus read the ticket issued last Wednesday, during the Sukkot holiday, by ranger Dayan Somekh of the Israel Nature and Parks Authority – Investigations Division, 3 Am Ve’olamo Street, Jerusalem, to farmer Nidal Abed Rabo, a resident of the Jerusalem-area village of Walaja, who had gone to harvest olives on his private land: “In accordance with Section 228 of the criminal code, to: Nidal Abed Rabo. Description of the facts constituting the offense: ‘picking, chopping and destroying an olive tree.’ Suspect’s response: ‘I just came to pick olives. I pick them and put them in a bucket.’ Fine prescribed by law: 730 shekels [$207].” And an accompanying document that reads: “I hereby confirm that I apprehended from Nidal Abed Rabo the following things: 1. A black bucket; 2. A burlap sack. Name of the apprehending officer: Dayan Somekh.”

      Ostensibly, an amusing parody about the occupation. An inspector fines a person for harvesting the fruits of his own labor on his own private land and then fills out a report about confiscating a bucket, because order must be preserved, after all. But no one actually found this report amusing – not the inspector who apparently wrote it in utter seriousness, nor the farmer who must now pay the fine.

      Indeed, the story of Walaja, where this absurdity took place, contains everything – except humor: the flight from and evacuation of the village in 1948; refugee-hood and the establishment of a new village adjacent to the original one; the bisection of the village between annexed Jerusalem and the occupied territories in 1967; the authorities’ refusal to issue blue Israeli IDs to residents, even though their homes are in Jerusalem; the demolition of many structures built without a permit in a locale that has no master construction plan; the appropriation of much of its land to build the Gilo neighborhood and the Har Gilo settlement; the construction of the separation barrier that turned the village into an enclave enclosed on all sides; the decision to turn villagers’ remaining lands into a national park for the benefit of Gilo’s residents and others in the area; and all the way to the ridiculous fine issued by Inspector Somekh.

      This week, a number of villagers again snuck onto their lands to try to pick their olives, in what looks like it could be their final harvest. As it was a holiday, they hoped the Border Police and the parks authority inspectors would leave them alone. By next year, they probably won’t be able to reach their groves at all, as the checkpoint will have been moved even closer to their property.

      Then there was also this incident, on Monday, the Jewish holiday of Simhat Torah. Three adults, a teenager and a horse arrived at the neglected groves on the mountainside below their village of Walaja. They had to take a long and circuitous route; they say the horse walked 25 kilometers to reach the olive trees that are right under their noses, beneath their homes. A dense barbed-wire fence and the separation barrier stand between these people and their lands. When the national park is built here and the checkpoint is moved further south – so that only Jews will be able to dip undisturbed in Ein Hanya, as Nir Hasson reported (“Jerusalem reopens natural spring, but not to Palestinians,” Oct. 15) – it will mean the end of Walaja’s olive orchards, which are planted on terraced land.

      The remaining 1,200 dunams (300 acres) belonging to the village, after most of its property was lost over the years, will also be disconnected from their owners, who probably won’t be able to access them again. An ancient Palestinian village, which numbered 100 registered households in 1596, in a spectacular part of the country, will continue its slow death, until it finally expires for good.

      Steep slopes and a deep green valley lie between Jerusalem and Bethlehem, filled with oak and pine trees, along with largely abandoned olive groves. “New” Walaja overlooks this expanse from the south, the Gilo neighborhood from the northeast, and the Cremisan Monastery from the east. To the west is where the original village was situated, between the moshavim of Aminadav and Ora, both constructed after the villagers fled – frightened off by the massacre in nearby Deir Yassin and in fear of bombardment.

      Aviv Tatarsky, a longtime political activist on behalf of Walaja and a researcher for the Ir Amim nonprofit organization, says the designated national park is supposed to ensure territorial contiguity between the Etzion Bloc and Jerusalem. “Since we are in the territory of Jerusalem, and building another settler neighborhood could cause a stir, they are building a national park, which will serve the same purpose,” he says. “The national park will Judaize the area once and for all. Gilo is five minutes away. If you live there, you will have a park right next door and feel like it’s yours.”

      As Tatarsky describes the blows suffered by the village over the years, brothers Walid and Mohammed al-‘Araj stand on a ladder below in the valley, in the shade of the olive trees, engrossed in the harvest.

      Walid, 52, and Mohammed, 58, both live in Walaja. Walid may be there legally, but his brother is there illegally, on land bequeathed to them by their uncle – thanks to yet another absurdity courtesy of the occupation. In 1995, Walid married a woman from Shoafat in East Jerusalem, and thus was able to obtain a blue Israeli ID card, so perhaps he is entitled to be on his land. His brother, who lives next door, however, is an illegal resident on his land: He has an orange ID, as a resident of the territories.

      A sewage line that comes out of Beit Jala and is under the responsibility of Jerusalem’s Gihon water company overflows every winter and floods the men’s olive grove with industrial waste that has seriously damaged their crop. And that’s in addition, of course, to the fact that most of the family is unable to go work the land. The whole area looks quite derelict, overgrown with weeds and brambles that could easily catch fire. In previous years, the farmers would receive an entry permit allowing them to harvest the olives for a period of just a few days; this year, even that permit has not yet been forthcoming.

      The olives are black and small; it’s been a bad year for them and for their owners.

      “We come here like thieves to our own land,” says Mohammed, the older brother, explaining that three days beforehand, a Border Police jeep had showed up and chased them away. “I told him: It’s my land. They said okay and left. Then a few minutes later, another Border Police jeep came and the officer said: Today there’s a general closure because of the holiday. I told him: Okay, just let me take my equipment. I’m on my land. He said: Don’t take anything. I left. And today I came back.”

      You’re not afraid? “No, I’m not afraid. I’m on my land. It’s registered in my name. I can’t be afraid on my land.”

      Walid says that a month ago the Border Police arrived and told him he wasn’t allowed to drive on the road that leads to the grove, because it’s a “security road.” He was forced to turn around and go home, despite the fact that he has a blue ID and it is not a security road. Right next to it, there is a residential building where a Palestinian family still lives.

      Some of Walaja’s residents gave up on their olive orchards long ago and no longer attempt to reach their lands. When the checkpoint is moved southward, in order to block access by Palestinians to the Ein Hanya spring, the situation will be even worse: The checkpoint will be closer to the orchards, meaning that the Palestinians won’t be permitted to visit them.

      “This place will be a park for people to visit,” says Walid, up on his ladder. “That’s it; that will be the end of our land. But we won’t give up our land, no matter what.” Earlier this month, one local farmer was detained for several hours and 10 olive trees were uprooted, on the grounds that he was prohibited from being here.

      Meanwhile, Walid and Mohammed are collecting their meager crop in a plastic bucket printed with a Hebrew ad for a paint company. The olives from this area, near Beit Jala, are highly prized; during a good year the oil made from them can fetch a price of 100 shekels per liter.

      A few hundred meters to the east are a father, a son and a horse. Khaled al-‘Araj, 51, and his son, Abed, 19, a business student. They too are taking advantage of the Jewish holiday to sneak onto their land. They have another horse, an original Arabian named Fatma, but this horse is nameless. It stands in the shade of the olive tree, resting from the long trek here. If a Border Police force shows up, it could confiscate the horse, as has happened to them before.

      Father and son are both Walaja residents, but do not have blue IDs. The father works in Jerusalem with a permit, but it does not allow him to access his land.

      “On Sunday,” says Khaled, “I picked olives here with my son. A Border Police officer arrived and asked: What are you doing here? He took pictures of our IDs. He asked: Whose land is this? I said: Mine. Where are the papers? At home. I have papers from my grandfather’s time; everything is in order. But he said: No, go to DCO [the Israeli District Coordination Office] and get a permit. At first I didn’t know what he meant. I have a son and a horse and they’ll make problems for me. So I left.”

      He continues: “We used to plow the land. Now look at the state it’s in. We have apricot and almond trees here, too. But I’m an illegal person on my own land. That is our situation. Today is the last day of your holiday, that’s why I came here. Maybe there won’t be any Border Police.”

      “Kumi Ori, ki ba orekh,” says a makeshift monument in memory of Ori Ansbacher, a young woman murdered here in February by a man from Hebron. Qasem Abed Rabo, a brother of Nidal, who received the fine from the park ranger for harvesting his olives, asks activist Tatarsky if he can find out whether the house he owns is considered to be located in Jerusalem or in the territories. He still doesn’t know.

      “Welcome to Nahal Refaim National Park,” says a sign next to the current Walaja checkpoint. Its successor is already being built but work on it was stopped for unknown reasons. If and when it is completed, Ein Hanya will become a spring for Jews only and the groves on the mountainside below the village of Walaja will be cut off from their owners for good. Making this year’s harvest Walaja’s last.

      https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-israel-is-turning-an-ancient-palestinian-village-into-a-national-p
      https://seenthis.net/messages/807722

    • Sans mémoire des lieux ni lieux de mémoire. La Palestine invisible sous les forêts israéliennes

      Depuis la création de l’État d’Israël en 1948, près de 240 millions d’arbres ont été plantés sur l’ensemble du territoire israélien. Dans l’objectif de « faire fleurir le désert », les acteurs de l’afforestation en Israël se situent au cœur de nombreux enjeux du territoire, non seulement environnementaux mais également identitaires et culturels. La forêt en Israël représente en effet un espace de concurrence mémorielle, incarnant à la fois l’enracinement de l’identité israélienne mais également le rappel de l’exil et de l’impossible retour du peuple palestinien. Tandis que 86 villages palestiniens détruits en 1948 sont aujourd’hui recouverts par une forêt, les circuits touristiques et historiques officiels proposés dans les forêts israéliennes ne font jamais mention de cette présence palestinienne passée. Comment l’afforestation en Israël a-t-elle contribué à l’effacement du paysage et de la mémoire palestiniens ? Quelles initiatives existent en Israël et en Palestine pour lutter contre cet effacement spatial et mémoriel ?

      https://journals.openedition.org/bagf/6779

    • Septembre 2021, un feu de forêt ravage Jérusalem et dévoile les terrassements agricoles que les Palestinien·nes avaient construit...
      Voici une image :

      « La nature a parlé » : un feu de forêt attise les rêves de retour des Palestiniens

      Un gigantesque incendie près de Jérusalem a détruit les #pins_européens plantés par les sionistes, exposant ainsi les anciennes terrasses palestiniennes qu’ils avaient tenté de dissimuler.

      Au cours de la deuxième semaine d’août, quelque 20 000 dounams (m²) de terre ont été engloutis par les flammes dans les #montagnes de Jérusalem.

      C’est une véritable catastrophe naturelle. Cependant, personne n’aurait pu s’attendre à la vision qui est apparue après l’extinction de ces incendies. Ou plutôt, personne n’avait imaginé que les incendies dévoileraient ce qui allait suivre.

      Une fois les flammes éteintes, le #paysage était terrible pour l’œil humain en général, et pour l’œil palestinien en particulier. Car les incendies ont révélé les #vestiges d’anciens villages et terrasses agricoles palestiniens ; des terrasses construites par leurs ancêtres, décédés il y a longtemps, pour cultiver la terre et planter des oliviers et des vignes sur les #pentes des montagnes.

      À travers ces montagnes, qui constituent l’environnement naturel à l’ouest de Jérusalem, passait la route Jaffa-Jérusalem, qui reliait le port historique à la ville sainte. Cette route ondulant à travers les montagnes était utilisée par les pèlerins d’Europe et d’Afrique du Nord pour visiter les lieux saints chrétiens. Ils n’avaient d’autre choix que d’emprunter la route Jaffa-Jérusalem, à travers les vallées et les ravins, jusqu’au sommet des montagnes. Au fil des siècles, elle sera foulée par des centaines de milliers de pèlerins, de soldats, d’envahisseurs et de touristes.

      Les terrasses agricoles – ou #plates-formes – que les agriculteurs palestiniens ont construites ont un avantage : leur durabilité. Selon les estimations des archéologues, elles auraient jusqu’à 600 ans. Je crois pour ma part qu’elles sont encore plus vieilles que cela.

      Travailler en harmonie avec la nature

      Le travail acharné du fermier palestinien est clairement visible à la surface de la terre. De nombreuses études ont prouvé que les agriculteurs palestiniens avaient toujours investi dans la terre quelle que soit sa forme ; y compris les terres montagneuses, très difficiles à cultiver.

      Des photographies prises avant la Nakba (« catastrophe ») de 1948, lorsque les Palestiniens ont été expulsés par les milices juives, et même pendant la seconde moitié du XIXe siècle montrent que les oliviers et les vignes étaient les deux types de plantation les plus courants dans ces régions.

      Ces végétaux maintiennent l’humidité du sol et assurent la subsistance des populations locales. Les #oliviers, en particulier, aident à prévenir l’érosion des sols. Les oliviers et les #vignes peuvent également créer une barrière naturelle contre le feu car ils constituent une végétation feuillue qui retient l’humidité et est peu gourmande en eau. Dans le sud de la France, certaines routes forestières sont bordées de vignes pour faire office de #coupe-feu.

      Les agriculteurs palestiniens qui les ont plantés savaient travailler en harmonie avec la nature, la traiter avec sensibilité et respect. Cette relation s’était formée au cours des siècles.

      Or qu’a fait l’occupation sioniste ? Après la Nakba et l’expulsion forcée d’une grande partie de la population – notamment le nettoyage ethnique de chaque village et ville se trouvant sur l’itinéraire de la route Jaffa-Jérusalem –, les sionistes ont commencé à planter des #pins_européens particulièrement inflammables sur de vastes portions de ces montagnes pour couvrir et effacer ce que les mains des agriculteurs palestiniens avaient créé.

      Dans la région montagneuse de Jérusalem, en particulier, tout ce qui est palestinien – riche de 10 000 ans d’histoire – a été effacé au profit de tout ce qui évoque le #sionisme et la #judéité du lieu. Conformément à la mentalité coloniale européenne, le « milieu » européen a été transféré en Palestine, afin que les colons puissent se souvenir de ce qu’ils avaient laissé derrière eux.

      Le processus de dissimulation visait à nier l’existence des villages palestiniens. Et le processus d’effacement de leurs particularités visait à éliminer leur existence de l’histoire.

      Il convient de noter que les habitants des villages qui ont façonné la vie humaine dans les montagnes de Jérusalem, et qui ont été expulsés par l’armée israélienne, vivent désormais dans des camps et communautés proches de Jérusalem, comme les camps de réfugiés de Qalandiya et Shuafat.

      On trouve de telles forêts de pins ailleurs encore, dissimulant des villages et fermes palestiniens détruits par Israël en 1948. Des institutions internationales israéliennes et sionistes ont également planté des pins européens sur les terres des villages de #Maaloul, près de Nazareth, #Sohmata, près de la frontière palestino-libanaise, #Faridiya, #Kafr_Anan et #al-Samoui sur la route Akka-Safad, entre autres. Ils sont maintenant cachés et ne peuvent être vus à l’œil nu.

      Une importance considérable

      Même les #noms des villages n’ont pas été épargnés. Par exemple, le village de Suba est devenu « #Tsuba », tandis que #Beit_Mahsir est devenu « #Beit_Meir », #Kasla est devenu « #Ksalon », #Saris est devenu « #Shoresh », etc.

      Si les Palestiniens n’ont pas encore pu résoudre leur conflit avec l’occupant, la nature, elle, s’est désormais exprimée de la manière qu’elle jugeait opportune. Les incendies ont révélé un aspect flagrant des composantes bien planifiées et exécutées du projet sioniste.

      Pour les Palestiniens, la découverte de ces terrasses confirme leur version des faits : il y avait de la vie sur cette terre, le Palestinien était le plus actif dans cette vie, et l’Israélien l’a expulsé pour prendre sa place.

      Ne serait-ce que pour cette raison, ces terrasses revêtent une importance considérable. Elles affirment que la cause palestinienne n’est pas morte, que la terre attend le retour de ses enfants ; des personnes qui sauront la traiter correctement.

      https://www.middleeasteye.net/fr/opinion-fr/israel-jerusalem-incendies-villages-palestiniens-nakba-sionistes-reto

      –—

      An Israeli Forest to Erase the Ruins of Palestinian Agricultural Terraces

      “Our forest is growing over, well, over a ruined village,” A.B. Yehoshua wrote in his novella “Facing the Forests.” The massive wildfire in the Jerusalem Hills last week exposed the underpinning of the view through the trees. The agricultural terraces were revealed in their full glory, and also revealed a historic record that Israel has always sought to obscure and erase – traces of Palestinian life on this land.

      On my trips to the West Bank and the occupied territories, when I passed by the expansive areas of Palestinian farmland, I was always awed by the sight of the long chain of terraces, mustabat or mudrajat in Arabic. I thrilled at their grandeur and the precision of the work that attests to the connection between the Palestinian fellah and his land. I would wonder – Why doesn’t the same “phenomenon” exist in the hills of the Galilee?

      When I grew up, I learned a little in school about Israeli history. I didn’t learn that Israel erased Palestinian agriculture in the Galilee and that the Jewish National Fund buried it once and for all, but I did learn that “The Jews brought trees with them” and planted them in the Land of Israel. How sterile and green. Greta Thunberg would be proud of you.

      The Zionist movement knew that in the war for this land it was not enough to conquer the land and expel its inhabitants, you also had to build up a story and an ethos and a narrative, something that will fit with the myth of “a people without a land for a land without a people.” Therefore, after the conquest of the land and the expulsion, all trace of the people who once lived here had to be destroyed. This included trees that grew without human intervention and those that were planted by fellahin, who know this land as they do their children and as they do the terraces they built in the hills.

      This is how white foreigners who never in their lives were fellahin or worked the land for a living came up with the national forestation project on the ruins of Arab villages, which David Ben-Gurion decided to flatten, such as Ma’alul and Suhmata. The forestation project including the importation of cypress and pine trees that were alien to this land and belong to colder climes, so that the new inhabitants would feel more at home and less as if they were in somebody else’s home.

      The planting of combustible cypresses and pines, which are not suited to the weather in this land, is not just an act of national erasure of the Palestinian natives, but also an act of arrogance and patronage, characteristics typical of colonialist movements throughout the world. All because they did not understand the nature, in both senses of the word, of the countries they conquered.

      Forgive me, but a biblical-historical connection is not sufficient. Throughout the history of colonialism, the new settlers – whether they ultimately left or stayed – were unable to impose their imported identity on the new place and to completely erase the place’s native identity. It’s a little like the forests surrounding Jerusalem: When the fire comes and burns them, one small truth is revealed, after so much effort went into concealing it.

      https://www.haaretz.com/opinion/.premium-an-israeli-forest-to-erase-the-ruins-of-palestinian-agricultural-t

      et ici :
      https://seenthis.net/messages/928766

    • Planter un arbre en Israël : une forêt rédemptrice et mémorielle

      Tout au long du projet sioniste, le végétal a joué un rôle de médiateur entre la terre rêvée et la terre foulée, entre le texte biblique et la réalité. Le réinvestissement national s’est opéré à travers des plantes connues depuis la diaspora, réorganisées en scènes signifiantes pour la mémoire et l’histoire juive. Ce lien de filiation entre texte sacré et paysage débouche sur une pratique de plantation considérée comme un acte mystique de régénération du monde.

      https://journals.openedition.org/diasporas/258

  • #Interpol makes first border arrest using Biometric Hub to ID suspect

    Global database of faces and fingerprints proves its worth.

    European police have for the first time made an arrest after remotely checking Interpol’s trove of biometric data to identify a suspected smuggler.

    The fugitive migrant, we’re told, gave a fake name and phony identification documents at a police check in Sarajevo, Bosnia and Herzegovina, while traveling toward Western Europe. And he probably would have got away with it, too, if it weren’t for you meddling kids Interpol’s Biometric Hub – a recently activated tool that uses French identity and biometrics vendor Idemia’s technology to match people’s biometric data against the multinational policing org’s global fingerprint and facial recognition databases.

    “When the smuggler’s photo was run through the Biometric Hub, it immediately flagged that he was wanted in another European country,” Interpol declared. “He was arrested and is currently awaiting extradition.”

    Interpol introduced the Biometric Hub – aka BioHub – in October, and it is now available to law enforcement in all 196 member countries.

    Neither Interpol nor Idemia immediately responded to The Register’s questions about how the technology and remote access works.

    But Cyril Gout, Interpol’s director of operational support and analysis, offered a canned quote: “The Biometric Hub helps law enforcement officers know right away whether the person in front of them poses a security risk.”

    That suggests Interpol member states’ constabularies can send biometric data to BioHub from the field and receive real-time info about suspects’ identities.

    The multinational policing org has said that Hub’s “biometric core” combines Interpol’s existing fingerprint and facial recognition databases, which both use Idemia tech, with a matching system also based on Idemia’s biometric technology.

    Interpol and Idemia have worked together for years. In 1999, he police organization chose Idemia to develop its fingerprint database, called the Automated Fingerprint Identification System (AFIS). And then in 2016, Interpol inked another contract with Idemia to use the French firm’s facial recognition capabilities for the Interpol Face Recognition System (IFRS).

    According to Idemia, the latest version of its Multibiometric Identification System, MBIS 5, uses “new generation algorithms which provide a higher matching accuracy rate with a shorter response time and a more user-friendly interface.”

    In its first phase, Interpol will use MBIS 5 to identify persons of interest (POIs) for police investigations.

    A second phase, which will take two years to become fully operational, will extend the biometric checks to border control points. During this phase the system will be able to perform up to one million forensic searches per day – including fingerprints, palm prints, and portraits.

    Interpol expects the combined fingerprints and facial recognition system will speed future biometric searches. Instead of running a check against separate biometric databases, BioHub allows police officers to submit data to both through one interface, and it only requires human review if the “quality of the captured biometric data is such that the match falls below a designated threshold.”

    To address data governance concerns, Interpol claims BioHub complies with its data protection framework. Additionally, scans of faces and hands uploaded to the Hub are not added to Interpol’s criminal databases or made visible to other users. Any data that does not result in a match is deleted following the search, we’re told.

    While The Register hasn’t heard of any specific data privacy and security concerns related to BioHub, we’re sure it’s only a matter of time before it’s misused.

    America’s Transportation Security Agency (TSA) over the summer also said it intends to expand its facial recognition program, which also uses Idemia’s tech, to screen air travel passengers to 430 US airports. The TSA wants that capability in place within ten years.

    The TSA announcement was swiftly met with opposition from privacy and civil rights organizations, along with some US senators who took issue [PDF] with the tech.

    https://www.theregister.com/2023/12/01/interpol_biohub_arrest

    #frontières #contrôles_frontaliers #technologie #empreintes_digitales #biométrie #Interpol #migrations #asile #réfugiés #Biometric_Hub #Balkans #route_des_Balkans #Bosnie-Herzégovine #Idemia #reconnaissance_faciale #passeurs #BioHub #extradition #sécurité #risque #interopérabilité #base_de_données #Automated_Fingerprint_Identification_System (#AFIS) #Interpol_Face_Recognition_System (#IFRS) #Multibiometric_Identification_System #MBIS_5 #algorithmes #persons_of_interest (#POIs) #portraits #Transportation_Security_Agency (#TSA)

  • L’erosione di Schengen, sempre più area di libertà per pochi a danno di molti

    I Paesi che hanno aderito all’area di libera circolazione strumentalizzano il concetto di minaccia per la sicurezza interna per poter ripristinare i controlli alle frontiere e impedire così l’ingresso ai migranti indesiderati. Una forzatura, praticata anche dall’Italia, che scatena riammissioni informali e violazioni dei diritti. L’analisi dell’Asgi

    Lo spazio Schengen sta venendo progressivamente eroso e ridotto dagli Stati membri dell’Unione europea che, con il pretesto della sicurezza interna o di “minacce” esterne, ne sospendono l’applicazione. Ed è così che da spazio di libera circolazione, Schengen si starebbe trasformando sempre più in un labirinto creato per isolare e respingere le persone in transito e i cittadini stranieri.

    Per l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) la sospensione della libera circolazione, che dovrebbe essere una pratica emergenziale da attivarsi solo nel caso di minacce gravi per la sicurezza di un Paese, rischia infatti di diventare una prassi ricorrente nella gestione dei flussi migratori.

    A fine ottobre di quest’anno il governo italiano ha riattivato i controlli al confine con la Slovenia, giustificando l’iniziativa con l’aumento del rischio interno a seguito della guerra in atto a Gaza e da possibili infiltrazioni terroristiche. La decisione è stata anche proposta come reazione alla pressione migratoria a cui è soggetto il Paese. Lo stesso giorno in cui l’Italia ha annunciato la sospensione della libera circolazione -misura prorogata- la stessa scelta è stata presa anche da Slovenia, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Germania. Una prassi che rischia di agevolare le violazioni dei diritti delle persone in transito. “Questa pratica, così come l’uso degli accordi bilaterali di riammissione, ha di fatto consentito alle autorità di frontiera dei vari Stati membri di impedire l’ingresso nel territorio e di applicare respingimenti ai danni di persone migranti e richiedenti asilo, in violazione di numerose norme nazionali e sovranazionali”, scrive l’Asgi.

    Il “Codice frontiere Schengen” prevede che i confini interni possano essere attraversati in un qualsiasi punto senza controlli sulle persone, in modo indipendente dalla loro nazionalità. Secondo i dati del Consiglio dell’Unione europea, circa 3,5 milioni di persone attraverserebbero questi confini ogni giorno mentre in 1,7 milioni lavorerebbero in un Paese diverso da quello di residenza, attraversando così una frontiera interna. In caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna in uno Stato membro, però, quest’ultimo è autorizzato a ripristinare i controlli “in tutte o in alcune parti delle sue frontiere interne per un periodo limitato non superiore a 30 giorni o per la durata prevedibile della minaccia grave”. Tuttavia, lo stesso Codice afferma che “la migrazione e l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini di Paesi terzi non dovrebbero in sé essere considerate una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza”.

    Inoltre, anche nel caso in cui vengano introdotte restrizioni alla libera circolazione, queste vanno applicate in accordo con il diritto delle persone in transito. “La reintroduzione temporanea dei controlli non può giustificare alcuna deroga al rispetto dei diritti fondamentali delle persone straniere che fanno ingresso nel territorio degli Stati membri e, nel caso specifico dell’Italia, attraverso il confine italo-sloveno -ribadisce l’Asgi-. In particolare, il controllo non può esentare le autorità di frontiera dalla verifica delle situazioni individuali delle persone straniere che intendano accedere nel territorio dello Stato e che intendano presentare domanda di asilo”. In particolare, la sicurezza dei confini non può impedire l’accesso alle procedure di protezione internazionale per chi ne fa richieste e di riceve informazioni sulla possibilità di farlo. Infine, i controlli non possono portare a una violazione del diritto di non respingimento, che impedisce l’espulsione di una persona verso Paese dove potrebbe subire trattamenti inumani o degradanti o dove possa essere soggetta a respingimenti “a catena” verso Stati che si macchiano di queste pratiche.

    Le operazioni di pattugliamento lungo il confine tra Italia e Slovenia presentano criticità proprio in tal senso. Secondo le notizie riportate dai media e le recenti dichiarazioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, l’Italia avrebbe applicato ulteriori misure che hanno l’evidente effetto di impedire alla persona straniera l’accesso al territorio nazionale e ai diritti che ne conseguono. Già a settembre del 2023 il ministro aveva dichiarato, in risposta a un’interrogazione parlamentare, la ripresa dell’attività congiunta tra le forze di polizia di Italia e Slovenia a partire dal 2022. Sottolineando come grazie all’accordo fosse stato possibile impedire, per tutto il 2023, l’ingresso sul territorio nazionale di circa 1.900 “migranti irregolari”. “Preoccupa, inoltre, l’opacità operativa che caratterizza questi interventi di polizia: le modalità, infatti, con le quali vengono condotti sono poco chiare e difficilmente osservabili ma celano evidenti profili di criticità e potenziali lesioni di diritti”.

    Le azioni di polizia, infatti, avrebbero avuto luogo già in territorio italiano oltre il confine: una simile procedura appare in linea con quanto previsto dalle procedure di riammissione bilaterale, ma in contrasto con il Codice frontiere Schengen, che presuppone che i controlli possano essere svolti solo presso i valichi di frontiera comunicati alle istituzioni competenti. Una prassi simile è stata riscontrata lungo il confine italo-francese, dove l’Asgi ha identificato la coesistenza di pratiche legate alla sospensione della libera circolazione con procedure di riammissione informale.

    “La libera circolazione nello spazio europeo è una delle conquiste più importanti dei nostri tempi -è la conclusione dell’Asgi-. Il suo progressivo smantellamento dovrebbe essere dettato da una effettiva emergenza e contingenza, entrambe condizioni che sembrano non rinvenibili nelle motivazioni addotte dall’Italia e dagli altri Stati membri alla Commissione europea. La libertà di circolazione, pilastro fondamentale dell’area Schengen, rivela forse a tutt’oggi la sua vera natura: un’area di libertà per pochi a danno di molti”.

    https://altreconomia.it/lerosione-di-schengen-sempre-piu-area-di-liberta-per-pochi-a-danno-di-m

    #Schengen #contrôles_frontaliers #contrôles_systématiques_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #frontières #Europe #frontières_intérieures #espace_Schengen #sécurité #libre_circulation #Italie #Slovénie #terrorisme #Gaza #Slovénie #Autriche #République_Tchèque #Slovaquie #Pologne #Allemagne #accords_bilatéraux #code_frontières #droits_humains #droits_fondamentaux #droit_d'asile #refoulements_en_chaîne #patrouilles_mixtes #réadmissions_informelles #France #frontière_sud-alpine

    –-

    ajouté au fil de discussion sur la réintroduction des contrôles systématiques à la frontière entre Italie et Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/1021994

  • Europe’s Nameless Dead

    As more people try to reach Western Europe through the Balkans, taking increasingly dangerous routes to evade border police, many are dying without a trace

    When hundreds of thousands of refugees crossed through the Balkans in 2015, border controls were limited and there were few fences or walls. The route was largely open.

    After several years of lull, the number of people making this journey recently increased again. Last year saw the highest number of crossings since 2015, predominantly due to ongoing conflicts in Afghanistan and hostile treatment of refugees in Turkey.

    But the Balkan route has changed in the last eight years. With the help of funding from both the EU and the UK, countries in the Balkans have erected fences and built walls. When border police catch people seeking asylum, they often force them back over the border.

    Subsequently, those making the journey often take longer and more dangerous routes in order to evade the police – and the consequences can be deadly; people are freezing to death in forests, drowning in rivers or dying from sheer exhaustion.

    There is no official data on the number of dead and missing migrants in the Balkans. Efforts that have been made to collect data – for example the IOM’s Missing Migrants Project – are based mostly on media reports and are likely to be significantly underestimated.

    With RFE/RL, Der Spiegel, ARD, the i newspaper, Solomon and academics from Aston, Liverpool and Nottingham Universities, we sought to measure the scale of migrant deaths at the borders of a commonly trodden route spanning Bulgaria, Serbia and Bosnia. Crucially, we sought to find out what subsequently happens to the bodies of these people and what their families go through trying to find them.

    We found that the hostility people face at the borders of Europe in life continues into death. State authorities make little to no effort to identify dead migrants or inform their families, while individual doctors, NGO workers and activists do what they can to fill in the gaps. Unidentified bodies end up piled in morgues or buried without a trace.
    METHODS

    It was clear from the outset that it would be impossible to get comprehensive numbers on migrant deaths, given some bodies will never be found, particularly when people have drowned in rivers or died deep in forests.

    In Bulgaria, Serbia and Bosnia, we requested data from police departments, prosecutors’ offices, courts and morgues on how many unidentified bodies they had recorded in recent years. While some provided information, most failed to respond or declined to disclose the data.

    But through this process we managed to obtain data on the number of bodies known or presumed to be migrants received by six morgues near the borders along the Bulgaria-Serbia-Bosnia route. We found 155 such cases across the six facilities since the start of 2022 – the majority (92) dying this year alone.

    By speaking with forensic pathologists in Bulgaria, Serbia and Bosnia, we found that in each of the three countries, the legal protocol is that an autopsy must be performed on all unidentified bodies – but what happens next is less clear. Information on the deceased is fragmented and held across different institutions, with no unified system which proactively seeks to connect them with families looking for them.

    Through interviews with more than a dozen people whose family members had gone missing or died along the route, we learnt that they are left with no idea where to look or who to ask. We found WhatsApp groups and Facebook pages connecting networks of concerned families, desperately sharing photos and information about their lost loved ones. Some NGOs in Bulgaria and Serbia said they are contacted about such cases every day.

    In some cases when families approached Burgas morgue in south-eastern Bulgaria – where we recorded the highest number of migrant bodies – they were told by staff that they could only check the bodies if they paid them cash bribes. This was confirmed by multiple testimonies and NGOs operating in the area.
    STORYLINES

    RFE/RL followed the case of one Syrian father’s search for his son. Husam Adin Bibars, a refugee in Denmark, travelled to Bulgaria after his son, Majd Addin Bibars, went missing there while trying to reach Western Europe.

    After a day and a half of asking different institutions, Bibars was directed to a local police station near the Turkish border – where he was shown a photo of Majd’s lifeless body. He was told he had died of thirst, exhaustion and cold – and that he had been buried four days after his body was found.

    In an interview with ARD, the prosecutor in Yambol, a Bulgarian city close to the Turkish border, near where Majd was buried, said his body was buried after four days in keeping with their procedure of carrying out burials of unidentified migrants “fast” to free up space in the morgue.

    Some 900 kilometres away in Bosnia, iNews spoke to Dr Vidak Simić, a forensic pathologist responsible for performing autopsies on bodies found in the Drina River, which runs along the Serbian border. He said that in 2023 alone, he had examined 28 bodies presumed to be migrants, compared with five last year. The vast majority remain unidentified and are now buried in graves marked ‘NN’ – an abbreviation for a Latin term for a person with no name.

    The doctor is now working with local activist Nihad Suljić to try to help families find their missing loved ones, by checking his autopsy files to see if any unidentified bodies match the description of missing people. But he says a proper system needs to be put in place for this. “[Families] enter a painstaking process, through embassies, burial organisations, to obtain a bone sample, so that they can compare it with one of their family members,” he says.

    https://www.lighthousereports.com/investigation/europes-nameless-dead

    #mourir_aux_frontières #frontières #morts_aux_frontières #migrations #asile #réfugiés #décès #morts #Balkans #route_des_Balkans #visualisation #cartographie

    ping @reka

    • Sie erfrieren in Wäldern, ertrinken in Flüssen

      Europas namenlose Tote: Viele Flüchtende, die auf der Balkanroute sterben, werden nie identifiziert. Angehörige suchen verzweifelt nach Gewissheit – manche müssen sich den Zugang zu Leichenhallen erkaufen. Der SPIEGEL-Report.

      (#paywall)

      https://www.spiegel.de/ausland/vermisste-fluechtlinge-auf-der-balkanroute-europas-namenlose-tote-a-5d0b55a7

    • Namenloser Tod in Bulgarien

      An der türkisch-bulgarischen Grenze endet der Versuch von Migranten, in die EU zu kommen, oft in tödlicher Erschöpfung. Die Behörden begraben die Leichen schnell - ohne Identifizierung. Für die Angehörigen ist das ein weiteres Trauma.

      Das Porträt hängt zwischen den Fenstern im ansonsten schmucklosen Wohnzimmer. Wenn Hussam Adin Bibars es von der Wand nimmt, um es zu zeigen, wirkt es, als würde er eine Bürde tragen.

      Der gut aussehende junge Mann mit den blauen Augen und dem akkurat gestutzten, schwarzen Bart auf dem Foto ist sein Sohn. Das letzte Lebenszeichen von ihm kam im Herbst. Majid hatte sich auf den Weg gemacht, um zu seiner Familie zu ziehen. Sein Vater war bereits im Jahr 2015 aus Syrien geflohen und lebt heute in Dänemark.

      Um seinen Plan in die Tat umzusetzen, musste Majid über die berüchtigte Balkanroute, die in den vergangenen Jahren immer gefährlicher geworden ist. Die Außengrenzen werden strenger bewacht, Geflüchtete und ihre Schleuser wählen längere und gefährlichere Routen, um ein Aufeinandertreffen mit der Polizei zu vermeiden.

      Verloren im „Dreieck des Todes“

      Der Weg führt an der türkisch-bulgarischen Grenze durch dichte, endlose Wälder. „Dreieck des Todes“ nennen sie das Gebiet hier, weil dort besonders viele tote Körper gefunden wurden. Immer wieder verirren sich Flüchtlinge, sterben an Dehydrierung und Erschöpfung.

      Oft sind es Mitarbeiter von NGOs wie Diana Dimova, die die Toten finden. Vergangenes Jahr hätten sie zehn bis zwölf Notrufe erreicht, erzählt sie, dieses Jahr habe sie schon nicht mehr zählen können, es seien aber auf jeden Fall mehr als 70 gewesen.

      Nach Recherchen des ARD-Studios Wien in Kooperation mit Lighthouse Reports, dem Spiegel, RFE/RL, Solomon und inews starben allein in den vergangenen zwei Jahren mindestens 93 Menschen auf ihrem Weg durch Bulgarien.

      Dem Rechercheteam liegen zahlreiche Videos und Fotos Geflüchteter vor. Sie stehen neben ihren sterbenden Weggefährten, betten sie auf Jacken, versuchen sie zuzudecken und müssen sie schließlich auf dem Waldboden zurücklassen, der starre Blick eingefangen auf einem wackeligen Handyvideo.

      Wer zu schwach ist, wird zurückgelassen

      Hussam Adin Bibars erfährt, dass auch Majid nicht genug zu trinken hat. Er wird immer schwächer, berichtet von Bauchkrämpfen und kann nicht mehr weiterlaufen. Sein Vater macht sich Sorgen, versucht, mit dem Schleuser in Kontakt zu kommen.

      Der Schmuggler sagte, dass sich der Gesundheitszustand von Majid verschlechtert habe. Sie hätten ihn im Wald zurückgelassen. Ich habe versucht, ihm zu erklären, dass Majid ein Mensch ist und man ihn in so einem Zustand nicht einfach im Wald zurücklassen kann. Ich habe den Schmuggler gebeten, Majid an die nächstmögliche Behörde zu übergeben.

      Verzweifelte Suche in Bulgarien

      Als der Kontakt abbricht, macht Hussam sich auf eigene Faust auf die Suche. Er reist nach Bulgarien, klappert Krankenhäuser ab, schließlich auch Leichenhallen.

      In der Gerichtsmedizin in Yambol, einer Stadt im Südosten des Landes, findet er eine erste Spur, die ihn zu seinem Sohn führen könnte. Ein Körper, der zu seiner Beschreibung passt, sei dort gewesen, erzählt man ihm.

      Auf der Polizeistation zeigt man ihm schließlich Fotos, man habe den Leichnam auf einem Feld gefunden.

      Was bleibt: eine Grabnummer

      Hussam will seinen Sohn sehen und identifizieren, doch der Leichnam ist bereits weg. Die Polizei hat nur noch die Nummer eines Grabes für ihn. Für den Vater ist diese Nachricht kaum zu ertragen:

      Ich wünschte, ich hätte wenigstens die Chance, Majid ein letztes Mal zu sehen, aber bis heute bin ich mir über seinen Tod absolut unsicher. Ich habe zwar Fotos von ihm gesehen und sein Telefon erhalten, aber ich habe ihn nicht mit eigenen Augen gesehen, so dass mein Verstand immer noch nicht glauben kann, dass die Person in diesem Grab mein Sohn ist.

      Die Begründung der Staatsanwaltschaft

      Bevor der Körper überhaupt identifiziert werden konnte, hatte der Staatsanwalt ihn bereits zur Beerdigung freigegeben. Nach nur vier Tagen. Milen Bozidarov, einer der zuständigen Staatsanwälte für die Region verweist im Interview mit der ARD auf hygienische Gründe.

      Die Leichenhallen seien voll, jeder sei zur Eile angehalten. Wenn man davon ausgehen könne, die tote Person sei ein Migrant und die Angehörigen weit weg, dann gebe es keine sinnvollen Gründe, den Körper weiterhin aufzubewahren.

      Doch Majids Vater wollte seinen Sohn finden, die weite Anreise aus Dänemark hinderte ihn nicht an der Suche. 22 Tage nach seinem Tod war er in Bulgarien vor Ort. Da war es jedoch längst zu spät.

      Das einzige, was er noch besuchen konnte, war ein Erdhaufen auf einem Friedhof inmitten anderer namenloser Gräber.

      „Man will keine Aufmerksamkeit“

      Scharfe Kritik an dieser Praxis des schnellen Begrabens kommt von Anwalt Dragomir Oshavkov aus Burgas. Eigentlich dürfe es keinen Unterschied machen, ob der Tote ein Bulgare oder ein Migrant sei.

      Die Behörden hätten bei Migranten jedoch kein Interesse daran, die wahre Todesursache und die Identität herauszufinden, erzählt er. Man wolle den Prozess einfach schnell und möglichst bequem abschließen.

      Ein Verhalten, das für die EU unwürdig ist. So sieht es Erik Marquardt, der für die Grünen im Europaparlament sitzt und die Migrationspolitik der letzten Jahre genau verfolgt.

      Wenn man nach wenigen Tagen, ohne die Todesursache genau zu ermitteln, Menschen einfach verscharrt und sich nicht um die Angehörigen kümmert, dann will man offenbar nicht, dass die Aufmerksamkeit auf diese Fälle kommt.

      Marquardt bringt die Einführung einer EU-Datenbank ins Spiel und eine Verpflichtung der Mitgliedstaaten, bei der Auffindung von Verwandten mitzuwirken.

      Ein Kind ohne Vater

      Für viele Menschen ist der Weg über die Balkanroute inzwischen tödlich - und endet in einem namenlosen Grab. Auch für Majid.

      Wenige Tage nach seinem Tod kommt Majids Tochter zur Welt. Hussam, der Großvater, zeigt ein Video, auf dem die Kleine unter einer weiß-blauen Samtmütze hervor blinzelt. Sie wird bei ihrer Mutter aufwachsen.

      Wo und wie ihr Vater genau gestorben ist, wird sie niemals erfahren.

      https://www.tagesschau.de/multimedia/audio/audio-177358.html

      https://www.tagesschau.de/ausland/europa/bulgarien-migranten-todesfaelle-100.html

      #Bulgarie #Turquie

    • "Ничии тела". Как стотици хора загинаха в бягството си през България

      През България минава път, който не е на картата и е все по-смъртоносен. По него вървят мигрантите, тръгнали за Западна Европа. Някои умират по пътя. После близките им ги търсят сред хаос и корупция. Разследване на Свободна Европа, Lighthouse Reports, The I Newspaper, Solomon, Der Spiegel и ARD.

      “Това е синът ми!”, възкликва със стегнат в гърлото глас 53-годишният сириец от Алепо Хусам Ал-Дийн Бибарс. Дежурният полицай в Елхово му показва снимка на очевидно мъртъв млад мъж със сиво-черни дрехи. На снимката той лежи в пръстта в землището на село Мелница, Ямболска област.

      Само ден по-рано бащата е пристигнал в България от Дания, където живее, с надеждата да открие безследно изчезналия си син Мажд, на 27 години. Екипът ни съпровожда бащата в това търсене.

      Още 22 дни по-рано Мажд е преминал нелегално българо-турската граница с група, водена от трафиканти. Платил е 7000 евро на каналджиите, за да достигне до заветната дестинация - Германия, където мечтае да се установи с жена си и малката си дъщеря.

      Хусам е чул сина си за последен път ден преди началото на фаталното пътуване. “Как си татко, добре ли си със здравето?” - пита Мажд.
      Хусам и снимката

      “На първата снимка не беше той. На втората обаче беше. Когато го видях, се сринах на земята”, каза бащата. От полицията му обясняват, че синът му е починал от преумора и че по тялото му няма следи от насилие.

      Първоначалната мисъл на Хусам Бибарс е да вземе тялото на Мажд и да го погребе у дома, в Сирия или в Турция, при семейството му. Тази надежда бързо бива попарена. Разбираме, че младият мъж вече е погребан служебно в безименен гроб в Елхово с постановление на окръжен прокурор от Ямбол. Документът е издаден едва 4 дни след като тракторист случайно е намерил тялото му и звъни в полицията.

      “Слушаме, че Европа е земя на свобода, демокрация и човешки права. Но къде са човешките права в това да не мога да видя сина си преди да бъде погребан? Видях единствено гроба му, снимките и телефона му. Това е всичко, което имам от него”, казва бащата.
      Един от стотици загинали

      Мажд Бибарс е един от стотиците бежанци от Близкия изток, изгубили живота си в последните години, докато минават по т.нар. Балкански маршрут в опит да намерят закрила в Европа.

      По данни на европейската гранична агенция Frontex, през 2022 г. броят на опитите за преминаване на европейските граници достига до пиковите равнища от 2016 г., като почти половината от тях, или 145 000 души, са минали именно през Югоизточна Европа.

      Обикновено смъртта по европейските граници се свързва с трагичните корабокрушения по бреговете на Средиземно море. Но различни доклади, като проекта Missing Migrants на Международната организация по миграция показват, че сухопътният маршрут през Балканите става все по-опасен.

      В продължение на повече от седем месеца екип от журналисти на Lighthouse reports, Der Spiegel, ARD, Свободна Европа и Inews проследи и документира десетки случаи на мигранти, безследно изчезнали или изгубили живота си в опит да преминат през три държави от т.нар. Балкански маршрут - България, Сърбия и Босна и Херцеговина.

      За семействата им процесът по издирване се оказва истински кошмар. Ако се окаже, че мигрантът е загинал, те трябва да идентифицират и евентуално да репатрират тялото му, или да го погребат в България.

      Само че на национално и на международно ниво няма нито единен, нито адекватен отговор на техните въпроси. Независимо от разрастващия се мащаб на проблема, роднините на загинали и изчезнали мигранти се сблъскват с липса на информация, незаинтересованост и тромави административни процедури. А ако действието се развива в България - и с корупция в бургаската морга, където се озовава най-големият брой от телата за загиналите.
      “Лавинообразен” ръст на изчезналите и загиналите

      “Често се случва да получа обаждане в полунощ от човек (...), който, на развален английски директно ме пита: Можете ли да намерите брат ми?”, разказва Калинка Янкова от Службата за възстановяване на семейни връзки към Българския червен кръст.

      “Най-много ни мотивира това да намираме хората живи. Но напоследък рядко имаме този късмет”, допълва тя.

      Янкова и екипът й разполагат с 631 сигнала за предполагаемо загинали през тази година и още стотици молби за издирване на изчезнали мигранти, подадени от роднините им. Към момента имат установени около 20 смъртни случая, в които са съдействали на семействата за идентифициране на починалите им близки. Сред тях има и деца.

      “Всичко започна през септември миналата година и оттогава случаите нараснаха лавинообразно”, казва Янкова.

      Думите й се потвърждават и от данните на правозащитната организация Фондация “Достъп до права”, или ФАР, която само за месеците септември и октомври 2023 г. е получила на своя спешен телефон 70 сигнала за изчезнали на територията на страната мигранти. За трима от тях по-късно разбират, че са починали в горите около град Средец.

      “В около 95 процента от случаите това са роднини, които се свързват с нас, посочвайки България, като държава, в която те за последен път са се чули с лицето”, казаха от ФАР.

      В останалите около 5 процента лично трафикантите подават сигнали за бедстващи хора, но това се случва часове след като човекът е бил изоставен, за да се избегне рискът от това служители на гранична полиция да задържат групата или да я върнат в Турция - практика, за която ви разказахме в последните ни разследвания. Основните места, където се намират лицата, са в горите около Средец и планината “Странджа” - район, печално известен още от времето на комунистическите гранични войски като“триъгълника на смъртта”.

      Но реално черната статистика е доста по-голяма. Само за периода 2022-2023 г. в моргата към УМБАЛ Бургас, която е и най-натоварената заради близостта си до турската граница, са съхранявани общо 54 тела на мигранти. 31 от тях са намерени от началото на тази година. Проверките ни в граничните райони до Турция и Сърбия установиха поне 93 смъртни случаи с мигранти на територията на страната за последните две години.

      Екипът ни документира други 62 случая от Сърбия и Босна и Херцеговина за същия период, с което трагичните инциденти по тази част от Балканския маршрут, установени само в рамките на това разследване, достигнаха 155.

      В местните медии темата е сведена до сензационни заглавия от типа на “Моргата в Бургас се препълни” или “Странджа е осеяна с трупове”. Ние решихме да проследим историите зад числата, причините за големия брой трагични инциденти и начините, по които институциите се справят с тях.
      В търсене на изчезналите роднини

      Мохамад Мудасир Арианпур е гордостта на семейството си. Служи в афганистанската армия, докато талибаните не вземат отново властта през 2021 г. Това прави живота му у дома невъзможен.

      На 21 септември 2022 г. Мохамад прекосява турско-българската граница с група от 26 други мигранти, водени от двама трафиканти. На 25 септември младият мъж губи сили и не може да продължи пътя през горите на Странджа. Негови приятели виждат, че се намират близо до село и му оставят две бутилки с вода с надеждата, че скоро ще бъде намерен и предаден на българските власти.

      Оттогава никой няма връзка с него.

      В следващите месеци негови роднини, живеещи в Западна Европа, посещават България няколко пъти, обикалят полицейски управления, бежански центрове, болници и морги, но опитите им да го открият не се увенчават с успех.

      Отчаяното търсене ги среща и с други семейства, сполетени от същата съдба. Сестра му Фатме Арианпур решава да създаде Whatsapp група, в която всички си помагат и обменят информация.

      “Намерихме се в различни групи във Фейсбук и разбрахме, че сме толкова много хора в една и съща ситуация”, разказва Фатме. “Надявам се, че като говорим за тези неща, ще успеем да променим нещо. Независимо дали са живи или мъртви, хората имат права”, допълва тя.

      Именно в създадената от нея група, както и в други подобни срещнахме основния герой на историята ни - Хусам Бибарс, както и други семейства, с които разговаряхме.

      Поне четирима от интервюираните ни казаха, че при посещенията си в моргата в УМБАЛ Бургас са плащали на служители на лечебното заведение, за да видят дали близките им не са сред съхраняваните там тела.

      Сумите, за които чухме, варираха между 50 лева и 200 евро на посещение.

      “В крайна сметка всички просто искат пари”, обобщи опита си Али, афганистански бежанец. Той прекарва месеци в България, опитвайки се да погребе 16-годишния си брат, като общо разходите му възлизат на над 8000 евро.
      50 лева

      Оплакванията от корупционни практики с тела на мигранти в моргата в Бургас не са нищо ново за работещите в правозащитния сектор.

      “Получавали сме информация и сигнали, че от семейства, открили мъртъв човек там, са били искани големи суми за потвърждение, че тялото е там, и за освобождаването му. Оплакват се, че са им били искани пари на всяка стъпка от процеса”, казва Георги Войнов, адвокат в бежанско-мигрантската служба на Българския хелзинкски комитет.

      За Калинка Янкова от БЧК новината за подобни форми на изнудване идва от близки на загинал афганистанец, които й споделят, че са платили над 100 евро, за да видят тялото на своя близък.

      “Бях извън себе си от възмущение.(...) Когато споделих с един колега, той ми каза: добре дошла в клуба”, добавя тя.

      Аудиофайл, с който екипът ни разполага, е и първото категорично потвърждение на тези твърдения. В него ясно се чува как служител на моргата в Бургас иска общо 100 лева от семейство, търсещо свой близък, заради това, че му е показал тела на починали мигранти в камерата.

      “Две по 50. Двама човека сме. Още едно 50”, инструктира той роднините, преди да ги насочи към процедура по разпознаване чрез ДНК.

      От УМБАЛ Бургас обясниха, че в лечебното заведение не е постъпвал нито един сигнал или жалба за подобни практики и обясниха, че идентификацията на телата се извършва само и единствено в присъствието на разследващ полицай и съдебен лекар.

      “Огромна част от телата са в състояние на напреднало разложение и е невъзможно да бъдат разпознати без ДНК експертиза, дори и да бъдат показани”, уточниха от болницата.

      “Апелираме подобни сигнали и оплаквания, да бъдат адресирани по официалния ред към нас и към разследващите органи. Ако се установи, че има подобни практики, служителите ще понесат съответната отговорност”, посочи още управлението на МБАЛ Бургас.
      “Ничии тела”

      В българския НПК процедурите по идентифициране на случайно намерени тела са едни и същи, независимо дали казусът засяга български или чужд гражданин. В подобни случаи прокуратурата започва досъдебно производство, което има две цели: да идентифицира лицето и да установи причината за смъртта. На жертвите се взема ДНК, което се съхранява, ако евентуално в бъдеще се появят близки, които искат да извършат разпознаване.

      Съвпадението на ДНК е задължително за освобождаване на тела от моргите или за евентуална ексхумация, което отнема около 3 месеца и допълнително усложнява процеса по репатриране на починалите. Към момента Хусам Бибарс вече над месец очаква резултатите от ДНК тест, за да може да получи важни документи за семейството на починалия си син.

      В случай, че самоличността на лицето не може да бъде установена и няма данни за насилствено причинена смърт, наблюдаващият прокурор може да издаде постановление за извършване на служебно погребение, което е в правомощията на съответната община.

      Чрез запитвания по Закона за достъп до обществена информация разбрахме, че през последните 4 години общините Бургас, Средец и Ямбол са извършили общо 14 служебни погребения, като основната част - 10, са били в Бургас.

      Тези данни се отнасят за всички неидентифицирани тела, но посещения на гробищните паркове ни дават основание да смятаме, че в болшинството от случаите става дума за мигранти. За сравнение, от най-голямата община в страната, столичната, в същия период не е извършено нито едно служебно погребение, разпоредено от прокурор.

      Остава отворен и въпросът защо от моргата в Бургас редовно идват оплаквания, че е препълнена с тела на неидентифицирани мигранти, някои от които престояват там с години, а случаи като този на Мажд Бибарс биват приключени за четири дни, повдигайки сериозни съмнения, че изобщо са били правени опити тялото да бъде идентифицирано.

      В отговор на наше запитване от Главната прокуратура ни увериха, че на централно ниво няма решение за по-бързо освобождаване на тела и това “не е възможно, тъй като наблюдаващите прокурори следва стриктно да спазват нормите на НПК”.

      “Ако близките не пожелаят да получат тялото и изрично заявят това, тогава се пристъпва към служебно погребение. Същото се налага да се извърши и когато не бъде установена самоличността на починалия – при обективно положени изчерпателни усилия за това или при случаи, когато се изясни, че починалият няма близки и роднини”, посочват прокурорите. Те подчертават, че при случаите с български граждани се действа по същия начин.

      Но Милен Божидаров, който е прокурор в Ямболската районна прокуратура, признава, че стремежът в неговия район е случаите да се приключват бързо.

      “Това е въпрос на организация на процеса, всички ние целим бързина”, заяви той.

      По думите на прокурора, при “обичайни обстоятелства” роднините на загинали се търсят и обикновено се установяват още в деня на смъртта.

      Но очевидно случаите с телата на мигранти не попадат в обичайната хипотеза.

      “Когато ние имаме неидентифициран труп, за който няма обяснение [за самоличността], освен, че е [ясно, че е] бежанец, и се предполага, че роднините му са някъде по света и не са се свързали с нас в този, предходния или по-предходния ден, няма обективни причини, които да налагат съхранението на този труп”, обясни той.

      “Представете си, че този баща не се беше появил - ние така или иначе нямаше да стигнем до някакъв резултат и трупът не може да стои безкрайно в камера в някое от здравните заведения”, допълни прокурорът.

      Но според адвокат Драгомир Ошавков, който работи с фондация ФАР в Бургас, в огромния процент от случаите с мигранти органите на досъдебното производство и прокуратурата просто нямат интерес от това да вършат подробни изследвания и да установяват реално причините за смъртта и самоличността.

      “Те бързат да приключат по най-бързия и удобен за тях начин това досъдебно производство”, категочен е той.

      “Това са едни ничии хора, ничии тела. Мигранти, които не представляват голям обществен интерес. Те не са желани в България, не са желани вероятно и в Западна Европа. Вероятно затова те са считани по-скоро като тежест за системата, вместо като случаи, които трябва да бъдат разрешени”, смята юристът.

      https://www.svobodnaevropa.bg/a/migranti-zaginali-bejanci/32708468.html

    • Νεκροί πρόσφυγες στα Βαλκάνια : « Λάδωσε » για να βρεις τον άνθρωπό σου

      Στη βαλκανική οδό πεθαίνουν περισσότεροι αιτούντες άσυλο ακόμα και από το 2015. Ενώ οι συγγενείς καλούνται να αντιμετωπίσουν την κρατική αδιαφορία για την ταυτοποίηση των ανθρώπων τους, αναγκάζονται και να πληρώσουν εκατοντάδες ευρώ απλώς για να τους αναζητήσουν.

      Ήλπιζε πως θα έβρισκε τον γιο του σε κάποιον προσφυγικό καταυλισμό. Και αφού είχε περάσει τρεις εβδομάδες αναζητώντας τον, είχε προετοιμαστεί για το ενδεχόμενο να τον εντοπίσει σε κάποιο νοσοκομείο.

      Αλλά δεν περίμενε να τον βρει στο νεκροταφείο.

      Όταν ο αστυνομικός με το βουλγαρικό εθνόσημο του έδειξε τη φωτογραφία του γιου του, να κείτεται δίχως ζωή στο γρασίδι, έχασε τη γη κάτω απ’ τα πόδια του. « Εύχομαι τουλάχιστον να είχα τη δυνατότητα να δω τον Μαχίντ μια τελευταία φορά. Το μυαλό μου ακόμη και σήμερα δεν μπορεί να πιστέψει πως ο άνθρωπος σε αυτόν τον τάφο είναι ο γιος μου », λέει ο Χουσάμ Αντίν Μπίμπαρς.

      Ο 56χρονος Σύριος πρόσφυγας, πατέρας πέντε ακόμη παιδιών, είχε συμπληρώσει 22 ημέρες αναζητώντας από απόσταση τον γιο του, όταν αποφάσισε να ξοδέψει τα λιγοστά του χρήματα για να ταξιδέψει από τη Δανία στη Βουλγαρία και να ψάξει για εκείνον — αλλά ήταν πια αργά.

      Στη Βουλγαρία, έμαθε πως το σώμα του 27χρονου Μαχίντ είχε ταφεί μέσα σε μόλις τέσσερις ημέρες από τον εντοπισμό του. Ο Μαχίντ είχε ταφεί ως αγνώστων στοιχείων, τίποτα δεν ενημέρωνε πως κάτω από εκείνον τον σωρό με χώμα που αργότερα επισκέφθηκε βρισκόταν ο γιος του.

      « Ακούμε πως η Ευρώπη είναι η γη της ελευθερίας, της δημοκρατίας, και των ανθρωπίνων δικαιωμάτων », λέει νηφάλια ο Χουσάμ Αντίν Μπίμπαρς. « Που είναι τα ανθρώπινα δικαιώματα, εάν δεν έχω τη δυνατότητα να δω τον γιο μου πριν την ταφή του ; ».

      Νεκροί δίχως ταυτότητα

      Ο Μαχίντ είχε περάσει από την Τουρκία στη Βουλγαρία με ένα γκρουπ περίπου 20 ακόμη ατόμων, ελπίζοντας να συναντήσει και πάλι τους γονείς και τα αδέρφια του στην Ευρώπη. Αφού έφτανε εκείνος, η έγκυος γυναίκα του και η κόρη τους, Χάνα, θα μπορούσαν να ακολουθήσουν.

      Προς τα τέλη Σεπτεμβρίου, σταμάτησε να απαντάει σε κλήσεις και μηνύματα. Ο διακινητής είπε στον Μπίμπαρς ότι ο Μαχίντ είχε αρρωστήσει και είχε χρειαστεί να τον αφήσουν πίσω. Οι Αρχές είπαν ότι ο γιος του πέθανε από τη δείψα, την εξάντληση, και το κρύο.

      Τα τελευταία χρόνια, με κοινοτικά χρήματα και αυξημένη συμμετοχή του ευρωπαϊκού οργανισμού συνοριοφυλακής Frontex, οι βαλκανικές χώρες εντείνουν ολοένα τους συνοριακούς ελέγχους, αναπτύσσοντας φράχτες, drones, και μηχανισμούς επιτήρησης. Αλλά αυτό δεν αποτρέπει τους αιτούντες άσυλο — τους οδηγεί σε μεγαλύτερες και περισσότερο επικίνδυνες διόδους για να αποφύγουν τις Αρχές.

      Μια έρευνα του Solomon σε συνεργασία με την ερευνητική ομάδα Lighthouse Reports, το γερμανικό περιοδικό Der Spiegel, τη γερμανική δημόσια τηλεόραση ARD, τη βρετανική εφημίδα i, το Radio Free Europe / Radio Liberty, και ακαδημαϊκούς από τα πανεπιστήμια Aston, Liverpool, και Nottingham, αποτυπώνει πως η εχθρότητα που αντιμετωπίζουν στα σύνορα της Ευρώπης οι άνθρωποι σε κίνηση όσο ζουν συνεχίζεται και στο θάνατο.

      Διαπιστώσαμε πως, από τις αρχές του 2022 έως σήμερα, τα άψυχα σώματα 155 ανθρώπων που πιθανολογείται ότι ήταν αιτούντες άσυλο κατέληξαν σε νεκροτομεία κοντά στα σύνορα κατά μήκος μιας διαδρομής που εκτείνεται ανάμεσα στη Βουλγαρία, τη Σερβία, και τη Βοσνία.

      Από την εξέταση των στοιχείων, για το 2023 προκύπτει ήδη μια αύξηση των θανάτων κατά 46% σε σύγκριση με ολόκληρο το 2022.

      Στα Βαλκάνια, οι αιτούντες άσυλο καλούνται να αντιμετωπίσουν τις δύσκολες καιρικές συνθήκες, αλλά και τις επαναπροωθήσεις, την αυξημένη βιαιότητα συνοριοφυλάκων και διακινητών, την καταλήστευση από συνοριακές δυνάμεις — έως και την κράτησή τους σε μυστικές « φυλακές ».

      Οι οικογένειες των ανθρώπων που πεθαίνουν, ή καθίστανται αγνοούμενοι στην περιοχή, αναζητούν τους δικούς τους σε νεκροτομεία, νοσοκομεία, και ειδικά γκρουπ σε Facebook και WhatsApp. Καλούνται να ανταπεξέλθουν σε μια εξίσου ψυχοφθόρα προσπάθεια, και να αντιμετωπίσουν την αδιαφορία των Αρχών.

      Στη Βουλγαρία, όπως τεκμηριώνει η παρούσα έρευνα, συχνά χρειάζεται και να « λαδώσουν » στην ελπίδα να μάθουν περισσότερα για τους δικούς τους.
      Τα 10 βασικά ευρήματα της έρευνας :

      1. Ο αριθμός όσων ταξίδεψαν παράτυπα μέσω Βαλκανίων για τη δυτική Ευρώπη το 2022 έφτασε στο ανώτατο σημείο από το 2015, με την Frontex να καταγράφει 144.118 παράτυπες διελεύσεις συνόρων.

      2. Ο αντίστοιχος αριθμός για το 2023 είναι μικρότερος (79.609 έως τον Σεπτέμβριο), αλλά παραμένει πολλαπλάσιος σε σχέση με το 2019 (15.127) και το 2018 (5.844).

      3. Η βαλκανική οδός είναι πιο επικίνδυνη από ποτέ : ελλείψει ενός κεντρικού σχετικού συστήματος καταγραφής, η πλατφόρμα Missing Migrants του Διεθνούς Οργανισμού Μετανάστευσης (ΔΟΜ) υποδεικνύει ότι το 2022 έχασαν τη ζωή τους ή κατέστησαν αγνοούμενοι περισσότεροι άνθρωποι ακόμη και από το 2015.

      4. Σύμφωνα με στοιχεία που συγκεντρώσαμε, τουλάχιστον 155 αταυτοποίητα πτώματα κατέληξαν σε έξι νεκροτομεία ενός τμήματος της βαλκανικής οδού, που περιλαμβάνει Βουλγαρία, Σερβία, και Βοσνία. Η πλειοψηφία των πτωμάτων (92) εντοπίστηκαν φέτος.

      5. Για το 2023, ο αριθμός εμφανίζει ήδη αύξηση κατά 46% σε σχέση με το 2022, και εκτοξεύεται σε ορισμένα νεκροτομεία.

      6. Κάποια νεκροτομεία της Βουλγαρίας (Μπουργκάς, Γιάμπολ) δυσκολεύονται να βρουν χώρο για τα σώματα των προσφύγων. Άλλα στη Σερβία (Λόζνιτσα) δεν διαθέτουν καθόλου χώρο.

      7. Η έλλειψη χώρου οδηγεί στην ταφή αταυτοποίητων σωμάτων εντός ημερών, σε τάφους αγνώστων στοιχείων. Αυτό σημαίνει πως καθίσταται πρακτικά αδύνατο για τις οικογένειες να μπορέσουν να ταυτοποιήσουν τους δικούς τους.

      8. Στη Βουλγαρία, οικογένειες μας είπαν πως αναγκάστηκαν να « λαδώσουν » εργαζομένους σε νοσοκομεία και νεκροτομεία, αλλά και συνοριοφύλακες, αναζητώντας τους ανθρώπους τους. Πηγές στο πεδίο επιβεβαιώνουν την πρακτική, η οποία καταγράφεται και σε ηχητικό αρχείο στην κατοχή μας.

      9. Στη Βοσνία, 28 άνθρωποι που εκτιμάται πως ήταν αιτούντες άσυλο έχουν ήδη χάσει τη ζωή τους στον ποταμό Ντρίνα φέτος, σε σύγκριση με μόλις πέντε το 2022 και τρεις το 2021.

      10. Γραφειοκρατία και έλλειψη κρατικού ενδιαφέροντος καταγράφεται πως δυσχεραίνουν τις προσπάθειες ταυτοποίησης νεκρών αιτούντων άσυλο.

      Νεκρός αλλά δεν ξέρει γιατί

      Τι κάνεις όταν ο μικρός σου αδερφός σου αγνοείται, και το δικό σου καθεστώς απαγορεύει να βρεθείς στο πεδίο για να τον αναζητήσεις ;

      Ο 29χρονος Ασματουλά Σεντίκι βρισκόταν στη δομή φιλοξενίας στο Γουόρινγκτον του Ηνωμένου Βασιλείου, όπου έχει αιτηθεί άσυλο, όταν συνταξιδιώτες του αδερφού του τον ενημέρωσαν πως ο 22χρονος Ραχματουλά πιθανόν να ήταν νεκρός.

      Λόγω του καθεστώτους του ως αιτούντα άσυλο, το Home Office δεν επέτρεψε στον Ασματουλά να επιστρέψει στη Βουλγαρία, την οποία είχε διασχίσει και ο ίδιος κατά το δικό του ταξίδι, για να αναζητήσει τον αδερφό του.

      Όταν ένας φίλος κατέστη δυνατό να πάει για λογαριασμό του, η βουλγαρική αστυνομία αρνήθηκε να δώσει οποιαδήποτε πληροφορία. Και το προσωπικό του νεκροτομείου ζήτησε 300 ευρώ για τον αφήσει να δει ορισμένα πτώματα, είπε ο Σεντίκι στα πλαίσια της παρούσας έρευνας.

      « Σε μια τέτοια κατάσταση, ο άνθρωπος πρέπει να βοηθάει τον άνθρωπο », πρόσθεσε. « Ξέρουν μόνο τα χρήματα. Δεν τους ενδιαφέρει η ανθρώπινη ζωή ».

      Κατάφερε να δανειστεί το ποσό που του ζήτησαν. Τον Ιούλιο του 2022, 55 ημέρες μετά την εξαφάνισή του αδερφού του, το νοσοκομείο του Μπουργκάς επιβεβαίωσε ότι ένα από τα σώματα στο νεκροτομείο ανήκε σε κείνον. Με ακόμη 3.000 ευρώ που δανείστηκε, μπόρεσε να επαναπατρίσει τον αδελφό του στους γονείς τους στο Αφγανιστάν.

      Αλλά έως και σήμερα, τον Ασματουλά κατατρώει μια σκέψη : δεν γνωρίζει πώς, δεν τον έχει ενημερώσει κανείς γιατί, πέθανε ο αδερφός του.

      Οι βουλγαρικές Αρχές δεν του έχουν δώσει τα αποτελέσματα της νεκροψίας, επειδή δεν έχει βίζα για να ταξιδέψει εκεί, λέει. « Είμαι σίγουρος ότι, όταν η αστυνομία τον βρήκε στο δάσος, θα τράβηξε κάποιες φωτογραφίες. Θέλω να δω πώς έμοιαζε τότε το σώμα του ».
      « Ούτε μια καταγγελία »

      Στα πλαίσια της παρούσας έρευνας των Solomon, Lighthouse Reports, RFE/RL, inews, ARD, και Der Spiegel, αρκετοί συγγενείς μας είπαν πως είχαν επίσης αναγκαστεί να « λαδώσουν » εργαζομένους στο νεκροτομείο του Μπουργκάς, προκειμένου να μπορέσουν να διαπιστώσουν εάν ανάμεσα στα νεκρά σώματα στους ψύκτες βρίσκονταν οι δικοί τους.

      Όταν ρωτήσαμε τη διοίκηση του νοσοκομείου εάν τέτοιου είδους πρακτικές ήταν σε γνώση της, η επικεφαλής του τμήματος ιατροδικαστικής του νοσοκομείου Μπουργκάς, Γκαλίνα Μίλεβα, είπε πως δεν έχει λάβει « ούτε μία αναφορά ή καταγγελία για κάποια τέτοια περίπτωση ».

      « Η ταυτοποίηση των πτωμάτων πραγματοποιείται αποκλειστικά και μόνο παρουσία αστυνομικού που διεξάγει την έρευνα και ιατροδικαστή », υποστήριξε. Απαντώντας σε σχετική ερώτηση, συμπλήρωσε πως δεν υπάρχει καμία νομική πρόβλεψη, με βάση την οποία εργαζόμενοι στο νεκροτομείο θα μπορούσαν να ζητήσουν χρήματα από τους συγγενείς γι’ αυτή τη διαδικασία.

      « Απευθύνουμε έκκληση αυτές οι καταγγελίες να απευθύνονται μέσω της επίσημης οδού σε εμάς και στις ανακριτικές αρχές. Εάν διαπιστωθεί η ύπαρξη τέτοιων πρακτικών, οι εργαζόμενοι θα λογοδοτήσουν », είπε.
      « Ζητούνται χρήματα σε κάθε βήμα της διαδικασίας »

      Άλλος συγγενής, η οικογένεια του οποίου στα τέλη του 2022 χρειάστηκε επίσης να μεταβεί στη Βουλγαρία για να αναζητήσει μέλος της, μας είπε πως αφού έδωσαν δίχως επιτυχία 300 ευρώ σε κάποιον στο νεκροτομείο για να τους επιτραπεί να κοιτάξουν τα νεκρά σώματα, χρειάστηκε να πληρώσουν και συνοριοφύλακες.

      Ήταν ο μόνος τρόπος να τους πάρουν στα σοβαρά, εξήγησε.

      Όταν ζήτησαν από τους συνοριοφύλακες να τους δείξουν φωτογραφίες ανθρώπων σε κίνηση που είχαν εντοπιστεί νεκροί, εκείνοι τους είπαν πως δεν είχαν χρόνο — όταν δέχθηκαν να τους δώσουν 20 ευρώ για κάθε φωτογραφία που θα τους έδειχναν, ο χρόνος βρέθηκε.

      Ο Γκεόργκι Βόινοφ, δικηγόρος του προγράμματος για πρόσφυγες και μετανάστες της Βουλγαρικής Επιτροπής του Ελσίνκι, επιβεβαίωσε πως οικογένειες θανόντων έχουν απευθυνθεί στην οργάνωση για περιπτώσεις στις οποίες νοσοκομεία ζήτησαν μεγάλα ποσά για να επιβεβαιώσουν πως τα σώματα των δικών τους βρίσκονταν εκεί.

      « Καταγγέλλουν ότι τους ζητούνται χρήματα σε κάθε βήμα της διαδικασίας », είπε.

      Πηγές από διεθνείς οργανισμούς, μεταξύ αυτών και από τον Ερυθρό Σταυρό Βουλγαρίας, επιβεβαίωσαν πως είχαν συναφή εμπειρία από συγγενείς τους οποίους είχαν υποστηρίξει, και οι οποίοι είχαν επίσης αναγκαστεί να καταβάλουν χρήματα σε νεκροτομεία και νοσοκομεία.

      « Καταλαβαίνουμε ότι αυτοί οι άνθρωποι είναι πολύ καταβεβλημένοι και πρέπει να πληρώνονται επιπλέον για όλη αυτή την επιπλέον δουλειά που κάνουν », σχολίασε στέλεχος του Ερυθρού Σταυρού Βουλγαρίας που μίλησε στην έρευνα υπό τον όρο ανωνυμίας.

      « Αλλά ας συμβαίνει αυτό με νόμιμο τρόπο ».

      * Στην έρευνα, που πραγματοποιήθηκε σε συντονισμό του Lighthouse Reports, συμμετείχαν οι Σταύρος Μαλιχούδης, Jack Sapoch, May Bulman, Maria Cheresheva, Steffen Ludke, Ivana Milanovic Djukic, Nicole Voegele, Jelena Obradović-Wochnik, Thom Davies, Arshad Isakjee, Doraid al Hafid, Anna Tillack, Oliver Soos, Klaas van Dijken, Aleksandar Milanovic, Camelia Ivanova, Pat Rubio Bertran.

      https://wearesolomon.com/el/mag/thematikh/metanasteush/dead-refugees-balkans

      #Loznica

    • Surge in refugee deaths in Balkans region where UK provides border force training

      InvestigationAlmost 100 people presumed to be migrants have died along one section of the route this year - a 46 per cent increase on the whole of 2022

      When he saw the photograph of his dead son, Hussam Adin Bibars collapsed to the floor. After three weeks of searching, he had found him – and his worst fears had been realised.

      The image, handed to him by a Bulgarian police officer, showed 27-year-old Majd Addin Bibars lying pale and lifeless on a patch of grass. “I fell down when I saw it,” Mr Bibars, 53, recalls. “I recognised him immediately … It was my son.”

      The Syrian father of five, who has refugee status and lives in Denmark, wanted to see Majd’s body for himself – but was told it had already been buried in an unmarked grave in a cemetery several miles away, four days after it was found.

      Majd had been travelling through Bulgaria from Turkey in the hope of reaching Germany, where he would be closer to his parents and hoped to later bring his pregnant wife and young daughter, Hanaa, to join him.

      He had been with a group of around 20 others embarking on the same, dangerous journey – but he stopped responding to texts and calls at the end of September. The smuggler leading the group informed Mr Bibars that Majd had fallen sick and the group had left him, the grieving father says.

      After 22 days searching for Majd from afar, Mr Bibars decided to spend the little money he had to travel to Bulgaria.

      After speaking to a staff member at a hospital near the Turkish border – with the help of a translator – he was directed to the local police station, where he was shown the photo of Majd’s lifeless body. He was told his son had died of thirst, exhaustion and cold – and that he had been buried.

      “We hear that Europe is the land of freedom, democracy and human rights – where are human rights if I can’t see my son before his funeral?” asks Mr Bibars. “All I saw was a grave, photos and his phone. That’s all I have of him.”

      Majd was one of many people who have died while travelling through the Balkans to reach Western Europe – and whose families are forced to undergo a painstaking process to find out what happened.

      Many making these fatal journeys had hoped to claim asylum in EU countries such as Germany and France, while others planned to try their luck on a small boat towards the UK, often due to existing family ties in the country. So far this year, Britain has received the fifth-highest number of asylum applications across Europe.

      There is no official data on the number of deaths, but an investigation by i, in collaboration with investigative bureau Lighthouse Reports, Der Spiegel, Solomon, ARD and RFE/RL Sofia, has found that the bodies of 92 people presumed to be migrants have been received across six morgues in border areas along one section of the route – spanning Bulgaria, Serbia and Bosnia – this year, a 46 per cent increase on the whole of 2022.

      Border security in these countries has been tightened in recent years, helped by funding from the EU and the UK. Britain has provided training and equipment to Bulgarian border police since 2020, and Rishi Sunak announced in October that his Government would form bilateral initiatives with Bulgaria and Serbia aimed at tackling organised crime linked to illegal migration.

      Migration experts have criticised these agreements, highlighting the risks attached to such cooperation given that border guards in these countries are known to have been involved in violations of international law, including pushbacks and other violence against people on the move.

      Use of violence by border police in the Balkans has increased, with officers in some areas – notably Bulgarian police operating near the Turkish border and Serbian police in northern Serbia – documented using violence against people trying to cross, and sometimes illegally forcing them back across borders.

      Instead of deterring people from making the journeys, it has led them to take longer and more dangerous routes to evade security forces – leading to more deaths.

      At the same time, the number of people being resettled under safe and legal routes in Europe has declined, with 79 per cent fewer relocated under UNHCR resettlement schemes in the UK last year than in 2019, and 17 per cent fewer across the EU.

      This investigation has found that many migrants have been buried in anonymous graves, sometimes within days – like Majd – due to lack of space in morgues, making it almost impossible for their families to locate them.

      Milen Bozhidarov, the prosecutor in Yambol, a Bulgarian city close to the Turkish border, said Majd’s funeral took place after four days in keeping with their procedure of carrying out burials of unidentified migrants “fast” to free up space in the morgue.

      “When we have unidentified body that was found in a place that gives us no other explanation except that the person is a migrant, and the suggestion is that the relatives are somewhere in the world and no one is getting in touch with us that day or on the next day, then there are no objective reasons why the body should be kept,” he added.

      Some family members have been forced to pay bribes to morgue staff to find out whether their loved ones’ bodies are held. i has heard testimony from several families saying they paid sums of cash ranging from €50 to €300 to staff at the morgue in Burgas, a Bulgarian city near the Turkish border, to see the bodies.

      The head of the Burgas morgue, Galina Mileva, said it had not received any complaints about such incidents and encouraged people to report such cases to the morgue’s management.

      The countries where these deaths occur, and Europe as a whole, are under growing pressure from politicians, NGOs and forensic experts to create a mechanism to help families searching for missing loved ones who have died on these journeys.

      Families face additional hurdles when they can’t travel due to their status or nationality. Asmatullah Sediqi, an Afghan asylum seeker in the UK, was prevented by UK Home Office rules from travelling to Bulgaria, where his 22-year-old brother Rahmatullah had gone missing presumed dead after crossing from Turkey.

      A friend went on his behalf, but Bulgarian police refused to provide any information, and morgue staff said he would need to pay them €300 to see any bodies, Mr Sediqi said.

      “They just know money. They don’t care about a human life,” he added.

      Mr Sediqi, 29, who lives in asylum accommodation in Warrington, borrowed money to pay the bribe. His friend established that one of the bodies in the morgue was Rahmatullah.

      By borrowing another €3,000 – putting him into heavy debt – Mr Sediqi paid a company to repatriate his brother’s body to his parents in Afghanistan. But he has had no information by the Bulgarian authorities on how Rahmatullah died.

      “They didn’t give us the results of the autopsy because I don’t have a visa to go there,” he says. “It’s very painful not knowing what happened to my brother.”

      Dr Vidak Simić, a pathologist in Bosnia who carries out autopsies on bodies found in the Drina River on the Serbian border, said the number of unidentified migrant bodies being brought to him for autopsy has surged in the past year.

      In 2023, he has examined the bodies of 28, compared with five last year and three in 2021. The vast majority remain unidentified and are buried in graves marked “NN” – an abbreviation for a Latin term for a person with no name.

      The doctor is working with a local activist to try to help families find missing loved ones, checking his autopsy files to see if any unidentified bodies match the description of missing people – but says a proper system is needed.

      “[Families] enter a painstaking process, through embassies, burial organisations, to obtain a bone sample, so that they can compare it with one of their family members,” he says. “Nobody is doing the work to connect families with those who have drowned.”

      EU human rights commissioner Dunja Mijatović described “inaction” among European countries to facilitate DNA matching and create a data collection procedure on migrant disappearances and deaths.

      Erik Marquardt, Green Party politician in the European Parliament, said the fact that countries such as Bulgaria are burying unidentified bodies within days suggested they “don’t want attention brought to these cases”.

      “We have to think about whether we can set up a database at an EU level that would oblige member states to clarify: who is this person’s child, who are the parents, how can they be reached? This is very important,” he added.

      Until then, the bodies of those who die escaping conflict will continue to pile up in morgues or be buried without a trace, leaving more families to endure an agonising process to find out they have died – or left in a perpetual state of uncertainty.

      A Home Office spokesperson said: “The UK and Bulgaria have a close law enforcement partnership. By working together we are able to bolster Bulgaria’s border security, tackle serious organised crime and immigration crime threats, and disrupt the business model of these criminal groups.

      “Individuals awaiting the outcome of their asylum claims in the UK are not permitted to travel abroad, but are provided with a range of support by the government.”

      https://inews.co.uk/news/world/surge-refugee-deaths-balkans-uk-training-border-forces-2785043

    • Almost 100 refugees died on their way through Bulgaria within the last two years

      According to a research by the ARD studio (https://www.tagesschau.de/ausland/europa/bulgarien-migranten-todesfaelle-100.html) in Vienna in cooperation with Lighthouse Reports (https://www.lighthousereports.com/investigation/europes-nameless-dead), Der Spiegel (https://www.spiegel.de/ausland/vermisste-fluechtlinge-auf-der-balkanroute-europas-namenlose-tote-a-5d0b55a7), RFE/RL (https://www.svobodnaevropa.bg/a/migranti-zaginali-bejanci/32708468.html), Solomon (https://wearesolomon.com/el/mag/thematikh/metanasteush/dead-refugees-balkans) and inews (https://inews.co.uk/news/world/surge-refugee-deaths-balkans-uk-training-border-forces-2785043) – which was published in the beginning of December 2023 – at least 93 people died on their way through Bulgaria in the last two years alone.

      The research team spoke with forensic pathologists in Bulgaria and people whose family members had gone missing or died on the route. The people on the run are usually dying because of exhaustion and cold on their route, which leads through mountains, bushes and the countryside. The last case was reported on the 27th of November 2023 by the Bulgarian authorities (https://orf.at/stories/3341237). Additionally there is a fence at the Bulgarian-Turkish border which was constructed already in 2013 and replaced and modified in the following years with a bigger one (https://bordermonitoring.eu/wp-content/uploads/2020/06/bm.eu-2020-bulgaria_web.pdf). Additionally to this numerous car accidents are happening regularly. Some of them are fatal (https://bulgaria.bordermonitoring.eu/2023/03/20/another-refugee-dies-on-the-streets-of-bulgaria).

      But not only the dangerous way is the problem for the people on the run, there is also the Bulgarian border police, which is accused of brutal Push-Backs. According to the Bulgarian Helsinki Committee only in 2022 almost 90.000 people where affected by #push-backs (https://ecre.org/2022-update-aida-country-report-on-bulgaria). Also young people with their families and unaccompanied minors are at risk to be push-backed, as the NGOs “Center for legal aid – Voice in Bulgaria“ and “Mission Wings“ found out, while conducting interviews in Turkey (https://www.tdh.de/fileadmin/user_upload/inhalte/04_Was_wir_tun/Themen/Weitere_Themen/Fluechtlingskinder/tdh_Bericht_Kinderrechtsverletzungen-an-EU-Aussengrenzen.pdf). For 2023 Interior Minister Kalin Stoyanov stated that that app 165,000 ‚illegal entry attempts‘ at the Bulgarian-Turkish were prevented (https://www.novinite.com/articles/222633/October+Sees+41+Decrease+in+Illegal+Migrants+in+Bulgaria).

      With regard to Bulgaria, the fundamental rights officer of the EU border protection authority Frontex became active in a total of seven internally reported cases regarding possible violations of fundamental rights, the authority said in response to a request from ORF (https://orf.at/stories/3341237). In the beginning of December 2023. All cases concern pushback allegations from Bulgaria to Turkey, a Frontex spokeswoman said. At least 232 Frontex officers were deployed in Bulgaria in 2023 (https://www.infomigrants.net/en/post/51259/exclusive-why-are-migrant-pushbacks-from-bulgaria-to-turkey-soaring).

      https://bulgaria.bordermonitoring.eu/2023/12/02/almost-100-people-died-on-their-way-through-bulgaria-withi

  • Prijelaz / #The_Passage — dedicated to our fallen comrades

    Od 14. do 21. svibnja 2021. godine u galeriji Živi Atelje DK u Zagrebu predstavljeno je spomen-platno Prijelaz / The Passage. Prijelaz / The Passage je zbirka memorijalnih portreta izrađenih od crvenog i crnog konca na botanički obojanoj tkanini koji su nastali u okviru umjetničkih istraživačkih radionica koje je osmislila i kurirala selma banich u suradnji s Marijanom Hameršak, a na kojima su sudjelovale umjetnice, znanstvenice, prevoditeljice i druge članice kolektiva Žene ženama i znanstveno-istraživačkog projekta ERIM.

    https://erim.ief.hr/en/publikacije/prijelaz-the-passage

    –-

    THE PASSAGE — dedicated to our fallen comrades

    #Selma_Banich and #Marijana_Hameršak in collaboration with Women to Women collective

    Živi Atelje DK, Zagreb, 2021

    https://selmabanich.org/index#/the-passage
    #portraits #art_et_politique #migrations #réfugiés #asile #décès #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #commémoration #mémoire #textile #Balkans #route_des_Balkans

  • Serco, quando la detenzione diventa un business mondiale

    Da decenni l’azienda è partner dei governi per l’esternalizzazione dei servizi pubblici in settori come sanità, difesa, trasporti, ma soprattutto nelle strutture detentive per le persone migranti. Nel 2022 ha acquisito Ors con l’idea di esportare il suo modello anche in Italia

    «Ho l’orribile abitudine di camminare verso gli spari». Si descrive così al Guardian il manager Rupert Soames. Nipote dell’ex primo ministro del Regno Unito Winston Churchill, figlio di Christopher, ambasciatore in Francia e ultimo governatore della Rhodesia – odierno Zimbabwe – e fratello dell’ex ministro della difesa conservatore Nicholas, Rupert Soames per anni è stato il numero uno della multinazionale britannica Serco, quella che il quotidiano britannico chiama «la più grande società di cui non avete mai sentito parlare».

    Serco (Service Company) è un’azienda business to government (B2G), specializzata in cinque settori: difesa, giustizia e immigrazione, trasporti, salute e servizi al cittadino. Opera in cinque continenti e tra i suoi valori principali dichiara: fiducia, cura, innovazione e orgoglio. Dai primi anni Novanta, è cresciuta prendendo in carico servizi esternalizzati dallo Stato a compagnie terze e aggiudicandosi in pochi anni un primato sulla gestione degli appalti privati. Sono arrivati poi indagini dell’antitrust inglese, accuse di frode in appalti pubblici e conseguenti anni di crisi dovuti alla perdita di diverse commesse, fino a quando il nipote di Churchill non è diventato Ceo di Serco, nel 2014. Da allora la società ha costruito un impero miliardario fornendo servizi molto diversi tra loro: dai semafori di Londra, al controllo del traffico aereo a Baghdad. La gestione dei centri di detenzione per persone migranti è di gran lunga il principale business di Serco nelle due macroaree “Europa e Regno Unito” e “Asia e Pacifico”. Ad oggi Serco ha all’attivo più di 500 contratti e impiega più di 50 mila persone in tutto il mondo. Nel 2022 ha totalizzato 4,7 miliardi di sterline in ricavi, un regalo ai suoi azionisti, tra cui i fondi d’investimento BlackRock e JP Morgan.

    –—

    L’inchiesta in breve

    Serco (Service Company) è una multinazionale britannica che fornisce diversi servizi ai governi, soprattutto nei settori della difesa, sanità, giustizia, trasporti e immigrazione, dalla gestione dei semafori di Londra fino al traffico aereo di Baghdad
    Oggi la società ha all’attivo più di 500 contratti e impiega oltre 50 mila persone in tutto il mondo. Nel 2022 ha totalizzato 4,7 miliardi di sterline in ricavi e tra i suoi azionisti ci sono fondi d’investimento come BlackRock e JP Morgan
    Il suo Ceo fino a dicembre 2022 era Rupert Soames, nipote di Winston Churchill, che ha risollevato la società dopo un periodo di crisi economica legato ad alcuni scandali, come i presunti abusi sessuali nel centro di detenzione per donne migranti Yarl’s Wood, a Milton Ernest, nel Regno Unito
    Nelle macroregioni “Europa e Gran Bretagna” e “Asia e Pacifico” il settore dove l’azienda è più presente è l’immigrazione. Su dieci centri per l’espulsione presenti nel Regno Unito, Serco oggi ne gestisce quattro
    In Australia, la multinazionale gestisce tutti i sette centri di detenzione per persone migranti attualmente attivi ed è stata criticata più volte per la violenza dei suoi agenti di sicurezza, soprattutto nella struttura di Christmas Island
    L’obiettivo di Serco è esportare questo modello anche nel resto d’Europa. Per questo, a settembre 2022 ha acquisito la multinazionale svizzera Ors, entrando nel mercato della detenzione amministrativa anche in Italia, dove la sua filiale offre servizi nel settore spaziale

    –—

    In otto anni, Soames ha portato il fatturato della società da circa 3,5 miliardi nel 2015 a 4,5 miliardi nel 2022, permettendo così all’azienda di uscire da una fase di crisi dovuta a vari scandali nel Regno Unito. Secondo il Guardian, dal 2015 al 2021 ha ricevuto uno stipendio di 23,5 milioni di sterline. «Sono molto ben pagato», ha ammesso in un’intervista. Ha lasciato l’incarico nel settembre 2022 sostenendo che fosse arrivato il momento di «esternalizzare» se stesso e andare in pensione. Ma a settembre 2023 è stato nominato presidente di Smith & Nephew, azienda che produce apparecchiature mediche. Al suo posto è arrivato Mark Irwin, ex capo della divisione Regno Unito ed Europa e di quella Asia Pacific di Serco.

    Poco prima di lasciare l’incarico, Soames ha acquisito la multinazionale svizzera Ors, leader nel settore dell’immigrazione in Europa. L’operazione vale 39 milioni di sterline, a cui Serco aggiunge 6,7 milioni di sterline per saldare il debito bancario accumulato da Ors. L’acquisizione, per Serco, avrebbe consentito «di collaborare e supportare i clienti governativi in tutta Europa, che hanno un bisogno continuo e crescente di servizi di assistenza all’immigrazione e ai richiedenti asilo». Con Ors, società appena giunta anche nel sistema di gestione dei centri di detenzione in Italia, Serco vuole «rafforzare la nostra attività europea, raddoppiandone all’incirca le dimensioni e aumentando la gamma di servizi offerti».

    In Europa i centri di detenzione per migranti sono infatti in aumento, soprattutto in Italia, dove, scrive in un report l’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (Euaa), i milioni previsti per queste strutture sono 5,5 nel 2023, 14,4 per il 2024 e 16,2 nel 2025. Degli scandali di Ors, abbiamo scritto in una precedente puntata: «Non accettiamo le accuse di “cattiva gestione” dei servizi offerti da Ors – scrive Serco via mail a IrpiMedia, rispondendo alla richiesta di commento per questa inchiesta -. I casi spesso ripetuti dai media e citati dalle ong risalgono a molto tempo fa e sono stati smentiti più volte». Serco tuttavia riconosce che «in un’azienda con più di 2.500 dipendenti, che opera in un settore così delicato come quello dell’immigrazione, di tanto in tanto si commettono degli errori. È importante riconoscerli rapidamente e correggerli immediatamente». A giudicare dalle inchieste giornalistiche e di commissioni parlamentari nel Regno Unito e in Australia, Paese dove gestisce tutte le strutture detentive per migranti, non è però quello che ha fatto Serco negli anni.

    Yarl’s Wood e le prime accuse di violenze sessuali

    Serco nel 2007 vince l’appalto dell’Home Office, il ministero dell’Interno britannico, per la gestione del centro di espulsione Yarl’s Wood, a Milton Ernest, della capienza di circa 400 persone, fino al 2020 in maggioranza donne. Nel 2013, le detenute iniziano a denunciare il personale per abusi e violenze sessuali. Continui sguardi da parte dello staff, che entrava nelle stanze e nei bagni durante la notte, rapporti non consensuali, palpeggiamenti e ricatti sessuali in cambio di aiuto nelle procedure per i documenti o della libertà, tentativi di rimpatrio delle testimoni, sono alcune delle segnalazioni delle donne del centro, raccolte in alcune inchieste del The Observer. Secondo l’ong Women for Refugee Women molte delle donne rinchiuse nel centro avevano già subito violenze e dovevano essere considerate soggetti vulnerabili.

    Alla richiesta di replica del giornale, la società aveva negato l’esistenza di «un problema diffuso o endemico» a Yarl’s Wood, o che fosse «in qualche modo tollerato o trascurato». «Ci impegniamo a occuparci delle persone nei centri di espulsione per immigrati con dignità e rispetto, in un periodo estremamente difficile della loro vita», ha detto l’azienda a IrpiMedia, riferendo che «ogni volta che vengono sollevate accuse vengono svolte indagini approfondite» (nel caso di Yarl’s Wood condotte dall’ispettorato per le carceri tra il 2016 e il 2017) e che «dal 2012 a Yarl’s Wood non ci sono state accuse di abusi sessuali». Nonostante le denunce, il licenziamento di alcuni dipendenti per condotte inappropriate, la morte sospetta di una donna, i numerosi casi di autolesionismo e i tentativi di suicidio, nel 2014 l’Home Office ha nuovamente aggiudicato l’appalto, del valore di 70 milioni di sterline e della durata di otto anni, a Serco.
    Il mondo avrà ancora bisogno di carceri

    «Il mondo – scriveva Soames nel report annuale del 2015, appena arrivato in Serco – avrà ancora bisogno di prigioni, di gestire l’immigrazione, di fornire sanità e trasporti». Il Ceo dispensava ottimismo nonostante gli scandali che avevano appena travolto la società. Ha avuto ragione: gli appalti si sono moltiplicati.

    Oltre la riconferma della gestione di Yarl’s Wood, nel 2020 Serco si è aggiudicata per 277 milioni di sterline il centro di detenzione Brook House, vicino all’aeroporto di Gatwick, e nel 2023 il centro di Derwentside con un contratto della durata di nove anni, rinnovabile di un anno, del valore di 70 milioni di sterline. Su dieci centri per l’espulsione presenti nel Regno Unito, dove la detenzione amministrativa non ha limiti temporali, Serco oggi ne gestisce quattro.
    Derwentside ha preso il posto di Yarl’s Wood come unico centro detentivo per donne senza documenti nel Regno Unito: con 84 posti, il centro si trova in un luogo isolato nel nord dell’Inghileterra, senza servizi, trasporti e con una scarsa connessione per il telefono. «Le donne vengono tagliate fuori dalle famiglie e dalle comunità, ci sono davvero poche visite da parte dei parenti», spiega a IrpiMedia Helen Groom, presidentessa della campagna che vuole l’abolizione del centro. Ma qualcosa sta per cambiare, dice: «All’inizio dell’anno prossimo dovrebbe diventare un centro di detenzione per uomini, e non più per donne. Probabilmente perché negli ultimi due anni sono stati occupati solo la metà dei posti». Il 18 novembre i movimenti solidali e antirazzisti britannici hanno organizzato una manifestazione per chiedere la chiusura del centro.

    https://twitter.com/No2Hassockfield/status/1727643160103301129

    Brook House è invece stato indagato da una commissione di esperti indipendenti costituita su richiesta dell’allora Home Secretary (ministra dell’Interno) Preti Patel a novembre 2019. Lo scopo era approfondire i casi di tortura denunciati da BBC Panorama, avvenuti tra il primo aprile e il 31 agosto 2017, quando a gestire la struttura era la multinazionale della sicurezza anglo-danese G4S. I risultati del lavoro della commissione sono stati resi pubblici sia con una serie di audizioni sia con un report del settembre 2023. Qui si legge che Brook House è un ambiente che non riesce a soddisfare i bisogni delle persone con problemi psichici, molto affollato, simile a un carcere. Si parla di un «cultura tossica» che crea un ambiente malsano dove esistono «prove credibili» di abusi sui diritti umani dei trattenuti. Accuse che non riguardano Serco, ma per la commissione d’inchiesta che monitora il centro ci sono «prove che suggeriscono che molti dei problemi presenti durante il periodo di riferimento persistono nella gestione di Brook House da parte di Serco».

    Secondo la commissione alcuni dipendenti che lavoravano nella gestione precedente ricoprono ora ruoli di grado più elevato: «[C]iò mette inevitabilmente in dubbio il grado di integrazione dei cambiamenti culturali descritti da Serco». I dati della società mostrano un aumento nell’uso della forza per prevenire l’autolesionismo, continua la presidente della commissione, e «mi preoccupa che si permetta l’uso della forza da parte di agenti non formati». Dall’inizio della gestione, «abbiamo apportato miglioramenti significativi alla gestione e alla cultura del centro», ha replicato Serco a IrpiMedia.

    –-

    I principali appalti di Serco nel mondo

    Serco lavora con i ministeri della Difesa anche negli Stati Uniti e in Australia. La collaborazione con la marina americana è stata potenziata con un nuovo contratto da 200 milioni di dollari per potenziarne l’infrastruttura tecnologica anti-terrorismo. In Australia fornisce equipaggi commerciali per la gestione di navi di supporto della Marina a sostegno della Royal Australian Navy. Ha inoltre collaborato alla progettazione, costruzione, funzionamento e manutenzione della nave australiana RSV Nuyine, che si occupa della ricerca e dell’esplorazione in Antartide. Dal 2006 supporta i sistemi d’arma a corto raggio Typhoon, Mini Typhoon e Toplite e fornisce formazione accreditata alla Royal Australian Navy. Infine offre supporto logistico e diversi servizi non bellici all’esercito australiano in Medio Oriente, grazie a un contratto da 107 milioni di dollari che inizierà nel 2024.

    Serco negli Usa e Australia lavora anche nel settore sanitario. Negli Stati Uniti, la società si è aggiudicata un contratto da 690 milioni di dollari con il Dipartimento della Salute, portando avanti anche in questo caso una collaborazione che va avanti dal 2013, quando gestiva per 1,2 miliardi di dollari l’anno il sistema di assistenza sanitaria noto come Obamacare. In Australia Serco gestisce 21 servizi non sanitari del Fiona Stanley Hospital, un ospedale pubblico digitale, come il desk, l’infrastruttura di rete, i computer, l’accoglienza, il trasporto dei pazienti, le risorse umane, grazie a un contratto da 730 milioni di dollari australiani (435 milioni di euro) rinnovato nel 2021 per sei anni. Nel 2015, l’azienda era stata multata per un milione di dollari australiani (600 mila euro) per non aver raggiunto alcuni obiettivi, soprattutto nella pulizia e nella logistica.

    C’è poi il Medio Oriente, dove Serco lavora dal 1947. Impiega più di 4.500 persone in quattro Paesi: gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar e l’Iraq. Qui, Serco opera in diversi settori, tra cui i servizi antincendio e di soccorso, i servizi aeroportuali, il settore dei trasporti e il sistema ferroviario. In Arabia Saudita gestisce da tempo 11 ospedali, ma la società sta già individuando nuove opportunità nelle smart cities e nei giga-progetti del Regno Saudita. È del 10 maggio 2023 la notizia che Serco agirà come amministratore dei servizi di mobilità sostenibile nella nuova destinazione turistica visionaria del Regno, il Mar Rosso. La crescita di progetti sauditi porterà questo Paese a rappresentare oltre il 50% dei ricavi di Serco in Medio Oriente entro il 2026.

    –-

    Australia, il limbo dei detenuti 501

    L’Australia è un Paese famoso per la sua tolleranza zero verso la migrazione irregolare. Questo però non ha impedito al sistema detentivo per migranti di crescere: un’interrogazione parlamentare del 2020 rivela che la detenzione dei richiedenti asilo costa ancora poco più di due miliardi e mezzo di dollari australiani, 1,2 miliardi di euro. Tra chi può finire in carcere, dalla riforma del Migration Act del 2014, ci sono anche i cosiddetti detenuti 501, persone a cui è stato revocato il permesso di soggiorno per una serie di motivazioni, come condanne a oltre dodici mesi, sospetta associazione con un gruppo coinvolto in crimini di rilevanza internazionale o reati sessuali su minori.

    «Potrebbero anche non aver commesso alcun crimine, ma si ritiene che abbiano problemi di carattere o frequentino persone losche», spiega l’avvocata Filipa Payne, fondatrice di Route 501, organizzazione che ha seguito i casi di molti “501”. Chi rientra in questa casistica si ritrova quindi a dover scontare una doppia reclusione: dopo il carcere finisce all’interno di un centro di detenzione, dove sono rinchiusi anche i richiedenti asilo, in attesa di ottenere una risposta definitiva sul visto. Queste persone, che oggi rappresentano circa l’80% dei trattenuti, spesso vivono in Australia da diversi anni, ma non hanno mai richiesto o ottenuto la cittadinanza.

    «È molto peggio della prigione perché almeno lì sai quando uscirai – racconta dal Melbourne Immigration Detention Centre James, nome di fantasia, un ragazzo di origine europea che vive in Australia da oltre 30 anni -. È tutto molto stressante e deprimente, passo la maggior parte del tempo nella mia stanza». Dopo aver passato poco più di un anno in carcere per furto, sta scontando una seconda reclusione nei centri gestiti da Serco come detenuto 501 perché, come i richiedenti asilo, non ha in mano un permesso di soggiorno per restare in Australia. Da quando è uscito dal carcere, James ha vissuto in quattro diversi centri di detenzione gestiti da Serco, dove si trova rinchiuso da quasi dieci anni. Fino a una storica sentenza della Corte Suprema australiana dell’8 novembre 2023, la detenzione indefinita non era illegale e ad oggi, secondo i dati del Refugee Council of Australia, i tempi di detenzione in media sono di oltre 700 giorni, quasi due anni.

    Chi come James si trova incastrato nel sistema, può solo sperare di ottenere un documento per soggiornare in Australia, che può essere concesso in ultima istanza dal ministero dell’Immigrazione. Altrimenti «non ci sarà altra soluzione per me che quella di tornare al mio Paese d’origine. Non parlo la lingua, tutta la mia famiglia è qui, la mia vita sarebbe semplicemente finita. Sarebbe molto difficile per me, forse non vorrei più vivere», dice James.

    https://www.youtube.com/watch?v=EN8mAkEBMgU&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    Christmas Island, «un posto orribile»

    Serco arriva in Australia nel 1989 e dopo vent’anni vince un contratto di cinque anni, rinnovato nel 2014, da 279 milioni di dollari australiani (169 milioni di euro) per la gestione di tutte le strutture di detenzione per migranti dell’Australia continentale e quella di Christmas Island, un’isola più vicina all’Indonesia che all’Australia, funzionale al trattamento delle richieste d’asilo fuori dal continente, in un territorio isolato. «È un posto orribile, dove ho visto molta violenza. Ho visto persone tagliarsi con le lamette, impiccarsi, rifiutarsi di mangiare per una settimana», ricorda James, che è passato anche da Christmas Island. Lo scorso 1 ottobre, la struttura è stata chiusa per la seconda volta dopo le raccomandazioni del Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, ma potrebbe nuovamente essere riaperta.

    Tra il 2011 e il 2015, l’epoca di maggiore utilizzo del centro, ci sono state diverse proteste, rivolte, scioperi della fame. Tra il 2014 e il 2015, 128 minori detenuti hanno compiuto atti di autolesionismo, 105 bambini sono stati valutati da un programma di sostegno psicologico “ad alto rischio imminente” o “a rischio moderato” di suicidio. Dieci di loro avevano meno di 10 anni.

    Dopo una visita effettuata nel 2016, alcuni attivisti dell’Asylum Seeker Resource Centre hanno segnalato la mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria mentale e una pesante somministrazione di psicofarmaci, che aiutano anche a sopportare l’estremo isolamento vissuto dai trattenuti. Anche James rientra in questa categoria: «Ho iniziato a prendere il mio farmaco circa sette anni fa. Mi aiuta con l’ansia e la depressione ed è molto importante per me».

    https://www.youtube.com/watch?v=uvLLcBSpigg

    Come si gestisce la sicurezza nei centri

    Marzo 2022: l’emittente neozelandese Maori Television mostra video di detenuti di un centro di Serco contusi e sanguinanti legati con una cerniera ai mobili di una sala da pranzo. «Se quelle guardie avessero fatto quello che hanno fatto ai detenuti fuori dal centro di detenzione, sarebbe stato considerato un crimine. Ma poiché si tratta di sicurezza nazionale, è considerato appropriato. E questo non va bene», spiega l’avvocata di migranti e detenuti “501” Filipa Payne a IrpiMedia. “Quelle guardie” sono agenti di sicurezza scelti da Serco su mandato dell’Australian Border Force.

    Anche gli addetti alla sicurezza, in Australia, sono gestiti dal privato e non dalle forze dell’ordine nazionali. Serco precisa che prima di iniziare a operare, seguono un corso di nove settimane che comprende «gestione dei detenuti, consapevolezza culturale, supporto psicologico, tecniche di allentamento dell’escalation, controllo e contenzione». Al team si aggiunge una squadra di risposta alle emergenze, l’Emergency Response Team (ERT), che agisce nei casi più complessi. Sono «agenti appositamente addestrati a gestire le situazioni il più rapidamente possibile per evitare l’escalation degli incidenti», afferma la società via mail. Secondo gli attivisti userebbero delle pratiche discutibili: «Le braccia vengono sollevate dietro la schiena, la persona viene gettata a terra, messa in ginocchio e ammanettata da dietro da diversi membri del personale».

    I Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) in Australia e in Italia, un confronto

    Dal 2018 a marzo 2023 sono stati registrati quasi 800 episodi di autolesionismo, secondo Serco usati come «arma di negoziazione» nei vari centri gestiti dalla società, e 19 morti. Sarwan Aljhelie, un rifugiato iracheno di 22 anni, è deceduto al suo quarto tentativo di suicidio riaprendo il tema della sorveglianza e del supporto mentale alle persone trattenute. Circa tre settimane prima era stato trasferito senza preavviso dal centro di Villawood a quello di Yongah Hill, nei pressi di Perth, a più di tremila chilometri di distanza dalla sua famiglia e dai suoi tre figli. Mohammad Nasim Najafi, un rifugiato afghano, avrebbe invece lamentato problemi cardiaci per due settimane, secondo alcuni suoi compagni, prima di morire per un sospetto infarto.

    In Australia, Serco continua comunque a gestire tutti i sette centri di detenzione attivi e, nonostante il calo del fatturato del 5% – da 540 a 515 milioni di euro – segnalato nel rapporto di metà anno, la compagnia ha annunciato di essere «lieta di aver prorogato il contratto per la gestione delle strutture di detenzione per l’immigrazione e i servizi per i detenuti fino al dicembre 2024». «Siamo fortemente impegnati a garantire un ambiente sicuro e protetto per i detenuti, i dipendenti e i visitatori. I nostri dipendenti si impegnano a fondo per garantire questo obiettivo, spesso in circostanze difficili», scrive la società.

    –—

    La storia di Joey

    Joey Tangaloa Taualii è arrivato in Australia dall’isola di Tonga nel 1975 con i suoi genitori. Oggi ha 49 anni, 12 figli e 5 nipoti, ma è rinchiuso dall’inizio del 2021 nel Melbourne Immigration Detention Centre (MIDC), uno dei sette centri di detenzione per persone migranti gestiti da Serco in Australia. Il suo profilo rientra nella categoria dei detenuti 501, come James.

    La riforma è arrivata quando Joey era appena entrato in carcere dopo una condanna a otto anni per aver aggredito, secondo quanto racconta, un membro di una banda di motociclisti nel 2009. Nonostante viva in Australia da 48 anni, non ha mai ottenuto la cittadinanza, credendo erroneamente che il suo visto permanente avesse lo stesso valore. Ora è in attesa di sapere se potrà tornare dalla sua famiglia ma non ha garanzie su quanto tempo potrà passare recluso.

    «È un posto costruito per distruggerti», dice. Dopo quasi tre anni nel MIDC è diventato difficile anche trovare un modo per passare il tempo. Le attività sono così scarne da sembrare concepite per «bambini» e non c’è «nulla di strutturato, che ti aiuti a stimolare la mente», racconta. Joey preferisce restare la maggior parte del tempo all’interno della sua stanza ed evitare qualsiasi situazione che possa essere usata contro di lui per influenzare il riottenimento del visto. «Ci sono persone deportate in altri continenti, che non hanno famiglia, e allora scelgono di tentare il suicidio», afferma, pensando alla possibilità di essere rimpatriato a Tonga. Parla dalla sua stanza con l’occhio sinistro bendato. La sua parziale cecità richiederebbe un intervento, che sostiene di stare aspettando da due anni.

    L’ultima speranza risiede nella bontà del governo, di solito più aperto verso le persone che vivono in Australia da diversi anni. Per quello, però, ci sarà da aspettare e non si sa per quanto tempo ancora: «Ho frequentato l’asilo, le scuole elementari e le scuole superiori in Australia, i miei genitori sono stati nella stessa casa per 45 anni a Ringwood, dove siamo cresciuti giocando a calcio e a cricket e abbiamo pagato le tasse. Questo è il motivo per cui i 501 si sono suicidati e sono stati deportati. Le nostre lacrime e le nostre preghiere non cadranno nel vuoto».
    –-

    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-serco-ors-multiservizi-globale
    #Serco #ORS #asile #migrations #réfugiés #rétention #détention_administrative #business #privatisation #Italie #Rupert_Soames #Yarl’s_Wood #Australie #Christmas_island #UK #Angleterre #Brook_House #Derwentside

    –—

    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

  • El mar. El muro

    Agost del 2023, missió del vaixell Astral d’#Open_Arms al Mediterrani central. Les periodistes Mercè Folch i Anna Surinyach acompanyen voluntaris i tripulació durant una setmana intensa en què els rescats s’encavalquen els uns darrere dels altres. En pocs dies, l’ONG ha pogut salvar la vida de més d’un miler de persones. D’altres no han tingut la mateixa sort i se’ls ha perdut la pista per sempre.

    https://www.ccma.cat/3cat/proleg/audio/1188520

    #naufrage #sauvetage #audio #podcast #migrations #asile #réfugiés #Méditerranée #mer_Méditerranée

  • Le #Niger défie l’Europe sur la question migratoire

    En abrogeant une #loi de 2015 réprimant le trafic illicite de migrants, la junte au pouvoir à Niamey met un terme à la coopération avec l’Union européenne en matière de contrôles aux frontières.

    En abrogeant une loi de 2015 réprimant le trafic illicite de migrants, la junte au pouvoir à Niamey met un terme à la coopération avec l’Union européenne en matière de contrôles aux frontières.

    L’épreuve de force est engagée entre le Niger et l’Union européenne (UE) sur la question migratoire. La junte issue du coup d’Etat de juillet à Niamey a fait monter les enchères, lundi 27 novembre, en abrogeant une loi datant de 2015, pénalisant le #trafic_illicite_de_migrants.

    Ce dispositif répressif, un des grands acquis de la coopération de Bruxelles avec des Etats africains, visant à endiguer les flux migratoires vers la Méditerannée, est aujourd’hui dénoncé par le pouvoir nigérien comme ayant été adopté « sous l’influence de certaines puissances étrangères » et au détriment des « intérêts du Niger et de ses citoyens ».

    L’annonce promet d’avoir d’autant plus d’écho à Bruxelles que le pays sahélien occupe une place stratégique sur les routes migratoires du continent africain en sa qualité de couloir de transit privilégié vers la Libye, plate-forme de projection – avec la Tunisie – vers l’Italie. Elle intervient au plus mauvais moment pour les Européens, alors qu’ils peinent à unifier leurs positions face à la nouvelle vague d’arrivées qui touche l’Italie. Du 1er janvier au 26 novembre, le nombre de migrants et réfugiés ayant débarqué sur le littoral de la Péninsule s’est élevé à 151 312, soit une augmentation de 61 % par rapport à la même période en 2022. La poussée est sans précédent depuis la crise migratoire de 2015-2016.

    Inquiétude à Bruxelles

    La commissaire européenne aux affaires intérieures, la Suédoise Ylva Johansson, s’est dite mardi « très préoccupée » par la volte-face nigérienne. La décision semble répondre au récent durcissement de l’UE à l’égard des putschistes. Le 23 novembre, le Parlement de Strasbourg avait « fermement condamné » le coup d’Etat à Niamey, un mois après l’adoption par le Conseil européen d’un « cadre de mesures restrictives », ouvrant la voie à de futures sanctions.

    « Les dirigeants à Niamey sont dans une grande opération de #chantage envers l’UE, commente un diplomate occidental familier du Niger. Ils savent que le sujet migratoire est source de crispation au sein de l’UE et veulent ouvrir une brèche dans la position européenne, alors qu’ils sont asphyxiés par les #sanctions_économiques décidées par la Communauté économique des Etats d’Afrique de l’Ouest [Cedeao]. Il ne leur a pas échappé que l’Italie est encline à plus de souplesse à leur égard, précisément à cause de cette question migratoire. »
    Mais le #défi lancé par la junte aux pays européens pourrait être plus radical encore, jusqu’à s’approcher du point de rupture. « La décision des dirigeants de Niamey montre qu’ils ont tout simplement abandonné toute idée de négocier avec l’UE à l’avenir, souligne une autre source diplomatique occidentale. Car un retour en arrière serait extrêmement difficile après l’abrogation de la loi. Ils montrent qu’ils ont choisi leur camp. Ils vont désormais nous tourner le dos, comme l’ont fait les Maliens. Ils ont abandonné leur principal point de pression avec l’UE. »

    Si l’inquiétude monte à Bruxelles face à un verrou migratoire en train de sauter, c’est le soulagement qui prévaut au Niger, où les rigueurs de la loi de 2015 avaient été mal vécues. Des réactions de satisfaction ont été enregistrées à Agadez, la grande ville du nord et « capitale » touareg, carrefour historique des migrants se préparant à la traversée du Sahara. « Les gens affichent leur #joie, rapporte Ahmadou Atafa, rédacteur au journal en ligne Aïr Info, installé à Agadez. Ils pensent qu’ils vont pouvoir redémarrer leurs activités liées à la migration. »

    Les autorités locales, elles aussi, se réjouissent de cette perspective. « Nous ne pouvons que saluer cette abrogation, se félicite Mohamed Anako, le président du conseil régional d’#Agadez. Depuis l’adoption de la loi, l’#économie_régionale s’était fortement dégradée. »

    Il aura donc fallu huit ans pour que le paradigme des relations entre l’UE et le Niger change du tout au tout. Le #sommet_de_La_Valette, capitale de Malte, en novembre 2015, dominé par la crise migratoire à laquelle le Vieux Continent faisait alors face dans des proportions inédites, avait accéléré la politique d’externalisation des contrôles aux frontières de l’Europe. Les Etats méditerranéens et sahéliens étaient plus que jamais pressés de s’y associer. Le Niger s’était alors illustré comme un « bon élève » de l’Europe en mettant en œuvre toute une série de mesures visant à freiner l’accès à sa frontière septentrionale avec la Libye.

    Satisfaction à Agadez

    A cette fin, le grand architecte de ce plan d’endiguement, le ministre de l’intérieur de l’époque – #Mohamed_Bazoum, devenu chef d’Etat en 2021 avant d’être renversé le 26 juillet – avait décidé de mettre en œuvre, avec la plus grande sévérité, une loi de mai 2015 réprimant le trafic illicite de migrants. Du jour au lendemain, les ressortissants du Sénégal, de Côte d’Ivoire, du Mali ou du Nigeria ont fait l’objet d’entraves administratives – le plus souvent en contradiction avec les règles de #libre_circulation prévues au sein de la Cedeao – dans leurs tentatives de rallier Agadez par bus en provenance de Niamey.
    Dans la grande ville du Nord nigérien, le gouvernement s’était attaqué aux réseaux de passeurs, au risque de fragiliser les équilibres socio-économiques. L’oasis d’Agadez, par où avaient transité en 2016 près de 333 000 migrants vers l’Algérie et la Libye, a longtemps profité de ces passages. Ultime porte d’accès au désert, la ville fourmillait de prestataires de « services migratoires » – criminalisés du jour au lendemain –, guidant, logeant, nourrissant, équipant et transportant les migrants.

    Avec la loi de 2015, « l’ensemble de la chaîne de ces services à la migration s’est écroulé », se souvient M. Anako. Le coup a été d’autant plus dur pour les populations locales que, dans les années 2010, la floraison de ces activités était venue opportunément compenser l’effondrement du tourisme, victime des rébellions touareg (1990-1997 et 2007-2009), puis du djihadisme. A partir de 2017, Agadez n’était plus que l’ombre d’elle-même. Certains notables locaux se plaignaient ouvertement que l’Europe avait réussi à « imposer sa frontière méridionale à Agadez ».

    Aussi, l’abrogation de la loi de 2015 permet à la junte de Niamey de faire d’une pierre deux coups. Outre la riposte à l’Europe, elle rouvre des perspectives économiques dans une région où les partisans du président déchu, M. Bazoum, espéraient recruter des soutiens. « Il y a à l’évidence un “deal” pour que les Touareg d’Agadez prêtent allégeance à la junte », relève le diplomate occidental.

    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/11/28/le-niger-defie-l-europe-sur-la-question-migratoire_6202814_3212.html
    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #abrogation #contrôles_frontaliers #coopération #arrêt #UE #EU #Union_européenne #économie #coup_d'Etat #loi_2015-36 #2015-36

    ping @karine4

    • Sur la route de l’exil, le Niger ne fera plus le « #sale_boulot » de l’Europe

      La junte au pouvoir à Niamey a annoncé l’abrogation d’une loi de 2015 qui criminalisait l’aide aux personnes migrantes. Un coup dur pour l’Union européenne, qui avait fait du Niger un partenaire central dans sa politique d’externalisation des frontières. Mais une décision saluée dans le pays.

      DepuisDepuis le coup d’État du 26 juillet au Niger, au cours duquel l’armée a arraché le pouvoir des mains de Mohamed Bazoum, qu’elle retient toujours au secret, c’était la grande crainte des responsables de l’Union européenne. Les fonctionnaires de Bruxelles attendaient avec angoisse le moment où Niamey mettrait fin à l’une des coopérations les plus avancées en matière d’externalisation des contrôles aux frontières.

      C’est désormais devenu une réalité : le 25 novembre, le régime issu du putsch a publié une ordonnance qui abroge la loi n° 2015-36 relative au « trafic illicite de migrants » et qui annule toutes les condamnations prononcées dans le cadre de cette loi.

      Le gouvernement de transition a justifié cette décision par le fait que ce texte avait été adopté en mai 2015 « sous l’influence de certaines puissances étrangères » et au détriment des « intérêts du Niger et de ses citoyens », et qu’il entrait « en contradiction flagrante » avec les règles communautaires de la Communauté économique des États de l’Afrique de l’Ouest (Cedeao).

      La commissaire européenne aux affaires intérieures, la Suédoise Ylva Johansson, s’est dite « très préoccupée » par cette décision qui intervient alors que les relations entre l’Europe et le Niger sont tendues : le 23 octobre, le Conseil européen avait adopté un « cadre de mesures restrictives » ouvrant la voie à de possibles sanctions contre le régime putschiste, et le 23 novembre, le Parlement européen a « fermement » condamné le coup d’État.

      Pour l’UE et sa politique antimigratoire, c’est une très mauvaise nouvelle, d’autant que les arrivées en provenance du continent africain ont, selon l’agence Frontex, sensiblement augmenté en 2023. La loi 2015-36 et la coopération avec le Niger étaient au cœur de la stratégie mise en œuvre depuis plusieurs années pour endiguer les arrivées d’exilé·es sur le sol européen.

      Mais au Niger, l’abrogation a été très bien accueillie. « C’est une mesure populaire, indique depuis Niamey un activiste de la société civile qui a tenu à rester anonyme. Cette loi n’a jamais été acceptée par la population, qui ne comprenait pas pourquoi le gouvernement nigérien devait faire le sale boulot à la place des Européens. »
      Satisfaction à Agadez

      À Agadez, grande ville du Nord qui a été la plus touchée par la loi de 2015, le soulagement est grand. « Ici, c’est la joie, témoigne Musa, un habitant de la ville qui a un temps transporté des migrant·es. Les gens sont très contents. Beaucoup de monde vivait de cette activité, et beaucoup m’ont dit qu’ils allaient reprendre du service. Moi aussi peut-être, je ne sais pas encore. »

      Un élu de la municipalité d’Agadez indique lui aussi être « pleinement satisfait ». Il rappelle que c’était une revendication des élus locaux et qu’ils ont mené un intense lobbying ces dernières semaines à Niamey. Le président du conseil régional d’Agadez, Mohamed Anacko, a quant à lui salué « cette initiative très bénéfique pour [sa] région ».

      Satisfaction aussi au sein de l’ONG Alarme Phone Sahara, qui a pour mission de venir en aide aux migrant·es dans le désert. « Cette abrogation est une nouvelle surprenante et plaisante », indique Moctar Dan Yaye, un des cadres de l’ONG. Depuis plusieurs années, Alarme Phone Sahara militait en sa faveur. En 2022, elle a déposé une plainte contre l’État du Niger auprès de la Cour de justice de la Cedeao, dénonçant l’atteinte à la liberté de circulation de ses ressortissant·es. Mais elle pointe aussi les conséquences sur l’économie d’Agadez, « qui a toujours vécu des transports et de la mobilité », et surtout sur la sécurité des migrant·es, « qui ont été contraints de se cacher et de prendre des routes plus dangereuses alors qu’avant, les convois étaient sécurisés ».
      Avant que la loi ne soit appliquée en 2016 (à l’initiative de Mohamed Bazoum, alors ministre de l’intérieur), tout se passait dans la transparence. Chaque lundi, un convoi de plusieurs dizaines de véhicules chargés de personnes désireuses de rejoindre la Libye, escortés par l’armée, s’ébranlait depuis la gare routière d’Agadez.

      « Toute la ville en vivait, soulignait en 2019 Mahaman Sanoussi, un acteur de la société civile. La migration était licite. Les agences de transporteurs avaient pignon sur rue. Ils payaient leurs taxes comme tout entrepreneur. » En 2016, selon une étude de l’ONG Small Arms Survey, près de 400 000 migrant·es seraient passé·es par Agadez avant de rejoindre la Libye ou l’Algérie, puis, pour certain·es, de tenter la traversée de la Méditerranée.
      Le coup de frein de Bruxelles

      À Bruxelles, en 2015, on décide donc que c’est dans cette ville qu’il faut stopper les flux. Cette année-là, l’UE élabore l’Agenda européen sur la migration et organise le sommet de La Valette (Malte) dans le but de freiner les arrivées. Des sommes colossales (plus de 2 milliards d’euros) sont promises aux États du Sud afin de les pousser à lutter contre la migration. Un Fonds fiduciaire d’urgence de l’UE pour l’Afrique (EUTF) est mis en place. Et le Niger est au cœur de cette stratégie : entre 2016 et 2019, l’EUTF lui a alloué 266,2 millions d’euros – plus qu’à tout autre pays (et 28 millions supplémentaires entre 2019 et 2022).

      Ce fonds a notamment financé la création d’une unité d’élite en matière de lutte contre les migrations. Mais tout cela n’aurait pas été possible sans une loi criminalisant ceux qui aident, d’une manière ou d’une autre, les migrant·es. À Niamey, le pouvoir en place ne s’en cachait pas à l’époque : c’est sous la pression de l’UE, et avec la promesse d’une aide financière substantielle, qu’il a fait adopter la loi 2015-36 .

      Avec ce texte, celui qui permettait à une personne en exil d’entrer ou de sortir illégalement du territoire risquait de 5 à 10 ans de prison, et une amende pouvant aller jusqu’à 5 millions de francs CFA (7 630 euros). Celui qui l’aidait durant son séjour, en la logeant ou la nourrissant, encourait une peine de 2 à 5 ans.

      Après sa mise en œuvre, plus de 300 personnes ont été incarcérées, des passeurs pour la plupart, des centaines de véhicules ont été immobilisés et des milliers d’emplois ont été perdus. Selon plusieurs études, plus de la moitié des ménages d’Agadez vivaient de la migration, qui représentait en 2015 près de 6 000 emplois directs : passeurs, coxers (ou intermédiaires), propriétaires de « ghettos » (le nom donné sur place aux lieux d’hébergement), chauffeurs, mais aussi cuisinières, commerçant·es, etc. Ainsi la loi 2015-36 a-t-elle été perçue par nombre d’habitant·es comme « une loi contre Agadez ». « Vraiment, ça nous a fait mal, indique Mahamane Alkassoum, un ancien passeur. Du jour au lendemain, on n’a plus eu de source de revenu. Moi-même, je suis toujours au chômage à l’heure où je vous parle. »

      Cette loi a eu des effets : selon l’UE, les arrivées en Italie ont chuté de 85 % entre 2016 et 2019. Mais elle a aussi fragilisé les migrant·es. « Avant, dans les convois, quand il y avait un problème, les gens étaient secourus. Avec la loi, les passeurs prenaient des routes plus dangereuses, la nuit, et ils étaient isolés. En cas de problème, les gens étaient livrés à eux-mêmes dans le désert. Il y a eu beaucoup de morts », souligne Moctar Dan Yaye, sans pouvoir donner de chiffres précis.

      En outre, les « ghettos » sont devenus clandestins et les prix ont doublé, voire triplé… « Le manque de clarté de la loi et sa mise en œuvre en tant que mesure répressive – au lieu d’une mesure de protection – ont abouti à la criminalisation de toutes les migrations et ont poussé les migrants à se cacher, ce qui les rend plus vulnérables aux abus et aux violations des droits de l’homme », constatait en octobre 2018 le rapporteur des Nations unies sur les droits de l’homme des migrants, Felipe González Morales.

      Dans un rapport publié la même année, le think tank Clingendeal notait que « l’UE a contribué à perturber l’économie locale sans fournir d’alternative viable », ce qui « a créé frustration et déception au sein de la population ». L’UE a bien financé un programme de réinsertion pour les anciens acteurs de la migration. Mais très peu en ont bénéficié : 1 080 personnes sur 6 564 identifiées.

      Et encore, cette aide était jugée dérisoire : 1,5 million de francs CFA, « cela ne permet pas de repartir de zéro », dénonce Bachir Amma, un ancien passeur qui a essayé d’organiser le secteur. « L’Europe n’a pas tenu ses promesses, elle nous a trahis, renchérit Mahamane Alkassoum. Alors oui, si je peux, je reprendrai cette activité. Ce n’est pas par plaisir. Si on pouvait faire autre chose, on le ferait. Mais ici, il n’y a rien. »

      L’Europe doit-elle pour autant s’attendre à une nouvelle vague d’arrivées en provenance du Niger, comme le craint Bruxelles ? Si nombre d’anciens passeurs assurent qu’ils reprendront du service dès que possible, rien ne dit que les candidat·es à l’exil, de leur côté, retrouveront la route d’Agadez. « La situation a changé, souligne Moctar Dan Yaye. La frontière avec l’Algérie est quasi fermée et la situation en Libye a évolué. Beaucoup de véhicules ont été saisis aussi. » En outre, la plupart des États de la Cedeao d’où viennent les candidat·es à l’exil ont fermé leur frontière avec le Niger après le coup d’État.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/021223/sur-la-route-de-l-exil-le-niger-ne-fera-plus-le-sale-boulot-de-l-europe

    • Au Niger, la loi du 26 mai 2015 n’est plus un obstacle pour les migrants de l’Afrique subsaharienne

      Le Président du Conseil National pour la Sauvegarde de la Patrie (CNSP), le Général Abdourahamane Tiani, a signé le 25 novembre 2023, une ordonnance portant abrogation de la loi du 26 mai 2015 relative au trafic des migrants. La loi abrogée prescrivait des peines d’emprisonnement allant d’un (1) à trente (30) ans et des amendes de trois (3) à 30 millions de francs CFA. Elle avait permis de démanteler des réseaux de passeurs dans le nord du Niger, favorisant ainsi le recours des migrants à d’autres réseaux encore plus dangereux qui les exposent davantage aux traitements inhumains et au péril dans le désert. Dans les zones où transitent les migrants, cette loi avait conduit au chômage plusieurs milliers d’acteurs de la filière, au détriment de l’économie locale et la quiétude dans le nord nigérien. La décision du CNSP est favorablement accueillie non seulement dans les localités de transit des migrants, mais aussi au niveau des Organisations de la société civile qui qualifiaient la loi incriminant le trafic des migrants d’instrument de violation de droits humains et du principe de libre circulation des personnes. Par ailleurs, une partie de l’opinion considère l’abrogation de la loi du 26 mai 2015 comme une réplique à l’attitude de plus en plus irritante de l’Union Européenne (UE) vis-à-vis des nouvelles autorités nigériennes. Néanmoins, certains observateurs voient en cette décision du CNSP, des perspectives de gestion plus équilibrée de la migration au Niger.

      Une réponse du berger à la bergère ?

      L’abrogation de la loi du 26 mai 2015 intervient au lendemain du vote par le parlement européen d’une résolution condamnant le coup d’état du 26 juillet 2023 et appelant à la restauration du régime déchu. Ainsi, d’aucuns estiment que cette décision des autorités nigériennes est une réplique à l’attitude de l’UE envers le nouveau régime du Niger. En effet, depuis l’avènement du CNSP au pouvoir, l’Union Européenne, principale bénéficiaire de la loi du 26 Mai 2015, dénie toute légitimité aux nouveaux dirigeants nigériens. Ce déni s’est traduit par la réduction de la coopération entre l’UE et le Niger à l’appui humanitaire, une série de sanctions ciblant les nouvelles autorités nigériennes et la récente résolution du parlement européen, entre autres. Selon le Président du Réseau National de Défense de Droits Humains (RNDDH), M. Kani Abdoulaye, cette décision du CNSP peut être considérée comme une réponse ou une réplique à la position de l’Union européenne vis-à-vis des nouveaux dirigeants du Niger. « De ce point de vue, la loi sur la migration constitue une arme redoutable pour les autorités actuelles du Niger », a estimé M. Kani Abdoulaye.

      Une loi inadaptée initiée sous l’influence de l’Union Européenne

      Dans un communiqué relatif à l’abrogation de la loi du 26 Mai 2015, le Gouvernement nigérien a rappelé que ladite loi a été adoptée en 2015 sous l’influence de certaines puissances étrangères, et qu’elle érigeait et incriminait en trafic illicite certaines activités par nature régulières. Selon le Président du RNDDH, Il y avait des accords politiques entre le Niger et l’Union Européenne et un moment l’Union Européenne a octroyé des financements au Niger dans le cadre de la lutte contre le trafic des migrants.

      Pour sa part, M. Hamadou Boulama Tcherno de l’Association Alternative Espaces Citoyens (AEC), a laissé entendre que cette loi a été écrite par le gouvernement et adoptée par le parlement sous une avalanche de pressions politique et diplomatique des pays occidentaux. « En atteste le ballet ininterrompu des dirigeants européens pour encourager les autorités de l’époque à endosser la sous-traitance de la gestion des flux migratoires », a-t-il rappelé. Le responsable de l’AEC a également estimé que l’élaboration de cette loi a largement été inspirée, sinon dictée par des experts de l’UE et que son adoption est une réponse positive à l’agenda de l’UE visant à stopper les arrivées des migrants, notamment africains aux frontières de l’espace Schengen. « En effet, au fil des ans, l’UE a réussi le tour de magie de ramener ses frontières juridiques au Niger, d’abord à Agadez, et ensuite à Zinder. Depuis lors, nos Forces de Défense et de Sécurité (FDS) travaillent en étroite collaboration avec des policiers européens pour la surveillance des flux migratoires aux frontières terrestres et aériennes de notre pays », a-t-il déploré. « Cette collaboration a permis à l’Agence Frontex dont on connait le bilan accablant de la surveillance des frontières européennes, de poser ses cartons dans notre pays, à EUCAP SAHEL d’avoir un mandat étendu à la gestion des migrations », a ajouté M. Hamadou Boulama Tcherno.

      Une loi impopulaire farouchement combattue pour ses conséquences néfastes

      L’adoption de la loi du 26 Mai 2015 a eu d’importants impacts négatifs sur les migrants et les demandeurs d’asile. Aussi, sans mesures alternatives conséquentes à l’économie de migration, elle a mis fin de façon brutale aux activités de plusieurs milliers de professionnels de la migration dans les différentes localités de transit. Depuis son adoption, des associations et acteurs locaux appelaient à l’abrogation ou la révision de cette loi afin d’atténuer son impact sur l’économie locale. Selon M. Hamadou Boulama Tcherno, l’application rigide de loi contre la migration a conduit des milliers de ménages dans une situation de pauvreté. Il a rapporté qu’environ 6.500 personnes vivaient de manière directe ou indirecte des revenus liés à la migration, d’après le Conseil régional d’Agadez. « Avec la criminalisation de la loi, la majorité d’entre elles s’est retrouvée au chômage », a-t-il déploré.

      « A Alternative Espaces Citoyens, nous avons combattu cette loi avant même son adoption par le parlement nigérien », a rappelé M. Hamadou Boulama Tcherno de l’Association Alternative Espaces Citoyens. Selon lui, AEC n’a jamais fait mystère de sa farouche opposition à cette loi criminalisant la mobilité. « Avec la modestie requise, je peux dire qu’au Niger, l’association a été à la pointe du combat citoyen pour discréditer cette loi, en dénonçant régulièrement ses effets néfastes sur les économies des villes de transit et sur les droits humains », a affirmé le responsable de AEC. Dans le même ordre d’idée, depuis 2015, l’Association Alternative Espaces Citoyens a mené des actions multiformes de sensibilisation sur les droits humains des migrants, de mobilisation sociale et de plaidoyer en faveur du droit à la mobilité, selon M. Hamadou Boulama Tcherno.

      La loi du 26 Mai 2015, un instrument de violation des droits humains et du principe de libre circulation des personnes

      Dans son communiqué, le Gouvernement nigérien a notifié que la loi abrogée a été prise « en contradiction flagrante avec nos règles communautaires et ne prenait pas en compte les intérêts du Niger et de ses citoyens ». Ainsi, selon le document, « c’est en considération de tous les effets néfastes et du caractère attentatoire aux libertés publiques de cette loi que le Conseil National pour la Sauvegarde de la Patrie a décidé de l’abroger ». De son côté, le Président du RNDDH a rappelé que lors de l’adoption de ladite loi, d’un point de vue communautaire, les Organisations de la société civile ont relevé que l’Etat du Niger a failli à ses obligations en matière de libre circulation des personnes et des biens, un principe fondamental du protocole de la Communauté Economique des Etats de l’Afrique de l’Ouest (CEDEAO). En effet, « on arrêtait les ressortissants des pays de la CEDEAO en supposant qu’ils vont aller en Europe, donc, de notre point de vue, cela faisait du Niger la première frontière de l’Union Européenne en Afrique », a expliqué M. Kani Abdoulaye. Ainsi, « nous avons toujours estimé que cela constituait pour le Niger un manquement à ses obligations au niveau de la CEDEAO », a-t-il poursuivi. Le Président du RNDDH a également estimé que l’adoption de la loi du 26 mai 2015 est une violation grave de droits de l’homme en ce que depuis la nuit des temps, les populations se déplacent. « Le Niger est aussi signataire de la Convention des Nations-Unies qui protège tous les travailleurs migrants et leurs familles », a ajouté M. Kani Abdoulaye.

      Selon M. Hamadou Boulama Tcherno, la mise en œuvre de cette loi s’est soldée par des abus des droits et une augmentation des morts dans le désert. « Décidés à poursuivre leur parcours migratoire, les migrants empruntent des routes de contournement des postes de contrôle. Malheureusement, parmi eux, certains perdent la vie, faute d’eau, après généralement la panne du véhicule de transport ou leur abandon dans le désert par des conducteurs sans foi, ni loi », a-t-il indiqué. Se basant sur des rapports élaborés par AEC, M. Hamadou Boulama Tcherno a relevé que durant les huit (8) ans de mise en œuvre de cette loi sur la migration, les personnes migrantes ont connu une violation de leurs droits et une situation de vulnérabilité sans précédent. « Cette loi adoptée officiellement dit-on pour protéger les droits des migrants a été utilisée dans la réalité comme un outil de répression des acteurs de l’économie de la migration et des migrants. Les moins chanceux ont été victimes d’arrestations arbitraires et d’emprisonnement, sans possibilités de recours », a-t-il dénoncé. De même, le responsable de AEC a affirmé que la loi du 26 Mai 2015 a favorisé l’encasernement des migrants dans les centres de transit de l’OIM et a porté un coup rude à la liberté de circulation communautaire avec les refoulements des citoyens de la CEDEAO aux portes d’entrée du Niger. Elle a même permis d’interner des nigériens dans leur propre pays, selon M. Hamadou Boulama Tcherno.

      L’abrogation de la loi du 26 Mai 2015, une ébauche de politique migratoire basée sur les droits fondamentaux ?

      Pour le responsable de AEC, l’abrogation de cette loi est une bonne nouvelle pour tous les défenseurs des droits des personnes migrantes. « C’est aussi un ouf de soulagement pour les autorités locales et les populations des régions, Agadez et Zinder en tête de peloton, fortement impactées par la lutte contre les migrations dites irrégulières », a-t-il ajouté. Aussi, « nous saluons cette abrogation, car elle offre une occasion inespérée de sortir du piège mortel de l’externalisation du contrôle de la mobilité humaine », a annoncé M. Hamadou Boulama Tcherno. Il a également espéré que l’abrogation de la loi du 26 Mai 2015 va ouvrir des perspectives heureuses pour les citoyens, notamment un changement de cap dans la gouvernance des migrations. « Notre souhait est de voir le Niger prendre l’option de se doter d’une politique migratoire centrée sur les droits fondamentaux, la solidarité et l’hospitalité africaine », a formulé le responsable de AEC.

      Quant au Président de la Plate-Forme ‘’Le Défenseur des Droits’’, M. Almoustapha Moussa, il a souligné la nécessité de convoquer des Etats généraux avec l’ensemble des parties prenantes sur le plan national et international, avec les ONG qui ont lutté pour l’abrogation de cette loi ou sa révision, pour que des mesures immédiates puissent être prises afin d’organiser une gestion équilibrée de la migration sur le territoire du Niger. En effet, tout en soulignant que le Niger ne doit pas être à la solde de l’Union Européenne, M. Almoustapha Moussa a estimé qu’en même temps, le Niger ne doit pas occulter les trafics qui se font sur son territoire, les trafics qui utilisent son territoire comme zone de transit. « Il y a des réseaux qui viennent du Nigéria, du Cameroun, du Soudan, du Tchad etc… le fait que cette loi soit abrogée ne doit pas donner l’espace pour que le trafic illicite des migrants et éventuellement la traite des êtres humains puissent se faire sur le territoire du Niger », a-t-il expliqué. « A cet effet, une loi doit être rapidement adoptée et pour cela, les différents acteurs doivent être convoqués afin qu’ils fournissent des informations utiles à l’élaboration d’une prochaine loi », a conclu le Président de la Plate-Forme ‘’Le Défenseur des Droits’’.

      Selon un document de l’Institut d’Etude de Sécurité ISS Africa, les migrations humaines depuis l’Afrique vers l’Europe sont de plus en plus présentées comme une menace pour la sécurité des États et des sociétés. D’après des estimations évoquées dans le document, un tiers des migrants qui transitent par Agadez, ville située sur l’un des principaux itinéraires migratoires reliant l’Afrique de l’Ouest, le Sahel et le Maghreb, finissent par embarquer sur la côte méditerranéenne, à bord de bateaux pneumatiques à destination de l’Europe. C’est pourquoi depuis 2015, l’Union Européenne se base sur cette ville considérée comme la porte du désert nigérien pour endiguer les migrations de l’Afrique subsaharienne vers l’Europe. Les mécanismes de contrôle qui résultent de la loi du 26 Mai 2015 ont abouti à une diminution de 75 % des flux migratoires vers le Nord via Agadez en 2017, contribuant ainsi à la baisse globale des arrivées de migrants en Europe par les différents itinéraires méditerranéens. En 2018, l’Europe a enregistré une baisse de 89% des arrivées de migrants par rapport à 2015. En 2019, la Commission européenne a annoncé la fin de la crise migratoire. Mais suite à l’abrogation de la loi sur la migration, les ressortissants de l’Afrique subsaharienne sont désormais libres de transiter par le Niger. Dans ce contexte, l’Union Européenne dispose-t-elle d’alternative pour s’éviter une reprise de la ‘’bousculades des migrants’’ à ses portes ?

      https://lematinal-niger.com/index.php/politique/item/124-migration-au-niger-la-loi-du-26-mai-2015-n-est-plus-un-obstacle

  • La CEDU condanna l’Italia per detenzione illegale di minori stranieri nell’hotspot di Taranto
    https://www.meltingpot.org/2023/11/la-cedu-condanna-litalia-per-detenzione-illegale-di-minori-stranieri-nel

    Nuova condanna all’Italia dalla Corte europea per i Diritti umani. Oggi nell’hotspot permangono ancora 185 minori. L’ASGI chiede l’immediato collocamento in strutture adeguate e la supervisione dell’attuazione delle precedenti sentenze che, come dimostra la situazione nell’hotspot di Taranto, non hanno fatto modificare le prassi illegittime. La Corte Europea dei Diritti Umani, con la decisione del 23 novembre 2023 resa nel procedimento n. 47287/17 (caso A.T. ed altri c. Italia), ha condannato l’Italia per avere detenuto illegalmente nell’ hotspot di Taranto diversi minori stranieri non accompagnati (art. 5, parr. 1, 2 e 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), per avere utilizzato trattamenti (...)

    #Giurisprudenza_europea #Guida_legislativa #Speciale_Hotspot

  • Aumento di arrivi alle Canarie. Dall’inizio dell’anno più di 1.000 le persone disperse

    La principale causa è la repressione delle proteste in Senegal.

    A partire dallo scorso maggio 2023 il collettivo spagnolo Caminando Fronteras ha registrato un nuovo importante aumento di sbarchi alle isole Canarie dovuto principalmente alla situazione politica in Senegal, da dove partono la maggior parte delle imbarcazioni. Come sempre accade, proporzionalmente all’aumento di approdi, aumenta anche il numero di morti e dispersi. La risposta del governo spagnolo è la promessa di maggiore controllo sulle coste africane di partenza, mentre le strutture di “accoglienza” sono al collasso e non forniscono le condizioni minime di igiene e abitabilità.

    Secondo le ricerche di Caminando Fronteras le persone scomparse sono già più di mille dall’inizio dell’anno. Solo nel mese di giugno sono scomparse 3 imbarcazioni con oltre 300 persone a bordo. La maggior parte delle imbarcazioni che stanno raggiungendo le Canarie in questi mesi partono dal Senegal, a causa di una situazione politica sempre più tesa, che vive ora una fase particolarmente acuta.

    Migliaia di persone stanno protestando per la stretta autoritaria messa in atto dall’attuale presidente Macky Sall in vista delle prossime elezioni presidenziali che si terranno a febbraio 2024. Dalla fine di maggio in particolare, la situazione è peggiorata notevolmente e diverse organizzazioni senegalesi per la protezione dei diritti umani hanno denunciato arresti di massa che stanno colpendo anche un gran numero di adolescenti.

    La repressione è molto dura, attualmente si contano circa due mila arresti e 16 persone uccise durante le proteste. Tra le persone detenute si contano anche numerosi minori, motivo per cui negli ultimi due mesi, il numero di bambini e adolescenti che viaggiano sui cayucos è aumentato, rappresentando in alcuni casi fino al 40% delle persone che scelgono di partire a bordo di queste tradizionali imbarcazioni da pesca. Anche donne e intere famiglie stanno iniziando a imbarcarsi in misura sempre maggiore.

    Le autorità spagnole concentrano la loro azione sugli arrivi, ma non sulla pericolosa rotta che divide il Senegal dalle Canarie, attualmente quella che provoca più morti. Il viaggio da Kafountine, in Senegal, al Hierro, l’isola delle Canarie più vicina, può durare anche due settimane. Si tratta di un viaggio molto lungo, in cui le persone sono esposte alle forti correnti dell’oceano, alle condizioni meteorologiche avverse e alla possibilità di imprevisti o guasti al motore. Per queste ragioni la rotta verso le Canarie continua ad affermarsi come una delle più pericolose e con il più alto tasso di mortalità.

    L’azione statale rispetto al soccorso e alla ricerca dei dispersi presenta grosse falle, dal momento che non esiste nessun protocollo per la ricerca dei dispersi in mare e che le operazioni di salvataggio risultano attraversate e ostacolate dalle politiche razziste implementate dal governo spagnolo. Dal 2018 esiste infatti un protocollo specifico per il salvataggio delle persone che naufragano a bordo delle pateras, diverso dal protocollo di salvataggio per il resto delle persone che si trovano a rischio in mare.

    Questo protocollo è fortemente deficitario in termini di mezzi e di azione, ciò obbliga gli operatori e le operatrici di Salvamento marítimo a una differenziazione di tipo razzista nelle operazioni di salvataggio. Molte morti si sarebbero potute evitare, per esempio, se si fossero attivati i mezzi di soccorso nel momento dell’avvistamento delle imbarcazioni invece di aspettare che queste naufragassero. Queste gravi mancanze nel soccorso e nella ricerca dei dispersi non sono un caso, bensì una precisa strategia per tentare di invisibilizzare questa situazione nel discorso pubblico e il governo la mette in atto impunemente, sulla pelle di migliaia di persone che potevano invece essere salvate, la cui vita viene considerata niente più che una moneta di scambio per le proprie esigenze politiche.

    Anche una volta arrivate le persone continuano a essere oggetto di razzismo e maltrattamento istituzionale. A El Hierro, dove sta arrivando la maggior parte di persone in questi mesi, i mezzi per gestire l’accoglienza sono scarsi. Le persone vengono trattenute sulle darsene dei porti, in spazi sovraffollati e in cui le condizioni di vita sono ridotte al minimo. Anche i lavoratori e le lavoratrici delle ONG hanno denunciato la difficile situazione, soprattutto durante le ondate di caldo, in cui le persone sono state costrette a permanere diversi giorni sedute sul cemento in attesa di essere identificate e trasferite in altre isole.

    A tutta questa situazione il governo risponde attraverso la solita retorica del bisogno di un maggiore controllo migratorio. Le misure promesse dal ministro dell’interno Marlaska, riconfermato dopo le ultime elezioni, comprenderebbero anche un aereo della Guardia Civil che sorvoli costantemente le coste africane per identificare le partenze. Questo controllo non sarebbe funzionale ad attività di soccorso, come dimostrano i numerosi casi di omissione di soccorso da parte delle autorità spagnole denunciati da Caminando Fronteras, di cui uno documentato il 20 giugno scorso dall’emittente radio CadenaSER 1.

    Una volta in più assistiamo a come le politiche di controllo, non potendo fermare le migrazioni, siano solamente un dispositivo funzionale alla criminalizzazione e al confinamento delle persone migranti, e di come si rivelino uno strumento di violenza che provoca ogni anno la morte di migliaia di persone che potevano invece essere salvate. I tentativi di insabbiamento di queste morti da parte del governo spagnolo dimostrano la disumanità con cui vengono gestite le frontiere e l’opportunismo politico con cui i governi europei rigirano a proprio favore queste tragedie, di cui sono i responsabili, per mettere in campo nuovi strumenti per la persecuzione delle persone migranti.

    1. Está dentro de la zona SAR nuestra”: la SER accede a las grabaciones de Salvamento Marítimo del último naufragio en la ruta canaria, Cadenaser (22 giugno 2022): https://cadenaser.com/nacional/2023/06/22/esta-dentro-de-la-zona-sar-nuestra-la-ser-accede-a-las-grabaciones-de-sal

    https://www.meltingpot.org/2023/11/aumento-di-arrivi-alle-canarie-dallinizio-dellanno-sono-gia-piu-di-1-000

    J’avais loupé ce protocole raciste:

    Dal 2018 esiste infatti un protocollo specifico per il salvataggio delle persone che naufragano a bordo delle pateras, diverso dal protocollo di salvataggio per il resto delle persone che si trovano a rischio in mare.

    Questo protocollo è fortemente deficitario in termini di mezzi e di azione, ciò obbliga gli operatori e le operatrici di Salvamento marítimo a una differenziazione di tipo razzista nelle operazioni di salvataggio.

    –-> deepl translation:

    « En effet, depuis 2018, il existe un protocole spécifique pour le sauvetage des naufragés à bord des pateras, qui diffère du protocole de sauvetage du reste des personnes en danger en mer.

    Ce protocole est gravement déficient en termes de moyens et d’action, ce qui oblige les opérateurs du Salvamento marítimo à une #différenciation_raciale dans les opérations de sauvetage. »

    #route_atlantique #asile #migrations #réfugiés #Canaries #îles_Canaries #statistiques #chiffres #Sénégal #répression #Caminando_Fronteras #Macky_Sall #cayucos #Kafountine #Hierro #mourir_en_mer #frontières #morts #décès #mortalité #secours #pateras #Salvamento_marítimo #racisme #sauvetage_différencié #contrôles_frontaliers

  • Au Liban, la mémoire de la guerre de 2006 pousse les Libanais du Sud sur les routes
    Le collectif Public Works Studio publie une carte des localités évacuées (en rouge) et des localités de refuge (en bleu), sur la base des données rassemblées par l’Agence des Nations Unies auprès des municipalités
    Elle montre que les localités perçues comme dangereuses se concentrent dans le Sud, le long de la frontière mais avec une certaine profondeur, ainsi que dans la banlieue sud de Beyrouth. Les localités du Sud situées plus loin de la zone frontalière, ainsi que les localités de l’Est et du Nord de Beyrouth, sont perçues comme moins dangereuses et servent de refuge. Des mouvements similaires sont enregistrées aussi dans la Beqaa, Baalbek apparaissant particulièrement peu sûre.

    https://twitter.com/publicworks_lb/status/1729196891525754995

    La signification de la colonne de gauche n’est pas très claire pour moi. Elle semble indiquer qu’il n’y a pas d’information de provenance pour près de 9500 personnes, mais pourtant les données sont cartographiées au niveau des villages d’origine.
    #déplacés #réfugiés #guerre #Gaza #Liban_Sud

  • La grande scommessa: migrazioni e (im)mobilità globale (con #Milena_Belloni)

    Il governo Meloni in questi giorni sta discutendo di un “#piano_Africa” per “aiutarli a casa loro” che include esperti di comunicazione che informino gli aspiranti migranti dei rischi che corrono. È questo il punto, non sanno cosa rischiano?
    Ha senso parlare del “Viaggio” dei migranti come di una scommessa (evocata anche nel titolo del tuo libro)?
    Per una persona che arriva ce ne sono decine che partono. Per una persona che parte, ce ne sono migliaia che restano. È davvero una scelta del singolo imbarcarsi nel “Viaggio”?
    Succede a chiunque, in continuazione, di cominciare qualcosa senza avere un’idea precisa delle conseguenze. Nel nostro quotidiano spesso ci si può fermare in itinere, ribilanciare costi e benefici. È così anche per un migrante che intraprende “il Viaggio”?
    Che differenza fa in tutto questo essere maschio o femmina?
    Tu sei stata sul campo: Eritrea, Etiopia, Sudan, Italia. Cosa ti ha colpito di più?

    https://www.spreaker.com/user/15530479/ep-6-la-grande-scommessa-con-milena-belloni

    #migrations #risque #réfugiés #asile #risques #itinéraire_migratoire #migrerrance #immobilité #stratégie_familiale #pari
    #podcast #audio

    • The Big Gamble. The Migration of Eritreans to Europe

      Tens of thousands of Eritreans make perilous voyages across Africa and the Mediterranean Sea every year. Why do they risk their lives to reach European countries where so many more hardships await them? By visiting family homes in Eritrea and living with refugees in camps and urban peripheries across Ethiopia, Sudan, and Italy, Milena Belloni untangles the reasons behind one of the most under-researched refugee populations today. Balancing encounters with refugees and their families, smugglers, and visa officers, The Big Gamble contributes to ongoing debates about blurred boundaries between forced and voluntary migration, the complications of transnational marriages, the social matrix of smuggling, and the role of family expectations, emotions, and values in migrants’ choices of destinations.

      https://www.ucpress.edu/book/9780520298705/the-big-gamble

      #réfugiés_érythréens #livre

  • #Pakistan: detenzioni e deportazioni contro i rifugiati afghani

    In corso un’altra catastrofe umanitaria, molte persone a rischio di persecuzione in Afghanistan

    Dal 1° ottobre quasi 400mila persone afgane, di cui circa 220.000 in queste settimane di novembre, hanno abbandonato il Pakistan, in quella che appare sempre più come una pulizia etnica operata contro una minoranza. I numeri sono quelli forniti da UNHCR 1, dopo che il 17 settembre, il governo pakistano ha annunciato che tutte le persone “irregolari” avrebbero dovuto lasciare volontariamente il Paese entro il 1° novembre, pena la deportazione.
    La maggior parte delle persone rientrate e in Afghanistan sono donne e bambini: 1 bambino su quattro è sotto i cinque anni e oltre il 60% dei minori ha meno di 17 anni 2.

    E’ emerso, ultimamente, che le persone afghane senza documenti che lasciano il Pakistan per andare in altri paesi devono pagare una tassa di 830 dollari (760 euro).

    Amnesty International ha denunciato detenzioni di massa in centri di espulsione e che le persone prive di documenti sono state avviate alla deportazione senza che ai loro familiari fosse fornita alcuna informazione sul luogo in cui sono state portate e sulla data della deportazione. L’Ong ha dichiarato che il governo del Pakistan deve interrompere immediatamente le detenzioni, le deportazioni e le vessazioni diffuse nei confronti delle persone afghane.

    Dall’inizio di ottobre, inoltre, Amnesty ha raccolto informazioni relative agli sgomberi: diversi katchi abadis (insediamenti informali) che ospitano rifugiati afghani sono stati demoliti dalla Capital Development Authority (CDA) di Islamabad, le baracche sono state distrutte con i beni ancora al loro interno.

    In tutto il Pakistan, ha illustrato il governo, sono stati istituiti 49 centri di detenzione (chiamati anche centri di “detenzione” o di “transito”). «Questi centri di deportazione – ha affermato Amnesty – non sono stati costruiti in base a una legge specifica e funzionano parallelamente al sistema legale». L’associazione ha verificato che in almeno 7 centri di detenzione non viene esteso alcun diritto legale ai detenuti, come il diritto a un avvocato o alla comunicazione con i familiari. Sono centri che violano il diritto alla libertà e a un giusto processo. Inoltre, nessuna informazione viene resa pubblica, rendendo difficile per le famiglie rintracciare i propri cari. Amnesty ha confermato il livello di segretezza a tal punto che nessun giornalista ha avuto accesso a questi centri.

    Secondo quanto riporta Save the Children, molte famiglie deportate in Afghanistan non hanno un posto dove vivere, né soldi per il cibo, e sono ospitate in rifugi di fortuna, in una situazione disperata e in continuo peggioramento. Molte persone accusano gravi infezioni respiratorie, probabilmente dovute alla prolungata esposizione alle tempeste di polvere, ai centri chiusi e fumosi, al contagio dovuto alla vicinanza di altre persone malate e al freddo estremo, dato che molte famiglie hanno viaggiato verso l’Afghanistan in camion aperti e sovraffollati. Sono, inoltre, ad altissimo rischio di contrarre gravi malattie, che si stanno diffondendo rapidamente, tra cui la dissenteria acuta, altamente contagiosa e pericolosa.

    Una catastrofe umanitaria

    «Migliaia di rifugiati afghani vengono usati come pedine politiche per essere rispediti nell’Afghanistan controllato dai talebani, dove la loro vita e la loro integrità fisica potrebbero essere a rischio, nel contesto di una intensificata repressione dei diritti umani e di una catastrofe umanitaria in corso. Nessuno dovrebbe essere sottoposto a deportazioni forzate di massa e il Pakistan farebbe bene a ricordare i suoi obblighi legali internazionali, compreso il principio di non respingimento», ha dichiarato Livia Saccardi, vice direttrice regionale di Amnesty International per l’Asia meridionale.

    Il valico di frontiera di Torkham con l’Afghanistan è diventato un grande campo profughi a cielo aperto e le condizioni sono drammatiche. Le organizzazioni umanitarie presenti in loco per fornire assistenza hanno raccolto diverse testimonianze. «La folla a Torkham è opprimente, non è un luogo per bambini e donne. Di notte fa freddo e i bambini non hanno vestiti caldi. Ci sono anche pochi servizi igienici e l’acqua potabile è scarsa. Abbiamo bisogno di almeno un rifugio adeguato», ha raccontato una ragazza di 20 anni.

    «Le condizioni di salute dei bambini non sono buone, la maggior parte ha dolori allo stomaco. A causa della mancanza di acqua pulita e di strutture igieniche adeguate, non possono lavarsi le mani in modo corretto. Non ci sono servizi igienici puliti e questi bambini non ricevono pasti regolari e adeguati» ha dichiarato una dottoressa di Save the Children. «Se rimarranno qui per un periodo più lungo o se la situazione persisterà e il clima diventerà più freddo, ci saranno molti rischi per la salute dei bambini. Di notte la temperatura scende parecchio ed è difficile garantire il benessere dei più piccoli all’interno delle tende. Questo può influire negativamente sulla salute del bambino e della madre. È urgente distribuire vestiti caldi ai bambini e beni necessari, come assorbenti e biancheria intima per le giovani donne e altri articoli essenziali per ridurre i rischi per la salute di donne e bambini».

    «Il Pakistan deve adempiere agli obblighi previsti dalla legge internazionale sui diritti umani per garantire la sicurezza e il benessere dei rifugiati afghani all’interno dei suoi confini e fermare immediatamente le deportazioni per evitare un’ulteriore escalation di questa crisi. Il governo, insieme all’UNHCR, deve accelerare la registrazione dei richiedenti che cercano rifugio in Pakistan, in particolare le donne e le ragazze, i giornalisti e coloro che appartengono a comunità etniche e minoritarie, poiché corrono rischi maggiori. Se il governo pakistano non interrompe immediatamente le deportazioni, negherà a migliaia di afghani a rischio, soprattutto donne e ragazze, l’accesso alla sicurezza, all’istruzione e ai mezzi di sussistenza», ha affermato Livia Saccardi.

    Come si vive nell’Afghanistan con i talebani al potere lo denuncia CISDA, il Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane, che ha pubblicato un dossier “I diritti negati delle donne afghane” che racconta la vita quotidiana delle donne afghane e ripercorre la storia del Paese fino ai giorni nostri.

    «L’Afghanistan è un Paese allo stremo, stretto nella morsa dei talebani e alla mercé degli interessi geopolitici ed economici di diversi paesi. Se per tutta la popolazione afghana vivere è una sfida quotidiana, per le donne è un’impresa impervia», ha scritto CISDA che con questa pubblicazione ha voluto ripercorre le tappe principali della storia afghana, cercando di capire chi sono i talebani di oggi e realizzando approfondimenti tematici per comprendere qual è la situazione attuale del paese. E soprattutto ha voluto dar voce alle donne afghane raccogliendo le loro storie.

    https://www.meltingpot.org/2023/11/pakistan-detenzioni-e-deportazioni-contro-i-rifugiati-afghani
    #réfugiés_afghans #déportations #renvois #asile #migrations #réfugiés #Torkham #camps_de_réfugiés #centres_d'expulsion #détention_de_masse #rétention #détention #katchi_abadis #Capital_Development_Authority (#CDA)

    • Le Pakistan déclenche une vague d’abus contre les Afghans

      Les nouveaux efforts déployés par les autorités pakistanaises pour « convaincre » les Afghans de retourner en Afghanistan peuvent se résumer en un mot : abus.

      La police et d’autres fonctionnaires ont procédé à des #détentions_massives, à des #raids nocturnes et à des #passages_à_tabac contre des Afghans. Ils ont #saisi_des_biens et du bétail et détruit des maisons au bulldozer. Ils ont également exigé des #pots-de-vin, confisqué des bijoux et détruit des documents d’identité. La #police pakistanaise a parfois harcelé sexuellement des femmes et des filles afghanes et les a menacées d’#agression_sexuelle.

      Cette vague de #violence vise à pousser les réfugiés et les demandeurs d’asile afghans à quitter le Pakistan. Les #déportations que nous avons précédemment évoquées ici sont maintenant plus nombreuses – quelque 20 000 personnes ont été déportées depuis la mi-septembre. Les menaces et les abus en ont chassé bien plus : environ 355 000.

      Tout cela est en totale contradiction avec les obligations internationales du Pakistan de ne pas renvoyer de force des personnes vers des pays où elles risquent clairement d’être torturées ou persécutées.

      Parmi les personnes expulsées ou contraintes de partir figurent des personnes qui risqueraient d’être persécutées en Afghanistan, notamment des femmes et des filles, des défenseurs des droits humains, des journalistes et d’anciens fonctionnaires qui ont fui l’Afghanistan après la prise de pouvoir par les talibans en août 2021.

      Certaines des personnes menacées s’étaient vu promettre une réinstallation aux États-Unis, au Royaume-Uni, en Allemagne et au Canada, mais les procédures de #réinstallation n’avancent pas assez vite. Ces gouvernements doivent agir.

      L’arrivée de centaines de milliers de personnes en Afghanistan « ne pouvait pas arriver à un pire moment », comme l’a déclaré le Haut-Commissariat des Nations Unies pour les réfugiés. Le pays est confronté à une crise économique durable qui a laissé les deux tiers de la population dans le besoin d’une assistance humanitaire. Et maintenant, l’hiver s’installe.

      Les nouveaux arrivants n’ont presque rien, car les autorités pakistanaises ont interdit aux Afghans de retirer plus de 50 000 roupies pakistanaises (175 dollars) chacun. Les agences humanitaires ont fait état de pénuries de tentes et d’autres services de base pour les nouveaux arrivants.

      Forcer des personnes à vivre dans des conditions qui mettent leur vie en danger en Afghanistan est inadmissible. Les autorités pakistanaises ont déclenché une vague d’#abus et mis en danger des centaines de milliers de personnes. Elles doivent faire marche arrière. Rapidement.

      https://www.hrw.org/fr/news/2023/11/29/le-pakistan-declenche-une-vague-dabus-contre-les-afghans
      #destruction #harcèlement

  • Dans la #Manche, les coulisses terrifiantes du sauvetage des migrants

    Il y a deux ans, au moins 27 personnes périssaient dans des eaux glaciales au large de Calais, après le naufrage de leur embarcation. Mediapart a enquêté sur les pratiques des différents acteurs missionnés pour sauver celles et ceux qui tentent de rejoindre le Royaume-Uni par la mer.

    « Parfois, ils refusent notre appel, parfois ils décrochent. Quand j’appelle le 999, ils me disent d’appeler les Français, et les Français nous disent d’appeler les Anglais. Ils se moquent de nous. » Ces quelques phrases, issues d’un échange entre un membre de l’association #Utopia_56 et un exilé se trouvant à bord d’une embarcation dans la Manche, résument à elles seules les défaillances du #secours en mer lorsque celui-ci n’est pas coordonné.

    Elles illustrent également le désarroi de celles et ceux qui tentent la traversée pour rejoindre les côtes britanniques. Le 20 novembre 2021, les membres d’Utopia 56 ont passé des heures à communiquer par messages écrits et audio avec un groupe d’exilé·es qui s’était signalé en détresse dans la Manche. « Nous avons appelé tous les numéros mais ils ne répondent pas. Je ne comprends pas quel est leur problème », leur dit un homme présent à bord. « Restez calmes, quelqu’un va venir. Appelez le 112 et on va appeler les #garde-côtes français, ok ? » peut-on lire dans les échanges consultés par Mediapart.

    « Comme ils ont pu nous contacter, on a relancé le #Cross [#Centre_régional_opérationnel_de_surveillance_et_de_sauvetage_maritimes – ndlr], qui a pu intervenir. Mais on peut se demander ce qu’il se serait passé pour eux si ça n’avait pas été le cas », commente Nikolaï, d’Utopia 56. Cet appel à l’aide désespéré a été passé seulement quatre jours avant le naufrage meurtrier du #24_novembre_2021, qui a coûté la vie à au moins vingt-sept personnes, parmi lesquelles des Afghan·es, des Kurdes d’Irak et d’Iran, des Éthiopien·nes ou encore un Vietnamien.

    Un an plus tard, Le Monde révélait comment le Cross, et en particulier l’une de ses agent·es, avait traité leur cas sans considération, voire avec mépris, alors que les personnes étaient sur le point de se noyer. Une #information_judiciaire a notamment été ouverte pour « homicides », « blessures involontaires » et « mise en danger » (aggravée par la violation manifestement délibérée d’une obligation de sécurité ou de prudence), menant à la mise en examen de cinq militaires pour « #non-assistance_à_personne_en_danger » au printemps 2023.

    « Ah bah t’entends pas, tu seras pas sauvé », « T’as les pieds dans l’eau ? Bah, je t’ai pas demandé de partir »… Rendue publique, la communication entre l’agente du Cross et les exilé·es en détresse en mer, en date du 24 novembre, a agi comme une déflagration dans le milieu associatif comme dans celui du secours en mer. Signe d’#inhumanité pour les uns, de #surmenage ou d’#incompétence pour les autres, cet épisode dramatique est venu jeter une lumière crue sur la réalité que subissent les migrant·es en mer, que beaucoup ignorent.

    « Urgence vitale » contre « urgence de confort »

    Entendue dans le cadre de l’#enquête_judiciaire, l’agente concernée a expliqué faire la différence entre une situation d’« #urgence_vitale » et une situation de « #détresse » : « Pour moi, la détresse c’est vraiment quand il y a une vie humaine en jeu. La plupart des migrants qui appellent sont en situation de détresse alors qu’en fait il peut s’agir d’une urgence de confort », a déroulé la militaire lors de son audition, précisant que certains cherchent « juste à être accompagnés vers les eaux britanniques ».

    Elle décrit aussi des horaires décalés, de nuit, et évoque des appels « incessants » ainsi que l’incapacité matérielle de vérifier les indicatifs de chaque numéro de téléphone. Un autre agent du Cross explique ne pas avoir souvenir d’un « gros coup de bourre » cette nuit-là. « Chaque opération migrant s’est enchaînée continuellement mais sans densité particulière. » Et de préciser : « Ce n’est pas parce qu’il n’y a pas de densité particulière que nous faisons le travail avec plus de légèreté ; aucun n’est mis de côté et chaque appel est pris au sérieux. »

    Deux sauveteurs ont accepté de se confier à Mediapart, peu après le naufrage, refusant que puisse se diffuser cette image écornée du #secours_en_mer. « C’est malheureux de dire des choses comme ça », regrette Julien*, bénévole à la #Société_nationale_de_sauvetage_en_mer (#SNSM). Il y a peut-être, poursuit-il, « des personnes avec moins de jugeote, ou qui ont décidé de se ranger d’un côté et pas de l’autre ».

    L’homme interroge cependant la surcharge de travail du Cross, sans « minimiser l’incident » de Calais. « La personne était peut-être dans le rush ou avait déjà fait un certain nombre d’appels… Ils sont obligés de trier, il peut y avoir des erreurs. Mais on ne rigole pas avec ça. »

    Lorsque des fenêtres météo favorables se présentent, sur une période d’à peine deux ou trois jours, le Cross comme les sauveteurs peuvent être amenés à gérer jusqu’à 300 départs. Les réfugié·es partent de communes de plus en plus éloignées, prenant des « #risques énormes » pour éviter les contrôles de police et les tentatives d’interception sur le rivage.

    « Cela devient de plus en plus périlleux », constate Julien, qui décrit par ailleurs les stratégies employées par les #passeurs visant à envoyer beaucoup d’exilé·es d’un seul coup pour en faire passer un maximum.

    Il y a des journées où on ne fait que ça.

    Alain*, sauveteur dans la Manche

    « En temps normal, on arrive à faire les sauvetages car nos moyens sont suffisants. Mais à un moment donné, si on se retrouve dans le rush avec de tels chiffres à gérer, on a beau être là, avoir notre #matériel et nos #techniques de sauvetage, on ne s’en sort pas. » Julien se souvient de cette terrible intervention, survenue fin 2021 au large de la Côte d’Opale, pour laquelle plusieurs nageurs de bord ont été « mis à l’eau » pour porter secours à un canot pneumatique disloqué dont le moteur avait fini à 23 heures au fond d’une eau à 7 degrés.

    Présents sur zone en une demi-heure, les nageurs récupèrent les exilé·es « par paquet de trois », essayant d’optimiser tous les moyens dont ils disposent. « On aurait peut-être eu un drame dans la Manche si on n’avait pas été efficaces et si les nageurs n’avaient pas sauté à l’eau », relate-t-il, précisant que cette opération les a épuisés. L’ensemble des personnes en détresse ce jour-là sont toutes sauvées.

    Le plus souvent, les sauveteurs font en sorte d’être au moins six, voire huit dans l’idéal, avec un patron qui pilote le bateau, un mécanicien et au moins un nageur de bord. « Le jour où on a frôlé la catastrophe, on était onze. Mais il nous est déjà arrivé de partir à quatre. »

    Alain* intervient depuis plus de cinq années dans la Manche. La surface à couvrir est « énorme », dit-il. « Il y a des journées où on ne fait que ça. » Ce qu’il vit en mer est éprouvant et, « au #drame_humain auquel nous devons faire face », se rajoute parfois « le #cynisme aussi bien des autorités françaises que des autorités anglaises ».

    On a sauvé en priorité ceux qui n’avaient pas de gilet. Les autres ont dû attendre.

    Alain* à propos d’un sauvetage

    Il évoque ce jour de septembre 2021 où 40 personnes sont en danger sur une embarcation qui menace de se plier, avec un brouillard laissant très peu de visibilité. Ne pouvant y aller en patrouilleur, l’équipe de quatre sauveteurs se rend sur zone avec deux Zodiac, et « accompagne » l’embarcation jusqu’aux eaux anglaises. Mais celle-ci commence à se dégonfler.

    La priorité est alors de stabiliser tous les passagers et de les récupérer, un par un. « Ça hurlait dans tous les sens, mais on a réussi à les calmer », relate Alain qui, tout en livrant son récit, revit la scène. « Il ne faut surtout pas paniquer parce qu’on est les sauveteurs. Plus difficile encore, il faut se résoudre à admettre que c’est un sauvetage de masse et qu’on ne peut pas sauver tout le monde. » Alain et ses collègues parviennent à charger tous les passagers en les répartissant sur chaque Zodiac.

    Lors d’un autre sauvetage, qu’il qualifie de « critique », ses collègues et lui doivent porter secours à une quarantaine d’exilés, certains se trouvant dans l’eau, et parfois sans gilet de sauvetage. « On a sauvé en priorité ceux qui n’avaient pas de gilet, explique-t-il. Mais les autres ont dû attendre notre retour parce qu’on manquait de place sur notre bateau. Et par chance, entre-temps, c’est la SNSM qui les a récupérés. » Ce jour-là, confie-t-il, le Cross a « vraiment eu peur qu’il y ait des morts ».

    Négociations en pleine mer

    À cela s’ajoute la « #mise_en_danger » provoquée par les tractations en pleine mer pour déterminer qui a la responsabilité de sauver les personnes concernées.

    Une fois, raconte encore Alain, le boudin d’un canot pneumatique transportant 26 personnes avait crevé. « On leur a dit de couper le moteur et on les a récupérés. Il y avait un bébé de quelques mois, c’était l’urgence absolue. » En mer se trouve aussi le bateau anglais, qui fait demi-tour lorsqu’il constate que les exilé·es sont secouru·es.

    « Les migrants se sont mis à hurler parce que leur rêve s’écroulait. C’était pour nous une mise en danger de les calmer et de faire en sorte que personne ne se jette à l’eau par désespoir. » Le bateau anglais finit par revenir après 45 minutes de discussion entre le Cross et son homologue. « Plus de 45 minutes, répète Alain, en pleine mer avec un bébé de quelques mois à bord. »

    Qu’est devenu ce nourrisson ? s’interroge Alain, qui dit n’avoir jamais été confronté à la mort. Il faut se blinder, poursuit-il. « Nous sommes confrontés à des drames. Ces personnes se mettent en danger parce qu’elles n’ont plus rien à perdre et se raccrochent à cette traversée pour vivre, seulement vivre. » Il se demande souvent ce que sont devenus les enfants qu’il a sauvés. Sur son téléphone, il retrouve la photo d’une fillette sauvée des eaux, puis sourit.

    Pour lui, il n’y aurait pas de « consignes » visant à distinguer les #eaux_françaises et les #eaux_anglaises pour le secours en mer. « On ne nous a jamais dit : “S’ils sont dans les eaux anglaises, n’intervenez pas.” Le 24 novembre a été un loupé et on ne parle plus que de ça, mais il y a quand même des gens qui prennent à cœur leur boulot et s’investissent. » Si trente bateaux doivent être secourus en une nuit, précise-t-il pour illustrer son propos, « tout le monde y va, les Français, les Anglais, les Belges ».

    Lors de ses interventions en mer, la SNSM vérifie qu’il n’y a pas d’obstacles autour de l’embarcation à secourir, comme des bancs de sable ou des courants particulièrement forts. Elle informe également le Cross, qui déclenche les sauveteurs pour partir sur zone.

    « On approche très doucement du bateau, on évalue l’état des personnes, combien ils sont, s’il y a des enfants, s’il y a des femmes, si elles sont enceintes », décrit Julien, qui revoit cet enfant handicapé, trempé, qu’il a fallu porter alors qu’il pesait près de 80 kilos. Ce nourrisson âgé de 15 jours, aussi, qui dépassait tout juste la taille de ses mains.

    Si les exilés se lèvent brutalement en les voyant arriver, ce qui arrive souvent lorsqu’ils sont en détresse, le plancher de l’embarcation craque « comme un carton rempli de bouteilles de verre » qui glisseraient toutes en même temps vers le centre. Certains exilés sont en mer depuis deux jours lorsqu’ils les retrouvent. « En short et pieds nus », souvent épuisés, affamés et désespérés.

    Des « miracles » malgré le manque de moyens

    Les sauveteurs restent profondément marqués par ces sauvetages souvent difficiles, pouvant mener à huit heures de navigation continue dans une mer agitée et troublée par des conditions météo difficiles. « L’objectif est de récupérer les gens vivants, commente Julien. Mais il peut arriver aussi qu’ils soient décédés. Et aller récupérer un noyé qui se trouve dans l’eau depuis trois jours, c’est encore autre chose. »

    En trois ans, le nombre de sauvetages a été, selon lui, multiplié par dix. Le nombre d’arrivées au Royaume-Uni a bondi, conduisant le gouvernement britannique à multiplier les annonces visant à durcir les conditions d’accueil des migrant·es, du projet d’externalisation des demandes d’asile avec le Rwanda, à l’hébergement des demandeurs et demandeuses d’asile à bord d’une barge, plus économique, et non plus dans des hôtels.

    Pour Julien, les dirigeant·es français·es comme britanniques s’égarent dans l’obsession de vouloir contenir les mouvements migratoires, au point de pousser les forces de l’ordre à des pratiques parfois discutables : comme le montrent les images des journalistes ou des vacanciers, certains CRS ou gendarmes viennent jusqu’au rivage pour stopper les tentatives de traversée, suscitant des tensions avec les exilé·es. Aujourd’hui, pour éviter des drames, ils ne sont pas autorisés à intercepter une embarcation dès lors que celle-ci est à l’eau.

    Dans le même temps, les sauveteurs font avec les moyens dont ils disposent. Un canot de sauvetage vieillissant, entretenu mais non adapté au sauvetage de migrants en surnombre, explique Julien. « On porte secours à près de 60 personnes en moyenne. Si on est trop lourd, ça déséquilibre le bateau et on doit les répartir à l’avant et au milieu, sinon l’eau s’infiltre à l’arrière. » Ses équipes ont alerté sur ce point mais « on nous a ri au nez ». Leur canot devrait être remplacé, mais par un bateau « pas plus grand », qui ne prend pas ce type d’opérations en compte dans son cahier des charges.

    En un an, près de « 50 000 personnes ont pu être sauvées », tient à préciser Alain, avant d’ajouter : « C’est un miracle, compte tenu du manque de moyens. » Il peut arriver que les bénévoles de la SNSM reçoivent une médaille des autorités pour leur action. Mais à quoi servent donc les médailles s’ils n’obtiennent pas les moyens nécessaires et si leurs requêtes restent ignorées ?, interroge-t-il.

    « La France est mauvaise sur l’immigration, elle ne sait pas gérer », déplore Alain, qui précise que rien n’a changé depuis le drame du 24 novembre 2021. Et Julien de conclure : « Les dirigeants sont dans les bureaux, à faire de la politique et du commerce, pendant que nous on est sur le terrain et on sauve des gens. S’ils nous donnent des bateaux qui ne tiennent pas la route, on ne va pas y arriver… »

    Mercredi 22 novembre, deux exilés sont morts dans un nouveau naufrage en tentant de rallier le Royaume-Uni.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/241123/dans-la-manche-les-coulisses-terrifiantes-du-sauvetage-des-migrants
    #Calais #mourir_en_mer #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #France #UK #Angleterre #GB #sauvetage #naufrage #frontières #migrations #asile #réfugiés

  • L’asile climatique proposé par l’Australie aux habitants des Tuvalu suscite la controverse
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2023/11/24/l-asile-climatique-propose-par-l-australie-aux-habitants-des-tuvalu-suscite-

    L’asile climatique proposé par l’Australie aux habitants des Tuvalu suscite la controverse
    Par Isabelle Dellerba(Sydney, correspondance)
    Publié hier à 08h00, modifié hier à 17h06
    Ce pacte aurait pu représenter un modèle de bon voisinage. Vendredi 10 novembre, l’Australie et l’Etat du Tuvalu, dans le Pacifique Sud, ont dévoilé les termes d’un accord historique qui prévoit que Canberra s’engage à offrir l’asile climatique aux 11 000 citoyens du petit archipel à fleur d’eau, menacé d’être englouti par les flots avant la fin du siècle. Mais le texte, qui doit encore être ratifié par les deux parties pour entrer en vigueur, suscite des controverses dans cette région du monde où la crise climatique représente une menace existentielle pour tous les Etats insulaires de faible altitude.
    Son volet migratoire ne pose pas particulièrement question. L’accord prévoit que, chaque année, 280 citoyens tuvaluans se verront offrir un visa spécial qui leur permettra de « vivre, étudier et travailler » en Australie, mais aussi d’« accéder aux systèmes éducatifs, de santé et aux principaux dispositifs de soutien aux revenus et à la famille dès leur arrivée ». Le gouvernement travailliste dirigé par Anthony Albanese a ainsi répondu à la demande de l’Etat polynésien. « Nous voulons négocier des accords d’amitié avec des pays partageant nos valeurs, tels que les Fidji, la Nouvelle-Zélande et l’Australie, pour que nos citoyens puissent y vivre sans renoncer à leur nationalité et y bénéficier des mêmes avantages socio-économiques que le reste de la population », expliquait récemment au Monde le ministre des finances et du changement climatique des Tuvalu, Seve Paeniu.
    Lire aussi : Article réservé à nos abonnés Kioa, une île refuge pour les habitants des Tuvalu menacés par la montée des eaux
    Il s’agit du premier accord bilatéral conclu spécifiquement axé sur la mobilité climatique. Il a été salué par le chef du gouvernement de l’archipel, Kausea Natano, comme « une véritable lueur d’espoir » pour son pays, composé de récifs coralliens et d’atolls d’une hauteur moyenne de deux mètres au-dessus de la mer et déjà fréquemment inondés par des vagues-submersion. « Pour les Tuvaluans, ce pacte, c’est un peu comme un masque à oxygène dans un avion. Vous espérez qu’il ne tombe jamais, mais si vous en avez besoin, vous êtes très content qu’il soit là », abonde Jane McAdam, directrice du Centre Kaldor pour le droit international des réfugiés, qui évoque un texte « fondateur ».
    Le problème réside dans l’autre volet de l’accord. Après l’article 3, consacré à « la mobilité humaine dans la dignité », l’article 4 porte sur les questions de sécurité. Si l’Australie s’y engage à venir en aide aux îles Tuvalu en cas d’agression militaire, de catastrophe naturelle ou encore de pandémie, elle obtient aussi son mot à dire sur « tout partenariat, accord ou engagement » que l’archipel voudrait conclure avec d’autres Etats ou entités sur les sujets de sécurité et de défense. « Ces questions comprennent, mais ne se limitent pas à, la défense, la police, la protection des frontières, la cybersécurité et les infrastructures critiques, y compris les ports, les télécommunications et les infrastructures énergétiques », énonce le texte.« En échange de ces 280 places par an, l’Australie a obtenu un pouvoir de veto sur nos priorités de sécurité. Elle a abusé de sa position de force, c’est injuste. Et notre population n’a même pas été consultée », déplore notamment Maina Talia, un militant pour le climat tuvaluan reconnu sur la scène régionale. Les pays occidentaux « traitent les nations insulaires comme des pions pour contrer l’influence de la Chine », a dénoncé le Global Times, un quotidien proche du pouvoir chinois, le 14 novembre.
    Dans ce Pacifique Sud, où Pékin et Washington se livrent une lutte d’influence sans merci, Canberra a donné l’impression d’être davantage motivé par ses intérêts stratégiques que par une volonté sincère de soutenir son minuscule voisin rongé par l’océan. Cet accord est d’autant plus critiqué que l’Australie, troisième plus grand exportateur de combustibles fossiles au monde, n’a rien du bon élève en matière de lutte contre les émissions de gaz à effet de serre. « Le nouveau pacte signé par l’Australie avec Tuvalu n’est qu’une solution de fortune qui n’aborde en rien la crise climatique alimentée par les combustibles fossiles », a dénoncé Lagi Seru, membre du bureau régional de Greenpeace, dans un communiqué publié le 11 novembre. Les Etats insulaires demandent à l’Australie, qui souhaite organiser la COP31, de renoncer à accorder de nouvelles licences pour l’exploitation du charbon, du pétrole et du gaz.
    Si ce pacte n’est pas perçu comme un modèle, il n’en demeure pas moins précieux pour le gouvernement des Tuvalu qui, face au risque de disparition, explore toutes les pistes possibles pour assurer l’avenir de sa population. Afin qu’elle puisse rester chez elle, il a élaboré un plan d’adaptation à long terme destiné à créer une terre, élevée et sûre, de 3,6 kilomètres carrés – l’Australie s’est engagée à l’aider sur ce projet. Le gouvernement des Tuvalu a également entrepris des démarches pour que l’ensemble de l’archipel soit reconnu comme un site du patrimoine mondial de l’Unesco et mieux protégé.
    Etant parfaitement conscient que ces efforts pourraient s’avérer insuffisants, il prépare aussi un futur sans terres émergées. Offrir un refuge à ses habitants était l’une de ses priorités. D’autre part, il a engagé des actions, au niveau juridique, pour que son Etat conserve, quoi qu’il arrive, une existence légale et sa souveraineté sur l’ensemble du territoire, y compris maritime. Enfin, il planche sur la création d’un Etat déterritorialisé, dans le monde virtuel, pour sauvegarder ses archives comme son patrimoine culturel, mais aussi pour que ses ressortissants, même s’ils sont dispersés dans des pays tiers, puissent continuer à bénéficier de services étatiques et restent des citoyens tuvaluans à part entière.

    #Covid-19#migrant#migration#australie#ilestuvalu#refugieclimatique#asileclimatique#etat#droit#souverainete

  • L’#errance des habitants de #Gaza dans leur ville transformée en champ de #ruines

    Près de la moitié des bâtiments de la métropole, qui comptait plus d’un million d’habitants avant la guerre, a été détruite ou endommagée par les #bombardements israéliens lancés en #représailles à l’attaque du Hamas le 7 octobre.

    Gaza est une ville brisée. Un géant aveugle semble avoir piétiné des pans entiers de cette métropole de 1,2 million d’habitants. Depuis les massacres commis par le Hamas le 7 octobre dans le sud d’Israël, les bombardements indiscriminés de l’armée israélienne l’ont ruinée pour une bonne part. L’armée cherche un ennemi qui se cache au beau milieu des civils, mais elle punit aussi une cité entière, jugée, dès les premiers jours, coupable des crimes du Hamas par les autorités israéliennes.

    Des lointaines banlieues nord de la #ville de Gaza, il ne reste que des carcasses calcinées, arasées par les frappes qui ont préparé l’invasion terrestre du 28 octobre. En trois semaines, les blindés et l’infanterie se sont rendus maîtres de la moitié ouest de la principale cité de l’enclave, progressant lentement sous un appui aérien serré, qui a percé de nombreux cratères le long des boulevards de Rimal et aux alentours des hôpitaux. Des combats ont encore eu lieu, dimanche 19 novembre, dans le centre-ville de Gaza. L’armée israélienne a affirmé, lundi, continuer « à étendre ses opérations dans de nouveaux quartiers » , notamment à Jabaliya.

    Depuis vendredi 17 novembre, l’#infanterie avance vers les ruelles étroites de la #vieille_ville, le centre et la moitié orientale de Gaza. Qu’en restera-t-il dans quelques semaines, lorsque Israël proclamera que le Hamas en a été chassé ? Dimanche, 25 % des zones habitées de la ville et de sa région nord avaient déjà été détruites, estime le ministère des travaux publics de l’Autorité palestinienne.

    Le Bureau des Nations unies pour la coordination des affaires humanitaires avance qu’au moins 58 % des habitations de l’ensemble de l’enclave sont détruites ou endommagées. L’étude de photographies satellitaires, à l’aide d’un logiciel développé par le site Bellingcat, permet d’estimer, avec prudence, que de 40 % à 50 % du bâti de la ville de Gaza avaient été détruits ou endommagés au 16 novembre – et jusqu’à 70 % du camp de réfugiés d’Al-Chati, sur le front de mer.

    Errance aux quatre coins de la ville

    Les autorités de Ramallah dressent des listes sans fin : elles dénombrent 280 institutions d’éducation et plus de 200 lieux de culte endommagés. Tous les hôpitaux de Gaza sont à l’arrêt, sauf un. Les réseaux de distribution d’eau et d’électricité sont inutilisables. Un quart des routes de l’enclave ont subi des dommages.

    « Gaza est d’ores et déjà détruite. Ce n’est plus qu’une ville fantôme, peuplée de quelques centaines de milliers de déplacés [800 000, selon l’Autorité palestinienne] . Les Israéliens ont voulu punir l’une des plus anciennes cités du monde, en frappant ses universités, ses librairies, ses grands hôtels, son parlement et ses ministères, déplore Ehab Bsaiso, ancien ministre de la culture de l’Autorité palestinienne . Le 13 novembre, une immense professeure de musique, Elham Farah, a été blessée en pleine rue par un éclat de shrapnel. Elle s’est vidée de son sang sur le trottoir, et elle est morte. C’est toute une mosaïque sociale, une culture qu’ils effacent, et bientôt les chars vont avancer vers le Musée archéologique et la vieille église orthodoxe Saint-Porphyre, dont une annexe a été bombardée dès le 19 octobre. » Issu d’une vieille famille gazaouie, ce haut fonctionnaire suit par téléphone, de Bethléem, dans la Cisjordanie occupée, l’errance de ses proches aux quatre coins de leur ville natale et de l’enclave sous blocus, le cœur serré.

    Depuis vendredi, l’armée bombarde puissamment le quartier de Zeitoun, dans le centre-ville. Oum Hassan y est morte ce jour-là. Les trois étages de sa maison se sont écroulés sur ses onze enfants, sur ses petits-enfants et sur des membres des familles de son frère et de son mari. Ils avaient trouvé refuge chez cette parente de 68 ans, après avoir fui des zones pilonnées plus tôt. « Ils sont tous morts. Ma sœur, son mari, leurs enfants, leurs petits-enfants, en plus des voisins qui étaient réfugiés chez eux » , craignait, le 18 novembre, Khaled [un prénom d’emprunt], le frère cadet d’Oum Hassan, exilé en Europe et informé par des voisins qui fouillent les décombres. « On a réussi à extraire deux ou trois corps, des enfants. Les autres sont encore sous les gravats. Il y avait environ 80 personnes dans la maison. Il y a un enfant survivant, peut-être deux. »

    Israël interdit aux journalistes d’entrer dans Gaza pour constater par eux-mêmes ces destructions. Le ministère de la santé de Gaza, contrôlé jusqu’au début de la guerre par le Hamas, n’a pas encore publié lui-même un bilan de cette frappe : les réseaux téléphoniques se rétablissent lentement depuis vendredi, après une énième coupure complète. Depuis le 7 octobre, il estime qu’au moins 13 000 personnes ont péri sous les bombardements.

    « On marche sur nos voisins, sous les décombres »

    Depuis le début de cette guerre, le 7 octobre, Khaled maintient par téléphone un lien ténu entre ses six frères et sœurs encore en vie, éparpillés dans l’archipel de Gaza. Il demande que leurs noms soient modifiés, et que leurs abris ne soient pas identifiables. « Ils m’interrogent : “C’est quoi, les nouvelles ? Tu entends quoi ?” Parfois, je ne sais plus quoi leur dire et j’invente. Je prétends qu’on parle d’un cessez-le-feu imminent, mais je fais attention de ne pas leur donner trop d’espoir. »

    Le centre du monde, pour cette fratrie, c’est la maison de leur défunte mère, dans le quartier de Chajaya. Le fils aîné, Sufyan, vit encore dans un bâtiment mitoyen. A 70 ans, il est incapable de le quitter. Il a subi plusieurs opérations cardiaques : « Son cœur marche sur batterie. Il mourra s’il a une nouvelle crise », craint son cadet, Khaled. Trois de ses enfants ont choisi de demeurer à ses côtés, plutôt que de fuir vers le sud de l’enclave, où les chars israéliens ne sont pas encore déployés.

    D’autres parents les ont rejoints dans ce quartier qui n’est plus que l’ombre de lui-même. Dès les premiers jours, l’armée israélienne a bombardé cette immense banlieue agricole, qui s’étend à l’est de Gaza, jusqu’à la frontière israélienne. Les représentants de ses vieilles familles, les clans Faraj, Jandiya ou Bsaiso, menés par le mokhtar(juge de paix) Hosni Al-Moghani, ont exhorté leurs voisins à évacuer, par textos et en passant de porte en porte.

    Ils craignaient de revivre la précédente invasion terrestre israélienne, en 2014, durant laquelle l’armée avait rasé Chajaya. Au-delà du mur israélien, tout près, s’étendent les kibboutz de Nahal Oz et de Kfar Aza, où le Hamas a semé la mort le 7 octobre. Ces communautés, longtemps agricoles, exploitaient les terres dont les grandes familles de Chajaya ont été expropriées en 1948, à la naissance de l’Etat d’Israël.

    Derrière la maison natale de Khaled, un pâté de maisons a été aplati par les bombes israéliennes, fin octobre. « Le feu et la fumée sont entrés jusque chez nous, la maison a vibré comme dans un tremblement de terre. Les portes et les fenêtres ont été arrachées » , lui a raconté l’une de ses nièces. Les enfants épuisés ne se sont endormis qu’à l’aube. Le lendemain, Sufyan, le patriarche, pleurait : « On marche sur nos voisins, sous les décombres. »Ce vieil homme se désespère de voir ces rues s’évanouir sous ses yeux. Il ressasse ses souvenirs. L’antique mosquée voisine, celle de son enfance, a été endommagée en octobre par une autre frappe, et le vieux pharmacien des environs a plié bagage, après que son échoppe a été détruite.

    Morne succession de blocs d’immeubles

    Dans les années 1970, du temps de l’occupation israélienne, le chemin de fer qui reliait Gaza à l’Egypte courait encore près de ces ruines. « Enfants, on montait sur le toit de la maison quand on entendait arriver les trains israéliens, et on comptait les blindés camouflés qu’ils transportaient vers le Sinaï » , se souvient Khaled. Aujourd’hui, ses petits-neveux regardent passer à pied les cohortes de Gazaouis qui quittent leur ville par milliers. Sur la route Salah Al-Din, chaque jour entre 9 heures et 16 heures depuis le 9 octobre, ils agitent des drapeaux blancs devant les blindés que l’armée israélienne a enterrés dans des trous de sable, dans une vaste zone arasée au sud.

    Début novembre, un second frère, Bassem, a rejoint la maison maternelle, après des semaines d’errance. Cet ancien promoteur immobilier, âgé de 68 ans, vivait à Tel Al-Hawa, une morne succession de blocs d’immeubles aux façades uniformes et poussiéreuses, qui borde la mer à l’extrémité sud-ouest de la ville de Gaza. Dès les premiers jours de bombardements, une frappe a tué son voisin, un avocat. Bassem a quitté immédiatement les lieux, avec sa trentaine d’enfants et de petits-enfants. Ils l’ignoraient alors, mais l’armée préparait son opération terrestre : les blindés qui ont pénétré l’enclave le 28 octobre ont rasé un vaste espace au sud de Tel Al-Hawa, pour en faire leur base arrière.

    Bassem souffre d’un cancer du côlon. Il transporte son « estomac »(un tube de plastique greffé) dans un sac. Marcher lui est difficile. Epaulé par ses enfants, il s’est établi chez des proches, plus près du centre, aux environs du cinéma Nasser, fermé au début des années 1980. A deux rues de son abri, il a retrouvé l’un des plus vieux parcs de Gaza, une merveille fermée le plus clair de l’année, dont seuls de vieux initiés gardent le souvenir. Puis l’armée a progressé jusqu’à la place Al-Saraya, un complexe administratif, une ancienne prison de l’occupant israélien. Bassem et les siens ont quitté les lieux.

    Communauté de pêcheurs

    Le propriétaire d’une vieille camionnette Volkswagen a bien voulu l’embarquer vers la maison de sa mère à Chajaya, avec sa nièce, une jeune photographe qui aurait dû se rendre en Europe, le 10 octobre, invitée pour une résidence d’artiste. Les autres se sont séparés. Plusieurs enfants de Bassem ont gagné le sud de l’enclave. D’autres ont rejoint leur tante, Oum Hassan, dans sa maison de Zeitoun, où ils ont été bombardés le 17 novembre.

    S’il est un lieu aujourd’hui méconnaissable de Gaza, c’est son front de mer. La nuit, les pêcheurs du camp de réfugiés d’Al-Chati ont tremblé sous le roulement des canons des bateaux de guerre israéliens, au large. Parmi eux, selon Musheir El-Farra, un activiste qui tournait un film sur cette communauté de pêcheurs avant la guerre, Madlen Baker fut l’une des premières à quitter ce labyrinthe de ruelles étroites, construit pour des réfugiés chassés de leurs terres en 1948, à la naissance d’Israël, dont les descendants forment 70 % de la population de Gaza.

    Enceinte de sa troisième fille, Madlen a fui la rue Baker, où la famille de son mari, Khaled, installait, avant la guerre, de longues tables mixtes, pour déguster des ragoûts épicés de crevettes aux tomates, les jours de fête. Elle a renoncé à se réfugier dans un village de tentes, dans les cours de l’hôpital Al-Shifa tout proche. Avec une quarantaine de voisins, tous parents, la jeune femme a rejoint Khan Younès, au sud. Elle y a accouché une semaine plus tard, et a juré que sa fillette aurait un sort meilleur que le sien.

    A 31 ans, Madlen est l’unique pêcheuse de la communauté d’Al-Chati, métier d’hommes et de misère. Pour nourrir sa famille, elle a pris charge, à 13 ans, de la barque de son père, gravement malade. Elle a navigué dans les 6 à 15 milles nautiques que la marine israélienne concède aux pêcheurs gazaouis, qui éblouissent et font fuir le poisson à force de serrer les uns contre les autres leurs bateaux et leurs lampes. Elle a craint les courants qui poussaient son embarcation au-delà de cette zone, l’exposant aux tirs de l’armée.

    « Le port a été effacé »

    Elle a envié les grands espaces des pêcheries de l’Atlantique, qu’elle observait sur les réseaux sociaux. « Je courais après les poissons et les Israéliens me couraient après », disait-elle avant la guerre, de sa voix profonde et mélodieuse, devant la caméra de Musheir El-Farra. Ce dernier l’a retrouvée à Khan Younès. Madlen ignore si sa maison est encore debout, mais elle sait que son bateau gît au fond de l’eau, dans les débris du port de Gaza.

    « Même si la guerre finissait, on n’aurait plus une barque pour pêcher. Le port a été effacé. Les bâtiments, le phare, les hangars où nous entreposions nos filets et nos casiers, tout a disparu », énumère son ami et l’un des meneurs de leur communauté, Zakaria Baker, joint par téléphone. Les grands hôtels et les immeubles qui donnent sur le port sont en partie éventrés. L’asphalte de l’interminable boulevard côtier a été arraché par les bulldozers israéliens, comme celui des rues aérées qui, avant la guerre, menaient les promeneurs vers la rive.

    Seule la mer demeure un repère stable pour Zakaria Baker : « Tous mes voisins ont été chassés par les bombardements, qui ont presque détruit Al-Chati, surtout la dernière semaine avant l’invasion du camp. » M. Baker s’est résolu à partir à la veille de l’entrée des chars dans Al-Chati, le 4 novembre. Il a mené un convoi de 250 voisins et parents vers le sud, jusqu’à Khan Younès. Ce fier-à-bras moustachu, plutôt bien en chair avant la guerre, est arrivé émacié, méconnaissable, dans le sud de l’enclave.

    De son refuge de fortune, il assure qu’il retournera à Al-Chati après la guerre. Mais nombre de ses concitoyens n’ont pas sa détermination. « Les gens ont perdu leurs maisons, leurs enfants. Gaza est une âme morte. Beaucoup d’habitants chercheront à émigrer à l’étranger après la guerre. Sauf si une force internationale vient protéger la ville, et prépare le terrain pour que l’Autorité palestinienne en prenne le contrôle. Mais il faudra encore au moins cinq ans et des milliards d’euros pour rendre Gaza de nouveau vivable » , estime l’analyste Reham Owda, consultante auprès des Nations unies.

    « Ce qui a été le plus détruit, ce sont les gens »

    A 43 ans, Mme Owda résidait, avant le conflit, du joli côté d’un boulevard qui sépare le pauvre camp d’Al-Chati du quartier bourgeois de Rimal. Son défunt père, médecin, a fondé le département de chirurgie plastique du grand hôpital voisin Al-Shifa. Il a aussi bâti la maison que Reham a fuie dès le 13 octobre avec sa mère, ses quatre frères et sœurs, et leurs enfants. Sa famille s’est établie durant une semaine à Khan Younès, parmi des milliers de réfugiés, dans les odeurs d’ordures et d’égouts. Manquant de nourriture, ils ont décidé de retourner à Gaza. « Chez nous, nous avions au moins des boîtes de conserve, du gaz et un puits dans le jardin de nos voisins pour l’eau de cuisson » , dit Reham.

    Ils y ont passé dix-sept jours, calfeutrés dans la maison, jusqu’à ce que les chars encerclent l’hôpital. Le 8 novembre, des balles ont ricoché sur leur balcon. « Une boule de feu » , dit-elle, s’est abattue non loin. Un mur d’enceinte s’est écroulé dans leur jardin. La famille a repris le chemin de l’exil, vers le sud. « C’était comme un film de zombies, d’horreur. Des gens erraient sur les boulevards sans savoir où aller. J’ai vu des morceaux de cadavres en décomposition, qui puaient. Mon frère poussait le fauteuil roulant de ma mère, tout en portant son fils et un sac. Quand j’ai voulu m’asseoir au milieu d’un boulevard, pour me reposer, un tir a retenti et je suis repartie. »

    Depuis lors, l’armée israélienne a pris le contrôle de l’hôpital Al-Shifa. Elle a affirmé, dimanche 19 novembre, y avoir découvert un tunnel du Hamas, menant à un centre de commandement. Pressant plusieurs centaines de malades d’évacuer les lieux, elle a aussi permis, dimanche, l’évacuation de 31 nouveau-nés, prématurés en danger de mort – quatre autres étaient décédés auparavant.

    Mme Owda craint d’être bientôt contrainte par l’armée de revenir une seconde fois dans sa ville natale, à Gaza. « Je crois que d’ici à la fin du mois, si Israël contrôle toute la cité, l’armée demandera aux habitants de revenir, puis elle pourra poursuivre son opération terrestre dans le Sud. » Samedi 18 novembre, le ministre de la défense, Yoav Gallant, a indiqué que les soldats s’y lanceraient bientôt à la poursuite des chefs du Hamas.

    « Ce qui a été le plus détruit à Gaza, ce sont les gens. Je ne les reconnais plus. Mon voisin est venu vérifier l’état de sa maison récemment. Il pesait 120 kilos avant la guerre, il en a perdu trente en six semaines » , s’épouvante le photographe Mohammed Al-Hajjar, joint par téléphone le 17 novembre. Ce barbu trentenaire, au rire rocailleux de fumeur, réside dans la rue Al-Jalaa, au nord de chez Owda, avec trente parents : ses frères et leurs familles. Le père de son épouse, Enas, a été tué dans un bombardement au début de la guerre.

    Les trésors du verger

    « Nous mangeons une fois par jour du riz, du pain ou une soupe. Nous, les adultes, nous pouvons survivre avec un biscuit par jour, mais pas nos enfants. Nous espérons que la guerre finisse et de ne pas être forcés de boire de l’eau polluée » , dit-il. Depuis le début de la guerre, Mohammed échange régulièrement sur WhatsApp avec deux amies, l’une à Jérusalem, l’autre, réfugiée dans le sud de Gaza. Mardi 14 novembre au matin, il leur écrivait que la pluie tombait sur Gaza depuis une heure : « Les rues sont pleines de boue, nos fenêtres brisées laissent entrer l’eau, mais je remercie Dieu pour cette pluie bienfaisante. » Il envoyait peu après une photographie de sa cuisine, où des grenades, des clémentines, des citrons et des oranges dégorgeaient de grandes bassines d’aluminium : des taches lumineuses dans l’air gris de Gaza.

    La veille, Mohammed avait tenu une promesse faite à son fils de 7 ans, Majed, et à sa cadette, Majdal, âgée de 2 ans. Il a parcouru la ville à ses risques et périls pour rejoindre un verger qui appartient à sa famille. Il en a rapporté ces fruits, véritables trésors, dans des sacs en plastique gonflés à ras bord. « Nos oliviers et nos goyaviers ont été ravagés par le bombardement d’une maison, en face du jardin. Il y a eu aussi des combats au sol, pas loin. Nos canards et nos moutons en ont profité pour s’échapper » , écrivait-il alors, par texto, à ses deux amies .Mohammed l’a regretté : sa famille aurait eu bien besoin de cette viande.

    Plusieurs fois par semaine, lorsque son téléphone est près de s’éteindre, Mohammed dit un dernier « adieu » à ses amies. Puis il trouve le moyen de le recharger, sur une batterie de voiture à laquelle des voisins branchent une douzaine de mobiles. Il rentre alors embrasser son épouse, dans le salon neuf du rez-de-chaussée, où elle lui interdisait de traîner avant la guerre, de peur qu’il le salisse. Il monte quatre à quatre les escaliers jusqu’au sixième étage, où le réseau téléphonique est meilleur. Là-haut, le jeune homme filme les éclats des bombardements, la nuit, dans une ville sans électricité que seuls les incendies éclairent, et où les blindés israéliens circulent tous feux éteints, lâchant parfois une fusée éclairante.

    Au matin, Mohammed raconte ses rêves à ses amies sur WhatsApp, et leur demande des nouvelles de la progression de l’armée. C’est lui qui leur avait annoncé, les 7 et 8 octobre, la destruction par les bombes israéliennes des grands immeubles du centre-ville, les tours Palestine, Watane, Al-Aklout et Alimane ; celle du plus moderne centre commercial de la ville, Le Capital, et les frappes méthodiques sur les demeures des responsables politiques du Hamas. Mais il sort de moins en moins. Le photographe rassemblait encore son courage afin de photographier, pour le site britannique Middle East Eye, l’hôpital Al-Shifa, avant son invasion par l’armée. Aujourd’hui, il a faim : il envoie des images des épiceries détruites de la rue Al-Jalaa, et d’une longue rangée de réfrigérateurs vides dans un supermarché voisin.

    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/20/l-errance-des-habitants-de-gaza-dans-leur-ville-transformee-en-champ-de-ruin

    #guerre #IDPs #déplacés_internes #réfugiés #destruction #7_octobre_2023 #armée_israélienne #cartographie #visualisation

  • Joint declaration: Commemoration of the 24 November 2021 shipwreck


    EN et FR

    Two years after the shipwreck of 24 November 2021, as injustice and deaths at the border continue, we stand together to call for a world free from border violence.

    On 24 November 2021, at least 33 people in a dinghy tried to reach the United Kingdom from the coast of Dunkirk. The 33 people came mainly from Iraqi Kurdistan, but also from Afghanistan, Ethiopia, Iran, Egypt, Somalia, and Vietnam.

    Three hours into the Channel crossing, the boat found itself in distress. At 1:48 am, passengers managed to make contact with the Gris-Nez Regional Monitoring and Rescue Centre (“CROSS”), which coordinates rescue operations on the French side of the border. Although the boat was located in French territorial waters, the CROSS refused to send help.

    Despite repeated calls from various people on board, between 1:48am and 4:34am, neither British rescue services, nor French rescue services launched any operation to rescue them. Worse still, at 4.16am, the CROSS even went so far as to dissuade a tanker from intervening to rescue the people who were drowning. It was only 12 hours later that the inflatable boat was found by a fishing boat. At least 27 people died that night in the icy waters of the English Channel.

    A few days after the shipwreck, two survivors testified about how the rescue services had abandoned them at sea with impunity. In November 2022, Le Monde revealed the content of the unbearable exchanges between the shipwreck victims and the CROSS. The shipwrecked passengers were treated with cynicism and international laws governing rescue at sea were disregarded. A few weeks after the shipwreck, the organisation Utopia 56, with relatives of people who died, filed a complaint against French authorities for “involuntary manslaughter” and “failure to render assistance”. The nine military personnel from CROSS Gris-Nez and a French patrol boat interviewed as part of the judicial enquiry took responsibility for all the decisions taken on that terrible night, but do not believe they were at fault. Although the French government had promised an internal enquiry following the revelations in Le Monde, it never took place. On the contrary, the defendants have the support of their superiors, who tried to interfere in the judicial investigation, as revealed by telephone taps. An investigation for breach of confidentiality has been opened.

    A report published this month by the UK Department for Transport identified failings that led to the dinghy not being rescued by HM Coastguard that night: poor visibility, lack of aerial surveillance, and a lack of staff in the control room in Dover to process SOS calls… The legal team representing one of the victim’s families described the events as an “overall display of chaos”. The British government also announced an independent inquiry into the shipwreck, after the report was published. However, the report fails to explain why over 30 people were left in distress for 12 hours, while the Coastguard rescued other boats that night, nor why migrants have no other choice but to risk their lives at sea, when every other safe route to the UK is blocked to them.

    Again and again, political and military authorities refuse to take responsibility for their role in this shipwreck and are attempting to cover it up.

    Since 1999, at least 385 people have died trying to reach the UK. Hit by vehicles on the motorway, electrocuted by a live wire on the Eurotunnel site, asphyxiated in the trailers of lorries in Essex in England, died by suicide, drowned in the canal whilst trying to bathe, died due to poor living conditions in the camps, and drowned in the Channel.

    In recent years, the frequency of deaths at the border has only accelerated. Since 24 November 2021, at least 45 migrants have died at this border. The deaths continue to pile up and nothing changes. On the contrary, the French, Belgian and British authorities are stubbornly pursuing their racist and security-focused immigration approaches to make this border area ever more hostile for migrants.

    In France, the new asylum-immigration bill heralds an even more anti-migrant turn by the Macron government. On the northern coast this month, migrants’ rights organisations denounced a “catastrophic situation” for people exiled, who are not receiving shelter during storm Ciaran and the cold, nor access to water or food distributions – while police eviction operations continue. In Belgium, the government continues to deny decent accommodation to people seeking safety, leaving families and children on the streets, despite multiple convictions in court. Furthermore, since 2021, Belgium has been supporting Frontex’s Opal Coast aerial surveillance operation, whose mission is to assist the French and Belgian authorities in detecting and intercepting exiles attempting to cross the Channel to the United Kingdom. On the British side, the government has successively passed increasingly repressive measures against migrants, including a plan to deport people to Rwanda ruled unlawful by the Supreme Court, and a ban on asylum for people arriving in the UK “irregularly”. Lastly, at the last Franco-British summit on 10 March 2023, the UK announced the release of £476 million (543 million euros) over 3 years for the deployment of 500 additional officers, the purchase of new surveillance equipment and drones, helicopters and aircraft, and the opening of a new detention centre in northern France.

    The French, Belgian and British authorities have turned the shared border into a place of death. By refusing to welcome people and by militarising this border with an excessive number of repressive measures (kilometres of barriers, barbed wire, drones, multiple police patrols, Frontex aircraft), they are politically responsible for every single one of these deaths. We know that the increasing militarisation of the border does not stop people taking journeys, but simply makes these journeys more dangerous and life-threatening.

    We, Belgian, British, and French organisations, collectives, and activists, support the actions taken by victims’ relatives and families before the courts, to ensure that the truth on exactly what happened on that murderous night is exposed, and justice is achieved.

    From Dunkirk to Folkestone and from London to Zeebrugge, we stand together to call for an urgent and radical change in the policies pursued at this and other European borders. The rights of migrants must be fully respected and the values and principles of welcome and free movement must replace the racist logic of deadly border violence. We stand in solidarity with all those displaced. They should not face the further trauma of militarised and violent borders when they seek safety in Belgium, France or the UK.

    As long as the Belgian, British, and French governments continue to coordinate simultaneous violence at the shared border and as long as people need and desire to move across borders, our solidarity and work must continue to reach beyond borders. We will continue to work together in solidarity with people on the move, to ensure that their rights are respected – starting with their right to life – and that justice is done when these rights are violated.

    –-

    Deux ans après le naufrage du 24 novembre 2021, alors que l’injustice et les décès aux frontières se poursuivent, nous sommes uni·e·s pour appeler à un monde sans violence aux frontières.

    Le 24 novembre 2021, au moins 33 personnes embarquées à bord d’un zodiac ont tenté de rejoindre le Royaume-Uni, en partant des côtes Dunkerquoises. Ces 33 personnes venaient majoritairement du Kurdistan irakien, mais aussi d’Afghanistan, d’Éthiopie, d’Iran, d’Égypte, de Somalie et du Vietnam.

    Trois heures après le début de la traversée dans la Manche, l’embarcation s’est trouvée en situation de détresse. A 1h48 du matin, les passager·ère·s ont réussi à prendre contact avec le Centre régional opérationnel de surveillance et de sauvetage (CROSS) Gris-Nez, qui coordonne les opérations de secours côté français. Alors que l’embarcation est localisée dans les eaux territoriales françaises, le CROSS refuse d’envoyer des secours.

    Malgré des appels répétés de la part de différent·e·s naufragé·e·s, entre 1h48 et 4h34 du matin, ni les secours britanniques, ni les secours français ne lanceront d’opération de secours. Pire, à 4h16 du matin, le CROSS ira même jusqu’à dissuader un tanker d’intervenir pour secourir les personnes en train de se noyer. Ce n’est que 12 heures après, que l’embarcation pneumatique est retrouvée par un bateau de pêche. Au moins 27 personnes sont mortes cette nuit-là dans les eaux glacées de la Manche.

    Quelques jours après le naufrage, deux rescapés témoignent de la manière dont les secours les avaient impunément abandonnés en pleine mer. En novembre 2022, Le Monde a révélé la teneur des échanges – insoutenables – entre les naufragé·es et le CROSS. Les naufragé·es ont été traité·es avec cynisme et les lois internationales qui régissent le sauvetage en mer ont été bafouées. Quelques semaines après le naufrage, l’association Utopia 56 a déposé plainte aux côtés de membres des familles de personnes décédées, contre les autorités françaises pour « homicide involontaire » et « omission de porter secours ». Les neuf militaires du CROSS Gris-Nez et d’un patrouilleur français auditionnés dans le cadre de cette enquête judiciaire, ont assumé toutes les décisions prises lors de cette terrible nuit, mais n’estiment pas avoir commis de faute. Alors que le gouvernement français avait promis une enquête interne, suite aux révélations du journal Le Monde, celle-ci n’a jamais eu lieu. Les prévenus bénéficient au contraire du soutien de leur hiérarchie, laquelle a tenté d’interférer dans l’enquête judiciaire comme le révèlent des écoutes téléphoniques. Une enquête pour violation du secret de l’instruction est ouverte.

    Un rapport publié ce mois-ci par le Ministère des Transports britannique a identifié les défaillances qui ont empêché les garde-côtes britanniques de secourir l’embarcation cette nuit-là : mauvaise visibilité, absence de surveillance aérienne et manque de personnel dans la salle de contrôle de Douvres pour traiter les appels d’urgences… L’équipe juridique représentant l’une des familles de la victime a qualifié les événements de “chaos général”. Le gouvernement britannique a également annoncé l’ouverture d’une enquête indépendante sur le naufrage, après la publication du rapport. Toutefois, le rapport n’explique pas pourquoi plus de 30 personnes ont été laissées en détresse pendant 12 heures, alors que les garde-côtes ont secouru d’autres bateaux cette nuit-là, ni pourquoi les personnes exilées n’ont d’autre choix que de risquer leur vie en mer, alors que toutes les autres routes sûres vers le Royaume-Uni leur sont interdites.

    Encore et encore, les autorités politiques et militaires réfutent la responsabilité qui leur incombe dans ce naufrage et s’efforcent d’étouffer l’affaire.

    Depuis 1999, au moins 385 personnes sont décédées en tentant de rejoindre le Royaume-Uni. Mortes percutées par un véhicule sur l’autoroute, électrocutées par un caténaire sur le site Eurotunnel, asphyxiées dans la remorque d’un poids-lourd dans l’Essex en Angleterre, mortes par suicide, noyées dans le canal en tentant de se laver, décédées suite aux mauvaises conditions de vie sur les campements, et noyées dans la Manche.

    La fréquence des morts à cette frontière ne fait que s’accélérer ces dernières années. Depuis le 24 novembre 2021, ce ne sont pas moins de 45 nouvelles victimes qui ont été recensées. Les mort·e·s continuent de s’accumuler et rien ne change. Au contraire, les autorités françaises, belges, et britanniques s’entêtent dans leur logique raciste et sécuritaire en créant un environnement toujours plus hostile aux personnes exilées.

    En France, le nouveau projet de loi asile-immmigration annonce un tournant encore plus anti-migrant du gouvernement Macron. Sur le littoral nord, ce mois-ci, des associations ont dénoncé une “situation catastrophique” pour les personnes exilées qui ne bénéficient ni d’une mise à l’abri malgré le froid et la tempête Ciaran, ni d’accès à l’eau ou aux distributions alimentaires – alors que les opérations policières d’expulsion continuent. En Belgique, le gouvernement continue de nier le droit d’accueil aux personnes exilées, laissant familles et enfants à la rue, malgré plusieurs condamnations par la justice. De plus, depuis 2021, la Belgique soutient l’opération Opal Coast de surveillance aérienne de Frontex dont la mission est d’assister les autorités françaises et belges pour détecter et intercepter les personnes exilées qui tentent de traverser la Manche pour rejoindre le Royaume-Uni. Du côté britannique, le gouvernement déploie successivement des mesures de plus en plus répressives contre les personnes exilées, y compris un plan d’expulsion vers le Rwanda jugé illégal par la Cour suprême et l’interdiction de demander l’asile aux personnes arrivant de manière “irrégulière” au Royaume-Uni. Enfin, à l’occasion du dernier sommet franco-britannique du 10 mars 2023, le Royaume-Uni a annoncé le déblocage de 543 millions d’euros (£476 millions) sur 3 ans destinés au déploiement de 500 officiers supplémentaires, à l’achat de nouveaux équipements de surveillance et de drones, d’hélicoptères et d’aéronefs, ainsi qu’à l’ouverture d’un nouveau centre de rétention dans le nord de la France.

    Les autorités françaises, belges, et britanniques ont fait de cette frontière un espace de mort. En refusant d’accueillir les personnes exilées et en militarisant cette frontière, via une surenchère de dispositifs de répression (kilomètres de barrières, barbelés, drones, multiples patrouilles de police, avion Frontex), elles sont responsables politiquement depuis des décennies de chaque mort. Nous savons que la militarisation accrue des frontières n’empêche pas les personnes de voyager, mais rend simplement ces voyages plus dangereux et mortels.

    Nous, associations, collectifs, et militant·e·s belges, britanniques, et français·es, nous soutenons les actions menées par les proches et familles des victimes devant les tribunaux afin que la vérité éclate sur le déroulement exact de cette nuit meurtrière et que justice soit faite.

    De Dunkerque à Folkestone et de Londres à Zeebrugge, nous réclamons un changement urgent et radical quant aux politiques menées à cette frontière, ainsi qu’aux autres frontières européennes, afin que les droits des personnes en migration soient pleinement respectés et que les valeurs et principes de l’accueil et de la libre circulation remplacent la logique raciste de violences mortifères aux frontières. Nous sommes solidaires de toutes les personnes exilées. Elles ne devraient pas être confrontées au traumatisme supplémentaire de frontières militarisées et violentes lorsqu’elles cherchent la sécurité en Belgique, en France ou au Royaume-Uni.

    Tant que les gouvernements belge, britannique, et français continueront à coordonner des violences simultanées à la frontière commune et tant que les gens auront le besoin et le désir de traverser les frontières, notre solidarité et notre travail devront continuer à aller au-delà des frontières. Nous continuerons notre travail commun en solidarité avec les personnes exilées, pour le respect de leurs droits – à commencer par leur droit à la vie – et pour que justice soit rendue lorsque ces droits sont bafoués.

    Signatories / signataires:

    African Rainbow Family, United Kingdom

    After Exploitation, United Kingdom

    Alice Thiery, New Calledonia

    All African Women’s Group, London, England

    Amira Elwakil, United Kingdom

    ARACEM, Mali

    BARAC UK, United Kingdom

    Big Leaf Foundation, United Kingdom

    Birmingham City of Sanctuary, United Kingdom

    Birmingham Community Hosting Network (BIRCH), United Kingdom

    Birmingham Schools of Sanctuary, United Kingdom

    Calais Food Collective, France

    Cambridge Convoy Refugee Action Group, United Kingdom

    Camille Louis, France et Grèce

    Captain Support UK, United Kingdom

    Care4Calais, United Kingdom

    Charles Stone, Oxford, England

    Chenu Elisabeth, France

    Choose Love, United Kingdom

    CIRÉ, Belgium

    CNCD-11.11.11, Belgium

    Damien CAREME, France

    Drag Down the Borders, United Kingdom

    Eleanor Glynn, United Kingdom

    Fabienne Augié, France

    Focus on Labour Exploitation (FLEX), United Kingdom

    Freedom from Torture, United Kingdom

    GISTI (Groupe d’information et de soutien des immigré⋅es), France

    Giulia Teufel, Scotland

    Global Women Against Deportations, London, England

    Greater Manchester Immigration Aid Unit (GMIAU), United Kingdom

    Groupe montois de soutien aux sans-papiers, Mons, Belgium

    Haringey Welcome, United Kingdom

    Here for Good, United Kingdom

    Human Rights Observers (HRO), Calais and Grande-Synthe, France

    Humans for Rights Network, United Kingdom

    Inclusive Mosque Initiative, United Kingdom

    Institute of Race Relations, United Kingdon

    Joint Council for the Welfare of Immigrants (JCWI), United Kingdom

    Julie HUOU, Nîmes, France

    Kent Refugee Action Network (KRAN), Kent, United Kingdom

    Kevin Guilbert, Ham en Artois, France

    L’Auberge des Migrants, France

    La Cimade, France

    La Resistencia, United States

    Latin American Women’s Rights Service (LAWRS), United Kingdom

    Legal Action for Women, London, England

    Loraine Masiya Mponela, England

    Louis Fernier, Poitiers, France

    Lu ndu, United Kingdom

    Lucian Dee, London, United Kingdom

    Manchester Migrant Solidarity Manchester, United Kingdom

    Maria Hagan, France

    Medact, United Kingdom

    Médecins du Monde France / Programme nord littoral, France

    Merseyside Solidarity Knows No Borders, United Kingdom

    Migrant Voice, United Kingdom

    Migrants in Culture, United Kingdom

    Migrants Organise, United Kingdom

    Migrants’ Rights Network, United Kingdom

    Migrations Libres, Belgium

    Migreurop, réseau euro-africain

    Morgan Guthrie, United Kingdom

    MRAP-littoral dunkerquois, Dunkerque, France

    NANSEN, the Belgian Refugee Council, Belgium

    Ouvre Porte, France

    Oxford Against Immigration Detention, Oxford, United Kingdom

    Patricia Thiery, France

    Payday men’s network, United Kingdom and United States

    Plateforme Citoyenne de Soutien aux Réfugiés – Belrefugees, Belgium

    Play for Progress, London, United Kingdom

    Project Play, France

    Rainbow Migration, United Kingdom

    Reclaim The Sea, United Kingdom

    RefuAid, London, United Kingdom

    Refugee Action, United Kingdom

    Refugee Legal Support, London and Calais

    Refugee Support Group, Berkshire, United Kingdom

    Refugee Women’s Centre, France

    Remember & Resist, United Kingdom

    Right to Remain, UK

    Safe Passage International, United Kingdom

    Safe Passage International, France

    Social Workers Without Borders, United Kingdom

    Stand For All, United Kingdom

    Stories of Hope and Home, United Kingdom

    Student Action for Refugees (STAR), United Kingdom

    Terre d’errance Norrent-Fontes, France

    The October Club, Oxford, United Kingdom

    The Pickwell Foundation, Devon, United Kingdom

    The Refugee Buddy Project Hastings Rother & Wealden, East Sussex, UK

    The Runnymede Trust, United Kingdom

    Tina Pho, United Kingdom

    Toby Murray, London, United Kingdom

    Tugba Basaran, Cambridge, United Kingdom

    Utopia 56, France

    Valérie Osouf, France

    Vents Contraires, France

    VVIDY (Voice of Voiceless Immigration Detainees-Yorkshire), United Kingdom

    Welsh Refugee Council, Wales

    Young Roots London, United Kingdom

    https://irr.org.uk/article/joint-declaration-commemoration-of-the-24-november-2021-shipwreck

    #commémoration #asile #migrations #réfugiés #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #mémoire #naufrage #24_novembre_2021

    • Le #Cross_Border_Forum : espace transfrontalier d’échange et de lutte pour la #justice_migratoire

      Ce 24 novembre 2023 marque le deuxième anniversaire du plus important naufrage de personnes migrantes dans la Manche. Ce drame et d’autres précédemment, sont le résultat d’une approche répressive des politiques migratoires européennes et britanniques. Face à cette situation devenue structurelle, s’est constitué un réseau d’associations et de militants britanniques, français et belges : le Cross Border Forum.
      Présentation de ce forum dont le CNCD-11.11.11 est membre et de sa déclaration engagée en mémoire des victimes des violences aux frontières.

      Ce 24 novembre 2023 marque le deuxième anniversaire du plus important naufrage de personnes migrantes dans la Manche, qui s’est déroulé en 2021. Ce drame a causé la mort de 27 personnes exilées, femmes, hommes et enfants, originaires majoritairement du Kurdistan irakien, mais aussi d’Afghanistan, d’Éthiopie, d’Iran, d’Égypte, de Somalie et du Vietnam. Outre l’absence de secours malgré les appels répétés des naufragés

      , les raisons de ce drame et d’autres précédemment, sont le résultat d’une approche répressive des politiques migratoires européennes et britanniques. Celles-ci contraignent, non seulement les personnes exilées désireuses de se rendre aux Royaume-Uni à emprunter des voies périlleuses irrégulières faute de possibilités légales de migrations mais aussi à séjourner dans l’irrégularité faute d’accueil. Face à cette situation révoltante devenue structurelle, s’est constitué un réseau d’associations et de militants britanniques, français et belges : le Cross Border Forum. Présentation de ce forum dont le CNCD-11.11.11 est membre.
      Mobilité entravée et encampement à la frontière belgo-franco-britannique

      Les migrations internationales du sol européen vers le Royaume-Uni sont anciennes et multiples. Cependant, ces dernières décennies, à la suite du renforcement de l’approche répressive des politiques migratoires européennes et britanniques, les seules voies possibles de mobilité entre le continent et l’île sont, pour la plupart des personnes exilées, devenues irrégulières, au fur et à mesure que se fermaient les vois légales de migration. Effectuées par route (via le tunnel) et par mer, nécessitant souvent l’intermédiaire de passeurs, ces déplacements sont de plus en plus chers, dangereux et meurtriers. Depuis 1999, selon le Mémorial de Calais, au moins 385 personnes sont décédées en tentant de rejoindre le Royaume-Uni. Mortes percutées par un véhicule sur l’autoroute, électrocutées par un caténaire sur le site Eurotunnel, asphyxiées dans la remorque d’un poids-lourd dans l’Essex en Angleterre, noyées dans la Manche, mortes par suicide et décédées à la suite des mauvaises conditions de vie dans les camps.

      En 2022, la presse belge (RTBF) estime que près de 80.000 personnes ont tenté de passer au Royaume-Uni depuis l’Europe continentale
      . Ces déplacements se font principalement au départ de la France mais également depuis la Belgique. Néanmoins comme le signale Myria dans son rapport de 2020 intitulé La Belgique, une étape vers le Royaume-Uni : « Au vu du manque de chiffres fiables et représentatifs, il est impossible d’évaluer le nombre de migrants en transit présents (en moyenne) en Belgique. Très peu d’informations représentatives sur les caractéristiques démographiques des migrants en transit sont également disponibles

       ».

      En Belgique et en France, en amont de la traversée, de nombreux camps informels se créent et sont aussitôt démantelés par les autorités. Ils sont situés à proximité des plages de la mer du Nord et du tunnel sous la Manche. Le plus médiatisé est sans doute celui de la « jungle de Calais » . Ces zones d’attente et de transit sont localisées également dans les bois, le long des autoroutes et non loin des parkings de camions poids lourds dont la destination est l’Angleterre. Les conditions de vie dans ces camps sont inhumaines car insalubres et insécurisantes, spécialement pour les femmes et les enfants. La survie de leurs occupants est entre autres rendue possible par l’action solidaire de citoyens et associations leur permettant d’avoir un accès modeste à de la nourriture, de l’eau, des vêtements, de l’électricité et des conseils juridiques. Ces camps d’infortune sont régulièrement démantelés

      par les Etats sans aucune réelle proposition de mise à l’abri et d’hébergement durable. Les personnes migrantes y sont régulièrement contrôlées, persécutées et chassées de façon violente par les autorités sous prétexte d’insécurité, de lutte contre le trafic d’êtres humains et d’appel d’air. La criminalisation de ces personnes et de leur soutient solidaire fait partie intégrante de la stratégie répressive et dissuasive voulues par les Etats européens.
      Brexit, pacte européen et externalisation des questions migratoires

      A la différence de plusieurs traités, protocoles et accords franco-britanniques
      relatifs à la gestion de l’accueil

      et du contrôle des frontières, la Belgique n’a pas signé d’accords bilatéraux formels avec le Royaume-Uni. Cependant, elle entretient des relations diplomatiques cordiales et signe des déclarations communes avec lui, les Pays-Bas, l’Allemagne et la France au sujet du contrôle de leurs frontières communes. Depuis 2021, la Belgique soutient l’opération Opal Coast de surveillance aérienne de Frontex dont la mission est d’assister les autorités françaises et belges pour détecter et intercepter les personnes exilées qui tentent de traverser la Manche pour rejoindre le Royaume-Uni. A l’occasion du dernier sommet franco-britannique en mars 2023, le Royaume-Uni a annoncé le déblocage 543 millions d’euros sur 3 ans destinés à l’achat de nouveaux équipements de surveillance et de drones, d’hélicoptères et d’aéronefs, ainsi qu’à l’ouverture d’un nouveau centre de rétention dans le nord de la France. Rappelons qu’en collaborant avec le Royaume-Uni pour empêcher des personnes présentes sur leur territoire de rejoindre ce dernier, la France et la Belgique contreviennent à l’article 13 de la Déclaration universelle des droits de l’homme qui stipule : « Toute personne a le droit de quitter tout pays, y compris le sien. »

      Depuis le Brexit en 2018, les mesures liées aux politiques migratoires prises par un Etat membre européen avec le Royaume-Uni peuvent être considérées comme faisant partie de la stratégie d’externalisation des questions migratoires ; cela à l’image des accords entre les États européens avec des pays tiers. Le contesté pacte européen sur la migration et l’asile, qui pourrait être adopté durant la présidence belge de l’UE en 2024, a également pour axe stratégique prioritaire l’externalisation. Le Royaume-Uni n’est pas en reste. Le gouvernement actuel tente de faire passer une loi qui permettrait d’expulser au Rwanda toute personne arrivée sur le sol britannique par voie irrégulière. Ce 15 novembre, le projet a été recalé par la Cour suprême britannique, car il a été jugé illégal. Le Rwanda ne peut en effet être considéré comme un pays tiers sûr. D’autres projets ont vu également le jour sur l’île, tels l’accueil des demandeurs d’asile sur des barges flottantes et une machine à vagues ayant pour effet recherché de dissuader, refouler et donc de ne pas accueillir les personnes exilées.
      Le Cross Border Forum, ensemble, pour et avec les personnes exilées

      Le contexte des migrations et de l’accès à l’asile lié à la frontière du Royaume-Uni avec la France et la Belgique crée une situation intenable pour les personnes migrantes qui transitent par la région frontalière et, par extension, pour les organisations de soutient qui travaillent avec elles. Apporter des réponses aux défis et aux enjeux des migrations transfrontalières implique une bonne connaissance et une bonne compréhension des dynamiques et changements de politique dans les pays respectifs. L’importance d’une collaboration entre les acteurs de la société civile est souvent soulignée aux niveaux national et local, mais une collaboration entre acteurs travaillant des différents côtés de la frontière l’est tout autant. L’expérience vécue de la frontière commune et l’expertise des politiques de migrations des personnes premières concernées par les questions transfrontalières est aussi essentielle. Alors que les gouvernements des deux côtés de la Manche s’engagent dans des négociations multilatérales, la coopération entre la société civile internationale est plus que nécessaire. Cela aura pour conséquence de renforcer l’impact potentiel des efforts respectifs.

      Il existe peu d’espaces permettant d’échanger rapidement et facilement des informations et analyses, afin de répondre à court et à long termes à la situation dans l’un des trois pays. Le Cross Border Forum (CBF) est né de ce besoin. Fin 2020, il a débuté en tant qu’initiative visant à rassembler les acteurs de la société civile des deux côtés de la frontière franco-britannique. Au printemps 2021, des associations belges, dont le CNCD-11.11.11, ont rejoint le Forum

      . En 2022, une coordination basée au Royaume-Uni et hébergée par l’association JCWI a été mise en place pour faire fonctionner durablement le forum. La formalisation du forum (charte d’adhésion des membres, site, financement etc.) sera finalisée d’ici fin 2023.
      Le 24 novembre, date de commémoraction pour mettre fin aux morts aux frontières

      Ce 24 novembre 2023, le CBF publie une déclaration commune [à télécharger ci-dessous] qui rappelle : « De Dunkerque à Folkestone et de Londres à Zeebrugge, nous réclamons un changement urgent et radical quant aux politiques menées à cette frontière, ainsi qu’aux autres frontières européennes, afin que les droits des personnes en migration soient pleinement respectés et que les valeurs et principes de l’accueil et de la libre circulation remplacent la logique raciste de violences mortifères aux frontières. »

      https://twitter.com/CborderForum/status/1721947530798248075

      Au-delà de cette déclaration et de la commémoration annuelle autour de cette date symbolique, le CBF participe depuis deux ans à des rencontres publiques organisées dans les trois pays et organise en plus de ses réunions régulières d’échanges internes, des séances de formations pour ses membres sur la situation transfrontalière. Aujourd’hui, les membres du forum échangent, s’informent et se mobilisent mais certains n’excluent pas, demain, de porter des actions de plaidoyer sur leur frontière commune dans leurs pays respectifs.

      https://www.cncd.be/Le-Cross-Border-Forum-espace