• Les migrants sont-ils acteurs de leur trajectoire ?

    L’exil est souvent perçu comme un temps arrêté dans le cours de la vie car ceux qui migrent doivent faire face à de nombreux #obstacles et à de longues situations d’#attente. En s’appuyant sur le cas des migrants afghans, #Alessandro_Monsutti, grand spécialiste de l’Afghanistan et des pays limitrophes, nous explique que partir de chez soi pour rejoindre un autre pays implique d’être pleinement (et souvent durement) acteur de sa propre trajectoire.

    https://www.youtube.com/watch?time_continue=1&v=4xWCrcpE7ik&feature=emb_logo


    https://www.icmigrations.cnrs.fr/2021/11/29/defacto-029-02

    #autonomie #migrations #asile #réfugiés #autonomie_des_migrations #Afghanistan #réfugiés_afghans #approche_transnationale #appartenances_multiples #itinéraires_migratoires #complexité #stratégie #circulations #échelles #agentivité #capacité_d'action #famille #agency #structuralisme #structure #aspirations #immobilisation

    #vidéo

    ping @isskein @karine4

  • Die Toten von der polnisch-belarussischen Grenze

    Eine irakische Mutter, ein Fußballfan aus dem Jemen, ein Teenager aus Syrien: Mindestens 17 Menschen sind seit September im Grenzgebiet zwischen Belarus und Polen gestorben. Dieser Text erzählt von ihren Träumen, Ängsten und Zielen.

    https://www.spiegel.de/ausland/polen-belarus-17-menschen-starben-an-der-grenze-das-sind-ihre-geschichten-a-

    Voir aussi le tweet de Lighthouse Reports :

    The border between Poland & Belarus is a deathtrap. Much of the EU has written off the people caught in it as ‘weapons’ in a hybrid war waged by a dictator. In an in-depth investigation @LHreports reconstructed the final days & life stories of the dead

    https://twitter.com/LHreports/status/1472155544941211654

    Avec des mini-portraits :

    #Pologne #décès #morts #mourir_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #identification #Biélorussie #frontières

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    ajouté à la métaliste sur cette frontière :
    https://seenthis.net/messages/935860

  • Due migranti investiti e uccisi da un treno al Brennero

    L’incidente nella notte a due chilometri dal confine di stato. Le due vittime stavano entrando a piedi in Italia seguendo i binari. Si tratta di due uomini marocchini di 26 e 46 anni

    Due richiedenti asilo marocchini sono morti dopo essere stati investiti da un treno al Brennero stamane (sabato 18 dicembre) all’alba.

    L’incidente è avvenuto nei pressi di #Bagni_di_Brennero, a oltre due chilometri dal confine di stato.

    Le vittime, due migranti che stavano viaggiando a piedi dall’Austria verso l’Italia seguendo i binari, sono state investite da un treno passeggeri della SAD partito da Brennero alle 6.32. Si tratta di due cittadini marocchini di 26 e 46 anni. Dai documenti che portavano con sé risulta che avessero fatto domanda di asilo in Austria ottenendo una protezione temporanea. Non si sa perché avessero varcato il confine.

    Il macchinista ha segnalato alle autorità ferroviarie di avere probabilmente investito un animale ma ha proseguito la sua corsa.
    Sono passati poi un treno merci (il conducente ha comunicato che la presunta carcassa di animale non ostruiva i binari) e un altro treno da cui non sono giunte segnalazioni.

    È stato il macchinista di un treno successivo, partito da Brennero alle 7.38, ad avvistare due sagome lungo i binari e a fermare il convoglio.
    La linea ferroviaria è stata bloccata da prima delle 8 fino alle 10.
    Il treno investitore si trova alla stazione di Bolzano; secondo i rilievi della scientifica ci sono chiari segni di impatto sulla vettura di testa.

    Sul posto sono intervenute la Polfer e squadre di soccorso, poco dopo è arrivato l’elicottero Pelikan 2 per la constatazione del decesso.
    Il magistrato di turno, Andrea Sacchetti, è stato avvisato telefonicamente e segue le indagini.

    Negli anni scorsi diversi migranti in fuga hanno perso la vita sulla linea ferroviaria del Brennero. La tragedia di oggi, 18 dicembre, si è consumata proprio nella giornata internazionale dei diritti dei migranti.

    https://www.rainews.it/tgr/bolzano/articoli/2021/12/blz-incidente-brennero-treno-binari-migranti-morti-ec0f08ad-a7c5-4b9d-ab62-7
    #décès #morts #asile #migrations #réfugiés #Brenner #Italie #Autriche #frontière_sud-alpine #Alpes

    Le nom des victimes :
    #Mohamed_Basser (26 ans) et #Mostafà_Zahrakame (46 anni)
    –-> voir article Melting Pot Europa ci-dessous : https://www.meltingpot.org/2021/12/brennero-altre-morti-di-confine

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    ajouté à la liste sur les migrants morts au Brenner :
    https://seenthis.net/messages/781841

    elle-même ajoutée à la métaliste des morts dans les Alpes :
    https://seenthis.net/messages/758646

    • Brennero, altre morti di confine

      Le due persone migranti morte al Brennero rappresentano l’atrocità dei confini nel generale silenzio delle istituzioni locali ed europee

      Sabato 18 dicembre alle 6.40 due persone sono morte investite da un treno a Terme di Brennero, a tre chilometri dalla frontiera. Ci sono voluti ben 70 minuti perché un macchinista di un altro treno si accorgesse che ad essere stati travolti erano due uomini. Si scoprirà solo in seguito che si trattava di due persone di nome Mohamed Basser, di 26 anni, e Mostafà Zahrakame, di 46 anni, entrambe di nazionalità marocchina.

      A distanza di alcuni giorni dall’ennesima tragedia che avviene nei pressi di un confine tra Stati dell’Unione Europea, le uniche notizie trapelate sottolineano che avevano in tasca un permesso di protezione temporanea rilasciato dalle autorità austriache. Ma nulla sappiamo di cosa è accaduto prima dell’investimento, né sappiamo se le famiglie siano state avvisate e del perché volessero entrare in Italia e come mai hanno deciso di farlo a piedi.

      Se molte domande rimarranno inspiegabilmente senza risposta, almeno è necessario conoscere il contesto in cui sono costrette a muoversi le persone che tentano di attraversare uno dei confini che in questi ultimi tre anni è scomparso dai radar dei media nazionali.

      Sette anni di violazioni e respingimenti

      Sembrano molto lontani gli anni 2013 e 2014, quando l’asse del Brennero era la rotta del transito soprattutto di chi approdava in Sicilia o arrivava dai Balcani e voleva proseguire il proprio viaggio verso nord. Ben presto le cose peggiorano nonostante le numerose proteste che si svolsero sul confine contro la sua “chiusura”. Il piccolo paese, luogo di breve sosta per un assurdo quanto grottesco centro commerciale, si trasformò in un simbolo di rivendicazione politica, di libertà di movimento, di corpi resistenti connessi ad altri luoghi di abusi e resistenze come Idomeni, Ventimiglia, Calais, Ceuta… .

      Ma dal 2015, attraverso una profilazione razziale – pratica vietata dalle Convenzioni internazionali – i controlli in frontiera verso l’Austria e in seconda battuta verso l’Italia, sono diventati la prassi quotidiana. La politica europea, sancendo come prioritario il contrasto ai cosiddetti movimenti secondari, ha adottato una strategia fino ad oggi rimasta invariata, altro che revisione del Regolamento Dublino. La mobilità umana all’interno di Schengen di fatto è rimasta solo un privilegio per i cittadini e le cittadine europee.

      La militarizzazione del confine e il controllo capillare su ogni treno in transito hanno costretto le persone migranti a scegliere altre rotte oppure a tentare modalità più pericolose per aggirare gli ostacoli. Un report curato da Antenne Migranti e ASGI, con testimonianze e osservazioni raccolte nel periodo tra gennaio e luglio del 2017, evidenziava come tramite controlli sistematici, carrozza per carrozza, venivano fatte scendere le persone prive di titolo di viaggio e rimesse su un treno verso Bolzano. I controlli venivano effettuati anche sui treni provenienti dall’Austria, con procedure sommarie di respingimento immediato nel paese. Tra le violazioni riscontrate anche il respingimento di un numero consistente di minori, la confisca di oggetti personali, di vestiario e telefoni, multe con richiesta immediata di denaro, l’assenza di traduttori e l’impossibilità di accedere ad una difesa legale.

      Il controllo del confine non si materializzava solo nei pressi del valico ma si estendeva su tutta la linea ferroviaria fino ad “allungarsi” alle stazioni di Bolzano, Trento e Verona. Anche in queste città si attivarono sistemi di controllo con dei veri e propri checkpoint solo per le persone con tratti somatici africani o asiatici; all’interno dei treni il controllo sistematico spettava alle cosiddette pattuglie “trilaterali”, un imponente apparato militare messo in campo da Italia, Austria e Germania. Malgrado le denunce e le azioni legali, il quadro generale di violazioni e prassi illegittime non è cambiato fino a divenire sistematico, un atto quotidiano di prevaricazione, una delle tante cose a cui ci si è abituati.

      Una lunga scia di sangue

      La scia di sangue segue un fil rouge: sempre, o quasi sempre, le morti avvengono lungo il percorso ferroviario.

      Rawda Abdu, 29 anni, in Italia da appena dieci giorni, perse la vita il 16 novembre del 2016 nei pressi di Borghetto, una frazione di Avio della provincia di Trento, travolta da un treno regionale diretto a Verona; qualche giorno dopo, il 21 novembre, perse la vita il diciassettenne Abel Temesgen, eritreo, rimasto ucciso mentre cercava di nascondersi all’interno di un treno merci diretto in Germania. Il mese dopo due persone, un uomo e una donna di origini africane morirono in Tirolo schiacciate da un tir mentre erano nascoste e assiderate su un vagone merci. Altri, in questi anni, hanno rischiato di morire congelati, ma fortunatamente sono stati salvati come il piccolo Anthony di 5 anni della Sierra Leone. E poco sappiamo delle tante persone che hanno provato a transitare lungo le creste di confine tra metri di neve e temperature bassissime. Oppure di coloro che per sfuggire ai controlli hanno scelto altre strade più impervie e usato altri mezzi.

      Quello di cui siamo certi è che queste sofferenze non sono tragiche fatalità ma dirette conseguenze di politiche spietate che hanno ampiamente messo in conto che queste morti ci siano. E che consapevoli di questo, per anni, hanno discusso del nulla acquietando l’indignazione che queste provocano. I tanti decantati dibattiti – dalla riforma di Dublino al sistema di ricollocamento, fino ad un sistema comune di asilo – non hanno prodotto nulla che andasse nella direzione di favorire il rispetto dei diritti fondamentali poiché il “problema”, per loro, è stato affrontato sempre e solo esclusivamente dal punto di vista della sicurezza e dell’ordine pubblico, a garanzia solamente della libertà di circolazione delle merci e dei cittadini europei. Ne è piena conferma il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo.

      Riaccendere una luce sulla rotta

      La rotta del Brennero ha ripreso forza nel corso del 2021 diventando uno dei tanti snodi di transito che dai paesi dell’Europa centrale portano verso la Francia o altri paesi del nord Europa: chi arriva al Brennero, spesso, ha percorso precedentemente la cosiddetta rotta Balcanica e, come minimo, ha subito violenze dalle polizie e altri respingimenti, ha dovuto sostare forzatamente in campi di confinamento o in jungle, trovando supporto solo da attivisti e volontari solidali.

      Vite sospese, alla ricerca di un luogo sicuro, di un paese che li accolga o che permetta a loro di regolarizzarsi, di avere i documenti. In concomitanza con l’incremento dei transiti, sono aumentati i pushback illegali perpetrati dalla polizia austriaca e tedesca, in particolare di giovani afghani. Difficile oggi capire quali siano i numeri reali del passaggio da e per l’Italia ma si può supporre che ogni mese più di 300 persone cerchino di passare il valico di confine. Tra la fine di dicembre e il mese di gennaio l’associazione Bozen Solidale, attiva da anni in Alto Adige / Südtirol a supporto delle persone migranti in transito e non, prevede di attuare un monitoraggio al Brennero con l’obiettivo di capire la portata reale del passaggio. Lo scopo effettivo sarà, poi, quello di raccogliere storie, tornare a sensibilizzare la cittadinanza e fare pressioni alle istituzioni per mettere seriamente in discussione le attuali politiche di controllo e respingimento.

      https://www.meltingpot.org/2021/12/brennero-altre-morti-di-confine

  • Schengen : de nouvelles règles pour rendre l’espace sans contrôles aux #frontières_intérieures plus résilient

    La Commission propose aujourd’hui des règles actualisées pour renforcer la gouvernance de l’espace Schengen. Les modifications ciblées renforceront la coordination au niveau de l’UE et offriront aux États membres des outils améliorés pour faire face aux difficultés qui surviennent dans la gestion tant des frontières extérieures communes de l’UE que des frontières intérieures au sein de l’espace Schengen. L’actualisation des règles vise à faire en sorte que la réintroduction des #contrôles_aux_frontières_intérieures demeure une mesure de dernier recours. Les nouvelles règles créent également des outils communs pour gérer plus efficacement les frontières extérieures en cas de crise de santé publique, grâce aux enseignements tirés de la pandémie de COVID-19. L’#instrumentalisation des migrants est également prise en compte dans cette mise à jour des règles de Schengen, ainsi que dans une proposition parallèle portant sur les mesures que les États membres pourront prendre dans les domaines de l’asile et du retour dans une telle situation.

    Margaritis Schinas, vice-président chargé de la promotion de notre mode de vie européen, s’est exprimé en ces termes : « La crise des réfugiés de 2015, la vague d’attentats terroristes sur le sol européen et la pandémie de COVID-19 ont mis l’espace Schengen à rude épreuve. Il est de notre responsabilité de renforcer la gouvernance de Schengen et de faire en sorte que les États membres soient équipés pour offrir une réaction rapide, coordonnée et européenne en cas de crise, y compris lorsque des migrants sont instrumentalisés. Grâce aux propositions présentées aujourd’hui, nous fortifierons ce “joyau” si emblématique de notre mode de vie européen. »

    Ylva Johansson, commissaire aux affaires intérieures, a quant à elle déclaré : « La pandémie a montré très clairement que l’espace Schengen est essentiel pour nos économies et nos sociétés. Grâce aux propositions présentées aujourd’hui, nous ferons en sorte que les contrôles aux frontières ne soient rétablis qu’en dernier recours, sur la base d’une évaluation commune et uniquement pour la durée nécessaire. Nous dotons les États membres des outils leur permettant de relever les défis auxquels ils sont confrontés. Et nous veillons également à gérer ensemble les frontières extérieures de l’UE, y compris dans les situations où les migrants sont instrumentalisés à des fins politiques. »

    Réaction coordonnée aux menaces communes

    La proposition de modification du code frontières Schengen vise à tirer les leçons de la pandémie de COVID-19 et à garantir la mise en place de mécanismes de coordination solides pour faire face aux menaces sanitaires. Les règles actualisées permettront au Conseil d’adopter rapidement des règles contraignantes fixant des restrictions temporaires des déplacements aux frontières extérieures en cas de menace pour la santé publique. Des dérogations seront prévues, y compris pour les voyageurs essentiels ainsi que pour les citoyens et résidents de l’Union. L’application uniforme des restrictions en matière de déplacements sera ainsi garantie, en s’appuyant sur l’expérience acquise ces dernières années.

    Les règles comprennent également un nouveau mécanisme de sauvegarde de Schengen destiné à générer une réaction commune aux frontières intérieures en cas de menaces touchant la majorité des États membres, par exemple des menaces sanitaires ou d’autres menaces pour la sécurité intérieure et l’ordre public. Grâce à ce mécanisme, qui complète le mécanisme applicable en cas de manquements aux frontières extérieures, les vérifications aux frontières intérieures dans la majorité des États membres pourraient être autorisées par une décision du Conseil en cas de menace commune. Une telle décision devrait également définir des mesures atténuant les effets négatifs des contrôles.

    De nouvelles règles visant à promouvoir des alternatives effectives aux vérifications aux frontières intérieures

    La proposition vise à promouvoir le recours à d’autres mesures que les contrôles aux frontières intérieures et à faire en sorte que, lorsqu’ils sont nécessaires, les contrôles aux frontières intérieures restent une mesure de dernier recours. Ces mesures sont les suivantes :

    - Une procédure plus structurée pour toute réintroduction des contrôles aux frontières intérieures, comportant davantage de garanties : Actuellement, tout État membre qui décide de réintroduire des contrôles doit évaluer le caractère adéquat de cette réintroduction et son incidence probable sur la libre circulation des personnes. En application des nouvelles règles, il devra en outre évaluer l’impact sur les régions frontalières. Par ailleurs, tout État membre envisageant de prolonger les contrôles en réaction à des menaces prévisibles devrait d’abord évaluer si d’autres mesures, telles que des contrôles de police ciblés et une coopération policière renforcée, pourraient être plus adéquates. Une évaluation des risques devrait être fournie pour ce qui concerne les prolongations de plus de 6 mois. Lorsque des contrôles intérieurs auront été rétablis depuis 18 mois, la Commission devra émettre un avis sur leur caractère proportionné et sur leur nécessité. Dans tous les cas, les contrôles temporaires aux frontières ne devraient pas excéder une durée totale de 2 ans, sauf dans des circonstances très particulières. Il sera ainsi fait en sorte que les contrôles aux frontières intérieures restent une mesure de dernier recours et ne durent que le temps strictement nécessaire.
    – Promouvoir le recours à d’autres mesures : Conformément au nouveau code de coopération policière de l’UE, proposé par la Commission le 8 décembre 2021, les nouvelles règles de Schengen encouragent le recours à des alternatives effectives aux contrôles aux frontières intérieures, sous la forme de contrôles de police renforcés et plus opérationnels dans les régions frontalières, en précisant qu’elles ne sont pas équivalentes aux contrôles aux frontières.
    - Limiter les répercussions des contrôles aux frontières intérieures sur les régions frontalières : Eu égard aux enseignements tirés de la pandémie, qui a grippé les chaînes d’approvisionnement, les États membres rétablissant des contrôles devraient prendre des mesures pour limiter les répercussions négatives sur les régions frontalières et le marché intérieur. Il pourra s’agir notamment de faciliter le franchissement d’une frontière pour les travailleurs frontaliers et d’établir des voies réservées pour garantir un transit fluide des marchandises essentielles.
    - Lutter contre les déplacements non autorisés au sein de l’espace Schengen : Afin de lutter contre le phénomène de faible ampleur mais constant des déplacements non autorisés, les nouvelles règles créeront une nouvelle procédure pour contrer ce phénomène au moyen d’opérations de police conjointes et permettre aux États membres de réviser ou de conclure de nouveaux accords bilatéraux de réadmission entre eux. Ces mesures complètent celles proposées dans le cadre du nouveau pacte sur la migration et l’asile, en particulier le cadre de solidarité contraignant, et doivent être envisagées en liaison avec elles.

    Aider les États membres à gérer les situations d’instrumentalisation des flux migratoires

    Les règles de Schengen révisées reconnaissent l’importance du rôle que jouent les États membres aux frontières extérieures pour le compte de tous les États membres et de l’Union dans son ensemble. Elles prévoient de nouvelles mesures que les États membres pourront prendre pour gérer efficacement les frontières extérieures de l’UE en cas d’instrumentalisation de migrants à des fins politiques. Ces mesures consistent notamment à limiter le nombre de points de passage frontaliers et à intensifier la surveillance des frontières.

    La Commission propose en outre des mesures supplémentaires dans le cadre des règles de l’UE en matière d’asile et de retour afin de préciser les modalités de réaction des États membres en pareilles situations, dans le strict respect des droits fondamentaux. Ces mesures comprennent notamment la possibilité de prolonger le délai d’enregistrement des demandes d’asile jusqu’à 4 semaines et d’examiner toutes les demandes d’asile à la frontière, sauf en ce qui concerne les cas médicaux. Il convient de continuer à garantir un accès effectif à la procédure d’asile, et les États membres devraient permettre l’accès des organisations humanitaires qui fournissent une aide. Les États membres auront également la possibilité de mettre en place une procédure d’urgence pour la gestion des retours. Enfin, sur demande, les agences de l’UE (Agence de l’UE pour l’asile, Frontex, Europol) devraient apporter en priorité un soutien opérationnel à l’État membre concerné.

    Prochaines étapes

    Il appartient à présent au Parlement européen et au Conseil d’examiner et d’adopter les deux propositions.

    Contexte

    L’espace Schengen compte plus de 420 millions de personnes dans 26 pays. La suppression des contrôles aux frontières intérieures entre les États Schengen fait partie intégrante du mode de vie européen : près de 1,7 million de personnes résident dans un État Schengen et travaillent dans un autre. Les personnes ont bâti leur vie autour des libertés offertes par l’espace Schengen, et 3,5 millions d’entre elles se déplacent chaque jour entre des États Schengen.

    Afin de renforcer la résilience de l’espace Schengen face aux menaces graves et d’adapter les règles de Schengen aux défis en constante évolution, la Commission a annoncé, dans son nouveau pacte sur la migration et l’asile présenté en septembre 2020, ainsi que dans la stratégie de juin 2021 pour un espace Schengen pleinement opérationnel et résilient, qu’elle proposerait une révision du code frontières Schengen. Dans son discours sur l’état de l’Union de 2021, la présidente von der Leyen a également annoncé de nouvelles mesures pour contrer l’instrumentalisation des migrants à des fins politiques et pour assurer l’unité dans la gestion des frontières extérieures de l’UE.

    Les propositions présentées ce jour viennent s’ajouter aux travaux en cours visant à améliorer le fonctionnement global et la gouvernance de Schengen dans le cadre de la stratégie pour un espace Schengen plus fort et plus résilient. Afin de favoriser le dialogue politique visant à relever les défis communs, la Commission organise régulièrement des forums Schengen réunissant des membres du Parlement européen et les ministres de l’intérieur. À l’appui de ces discussions, la Commission présentera chaque année un rapport sur l’état de Schengen résumant la situation en ce qui concerne l’absence de contrôles aux frontières intérieures, les résultats des évaluations de Schengen et l’état d’avancement de la mise en œuvre des recommandations. Cela contribuera également à aider les États membres à relever tous les défis auxquels ils pourraient être confrontés. La proposition de révision du mécanisme d’évaluation et de contrôle de Schengen, actuellement en cours d’examen au Parlement européen et au Conseil, contribuera à renforcer la confiance commune dans la mise en œuvre des règles de Schengen. Le 8 décembre, la Commission a également proposé un code de coopération policière de l’UE destiné à renforcer la coopération des services répressifs entre les États membres, qui constitue un moyen efficace de faire face aux menaces pesant sur la sécurité dans l’espace Schengen et contribuera à la préservation d’un espace sans contrôles aux frontières intérieures.

    La proposition de révision du code frontières Schengen qui est présentée ce jour fait suite à des consultations étroites auprès des membres du Parlement européen et des ministres de l’intérieur réunis au sein du forum Schengen.

    Pour en savoir plus

    Documents législatifs :

    – Proposition de règlement modifiant le régime de franchissement des frontières par les personnes : https://ec.europa.eu/home-affairs/proposal-regulation-rules-governing-movement-persons-across-borders-com-20

    – Proposition de règlement visant à faire face aux situations d’instrumentalisation dans le domaine de la migration et de l’asile : https://ec.europa.eu/home-affairs/proposal-regulation-situations-instrumentalisation-field-migration-and-asy

    – Questions-réponses : https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/qanda_21_6822

    – Fiche d’information : https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/fs_21_6838

    https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/fr/ip_21_6821

    #Schengen #Espace_Schengen #frontières #frontières_internes #résilience #contrôles_frontaliers #migrations #réfugiés #asile #crise #pandémie #covid-19 #coronavirus #crise_sanitaire #code_Schengen #code_frontières_Schengen #menace_sanitaire #frontières_extérieures #mobilité #restrictions #déplacements #ordre_public #sécurité #sécurité_intérieure #menace_commune #vérifications #coopération_policière #contrôles_temporaires #temporaire #dernier_recours #régions_frontalières #marchandises #voies_réservées #déplacements_non_autorisés #opérations_de_police_conjointes #pacte #surveillance #surveillance_frontalière #points_de_passage #Frontex #Europol #soutien_opérationnel

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    Ajouté dans la métaliste sur les #patrouilles_mixtes ce paragraphe :

    « Lutter contre les déplacements non autorisés au sein de l’espace Schengen : Afin de lutter contre le phénomène de faible ampleur mais constant des déplacements non autorisés, les nouvelles règles créeront une nouvelle procédure pour contrer ce phénomène au moyen d’opérations de police conjointes et permettre aux États membres de réviser ou de conclure de nouveaux accords bilatéraux de réadmission entre eux. Ces mesures complètent celles proposées dans le cadre du nouveau pacte sur la migration et l’asile, en particulier le cadre de solidarité contraignant, et doivent être envisagées en liaison avec elles. »

    https://seenthis.net/messages/910352

    • La Commission européenne propose de réformer les règles de Schengen pour préserver la #libre_circulation

      Elle veut favoriser la coordination entre États membres et adapter le code Schengen aux nouveaux défis que sont les crise sanitaires et l’instrumentalisation de la migration par des pays tiers.

      Ces dernières années, les attaques terroristes, les mouvements migratoires et la pandémie de Covid-19 ont ébranlé le principe de libre circulation en vigueur au sein de l’espace Schengen. Pour faire face à ces événements et phénomènes, les pays Schengen (vingt-deux pays de l’Union européenne et la Suisse, le Liechtenstein, la Norvège et l’Islande) ont réintroduit plus souvent qu’à leur tour des contrôles aux frontières internes de la zone, en ordre dispersé, souvent, et, dans le cas de l’Allemagne, de l’Autriche, de la France, du Danemark, de la Norvège et de la Suède, de manière « provisoirement permanente ».
      Consciente des risques qui pèsent sur le principe de libre circulation, grâce à laquelle 3,5 millions de personnes passent quotidiennement d’un État membre à l’autre, sans contrôle, la Commission européenne a proposé mardi de revoir les règles du Code Schengen pour les adapter aux nouveaux défis. « Nous devons faire en sorte que la fermeture des frontières intérieures soit un ultime recours », a déclaré le vice-président de la Commission en charge de la Promotion du mode de vie européen, Margaritis Schinas.
      Plus de coordination entre États membres

      Pour éviter le chaos connu au début de la pandémie, la Commission propose de revoir la procédure en vertu de laquelle un État membre peut réintroduire des contrôles aux frontières internes de Schengen. Pour les événements « imprévisibles », les contrôles aux frontières pourraient être instaurés pour une période de trente jours, extensibles jusqu’à trois mois (contre dix jours et deux mois actuellement) ; pour les événements prévisibles, elle propose des périodes renouvelables de six mois jusqu’à un maximum de deux ans… ou plus si les circonstances l’exigent. Les États membres devraient évaluer l’impact de ces mesures sur les régions frontalières et tenter de le minimiser - pour les travailleurs frontaliers, au nombre de 1,7 million dans l’Union, et le transit de marchandises essentielle, par exemple - et et envisager des mesures alternatives, comme des contrôles de police ciblés ou une coopération policière transfrontalières.
      Au bout de dix-huit mois, la Commission émettrait un avis sur la nécessité et la proportionnalité de ces mesures.
      De nouvelles règles pour empêcher les migrations secondaires

      L’exécutif européen propose aussi d’établir un cadre légal, actuellement inexistant, pour lutter contre les « migrations secondaires ». L’objectif est de faire en sorte qu’une personne en situation irrégulière dans l’UE qui traverse une frontière interne puisse être renvoyée dans l’État d’où elle vient. Une mesure de nature à satisfaire les pays du Nord, dont la Belgique, qui se plaignent de voir arriver ou transiter sur leur territoire des migrants n’ayant pas déposé de demandes d’asile dans leur pays de « première entrée », souvent situé au sud de l’Europe. La procédure réclame des opérations de police conjointes et des accords de réadmission entre États membres. « Notre réponse la plus systémique serait un accord sur le paquet migratoire », proposé par la Commission en septembre 2020, a cependant insisté le vice-président Schengen. Mais les États membres ne sont pas en mesure de trouver de compromis, en raison de positions trop divergentes.
      L’Europe doit se préparer à de nouvelles instrumentalisations de la migration

      La Commission veut aussi apporter une réponse à l’instrumentalisation de la migration telle que celle pratiquée par la Biélorussie, qui a fait venir des migrants sur son sol pour les envoyer vers la Pologne et les États baltes afin de faire pression sur les Vingt-sept. La Commission veut définir la façon dont les États membres peuvent renforcer la surveillance de leur frontière, limiter les points d’accès à leur territoire, faire appel à la solidarité européenne, tout en respectant les droits fondamentaux des migrants.
      Actuellement, « la Commission peut seulement faire des recommandations qui, si elles sont adoptées par le Conseil, ne sont pas toujours suivies d’effet », constate la commissaire aux Affaires intérieures Ylva Johansson.
      Pour faire face à l’afflux migratoire venu de Biélorussie, la Pologne avait notamment pratiqué le refoulement, contraire aux règles européennes en matière d’asile, sans que l’on donne l’impression de s’en émouvoir à Bruxelles et dans les autres capitales de l’Union. Pour éviter que cela se reproduise, la Commission propose des mesures garantissant la possibilité de demander l’asile, notamment en étendant à quatre semaines la période pour qu’une demande soit enregistrée et traitée. Les demandes pourront être examinée à la frontière, ce qui implique que l’État membre concerné devrait donner l’accès aux zones frontalières aux organisations humanitaires.

      La présidence française du Conseil, qui a fait de la réforme de Schengen une de ses priorités, va essayer de faire progresser le paquet législatif dans les six mois qui viennent. « Ces mesures constituent une ensemble nécessaire et robuste, qui devrait permettre de préserver Schengen intact », a assuré le vice-président Schinas. Non sans souligner que la solution systémique et permanente pour assurer un traitement harmonisé de l’asile et de la migration réside dans le pacte migratoire déposé en 2020 par la Commission et sur lequel les États membres sont actuellement incapables de trouver un compromis, en raison de leurs profondes divergences sur ces questions.

      https://www.lalibre.be/international/europe/2021/12/14/face-aux-risques-qui-pesent-sur-la-libre-circulation-la-commission-europeenn
      #réforme

  • Le #Danemark veut envoyer 300 #détenus_étrangers au #Kosovo
    (... encore le Danemark...)

    La ministre kosovare de la justice a confirmé jeudi l’accord qui prévoit de confier à une prison de son pays des prisonniers étrangers, condamnés au Danemark et susceptibles d’être expulsés après avoir purgé leur peine.

    Le Danemark a franchi, mercredi 15 décembre, une nouvelle étape dans sa gestion des étrangers. Le ministre de la justice, Nick Haekkerup, a annoncé que le pays nordique prévoit de louer 300 places de prison au Kosovo, pour y interner les citoyens étrangers, condamnés au Danemark, et qui doivent être expulsés vers leur pays d’origine après avoir purgé leur peine. Le 3 juin déjà, le gouvernement dirigé par les sociaux-démocrates, avait fait adopter une loi lui permettant de sous-traiter l’accueil des demandeurs d’asile et des réfugiés à un pays tiers.

    L’accord sur les détenus étrangers a été confirmé, jeudi 16 décembre, par la ministre kosovare de la justice, Albulena Haxhiu. Il s’agit d’une première pour ce petit et très pauvre pays des Balkans, dirigé depuis le début de 2021 par le parti de gauche nationaliste Autodétermination !, proche du parti socialiste européen, et qui rêve d’adhésion à l’Union européenne.

    Une lettre d’intention entre les deux gouvernements devrait être signée, lundi 20 décembre, à Pristina. Un traité sera ensuite soumis à l’approbation des deux tiers du Parlement. Mme Haxhiu a révélé que les prisonniers danois seraient enfermés dans le centre de détention de Gjilan, à l’est du pays, et assuré qu’il n’y aurait pas de terroristes, ni de prisonniers à « à haut risque » parmi eux. Selon elle, ce projet d’externalisation « est la reconnaissance du Kosovo et de ses institutions comme un pays sérieux ».
    « Une prison danoise dans un autre pays »

    A Copenhague, le ministre de la justice a fait savoir que les négociations avec Pristina avaient débuté il y a un an. Le dispositif a été présenté dans le cadre d’un accord entre les sociaux-démocrates, les conservateurs, le Parti du peuple danois et le Parti socialiste du peuple, pour réformer le système pénitentiaire. L’objectif est d’augmenter la capacité des prisons danoises pour pouvoir accueillir un millier de détenus supplémentaires.

    Parallèlement à l’ouverture de nouvelles cellules dans les établissements existant, le gouvernement compte donc libérer 300 places en se débarrassant des détenus d’origine étrangère, condamnés à l’expulsion une fois leur peine purgée. Ils étaient 368 en 2020. « Il faut s’imaginer que c’est une prison danoise. Elle se situe juste dans un autre pays », a expliqué M. Haekkerup, précisant que l’équipe dirigeant le centre de Gjilan serait danoise.

    A Pristina, Mme Haxhiu a confirmé : « Les lois en vigueur au Danemark s’appliqueront, la gestion sera danoise, mais les agents pénitentiaires seront de la République du Kosovo. Le bien-être et la sécurité [des détenus] seront sous leur entière responsabilité. »

    Avec ce dispositif, le gouvernement danois veut « envoyer un signal clair que les étrangers condamnés à l’expulsion doivent quitter le Danemark ». Au ministère de la justice, on précise toutefois que si les détenus, une fois leur peine purgée, refusent d’être expulsés dans leur pays d’origine et que Copenhague ne peut les y forcer faute d’accord avec ces pays, alors ils seront renvoyés au Danemark, pour être placés en centre de rétention.

    En échange de ses services, le Kosovo devrait obtenir 210 millions d’euros sur dix ans : « Cette compensation bénéficiera grandement aux institutions judiciaires, ainsi qu’au Service correctionnel du Kosovo, ce qui augmentera la qualité et l’infrastructure globale de ce service », a salué le gouvernement dans un communiqué. Le Danemark, de son côté, a indiqué qu’il allait aussi verser une aide de 6 millions d’euros par an au petit pays, au titre de la transition écologique.
    De nombreux problèmes juridiques

    Comme pour l’externalisation de l’asile, ce projet pose de nombreux problèmes juridiques. Le gouvernement danois a précisé que les détenus ayant une famille seraient les derniers envoyés au Kosovo, car ils doivent pouvoir « avoir des contacts avec leurs enfants ». Une aide financière au transport sera mise en place pour les proches.

    Directrice de l’Institut des droits de l’homme à Copenhague, Louise Holck parle d’une « décision controversée du point de vue des droits de l’homme », car le Danemark, rappelle-t-elle, « ne peut pas exporter ses responsabilités légales » et devra faire en sorte que les droits des prisonniers soient respectés. Professeure de droit à l’université du sud Danemark, Linda Kjær Minke estime qu’il faudra modifier la loi, ne serait-ce que « pour imposer un transfert aux détenus qui refuseraient ».

    Entre 2015 et 2018, la Norvège avait sous-traité l’emprisonnement de prisonniers aux Pays-Bas. Dans un rapport publié en 2016, le médiateur de la justice avait constaté que les autorités norvégiennes « n’avaient pas réussi à garantir une protection adéquate contre la torture et les traitements inhumains ou dégradants ». Jamais aucun pays européen n’a transféré des prisonniers aussi loin (plus de 2 000 km), et le Danemark devrait faire face aux mêmes problèmes que la Norvège, estime Linda Kjær Minke :« Même si la direction est danoise, les employés auront été formés différemment, avec peut-être d’autres façons d’utiliser la force. »

    Ces mises en garde ne semblent pas affecter le gouvernement danois, qui multiplie les décisions très critiquées, comme celle de retirer leur titre de séjour aux réfugiés syriens. Le but est de décourager au maximum les demandeurs d’asile de rejoindre le pays. La gauche et les associations d’aide aux migrants dénoncent une « politique des symboles ».

    https://www.lemonde.fr/international/article/2021/12/16/le-danemark-veut-envoyer-300-detenus-etrangers-au-kosovo_6106356_3210.html#x

    #asile #migrations #réfugiés #externalisation #pays-tiers #rétention #détention_administrative #détention #étrangers_criminels #criminels_étrangers #expulsion #renvoi #accord #Gjilan #prison #emprisonnement #compensation_financière #aide_financière #transition_écologique #étrangers

    ping @karine4 @isskein

    • Danimarca-Kosovo: detenuti in cambio di soldi per tutela ambientale

      Da Pristina e Copenhagen arriva una notizia sconcertante. Il ministro della Giustizia del Kosovo Albulena Haxhiu ha annunciato che a breve arriveranno nel paese 300 detenuti, attualmente nelle carceri danesi e cittadini di paesi non UE, per scontare la loro pena in Kosovo. In cambio Pristina otterrà 210 milioni di euro di finanziamenti a favore dell’energia verde.

      L’accordo fa parte di una serie di misure annunciate in settimana dalle autorità danesi per alleviare il sistema carcerario del paese per far fronte ad anni di esodo del personale e al più alto numero di detenuti dagli anni ’50.

      I detenuti dovrebbero scontare le loro pene in un penitenziario di Gjilan. “I detenuti che saranno trasferiti in questo istituto non saranno ad alto rischio", ha chiarito Haxhiu in una dichiarazione.

      L’accordo deve passare ora dall’approvazione del parlamento di Pristina.

      In molti, in Danimarca e all’estero, si sono detti preoccupati per la salvaguardia dei diritti dei detenuti. Un rapporto del 2020 del Dipartimento di Stato americano ha evidenziato i problemi nelle prigioni e nei centri di detenzione del Kosovo, tra cui violenza tra i prigionieri, corruzione, esposizione a opinioni religiose o politiche radicali, mancanza di cure mediche e a volte violenza da parte del personale.

      Perplessità rimandate al mittente dal ministro della Giustizia danese Nick Hekkerup che si è dichiarato convinto che l’invio di detenuti in Kosovo sarà in linea con le norme a salvaguardia dei diritti umani a livello internazionale. «I detenuti deportati potranno ancora ricevere visite, anche se, naturalmente, sarà difficile», ha chiosato.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Danimarca-Kosovo-detenuti-in-cambio-di-soldi-per-tutela-ambientale

    • Le Kosovo prêt à louer ses prisons au Danemark

      Le Kosovo veut louer 300 cellules de prison pendant dix ans au Danemark, en échange de 210 millions d’euros. Le pays scandinave prévoit d’y « délocaliser » des détenus étrangers avant leur potentielle expulsion définitive dans leur pays d’origine. Un projet qui piétine les libertés fondamentales.

      Le Kosovo s’apprête à signer lundi 20 décembre un accord de principe avec le Danemark pour lui louer 300 cellules de prison. Le Danemark prévoit donc de déporter à plus de 2000 km de ses frontières 300 détenus étrangers qui viendront purger la fin de leur peine au Kosovo avant d’être expulsés vers leur pays d’origine, si les procédures d’extradition le permettent. Mais ce n’est pas encore fait : une fois l’accord signé, il devra encore être ratifié par les parlements respectifs des deux pays, à la majorité des deux tiers.

      Montant de la rente de cette « location » : 210 millions d’euros pour Pristina. L’argent « sera consacré aux investissements, notamment dans les énergies renouvelables », a précisé Albulena Haxhiu, la ministre de la Justice du Kosovo, qui a tenté de déminer le terrain. « Ce ne seront pas des détenus à haut risque ou des condamnés pour terrorisme, ni des cas psychiatriques. Les institutions judiciaires bénéficieront de la compensation financière, cela aidera à améliorer la qualité et les infrastructures du Service correctionnel. »

      « Il faut s’imaginer que cela sera une prison danoise. Elle sera juste dans un autre pays », a expliqué de son côté son homologue danois, Nick Haekkerup. Mais pourquoi l’un des plus riches pays européens aurait-il besoin d’« externaliser » la prise en charge de ses détenus ? Le Danemark dit avoir besoin de 1000 places de prison supplémentaires. Pour cela, il va créer de nouvelles cellules dans les prisons existantes, et en libérer d’autres en se débarrassant de détenus étrangers. Il s’agit surtout d’envoyer un message de fermeté aux réfugiés qui souhaitent rejoindre le pays scandinave.

      Les Danois ont commencé à préparer le terrain en octobre 2020, avec une visite du système carcéral kosovar. Ils ont « évalué positivement le traitement de nos prisonniers et nos capacités », s’était alors félicité le ministère de la Justice du Kosovo. Les 300 détenus resteront soumis aux lois danoises, mais les gardiens de prison seront bien kosovars. Ce projet d’externalisation carcérale est « la reconnaissance du Kosovo comme un pays sérieux », s’est félicitée Albulena Haxhiu.

      “Le Kosovo se transforme en un lieu de détention pour les migrants indésirables. Pour un peu d’argent, notre gouvernement renforce le sentiment anti-réfugiés qui s’accroit en Europe.”

      Mais pour le Conseil de la défense des droits de l’homme (KMLDNJ), qui surveille les conditions de détention dans les prisons kosovares, cet accord « légalise la discrimination des détenus ». « Tout d’abord, vendre sa souveraineté à un autre État pour dix ans et 210 millions d’euros est un acte de violation de cette souveraineté. De plus, les conditions et le traitement de ces détenus qui viendront du Danemark seront incomparablement meilleurs des autres 1600 à 1800 détenus du Kosovo », estime l’ONG. « Les propriétés de l’État ne doivent pas être traitées comme des infrastructures privées à louer », ajoute Besa Kabashi-Ramaj, experte en questions sécuritaires.

      Cet accord a en effet surpris beaucoup d’observateurs locaux et internationaux, et ce d’autant plus que le Kosovo est actuellement gouverné par le parti de gauche souverainiste Vetëvendosje. « Le Kosovo se transforme en un lieu de détention pour les migrants indésirables. Pour un peu d’argent, notre gouvernement renforce le sentiment anti-réfugiés qui s’accroît en Europe », déplore Visar Ymeri, directeur de l’Institut pour les politiques sociales Musine Kokalari. « Aussi, quand la ministre de la Justice affirme que le Kosovo a assez de prisons mais pas assez de prisonniers, elle participe à une politique de remplacement du besoin de justice par un besoin d’emprisonnement. »

      Selon le Rapport mondial des prisons, établi par l’Université de Londres, le Kosovo avait 1642 détenus en 2020, soit un taux d’occupation de 97%. Le ministère de la Justice du Kosovo n’a, semble-t-il, pas la même façon de calculer l’espace carcéral : « Nous avons actuellement 700-800 places libres. Vu qu’au maximum nous aurons 300 détenus du Danemark, il restera encore des places libres », a même fait savoir Alban Muriqi, du ministère de la Justice.

      Le Kosovo a onze centre de détention : cinq centres de détention provisoire, une prison haute sécurité, une prison pour femmes, un centre d’éducation pour les mineurs et trois autres prisons. C’est au centre de détention à #Gjilan / #Gnjilane, dans l’est du Kosovo, que seraient louées les cellules au Danemark.

      https://www.courrierdesbalkans.fr/Kosovo-Prisonniers-Danemark

    • La Danimarca e le prigioni off-shore

      Sono immigrati incarcerati in Danimarca. Dal 2023 rischiano di scontare la propria pena in un peniteniario di Gjilian, in Kosovo. Un approfondimento sullo sconcertante accordo del dicembre scorso tra Copenhagen e Pristina

      Sebbene Danimarca e Kosovo abbiano avuto poco a che fare l’uno con l’altro, alla fine di dicembre si sono ritrovati insieme nei titoli dei giornali di tutto il mondo. Ad attirare l’attenzione della Danimarca sono state le quasi 800 celle vuote del Kosovo. I titoli dei giornali erano di questo tipo: «La Danimarca spedisce i propri prigionieri in Kosovo».

      Ci si riferiva ad un accordo firmato il 21 dicembre 2021 per inviare - in un centro di detenzione nei pressi di Gjilan, 50 chilometri a sud-est di Pristina - 300 persone incarcerate in Danimarca. Le autorità danesi hanno specificato che i 300 detenuti saranno esclusivamente cittadini di paesi terzi destinati ad essere deportati dalla Danimarca alla fine della loro pena.

      In cambio, il Kosovo dovrebbe ricevere 200 milioni di euro, suddivisi su di un periodo di 10 anni. I fondi sono stati vincolati a progetti nel campo dell’energia verde e delle riforme dello stato di diritto. Il ministro della Giustizia del Kosovo Albulena Haxhiu ha definito questi investimenti «fondamentali» e il ministro della Giustizia danese Nick Hækkerup ha affermato che «entrambi i paesi con questo accordo avranno dei vantaggi».

      L’idea di gestire una colonia penale per conto di un paese dell’UE ha messo molti kosovari a disagio, e nonostante la fiducia espressa dal governo danese, l’accordo ha ricevuto pesanti critiche anche in Danimarca. Ma cosa sta succedendo alla Danimarca e al suo sistema carcerario da spingerla a spedire i propri detenuti in uno dei paesi più poveri d’Europa?
      Problemi in paradiso?

      La Danimarca e i suoi vicini nordici sono rinomati per l’alta qualità della vita, gli eccellenti sistemi educativi e le generose disposizioni di assistenza sociale. Di conseguenza, può sorprendere che il sistema carcerario danese abbia qualche cosa che non va.

      Secondo Peter Vedel Kessing, ricercatore dell’Istituto Danese per i Diritti Umani (DIHR), non c’è da stupirsi, il sistema carcerario infatti «non è una priorità in molti stati. Tendono a non dare la priorità alla costruzione di prigioni. Vogliono spendere i soldi per qualcos’altro». E in Danimarca “hanno prigioni molto vecchie".

      Alla fine del 2020 il servizio danese per i penitenziari e la libertà vigilata (Kriminalforsogen) ha riferito che il sistema carcerario aveva la capacità di contenere 4.073 prigionieri. In media, c’erano però 4.085 detenuti ad occupare le celle nel 2020, facendole risultare leggermente sovraffollate.

      Un rapporto del gennaio 2020 dell’Annual Penal Statistics (SPACE) del Consiglio d’Europa sottolinea che la Danimarca aveva 4.140 detenuti mentre possedeva capacità per 4.035. I funzionari penitenziari hanno trovato lo spazio in più riducendo le aree comuni e dedicate ai servizi di base. Secondo un rapporto DIHR del novembre 2021, «diverse prigioni hanno chiuso sale comuni o aule per avere un numero sufficiente di celle». Il rapporto menziona anche la trasformazione di palestre, sale per le visite e uffici in celle di prigione.

      In Danimarca, ogni detenuto dovrebbe avere una cella propria. Ma nelle prigioni come quella di Nykøbing, una città a 130 chilometri a sud di Copenaghen, ci sono ora due detenuti per cella, secondo un rapporto del “Danish Prison and Probation Service”.

      Il rapporto includeva una previsione per il 2022: si aspettano di superare del 7,9% i posti a disposizione. Sia il Kriminalforsogen che l’importante media danese Jyllands Posten hanno stimato una possibile carenza di 1.000 posti entro il 2025, se non si trovano soluzioni strutturali.

      Ora, invece di erodere ulteriormente gli spazi comuni, si pensa di inviare i detenuti a 2000 chilometri di distanza. Tra le molte cose, sono stati tanti i danesi a far notare che l’accordo viola i diritti di visita dei detenuti: diventerà molto più difficile per le famiglie e gli amici dei detenuti presentarsi all’orario di visita nel Kosovo orientale.

      «Se improvvisamente ti trovi a dover andare in Kosovo per trovare tuo padre… non sarà possibile per la stragrande maggioranza delle famiglie dei detenuti. Ad esempio, un bambino di 3 anni, non è che può andare in Kosovo quando vuole e, naturalmente, il detenuto non potrà venire a trovare il bambino», sottolinea Mette Grith Stage, un avvocato che rappresenta molti imputati che si battono contro la deportazione, al quotidiano danese Politiken. «Questo significa di fatto che i deportati perdono il contatto con la loro famiglia».

      Per coprire la spesa prevista di 200 milioni di euro in un decennio, il governo danese ha recentemente annunciato che intende aumentare le tasse sulla tv. L’annuncio ha causato reazioni amare. In un’udienza parlamentare all’inizio di febbraio, il direttore delle comunicazioni dell’organizzazione Danish Media Distributors, Ib Konrad Jensen, ha dichiarato: «È un’ottima idea scrivere in fondo alla bolletta [della televisione]: ’Ecco il vostro pagamento al servizio carcerario del Kosovo’».
      Aiuto!

      Non solo c’è una carenza di spazio nel sistema penale, ma la Danimarca ha anche difficoltà nell’assumere abbastanza guardie carcerarie ed è da questo punto di vista gravemente sotto organico negli ultimi anni.

      Un rapporto del 2020 del Consiglio d’Europa mostra che l’Albania ha una proporzione di guardie carcerarie per prigionieri più alta della Danimarca. Il confronto è stato portato alla luce dai media danesi per cercare di enfatizzare la scarsa qualità delle prigioni danesi: guarda come siamo messi male, anche l’Albania sta facendo meglio di noi.

      I funzionari penitenziari si sono opposti a questo tipo di parallelismo. «L’Albania è certamente un paese eccellente», ha dichiarato Bo Yde Sørensen, presidente della Federazione delle prigioni danesi, in un articolo del quotidiano Berlingske, «ma di solito non è uno con il quale paragoniamo le nostre istituzioni sociali vitali».

      Anche altri media danesi hanno fatto paragoni denigratori con i paesi balcanici per evidenziare i problemi del proprio sistema carcerario. Nel penitenziario di Nyborg, situato sull’isola di Funen, la testata danese V2 ha riferito che la qualità del lavoro è più scadente di quella della Bulgaria, affermando che «in media, un agente penitenziario nella prigione di Nyborg gestisce 2,8 detenuti», mentre «in confronto, la media è 2,4 in una prigione media in Bulgaria».

      La diffusa scarsa opinione tra i media danesi delle condizioni dei penitenziari nei Balcani mette chiaramente in discussione le assicurazioni che il governo danese ha dato nel garantire che i propri prigionieri a Gjilan troveranno le condizioni a cui hanno diritto per la legge danese.

      Ma come è chiaro, anche in Danimarca il sistema penitenziario ha problemi a rispettare queste stesse condizioni. Nel penitenziario di Vestre, a Copenhagen, i detenuti sono chiusi nelle loro celle durante la notte perché non ci sono abbastanza guardie per sorvegliarli durante la guardia notturna. I detenuti in Danimarca avrebbero diritto al contrario di avere un alto grado di libertà di movimento all’interno della struttura carceraria, anche durante la notte.

      «Non è un segreto che il servizio penitenziario e di libertà vigilata danese si trova in una situazione molto difficile. Ci sono più detenuti e meno guardie carcerarie che mai, e questo crea sfide e mette molta pressione», afferma Sørensen in una intervista per Berlingske.

      Un comunicato stampa emesso dal Fængselsforbundet - servizio penitenziario danese - mostra i bisogno in termini chiari: «Prendiamo il 2015 come esempio. A quel tempo c’erano 2.500 agenti per 3.400 prigionieri. Cioè 1,4 detenuti per agente. Ora il rapporto è di due a uno. Duemila agenti per 4.200 detenuti».

      In risposta ai problemi di personale, le prigioni danesi sono ricorse al chiudere a chiave le celle. «Il modo per evitare la violenza e per avere una migliore atmosfera nei penitenziari», commenta Kessing, ricercatore del DIHR, è quello di «creare relazioni tra l’istituzione penitenziaria, i detenuti e il personale della prigione». «Ma a causa della diminuzione del numero di guardie, non si ha più il tempo di sviluppare relazioni», chiosa.
      La risposta? Il Kosovo

      Per superare queste sfide, la Danimarca sembra aver preso esempio dalla vicina Norvegia, che ha affrontato problemi simili nel 2015. Quell’anno la Norvegia ha inviato 242 detenuti nei Paesi Bassi per risolvere i problemi di sovraccarico dei penitenziari. Ma nel 2018 il governo norvegese ha deciso di non rinnovare l’accordo di fronte a lamentele relative a riabilitazione e giurisdizione.

      Ora la Danimarca ha gettato gli occhi - come recinto per i propri detenuti - non sui Paesi Bassi ma su uno dei paesi più poveri d’Europa.

      «Il loro futuro non è in Danimarca, e quindi non dovrebbero nemmeno scontare la loro pena qui», ha dichiarato il ministro della Giustizia Nick Hækkerup, dando conferma di una crescente retorica anti-immigrazione in Danimarca.

      Quando i detenuti cominceranno ad arrivare a Gjilan nel 2023, la prigione sarà gestita dalle autorità danesi, causando una potenziale confusione su quale giurisdizione applicare: problema simile era sorto tra Norvegia e Paesi Bassi.

      Mette Grith Stage, come anche altri avvocati danesi, hanno espresso preoccupazione per questo accordo e si sono detti scettici sul fatto che le leggi penali danesi saranno applicate appieno nel sistema carcerario del Kosovo.

      In un’intervista con DR, l’emittente pubblica danese, il ministro della Giustizia Hækkerup ha però ribattuto: «Il penitenziario sarà gestito da una direzione danese che deve formare i dipendenti locali, per questo sono certo che le prigioni saranno all’altezza delle leggi e degli standard danesi. Deve essere visto come un pezzo del sistema carcerario danese che si sposta in Kosovo».

      Le dichiarazioni delle autorità danesi durante tutta la vicenda hanno spesso citato la loro «presenza significativa» in Kosovo. Tuttavia la Danimarca è l’unico paese scandinavo a non avere un’ambasciata a Pristina. L’ambasciata danese a Vienna, che supervisiona gli affari nei Balcani, ha esternalizzato il lavoro a uno studio legale nella capitale del Kosovo.

      A seguito degli obblighi NATO della Danimarca, un totale di 10.000 componenti delle proprie truppe hanno servito nella KFOR dal 1999 ad oggi. Attualmente sono 30 i militari danesi in Kosovo. Nel 2008 la Danimarca fu uno dei primi paesi a riconoscere l’indipendenza del Kosovo.

      Anche se le autorità danesi affermano di considerare il Kosovo alla pari, il semplice fatto che la Danimarca stia assumendo la gestione di una delle prigioni del Kosovo potrebbe legittimamente essere visto come una minaccia alla sovranità di quest’ultimo. Quando i prigionieri norvegesi vennero mandati nei Paesi Bassi, il penitenziario continuò ad essere sotto autorità olandese.

      Ma al di là delle preoccupazioni sulla giurisdizione, gli standard delle prigioni, i diritti di visita e i costi, ci sono questioni morali più grandi. Il popolo danese vuole veramente che a proprio nome vengano gestite strutture carcerarie offshore per i suoi immigrati incarcerati? E il popolo del Kosovo vuole essere una colonia penale dei paesi più ricchi? I governi della Danimarca e del Kosovo dicono di sì, ma cosa dice la gente?

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/La-Danimarca-e-le-prigioni-off-shore-215757

  • I funerali di Majid

    Oggi si sono tenute a Monfalcone le esequie di #Majid_El_Kodra il ragazzo marocchino morto lo scorso 30 aprile.

    Protagonista delle rivolte all’interno del CIE dell’agosto dello scorso anno, non si è mai ripreso dalla caduta dal tetto del lager contro cui lottava e da cui ha cercato di fuggire.

    La gestione del suo decesso è indegna di un paese civile. I suoi congiunti sono stati avvisati una settimana dopo la sua morte con una mancanza di attenzione e sensibilità che ferisce.

    Oltre ai familiari, presenti circa un centinaio di persone tra migranti (la gran parte della multietnica comunità islamica monfalconese), attivisti antirazzisti e solidali, tra cui alcuni compagni anarchici.

    Cordoglio, dolore e rabbia erano i sentimenti che si potevano percepire tra i presenti per la morte di questo ragazzo di neanche 35 anni.

    Per quel cortocircuito della ragione che si chiama stato era Majid ad essere imputato e non coloro che lo hanno relegato fino alla morte in un lager per migranti. Lui è tragicamente scampato al procedimento giudiziario, chi ne ha indirettamente causato la morte temiamo ne uscirà con le mani pulite nonostante l’esposto depositato per i fatti accaduti al CIE da parte delle associzioni antirazziste.

    Durante il funerale c’è stata una raccolta fondi per contribuire al rientro della salma in Marocco.

    “Questo è il risultato! Questo è il risultato!” diceva un ragazzo magrebino piangendo e tenendosi la testa tra le mani.

    Questo è il risultato di un sistema criminale di gestione dei migranti ridotti in cattività solo perché privi di un pezzo di carta.

    Questo è il risultato di un sistema economico che lo stato lubrifica col sangue.

    Quello che è successo a Gradisca non deve succedere più, né qui né altrove.

    Oggi eravamo in tanti a salutare Majid.

    Ce lo ricordiamo sul tetto del CIE con le braccia alzate reclamando libertà per sé e i suoi compagni di detenzione.

    La sua lotta è la nostra lotta!

    NO CIE! Né a Gradisca né altrove!

    https://libertari-go.noblogs.org/i-funerali-di-majid
    –-> ajouté ici pour archivage.

    Décès : 30.04.2014

    #Gradisca #CIE #décès #morts #asile #migrations #réfugiés #Italie #CRA #détention_administrative #Gradisca_d'Isonzo

    • Ogni anima muore. La storia di Majid, morto di CIE
      Un documentario a cura di Ottavia Salvador

      Nella notte del 13 agosto 2013, mentre è trattenuto, da pochi giorni, nel centro di identificazione ed espulsione (CIE) di Gradisca d’Isonzo, Majid El Kodra, si procura un grave trauma cranico. Si dice che, saltando dal tetto di un edificio adibito a deposito, in un tentativo di fuga dalla struttura, sia caduto a terra, battendo violentemente la testa. Erano giorni di proteste e repressioni, nel CIE, che lo hanno spinto, con un tocco invisibile, verso una lenta morte, dopo otto mesi di coma, il 30 aprile 2014. Il suo corpo è stato rimpatriato ai familiari in Marocco, nella provincia di Taounate, in una notte di maggio, e sepolto vicino alla casa dov’era nato nel 1979 e dalla quale era partito per emigrare in Europa. Sulla sua tomba è dipinta, in rosso, l’iscrizione: “Ogni anima muore“.

      Un viaggio alla ricerca delle tracce della sua vita sconosciuta, delle parole invisibili di rabbia e dolore di chi è rimasto, dei colori del suo mondo.

      E’ online il teaser del documentario “Ogni anima muore” che Ottavia Salvador sta realizzando sulla storia di Majid. Ottavia e’ una dottoranda che si occupa della morte nella migrazione e ha seguito (e continua a seguire) la vicenda di Majid e della sua famiglia.

      https://vimeo.com/217701619?embedded=true&source=vimeo_logo&owner=66638623

      https://www.meltingpot.org/2017/05/ogni-anima-muore-la-storia-di-majid-morto-di-cie
      #documentaire #film_documentaire #film

    • Presentato un esposto alla Procura della Repubblica per i fatti del CIE di Gradisca. Morto Majid, il migrante caduto dal tetto durante le proteste dell’agosto 2013

      Oggi l’associazione Tenda per la Pace e i Diritti e molte delle associazioni aderenti alla campagna LasciateCIEntrare hanno depositato presso le Procure della Repubblica di Gorizia, di Roma e di Napoli un esposto per chiedere accertamenti e indagini sugli avvenimenti dell’agosto 2013 all’interno del CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione) di Gradisca d’Isonzo.
      Si è trattato di scontri, pestaggi, lanci di lacrimogeni che iniziati l’8 agosto, sono durati diversi giorni e in circostanze ancora da chiarire, nella notte tra l’11 e il 12 agosto, uno dei migranti cade dal tetto e finisce in coma. Majid era nel centro da poche settimane: è morto il 30 aprile scorso all’ospedale di Monfalcone.

      Il Centro di Identificazione ed Espulsione di Gradisca d’Isonzo è chiuso da novembre 2013 a seguito dell’ennesima protesta da parte dei trattenuti ma rimangono nell’ombra molti avvenimenti.
      Nell’esposto vengono evidenziati i fatti, ricostruiti grazie alle testimonianze dei migranti, di associazioni e dei parlamentari che sono giunti sul posto chiamati d’urgenza durante quei giorni di proteste e di rivolte. Di particolare gravità risulta l’uso dei lacrimogeni CS (un gas considerato letale) da parte delle forze di sicurezza: inutile e spropositato il ricorso a questi mezzi per sedare la protesta di persone rinchiuse in una struttura chiamata “gabbia” per le alte sbarre che la circondano.
      Gli scontri e i pestaggi avvengono nella “vasca”, il cortile interno semichiuso e delimitato da pareti in plexiglass che non ha consentito ai fumi e vapori irritanti di dissolversi, causando malori ai migranti.
      Le associazioni e i firmatari dell’esposto si chiedono se non ci sia stato un abuso di potere da parte delle forze dell’ordine preposte alla vigilanza del centro.
      Sono molte le testimonianze dell’accaduto: migranti, medici, operatori umanitari e parlamentari racconteranno cosa è stato il CIE di Gradisca, perché non deve più riaprire e perché vanno chiusi tutti i CIE presenti sul territorio italiano.

      Se ne parla il 13 maggio alle ore 11.00 presso la Federazione Nazionale della Stampa Italiana in C.so Vittorio Emanuele, 249 – Roma

      Presentano l’esposto e gli sviluppi dei fatti di Gradisca:
      Galadriel Ravelli Tenda della Pace e i Diritti
      Gabriella Guido – portavoce della campagna LasciateCIEntrare
      Alberto Barbieri – Medici per i Diritti Umani
      Pietro Soldini – CGIL
      Oria Gargano – BE FREE

      Saranno mostrati video e testimonianze sugli incidenti di Gradisca che hanno portato al temporaneo svuotamento e chiusura del centro.
      Un ennesimo episodio quello di Gradisca che dimostra il fallimento del sistema di detenzione amministrativa e l’urgenza di soluzioni alternative, mentre il Governo e gli organi preposti mostrano un colpevole silenzio e totale assenza d’iniziative volte alla revisione del sistema. Un sistema di detenzione imploso, che registra una continua violazione dei diritti umani e sul quale gravano fin troppe detenzioni “illegittime”, interrogazioni parlamentari, denunce, imputazioni per reati penali commesse dagli enti gestori (tra cui Connecting People che gestiva il CIE di Gradisca e continua a gestire altre strutture), oltre che un enorme spreco in termini di risorse finanziare.

      LasciateCIEntrare denuncia inoltre quanto alla vigilia delle elezioni europee il tema dell’immigrazione venga ignorato o usato strumentalmente dai candidati di alcune forze politiche: il futuro europarlamento e l’attuale Governo italiano sono chiamati a rispondere immediatamente con soluzioni che garantiscano la difesa dei diritti umani così come l’incolumità degli uomini, donne e bambini migranti che arrivano nel nostro paese e in Europa, i meccanismi di ingresso e di soggiorno e la revisione della normativa in materia di immigrazione.

      L’esposto è stato firmato tra gli altri da:
      A BUON DIRITTO, ANTIGONE, ASGI, BE FREE, CASA INTERNAZIONALE DELLE DONNE, DA SUD, MELTING POT, ARCI Thomas Sankara e Ass. GARIBALDI 101. E dai parlamentari COSTANTINO, FRATOIANNI e PELLEGRINO di SEL e dai candidati all’europarlamento CASARINI, FURFARO e ALOTTO.

      Contatti:
      Ufficio Stampa – Paola Ferrara 328.4129242
      Coordinamento campagna LasciateCIEntrare – Gabriella Guido 329.8113338
      ggabrielle65@yahoo.it

      La campagna LasciateCIEntrare è nata nel 2011 per contrastare una circolare del Ministero dell’Interno che vietava l’accesso agli organi di stampa nei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione): appellandosi al diritto/dovere di esercitare l’art. 21 della Costituzione, ovvero la libertà di stampa, LasciateCIEntrare ha ottenuto l’abrogazione della circolare e oggi si batte per la chiusura dei CIE, l’abolizione della detenzione amministrativa e la revisione delle politiche sull’immigrazione.

      https://www.articolo21.org/2014/05/presentato-un-esposto-alla-procura-della-repubblica-per-i-fatti-del-cie-

  • WHO Global Competency Standards for Refugee and Migrant Health Services – Strengthening the health workforce to provide quality health services to refugees and migrants
    https://www.who.int/news-room/events/detail/2021/12/16/default-calendar/who-global-competency-standards-for-refugee-and-migrant-health-services-strengt

    WHO Global Competency Standards for Refugee and Migrant Health Services – Strengthening the health workforce to provide quality health services to refugees and migrants
    WHO Global Competency Standards for Refugee and Migrant Health Services – Strengthening the health workforce to provide quality health services to refugees and migrants
    16 December 2021 14:00 – 15:00 CET Virtual, On Zoom
    Refugees and migrants may face a number of challenges to accessing health care, including language and cultural differences, institutional discrimination and restricted use of health services, which shape their interactions with the host country’s health system and health workforce. The health workforce has a vital role in providing people-centred health services and building the resilience of health systems to respond to the health needs of refugees and migrants. This requires health workers with specific competencies.
    The Global Competency Standards highlight the competencies and behaviours needed to provide high-quality health services to refugees and migrants with the aim to support the development of competency-based curricula tailored to the local context and for health workers to achieve a minimum level of competence to ensure better health outcomes for refugees and migrants.The Standards are accompanied by a Knowledge Guide for health workers and health administrators and a Curriculum Guide for educational institutions. The Knowledge Guide identifies the foundational knowledge, skills and attitudes for the Global Competency Standards. The Curriculum Guide sets out considerations and options to deliver and assess competency-based learning outcomes of health workers at different stages in their career development. These have been adapted from the Global Competency and Outcomes Framework for Universal Health Coverage.
    The Standards and the two Guides have been developed by the Health and Migration Programme in close collaboration with the Health Workforce Department. It is the first set of its kind to be produced for health workers who provide health services to refugees and migrants as well as for educational institutions to incorporate these standards and foundational knowledge and skills into health worker training.

    #Covid-19#migrant#migration#OMS#sante#refugie#accessante#personnelmedical#formation

  • Bangladeshi migrant found dead near Slovenia-Croatia border (04.12.2021)

    The body of a migrant from Bangladesh has been found in Slovenia near the border with Croatia. Police say it is the first such death in this part of the border region.

    Police in the town of Koper, on Slovenia’s Adriatic coast, said that the dead body of a 31-year-old man was found on Saturday, December 4, in the Dragonja Valley, between the Dragonja and Sečovlje border crossings in southwest Slovenia.

    The man’s documents were found near his body. Police said that he was a Bangladeshi citizen and that the Embassy of Bangladesh had been informed.

    An autopsy was ordered to determine the cause of the man’s death, but initial information indicated that he died of hypothermia a day before he was found, a spokesperson from the Koper Police Department told InfoMigrants.

    While deaths of migrants have been recorded in the past on the Croatia-Slovenia border, this was the first known fatality in this region of the Dragonja valley, the spokesperson said.

    Border patrols

    Slovenian police, supported by the army, are deployed along the 670-km border with Croatia. Border surveillance of irregular migrants is conducted with the help of mounted police, dogs and technical equipment such as drones, thermographic cameras and helicopters.

    The interior ministry announced in 2020 that drones were increasingly being used to monitor the movements of migrants from above. “When migrants try to flee being apprehended, they run in several directions and drones make it easier for police officers to follow and apprehend them,” the ministry said in an article published online in June, 2020.

    Migrants usually “avoid populated areas and travel at night, using forest paths and remote terrain, while they spend the day resting in hidden-away locations,” the ministry continued.

    “Most of them use GPS navigation on smartphones in airplane mode, which prevents them being traced ... Illegal migrants very quickly adapt to police measures and frequently change both their routes and border crossing methods.”

    The police spokesperson in Koper confirmed that border patrols and surveillance have continued during the past 18 months.

    Both Croatia and Slovenia are members of the European Union, but Croatia is outside the Schengen visa-free area.

    There are thousands of migrants trapped in the Balkan states, unable to cross national borders to continue their journeys. Many are sleeping rough in cold winter weather.

    https://www.infomigrants.net/en/post/37038/bangladeshi-migrant-found-dead-near-sloveniacroatia-border

    #Croatie #Slovénie #asile #migrations #réfugiés #frontière_sud-alpine #Alpes #montagne #décès #mort

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    Ajouté à cette métaliste des morts à la frontière Slovénie-Croatie :
    https://seenthis.net/messages/811660

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    https://seenthis.net/messages/758646

  • Une petite fille de 10 ans meurt noyée dans la rivière frontière entre la Croatie et la Slovénie

    Une petite fille turque de 10 ans est morte dans la #Dragonja, la #rivière qui sépare la Croatie de la Slovénie, à seulement 30 km de l’Italie. Elle était sur les épaules de sa mère, qui tentait de gagner l’autre rive, lorsqu’elle a été happée par le courant.

    Elle était recherchée depuis sa disparition, le 9 décembre dernier. Une petite fille turque de 10 ans est morte noyée dans la rivière Dragonja, frontière naturelle entre la Slovénie et la Croatie, dans le nord-ouest de l’Istrie. Le 11 décembre, son corps a été retrouvé sous l’eau, à deux mètres de profondeur, et à 400m du lieu de sa disparition, a précisé Suzana Sokač, une représentante de la police, au média slovène Dvevnik (https://www.dnevnik.si/1042978940/kronika/nadaljuje-se-iskanje-deklice-ki-jo-je-odnesla-dragonja).

    Une cinquantaine de personne au total - des policiers, des pompiers, des chiens de sauvetage, et des plongeurs de l’armée slovène - avaient entrepris des recherches le long de la rivière jusqu’à son embouchure dans la mer Adriatique, durant deux jours.

    La petite fille avait disparu, alors que sa famille tentait de traverser la rivière pour gagner la Slovénie, sur l’autre rive. Elle a été emportée par les eaux alors qu’elle se trouvait sur les épaules de sa mère.

    https://twitter.com/SuzanaLovec/status/1470044411518230533

    Cette dernière est quant à elle saine et sauve. Elle a réussi à s’accrocher à un arbre et n’a pas été emportée par le courant, « très fort à cet endroit », indique le journal italien L’Espresso (https://espresso.repubblica.it/attualita/2021/12/10/news/migranti_tragedia_confine_di_schengen-329668240). Cette femme de 47 ans a réussi à grimper sur une échelle tendue par un policier croate et un policier slovène, et à sortir de l’eau, selon un communiqué de la police. « Elle était à moitié consciente, comme si elle était prise de convulsions, a raconté un habitant. Elle a de la chance d’être en vie ».

    Les policiers ont également pu sauver ses trois autres enfants. Ses deux garçons de 18 et 5 ans avaient réussi à traverser la rivière et ont été interceptés côté slovène. Son troisième garçon, âgé de 13 ans, était encore sur la rive croate. C’est lui qui a donné l’alerte, en allant chercher de l’aide auprès d’un riverain. « Il ne connaissait pas un mot d’anglais. Il était mouillé et a juste crié : ‘Help ! Help !’ », a expliqué l’habitant.

    Une étape sur la route des Balkans

    D’après ce riverain, la zone autour de la rivière Dragonja est régulièrement fréquentée par les migrants. ’’Mais quand ils voient la lumière et les gens, ils s’éloignent", a-t-il déclaré, en ajoutant que ce n’était pas la première fois qu’il aidait des exilés en détresse.

    Selon L’Espresso, la zone, où des clôtures de fils barbelés ont été érigées par endroits, est désormais une étape pour de nombreux migrants afghans, pakistanais et bangladais, qui font chemin sur la route migratoire des Balkans. Traverser la Dragonja de la Croatie à la Slovénie leur permet d’entrer dans l’espace Schengen, et de se rapprocher de l’Italie. Une fois la frontière passée, la ville italienne de Trieste n’est plus qu’à 30 km.

    La semaine dernière, le corps d’un homme bangladais de 31 ans avait été retrouvé au même endroit, après avoir traversé le cours d’eau. Une autopsie a été ordonnée pour déterminer la cause du décès. Mais les premières constatations indiquent qu’il est mort d’hypothermie, un jour avant d’avoir été retrouvé, avait déclaré à InfoMigrants un porte-parole du département de police de Koper. Ce jour-là, les températures étaient négatives.

    Le 1er janvier 2020, un corps avait été retrouvé près de là, à Socerb, à la frontière slovène : celui d’un Algérien de 29 ans, décédé après une chute dans un précipice.

    Depuis quelques années, la frontière entre la Slovénie et la Croatie, longue de 670km, est très surveillée. La police y patrouille régulièrement, appuyée par des drones, des caméras thermiques et des hélicoptères. « Lorsque des migrants tentent de fuir, ils courent dans plusieurs directions et les drones permettent aux policiers de les suivre et de les appréhender plus facilement », avait déclaré le ministère de l’Intérieur slovène en juin 2020.

    D’après le porte-parole de la police de Koper, une ville slovène au bord de l’Adriatique, la surveillance des frontières et les opérations de contrôle se sont poursuivies au cours de ces 18 derniers mois.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/37179/une-petite-fille-de-10-ans-meurt-noyee-dans-la-riviere-frontiere-entre

    #Croatie #Slovénie #asile #migrations #réfugiés #frontière_sud-alpine #Alpes #montagne #décès #mort

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    • Desetletno turško deklico, ki jo je odnesla Dragonja, našli mrtvo

      V Dragonji so danes našli truplo desetletne turške deklice, ki jo je v sredo zvečer med prečkanjem reke z mamo odnesel močan tok. Truplo so našli dva metra pod vodo.

      Okoli pol ene ure so kakih 400 metrov stran od njenega izginotja danes našli truplo desetletne deklice, ki jo je med prečkanjem Dragonje v sredo odnesel močan tok reke, je potrdila Suzana Sokač, predstavnica policijske uprave Istrske. »Oseba je bila najdena približno dva metra pod vodo,« pa so smrt potrdili tudi v PU Koper.
      Na terenu 50 slovenskih policistov, gasilcev ...

      Desetletno deklico so na obeh straneh Dragonje iskali vse od srede zvečer, ko jo je z maminih ram odnesel močan tok Dragonje. Takrat jim je iz reke uspelo rešiti povsem izčrpano 47-letno Turkinjo, ki je deklico skušala spraviti s hrvaške na slovensko stran. Zraven je imela še dva druga otroka in nečaka. Ni ji uspelo. Deklico je odneslo, sama se je komaj še uspela držati za podrto deblo sredi reke. Močno podhlajeno so jo odpeljali v bolnišnico v Pulju.

      Deklico so tudi danes iskali tako na slovenski kot na hrvaški strani reke. Razmere so bile težke, reka je narasla. Policisti, poklicni in prostovoljni gasilci, vodniki reševalnih psov, pripadniki podvodne reševalne službe Slovenije in potapljači Slovenske vojske so bili na terenu od devetih zjutraj, so sporočili s PU Koper. Skupno jih je bilo okoli 50. »Prav tako policisti pomorske policije in URSP izvajajo pregled in iskanje ob izlivu reke Dragonje v morje,« so še dodali.
      Na Hrvaškem tudi s podvodnimi droni

      Iskalno akcijo je izvajalo tudi večje število reševalnih služb na Hrvaški strani reke Dragonje. Večjemu številu potapljačev so se na hrvaški strani danes pridružili člani antiteroristične enote Lučko, poročajo hrvaški mediji. »Reka je visoka, vse je odvisno od tega, v kakem stanju je deklica,« je za medije povedal Robert Boban Paulović, načelnik PP Buje. »Upamo, da se je uspela rešiti na kopno. Upamo, da bomo našli kakšno sled. Vse moči smo usmerili v to, da jo najdemo,« pa je dodal Marko Rakovac, član hrvaške gorske reševalne službe, ki je prav tako priskočila na pomoč. Na delu so tudi sledni psi. Dragonjo bodo prečesali tudi s pomočjo podvodnih dronov.
      Nesel jim je lestev

      Za hrvaške medije je o dramatičnih trenutkih v sredo zvečer spregovoril Jonatan Strojan iz Dramca, ki je poklical policijo in pomagal pri reševanju ženske iz vode. Povedal je, da je na njihova vrata potrkal 13-letni deček, ki je kričal le »help, help« , torej na pomoč. »Bil je premočen. Policija je prišla v roku desetih minut, sam sem šel pogledat, ali kdo potrebuje mojo pomoč. Potrebovali so vrv in lestev,« je razložil za Dnevnik Nova TV. »Ženska ni bila pri zavesti. Kot bi bila v nekem krču. Imela je srečo, da je bila še živa,« je dodal. Tudi sam je zabredel v reko. V tem času so pri njem doma poskrbeli za dečka, ki je prišel prosit za pomoč. Dali so mu nova oblačila, čevlje, hrano in pijačo. Jonatan pravi, da je migrantov tam naokrog veliko, a ker se izogibajo lučem in domačinov, ki kaj veliko ne vidi. »Sploh si ne morem predstavljati, kako grozno je to za otroke. Ne vedo, kaj bo z mamo, gledajo, kako ji iz rok v vodo pade njihova sestra … Grozljivo,« strne svoje občutke.

      https://www.dnevnik.si/1042978940/kronika/nadaljuje-se-iskanje-deklice-ki-jo-je-odnesla-dragonja

    • Ta smrt je na tvojih plečih, Evropa. Na tvojih plečih, Slovenija

      Desetletne deklice si spletajo kitke, božajo sosedove mačke, hihitajo se s prijateljicami in igrajo nogomet. V šoli imajo priljubljene predmete, učijo se tujih jezikov, pričkajo se s svojimi brati in sestrami. In ob decembrskih večerih težko zaspijo, ker razmišljajo o tem, ali bodo lahko budne dočakale novo leto.

      Danes so desetletno deklico mrtvo potegnili iz mrzle Dragonje. Dva metra pod vodo so potapljači našli njeno truplo. V reki, mimo katere se vsako leto skoraj vsi mi vozimo na svoje počitnice. Utopila se je v četrtek, ko je s svojo družino želela prečkati mejo, v želji po boljšem življenju.

      Umrla je na našem pragu, kot že toliko prebežnikov. Kot je na našem pragu, v dolini Dragonje, pred nekaj dnevi zmrznil 31-letni moški. In kot so v Kolpi umirali ljudje pred njima.
      suzana lovec

      Desetletne deklice si spletajo kitke in se izpod svojih toplih pernic ob koncih tedna zbujajo pozno. Desetletne deklice ne bi smele biti prestrašene, premražene in jokajoče, umirajoče v reki, utopljene v krutosti naše migracijske politike.

      Ta smrt je na tvojih plečih, Evropa, ki s svojo zastraševalno migracijsko politiko hočeš natanko to. Da ljudje, ki jih nimaš za svoje, ostanejo pred tvojimi vrati. Pa čeprav mrtvi.

      Ta smrt je na tvojih plečih, Slovenija, ki v tem že dolgo pridno sodeluješ. Na meje postavljaš rezilno žico, ki ji po “evropsko” rečeš tehnična ovira. V Centru za tujce razčlovečiš. Na terenu, če le lahko, preslišiš prošnje za azil. Izvajaš push-backe ; ljudi pošiljaš nazaj na Hrvaško in od tam v BiH, zavedajoč se, da jih tam čaka sistematično nasilje. In s tem kršiš lastno zakonodajo, ustavo, mednarodne konvencije, človekove pravice. In ko te na to opozarjajo, tisti redki humanitarci, nevladniki, pravniki, kulturniki in novinarji, ki še zmorejo opozarjati, gledaš stran. Opozarjajo te že leta in ti gledaš stran. V Evropo, ki vse to dopušča. Evropo, ki je zrasla na zaklinjanju, da je vsako življenje enako vredno.

      Desetletne deklice si spletajo kitke in ob sobotnih večerih gledajo risanke. Zdaj je tak večer.

      Nihče ne trdi, da so migracijske politike lahka stvar. Da vprašanja niso kompleksna in da ne terjajo kompleksnih odgovorov. Jih. A povsem jasno je, da je edini napačen odgovor na migracije – kršenje človekovih pravic. Natanko to, kar Evropa in Slovenija že dolgo počneta. Delamo natanko to, česar ne bi smeli. V ljudeh smo nehali videti ljudi.

      https://n1info.si/novice/slovenija/ta-smrt-je-na-tvojih-plecih-evropa-na-tvojih-plecih-slovenija

    • Morire al confine

      Giovedì scorso una quarantasettenne con i suoi quattro bambini ha cercato di guadare il fiume per entrare in Slovenia. Il figlio diciottenne e un altro bimbo di cinque anni sono riusciti ad arrivare sulla sponda slovena; la donna con sulle spalle la bambina è rimasta in mezzo al corso d’acqua, mentre l’altro figlio tredicenne anni è restato bloccato sul versante croato. Le acque, ingrossate dalle piogge dei giorni precedenti, hanno trascinato via la bimba, mentre la madre è rimasta aggrappata ad un tronco. È stato il figlio sulla sponda croata a dare l’allarme, bussando alla porta di una casa e urlando in inglese le uniche parole che conosceva: “help”, “help”. Il proprietario è andato immediatamente sul posto e poco dopo è arrivato anche un agente della polizia croata che si è buttato nel fiume, ma non è riuscito a far altro che a impedire che la piena portasse via anche la donna. A quel punto dall’altra parte del confine sono arrivati i poliziotti sloveni. Hanno usato il guinzaglio del cane per legare l’agente che si è tuffato in acqua e poi, con l’aiuto di una scala, messa tra le due sponde, hanno tratto in salvo la donna.

      I profughi sono stati immediatamente riconsegnati ai croati, che prima li hanno trasportati a Pola, dove sono stati ricoverati in ospedale (in Slovenia l’ospedale di Isola distava solo pochi chilometri) e poi li hanno trasferiti al centro profughi di Zagabria, dove hanno chiesto asilo politico. Ora la salma della bimba attende di venir portata in Turchia, dove verrà sepolta nel villaggio natale della famiglia.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Slovenia/Morire-al-confine-214618

    • Tužan kraj potrage : U rijeci pronađeno tijelo djevojčice (10) koja je s obitelji prelazila rijeku

      Djevojčicu je, podsjetimo, odvukla jaka struja kada je s turskom državljankom pokušala prijeći rijeku i doći u Sloveniju. Policija je ženu uspjela spasiti. Riječ je o migrantima.

      Desetogodišnja djevojčica za kojom se od jučer tragalo nakon što je nestala u nabujaloj rijeci Dragonji pronađena je mrtva u subotu oko 12.30 sati, izvijestila je istarska policija. “Mrtvo tijelo djevojčice pronađeno je u vodi na mjestu koje je oko 400 metara nizvodno od mjesta nestanka, a pronašli su je djelatnici interventne postrojbe PU istarske”, izvijestila je glasnogovornica istarske policije Suzana Sokač koja je u ime policije izrazila sućut obitelji. Inače u pretrazi za djevojčicom tijekom jučerašnje dana i jutros sudjelovali su policijski službenici iz Buja, pripadnici interventne jedinice policije iz Pule, pripadnici specijalne policije iz Rijeke i ATJ Lučko sa svojim roniocima, HGSS sa psima tragačima, djelatnici Civilne zaštite državne intervencijske postrojbe Rijeka, djelatnici Crvenog križa obučeni za potrage na brzim vodama, vatrogasci i pripadnici lokalnih DVD-a te slovenski policajci i vatrogasci.

      https://www.vecernji.hr/vijesti/i-dalje-se-traga-za-curicom-iz-turske-u-pomoc-stize-veci-broj-ronioca-15465

  • Des migrants crèvent de froid aux portes de Paris, et l’État ne fait rien
    https://reporterre.net/Des-migrants-crevent-de-froid-aux-portes-de-Paris-et-l-Etat-ne-fait-rien

    Des centaines d’exilés s’entassent dans un tunnel aux portes de la capitale. Hommes, femmes et enfants y sont dans « l’abandon le plus complet », regrettent les auteurs de cette tribune. Ils appellent les autorités à mettre à disposition les locaux vacants. Source : Reporterre

  • #Danemark : préoccupations vives à l’encontre de la #loi récemment adopté visant à externaliser l’examen des demandes d’asile au #Rwanda

    Et demande expresse au Danemark de réévaluer son appréciation des zones en Syrie considérées comme « sûres » et qui justifieraient le renvoi des personnes dont la protection temporaire n’a pas été renouvelée voir annulée.

    Le Comité des Nations Unies de suivi de la Convention pour l’Elimination des Discrimination Raciales (CERD en anglais) a passé en revue 4 pays fin novembre dont le Danemark.

    Document en anglais : https://tbinternet.ohchr.org/_layouts/15/treatybodyexternal/Download.aspx?symbolno=CERD%2fC%2fDNK%2fCO%2f22-24&Lang=en

    #Danemark #asile #migrations #réfugiés #Afrique
    #offshore_asylum_processing #externalisation #réfugiés_syriens #retour_au_pays #procédure_d'asile #pays-tiers

    –---

    Fil de discussion sur l’externalisation des procédures d’asile du Danemark (2021) :
    https://seenthis.net/messages/918427

    Le Danemark (comme d’autres pays européens d’ailleurs) avait déjà tenté par la passé de faire passer une loi dans ce sens, voir la métaliste :
    https://seenthis.net/messages/900122

    • ‘Zero asylum seekers’: Denmark forces refugees to return to Syria

      Under a more hostile immigration system, young volunteers fight to help fellow refugees stay – but their work is never done

      Maryam Awad is 22 and cannot remember the last time she had a good night’s sleep. It was probably before her application to renew her residency permit as a refugee in Denmark was rejected two years ago, she says.

      Before 2015, Awad’s family lived in a small town outside Damascus, but fled to Denmark after her older brother was detained by the regime. The family have been living in Aarhus, a port city in northern Denmark, for eight years.

      Awad and her younger sister are the only family members facing deportation. Their situation is far from unique. In 2019, the Danish government notified about 1,200 refugees from the Damascus region that their residency permits would not be renewed.

      Unlike the United Nations and EU, Denmark judged the region to be safe for refugees to return. However, as men could be drafted into the army and older women often have children enrolled in Danish schools, the new policy predominantly affects young women and elderly people.

      Lisa Blinkenberg, of Amnesty International Denmark, said: “In 2015, we have seen a legislative change which means that the residency permit of refugees can be withdrawn due to changes in their home country, but the change does not have to be fundamental. Then in 2019 the Danish immigration services decided that the violence in Damascus has stopped and that Syrians could be returned there.”

      Blinkenberg says Denmark’s policy towards asylum seekers and refugees has become notably more hostile in recent years. “In 2019, the Danish prime minister declared that Denmark wanted ‘zero asylum seekers’. That was a really strong signal,” she says.

      “Like in other European countries, there has been a lot of support for rightwing parties in Denmark. This has sent a strong signal for the government to say: ‘OK, Denmark will not be a welcoming country for refugees or asylum seekers.’”

      Awad smiles, briefly, for the first time when she receives a phone call from her lawyer. He tells her there is now a date set for her appeal with the refugee board. It will be her last chance to prolong her residency permit.

      She had been waiting for this phone call since February. “I am really nervous, but happy that it is happening,” she says. “I am glad that I had the support from friends who put me in touch with volunteers. If it wasn’t for them, I wouldn’t know what to do.”

      One of the volunteers Awad has received help from is Rahima Abdullah, 21, a fellow Syrian refugee and leader of the Danish Refugee Youth Council. Over the past two years Abdullah had almost single-handedly built a network of opposition to deportations targeting Syrians.

      “I have lost count of how many cases I worked on. Definitely over 100, maybe even 200,” Abdullah says.

      Abdullah, who grew up in a Kurdish family in Aleppo, first became politically active at 16 after her family sought refuge in Denmark. She has been regularly publishing opinion pieces in Danish newspapers and built a profile as a refugee activist.

      “The image of immigration in Danish media was very negative. I could see everyone talking about it but felt as if I didn’t have a voice. That’s why I decided to become an activist,” she says.

      In 2019, Abudullah and a classmate, Aya Daher, were propelled to the front pages of Danish media, after Daher found herself among hundreds of Syrians threatened with deportation.

      “Aya called me up, scared, crying that her application was rejected. Before we were thinking about finishing school, about exams and parties, but suddenly we were only concentrating on Aya’s future and her safety,” Abdullah recalls.

      “I posted her story on Facebook and I sent it to two journalists and went to sleep. In the morning I found that it was shared 4,000 times.”

      The story was picked up by local and international media, sparking a public outcry. Following her appeal to the Danish Refugee Board, Daher’s residency was extended for an additional two years on the grounds that her public profile would put her in danger from the Assad regime.

      “They gave me a residency permit because I was in the media. They did not believe in what I said about my situation and the dangers I would face in Syria. That really hurt,” Daher says. “I hope I don’t have to go through this process again.”

      “Aya can get on with her life now, but I am still doing the same work for other people in the same position,” Abdullah says. “Her case showed refugees that, if you get media attention and support from society, you can stay in Denmark.”

      Abdullah gets up to five messages a day from refugees hoping she can help them catch the attention of the media. “I have to choose who to help – sometimes I pass people on to other activists. There are two or three people helping me,” she says. “It gets hard to be a young person with school and a social life, with all that work.”

      But not everyone is as appealing to the media as Daher. The people whose stories pass unnoticed keep Abdullah up at night.

      “I worked with one family, a couple with young children. I managed to get them one press interview in Sweden, but it wasn’t enough,” Abudullah says. “The husband is now in Germany with two of the children trying to get asylum there. The wife stayed here with one child. She messaged me on Facebook and said: ‘You did not help us, you destroyed our life.’ I can’t be angry at her – I can’t imagine how she feels.

      “Aya’s story was the first of its kind at the time. Additionally, Danish media like to see an outspoken young woman from the Middle East, who is integrated into society, gets an education, and speaks Danish,” Abdullah says. “And this was just an ordinary Syrian family. The woman didn’t speak good Danish and the children were quite young.

      “Aya also doesn’t wear a hijab, which I think made some people more sympathetic towards her,” Abdullah adds. “There are people in Denmark who think that if you wear the hijab you’re not integrated into society. This makes me sad and angry – it shouldn’t be this way.”

      Daher, who became the face of young Syrian refugees in Denmark, says: “It was very difficult to suddenly be in the media, and be someone that many people recognise. I felt like I was responsible for a lot of people.

      “I had a lot of positive reactions from people and from my classmates, but there have also been negative comments.” she says. “One man came up to me on the street and said ‘go back to your country, you Muslim. You’re stealing our money.’

      “I respect that some people don’t want me to be here. There’s nothing more I can do about that,” Daher says. “They have not been in Syria and they have not been in the war – I can’t explain it to them.”

      Awad hopes she can return to the life she had to put on hold two years ago. “I don’t know how to prepare for the appeal. All I can do is say the truth,” she says. “If I go back to Syria they will detain me.” She hopes this will be enough to persuade the board to allow her appeal.

      “I planned to study medicine in Copenhagen before my residency application was rejected. I wanted to be a doctor ever since I came to Denmark,” she says. The uncertainty prompted her to get a qualification as a health assistant by working in a care home. “I just want my life back.”

      https://www.theguardian.com/global-development/2022/may/25/zero-asylum-seekers-denmark-forces-refugees-to-return-to-syria?CMP=Shar

  • À #Briançon, les exilé.es risquent leur vie à la frontière

    La ville des Hautes-Alpes est depuis 2015 un théâtre du parcours migratoire de milliers d’hommes et de femmes. Leur route se croise avec celles de citoyen·nes solidaires, mais aussi avec celles de la police et de l’État français, qui font tout pour rendre dangereux leur voyage. Reportage depuis la frontière.

    Ciel gris sur la ville de Briançon, ce matin du samedi 13 novembre. Alors qu’il est presque 13h, le soleil est barricadé derrière les nuages et il est difficile de saisir le temps qui passe dans les changements de lumière. Nous descendons en voiture la route principale qui mène à la vieille ville, perchée sur son gros rocher et protégée par deux anciens forts, derniers remparts avant d’engager la voie du col de #Montgenèvre. Dans le sens inverse, soudainement six camions de gendarmes (de quoi faire penser à une grande manif parisienne) remontent la route. On ne peut pas s’empêcher de sentir des frissons : derrière nous, une autre bagnole, conduite par deux solidaires, transporte deux migrants qui viennent d’être retrouvés à l’entrée de la vieille ville, du côté Français de la frontière. En cas de contrôle, ils auraient des ennuis.

    15 heures plus tôt, dans la soirée du vendredi, le #campement de fortune mis en place par les associations du Briançonnais s’apprête pour le sommeil. Un groupe d’exilés vient de partir avec le bus de 20h pour Paris, et ceux qui le peuvent sont allés chez leurs hébergeur.ses pour passer une nuit un peu plus confortable. Les autres se préparent à dormir dans deux grandes #tentes, chauffées avec un grand poêle à pétrole, qui peuvent accueillir environ 50 personnes. Ce soir là, une vingtaine d’exilés sont présents, tous hommes, presque tous jeunes, tous provenant du Maghreb, d’Iran ou d’Afghanistan. Maxime1, un bénévole dans l’association « Terrasses Solidaires » qui passe souvent ses nuits au campement pour accueillir les nouveaux.elles arrivé.es, explique que : « C’est très aléatoire, des soirs nous avons beaucoup d’arrivées, d’autres très peu. Il y a dix jours, on a eu plus de trente personnes en une seule nuit. Maintenant c’est plus calme, mais la particularité de cette période est que nous n’avons jamais aucune arrivée ». Les Terrasses Solidaires, le seul lieu qui garantissait un hébergement d’urgence pour les exilé·es à Briançon, a été fermé (lire nos articles sur la fermeture du refuge et sur la mobilisation des solidaires ici : https://www.lamuledupape.com/2021/11/05/personne-ne-doit-rester-dehors-les-solidaires-de-briancon-en-detresse et ici : https://www.lamuledupape.com/2021/11/16/a-briancon-les-solidaires-sunissent-face-a-lurgence) le 24 octobre en raison de problèmes d’insécurité liés à un trop grand afflux de personnes. Le lieu accueillait 250 migrant·es, alors que la jauge maximale était de 80 personnes. Depuis la fermeture, les conditions d’accueil ont empiré, dans une situation qui était déjà très compliquée.

    Parier sa vie : un chemin obligé ?

    La nuit de vendredi s’annonce calme : vers minuit, encore aucune arrivée. Maxime est confiant, d’autant plus qu’un « maraudeur » vient nous voire pour faire un salut et, pendant la conversation, nous communique un « rien à signaler » sur les sentiers qui mènent à Briançon. Ces solidaires, guides de montagne ou simples habitant·es de la ville, prennent pendant la nuit les routes et les sentiers le plus souvent parcouru·es par les migrant·es, pour secourir celles et ceux qui ont besoin d’aide. De plus en plus souvent, ils et elles repèrent des signes préoccupants aux alentours de la frontière : « La semaine dernière, on a trouvé deux poussettes en montagne. La neige commence à tomber, les températures tombent en dessous de 0oC la nuit. C’est pas possible de laisser les gens en montagne dans ces conditions » explique Maxime.

    À une heure du matin, alors que tout le monde sauf Maxime est plongé dans le sommeil, trois personnes arrivent à pied au camp. Le salarié des Terrasses les accueille dans une petite salle, leur offre de quoi manger et un thé chaud, se préoccupe de leur état de santé et de leurs pieds, leur donne des vêtements et des chaussettes. Les trois, en effet, sont arrivés avec les pieds enveloppés dans des baskets légères, rien d’autre. Le matin suivant, nous allons trouver trois bottes d’hiver sur le chemin sortant de la ville. Les exilé·es changent souvent d’habits pour rentrer en ville, histoire d’être un peu moins reconnaissables par policier·es et délateur·ices. À 5h, la même scène se répète. Cette fois, c’est cinq personnes, toutes d’origine afghane, qui arrivent au camp. Leurs conditions sont pires que celles de leurs camarades de voyage : deux d’entre eux ont les pieds congelés, un a mal au dos, un autre aux genoux. Maxime s’empresse de répondre à ces besoins, tout en parlant avec eux par le biais d’un traducteur improvisé. Ceux et celles qui arrivent du col peuvent, en effet, alerter sur d’autres personnes égarées sur les chemins de montagne.

    Les cinq Afghans nous disent qu’en Italie, c’était un groupe de 50 qui s’est approché de la frontière avec eux. Kamran, un d’entre eux, se préoccupe de l’état de deux amis, qui ont pris un chemin plus haut qu’eux pour éviter la police. Le jour suivant, nous apprendrons d’un maraudeur qu’au moins une vingtaine de personnes ont été retenues par la PAF (Police Aux Frontières) et refoulées en Italie. Une dizaine sont restées au pied du col et tenteront la traversée le lendemain, nous disent ceux qui viennent d’arriver. Mais Maxime se préoccupe du reste : une dizaine de personnes dont nous n’avons aucune nouvelle. Il ne reste qu’à attendre, sans savoir si dix personnes sont vraiment égarées sur les cols enneigés, ou pas.

    Les contrôles à la frontière, renforcés après l’arrivée d’un nouvel escadron (110 effectifs) de #Gendarmerie_mobile (GM) dans la ville après la fermeture des Terrasses Solidaires, forcent la main aux exilé·es, qui empruntent des chemins de plus en plus dangereux. La « #route_briançonnaise » elle-même n’existerait pas si le passage de la frontière entre Ventimille et Menton n’était pas devenu si difficile en 2015, annus horribilis des politiques migratoires européennes. La fermeture temporaire (qui commence à s’éterniser) des frontières internes à l’espace Schengen permet aux policier·es français·es des #refoulements de groupe illégaux, sur la base de l’#accord_de_réadmission franco-italien, entré en vigueur en 2000. L’accord prévoit que toute personne trouvée en situation irrégulière à l’entrée en France puisse être renvoyée en Italie. Il ne prévoit pas, pourtant, la suspension du droit d’asile. Or, les exilé·es arrêté·es par la #PAF et la GM n’ont pas la chance de demander l’asile en France, iels sont refoulé·es tout de suite.

    Cette #surenchère_sécuritaire a ainsi conduit les migrant·es à marcher d’abord à travers le col de l’Échelle, ensuite sur le Montgenèvre, maintenant encore plus haut, sur des chemins peu traqués et très dangereux. Le manque pérenne d’informations peut induire à penser que les morts exigés par la montagne soient plus que ce qu’on croit. Un migrant solitaire, un faux pas, le précipice : personne pourrait savoir, le corps pourrait ne plus jamais être retrouvé.

    La #solidarité est un sport de combat

    À 7h du matin, Kamran reçoit un appel de ses amis égarés la nuit d’avant : un d’entre eux est tombé sur le chemin, il a frappé sa tête contre un rocher. Ils ont besoin d’aide, ils demandent un secours médical. Maxime a passé une nuit d’insomnie, et il aurait terminé son tour de garde, mais il reste au camp et se donne de la peine pour arriver à les localiser. Personne n’arrive à les retrouver, et Maxime décide d’appeler les #pompiers, en leur donnant la dernière localisation connue des deux exilés, qu’ils ont signalé à Kamran. Un maraudeur se dirige également dans cette direction. Une fois sur place, il fait immédiatement demi-tour : au lieu des pompiers, c’est que des policiers qu’il trouve sur place. Le #18 a joué un mauvais tour aux solidaires, et la « sécurité » a primé sur le #secours aux personnes en danger. Maxime s’approche aussi des lieux, et subit un contrôle d’identité.

    Les solidaires de Briançon ne sont pas en bons termes avec la #police : le cas, très médiatisé, des « sept de Briançon » en est un exemple éclatant. Mais au-delà des affaires judiciaires, c’est un #harcèlement_policier quotidien qui rend difficile, parfois impossible, l’#aide apportée par les maraudeur·ses. Le matin du samedi, Bernard nous raconte que la nuit d’avant il a été contrôlé par la police : « C’était pour le feu de la plaque d’immatriculation. Ils m’ont collé une amende. Le policier m’a dit, textuel : ‘normalement on laisse courir ce genre de choses, mais comme c’est vous on applique la loi jusqu’aux virgules’ ». Sam, du collectif TousMigrants, est résigné : « On ne peut rien faire contre cela, nous devons être parfaitement irrépréhensibles. Ce que nous faisons n’est pas illégal et les policiers le savent, donc ils utilisent tous les moyens qu’ils ont pour nous en empêcher ».

    La police et la #gendarmerie ont commencé, récemment, à contrôler les papiers des migrant·es même en centre-ville, ce qui était peu courant auparavant. Briançon est en effet une ville de transit, où les gens ne s’arrêtent que quelques jours tout au plus pour ensuite continuer leur voyage. La politique de la #préfecture impose désormais des #contrôles_au_faciès partout en ville, ce qui force les solidaires à accompagner, en groupe, les exilé·es jusqu’au train ou au bus pour éviter les contrôles, illégaux, des papiers. Les départs sont encore plus compliqués par la nécessité d’avoir un #pass_sanitaire : la préfecture ayant fermé la permanence de la Croix-Rouge qui garantissait des tests gratuits aux migrant·es, ces dernier·es doivent désormais se faire tester par Médecins du Monde. Mais cette association a moins de moyens que la Croix-Rouge, les tests manquent et les opérations avancent au ralenti. Tout cela force les exilé·es à une attente de plusieurs jours dans Briançon, alors qu’aucun ne souhaite y rester.

    Les contrôles en ville préoccupent Maxime, qui veut retrouver les deux personnes dispersées avant qu’elles arrivent au centre-ville en plein jour. Il est pourtant impossible de savoir s’ils ont été arrêtés ou pas, ni où ils se trouvent actuellement. La méfiance est normale et se rajoute aux difficultés du chemin, conduisant les exilé.es à éviter tout contact, ne serait-ce que avec des simples randonneur.ses. Compréhensible, pour des personnes qui ont fait des milliers de kilomètres, s’exposant aux délations, aux tabassages et aux injures. Mehdi est arrivé à Briançon il y a deux jours, il vient du Kurdistan iranien. Pour lui « tous les Balkans c’est l’enfer, sauf la Bosnie. Partout ailleurs les gens font semblant de vouloir t’aider, puis ils appellent la police. Sinon ils te poursuivent et ils te frappent eux-mêmes. » Des expériences qui n’aident pas les solidaires briançonnais à obtenir la confiance des personnes en transit.

    Maxime n’a plus d’autre choix que d’attendre. Nous le suivons, à midi, sur un chemin qui mène en ville, et nous restons en attente, à l’entrée de la forêt. Le choix se base sur la probabilité, mais reste aléatoire : les deux voyageurs auraient pu prendre d’autres routes ou être déjà au poste de police. Nous restons a l’entrée de la ville plus d’une heure, toujours essayant d’entrer en contact avec les migrants. Au final, on renonce, et on reprend le chemin à inverse. On vient de repartir, quand en se retournant encore une fois, on voit deux jeunes hommes arriver vers nous, lourdement habillés, l’un d’eux blessé à la tête. Maxime court les rencontrer, heureusement la blessure n’est pas grave. Ils seront accompagnés au camp par les solidaires. L’aventure se termine bien, mais expose toutes les difficultés du boulot des solidaires, accompagné·es constamment par l’incertitude et harcelé·es par la police.

    Une frontière c’est pour toujours

    Les deux personnes qu’on a retrouvées viennent d’Iran. L’un des deux, Hasan, a 40 ans. Il est parti pour rejoindre sa famille en Allemagne. Les histoires racontées par les exilé·es sont toutes différentes, mais elles composent une seule, grande fresque. Leurs vies font des vagues qui se cassent parfois sur les barrages policiers et sécuritaires de la frontière, mais le plus souvent arrivent à passer. Dans l’acte, pourtant, elles restent marquées. Les exilé·es porteront la frontière avec elleux pour toujours, qu’iels parviennent à régulariser leur statut ou pas. La frontière marque, d’abord physiquement.

    Leurs difficultés ne commencent pas sur la frontière franco-italienne : ceux qui y arrivent ont déjà traversé soit la Méditerranée, soit la mer de barbelés, police et fascistes que sont devenus les Balkans. « On a eu récemment un mec qui s’était cassé la cheville en Bosnie il y a un an. Il ne s’est jamais soigné depuis, et il a continué son voyage. Elle était dans un état indescriptible », nous dit Maxime. Kamran, l’ami afghan de Hasan et de son compagnon de voyage, était patron d’une salle de musculation à Kaboul. Il était aussi body-builder, et pesait 130 kilos quand il est parti. « J’ai perdu 40 kilos. C’est pas bien pour le corps d’arrêter le body-building d’un jour à l’autre, c’est un choc. Maintenant j’espère travailler un peu à Paris et ensuite ouvrir ma salle de muscu là-bas ». Voici l’autre endroit où la frontière marque la vie des exilé·es : nous écoutons Kamran, mais nous savons que probablement il ne va jamais arriver à ouvrir sa salle. Si il pourra obtenir l’asile, il demeurera discriminé, pauvre, isolé dans un pays étranger et qui lui a signifié sans laisser de doutes qu’il ne veut pas de lui, de son histoire et de ses rêves. Le message de la frontière est clair, et il accompagnera Kamran et ses camarades de voyage pour toujours, malgré le travail des solidaires. Leur assistance, qui reste vitale, doit s’accompagner d’un changement radical du #régime_des_frontières, voire de son abolition. Autrement, elles continueront à nous diviser, à nous blesser, à nous tuer.

    https://www.lamuledupape.com/2021/12/08/la-frontiere-a-briancon-espoir-et-danger
    #frontières #asile #migrations #réfugiés

    –-> citation :

    « Les exilé·es porteront la frontière avec elleux pour toujours, qu’iels parviennent à régulariser leur statut ou pas. La frontière marque, d’abord physiquement. »

    –-

    Ajouté à la métaliste sur Briançon :
    https://seenthis.net/messages/733721
    Et plus précisément ici :
    https://seenthis.net/messages/733721#message930101

  • Borders bill, a new plan

    https://twitter.com/pritipatel/status/1468619562027528192

    #nouvelle_loi #loi #UK #Angleterre #asile #migrations #réfugiés #Priti_Patel #plan #nouveau_plan

    –-> un copier-coller du #modèle_australien

    –-

    Autour des « #offshore centres », voire :
    https://seenthis.net/messages/938880
    –-> et une métaliste sur les différentes tentatives de différentes pays européens d’#externalisation non seulement des contrôles frontaliers, mais aussi de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers :
    https://seenthis.net/messages/900122

    ping @karine4 @isskein

  • Le Kenya va fermer deux des plus grands camps de réfugiés au monde

    Le gouvernement kenyan a prévu de démanteler les camps de réfugiés de #Kakuma et de #Dadaab, deux des plus grands au monde, en juin 2022. Les ONG s’inquiètent du sort des quelque 400’000 personnes concernées.

    Avant la fuite des Rohingas de Birmanie vers Cox Bazar, au Bangladesh, le camp de Dadaab, au Kenya, était le plus grand au monde. Selon les chiffres du Haut-Commissariat de l’ONU pour les réfugiés (HCR), 220’000 personnes y vivent. Elles sont arrivées de Somalie en vagues successives, suite à la guerre civile qui a ravagé le pays en 1991 et après la sécheresse de 2011 et la famine qui a suivi.

    A Kakouma, les réfugiés sont arrivés en 2014 suite à la guerre civile qui a touché le Sud Soudan.

    Nairobi évoque une question de sécurité

    Pour le gouvernement kenyan, la fermeture de ces deux camps est une question de sécurité. Selon Nairobi, des attaques terroristes et des attentats auraient par exemple été planifiés depuis Dadaab. Dangereux et incontrôlable, le camp serait devenu un repaire de shebabs, les terroristes islamistes somaliens

    En mars dernier, les autorités kenyanes avaient donné deux semaines au HCR pour présenter un plan rapide de démantèlement des camps, plan qui a finalement été reporté.
    Des réfugiés « piégés » depuis des décennies

    La fermeture est désormais agendée à juin 2022 et cette décision inquiète les ONG et les spécialistes de l’humanitaire et de l’asile. C’est le cas notamment de Médecins sans Frontières (MSF). Dans un rapport publié lundi, l’organisation constate que les réfugiés sont piégés dans les camps depuis trois décennies : ils ne rentrent pas dans leur pays, toujours très instable et ravagé par la violence, l’insécurité ou la famine.

    Face à l’incertitude qui s’annonce, les dons diminuent et les organisations d’aide comme le Programme alimentaire mondial (PAM), par exemple, ont déjà revu leur assistance à la baisse.

    MSF souhaite qu’un plan d’intégration des réfugiés soit mis en œuvre au Kenya et dans d’autres pays d’accueil. C’est ce que demande d’ailleurs le Pacte mondial sur les réfugiés signé en 2018.
    Une intégration quasiment impossible

    Beaucoup de déplacés sont nés à Dadaab et ne connaissent rien d’autre que la vie dans ce camp devenu une véritable ville. Ils souhaitent rester au Kenya, mais ne peuvent ni travailler, ni voyager, ni étudier. C’est autant d’obstacles à leur intégration.

    L’accueil par d’autres pays tiers, lui, était déjà compliqué mais la pandémie de Covid-19 a encore complexifié les choses. De moins en moins d’Etats sont prêts à accepter des réfugiés des camps kenyans.

    Et comme il y a peu de chances que les déplacés rentrent chez eux volontairement, ils pourraient se disperser dans la nature après la fermeture des camps. Avec tous les risques de pauvreté, d’instabilité, de criminalité, d’immigration clandestine et de tensions sociales qu’une telle situation pourrait engendrer.

    https://www.rts.ch/info/monde/12699440-le-kenya-va-fermer-deux-des-plus-grands-camps-de-refugies-au-monde.html

    #réfugiés #asile #migrations #fermeture #camps_de_réfugiés

    –—

    –-> Une nouvelle qui revient régulièrement... voir cette métaliste sur seenthis :
    https://seenthis.net/messages/770807

  • When migrants go missing on the Atlantic route to Spain

    Hamido had heard nothing from his wife and child in 10 days since they set sail from Western Sahara for the Canary Islands — but then a boat was found with many dead onboard.

    Frantic and distraught, Hamido — an Ivorian national working in France — tried to contact the Spanish police and the authorities in Gran Canaria for news of his family.

    But no one could help him, so he flew to the island where he learned via the media that his wife had died on the boat, and his six-year-old daughter — who had watched her die — was completely traumatised.

    “This man contacted us, he was absolutely desperate because no one would give him any information,” said Helena Maleno of Caminando Fronteras, a Spanish NGO that helps migrant boats in distress and families searching for loved ones.

    For worried relatives, trying to find information about people lost on the notoriously dangerous route to the Spanish Atlantic archipelago can be a nightmare.
    Deadliest year since 1997

    In fact, 2021 has been a particularly deadly year for migrants trying to reach Spain, via either the Atlantic or the Mediterranean.
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    In the past two years, the number of dead and missing on the Atlantic route has increased nearly fivefold — from 202 in 2019 to 937 so far this year, the International Organization for Migration says LLUIS GENE AFP

    “The data show that 2021 seems to be the deadliest year on record since 1997, surpassing 2020 and 2006 as the two years with the highest recorded deaths,” said MMP’s Marta Sanchez Dionis.

    According to figures compiled with Spanish human rights organisation, APDHA, 10,236 people died between 1997 and 2021.

    But both organisations concede that the real number “could be much higher”.

    Caminando Fronteras — which tracks data from boats in distress, including the number of people on board — calculates that 2,087 people died or went missing in the Atlantic in the first half of 2021, compared with 2,170 for the whole of 2020.

    It was in late 2019 that the number of migrant arrivals in the Canaries began to rise, after increased patrols along Europe’s southern coast reduced Mediterranean crossings.

    But the numbers really took off in mid-2020 as the pandemic took hold, and so far this year, 20,148 have reached the archipelago, MMP figures show.
    Canary Islands AFP MAP

    The Atlantic route is extremely hazardous for the small, overloaded boats battling strong currents, with MMP saying “the vast majority of departures” were from distant ports in Western Sahara, Mauritania or even Senegal some 1,500 kilometres (900 miles) to the south.
    Boats become coffins

    The migrants hope that the boats will carry them to a new life in Europe, but for many, the vessels end up becoming their coffins.

    “I knew getting the boat was no good, but there was war in Mali and things were very difficult,” says ’Mamadou’, who left Nouadibou in Mauritania on a boat with 58 people in August 2020.
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    ’Mamadou’ was one of more than 50 people who took a boat from Nouadibou in Mauritania in August 2020 that got lost at sea for two weeks. He was one of just 11 survivors LLUIS GENE AFP

    After three days at sea, food and water ran out, and people began to die, images which still haunt him today.

    Wandering through the “boat cemetery” at Gran Canaria’s Arinaga port, the lanky teen falls silent as he looks at the shabby wooden hulls, overwhelmed by memories of the two weeks he and his fellow passengers spent lost at sea.

    He was one of just 11 survivors.

    “A lot of people died at sea. They didn’t make it...,” he says, a vacant look in his eyes.

    “Their families know they’ve gone to Spain, but they don’t know where they are.”

    Rescuers found five bodies in the boat. The rest had been thrown overboard, joining a growing list of uncounted dead.

    “These people shouldn’t be dying,” says Teodoro Bondyale of the Federation of African Associations in the Canary Islands (FAAC), standing by the grave of a Malian toddler who died in March, a faded blue teddy still perched on the mound of earth.
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    ’We are forcing people to travel on dangerous migratory routes where the risk of dying is very high,’ says Teodoro Bondyale, of the Federation of African Associations in the Canary Islands (FAAC) LLUIS GENE AFP

    At least 83 children died en route to the Canary Islands this year, MMP figures show.

    “If migration could be done normally with a passport and a visa, people could travel and try and improve their lives. And if it didn’t work, they could go home,” he told AFP.

    “But we are forcing them to travel on dangerous migratory routes, trafficked by unscrupulous people where the risk of dying is very high.”
    More boats, more deaths

    “Day after day the situation is getting worse, the number of boats and deaths this year has increased much more than last year,” immigration lawyer Daniel Arencibia told AFP.
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    This year, more than 20,000 people have reached the Canary Islands, the vast majority rescued by Spain’s Salvamento Maritimo lifeboat service LLUIS GENE AFP

    "The situation is complicated at a political level because there is no single body in charge of managing the search for the missing.

    “So it’s down to the families themselves and the people helping them. But many times they never find them.”

    Jose Antonio Benitez, a Catholic priest, uses his extensive network of contacts among the authorities and NGOs to try to help distraught families.

    “My role is to make it easier for families to get the clearest possible picture of where they might find their loved ones. Without a body, we cannot be sure a person has died, but we can tell them they’ve not been found in any of the places they should be,” he says.

    But even then, bureaucratic red tape and rigid data protection laws can often cause more suffering.

    Such was the case with several Moroccan family members who flew over after the coastguard found a boat on which 10 North Africans lost their lives.

    “They spent several days going round all the hospitals, but nobody gave them any answers because you have to have documentary proof that you are a relative,” Benitez told AFP.
    PHOTO ’If we had other laws and safe corridors, if immigration was allowed, this would not be happening,’ says Catholic priest Jose Antonio Benitez, who helps families track down their missing loved ones LLUIS GENE AFP

    They eventually found the bodies of their loved ones in the morgue.

    “The laws of Europe and Spain are profoundly inhumane,” Benitez said.

    “If we had other laws and safe corridors, if immigration was allowed, this would not be happening.”
    Red Cross pilot programme

    Since mid-June, Caminando Fronteras has been helping 570 families trace people missing in the Atlantic, while the Spanish Red Cross has received 359 search requests.
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    Malian migrant ’Mamadou’ shows a picture of the boat he arrived on where dozens of people died LLUIS GENE AFP

    By the end of November, the Spanish Red Cross had recovered just 79 bodies on the Canaries route, internal data show, but experts say most of the dead will never be found.

    “What happens to these families when there are no bodies? You have to find other ways to reach the same goal,” says Jose Pablo Baraybar, a forensic anthropologist running an ICRC pilot programme in the Canary Islands with the Spanish Red Cross.

    The aim is to clarify the fate of the disappeared by pooling information from multiple sources on a collaborative platform to build a picture of who was on the boat and what happened, with accredited users feeding data directly into the system.

    “More than finding people, it’s about providing authoritative, if partial, answers,” Baraybar said.

    https://www.france24.com/en/live-news/20211203-when-migrants-go-missing-on-the-atlantic-route-to-spain?ref=tw
    #décès #morts #asile #migrations #réfugiés #frontières #Espagne #route_atlantique #Canaries #îles_canaries #Atlantique

  • La #coopération UE-Égypte sur les politiques migratoires : dépolitiser les enjeux, soutenir un régime autoritaire

    Le président égyptien Abdel-Fattah #Al-Sissi affirme avec fierté qu’aucun bateau d’immigration dite « clandestine » n’a quitté les côtes égyptiennes depuis 2016 à destination de l’Europe – un discours largement démenti par les communautés migrantes en Égypte. Or, depuis 2016, la coopération entre l’#Union_Européenne et l’Égypte sur le contrôle des migrations n’a cessé de s’accroître, permettant la création d’un « Comité national de lutte contre l’immigration irrégulière et le trafic d’êtres humains », la promulgation d’un texte de loi réprimant le trafic des passeurs, ainsi que la tenue de dizaines d’« ateliers » internationaux à destination des garde-frontières, policiers et juges égyptien·ne·s.

    Le texte de 2017 définissant les priorités de partenariat entre l’Union Européenne et l’Égypte affirme que cette coopération est « guidée par un engagement commun pour les valeurs universelles de démocratie, de l’État de droit et du respect des droits humains ». Pourtant, depuis l’arrivée au pouvoir du régime militaire d’Abdel Fattah Al-Sissi en 2013, le nombre de prisonnièr·e·s politiques est estimé à plus de 60 000 (Human Rights Watch, 2018). Les militant·e·s des droits humains et les avocat·e·s en droit des personnes étrangères, accusé·e·s de « porter atteinte à la sûreté de l’État », ont été particulièrement ciblé·e·s par cette répression. Les arrestations et la détention des personnes étrangères (y compris celles qui possèdent un statut de réfugié·e) ont également augmenté de manière exponentielle entre 2015 et 2017. Le gouvernement militaire du maréchal Al-Sissi a par ailleurs défini les zones frontières comme des « zones militaires » où la répression des migrations irrégularisées échappe à tout contrôle de la loi.

    Alors que les dispositifs d’accueil et de protection des organisations internationales sur le territoire égyptien ne cessent de se dégrader, le gouvernement « gère » l’accueil des personnes migrantes et réfugiées avec des méthodes contre-terroristes. Dans ce contexte, et en totale opposition avec les valeurs affichées, la coopération européenne avec l’État égyptien agit comme un soutien au gouvernement autoritaire d’Al-Sissi et à sa politique de répression généralisée des personnes en migration tout comme des citoyen·ne·s égyptien·ne·s.

    Le présent rapport - fruit d’une enquête de terrain de cinq mois (octobre 2019-février 2020) basée principalement au Caire - s’attache à déconstruire les discours officiels sur la question migratoire en Égypte, en montrant que la coopération euro-égyptienne sur la « gestion migratoire » a servi de prétexte à une forte instrumentalisation de la question des migrations par le gouvernement égyptien depuis 2013-2014. Loin d’avoir garanti les droits des personnes en migration en application du droit international, cette coopération a entraîné une dégradation des libertés et des conditions de vie pour l’ensemble de la population (nationale, immigrée, réfugiée) vivant sur le territoire égyptien. Une coopération, qui répond avant tout aux intérêts stratégiques des États membres de l’UE et de l’État égyptien...

    https://migreurop.org/article3072.html?lang=fr

    #migrations #asile #réfugiés #Egypte #externalisation #frontières #contrôles_migratoires #partenariat #UE #EU #union_européenne #rapport #migreurop

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    ajouté à la métaliste sur l’externalisation des politiques migratoires :
    https://seenthis.net/messages/731749

    et plus précisément :
    https://seenthis.net/messages/731749#message767801

  • Polish concert for troops defending border to feature #Las_Ketchup and #Lou_Bega

    Poland’s defence ministry and state broadcaster #TVP will this weekend hold a concert to show support for troops defending the eastern border, where tens of thousands of mostly Middle Eastern migrants have been seeking to cross from Belarus.

    As well as a number of domestic stars, the event will also feature international performers including Spanish girl group Las Ketchup – famous for their 2002 hit “The Ketchup Song” – and German singer Lou Bega, best known for “Mambo No. 5”.

    The concert, titled “#Murem_za_polskim_mundurem” (roughly: Support for the Polish uniformed services), will take place on Sunday at an air base in the town of #Mińsk_Mazowiecki, around 40 kilometres to the east of Warsaw.

    It will be broadcast on the main channel of TVP, which, like other state media, is under government influence. The “great concert of support for the defenders of the Polish borders” will feature “European stars”, declared TVP’s CEO, Jacek Kurski.

    As well as Las Ketchup and Lou Bega, performers at the event include #No_Mercy (known for 1996 hit “Where Do You Go?), #Loona, German Eurodance project #Captain_Jack (known for their eponymous 1995 single), and former #Ace_of_Base lead singer #Jenny_Berggren.

    The concert will also feature “undisputed stars of the Polish stage”, including #Edyta_Górniak, #Jan_Pietrzak, #Halina_Frąckowiak and #Viki_Gabor, says TVP. Gabor is known to international audiences as the winner of the Junior Eurovision Song Contest in 2019.

    One opposition MP, however, was left unimpressed by the plans, noting that a number of migrants and refugees have died at the border while trying to cross in increasingly harsh weather conditions. Human Rights Watch recently accused both Poland and Belarus of “abusing” migrants.

    “A concert when people are dying at the border,” tweeted Maciej Gdula of The Left. “Only Jacek Kurski could come up with something like that.”

    https://notesfrompoland.com/2021/12/03/polish-concert-for-troops-defending-border-to-feature-las-ketchup-a

    #propagande #art #concert #Pologne #asile #migrations #réfugiés #frontières #télévision #musique #indécence

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    ajouté à la métaliste de #campagnes de #dissuasion à l’#émigration (même si cet événement est un peu différent, car il est organisé en soutien aux troupes qui « gardent la frontière ») :
    https://seenthis.net/messages/763551

  • Tories break ranks on immigration to demand safe routes to UK for asylum seekers

    Exclusive: Allowing asylum claims to be made outside the UK is ‘only viable alternative’ to deaths in Channel, says backbencher

    Senior Tories have demanded a radical overhaul of the asylum system to allow migrants to claim refuge at UK embassies anywhere in the world – rather than having to travel to the UK – in a bid to cut the numbers attempting dangerous Channel crossings.

    Ex-cabinet members #David_Davis and #Andrew_Mitchell are among those calling for the change, which marks a stark challenge to the punitive approach taken by Boris Johnson and Priti Patel, who are demanding tighter controls on French beaches and are threatening to “push back” small boats at sea.

    Mr Davis, the former shadow home secretary and Brexit secretary, and Mr Mitchell, the former international development secretary, also poured scorn on the home secretary’s plan to take on powers through her Nationality and Borders Bill to send migrants arriving in the UK to camps in third countries overseas for processing – something that has already been ruled out by Albania after it was named as a potential destination.

    Writing for The Independent, Pauline Latham, a Conservative member of the Commons International Development Committee, said that allowing migrants to claim asylum at embassies abroad was “the only viable alternative to the tragedy of deaths in the Channel and the chaos of our current approach”.

    Twenty-seven migrants, including three children and a pregnant woman, drowned off the coast of France in November when their boat sank, marking the single biggest loss of life of the crisis so far.

    The Home Office is opposing an opposition amendment to the borders bill, due for debate in the House of Commons this week, which would allow migrants to seek “humanitarian visas” in France, allowing them to be transported safely across the Channel to claim asylum.

    But Ms Latham’s proposal goes a step further, removing the need for asylum seekers to pay thousands of pounds to criminal gangs to smuggle them into Europe and then risk their lives in order to reach Britain to make their claim.

    The Mid Derbyshire MP said: “This feels to me like a genuine win-win. The customer base of the people smugglers would vanish, ending deaths in the Channel and ensuring that people seeking safety here can travel in a humane fashion.

    “The UK would be better able to control who arrives here, and anyone arriving without a visa or pre-approved asylum claim would face non-negotiable deportation.”

    Current government policy has “got it the wrong way round” and should be reshaped as a “global resettlement programme” similar to those set up in Syria and being established for Afghanistan, said Ms Latham.

    With the vast majority of those arriving in the UK by small boat having a legitimate claim for asylum, the question Ms Patel must answer is why the UK’s current policy requires them to put themselves in the hands of lawless gangs and then risk their lives in order to be able to submit their paperwork, she said.

    “Desperate people will continue to seek safety in the UK for as long as there is conflict and persecution elsewhere,” said Ms Latham. “But nobody puts their child in an overcrowded, flimsy dinghy on a cold November morning if they think a better alternative is available. So, when we talk about deterrence we have to talk about alternatives.”

    And Mr Davis said: “Instead of a policy which is built solely on keeping people out, the government should consider creating a legitimate route in for genuine refugees. Migrants fleeing repression in Iran or famine in war-torn Yemen are not able to apply at British embassies. The only options available to them are either illegal, or dangerous, or both.”

    The bill being debated in the Commons on Tuesday and Wednesday aims to deter small-boat crossings by restricting the rights of those who enter the UK by “irregular” routes, allowing “offshore” processing of claims in third countries, and speeding up the removal of failed asylum seekers.

    It would also give border and immigration staff powers to redirect boats out of UK territorial waters in a way that MPs and unions have warned could increase the risk of capsize and deaths.

    Mr Davis said that offshoring would represent a “moral, economic and practical failure”, inflicting a terrible ordeal on those fleeing terror and persecution.

    And Mr Mitchell said: “So far, Norway, Rwanda and Albania have all distanced themselves from suggestions that they would host a UK offshore processing centre. The bill seeks a power for a policy which the government is yet to define.

    “Even in Australia, 75 per cent of those sent to remote islands for processing eventually had their claims upheld. Indeed, most of the people crossing the Channel are also having their asylum claims upheld. Offshore processing looks like a policy which delays the inevitable. But at far greater cost to the taxpayer.”

    The Labour MP behind the humanitarian visa amendment, Neil Coyle, said Ms Patel’s proposals “will cause more dangerous routes and more risk to people seeking to reach the UK”. He told The Independent it was “garbage” for her to claim they would reduce the so-called “pull factors” attracting those fleeing war, civil conflict or persecution to Britain.

    “A humanitarian visa offers the government the chance to prove it means what it says, when it says it doesn’t want people to be subjected to gangs and criminality,” said Mr Coyle. “The amendment would save lives, help us meet our international obligations, and prevent money going to smugglers.”

    Stephen Farry of the Alliance Party, backing the amendment alongside MPs from the SNP, Liberal Democrats, Green Party and Labour, said: “Claiming asylum in the UK is a fundamental right, but asylum seekers are in a Catch-22, whereby asylum can only be claimed on UK soil yet the UK provides no safe and legal routes to enter the country for those purposes.

    “The home secretary doesn’t care about asylum seekers, but if she were serious about tackling people smuggling, this visa is a workable solution.”

    But a Home Office spokesperson said: “The government has noted the amendments relating to asylum visas for persons in France and they will be debated in parliament in due course.

    “However, there is the risk of creating a wider pull factor, putting vulnerable people in danger by encouraging them to make dangerous journeys across the Mediterranean and overland to France in order to make claims to enter the UK, motivating people to again entrust themselves to heinous smugglers.”

    The chief executive of the Joint Council for the Welfare of Immigrants, Minnie Rahman, dismissed this argument.

    “Like people who travel to the UK for work or study, people seeking protection in the UK deserve safe ways of getting here,” she said. “If the government were serious about preventing dangerous crossings and upholding our commitment to refugee protection, they would back this amendment. Instead it seems they’re happy to continue driving refugees into smugglers’ boats.”

    And Bridget Chapman, of the Kent Refugee Action Network, said: “The simple fact is that those who have made this journey tell us that they never wanted to leave their homes in the first place. It wasn’t the ‘pull factors’ that made it happen, it was violent ‘push factors’, such as war, conflict and persecution.

    “Once displaced, most people stay close to their country of origin and only a relatively small number come to the UK. There is no evidence whatsoever that making their journey to the UK marginally more safe would be a ‘pull factor’, and we cannot allow that to be used as a reason not to give them better and safer options.”

    Bella Sankey, director of Detention Action, said: “This humanitarian visa amendment would help to prevent deaths in the Channel and undermine the dangerous boat journeys offered by people smugglers.

    “If the government is concerned about a so-called ‘pull factor’, they should show clear evidence of it and then expand this amendment to include refugees further upstream.”

    https://www.independent.co.uk/news/uk/politics/migrants-channel-borders-latham-patel-b1969795.html

    #ambassades #Angleterre #UK #asile #migrations #réfugiés #
    #offshore_asylum_processing #ambassade

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    ajouté à la métaliste sur l’#externalisation de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers :
    https://seenthis.net/messages/900122

    • Dismay at UK’s offshore detention plans for asylum seekers

      Detainees and workers from Australia’s offshore detention camps say Britain is ignoring the failings and financial costs of that system.

      As people who were detained indefinitely in Australia’s offshore camps on Nauru and Manus Island, Papua New Guinea, and as professionals who were employed there, we are deeply concerned that the UK government will attempt this week to grant itself the same power to send people seeking asylum to offshore detention centres.

      We have watched with dismay as the UK government has drafted legislation that allows for the indefinite detention offshore of women, men and children, refused a probing amendment to exclude survivors of trafficking and torture from being sent to offshore detention centres, and ignored the failings and financial costs of the Australian experiment, which saw the Australian government spend £8.6bn to detain 3,127 people in appalling conditions, while failing to end dangerous boat journeys.

      Two of us lost a combined 13 years of our lives trapped in offshore camps, with no indication of when we would be free. Others in the same situation lost their lives. The authorities insisted we would never reach Australia. Now, like more than two-thirds of the people detained offshore, we are recognised refugees, living in the US and Australia. We cannot imagine why any country would replicate such a cruel, costly and ultimately futile system.

      Finally, consider why a government that has no intention of detaining children offshore would give itself the power to do so. Or why any law that claims to protect people entitled to asylum would instead hide them away in offshore detention camps.

      Authors: Thanush Selvarasa and Elahe Zivardar Former offshore detainees, Dr Nick Martin and Carly Hawkins Former medical officer and former teacher, Nauru detention centre

      https://www.theguardian.com/uk-news/2021/dec/05/dismay-at-uk-offshore-detention-plans-for-asylum-seekers?CMP=Share_iOSA

  • Pétition « Pour en finir avec les morts en Méditerranée ! » (2020)

    18 décembre : Le Conseil national (CN) a rejeté deux textes visant à « en finir avec les morts en Méditerranée ». À travers la motion (19.3479), l’élue socialiste Mattea Meyer demandait à ce que la Suisse participe à la mise en place d’une structure de sauvetage civil en mer organisée et financée au niveau européen et d’un système de répartition des personnes sauvées en mer, qu’elle soutienne les communes prêtes à accueillir des réfugiés arrivés par bateau et enfin qu’elle participe à un programme de réinstallation des personnes en quête de protection détenues en Libye. La pétition (20.2000) déposée par Solidaritätsnetz et ayant les mêmes revendications n’a pas eu plus de succès.
    La majorité de la Commission des institutions politiques du CN a repris à son compte l’argument du DFJP pour qui « l’accueil sur une base ad hoc de migrants sauvés en mer sans tenir compte ni des critères Dublin ni des perspectives des personnes concernées d’obtenir l’asile » ne serait « pas de nature à favoriser le but visé ». Elle estime aussi que « la mise en place d’un système de sauvetage civil en mer organisé et financé par l’Europe et la création d’un système de répartition à l’échelle européenne auraient l’effet indésirable d’encourager encore davantage de personnes à traverser la mer Méditerranée »…

    https://asile.ch/2021/04/01/chroniques-suisse-du-23-novembre-2020-au-27-janvier-2021

    Réponse sur le site du parlement suisse :
    https://www.parlament.ch/fr/ratsbetrieb/suche-curia-vista/geschaeft?AffairId=20202000
    Pour télécharger la réponse :


    https://www.parlament.ch/centers/kb/_layouts/15/DocIdRedir.aspx?ID=4U7YAJRAVM7Q-1-48213

    #appel_d'air #Suisse #Méditerranée #Mer_Méditerranée #asile #migrations #réfugiés #sauvetage

  • L’#Europe, derrière murs et #barbelés

    A l’été 2021, la crise afghane a ravivé les divisions européennes. Entre devoir d’accueil et approche sécuritaire, l’UE n’arrive toujours pas à parler d’une même voix face aux demandeurs d’asile. Le déséquilibre est fort entre les pays d’arrivée, comme la Grèce ou l’Italie, aux centres d’accueil débordés, les pays de transit à l’Est, rétifs à l’idée même d’immigration, et les pays d’accueil au Nord et à l’Ouest de l’Europe, soucieux de ne pas froisser un électorat de plus en plus sensible sur ces questions. Résultat : plus de 30 ans après la chute du mur de Berlin et la fin du Rideau de fer, l’Europe n’a jamais érigé autant de murs à ses frontières.

    https://www.arte.tv/fr/videos/100627-116-A/europe-la-tentation-des-murs

    #murs #barrières_frontalières #asile #migrations #réfugiés #film #vidéo #reportage #histoire #chronologie #financement #financements #frontières_extérieures #refoulements #push-backs #Frontex #technologie #complexe_militaro-industriel

    On dit dans le reportage qu’il y aurait « plus de 1000 km d’infrastructure destinée à barrer la route aux migrants »

    La rhétorique de l’#afflux et de l’#invasion est insupportable dans cette vidéo.

  • L’industrie de la #sécurité tire profit de la crise climatique

    Les pays riches, pires contributeurs au #changement_climatique, dépensent bien plus d’argent à renforcer leurs #frontières qu’à contribuer au #développement des pays pauvres : c’est ce qu’a étudié un rapport du Transnational Institute. Les habitants de ces pays sont pourtant les premières victimes de l’alliance occidentale entre business du #pétrole et de la sécurité.

    Le changement climatique est bon pour le #business. Du moins celui de la sécurité. C’est ce que démontre un #rapport publié ce lundi 25 octobre par l’organisation de recherche et de plaidoyer Transnational Institute. Intitulé « un mur contre le climat », il démontre que les pays les plus riches dépensent bien plus pour renforcer leurs frontières contre les migrants que pour aider les pays pauvres, d’où ils viennent, à affronter la crise climatique.

    Il décortique les #dépenses, dans ces deux domaines, des sept pays riches historiquement les plus émetteurs de gaz à effet de serre que sont les États-Unis, l’Allemagne, la France, le Japon, l’Australie, le Royaume-Uni et le Canada. Ils sont à eux sept responsables de 48 % des émissions de gaz à effet de serre dans le monde. Le Brésil, la Chine et la Russie, qui font partie des dix plus gros émetteurs aujourd’hui, ne sont pas inclus car, s’étant enrichis beaucoup plus récemment, ils ne sont pas considérés comme des responsables historiques.

    2,3 fois plus de dollars pour repousser les migrants que pour le climat

    Pour les États étudiés, les auteurs ont regardé leur contribution au « #financement_climatique » : prévu par les négociations internationales sur le climat, il s’agit de fonds que les pays riches s’engagent à verser aux pays dits en développement pour les aider à faire face à la crise climatique. Ils ont ensuite traqué les sommes allouées par chaque pays aux contrôles frontaliers et migratoires. Résultat : entre 2013 et 2018, ces sept pays ont en moyenne dépensé chaque année au moins 2,3 fois plus pour repousser les migrants (33,1 milliards de dollars) que pour contribuer au financement climatique (14,4 milliards de dollars). Et encore, les auteurs du rapport signalent que les pays riches ont tendance à surestimer les sommes allouées au financement climatique.

    Une disproportion encore plus criante quand on regarde en détail. Le Canada a dépensé 15 fois plus, l’Australie 13,5 fois plus, les États-Unis 10,9 fois plus. À noter que ces derniers sont en valeur absolue les plus dépensiers, ils ont à eux seuls mis 19,6 milliards dans la sécurité de leurs frontières sur la période, soit 59 % de la somme totale allouée par les sept pays réunis.

    Le cas des pays européens est moins explicite. La France pourrait avoir l’air de bon élève. A priori, elle dépense moins dans les contrôles aux frontières (1 milliard) que dans le financement climatique (1,6 milliard). Idem pour l’Allemagne (3,4 milliards dans la militarisation des frontières contre 4,4 milliards dans le financement climatique). Mais ce serait oublier qu’une grande partie des dépenses sécuritaires est déportée au niveau de l’Union européenne et de l’agence de contrôle des frontières Frontex. Celle-ci a vu son budget exploser, avec une augmentation de 2 763 % entre 2006 et 2021.

    Cet argent est très concrètement dépensé dans diverses #technologies#caméras, #drones, systèmes d’#identification_biométriques, et dans l’embauche de #gardes-frontières et de #gardes-côtes. « Il y a aussi une #externalisation, avec par exemple l’Union européenne qui conclue des accords avec les pays d’Afrique du Nord et des régimes totalitaires, pour qu’ils empêchent les migrants d’arriver jusqu’à leurs frontières », décrit Nick Buxton, un des auteurs du rapport interrogé par Reporterre. Ces partenariats contribuent à la multiplication des murs anti-migrants partout dans le monde. « La plupart des grands constructeurs de murs du monde ont reçu une aide des programmes d’externalisation de l’Union européenne ou des États-Unis (ou des deux, dans le cas de la Jordanie, du Maroc et de la Turquie) », pointe le rapport.

    L’édification de ces murs empêche-t-elle les pays riches de voir le drame qui se déroule derrière ? À travers divers exemples, les auteurs tentent de montrer l’injustice de la situation : en Somalie, à la suite d’une catastrophe climatique en 2020, un million de personnes ont dû se déplacer. Pourtant, le pays n’est responsable que « de 0,00027 % du total des émissions depuis 1850. » Au Guatemala, l’ouragan Eta ainsi que les inondations fin 2020 ont provoqué le déplacement de 339 000 personnes. Le pays « a été responsable de seulement 0,026 % des émissions de gaz à effet de serre ». Nombre de ces migrants Guatémaltèques tentent désormais d’atteindre les États-Unis, responsables à eux seuls de 30,1 % des émissions depuis 1850.

    Pourtant, parmi les pays riches, « les stratégies nationales de #sécurité_climatique, depuis le début des années 2000, ont massivement présenté les migrants comme des « menaces » et non comme les victimes d’une injustice », indique la synthèse du rapport. Le 11 septembre 2001, en particulier, a accéléré la tendance. Qui s’est maintenue : les budgets de militarisation des frontières ont augmenté de 29 % entre 2013 et 2018. Une orientation politique mais aussi financière, donc, saluée par l’industrie de la sécurité et des frontières.
    Taux de croissance annuel : 5,8 %

    « Des prévisions de 2019 de ResearchAndMarkets.com annonçaient que le marché de la sécurité intérieure des États allait passer de 431 milliards de dollars en 2018 à 606 milliards en 2024, avec un taux de croissance annuel de 5,8 % », indique le rapport. Une des raisons majeures invoquée étant « l’augmentation des catastrophes naturelles liées au changement climatique ». Il cite également la sixième entreprise mondiale en termes de vente de matériel militaire, Raytheon. Pour elle, l’augmentation de la demande pour ses « produits et services militaires […] est le résultat du changement climatique ».

    Transnational Institute, qui travaille sur cette industrie depuis un certain temps, a ainsi calculé qu’aux États-Unis, entre 2008 et 2020, les administrations de l’immigration et des frontières « ont passé plus de 105 000 contrats d’une valeur de 55 milliards de dollars avec des entreprises privées. » Si le mur de Trump a défrayé la chronique, « Biden n’est pas mieux », avertit Nick Buxton. « Pour financer sa campagne, il a reçu plus d’argent de l’industrie de la sécurité des frontières que Trump. »

    L’Union européenne aussi a droit à son lobbying. « Ces entreprises sont présentes dans des groupes de travail de haut niveau, avec des officiels de l’UE. Ils se rencontrent aussi dans les salons comme celui de Milipol », décrit Nick Buxton.

    #Pétrole et sécurité partagent « le même intérêt à ne pas lutter contre le changement climatique »

    Le rapport souligne également les liens de cette industrie de la sécurité avec celle du pétrole. En résumé, il décrit comment les majors du pétrole sécurisent leurs installations en faisant appel aux géants de la sécurité. Mais il souligne aussi que les conseils d’administration des entreprises des deux secteurs ont beaucoup de membres en commun. Des liens concrets qui illustrent, selon Nick Buxton, le fait que « ces deux secteurs ont le même intérêt à ne pas lutter contre le changement climatique. L’industrie pétrolière car cela va à l’encontre de son business model. L’industrie de la sécurité car l’instabilité provoquée par la crise climatique lui apporte des bénéfices. »

    Autant d’argent dépensé à protéger les énergies fossiles et à refouler les migrants, qui « ne fait que maintenir et générer d’immenses souffrances inutiles » dénonce le rapport. Les pays riches avaient promis d’atteindre 100 milliards de financements climatiques annuels pour les pays en développement d’ici 2020. En 2019, ils n’en étaient qu’à 79,6 milliards selon l’OCDE. Et encore, ce chiffre est très surévalué, estime l’ONG Oxfam, qui en déduisant les prêts et les surévaluations aboutit à environ trois fois moins. C’est cette estimation que les experts du Transnational Institute ont adoptée.

    « Il est évident que les pays les plus riches n’assument pas du tout leur responsabilité dans la crise climatique », conclut donc le rapport. Il prône des investissements dans la lutte contre le changement climatique, et des aides pour que les pays les plus pauvres puissent gérer dignement les populations contraintes de se déplacer. À l’inverse, le choix de la militarisation est « une stratégie vouée à l’échec, même du point de vue de l’intérêt personnel des pays les plus riches, car elle accélère les processus d’instabilité et de migration induite par le climat dont ils s’alarment. »

    https://reporterre.net/L-industrie-de-la-securite-tire-profit-de-la-crise-climatique

    #complexe_militaro-industriel #climat

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    déjà signalé ici par @kassem
    https://seenthis.net/messages/934692

    • Global Climate Wall. How the world’s wealthiest nations prioritise borders over climate action

      This report finds that the world’s biggest emitters of green house gases are spending, on average, 2.3 times as much on arming their borders as they are on climate finance. This figure is as high as 15 times as much for the worst offenders. This “Global Climate Wall” aims to seal off powerful countries from migrants, rather than addressing the causes of displacement.

      Executive summary

      The world’s wealthiest countries have chosen how they approach global climate action – by militarising their borders. As this report clearly shows, these countries – which are historically the most responsible for the climate crisis – spend more on arming their borders to keep migrants out than on tackling the crisis that forces people from their homes in the first place.

      This is a global trend, but seven countries in particular – responsible for 48% of the world’s historic greenhouse gas (GHG) emissions – collectively spent at least twice as much on border and immigration enforcement (more than $33.1 billion) as on climate finance ($14.4 billion) between 2013 and 2018.

      These countries have built a ‘Climate Wall’ to keep out the consequences of climate change, in which the bricks come from two distinct but related dynamics: first, a failure to provide the promised climate finance that could help countries mitigate and adapt to climate change; and second, a militarised response to migration that expands border and surveillance infrastructure. This provides booming profits for a border security industry but untold suffering for refugees and migrants who make increasingly dangerous – and frequently deadly – journeys to seek safety in a climate-changed world.
      Key findings:

      Climate-induced migration is now a reality

      - Climate change is increasingly a factor behind displacement and migration. This may be because of a particular catastrophic event, such as a hurricane or a flash flood, but also when the cumulative impacts of drought or sea-level rise, for example, gradually make an area uninhabitable and force entire communities to relocate.
      – The majority of people who become displaced, whether climate-induced or not, remain in their own country, but a number will cross international borders and this is likely to increase as climate-change impacts on entire regions and ecosystems.
      – Climate-induced migration takes place disproportionately in low-income countries and intersects with and accelerates with many other causes for displacement. It is shaped by the systemic injustice that creates the situations of vulnerability, violence, precarity and weak social structures that force people to leave their homes.

      Rich countries spend more on militarising their borders than on providing climate finance to enable the poorest countries to help migrants

      – Seven of the biggest emitters of GHGs – the United States, Germany, Japan, the United Kingdom, Canada, France and Australia – collectively spent at least twice as much on border and immigration enforcement (more than $33.1 billion) as on climate finance ($14.4 billion) between 2013 and 2018.1
      - Canada spent 15 times more ($1.5 billion compared to around $100 million); Australia 13 times more ($2.7 billion compared to $200 million); the US almost 11 times more ($19.6 billion compared to $1.8 billion); and the UK nearly two times more ($2.7 billion compared to $1.4 billion).
      - Border spending by the seven biggest GHG emitters rose by 29% between 2013 and 2018. In the US, spending on border and immigration enforcement tripled between 2003 and 2021. In Europe, the budget for the European Union (EU) border agency, Frontex, has increased by a whopping 2763% since its founding in 2006 up to 2021.
      - This militarisation of borders is partly rooted in national climate security strategies that since the early 2000s have overwhelmingly painted migrants as ‘threats’ rather than victims of injustice. The border security industry has helped promote this process through well-oiled political lobbying, leading to ever more contracts for the border industry and increasingly hostile environments for refugees and migrants.
      - Climate finance could help mitigate the impacts of climate change and help countries adapt to this reality, including supporting people who need to relocate or to migrate abroad. Yet the richest countries have failed even to keep their pledges of meagre $100 billion a year in climate finance. The latest figures from the Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD) reported $79.6 billion in total climate finance in 2019, but according to research published by Oxfam International, once over-reporting, and loans rather than grants are taken into account, the true volume of climate finance may be less than half of what is reported by developed countries.
      – Countries with the highest historic emissions are fortifying their borders, while those with lowest are the hardest hit by population displacement. Somalia, for example, is responsible for 0.00027% of total emissions since 1850 but had more than one million people (6% of the population) displaced by a climate-related disaster in 2020.

      The border security industry is profiteering from climate change

      - The border security industry is already profiting from the increased spending on border and immigration enforcement and expects even more profits from anticipated instability due to climate change. A 2019 forecast by ResearchAndMarkets.com predicted that the Global Homeland Security and Public Safety Market would grow from $431 billion in 2018 to $606 billion in 2024, and a 5.8% annual growth rate. According to the report, one factor driving this is ‘climate warming-related natural disasters growth’.
      – Top border contractors boast of the potential to increase their revenue from climate change. Raytheon says ‘demand for its military products and services as security concerns may arise as results of droughts, floods, and storm events occur as a result of climate change’. Cobham, a British company that markets surveillance systems and is one of the main contractors for Australia’s border security, says that ‘changes to countries [sic] resources and habitability could increase the need for border surveillance due to population migration’.
      – As TNI has detailed in many other reports in its Border Wars series,2 the border security industry lobbies and advocates for border militarisation and profits from its expansion.

      The border security industry also provides security to the oil industry that is one of main contributors to the climate crisis and even sit on each other’s executive boards

      - The world’s 10 largest fossil fuel firms also contract the services of the same firms that dominate border security contracts. Chevron (ranked the world’s number 2) contracts with Cobham, G4S, Indra, Leonardo, Thales; Exxon Mobil (ranking 4) with Airbus, Damen, General Dynamics, L3Harris, Leonardo, Lockheed Martin; BP (6) with Airbus, G4S, Indra, Lockheed Martin, Palantir, Thales; and Royal Dutch Shell (7) with Airbus, Boeing, Damen, Leonardo, Lockheed Martin, Thales, G4S.
      – Exxon Mobil, for example, contracted L3Harris (one of the top 14 US border contractors) to provide ‘maritime domain awareness’ of its drilling in the Niger delta in Nigeria, a region which has suffered tremendous population displacement due to environmental contamination. BP has contracted with Palantir, a company that controversially provides surveillance software to agencies like the US Immigration and Customs Enforcement (ICE), to develop a ‘repository of all operated wells historical and real time drilling data’. Border contractor G4S has a relatively long history of protecting oil pipelines, including the Dakota Access pipeline in the US.
      - The synergy between fossil fuel companies and top border security contractors is also seen by the fact that executives from each sector sit on each other’s boards. At Chevron, for example, the former CEO and Chairman of Northrop Grumman, Ronald D. Sugar and Lockheed Martin’s former CEO Marilyn Hewson are on its board. The Italian oil and gas company ENI has Nathalie Tocci on its board, previously a Special Advisor to EU High Representative Mogherini from 2015 to 2019, who helped draft the EU Global Strategy that led to expanding the externalisation of EU borders to third countries.

      This nexus of power, wealth and collusion between fossil fuel firms and the border security industry shows how climate inaction and militarised responses to its consequences increasingly work hand in hand. Both industries profit as ever more resources are diverted towards dealing with the consequences of climate change rather than tackling its root causes. This comes at a terrible human cost. It can be seen in the rising death toll of refugees, deplorable conditions in many refugee camps and detention centres, violent pushbacks from European countries, particularly those bordering the Mediterranean, and from the US, in countless cases of unnecessary suffering and brutality. The International Organization for Migration (IOM) calculates that 41,000 migrants died between 2014 and 2020, although this is widely accepted to be a significant underestimate given that many lives are lost at sea and in remote deserts as migrants and refugees take increasingly dangerous routes to safety.

      The prioritisation of militarised borders over climate finance ultimately threatens to worsen the climate crisis for humanity. Without sufficient investment to help countries mitigate and adapt to climate change, the crisis will wreak even more human devastation and uproot more lives. But, as this report concludes, government spending is a political choice, meaning that different choices are possible. Investing in climate mitigation in the poorest and most vulnerable countries can support a transition to clean energy – and, alongside deep emission cuts by the biggest polluting nations – give the world a chance to keep temperatures below 1.5°C increase since 1850, or pre-industrial levels. Supporting people forced to leave their homes with the resources and infrastructure to rebuild their lives in new locations can help them adapt to climate change and to live in dignity. Migration, if adequately supported, can be an important means of climate adaptation.

      Treating migration positively requires a change of direction and greatly increased climate finance, good public policy and international cooperation, but most importantly it is the only morally just path to support those suffering a crisis they played no part in creating.

      https://www.tni.org/en/publication/global-climate-wall