• Decolonize your eyes, Padova.. Pratiche visuali di decolonizzazione della città

    Introduzione
    Il saggio a tre voci è composto da testi e due video.[1]
    Mackda Ghebremariam Tesfau’ (L’Europa è indifendibile) apre con un una riflessione sulle tracce coloniali che permangono all’interno degli spazi urbani. Lungi dall’essere neutre vestigia del passato, questi segni sono tracce di una storia contesa, che si situa contemporaneamente al cuore e ai margini invisibili della rappresentazione di sé dell’occidente. La dislocazione continua del fatto coloniale nella memoria storica informa il discorso che è oggi possibile sul tema delle migrazioni, del loro governo e dei rapporti tra Nord e Sud Globale. La stessa Europa di cui Césaire dichiarava “l’indifendibilità” è ora una “fortezza” che presidia i suoi confini dal movimento di ritorno postcoloniale.
    Annalisa Frisina (Pratiche visuali di decolonizzazione della città) prosegue con il racconto del percorso didattico e di ricerca Decolonizzare la città. Dialoghi visuali a Padova, realizzato nell’autunno del 2020. Questa esperienza mostra come sia possibile performare la decolonizzazzione negli spazi pubblici e attivare contro-politiche della memoria a livello urbano. Le pratiche visuali di decolonizzazione sono utili non solo per fare vacillare statue e nomi di vie, ma soprattutto per mettere in discussione le visioni del mondo e le gerarchie sociali che hanno reso possibile celebrare/dimenticare la violenza razzista e sessista del colonialismo. Le vie coloniali di Padova sono state riappropriate dai corpi, dalle voci e dagli sguardi di sei cittadine/i italiane/i afrodiscendenti, facendo uscire dall’insignificanza le tracce coloniali urbane e risignificandole in modo creativo.
    Infine, Salvatore Frisina (L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio) conclude il saggio soffermandosi sui due eventi urbani Decolonize your eyes (giugno e ottobre 2020), promossi dall’associazione Quadrato Meticcio, che ha saputo coinvolgere in un movimento decoloniale attori sociali molto eterogenei. Da quasi dieci anni questa associazione di sport popolare, radicata nel rione Palestro di Padova, favorisce la formazione di reti sociali auto-gestite e contribuisce alla lotta contro discriminazioni multiple (di classe, “razza” e genere). La sfida aperta dai movimenti antirazzisti decoloniali è infatti quella di mettere insieme processi simbolici e materiali.

    L’Europa è indifendibile
    L’Europa è indifendibile, scrive Césaire nel celebre passo iniziale del suo Discorso sul colonialismo (1950). Questa indifendibilità non è riferita tanto al fatto che l’Europa abbia commesso atti atroci quanto al fatto che questi siano stati scoperti. La “scopertura” è “svelamento”. Ciò che viene svelata è la natura stessa dell’impresa “Europa” e lo svelamento porta all’impossibilità di nascondere alla “coscienza” e alla “ragione” tali fatti: si tratta di un’indifendibilità “morale” e “spirituale”. A portare avanti questo svelamento, sottraendosi alla narrazione civilizzatrice che legittima – ovvero che difende – l’impresa coloniale sono, secondo Césaire, le masse popolari europee e i colonizzati che “dalle cave della schiavitù si ergono giudici”. Era il 1950.
    A più di sessant’anni di distanza, oggi l’Europa è tornata ad essere ben difesa, i suoi confini materiali e simbolici più che mai presidiati. Come in passato, tuttavia, uno svelamento della sua autentica natura potrebbe minarne le fondamenta. È quindi importante capire quale sia la narrazione che oggi sostiene la fortezza Europa.
    La scuola decoloniale ha mostrato come la colonialità sia un attributo del potere, la scuola postcoloniale come leggerne i segni all’interno della cultura materiale. Questa stessa cultura è stata interrogata, al fine di portarne alla luce gli impliciti. È successo ripetutamente alla statua di Montanelli, prima oggetto dell’azione di Non Una di Meno Milano, poi del movimento Black Lives Matter Italia. È successo alla fermata metro di Roma Amba Aradam. È successo anche alle vie coloniali di Padova. La reazione a queste azioni – reazione comune a diversi contesti internazionali – è particolarmente esplicativa della necessità, del Nord globale, di continuare a difendersi.
    Il fronte che si è aperto in contrapposizione alla cosiddetta cancel culture[2] si è battuto per la tutela del “passato” e della “Storia”, così facendo ribadendo un potere non affatto scontato, che è quello di decidere cosa sia “passato” e quale debba essere la Storia raccontata – oltre che il come debba essere raccontata. Le masse che si sono radunate sotto le statue abbattute, deturpate e sfidate, l’hanno fatto per liberare “passato” e “Storia” dal dominio bianco, maschile e coloniale che ha eretto questi monumenti a sua immagine e somiglianza. La posta in gioco è, ancora, uno svelamento, la presa di coscienza del fatto che queste non sono innocue reliquie di un passato disattivato, ma piuttosto la testimonianza silente di una Storia che lega indissolubilmente passato a presente, Nord globale e Sud globale, colonialismo e migrazioni. Riattivare questo collegamento serve a far crollare l’impalcatura ideologica sulla quale oggi si fonda la pretesa di sicurezza invocata e agita dall’Europa.
    Igiaba Scego e Rino Bianchi, in Roma Negata (2014), sono stati tra i primi a dedicare attenzione a queste rumorose reliquie in Italia. L’urgenza che li ha spinti a lavorare sui resti coloniali nella loro città è l’oblio nel quale il colonialismo italiano è stato relegato. Come numerosi autrici e autori postcoloniali hanno dimostrato, tuttavia, questo oblio è tutt’altro che improduttivo. La funzione che svolge è infatti letteralmente salvifica, ovvero ha lo scopo di salvare la narrazione nazionale dalle possibili incrinature prodotte dallo svelamento alla “barra della coscienza” (Césaire 1950) delle responsabilità coloniali e dei modi in cui si è stati partecipi e protagonisti della costruzione di un mondo profondamente diseguale. Al contempo, la presenza di questi monumenti permette, a livello inconscio, di continuare a godere del senso di superiorità imperiale di cui sono intrisi, di continuare cioè a pensarsi come parte dell’Europa e del Nord Globale, con ciò che questo comporta. Che cosa significa dunque puntarvi il dito? Che cosa succede quando la memoria viene riattivata in funzione del presente?
    La colonialità ha delle caratteristiche intrinseche, ovvero dei meccanismi che ne presiedono il funzionamento. Una di queste caratteristiche è la produzione costante di confini. Questa necessità è evidente sin dai suoi albori ed è rintracciabile anche in pagine storiche che non sono abitualmente lette attraverso una lente coloniale. Un esempio è la riflessione marxiana dei Dibattiti sulla legge contro i furti di legna[3], in cui il pensatore indaga il fenomeno delle enclosure, le recinzioni che tra ‘700 e ‘800 comparvero in tutta Europa al fine di rendere privati i fondi demaniali, usati consuetudinariamente dalla classe contadina come supporto alla sussistenza del proprio nucleo attraverso la caccia e la raccolta. Distinzione, definizione e confinamento sono processi materiali e simbolici centrali della colonialità. Per contro, connettere, comporre e sconfinare sono atti di resistenza al potere coloniale.
    Da tempo Gurminder K. Bhambra (2017) ha posto l’accento sull’importanza di questo lavoro di ricucitura storica e sociologica. Secondo l’autrice la stessa distinzione tra cittadino e migrante è frutto di una concettualizzazione statuale che fonda le sue categorie nel momento storico degli imperi. In questo senso per Bhambra tale distinzione poggia su di una lettura inadeguata della storia condivisa. Tale lettura ha l’effetto di materializzare l’uno – il cittadino – come un soggetto avente diritti, come un soggetto “al giusto posto”, e l’altro – il migrante – come un soggetto “fuori posto”, qualcuno che non appartiene allo stato nazione.
    Questo cortocircuito storico è reso evidente nella mappa coloniale che abbiamo deciso di “sfidare” nel video partecipativo. La raffigurazione dell’Impero Italiano presente in piazza delle Erbe a Padova raffigura Eritrea, Etiopia, Somalia, Libia, Albania e Italia in bianco, affinché risaltino sullo sfondo scuro della cartina. Su questo spazio bianco è possibile tracciare la rotta che oggi le persone migranti intraprendono per raggiungere la Libia da numerosi paesi subsahariani, tra cui la Somalia, l’Eritrea e l’Etiopia, la stessa Libia che è stata definita un grande carcere a cielo aperto. Dal 2008 infatti Italia e Libia sono legate da accordi bilaterali. Secondo questi accordi l’Italia si è impegnata a risarcire la Libia per l’occupazione coloniale, e in cambio la Libia ha assunto il ruolo di “guardiano” dei confini italiani, ruolo che agisce attraverso il contenimento delle persone migranti che raggiungono il paese per tentare la traversata mediterranea verso l’Europa. Risulta evidente come all’interno di questi accordi vi è una riattivazione del passato – il risarcimento coloniale – che risulta paradossalmente neocoloniale piuttosto che de o anti-coloniale.
    L’Italia è indifendibile, eppure si difende. Si difende anche grazie all’ombra in cui mantiene parti della sua storia, e si difende moltiplicando i confini coloniali tra cittadini e stranieri, tra passato e presente. Questo passato non è però tale, al contrario plasma il presente traducendo vecchie disuguaglianze sotto nuove vesti. Oggi la dimensione coloniale si è spostata sui corpi migranti, che si trovano ad essere marchiati da una differenza che produce esclusione nel quotidiano.
    I confini coloniali – quelli materiali come quelli simbolici – si ergono dunque a difesa dell’Italia e dell’Europa. Come nel 1950 però, questa difendibilità è possibile solo a patto che le masse popolari e subalterne accettino e condividano la narrazione coloniale, che è stata ieri quella della “missione civilizzatrice” ed è oggi quella della “sicurezza”. Al fine di decolonizzare il presente è dunque necessario uscire da queste narrazioni e riconnettere il passato alla contemporaneità al fine di svelare la natura coloniale del potere oggi. Così facendo la difesa dell’Europa potrà essere nuovamente scalfibile.
    Il video partecipativo realizzato a Padova va esattamente in questa direzione: cerca di ricucire storie e relazioni interrotte e nel farlo pone al centro il fatto coloniale nella sua continuità e contemporaneità.

    Pratiche visuali di decolonizzazione della città
    Il video con Mackda Ghebremariam Tesfau è nato all’interno del laboratorio di Visual Research Methods dell’Università di Padova. Da diversi anni, questo laboratorio è diventato un’occasione preziosa per fare didattica e ricerca in modo riflessivo e collaborativo, affrontando il tema del razzismo nella società italiana attraverso l’analisi critica della visualità legata alla modernità europea e attraverso la sperimentazione di pratiche contro-visuali (Mirzoeff 2011). Come docente, ho provato a fare i conti con “l’innocenza bianca” (Wekker 2016) e spingere le mie studentesse e i miei studenti oltre la memoria auto-assolutoria del colonialismo italiano coi suoi miti (“italiani brava gente”, “eravamo lì come migranti straccioni” ecc.). Per non restare intrappolate/i nella colonialità del potere, le/li/ci ho invitate/i a prendere consapevolezza di quale sia il nostro sguardo su noi stessi nel racconto che facciamo degli “altri” e delle “altre”, mettendo in evidenza il peso delle divisioni e delle gerarchie sociali. Come mi hanno detto alcune mie studentesse, si tratta di un lavoro faticoso e dal punto di vista emotivo a volte difficilmente sostenibile. Eppure, penso sia importante (far) riconoscere il proprio “disagio” in quanto europei/e “bianchi/e” e farci qualcosa collettivamente, perché il sentimento di colpa individuale è sterile, mentre la responsabilità è capacità di agire, rispondere insieme e prendere posizione di fronte ai conflitti sociali e alle disuguaglianze del presente.
    Nel 2020 la scommessa è stata quella di fare insieme a italiani/e afrodiscendenti un percorso di video partecipativo (Decolonizzare la città. Dialoghi visuali a Padova[4]) e di utilizzare il “walk about” (Frisina 2013) per fare passeggiate urbane con studentesse e studenti lasciandosi interpellare dalle tracce coloniali disseminate nella città di Padova, in particolare nel rione Palestro dove abito. La congiuntura temporale è stata cruciale.
    Da una parte, ci siamo ritrovate nell’onda del movimento Black Lives Matter dopo l’omicidio di George Floyd a Minneapolis. Come discusso altrove (Frisina & Ghebremariam Tesfau’ 2020, pp. 399-401), l’antirazzismo è (anche) una contro-politica della memoria e, specialmente nell’ultimo anno, a livello globale, diversi movimenti hanno messo in discussione il passato a partire da monumenti e da vie che simbolizzano l’eredità dello schiavismo e del colonialismo. Inevitabilmente, in un’Europa post-coloniale in cui i cittadini hanno le origini più diverse da generazioni e in cui l’attivismo degli afrodiscendenti diventa sempre più rilevante, si sono diffuse pratiche di risignificazione culturale attraverso le quali è impossibile continuare a vedere statue, monumenti, musei, vie intrise di storia coloniale in modo acritico; e dunque è sempre più difficile continuare a vedersi in modo innocente.
    D’altra parte, il protrarsi della crisi sanitaria legata al covid-19, con le difficoltà crescenti a fare didattica in presenza all’interno delle aule universitarie, ha costituito sia una notevole spinta per uscire in strada e sperimentare forme di apprendimento più incarnate e multisensoriali, sia un forte limite alla socialità che solitamente accompagna la ricerca qualitativa, portandoci ad accelerare i tempi del laboratorio visuale in modo da non restare bloccati da nuovi e incalzanti dpcm. Nel giro di soli due mesi (ottobre-novembre 2020), dunque, abbiamo realizzato il video con l’obiettivo di far uscire dall’insignificanza alcune tracce coloniali urbane, risignificandole in modo creativo.
    Il video è stato costruito attraverso pratiche visuali di decolonizzazione che hanno avuto come denominatore comune l’attivazione di contro-politiche della memoria, a partire da sguardi personali e familiari, intimamente politici. Le sei voci narranti mettono in discussione le gerarchie sociali che hanno reso possibile celebrare/dimenticare la violenza razzista e sessista del colonialismo e offrono visioni alternative della società, perché capaci di aspirare e rivendicare maggiore giustizia sociale, la libertà culturale di scegliersi le proprie appartenenze e anche il potere trasformativo della bellezza artistica.
    Nel video, oltre a Mackda Ghebremariam Tesfau’, ci sono Wissal Houbabi, Cadigia Hassan, Ilaria Zorzan, Emmanuel M’bayo Mertens e Viviana Zorzato, che si riappropriano delle tracce coloniali con la presenza dei loro corpi in città e la profondità dei loro sguardi.
    Wissal, artista “figlia della diaspora e del mare di mezzo”, “reincarnazione del passato rimosso”, si muove accompagnata dalla canzone di Amir Issa Non respiro (2020). Lascia la sua poesia disseminata tra Via Catania, via Cirenaica, via Enna e Via Libia.

    «Cerchiamo uno spiraglio per poter respirare, soffocati ben prima che ci tappassero la bocca e ci igienizzassero le mani, cerchiamo una soluzione per poter sopravvivere […]
    Non siamo sulla stessa barca e ci vuole classe a non farvelo pesare. E la mia classe sociale non ha più forza di provare rabbia o rancore.
    Il passato è qui, insidioso tra le nostre menti e il futuro è forse passato.
    Il passato è qui anche se lo dimentichi, anche se lo ignori, anche se fai di tutto per negare lo squallore di quel che è stato, lo Stato e che preserva lo status di frontiere e ius sanguinis.
    Se il mio popolo un giorno volesse la libertà, anche il destino dovrebbe piegarsi».

    Cadigia, invece, condivide le fotografie della sua famiglia italo-somala e con una sua amica si reca in Via Somalia. Incontra una ragazza che abita lì e non ha mai capito la ragione del nome di quella via. Cadigia le offre un suo ricordo d’infanzia: passando da via Somalia con suo padre, da bambina, gli aveva chiesto perché si chiamasse così, senza ricevere risposta. E si era convinta che la Somalia dovesse essere importante. Crescendo, però, si era resa conto che la Somalia occupava solo un piccolo posto nella storia italiana. Per questo Cadigia è tornata in via Somalia: vuole lasciare traccia di sé, della sua storia familiare, degli intrecci storici e rendere visibili le importanti connessioni che esistono tra i due paesi. Via Somalia va fatta conoscere.
    Anche Ilaria si interroga sul passato coloniale attraverso l’archivio fotografico della sua famiglia italo-eritrea. Gli italiani in Eritrea si facevano spazio, costruendo strade, teleferiche, ferrovie, palazzi… E suo nonno lavorava come macchinista e trasportatore, mentre la nonna eritrea, prima di sposare il nonno, era stata la sua domestica. Ispirata dal lavoro dell’artista eritreo-canadese Dawit L. Petros, Ilaria fa scomparire il suo volto dietro fotografie in bianco e nero. In Via Asmara, però, lo scopre e si mostra, per vedersi finalmente allo specchio.
    Emmanuel è un attivista dell’associazione Arising Africans. Nel video lo vediamo condurre un tour nel centro storico di Padova, in Piazza Antenore, ex piazza 9 Maggio. Emmanuel cita la delibera con la quale il comune di Padova dedicò la piazza al giorno della “proclamazione dell’impero” da parte di Mussolini (1936). Secondo Emmanuel, il fascismo non è mai scomparso del tutto: ad esempio, l’idea dell’italianità “per sangue” è un retaggio razzista ancora presente nella legge sulla cittadinanza italiana. Ricorda che l’Italia è sempre stata multiculturale e che il mitico fondatore di Padova, Antenore, era un profugo, scappato da Troia in fiamme. Padova, così come l’Italia, è inestricabilmente legata alla storia delle migrazioni. Per questo Emmanuel decide di lasciare sull’edicola medioevale, che si dice contenga le spoglie di Antenore, una targa dedicata alle migrazioni, che ha i colori della bandiera italiana.
    Chiude il video Viviana, pittrice di origine eritrea. La sua casa, ricca di quadri ispirati all’iconografia etiope, si affaccia su Via Amba Aradam. Viviana racconta del “Ritratto di ne*ra”, che ha ridipinto numerose volte, per anni. Farlo ha significato prendersi cura di se stessa, donna italiana afrodiscendente. Riflettendo sulle vie coloniali che attraversa quotidianamente, sostiene che è importante conoscere la storia ma anche ricordare la bellezza. Amba Alagi o Amba Aradam non possono essere ridotte alla violenza coloniale, sono anche nomi di montagne e Viviana vuole uno sguardo libero, capace di bellezza. Come Giorgio Marincola, Viviana continuerà a “sentire la patria come una cultura” e non avrà bandiere dove piegare la testa. Secondo Viviana, viviamo in un periodo storico in cui è ormai necessario “decolonizzarsi”.

    Anche nel nostro percorso didattico e di ricerca la parola “decolonizzare” è stata interpretata in modi differenti. Secondo Bhambra, Gebrial e Nişancıoğlu (2018) per “decolonizzare” ci deve essere innanzitutto il riconoscimento che il colonialismo, l’imperialismo e il razzismo sono processi storici fondamentali per comprendere il mondo contemporaneo. Tuttavia, non c’è solo la volontà di costruire la conoscenza in modi alternativi e provincializzare l’Europa, ma anche l’impegno a intrecciare in modo nuovo movimenti anti-coloniali e anti-razzisti a livello globale, aprendo spazi inediti di dialogo e dando vita ad alleanze intersezionali.

    L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio
    Il video-partecipativo è solo uno degli strumenti messi in atto a Padova per intervenire sulla memoria coloniale. Con l’evento pubblico urbano chiamato Decolonize your Eyes (20 giugno 2020), seguito da un secondo evento omonimo (18 Ottobre 2020), attivisti/e afferenti a diversi gruppi e associazioni che lavorano nel sociale si incontrano a favore di uno scopo che, come poche volte precedentemente, consente loro di agire all’unisono. Il primo evento mette in scena il gesto simbolico di cambiare, senza danneggiare, i nomi di matrice coloniale di alcune vie del rione Palestro, popolare e meticcio. Il secondo agisce soprattutto all’interno di piazza Caduti della Resistenza (ex Toselli) per mezzo di eventi performativi, artistici e laboratoriali con l’intento di coinvolgere un pubblico ampio e riportare alla memoria le violenze coloniali italiane. Ai due eventi contribuiscono realtà come l’asd Quadrato Meticcio, la palestra popolare Chinatown, Non una di meno-Padova, il movimento ambientalista Fridays for future, il c.s.o. Pedro e l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani (anpi).
    Si è trattato di un rapporto di collaborazione mutualistico. L’anpi «indispensabile sin dalle prime battute nell’organizzazione» – come racconta Camilla[5] del Quadrato Meticcio – ha contribuito anche ai dibattiti in piazza offrendo densi spunti storici sulla Resistenza. Fridays for future, impegnata nella lotta per l’ambiente, è intervenuta su via Lago Ascianghi, luogo in cui, durante la guerra d’Etiopia, l’utilizzo massiccio di armi chimiche da parte dell’esercito italiano ha causato danni irreversibili anche dal punto di vista della devastazione del territorio. Ha sottolineato poi come l’odierna attività imprenditoriale dell’eni riproduca lo stesso approccio prevaricatore colonialista. Non una di meno-Padova, concentrandosi sulle tematiche del trans-femminismo e della lotta di genere, ha proposto un dibattito intitolando l’attuale via Amba Aradam a Fatima, la bambina comprata da Montanelli secondo la pratica coloniale del madamato. Durante il secondo evento ha realizzato invece un laboratorio di cartografia con gli abitanti del quartiere di ogni età, proponendogli di tracciare su una mappa le rotte dal luogo d’origine a Padova: un gesto di sensibilizzazione sul rapporto tra memoria e territorio. Il c.s.o. Pedro ha invece offerto la strumentazione mobile e di amplificazione sonora che ha permesso a ogni intervento di diffondersi in tutto il quartiere.
    Rispetto alla presenza attiva nel quartiere, Il Quadrato Meticcio, il quale ha messo a disposizione gli spazi della propria sede come centrale operativa di entrambi gli eventi, merita un approfondimento specifico.
    Mattia, il fondatore dell’associazione, mi racconta che nel 2008 il “campetto” – così chiamato dagli abitanti del quartiere – situato proprio dietro la “piazzetta” (Piazza Caduti della Resistenza), sarebbe dovuto diventare un parcheggio, ma “l’intervento congiunto della comunità del quartiere lo ha preservato”. Quando gli chiedo come si inserisca l’esperienza dell’associazione in questo ricordo, risponde: “Ho navigato a vista dopo quell’occasione. Mi sono accorto che c’era l’esigenza di valorizzare il campo e che il gioco del calcio era un contesto di incontro importante per i ragazzi. La forma attuale si è consolidata nel tempo”. Adesso, la presenza costante di una vivace comunità “meticcia” – di età che varia dagli otto ai sedici anni – è una testimonianza visiva e frammentaria della cultura familiare che i ragazzi si portano dietro. Come si evince dalla testimonianza di Mattia: «Loro non smettono mai di giocare. Sono in strada tutto il giorno e passano la maggior parte del tempo con il pallone ai piedi. Il conflitto tra di loro riflette i conflitti che vivono in casa. Ognuno di loro appartiene a famiglie economicamente in difficoltà, che condividono scarsi accessi a opportunità finanziarie e sociali in generale. Una situazione che inevitabilmente si ripercuote sull’emotività dei ragazzi, giorno dopo giorno».

    L’esperienza dell’associazione si inserisce all’interno di una rete culturale profondamente complessa ed eterogenea. L’intento dell’associazione, come racconta Camilla, è quello di offrire una visione inclusiva e una maggiore consapevolezza dei processi coloniali e post-coloniali a cui tutti, direttamente o indirettamente, sono legati; un approccio simile a quello della palestra popolare Chinatown, che offre corsi di lotta frequentati spesso dagli stessi ragazzi che giocano nel Quadrato Meticcio. L’obiettivo della palestra è quello di educare al rispetto reciproco attraverso la simulazione controllata di situazioni conflittuali legate all’uso di stereotipi etno-razziali e di classe, gestendo creativamente le ambivalenze dell’intimità culturale (Herzfeld, 2003). Uber[6], fra i più attivi promotori di Decolonize your eyes e affiliato alla palestra, racconta che: «Fin tanto che sono ragazzini, può essere solo un gioco, e tra di loro possono darsi man forte ogni volta che si scontrano con il razzismo brutale che questa città offre senza sconti. Ma ho paura che presto per loro sarà uno shock scoprire quanto può far male il razzismo a livello politico, lavorativo, legale… su tutti i fronti. E ho paura soprattutto che non troveranno altro modo di gestire l’impatto se non abbandonandosi agli stereotipi che gli orbitano già attorno».

    La mobilitazione concertata del 2008 a favore della preservazione del “campetto”, ha molto in comune con il contesto dal quale è emerso Decolonize your eyes. È “quasi un miracolo” di partecipazione estesa, mi racconta Uber, considerando che storicamente le “realtà militanti” di Padova hanno sempre faticato ad allearsi e collaborare. Similmente, con una vena solenne ma scherzosa, Camilla definisce entrambi gli eventi “necessari”. Lei si è occupata di gestire anche la “chiamata” generale: “abbiamo fatto un appello aperto a tutti sui nostri social network e le risposte sono state immediate e numerose”. Uber mi fa presente che “già da alcune assemblee precedenti si poteva notare l’intenzione di mettere da parte le conflittualità”. Quando gli chiedo perché, risponde “perché non ne potevamo più [di andare l’uno contro l’altro]”. Camilla sottolinea come l’impegno da parte dell’anpi di colmare le distanze generazionali, nei concetti e nelle pratiche, sia stato particolarmente forte e significativo.

    Avere uno scopo comune sembra dunque essere una prima risorsa per incontrarsi. Ma è nel modo in cui le conflittualità vengono gestite quotidianamente che può emergere una spinta rivoluzionaria unitaria. In effetti, «[…] l’equilibrio di un gruppo non nasce per forza da uno stato di inerzia, ma spesso da una serie di conflitti interni controllati» (Mauss, 2002, p. 194).
    Nel frattempo il Quadrato Meticcio ha rinnovato il suo impegno nei confronti del quartiere dando vita a una nuova iniziativa, chiamata All you can care, basata sullo scambio mutualistico di beni di prima necessità. Contemporaneamente, i progetti per un nuovo Decolonize your eyes vanno avanti e, da ciò che racconta Camilla, qualcosa sembra muoversi:
    «Pochi giorni fa una signora ci ha fermati per chiederci di cambiare anche il nome della sua via – anch’essa di rimando coloniale. Stiamo avendo anche altre risposte positive, altre realtà vogliono partecipare ai prossimi eventi».
    L’esperienza di Decolonize your eyes è insomma una tappa di un lungo progetto di decolonizzazione dell’immaginario e dell’utilizzo dello spazio pubblico che coinvolge molte realtà locali le quali, finalmente, sembrano riconoscersi in una lotta comune.

    Note
    [1] Annalisa Frisina ha ideato la struttura del saggio e ha scritto il paragrafo “Pratiche visuali di decolonizzazione della città”; Mackda Ghebremariam Tesfau’ ha scritto il paragrafo “L’Europa è indifendibile” e Salvatore Frisina il paragrafo “L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio”.
    [2] Cancel culture è un termine, spesso utilizzato con un’accezione negativa, che è stato usato per indicare movimenti emersi negli ultimi anni che hanno fatto uso del digitale, come quello il #metoo femminista, e che è stato usato anche per indicare le azioni contro le vestigia coloniali e razziste che si sono date dal Sud Africa agli Stati Uniti all’Europa.
    [3] Archivio Marx-Engels
    [4] Ho ideato con Elisabetta Campagni il percorso di video partecipativo nella primavera del 2020, rispondendo alla call “Cinema Vivo” di ZaLab; il nostro progetto è rientrato tra i primi cinque votati e supportati dal crowfunding.
    [5] Da un’intervista realizzata dall’autore in data 10/12/2020 a Camilla Previati e Mattia Boscaro, il fondatore dell’associazione.
    [6] Da un’intervista realizzata con Uber Mancin dall’autore in data 9/12/2020.
    [7] Le parti introduttive e finali del video sono state realizzate con la gentile concessione dei materiali audiovisivi da parte di Uber Mancin (archivio privato).

    Bibliografia
    Bhambra, G., Nişancıoğlu, K. & Gebrial, D., Decolonising the University, Pluto Press, London, 2018.
    Bhambra, G. K., The current crisis of Europe: Refugees, colonialism, and the limits of cosmopolitanism, in: «European Law Journal», 23(5): 395-405. 2017.
    Césaire, A. (1950), Discorso sul colonialismo, Mellino, M. (a cura di), Ombre corte, Verona, 2010.
    Frisina, A., Ricerca visuale e trasformazioni socio-culturali, utet Università, Torino, 2013.
    Frisina, A. e Ghebremariam Tesfau’, M., Decolonizzare la città. L’antirazzismo come contro-politica della memoria. E poi?, «Studi Culturali», Anno XVII, n. 3, Dicembre, pp. 399-412. 2020.
    Herzfeld, M., & Nicolcencov, E., Intimità culturale: antropologia e nazionalismo, L’ancora del Mediterraneo, 2003.
    Mauss, M., Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, G. Einaudi, Torino, 2002.
    Mirzoeff, N., The Right to Look: A Counterhistory of Visuality, Duke University Press, Durham e London, 2011.
    Scego, I., & Bianchi, R., Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, Roma, 2014.
    Wekker, G., White Innocence: Paradoxes of Colonialism and Race, Duke University Press, Durham and London, 2016.

    https://www.roots-routes.org/decolonize-your-eyes-padova-pratiche-visuali-di-decolonizzazione-della
    #décolonisation #décolonial #colonialisme #traces_coloniales #Italie #Italie_coloniale #colonialisme_italien #statues #Padova #Padoue

    ping @cede (même si c’est en italien...)

  • Le «#navi_bianche», quando i profughi dall’Africa erano italiani

    «Donne smunte, lacerate accaldate, affrante dalle fatiche, scosse dalle emozioni… Bimbi sparuti che le lunghe privazioni e l’ardore del clima hanno immiserito e stremato fino al limite». Si presentavano così i coloni dell’ormai “ex Impero” agli occhi di #Zeno_Garroni, regio commissario della missione speciale che avrebbe rimpatriato 28mila tra donne, anziani, bambini e ragazzi sotto 15 anni dall’Etiopia, dall’Eritrea e dalla Somalia, paesi di quell’Africa orientale italiana facilmente conquistata all’inizio del 1941 dalle truppe britanniche. Un’ondata di profughi “bianchi” che ricevette un’accoglienza diversa da quella destinata oggi ai naufraghi ma che, come loro, si lasciavano alle spalle la esperienza drammatica della prigionia nei campi alleati.

    Alla missione umanitaria si arrivò dopo una lunga trattativa tra il governo britannico e quello italiano. Furono allestite quattro navi (“Saturnia”, “Vulcania”, “Caio Duilio” e “Giulio Cesare”), dipinte di bianco con grandi croci rosse, alle quali fu imposto il periplo dell’Africa, dal momento che non fu permesso loro di passare attraverso il canale di Suez. Il viaggio, così, diventava molto lungo: circa cinquanta giorni. E pericoloso: la prima spedizione salpò nell’aprile del 1942 da Genova e Trieste, la terza e ultima attraccò a Taranto nell’agosto del 1943. Tutto in piena guerra, quella che si combatteva anche lungo le rotte e i porti del Mediterraneo.

    «Costretti ad abbandonare case e averi, concentrati dai britannici in campi provvisori e da lì inviati a Berbera direttamente per l’imbarco - scrive lo storico Emanuele Ertola che alla vicenda delle “navi bianche” ha dedicato un saggio - affaticati e storditi dopo un lungo viaggio attraverso l’Etiopia in treno e camionetta, i rimpatrianti dovevano quindi sopportare la lunga attesa per salire a bordo». Qui venivano subito assistiti dal personale sanitario (c’erano medici e infermieri) ma affrontavano da subito il problema del sovraffollamento. Durante l’imbarco e il viaggio - soprattutto della prima spedizione - molti bambini, già provati e sofferenti per vita nei campi di concentramento britannici e sfiancati dalle condizioni climatiche, morirono. «Ricordo benissimo, giorno per giorno, la vita a bordo, che è durata circa un mese e mezzo - racconta una testimone, Maria Gabriella Ripa di Meana, citata nel libro di Massimo Zamorani Dalle navi bianche alla linea gotica (Mursia), inviato del Giornale di Indro Montanelli che era uno dei tanti bambini italiani d’Africa -. Ricordo i bambini più piccoli che morivano per infezione diarroica; ricordo l’epidemia di tosse convulsa che imperversava tra i bambini più grandi. Ricordo la madre disperata che aveva assistito alla fine del suo piccolo; ricordo che le donne in stato di gravidanza erano terrorizzate e ricordo che non c’erano più letti disponibili nell’infermeria strapiena».

    Ma oltre che umanitaria, nelle intenzioni del governo fascista, quella delle “navi bianche” doveva essere anche una missione politica. Aveva lo scopo di preparare i profughi che avevano vissuto nelle colonie al reinserimento nella vita della madrepatria e a “rieducarli” ai principi «della gerarchia e dei valori sociali » soprattutto dopo il periodo di prigionia nei campi britannici. Tra i “ragazzi d’Africa” c’era anche il futuro fumettista Hugo Pratt, all’epoca del rientro appena quindicenne. Come altri suoi coetanei si arruolò volontario appena compiuti diciotto anni, convinto che quella della fedeltà al regime fosse l’unica scelta possibile. Tra i bambini sopravvissuti c’era anche Luciano Violante (è nato a Dire Daua nel 1941) che, magistrato e politico ex comunista, molti anni dopo nel suo discorso di insediamento da presidente della Camera invitò a riflettere sui «vinti di ieri» per capire «senza revisionismi falsificanti» anche chi si schierò «dalla parte di Salò».

    https://www.ilsole24ore.com/art/le-navi-bianche-quando-profughi-dall-africa-erano-italiani-AE3GxU5E
    #réfugiés #réfugiés_italiens #décolonisation #Afrique #Corne_d'Afrique #Ethiopie #Erythrée #Somalie #navires #Saturnia #Vulcania #Caio_Duilio #Giulio_Cesare #Berbera #colonialisme #camps_de_concentration #réinsertion #rééducation #Hugo_Pratt

    • The World Refugees Made. Decolonization and the Foundation of Postwar Italy

      In The World Refugees Made, #Pamela_Ballinger explores Italy’s remaking in light of the loss of a wide range of territorial possessions—colonies, protectorates, and provinces—in Africa and the Balkans, the repatriation of Italian nationals from those territories, and the integration of these “national refugees” into a country devastated by war and overwhelmed by foreign displaced persons from Eastern Europe. Post-World War II Italy served as an important laboratory, in which categories differentiating foreign refugees (who had crossed national boundaries) from national refugees (those who presumably did not) were debated, refined, and consolidated. Such distinctions resonated far beyond that particular historical moment, informing legal frameworks that remain in place today. Offering an alternative genealogy of the postwar international refugee regime, Ballinger focuses on the consequences of one of its key omissions: the ineligibility from international refugee status of those migrants who became classified as national refugees.

      The presence of displaced persons also posed the complex question of who belonged, culturally and legally, in an Italy that was territorially and politically reconfigured by decolonization. The process of demarcating types of refugees thus represented a critical moment for Italy, one that endorsed an ethnic conception of identity that citizenship laws made explicit. Such an understanding of identity remains salient, as Italians still invoke language and race as bases of belonging in the face of mass immigration and ongoing refugee emergencies. Ballinger’s analysis of the postwar international refugee regime and Italian decolonization illuminates the study of human rights history, humanitarianism, postwar reconstruction, fascism and its aftermaths, and modern Italian history.

      https://www.cornellpress.cornell.edu/book/9781501747588/the-world-refugees-made/#bookTabs=1
      #livre #rapatriement #nationalisme #identité #citoyenneté

      –---

      Et un autre mot...

      Post-World War II Italy served as an important laboratory, in which categories differentiating #foreign_refugees (who had crossed national boundaries) from #national_refugees (those who presumably did not) were debated, refined, and consolidated.

      #terminologie #vocabulaire #mots
      –-> ajouté à la métaliste: https://seenthis.net/messages/414225
      ping @sinehebdo

    • Dalle navi bianche alla Linea Gotica

      Tra il 1941 e il 1943 quattro transatlantici della Marina mercantile italiana – Saturnia, Vulcania, Giulio Cesare e Caio Duilio – furono appositamente trasformati nelle cosiddette Navi Bianche per riportare in patria dall’Africa Orientale Italiana 30.000 civili prelevati dalle loro case dopo l’occupazione del 1941 e rinchiusi nei campi di concentramento britannici: donne, anziani, invalidi e tantissimi bambini.

      Tra questi c’era anche #Massimo_Zamorani, che racconta il viaggio epico vissuto in prima persona, a quindici anni, attraverso mari invasi dai sommergibili in guerra. Dopo mesi nei campi di prigionia trascorsi in proibitive condizioni climatiche, igieniche, alimentari e sanitarie, i rimpatriandi si trovarono ad affrontare un percorso lunghissimo e difficile di circumnavigazione dell’Africa, poiché il governo britannico non aveva concesso il passaggio dal Canale di Suez.

      Come altri giovani rimpatriati – fra questi anche l’allora sconosciuto Hugo Pratt, futuro creatore di Corto Maltese – appena compiuti gli anni minimi Zamorani si arruolò volontario nell’esercito della Repubblica Sociale e combatté sulla Linea Gotica dove, dato disperso in combattimento, finì ancora una volta prigioniero in Algeria e poi a Taranto.

      Un episodio poco noto della Seconda guerra mondiale nella straordinaria testimonianza di un piccolo sopravvissuto che tornerà da grande in Africa orientale, come inviato speciale.

      https://www.mursia.com/products/14128?_pos=1&_sid=96d96b040&_ss=r

    • Navi bianche. Missione di pace in tempo di guerra

      Erano le unità ospedaliere della nostra flotta. Navigavano protette dalle convenzioni internazionali, ma alcune ugualmente colarono a picco per siluramento, mine, mitragliatrici. Il racconto di questa grandiosa impresa poco conosciuta nei suoi moventi e nella sua esecuzione ma pervasa da un alto senso di umanità, densa di drammaticità e contessuta di episodi molto interessanti, anche dal punto di vista storico, si presenta molto complesso. Le missioni furono tre: dal marzo al giugno 1942; dal settembre 1942 al gennaio 1943; dal maggio all’agosto del 1943; compiute con 4 grandi piroscafi: Vulcania, Saturnia, Duilio e Giulio Cesare.

      https://www.anobii.com/books/Navi_bianche/01966660c104330368

  • « Les asilés italiens ne doivent pas être extradés », Louis Joinet (Magistrat, premier avocat général honoraire à la Cour de Cassation), Irène Terrel (Avocate), Michel Tubiana (Président d’honneur de la Ligue des Droits de l’Homme)
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2019/03/04/les-asiles-italiens-ne-doivent-pas-etre-extrades_5430951_3232.html

    Comme Cesare Battisti, d’autres Italiens vivant en France sont menacés d’#extradition. Pourtant, leur cas n’est pas lié au mandat d’arrêt européen applicable aux affaires postérieures à 1993, rappellent les juristes Louis Joinet, Irène Terrel et Michel Tubiana, dans une tribune au « Monde ».

    Tribune. Contrairement aux affirmations de Mme Nathalie Loiseau, ministre chargée des affaires européennes, rapportées dans ces colonnes le 19 février dernier, le « sujet » des Italiens asilés en France depuis maintenant quatre décennies ne peut pas être « traité de justice à justice ». En effet la procédure applicable à cette période est régie par la Convention européenne d’extradition de 1957 et non par le #mandat_d’arrêt_européen, qui concerne les seules infractions postérieures au 1er novembre 1993 et non pas celles commises dans les années 1970-1980.

    Or la Convention de 1957 prévoit trois phases, dont deux sont explicitement politiques et selon ce texte, en première et dernière intention, la décision d’extrader ou pas revient au pouvoir politique. « […] Pendant les années 1970, il y a eu une véritable guerre civile, bien que de basse intensité. […] Aborder sans cesse une question de cette envergure, c’est-à-dire les plaies ouvertes par une guerre civile, au moyen de l’outil pénal, de l’incrimination pénale, trente, vingt ou quinze ans après les faits, cela me semble carrément une chose étrangère au sens civil d’une démocratie qui se prétende vraiment accomplie. » Ces mots sont ceux de Giovanni Pellegrino, ancien président de la commission parlementaire d’enquête sur le terrorisme en Italie.

    La « doctrine Mitterrand »

    Le problème est donc de savoir si « l’outil pénal » encore brandi quarante ans plus tard n’est pas aussi techniquement obsolète qu’humainement inadapté. Au début des années 1980, les militants italiens qui avaient choisi la violence politique sont anéantis et leur destin scellé. Ce sont des centaines de fugitifs, dont la plupart s’abritent en France, où François Mitterrand, élu président de la République, a fait figurer dans son programme qu’aucune extradition ne sera accordée pour des faits de nature politique. La seule exigence est de renoncer pour l’avenir à toute violence politique et d’abandonner la clandestinité conformément à la formule attribuée à François Mitterrand : « Ce qui importe, avec le terrorisme, n’est pas tant de savoir comment on y entre mais plutôt de savoir comment on en sort. » C’est la naissance de la « doctrine Mitterrand ».

    De plus, la chancellerie souligne les carences fréquentes des dossiers de la justice italienne. En 1992 le ministère français de la justice précise que « Rome informe de leur situation pénale [des réfugiés] sans que celle-ci soit jamais exposée de façon globale et clairement exploitable, mais fait montre en revanche d’une relative mauvaise volonté à fournir les renseignements complémentaires sollicités ».

    Régularisations progressives

    Le principe de l’#asile est acté dans l’allocution, présentée ensuite comme la « parole donnée », tenue par le président Mitterrand lors du 65e congrès de la Ligue des droits de l’homme le 21 avril 1985 : « Les #réfugiés_italiens […] qui ont participé à l’action terroriste durant des longues années […] ont rompu avec la machine infernale dans laquelle ils s’étaient engagés […] J’ai dit au gouvernement italien qu’ils étaient à l’abri de sanctions par voie d’extradition. Mais, quant à ceux qui poursuivraient des méthodes que nous condamnons, sachez bien que nous le saurons et, le sachant, nous les extraderons ! » Il n’a jamais eu à le faire. Les asilés s’intègrent peu à peu à la société française, travaillent, fondent des familles, ont des enfants, des petits enfants, et sont progressivement tous régularisés par des titres de séjour, toujours renouvelés.

    Est-il admissible de les accueillir un jour pour les rejeter quarante ans plus tard au prétexte d’une situation politicienne qui ne les concerne pas ? Ce ne sont pas seulement des dossiers, des numéros sur des listes, mais des femmes et des hommes qui ont vécu, vieilli, changé et se sont insérés pacifiquement dans notre pays. Et notre pays, c’est une réalité intangible, leur a donné asile. Car les gouvernements se succèdent, de droite comme de gauche, et le « statut » est maintenu.

    La « doctrine Mitterrand » devient celle de l’Etat français.

    En 1998, quand l’entrée en vigueur des accords de Schengen compromet l’accueil des Italiens, un courrier officiel de Lionel Jospin, alors premier ministre, confirme qu’aucune extradition de ces asilés ne sera mise en œuvre. Quelques années plus tard, lorsque la France adopte le mandat d’arrêt européen, elle précise que cette procédure s’appliquera aux seuls faits postérieurs à 1993, préservant ainsi de l’extradition les Italiens asilés dont les procédures concernent des faits s’achevant dans les années 1980. L’Etat français manifeste ainsi, y compris juridiquement, sa volonté de maintenir l’asile octroyé jadis.

    Interrogé le 5 mars 2004 par le Corriere della Sera, Robert Badinter répondait : « […] Comme juriste, et sans entrer sur le fond des débats, je répète que la position prise par un Etat, par l’intermédiaire de son plus haut représentant, ne devrait pas être contredite vingt ans après… […] L’Etat doit respecter la parole donnée. C’est une question de cohérence et de principe […] » Nous voici quinze ans plus tard et cette « doctrine Mitterrand », devenue au fil des années doctrine d’Etat, l’a emporté. Elle l’a moins emporté comme « doctrine » qu’elle ne s’est imposée comme une pratique de pacification, répondant à une situation spécifique, qu’aucun gouvernement français n’a en réalité remise en cause.

    Il est inconcevable que, quarante ans après les faits incriminés et autant d’années d’asile octroyé par la France, il puisse y avoir aujourd’hui une inversion de cette politique d’accueil de l’Etat français. Plus encore que déraisonnable, le temps judiciaire est dépassé, il doit laisser la place aux historiens… Ainsi s’exprimait déjà en 2000, et en Italie même, Giovanni Pellegrino : « […] Aujourd’hui… nous ne pouvons plus faire justice, car il est passé trop de temps. Nous pouvons seulement entreprendre une démarche de vérité. »

    #asilés

    Le long exil de l’extrême gauche italienne à Paris, Philippe Ridet et Jérôme Gautheret [ pas terrible mais là tout de suite j’ai que ça sous la main pour éclairer un tant soit peu le contexte, ndc]
    https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2019/02/22/a-paris-le-long-exil-de-l-extreme-gauche-italienne_5426538_4500055.html

    Dans les années 1970-1980, des centaines d’activistes italiens se sont réfugiés en France, qui les a accueillis à condition qu’ils renoncent à la #lutte_armée. Aujourd’hui, Rome demande l’extradition de certains d’entre eux.

    Commençons par un rendez-vous manqué. « J’écris en ce moment un reportage sur les années françaises des fugitifs italiens des années 1970-1980. Puis-je vous contacter ? », disait notre SMS. Demande acceptée. Comme beaucoup de ses compatriotes réfugiés, cette personne a vu les images de Cesare Battisti extradé de Bolivie après trente-sept ans de cavale au Mexique, à Paris, puis au Brésil.

    Elle a regretté cette inutile humiliation que l’Etat italien a infligée à l’ancien activiste des Prolétaires armés pour le communisme, condamné à la réclusion à perpétuité pour quatre meurtres. A la mi-janvier, on l’a fait défiler, menotté, sur le Tarmac de l’aéroport Ciampino, à Rome, devant le ministre de l’intérieur Matteo Salvini et le ministre de la justice Alfonso Bonafede comme un trophée symbolisant l’efficacité de l’alliance entre l’extrême droite de la Ligue et le populisme du Mouvement 5 étoiles (M5S). Vae victis…

    Triomphante, l’Italie a envoyé la semaine dernière à Paris des magistrats pour réclamer à la France une quinzaine d’anciens activistes des années de plomb que Matteo Salvini décrit comme « buvant du champagne sous la tour Eiffel ».
    Alors notre contact a renoncé. Peur que cette histoire-là, la sienne et celle de centaines de compatriotes ayant quitté la Péninsule plutôt qu’y purger de lourdes condamnations distribuées par une justice aussi débordée qu’expéditive, ne puisse être racontée, comprise.
    Nouveau SMS, à notre attention cette fois : « Je reviens vers vous pour décliner notre rendez-vous. Après réflexion et échange avec d’autres personnes concernées, on pense que le moment est trop délicat, glissant, en somme peu propice pour une argumentation médiatique. J’espère pouvoir compter sur votre compréhension. »

    Une vie à se faire oublier

    Cette prudence, cette peur diffuse, c’est aussi celle d’Irène Terrel. Tous les militants italiens de Paris connaissent l’adresse de son cabinet d’avocats spécialisé dans le droit d’asile, rue Lacépède, Paris 5e. Depuis la mort de son mari, Jean-Jacques de Félice, en 2008, elle continue seule le combat.
    Elle a défendu Battisti durant son séjour en France de 1990 à 2004, lorsque celui qui était d’abord le discret concierge d’un immeuble de la rue Bleue, dans le 9e arrondissement, se retrouva sous les feux de l’actualité et de la justice, grisé par sa petite notoriété d’auteur de polars. Paniqués, les derniers extrémistes encore recherchés par Rome ont appelé Irène Terrel. Que faire ? Fuir encore ? Alerter les médias ? A tous elle a conseillé de rester tapis dans leur anonymat. « C’est leur meilleure protection aujourd’hui. Ils mènent une vie normale. Ils ont passé leur vie à se faire oublier. »

    Recommencer les batailles contre l’extradition ? « Tout homme a droit à une deuxième chance, au pardon. C’est une traque sans fin. On ne va quand même pas offrir des gens de 75 ans sur l’autel politique de ce M. Salvini ! » Elle sait aussi que le contexte est moins favorable. La violence politique, qui, il y a quarante ans, dans la foulée de Mai 68, pouvait éventuellement se théoriser, n’est plus tolérable ; les terroristes ont pris d’autres visages…
    « Aujourd’hui, on confond les activistes italiens avec les djihadistes du Bataclan. » Les intellectuels se sont tus : « Quelles sont les grandes consciences qui pourraient les défendre ? », s’interroge-t-elle en nous raccompagnant.

    Comprendre les années de plomb, un peu plus de dix ans de violence et de chaos commencées avec l’attentat attribué à l’extrême droite de la piazza Fontana à Milan (16 morts, 88 blessés) le 12 décembre 1969 et terminé aux confins des années 1970-1980 ? Pas simple. Trop de sang, de sigles, de slogans.
    Imaginez un chaudron de bonne taille, dans lequel on a porté à ébullition l’air du temps : le refus de l’autorité (celle de l’Etat, des flics, des militaires, des parents), la détestation de la Démocratie chrétienne, qui régit les institutions politiques, du Parti communiste – alors le plus puissant d’Europe –, qui gouverne les rapports sociaux (syndicats, milieux culturels, associations), des nostalgiques des Chemises noires, des patrons, de la magistrature qui poursuit les contestataires.
    Ajoutez à ce brouet de haines les utopies et les combats de la décennie : la libération de la classe ouvrière, le rêve d’une vie communautaire, l’égalité des sexes et l’amour libre, les chanteurs Bob Dylan et Giorgio Gaber, l’antipsychiatrie, le désir de renouer avec la geste des partisans de 1943 qui, l’arme à la main, ont libéré le pays de Mussolini et ses nervis en sifflotant Bella ciao et Bandiera rossa.

    Ajoutez une bonne pincée de manipulations diverses des services secrets italiens et étrangers qui préféraient voir l’Italie se transformer en dictature à la perspective d’assister, impuissants, à l’arrivée au pouvoir du Parti communiste à la faveur d’une alliance avec la Démocratie chrétienne, ce fameux « compromis historique », condamné par les deux extrêmes. Enfin, épicez cette mixture en y jetant des pains d’explosifs, des armes de poing, des mitraillettes et une bonne dose d’inconscience. Bilan : plus de 360 morts attribués aux deux bords [équanimité toute partisane ! ce bilan global occulte le rôle clé des #attentats_massacres perpétrés par des fans, des barbouzes et des services..., ndc] , des milliers de blessés, 10 000 arrestations, 5 000 condamnations, des années de prison par centaines.

    La révolution asphyxiée

    Cette folie, Alessandro Stella, 63 ans, y a cru jusqu’au vertige. Pantalon de cuir noir, parka défraîchie, teint pâle de fumeur. Condamné à six ans de prison pour « association subversive constituée en bande armée », il a raconté dans un petit livre sincère, au titre provocateur (Années de rêves et de plomb, éditions Agone, 2016), sa vie de militant puis de fuyard.

    Pour nombre d’activistes, l’assassinat d’Aldo Moro, en 1978, marqua le renoncement à la lutte.
    Il a appartenu à un groupuscule affilié au mouvement #Autonomie_ouvrière jusqu’à l’assassinat, en 1978, du président du conseil démocrate-chrétien, Aldo Moro, qui, pour nombre d’activistes, marqua leur renoncement alors qu’à l’inverse les Brigades rouges (#BR), intensifièrent leur pression sur le pouvoir, transformant la lutte révolutionnaire en une guerre privée contre l’Etat.

    Alessandro Stella écrit : « Fin janvier 1981, après deux ans de vie clandestine, je décidai de quitter l’Italie. Je n’en pouvais plus de cette vie menée sous un faux nom, des faux comportements, du déguisement d’employé modèle. (…) Avoir un lit pour passer la nuit, se trouver un refuge à droite ou à gauche, était devenu mon activité principale. »
    En promettant d’importantes remises de peine aux « #repentis » qui dénonçaient leurs anciens camarades ou aux « #dissociés » qui reniaient publiquement leur ancienne foi, la justice est parvenue à assécher le vivier des extrémistes, à les couper de leurs soutiens. La révolution est asphyxiée, l’utopie est morte. Ses serviteurs ? Une armée débandée.

    Après un transit par le Luxembourg, le Pérou et le Mexique, Alessandro Stella débarque à Paris en 1982. « Une fois ici, j’ai été obligé de rebondir, raconte-t-il dans la cafétéria glaciale de l’Ecole des hautes études en sciences sociales (EHESS), où il enseigne à présent. Ensuite je me suis marié (par amour, tient-il à préciser) avec une Française et j’ai obtenu la nationalité. »

    La cavale, une discipline militaire

    Gianluigi (le prénom a été changé à sa demande et les détails de son parcours qui pourraient permettre de l’identifier ont été gommés), lui, est arrivé à la fin des années 1970. Il a traversé la frontière italienne par la montagne, « en chaussures de ville », avec une quarantaine de compagnons. « Je ne me suis pas dissocié, j’ai déserté tout simplement », raconte-t-il. Cadre dans un groupe important, il est rompu à la vie clandestine.

    « Grâce à un dernier hold-up avant de partir, nous disposions d’un peu d’argent pour notre groupe. On donnait un peu plus aux couples qu’aux célibataires. A Paris, notre règle de vie est devenue militaire. Il fallait connaître parfaitement le quartier où l’on vivait pour fuir la police française et la cinquantaine de carabiniers venue leur prêter main-forte. Sortir et rentrer à des horaires réguliers. Etre courtois mais muet avec les voisins. Ne pas porter de cheveux longs ni de vêtements voyants, ne pas boire, ne pas fumer de shit, et bien fermer le gaz et l’eau avant de partir, afin de ne pas alerter les pompiers. En un an et demi, j’ai changé 54 fois de domicile. J’ai appris le français en lisant Le Monde et en écoutant France Culture. Pendant six mois, je n’ai pas prononcé un mot. C’était une solitude terrifiante. »

    Comme les sous-marins, ils sont près de 300 Italiens au début des années 1980 (certains parlent de 500 ou de 1 000) à vivre à Paris en immersion. Ils y ont des contacts, des complices, des compagnons. Dès les années 1970, des intellectuels comme Roland Barthes, Gilles Deleuze ou le psychanalyste et philosophe Félix Guattari sont solidaires des luttes italiennes. L’adresse de l’appartement de ce dernier, rue de Condé, à deux pas du Sénat, se transmet de fugitif en fugitif, tout comme celle du mouvement Emmaüs de l’abbé Pierre, lui aussi favorable à l’accueil des ex-activistes transalpins.

    Beaucoup, à gauche, les considèrent comme des victimes d’une « semi-démocratie ». Le journaliste italien Domenico Quirico s’en amusera dans La Stampa en 2007 : « Les Italiens sont accueillis à bras ouverts, choyés par une gauche française incurablement nostalgique d’une révolution qu’elle n’avait pas faite et qui s’imprégnait avec enthousiasme de celle que d’autres croyaient avoir faite. »
    Réfugiés politiques ?

    Autre point de chute des exilés fraîchement débarqués et sans ressources : dans le 18e arrondissement populaire, le 52, boulevard Ornano, où des avocats de gauche, regroupés autour d’Henri Leclerc, ont créé un cabinet collectif. Les prix sont imbattables : 30 francs la consultation. Jean-Pierre Mignard, l’un des fondateurs, explique : « Les demandes d’extradition de l’Italie étaient mal conçues. Les faits n’étaient pas toujours étayés. C’était scandaleux de la part d’un pays qui est à l’origine de l’invention du droit. Pour nous, la qualité politique de ces réfugiés ne souffrait aucun doute. »

    Malgré les efforts des avocats, à la fin du mandat de Valéry Giscard d’Estaing, une quarantaine d’extrémistes sont extradés. Départ de l’aéroport militaire de Villacoublay, en région parisienne, au petit matin, atterrissage deux heures plus tard sur celui de Pratica del Mare, au sud de Rome… Mais un espoir fait tenir ces Italo-Parisiens : la perspective de l’élection de François Mitterrand à la présidence de la République. Candidat de l’Union de la gauche, il a affirmé que la France resterait une « terre d’asile ». Le soir du 10 mai 1981, beaucoup de Transalpins en fuite sont place de la Bastille pour fêter l’élection du premier président socialiste.

    1981, c’est l’année que choisit aussi Oreste Scalzone, fondateur du mouvement Potere operaio (Pouvoir ouvrier) – qui prône l’autonomie ouvrière sans recours à la violence [ah... ndc] –, pour rejoindre la France depuis Copenhague, où il avait trouvé un premier refuge. Condamné par contumace à plus de trente ans de prison en première instance, il avait été libéré après une grève de la faim mais restait sous la surveillance de la justice. Sa fuite est une odyssée. D’abord un ferry de Civitavecchia jusqu’en Sardaigne en compagnie de l’acteur vedette Gian Maria Volontè (Pour une poignée de dollars, Enquête sur un citoyen au-dessus de tout soupçon…). Puis une voiture jusqu’à l’île de la Maddalena, où mouille le voilier du comédien. Sur sa coque est écrit ce vers de Paul Valéry : « Le vent se lève… ! il faut tenter de vivre ! »

    Scalzone raconte : « On a navigué jusqu’en Corse, où un ami de l’ancienne partisane qui m’accompagnait nous attendait. Il nous a conduits en voiture jusqu’à Bastia. De là, j’ai pris un ferry pour Toulon. J’ai traversé toutes les frontières jusqu’au Danemark sans être inquiété. J’avais de bons faux papiers, et j’étais bien maquillé. » Prof de philo en Italie, il a appris à se grimer en fréquentant le Living Theater installé sur la piazza Indipendenza de Rome.

    A partir d’août 1981, avec sa femme et leur petite fille, il est à Paris, après un passage par un village du sud de la France. « Il valait mieux se fondre dans la grande ville. Retrouver une vie sociale, des amis… Ma femme et moi n’avons pas trouvé le temps de chercher du travail, du fait de notre engagement pour faire barrage à toute extradition. Je me rappelle un 11-Novembre : sur les murs, je voyais des affiches du syndicat FO annonçant une manif à Bastille. Je croyais que Dario Fo [écrivain et homme de théâtre, prix Nobel de littérature en 1997] allait venir donner un spectacle. »

    La « doctrine Mitterrand »

    Rive droite, un bureau discret du ministère de l’intérieur, tenu par Gaston Defferre. Tous les samedis s’y réunissent, sous l’autorité de Louis Joinet, conseiller justice de François Mitterrand, des avocats, des magistrats, des juristes, des professeurs de droit, des policiers de haut rang. Ordre du jour : que faire de ces Italiens défaits, planqués dans Paris ? Comment éviter que leur précarité ne les conduise à refaire le choix de la violence ? La Fraction armée rouge, en Allemagne, et Action directe, en France, sont prêtes à les accueillir à bord de leur bateau ivre. Combien auraient aimé retrouver cette force ?

    Jean-Pierre Mignard assiste aux réunions de la Place Beauvau : « Les policiers étaient très favorables à accorder l’asile aux Italiens. Les filatures avaient démontré qu’ils ne présentaient aucun danger. Les autorités italiennes n’étaient pas hostiles non plus. Leurs prisons étaient pleines. C’est comme ça que nous avons élaboré le pacte qui deviendra la doctrine Mitterrand : l’asile pour les Italiens qui n’avaient pas commis de crime de sang en échange de la sortie de la clandestinité et du renoncement à toute forme de lutte armée des deux côtés des Alpes. »

    Rive gauche, cette fois, rue de Nanteuil, 15e arrondissement, une maison d’association. Ici, tous les samedis également, des débats véhéments ont lieu. Souhaitant peser sur leur destin, les Italiens se sont constitués en association de réfugiés. Ici aussi on discute des conditions du pacte négocié Place Beauvau. La petite amie française de l’un d’eux se souvient de leurs insultes : « Ils se traitaient de traditore (“traître”) ou de stronzo (“connard”). Accepter de sortir de la #clandestinité, c’était faire confiance à la parole de l’Etat et verbaliser la défaite. Cela n’allait pas de soi. » Gianluigi se rappelle y être allé parfois. « Il y avait trois types de réfugiés, dit-il. Les clandestins, très rigides, très méfiants ; les innocents, qui n’avaient fait que distribuer des tracts et tenir des discours ; et, enfin, les dépolitisés. Ceux-là voulaient tourner la page au plus vite. L’ambiance était infecte. Les anciens BR insultaient tout le monde. Ils dépensaient toute leur énergie à faire la guerre aux autres activistes. »

    Lanfranco Pace, lui aussi ancien fondateur du groupe Potere operaio, raconte : « Certains voulaient continuer la lutte armée. Nous leur avons expliqué fermement que la France avait un certain savoir-faire en matière de police parallèle et de barbouzerie, et que même Lénine était resté tranquille pendant ses années d’exil. »
    « C’était étrange, se souvient Alessandro Stella, on s’engueulait, mais en même temps on se donnait des combines pour un boulot ou un appart’. »

    Finalement, le pacte est adopté. Tous les avocats apportent leurs dossiers à la police. Jean-Pierre Mignard en dépose 118 à lui seul en 1982. Tous ont respecté leur contrat, excepté quelques soldats perdus. Un an plus tard, Ciro Rizzato, membre des Communistes organisés pour la libération prolétarienne, est abattu par la police à l’issue d’un hold-up dans une banque du 17e arrondissement pour le compte d’Action directe, en octobre 1983. Il avait 24 ans.

    En définitive, le plus dur commence : reprendre une vie normale, construire une existence, s’installer dans un #exil de longue durée que ne viendront plus rompre les incessants déménagements. « Ils devaient se mettre au boulot. C’était des intellos qui n’avaient rien glandé de leur vie à part rêver à la révolution depuis leur adolescence », raconte un témoin de ces années-là. Alessandro Stella témoigne : « En Italie, j’étais étudiant. A Paris. J’ai fait des chantiers. Parfois, quand je me balade, je me dis : “Là, j’ai refait les peintures, là, la salle de bains.” » Lanfranco Pace pousse la porte du quotidien Libération, au cœur de la Goutte-d’Or, dans le 18e. Avant lui, Antonio Bellavita l’a précédé, passant d’activiste sans boulot à directeur artistique. Recommandé par Jean-Marcel Bouguereau, alors spécialiste des mouvements d’extrême gauche allemands et italiens, Pace rencontre Serge July, le directeur et fondateur du journal. Embauché !

    « Je parlais très mal le français. Je confondais les mots “cuillère” et “couillon” », se souvient-il au téléphone. Il signe ses premiers papiers du pseudo qu’il gardera durant toute sa carrière en France, Edouard Mir. Mir… la paix, en russe. Bouguereau se rappelle ces collègues qui venaient le voir pour lui demander : « Mais, Edouard, il a du sang sur les mains ? » Il les rassure.
    Après Pace, ce sera au tour de Giambattista Marongiu de débarquer rue Christiani. D’abord maquettiste, puis secrétaire de rédaction, il deviendra une des plumes du cahier « Livres » sous le nom de Jean-Baptiste Marongiu. Avocat en Italie, Luigi Zezza, les retrouve un cutter à la main à monter les pages du journal. Gianluigi, lui, est devenu livreur puis déchargeur aux halles de Rungis. De cette nouvelle vie à l’air libre, il se souvient « de ses virées à Mobylette et de la soupe à l’oignon à 4 heures du matin ».

    Une « Little Italy » parisienne

    Mais l’exil est un acide ; il ronge. Comment composer avec cette part de soi restée au pays ? Les souvenirs qui parfois vous assaillent pour une odeur, une impression fugace ? Les parents que l’on ne peut plus voir et qui meurent loin de vous ?
    « Ils souffraient terriblement du mal du pays, se remémore un proche d’un des exilés. Parlaient sans cesse de leur village, de leur ville. Un jour, dans un restaurant, l’un d’eux s’est levé et s’est écrié plein de désespoir “Puglia ! Puglia !” (“Les Pouilles !”) Ils se faisaient des pâtes, disaient du mal des Français, parce que nous n’avions pas de bidet dans nos salles de bains. » « Tu te rends compte, frissonne encore un ancien membre de l’organisation Prima Linea (Première ligne), on mangeait des spaghettis au gruyère ! »

    Pour combattre la nostalgie, d’anciens activistes ouvrent les premiers vrais restaurants italiens à Paris dont la plupart ont depuis fermé ou ont changé de propriétaire : le Passepartout, à Saint-Michel, Le Sipario, dans le 12e arrondissement, L’Enoteca, à Saint-Paul, ainsi que la Tour de Babel, la librairie italienne de la rue du Roi-de-Sicile, dans le Marais.
    Une Little Italy parisienne voit le jour. Pourtant, la tentation de repasser la frontière est trop forte pour certains. « Un ami, raconte Alessandro Stella, n’a pas pu résister. Il a été tué en sortant de chez lui par la Digos, la police antiterroriste, à Trieste. » Gianluigi a bien failli retourner chez lui clandestinement pour revoir son père mourant. Son sac était prêt. Des amis l’ont dissuadé in extremis d’entreprendre ce voyage. Plus tard, il a su que les carabiniers l’attendaient à l’hôpital.

    Rentrer ou rester ? Paolo Persichetti n’a pas eu à se poser la question. Le 24 août 2002, dans un hall d’immeuble parisien, alors qu’il se rendait à un dîner, il est interpellé, conduit à la division nationale antiterroriste (DNAT) et ramené en voiture au pays pour purger le solde d’une peine de vingt-deux ans de prison pour « appartenance à une bande armée » et « complicité morale dans un homicide ».

    De cette extradition, en partie justifiée en raison des faits qui lui étaient reprochés – l’assassinat d’un général en 1987, postérieur à l’élaboration de la doctrine Mitterrand –, il garde le souvenir d’une sorte d’escamotage. « Quand nous sommes entrés dans le tunnel du Mont-Blanc j’ai eu l’impression que la montagne m’avalait. J’ai été remis aux policiers italiens à l’intérieur, sur une aire de secours, loin des regards », se souvient-il dans cette grande cafétéria impersonnelle de la périphérie de Rome, un soir de janvier.

    Rejeton tardif de l’insurrection (il avait 16 ans lors de l’assassinat d’Aldo Moro), il n’est arrivé en France qu’en 1991. Fils d’ouvriers originaires des Pouilles, il est devenu doctorant en sciences politiques, chargé de cours à l’université Paris-VIII, à Saint-Denis. « Je m’étais fait une autre vie, et c’est ça qu’on a voulu me faire expier, continue-t-il. En Italie, le discours dominant voudrait que les brigadistes exilés passent leur vie en vacances à l’étranger, à se la couler douce. Dans cette logique, tout ce que vous avez pu accomplir par la suite devient une circonstance aggravante qui sera retenue contre vous. » D’abord placé à l’isolement complet pendant quatre mois, il obtient, en 2008, au bout de six ans de détention, un régime de semi-liberté. « Quand je suis sorti, je ne reconnaissais plus ma ville. Les quartiers où j’avais grandi avaient complètement changé. Je me perdais dans Rome. Ici, ce n’est plus chez moi. »

    Retour à Gênes

    Enrico Porsia, lui, a pu de nouveau se rendre à Gênes, en juillet 2013, une fois prescrite sa condamnation à quatorze années de prison et au terme de plus de trente années d’exil en France. Il n’a jamais cherché à faire profil bas. Fin juillet 2013, à peine vingt-quatre heures après avoir débarqué d’un ferry arrivant de Corse, où il vit depuis la fin des années 1990, les journaux annonçaient « le retour du brigadiste jamais repenti » et ironisaient sur la « belle vie » qui était promise à l’enfant du pays.
    Son parcours a de quoi susciter des aigreurs. Parti à 20 ans, Enrico Porsia est devenu photographe, puis journaliste d’investigation. Pour son travail, il a sillonné la France, dont il ne pouvait pas sortir, « comme une balle de flipper ». Il a découvert l’Outre-mer, pour voir du pays, puis s’est posé en Corse, où ses reportages lui ont valu pas mal d’inimitiés – sa voiture a été plastiquée en 2009.

    « Tu vois, c’est ici qu’un groupe a enlevé l’armateur Costa, en 1977. Avec le fric de la rançon, les Brigades rouges ont pu tenir pas mal de temps. » Enrico Porsia
    Chaleureux et volubile, il joue les guides dans les rues de Gênes. « Tu vois, c’est ici qu’un groupe a enlevé l’armateur Costa, en 1977. Avec le fric de la rançon, les Brigades rouges ont pu tenir pas mal de temps. » Un peu plus tard, dans un petit restaurant où il a refait pour nous l’histoire mouvementée et détaillée de l’après-guerre italienne, un client s’est approché. Il s’est présenté comme un ancien membre du Parti communiste avant de lancer, glacial : « Le problème avec vous, les brigadistes, c’est que vous n’avez pas tué les bons. » Devenu Français par décret, en 1986, Enrico Porsia a appris il y a trois ans, « par hasard », qu’il avait perdu sa nationalité italienne. Hâbleur, il assure que cela ne lui fait ni chaud ni froid. Grave, il lâche : « L’exil est une véritable peine. Et le retour, encore plus dur ensuite. »

    Rome était méconnaissable aux yeux de Lanfranco Pace lorsqu’il y est retourné en 1994. Berlusconi était sur le point d’être élu président du Conseil. Il avait quitté un pays frileux, il en retrouvait un autre où les chaînes de télévision du « Cavaliere » diffusaient des images de filles à moitié nues, le strip-tease des ménagères : « Tout avait changé, les gens, les voitures. Mes amis soutenaient Antonio Di Pietro, le juge de l’opération “Mains propres”, qui représentait à mes yeux l’archétype du magistrat politisé que nous avions combattu toute notre jeunesse ! »
    Est-ce pour cette raison qu’il a choisi d’écrire pour Il Foglio, un quotidien financé en partie par l’ex-épouse de Berlusconi ? « Un petit journal mais une grande liberté », justifie-t-il.
    Parfois, Alessandro Stella retourne au pays, même s’il est brouillé avec son frère, Gian Antonio, un journaliste réputé. « J’apprécie les odeurs, les paysages, dit-il. Mais, pour l’historien que je suis devenu et l’ancien activiste que j’ai été, il n’y a rien de plus intéressant que la France. » Chaque samedi, il participe aux manifestations des « gilets jaunes ». Le matin seulement, avant que le rassemblement ne dégénère. A 63 ans, il fatigue un peu…

    « L’exil n’est pas une disgrâce. Je mène une vie difficile à Paris mais moins ennuyeuse que prof de philo à Terni. » Oreste Scalzone
    Quarante ans ont passé depuis les années de plomb, mais Oreste Scalzone continue de faire le fiérot. « L’exil n’est pas une disgrâce. J’ai une aversion pour la faute, les passions tristes, la victimisation. Je mène une vie difficile à Paris mais moins ennuyeuse que prof de philo à Terni [sa ville de naissance]. » Il n’est retourné en Italie qu’en 2007, vingt-six ans après son arrivée à Paris. Sa mère est morte peu après, à 102 ans. « Comme si elle m’avait attendu pour partir », dit-il. De son passé, il ne renie rien, et refuse qu’on l’y force. Question de principe.
    Son combat, c’est l’amnistie, sans conditions ni repentir, comme la France l’a fait avec les généraux putschistes de l’OAS. Il répugne à se prononcer sur la culpabilité de Cesare Battisti. Au terme d’un long raisonnement, il lâche, dans un sabir très post-soixante-huitard : « Toute justice pénale est un dispositif de production d’effets de vérité. Je voudrais pouvoir dire que, même dans la pire situation de ma vie, je resterai quelqu’un qui ne se laissera pas extorquer un aveu d’innocence. »

    « Malheur aux vaincus »

    L’Etat, l’opinion et les médias italiens ne veulent pas entendre parler de clémence, et encore moins aujourd’hui alors que les contentieux se multiplient entre Rome et Paris.
    Lanfranco Pace : « Les Italiens sont un peu dégueulasses. C’est malheur aux vaincus. Ils ne veulent pas d’amnistie collective, mais le pardon au cas par cas, ça passe. » Pour l’historien Marc Lazar, « la majorité des Transalpins considèrent qu’une amnistie est inutile car les responsables des attentats ont bien été jugés par un Etat de droit. En outre, il faudrait que ceux qui ont choisi la lutte armée expriment une contrition. » Ce passé-là ne passe pas dans ce pays paradoxal qui a plus facilement assimilé vingt ans de fascisme que ces dix années de plomb.

    Un après-midi durant, Oreste Scalzone nous a parlé dans un café proche de chez lui. Le soir, nous l’avons raccompagné. Il avait neigé, la chaussée était glissante. Il nous tenait le bras et parlait… parlait comme s’il n’allait jamais s’arrêter. Sur son pull et sa chemise, il avait passé un vieux blouson de cuir, un vieux manteau et un vieil imperméable. Il portait aussi une chapka sur la tête et de grosses chaussures fourrées. Il marchait avec une canne. « Toujours subversif », de son propre aveu, il incarne la persistance d’une utopie révolutionnaire aujourd’hui anachronique.

    Gauchiste de 72 ans, il est devenu la figure de référence sur la question des #réfugiés_politiques italiens. C’est sa raison sociale et sa raison d’être. On l’invite à des conférences des deux côtés des Alpes. Il chante L’Internationale au décès des camarades et joue Bella Ciao à l’accordéon. Il ne boit pas de champagne sous la tour Eiffel. Il habite un très modeste deux-pièces en rez-de-chaussée près des habitations à bon marché en brique rouge de la porte de Montreuil, dans le 20e arrondissement. Pour le voir, il suffit de frapper au carreau.
    Longtemps, la justice italienne a cru, avant d’abandonner cette piste, qu’il avait été l’un des cerveaux, avec le philosophe Toni Negri, de certaines violences imputées à l’extrême gauche. En regardant ce petit homme frêle comme un oiseau dans la lumière jaunâtre d’un réverbère de la rue Saint-Blaise, cette hypothèse nous a paru simplement incongrue.

    • Les années 70 en Italie et [leur] actualité - Alessandro Stella
      https://lundi.am/Les-annees-70-en-Italie-et-son-actualite-Alessandro-Stella

      (..) Car, il faut le rappeler, dans la première moitié des années 1970, c’était des ouvriers, des syndicalistes, des étudiants qui tombaient sous les balles de la police anti-émeute. Des clients de banque (Milan, 1969), des usagers de trains (Italicus, 1974), des auditeurs d’un comice syndical (Brescia, 1974) sont morts par dizaine dans des attentats qui voulaient semer la peur dans la population dans le but d’en appeler à un Etat fort, d’ordre et de discipline. Les luttes sociales, sur les lieux de travail, d’études, de vie, avaient en effet mis en crise hiérarchies et gouvernances, et la classe ouvrière était promise au paradis. (...)
      Le bilan de ces longues années de conflit entre les groupes armés d’extrême gauche et l’Etat italien comptabilise 128 morts (policiers, juges, dirigeants d’entreprise, hommes politiques, journalistes) causés par les militants révolutionnaires. De l’autre côté, il y a eu 68 militants morts, tués par des policiers ou tombé au cours d’actions. (...)

      [1] Une précision me semble devoir être apportée à ce texte, qui n’expose sans doute pas assez à quel point l’Italie des années 50-70 était une société violente. Dans l’espèce de bilan qu’il dresse qu’il met en rapport les morts tués par les organisations de lutte armée et ceux tués par la police chez les militants. Mais il conviendrait mieux, à mon sens, face aux morts du côté du pouvoir, d’aligner ceux tués dans les grèves, les mouvements paysans, les révoltes carcérales : on verrait alors que les pertes étaient infiniment plus élevées du côté des exploités en lutte que du côté des exploiteurs qui les réprimaient.

    • Un de meilleurs articles écrits en 2004, au début de « l’affaire Battisti », sur les « lois spéciales » italiennes des années 70-80.

      Wu Ming - Cesare Battisti, ce que les médias ne disent pas
      https://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/cesare_battisti_2_french.html

      1. Les lois spéciales 1974-82

      « Ce livre, je l’ai écrit avec colère. Je l’ai écrit entre 1974 et 1978 en contrepoint idéologique de la législation d’exception. Je voulais montrer à quel point il est équivoque de feindre de sauver l’État de Droit en le transformant en État Policier. » (les italiques sont de l’auteur de l’article)
      Italo Mereu, Préface de la deuxième édition de « Histoire de l’intolérance en Europe »

      Pour dire que le terrorisme fut combattu sans renoncer à la Constitution et aux droits de la défense, il faut être mal informé ou menteur. La Constitution et la civilisation juridique furent mises en lambeaux, décret après décret, instruction après instruction.
      Le décret-loi n.99 du 11-04-1974 porta à huit ans l’incarcération préventive, véritable « peine anticipée » contraire à la présomption
      d’innocence (article 27, alinéa 2, de la Constitution).
      La loi n. 497 du 14-10-1974 réintroduisit l’interrogatoire de la personne arrêtée par la police judiciaire, ce qui avait été aboli en 1969.
      La loi n. 152 du 22-05-1975 ("Loi Réale"). L’article 8 rend possible la fouille individuelle des gens sur place sans l’autorisation d’un magistrat, bien que la Constitution (article 13, alinéa 2) n’admette « aucune forme de détention, d’inspection, ou de fouille individuelle, ni aucune autre restriction à la liberté personnelle, sans un acte signé par l’autorité judiciaire et dans les seuls cas et modalités prévus par la loi. »
      Dès lors, les forces de l’ordre purent (et peuvent toujours) fouiller des personnes dont l’attitude ou la simple présence dans un lieu donné ne
      lui paraissaient « pas justifiables », même si la Constitution (article 16) précise que tout citoyen est libre de « circuler librement » où il veut.
      La « Loi Reale » contenait plusieurs autres innovations liberticides, mais ce n’est pas ici le lieu de l’examiner.
      Un décret interministériel du 04-05-1977 créa les « prisons spéciales ». Ceux qui y entraient ne bénéficiaient pas de la réforme carcérale mise en place deux ans auparavant. Le transfert dans une de ces structures était entièrement laissé à la discrétion de l’administration carcérale sans qu’elle ait besoin de demander l’avis du juge de surveillance. Il s’agissait réellement d’un durcissement du règlement pénitentiaire fasciste de 1931 : à cette époque, seul le juge de surveillance pouvait envoyer un détenu en « prison de haute surveillance ». Le réseau des prisons spéciales devint vite une zone franche, d’arbitraire et de négation des droits des détenus éloignement du lieu de résidence des familles ; visites et entretiens laissés à la discrétion de la direction ; transferts à l’improviste afin d’empêcher toute socialisation ; interdiction de posséder des timbres (prison de l’Asinara) ; isolement total en cellules insonorisées dotées chacune d’une petite cour, séparée des autres, pour prendre l’air (prison de Fossombrone) ; quatre minutes pour prendre la douche (prison de l’Asinara) ; surveillance continuelle et fouilles corporelles quotidiennes ; privation de tout contact humain et même visuels par les interphones et la totale automatisation des portes et des grilles etc.
      Tels étaient les lieux où les prévenus, selon la loi encore présumés innocents, passaient leur incarcération préventive. Pourtant la Constitution, article 27, alinéa 3, dit « Les peines infligées aux condamnés ne peuvent pas être contraires au respect humain et doivent tendre à la rééducation ».
      Vers quelle rééducation tendait le traitement décrit ci-dessus ?
      La loi n.534 du 08-08-1977, article 6, limita la possibilité pour la défense de déclarer nul un procès pour violation des droits d’un accusé et rendit encore plus expéditif le système des notifications, facilitant ainsi le début des procès par contumace (contrairement au droit de la défense et contre la Convention européenne des droits de l’homme de 1954).
      Le « décret Moro » du 21-03-1978 non seulement autorisa la garde à vue de vingt-quatre heures pour vérification d’identité, mais il supprima la limite de la durée des écoutes téléphoniques, légalisa les écoutes même sans mandat écrit, les admit comme preuves dans d’autres procès que ceux pour lesquels on les avait autorisées, enfin il permit les « écoutes téléphoniques préventives » même en l’absence du moindre délit. Inutile de rappeler que la Constitution (article 15) définit comme inviolable la correspondance et tout autre moyen de communication, sauf dans le cas d’un acte motivé émis par l’autorité judiciaire et « avec les garanties établies par la loi ».
      Le 30-08-1978 le gouvernement (en violation de l’article 77 de la Constitution) promulgua un décret secret qui ne fut pas transmis au Parlement et ne fut publié dans le « Journal Officiel » qu’un an plus tard. Ce décret donnait au général Carlo Arberto della Chiesa - sans pour autant le décharger du maintient de l’ordre dans les prisons - des pouvoirs spéciaux pour lutter contre le terrorisme.
      Le décret du 15-12-1979 (devenu ensuite la « Loi Cossiga », n. 15 du 06-02-1980), non seulement introduisit dans le code pénal le fameux article 270 bis (1), mais il autorisa aussi la police, dans le cas de délits de « conspiration politique par le biais d’associations » et de délits « d’associations de malfaiteurs », à procéder à des arrestations préventive d’une durée de 48 heures, plus quarante-huit heures supplémentaires de garde à vue afin de justifier les mesures prises. Pendant quatre longues journées un citoyen soupçonné d’être sur le point de conspirer pouvait rester à la merci de la police judiciaire sans avoir le droit d’en informer son avocat.
      Durant cette période il pouvait être interrogé et fouillé et dans de nombreux cas on a parlé de violences physiques et psychologiques (Amnesty International protesta à plusieurs reprises). Tout cela grâce à l’article 6, une mesure extraordinaire qui a durée un an.
      L’article 9 de la loi permettait les perquisitions pour « raison d’urgence » même sans mandat. La Constitution, article 14, dit : « Le domicile est inviolable. On ne peut pas y effectuer d’inspections, de perquisitions ni d’arrestations, sauf dans les cas et les modalités prévus par la loi et selon les garanties prescrites par la protection des libertés personnelles » (c’est moi qui souligne). En quoi consiste cette protection des libertés dans un système où sont légalisés l’arbitraire, les lubies du policier, la faculté de décider à vue s’il est nécessaire d’avoir ou non un mandat pour perquisitionner ?
      Dans l’article 10, la fin de l’incarcération préventive pour délits de terrorisme était prolongée d’un tiers par échelon judiciaire. De cette manière, jusqu’à la Cassation, on pouvait atteindre dix ans et huit mois de détention en attendant le jugement ! Avec l’article 11, on introduisit un grave élément de rétroactivité de la loi, permettant d’appliquer ces nouveaux délais aux procédures déjà en cours. Le but était clair : repousser les dates butoirs afin d’éviter que des centaines d’enterrés vivants attendent leur jugement à l’air libre.
      La « loi sur les repentis » (n. 304 du 29-05-1982) couronna la législation d’exception en concédant des remises de peine aux « repentis ». Le texte parlait explicitement de « repentir » [ravvedimento]. Dans un livre qui, ces derniers jours, a été souvent cité (sur le Net mais certainement pas dans les médias traditionnels), Giorgio Bocca se demandait qui pouvait bien être ce « repenti ». « Une personne qui, par convictions politiques, a adhéré à un parti armé et qui ensuite, après un revirement d’opinion, s’en est dissocié au point de le combattre, ou encore quelque aventuriste qui s’est amusé à tuer son prochain et qui, une fois capturé, essaye d’échapper à la punition en dénonçant tout et n’importe qui ? »
      Je cite le groupe musical « Elio e le storie tese » : « Je pencherais pour la seconde hypothèse / parce qu’elle exhale une odeur nauséabonde » (chanson de « Urna », 1992).

    • https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/04/20/reaffirmer-la-doctrine-mitterrand-sur-les-exiles-politiques-ne-signifie-en-a

      Tribune. Ils sont arrivés en France pour la plupart au début des années 1980, il y a plus de quarante ans. Ils ont participé à l’énorme vague de contestation politique et sociale qui a profondément marqué l’Italie pendant la décennie qui a suivi 1968. Ils venaient de groupes différents, avaient des histoires différentes, et étaient tous poursuivis par la justice italienne pour leur activité politique. Ils ont été protégés par ce que l’on a appelé la « doctrine Mitterrand » : parce que, dans certains cas, les conditions du fonctionnement de la justice italienne, dictées par la nécessité d’une réponse urgente aux dérives terroristes de la contestation sociale, laissaient paradoxalement craindre que toutes les garanties d’équité ne soient pas respectées ; parce que, plus généralement, les exilés italiens avaient publiquement déclaré qu’ils abandonnaient leur militantisme politique, qu’ils considéraient leur activité passée comme révolue, et qu’ils renonçaient à la violence.

      La doctrine Mitterrand n’est pas un texte écrit, elle n’a de valeur que comme décision politique. Mais elle se fonde sur un raisonnement qu’ont reconfirmé par la suite plusieurs gouvernements, de droite comme de gauche, et dont il nous semble qu’il vaut sans doute la peine d’être rappelé. Elle n’a jamais consisté à soustraire des coupables à une juste peine, ni à remettre en question le droit d’un Etat à faire valoir son propre système de justice. Elle a simplement mis en place, de facto, un mécanisme qui consiste à prendre la décision politique – face à la lacération douloureuse et générale de la cohésion d’un pays, et une fois que le contexte politique de cette lacération semble disparaître – de construire les conditions d’une unité et d’une paix retrouvées.

      Elle ne concerne donc pas des cas individuels mais fait face à une fracture qui s’est produite, dont elle a enregistré la violence, et qui semble désormais passée : elle se pose le problème de la recomposition de cette fracture. Elle n’efface pas les fautes et les responsabilités, elle ne nie pas l’histoire de ce qui s’est produit. Elle permet simplement au pays de recommencer à vivre ; et sans doute aussi aux historiens de pouvoir commencer à faire leur travail, c’est-à-dire de transformer la douleur lancinante en objets de savoir.
      Lire aussi L’Italie solde les années de plomb
      Dans le cas des années de plomb, une semblable possibilité a été envisagée et presque atteinte par l’Italie elle-même, à la fin des années 1990, parce qu’il fallait déclarer le chapitre clos – encore une fois non pas pour oublier, mais pour permettre au pays de se libérer d’un moment désormais révolu, et de livrer aux historiens la tâche d’en faire l’histoire.
      Cette possibilité, qui prenait la forme d’une proposition d’amnistie politique, n’a pas été saisie : elle était liée au projet d’une réforme constitutionnelle qui n’a finalement pas vu le jour.

      Aujourd’hui, les militants italiens exilés arrivés au début des années 1980 ont quarante ans de plus. Ils ont désormais largement l’âge de la retraite. Ils ont été journalistes, restaurateurs, médecins, graphistes, documentaristes, psychologues. Ils ont eu des enfants, et des petits-enfants. Ils n’ont cessé de répéter que la guerre était finie ; qu’ils étaient depuis bien longtemps étrangers à ce qu’ils avaient été sans jamais pourtant refuser d’admettre leur responsabilité. Ils avaient voulu le bien, la justice, l’égalité, le partage, la solidarité. Ils ont eu la tragédie, ils en admettent la responsabilité, mais ils ont rendu les armes depuis quatre décennies, et toute leur vie postérieure en constitue la preuve.
      C’est à ces femmes et à ces hommes, quarante ans après, que l’on demande des comptes. Non pas des comptes moraux – chacun d’entre eux a eu largement le temps d’y penser –, mais des comptes au nom d’une justice qui décrète que le pardon équivaut à l’oubli, que l’amnistie est toujours une trahison, que la réconciliation vaut moins que la réouverture des blessures. Rouvrir les blessures : faire en sorte que l’histoire ne passe pas.

      Réaffirmer la doctrine Mitterrand aujourd’hui ne signifie en aucun cas donner à l’Italie des leçons en matière de justice. Cela signifie simplement se souvenir que la politique se fait aussi, et surtout, au présent ; qu’elle se doit de construire les conditions d’un avenir partagé ; et que la conception de la justice comme pur instrument de vengeance, y compris quarante ans après, est contraire à ce que nous persistons à considérer comme un fonctionnement éclairé de la démocratie.