• La Corte europea condanna l’Italia a pagare per i maltrattamenti ai migranti : costretti a denudarsi, privati della libertà e malnutriti

    La causa avviata da quattro esuli sudanesi: dovranno ricevere in tutto 36 mila euro dallo Stato

    VENTIMIGLIA. Spogliati «senza alcuna ragione convincente». Maltrattati e «arbitrariamente privati della libertà». Ecco perché, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia a risarcire quattro migranti sudanesi con cifre che vanno dagli 8 ai diecimila euro ciascuno. La sentenza della prima sezione della Corte (presieduta da Marko Bošnjak) è datata 16 novembre, ma riguarda episodi accaduti nell’estate del 2016. Dopo aver avviato le pratiche per far attribuire ai loro clienti lo status di rifugiato, nel febbraio 2017 gli avvocati (Nicoletta Masuelli, Gianluca Vitale e Donatella Bava, tutti di Torino) avevano deciso di rivolgersi alla Corte di Strasburgo.
    I quattro erano arrivati in Italia in momenti diversi: due «in un giorno imprecisato di luglio» del 2016 a Cagliari, un altro il 14 luglio a Reggio Calabria, uno il 6 agosto sempre a Reggio Calabria e l’ultimo l’8 agosto «in un luogo imprecisato della costa siciliana». Il più giovane ha 30 anni, il più vecchio 43.

    In comune, i quattro hanno che sono stati tutti trasferiti nello stesso centro di accoglienza gestito dalla Croce Rossa a Ventimiglia. Sono stati «costretti a salire su un furgone della polizia», trasportati in una caserma dove sono stati «perquisiti», obbligati a consegnare «i telefoni, i lacci delle scarpe e le cinture» e poi «è stato chiesto loro di spogliarsi». Sono rimasti nudi dieci minuti, in attesa che gli agenti rilevassero le loro impronte digitali.
    Concluse le procedure, la polizia ha fatto salire i quattro (assieme a una ventina di connazionali) su un pullman. Destinazione: l’hotspot di Taranto. Secondo quanto ricostruito nella sentenza, i migranti sono stati «costretti a rimanere seduti per l’intero viaggio» e potevano andare in bagno soltanto scortati e lasciando la porta spalancata, rimanendo «esposti alla vista degli agenti e degli altri migranti».
    Il 23 agosto, i quattro (con un gruppo di compatrioti) sono risaliti su un pullman diretti a Ventimiglia, dove hanno incontrato un rappresentante del governo sudanese che li ha riconosciuti come cittadini del suo Paese. A quel punto, è stata avviata la procedura per il rimpatrio. In aereo, dall’aeroporto di Torino Caselle. Ma sul velivolo c’era posto soltanto per sette migranti, così il questore aveva firmato un provvedimento di trattenimento e i quattro sono stati accompagnati al Centro di identificazione ed espulsione di Torino.
    Uno, però, è stato prelevato pochi giorni dopo dalla polizia. Per lui, era pronto un posto sull’aereo per il rimpatrio. Lui non voleva, arrivato a bordo ha incominciato a dare in escandescenze assieme a un altro migrante finché il comandante del velivolo ha deciso di chiedere alla polizia di farli sbarcare entrambi, per problemi di sicurezza. Appena rientrato al Cie, l’uomo ha ribadito la sua intenzione di ottenere la protezione internazionale. Lo stesso hanno fatto gli altri tre. Tutti hanno ottenuto lo status di rifugiato.

    La sentenza della Corte condanna l’Italia a pagare per varie violazioni. Una riguarda «la procedura di spogliazione forzata da parte della polizia», che «può costituire una misura talmente invasiva e potenzialmente degradante da non poter essere applicata senza un motivo imperativo». E per i giudici di Strasburgo «il governo non ha fornito alcuna ragione convincente» per giustificare quel comportamento. Poi, ci sono le accuse dei quattro di essere rimasti senz’acqua e cibo nel trasferimento Ventimiglia-Taranto e ritorno. Il governo aveva ribattuto fornendo «le copie delle richieste della questura di Imperia a una società di catering», che però «riguardavano altri migranti». Per la Corte, quella situazione «esaminata nel contesto generale degli eventi era chiaramente di natura tale da provocare stress mentale». E ancora, le condizioni vissute in quei giorni «hanno causato ai ricorrenti un notevole disagio e un sentimento di umiliazione a un livello tale da equivalere a un trattamento degradante», vietato dalla legge. I giudici di Strasburgo ritengono, poi, che i quattro siano «stati arbitrariamente privati della libertà», pur se in una situazione di «vuoto legislativo dovuto alla mancanza di una normativa specifica in materia di hotspot», già denunciata nel 2016 dal garante nazionale dei detenuti.

    Per la Corte, ce n’è abbastanza per condannate l’Italia a risarcire i quattro: uno dovrà ricevere 8 mila euro, un altro 9 mila e altri due diecimila «a titolo di danno morale».

    https://www.lastampa.it/cronaca/2023/11/18/news/litalia_condannata_a_pagare_per_i_maltrattamenti_ai_migranti-13871399

    Le périple des 4 Soudanais en résumé :
    – 4 personnes concernées, ressortissants soudanais
    – 2 arrivés à Cagliari en juillet 2016, un le 14 juillet à Reggio Calabria, un le 16 août 2016
    – Transfert des 4 au centre d’accueil de la Croix-Rouge à Vintimille avec un fourgon de la police —> dénudés, humiliés
    – Transfert (avec 20 autres) vers l’hotspot de Taranto
    – 23 août —> transfert à Vintimille par bus, RV avec un représentant du gouvernement soudanais qui a reconnu leur nationalité soudanaise, début procédure de renvoi vers Soudan en avion
    – Transfert à l’aéroport de Torino Caselle, mais pas de place pour les 4 dans l’avion
    – Transfert au centre de rétention de Turin
    – Personne ne part, les 4 arrivent à demander l’asile et obtenir le statut de réfugié
    – Novembre 2023 : Italie condamnée par la Cour européenne des droits de l’homme

    #justice #condamnation #Italie #frontières #frontière_sud-alpine #CEDH #cour_européenne_des_droits_de_l'homme #mauvais_traitements #privation_de_liberté #nudité #violences_policières #Taranto #hotspot #CPR #rétention #détention_administrative #réfugiés_soudanais #Turin #migrerrance #humiliation

    voir aussi ce fil de discussion sur les transferts frontière_sud-alpine - hotspot de Taranto :
    Migranti come (costosi) pacchi postali


    https://seenthis.net/messages/613202

    • Denudati, maltrattati e privati della libertà: la CEDU condanna nuovamente l’Italia

      Le persone migranti denunciarono i rastrellamenti avvenuti a Ventimiglia nell’estate 2016

      La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) ha nuovamente condannato l’Italia a risarcire con un totale di 27mila euro (più 4.000 euro di costi e spese legali) quattro cittadini sudanesi per averli denudati, maltrattati e privati della libertà nell’estate 2016 durante le cosiddette operazioni per “alleggerire la pressione alla frontiera” di Ventimiglia, quando centinaia di persone migranti venivano coattivamente trasferite negli hotspot del sud Italia 1 e, in alcuni casi, trasferiti nei CIE e quindi rimpatriati nel paese di origine 2.

      C’è da dire che la Corte avrebbe potuto condannare l’Italia con maggiore severità, soprattutto per quanto riguarda le deportazioni in un paese non sicuro come il Sudan. Tuttavia, si tratta dell’ennesima conferma che l’Italia nega i diritti fondamentali alle persone migranti e che i governi portano avanti operazioni nei quali gli abusi e i maltrattamenti delle forze dell’ordine non sono delle eccezioni o degli eccessi di un singolo agente, ma qualcosa di strutturale e quindi sistemico. E quando queste violazioni sono denunciate, nemmeno vengono condotte indagini per fare luce sulle responsabilità e indagare i colpevoli.

      La sentenza della CEDU pubblicata il 16 novembre 3 riguarda nove cittadini sudanesi arrivati in Italia nell’estate del 2016 i quali hanno denunciato diversi abusi subiti dalle autorità italiane, un tentativo di rimpatrio forzato e uno portato a termine.

      Nel primo caso i ricorrenti hanno avanzato denunce in merito al loro arresto, trasporto e detenzione in Italia, uno di loro ha anche affermato di essere stato maltrattato.

      I quattro ricorrenti del primo caso hanno ottenuto la protezione internazionale, mentre i cinque ricorrenti del secondo caso hanno affermato di aver fatto parte di un gruppo di 40 persone migranti che erano state espulse subito dopo il loro arrivo in Italia.

      Le persone sono state difese dall’avv. Gianluca Vitale e dell’avv.te Nicoletta Masuelli e Donatella Bava, tutte del foro di Torino.
      I fatti riportati nella sintesi

      I quattro ricorrenti nel primo caso sono nati tra il 1980 e il 1994. Vivono tutti a Torino, tranne uno che vive in Germania. I ricorrenti nel secondo caso sono nati tra il 1989 e il 1996. Uno vive in Egitto, uno in Niger e tre in Sudan.

      Tutti e nove i richiedenti sono arrivati in Italia nell’estate del 2016. I primi quattro hanno raggiunto le coste italiane in barca, mentre gli altri cinque sono stati salvati in mare dalla Marina italiana. Alcuni sono transitati attraverso vari hotspot e tutti sono finiti a Ventimiglia presso il centro della Croce Rossa.

      Secondo i ricorrenti nel primo caso, il 17 e il 19 agosto 2016 sono stati arrestati, costretti a salire su un furgone della polizia e portati in quella che hanno capito essere una stazione di polizia. Sono stati perquisiti, è stato chiesto loro di spogliarsi e sono stati lasciati nudi per circa dieci minuti prima che venissero prese le loro impronte digitali.

      Sono stati poi costretti a salire su un autobus, scortati da numerosi agenti di polizia, senza conoscere la loro destinazione e senza ricevere alcun documento sulle ragioni del loro trasferimento o della loro privazione di libertà. In seguito hanno scoperto di essere stati trasferiti da Ventimiglia all’hotspot di Taranto.

      Nell’hotspot di Taranto, dal quale non avrebbero potuto uscire, sostengono di aver ricevuto un provvedimento di respingimento il 22 agosto 2016. Il giorno successivo sono stati riportati a Ventimiglia in autobus.

      Secondo i ricorrenti, le condizioni all’hotspot erano difficili come lo erano durante ciascuno dei trasferimenti in autobus durati 15 ore. Erano sotto il costante controllo della polizia, in un clima di violenza e minacce, senza cibo o acqua sufficienti in piena estate.

      Sostengono di non aver incontrato un avvocato o un giudice durante quel periodo e di non aver capito cosa stesse succedendo. Il 24 agosto 2016 sono stati trasferiti da Ventimiglia all’aeroporto di Torino per essere imbarcati su un volo per il Sudan. Poiché non c’erano abbastanza posti sull’aereo, il loro trasferimento è stato posticipato. Sono stati quindi trasferiti al CIE (Centro di identificazione ed espulsione) di Torino e il Questore ha emesso per ciascuno di loro un provvedimento di trattenimento.

      Uno dei ricorrenti (T.B.) sostiene che le autorità hanno tentato di espellerlo nuovamente il 1° settembre 2016. Ha protestato e la polizia lo ha colpito al volto e allo stomaco. Lo hanno poi costretto a salire sull’aereo e lo hanno legato. Tuttavia, il pilota si è rifiutato di decollare a causa del suo stato di agitazione. È stato riportato al CIE di Torino.

      Tutti e quattro i richiedenti hanno ottenuto la protezione internazionale, essenzialmente sulla base della loro storia personale in Sudan e del conseguente rischio di vita in caso di rimpatrio.

      Secondo i ricorrenti del secondo caso, invece, non sono mai stati informati in nessun momento della possibilità di chiedere protezione internazionale. Sostengono inoltre di aver fatto parte di un gruppo di circa 40 migranti per i quali è stato trovato posto sul volo in partenza il 24 agosto 2016 e di essere stati rimpatriati a Khartoum lo stesso giorno.

      Il governo italiano ha contestato tale affermazione, sostenendo che i ricorrenti non sono mai stati sul territorio italiano. Hanno fornito alla Corte le fotografie identificative delle persone rimpatriate in Sudan il 24 agosto 2016, sostenendo che non presentavano una stretta somiglianza con i ricorrenti. Ha sostenuto inoltre che i nomi delle persone allontanate non corrispondevano a quelli dei ricorrenti. In considerazione del disaccordo delle parti, la Corte ha nominato un esperto di comparazione facciale della polizia belga (articolo A1, paragrafi 1 e 2, del Regolamento della Corte – atti istruttori) che, il 5 ottobre 2022, ha presentato una relazione per valutare se le persone rappresentate nelle fotografie e nei filmati forniti dai rappresentanti dei ricorrenti corrispondessero a quelle raffigurate nelle fotografie identificative presentate dal Governo.

      Il rapporto ha concluso, per quanto riguarda uno dei ricorrenti nel caso, W.A., che i due individui raffigurati in tali fonti corrispondevano al massimo livello di affidabilità. Per quanto riguarda gli altri quattro richiedenti, non vi era alcuna corrispondenza affidabile.
      La decisione della Corte

      Le sentenze sono state emesse da una Camera di sette giudici, composta da: Marko Bošnjak (Slovenia), Presidente, Alena Poláčková (Slovacchia), Krzysztof Wojtyczek (Polonia), Péter Paczolay (Ungheria), Ivana Jelić (Montenegro), Erik Wennerström (Svezia), Raffaele Sabato (Italia), e anche Liv Tigerstedt, Vice Cancelliere di Sezione.

      La Corte, ha ritenuto, all’unanimità, che vi è stata:

      1) una violazione dell’articolo 3 per quanto riguarda l’assenza di una ragione sufficientemente convincente per giustificare il fatto che i ricorrenti siano stati lasciati nudi insieme a molti altri migranti, senza privacy e sorvegliati dalla polizia e le condizioni dei loro successivi trasferimenti in autobus da e verso un hotspot, sotto il costante controllo della polizia, senza sapere dove stessero andando;

      2) una violazione dell’articolo 3, in quanto non è stata svolta alcuna indagine in merito alle accuse del ricorrente di essere stato picchiato da agenti di polizia durante un tentativo di rimpatrio;

      3) la violazione dell’articolo 5, paragrafi 1, 2 e 4 (diritto alla libertà e alla sicurezza) per quanto riguarda tre dei quattro ricorrenti in relazione al loro fermo, trasporto e detenzione arbitrari.

      La Corte ha stabilito che l’Italia deve pagare ai ricorrenti nel caso A.E. e T.B. contro Italia 27.000 euro per danni morali e 4.000 euro, congiuntamente, per costi e spese.

      In particolare:

      Per quanto riguarda i restanti reclami dei ricorrenti in A.E. e T.B. contro l’Italia, la Corte ha riscontrato che le condizioni del loro arresto e del trasferimento in autobus, considerate nel loro insieme, devono aver causato un notevole disagio e umiliazione, equivalenti a un trattamento degradante, in violazione dell’Articolo 3.

      Inoltre, i successivi lunghi trasferimenti in autobus dei ricorrenti sono avvenuti in un breve lasso di tempo e in un periodo dell’anno molto caldo, senza cibo o acqua sufficienti e senza che sapessero dove erano diretti o perché. Erano sotto il costante controllo della polizia, in un clima di violenza e di minacce. Queste condizioni, nel complesso, devono essere state fonte di angoscia.

      Infine, la Corte ha riscontrato una violazione dell’Articolo 3 per quanto riguarda il richiedente (T.B.) che ha affermato di essere stato picchiato durante un altro tentativo di allontanamento. Due degli altri richiedenti hanno confermato il suo racconto durante i colloqui relativi alle loro richieste di protezione internazionale; uno ha dichiarato in particolare di aver visto un altro migrante che veniva riportato dalla polizia dall’aeroporto con il volto tumefatto. Anche se T.B. aveva detto, durante un colloquio con le autorità, di essere in grado di identificare i tre agenti di polizia responsabili dei suoi maltrattamenti, non è stata condotta alcuna indagine.

      La Corte ha notato che il Governo le aveva fornito una copia di un’ordinanza di refusal-of-entry nei confronti di uno dei richiedenti, A.E., datata 1 agosto 2016, e la Corte ha quindi dichiarato inammissibile il suo reclamo sulla sua detenzione. D’altra parte, ha rilevato che gli altri tre ricorrenti nel caso, ai quali non erano stati notificati ordini di refusal-of-entry fino al 22 agosto 2016, erano stati arrestati e trasferiti senza alcuna documentazione e senza che potessero lasciare l’hotspot di Taranto. Ciò ha comportato una privazione arbitraria della loro libertà, in violazione dell’Articolo 5 § 1.

      Inoltre, era assente una legislazione chiara e accessibile relativa agli hotspot e la Corte non ha avuto alcuna prova di come le autorità avrebbero potuto informare i richiedenti delle ragioni legali della loro privazione di libertà o dare loro l’opportunità di contestare in tribunale i motivi della loro detenzione de facto.

      La Corte ha però respinto come inammissibili tutti i reclami dei nove ricorrenti, tranne uno, in merito al fatto che le autorità italiane non avevano preso in considerazione il rischio di trattamenti inumani se fossero stati rimpatriati in Sudan. In A.E. e T.B. contro Italia, i richiedenti, che avevano ottenuto la protezione internazionale, non erano più a rischio di deportazione e non potevano quindi affermare di essere vittime di una violazione dell’Articolo 3. In W.A. e altri c. Italia, la Corte ha ritenuto che quattro dei cinque ricorrenti, per i quali il rapporto della polizia belga del 2022 non aveva stabilito una corrispondenza affidabile tra le fotografie fornite dalle parti, non avessero sufficientemente motivato i loro reclami.

      La Corte ha dichiarato ammissibile il reclamo del ricorrente, W.A.. Ha osservato che i documenti disponibili erano sufficienti per concludere che si trattava di una delle persone indicate nelle fotografie identificative fornite dal Governo. Ha quindi ritenuto che fosse tra i cittadini sudanesi allontanati in Sudan il 24 agosto 2016. Tuttavia, la Corte ha continuato a ritenere che non vi fosse stata alcuna violazione dell’Articolo 3 nel caso di W.A. .

      In particolare, ha notato che c’erano state delle imprecisioni nel suo modulo di richiesta alla Corte e che, sebbene fosse stato assistito da un avvocato in diversi momenti della procedura di espulsione, aveva esplicitamente dichiarato di non voler chiedere la protezione internazionale e di essere semplicemente in transito in Italia. Inoltre, a differenza dei richiedenti nel caso A.E. e T.B. contro l’Italia, che avevano ottenuto la protezione internazionale sulla base delle loro esperienze personali, W.A. aveva sostenuto di appartenere a una tribù perseguitata dal Governo sudanese solo dopo aver presentato la domanda alla Corte europea. Questa informazione non era quindi disponibile per le autorità italiane al momento rilevante e la Corte ha concluso che il Governo italiano non ha violato il suo dovere di fornire garanzie effettive per proteggere W.A. dal respingimento arbitrario nel suo Paese d’origine.

      – Guerra al desiderio migrante. Deportazioni da Ventimiglia e Como verso gli hotspot, di Francesco Ferri (https://www.meltingpot.org/2016/08/guerra-al-desiderio-migrante-deportazioni-da-ventimiglia-e-como-verso-gl) – 17 agosto 2026
      – Rimpatrio forzato dei cittadini sudanesi: l’Italia ha violato i diritti. Rapporto giuridico sul memorandum d’intesa Italia-Sudan a cura della Clinica Dipartimento di Giurisprudenza di Torino (https://www.meltingpot.org/2017/10/rimpatrio-forzato-dei-cittadini-sudanesi-litalia-ha-violato-i-diritti-um) – 31 ottobre 2017.
      - The cases of A.E. and T.B. v. Italy (application nos. 18911/17, 18941/17, and 18959/17, https://hudoc.echr.coe.int/?i=001-228836) and W.A. and Others v. Italy (no. 18787/17, https://hudoc.echr.coe.int/?i=001-228835)

      https://www.meltingpot.org/2023/11/denudati-maltrattati-e-privati-della-liberta-la-cedu-condanna-nuovamente

  • Au #Darfour, la terreur à huis clos : « Ils veulent nous rayer de la carte »

    Depuis le 15 avril et le début de la #guerre au #Soudan, plus de 420 000 personnes se sont réfugiées dans l’est du #Tchad. Principalement issues des communautés non arabes du Darfour, elles témoignent d’attaques délibérées contre les civils, de multiples #crimes_de_guerre, et dénoncent un #nettoyage_ethnique.

    Un mélange de boue et de sang. Des corps emportés par le courant. Des cris de détresse et le sifflement des balles transperçant l’eau marronasse. C’est la dernière image qui hante Abdelmoneim Adam. Le soleil se levait à l’aube du 15 juin sur l’oued Kaja – la rivière saisonnière gonflée par les pluies qui traverse #El-Geneina, capitale du Darfour occidental – et des milliers de personnes tentaient de fuir la ville.

    Partout, des barrages de soldats leur coupaient la route. « Ils tiraient dans le tas, parfois à bout portant sur des enfants, des vieillards », se souvient Abdelmoneim, qui s’est jeté dans l’eau pour échapper à la mort. Des dizaines d’autres l’ont suivi. Une poignée d’entre eux seulement sont arrivés indemnes sur l’autre rive. Lui ne s’est plus jamais retourné.

    Ses sandales ont été emportées par les flots, l’obligeant à poursuivre sa route pieds nus, à la merci des épines. Attendant le crépuscule, il a coupé à travers champs, sous une pluie battante, évitant une dizaine de check-points tenus par les paramilitaires et slalomant entre les furgan, les campements militaires des miliciens arabes qui encerclaient El-Geneina. Il lui a fallu 13 heures pour parcourir la vingtaine de kilomètres qui le séparait du Tchad.

    Le Darfour s’est embrasé dans le sillage de la guerre amorcée le 15 avril à Khartoum entre l’armée régulière dirigée par le général Abdel Fattah al-Bourhane et les #Forces_paramilitaires_de_soutien_rapide (#FSR) du général Hemetti. Dans cette région à l’ouest du pays, meurtrie par les violences depuis 2003, le #conflit a pris une tournure ethnique, ravivant des cicatrices jamais refermées entre communautés.

    Dans la province du Darfour occidental qui borde le Tchad, l’armée régulière s’est retranchée dans ses quartiers généraux, délaissant le contrôle de la région aux FSR. Ces dernières ont assis leur domination en mobilisant derrière elles de nombreuses #milices issues des #tribus_arabes de la région.

    À El-Geneina, bastion historique des #Massalit, une communauté non arabe du Darfour à cheval entre le Soudan et le Tchad, environ 2 000 volontaires ont pris les armes pour défendre leur communauté. Ces groupes d’autodéfense, qui se battent aux côtés d’un ancien groupe rebelle sous les ordres du gouverneur Khamis Abakar, ont rapidement été dépassés en nombre et sont arrivés à court de munitions.

    Après avoir accusé à la télévision les FSR et leurs milices alliées de perpétrer un « génocide », le gouverneur massalit Khamis Abakar a été arrêté le 14 juin par des soldats du général Hemetti. Quelques heures plus tard, sa dépouille mutilée était exhibée sur les réseaux sociaux. Son assassinat a marqué un point de non-retour, le début d’une hémorragie.
    Démons à cheval

    En trois jours, les 15, 16 et 17 juin, El-Geneina a été le théâtre de massacres sanglants perpétrés à huis clos. La ville s’est vidée de plus de 70 % de ses habitant·es. Des colonnes de civils se pressaient à la frontière tchadienne, à pied, à dos d’âne, certains poussant des charrettes transportant des corps inertes. En 72 heures, plus de 850 blessés de guerre, la plupart par balles, ont déferlé sur le petit hôpital d’Adré. « Du jamais-vu », confie le médecin en chef du district. En six mois, plus de 420 000 personnes, principalement massalit, ont trouvé refuge au Tchad.

    Depuis le début du mois de septembre, les affrontements ont baissé en intensité mais quelques centaines de réfugié·es traversent encore chaque jour le poste-frontière, bringuebalé·es sur des charrettes tirées par des chevaux faméliques. Les familles, assises par grappes sur les carrioles, s’accrochent aux sangles qui retiennent les tas d’affaires qu’elles ont pu emporter : un peu de vaisselle, des sacs de jute remplis de quelques kilos d’oignons ou de patates, des bidons qui s’entrechoquent dans un écho régulier, des chaises en plastique qui s’amoncellent.

    Les regards disent les longues semaines à affronter des violences quotidiennes. « Les milices arabes faisaient paître leurs dromadaires sur nos terres. Nous n’avions plus rien à manger. Ils nous imposaient des taxes chaque semaine », témoigne Mariam Idriss, dont la ferme a été prise d’assaut. Son mari a été fauché par une balle. Dans l’immense campement qui entoure la bourgade tchadienne d’Adré, où que se tourne le regard, il y a peu d’hommes.

    « Les tribus arabes et les forces de Hemetti se déchaînent contre les Massalit et plus largement contre tous ceux qui ont la #peau_noire, ceux qu’ils appellent “#ambay”, les “esclaves” », dénonce Mohammed Idriss, un ancien bibliothécaire dont la librairie a été incendiée durant les attaques. Le vieil homme, collier de barbe blanche encadrant son visage, est allongé sur un lit en fer dans l’obscurité d’une salle de classe désaffectée. « On fait face à de vieux démons. Les événements d’El-Geneina sont la continuation d’une opération de nettoyage ethnique amorcée en 2003. Les #Janjawid veulent nous rayer de la carte », poursuit-il, le corps prostré mais la voix claquant comme un coup de tonnerre.

    Les « Janjawid », « les démons à cheval » en arabe. Ce nom, souvent prononcé avec effroi, désigne les milices essentiellement composées de combattants issus des tribus arabes nomades qui ont été instrumentalisées en 2003 par le régime d’Omar al-Bachir dans sa guerre contre des groupes rebelles du Darfour qui s’estimaient marginalisés par le pouvoir central. En 2013, ces milices sont devenues des unités officielles du régime, baptisées Forces de soutien rapide (FSR) et placées sous le commandement du général Mohammed Hamdan Dagalo, alias Hemetti.

    À la chute du dictateur Omar al-Bachir en avril 2019, Hemetti a connu une ascension fulgurante à la tête de l’État soudanais jusqu’à devenir vice-président du Conseil souverain. Partageant un temps le pouvoir avec le chef de l’armée régulière, le général Bourhane, il est désormais engagé dans une lutte à mort pour le pouvoir.
    Un baril de poudre prêt à exploser

    Assis sur des milliards de dollars amassés grâce à l’exploitation de multiples #mines d’#or, et grâce à la manne financière liée à l’envoi de troupes au Yémen pour y combattre comme mercenaires, Hemetti est parvenu en quelques années à faire des FSR une #milice_paramilitaire, bien équipée et entraînée, forte de plus de 100 000 combattants, capable de concurrencer l’armée régulière soudanaise. Ses troupes gardent la haute main sur le Darfour. Sa région natale, aux confins de la Libye, du Tchad et de la Centrafrique, est un carrefour stratégique pour les #ressources, l’or notamment, mais surtout, en temps de guerre, pour les #armes qui transitent par les frontières poreuses et pour le flux de combattants recrutés dans certaines tribus nomades du Sahel, jusqu’au Niger et au Mali.

    Depuis la chute d’Al-Bachir, les milices arabes du Darfour, galvanisées par l’ascension fulgurante de l’un des leurs à la tête du pouvoir, avaient poursuivi leurs raids meurtriers sur les villages et les camps de déplacé·es non arabes du Darfour, dans le but de pérenniser l’occupation de la terre. Avant même le début de la guerre, les communautés à l’ouest du Darfour étaient à couteaux tirés.

    La ville d’El-Geneina était segmentée entre quartiers arabes et non arabes. Les kalachnikovs se refourguaient pour quelques liasses de billets derrière les étalages du souk. La ville était peuplée d’un demi-million d’habitant·es à la suite des exodes successifs des dizaines de milliers de déplacé·es, principalement des Massalit. El-Geneina était devenue un baril de poudre prêt à exploser. L’étincelle est venue de loin, le 15 avril, à Khartoum, servant de prétexte au déchaînement de violence à plus de mille kilomètres à l’ouest.

    Mediapart a rencontré une trentaine de témoins ayant fui les violences à l’ouest du Darfour. Parmi eux, des médecins, des commerçants, des activistes, des agriculteurs, des avocats, des chefs traditionnels, des fonctionnaires, des travailleurs sociaux. Au moment d’évoquer « al-ahdath », « les événements » en arabe, les rescapés marquent un temps de silence. Souvent, les yeux s’embuent, les mains s’entortillent et les premiers mots sont bredouillés, presque chuchotés.

    « Madares, El-Ghaba, Thaoura, Jamarek, Imtidad, Zuhur, Tadamon » : Taha Abdallah énumère les quartiers d’El-Geneina anciennement peuplés de Massalit qui ont aujourd’hui été vidés de leurs habitant·es. Les maisons historiques, le musée, l’administration du registre civil, les archives, les camps de déplacé·es ont été détruits. « Il n’y a plus de trace, ils ont tout effacé. Tout a été nettoyé et les débris ramassés avec des pelleteuses », déplore le membre de l’association Juzur, une organisation qui enquêtait sur les crimes commis à l’ouest du Darfour.

    Sur son téléphone, l’un de ses camarades, Arbab Ali, regarde des selfies pris avec ses amis. Sur chaque photo, l’un d’entre eux manque à l’appel. « Ils ne sont jamais arrivés ici. » Sur l’écran, son doigt fait défiler des images de mortiers, de débris de missiles antiaériens tirés à l’horizontale vers des quartiers résidentiels. « J’ai retrouvé la dépouille d’un garçon de 20 ans, le corps presque coupé en deux », s’étouffe le jeune homme assis à l’ombre d’un rakuba, un préau de paille.

    Ce petit groupe de militants des droits humains dénonce une opération d’élimination systématique ciblant les élites intellectuelles et politiques de la communauté massalit, médecins, avocats, professeurs, ingénieurs ou activistes. À chaque check-point, les soldats des FSR ou des miliciens sortaient leur téléphone et faisaient défiler le nom et les photos des personnes recherchées. « S’ils trouvent ton nom sur la liste, c’est fini pour toi. »

    L’avocat Jamal Abdallah Khamis, également membre de l’association Juzur, tient quant à lui une autre liste. Sur des feuilles volantes, il a soigneusement recopié les milliers de noms des personnes blessées, mortes ou disparues au cours des événements à El-Geneina. Parmi ces noms, se trouve notamment celui de son mentor, l’avocat Khamis Arbab, qui avait constitué un dossier documentant les attaques répétées des milices arabes sur un camp de déplacé·es bordant la ville. Il a été enlevé à son domicile, torturé, puis son corps a été jeté. Les yeux lui avaient été arrachés.

    « Tous ceux qui tentaient de faire s’élever les consciences, qui prêchaient pour un changement démocratique et une coexistence pacifique entre tribus, étaient dans le viseur », résume Jamal Abdallah Khamis. Les femmes n’ont pas échappé à la règle. Zahra Adam était engagée depuis une quinzaine d’années dans une association de lutte contre les violences faites aux femmes. Son nom apparaissait sur les listes des miliciens. Elle était recherchée pour son travail de documentation des viols commis dans la région. Rien qu’entre le 24 avril et le 20 mai, elle a recensé 60 cas de viols à El-Geneina. « Ensuite, on a dû arrêter de compter. L’avocat chargé du dossier a été éliminé. Au total, il y a des centaines de victimes, ici, dans le camp. Mais la plupart se terrent dans le silence », relate-t-elle.

    De nombreuses militantes ont été ciblées. Rabab*, une étudiante de 23 ans engagée dans un comité de quartier, avait été invitée sur le plateau d’une radio locale quelques jours avant le début de la guerre. Sur les ondes, elle avait alerté sur le risque imminent de confrontations entre communautés. Début juin, elle a été enlevée dans le dortoir de l’université par des soldats enturbannés, puis embarquée de force, les yeux bandés, vers un compound où une soixantaine de filles étaient retenues captives. « Ils disaient : “Vous ne reverrez jamais vos familles.” Ils vendaient des filles à d’autres miliciens, parfois se les échangeaient contre un tuk-tuk », témoigne-t-elle d’une voix éteinte, drapée d’un niqab noir, de larges cernes soulignant ses yeux.

    Depuis 2003, au Darfour, le corps des femmes est devenu un des champs de bataille. « Le viol est un outil du nettoyage ethnique. Ils violent pour humilier, pour marquer dans la chair leur domination. Ils sont fiers de violer une communauté qu’ils considèrent comme inférieure », poursuit Zahra, ajoutant que même des fillettes ont été violées au canon de kalachnikov.

    Selon plusieurs témoins rencontrés par Mediapart, dans les jours qui ont suivi les massacres de la mi-juin, plusieurs chefs de milices arabes, en coordination avec les Forces de soutien rapide, ont entrepris de dissimuler les traces du carnage. Les équipes du Croissant-Rouge soudanais ont été chargées par un « comité sanitaire » de ramasser les corps qui jonchaient les avenues.

    « L’odeur était pestilentielle. Les cadavres pourrissaient au soleil, parfois déchiquetés par les chiens », souffle Mohammed*, le regard vide. « Chaque jour, on remplissait la benne d’un camion à ras bord. Elle pouvait contenir plus d’une cinquantaine de corps et les camions faisaient plusieurs allers-retours », détaille Ahmed*, un autre témoin forcé de jouer les fossoyeurs pendant dix jours, « de 8 à 14 heures ». Les équipes avaient interdiction de prendre des photos et de décompter le nombre de morts. Il leur était impossible de savoir où les camions se rendaient.
    Une enquête de la Cour pénale internationale

    Échappant aux regards des soldats, l’étudiant de 28 ans s’est glissé entre la cabine et la benne de l’un des camions. Le chauffeur a pris la direction d’un site appelé Turab El-Ahmar, à l’ouest de la ville. « Les trous étaient déjà creusés. À plusieurs reprises, un camion arrivait, levait la benne et déversait les corps », se souvient-il. Puis une pelleteuse venait reboucher la fosse.

    Quartier par quartier, maison par maison, ils ont ratissé la ville d’El-Geneina. « En tout, il y a eu au moins 4 000 corps enterrés », estime Mohammed. Début septembre, le Commissariat des Nations unies pour les droits de l’homme a annoncé avoir reçu des informations crédibles sur l’existence de treize fosses communes.

    Les paramilitaires nient toute responsabilité dans ce qu’ils dépeignent comme un conflit ethnique entre communautés de l’ouest du Darfour. Malgré les demandes de Mediapart, la zone reste inaccessible pour les journalistes.

    « Entre le discours des FSR et celui des victimes, la justice tranchera », conteste Arbab Ali avec une once d’optimisme. Le 13 juillet, la Cour pénale internationale (CPI) a annoncé l’ouverture d’une nouvelle enquête pour « crimes de guerre » au Darfour. Elle vient s’ajouter aux investigations démarrées en 2005 à la suite de la guerre qui, sous le régime d’Omar al-Bachir, avait déjà fait plus de 300 000 morts dans la région.

    Pourtant, il règne chez les rescapé·es du Darfour un sentiment de déjà-vu. À ceci près que la guerre actuelle ne soulève pas la même indignation internationale qu’en 2003. Beaucoup de réfugié·es n’attendent plus rien de la justice internationale. Vingt ans après les premières enquêtes de la CPI, aucune condamnation n’a encore été prononcée.

    Alors, dans les travées du camp, le choc du déplacement forcé laisse place à une volonté de revanche. Certains leaders massalit ont pris langue avec l’armée régulière. Une contre-offensive se prépare. Le camp bruisse de rumeurs sur des mouvements de troupes et des livraisons d’armes au Darfour. Côté tchadien, les humanitaires et les autorités s’attendent à ce que la situation dégénère à nouveau.

    Au Soudan, le conflit ne se résume plus seulement en un affrontement entre deux armées. Aujourd’hui, chaque clan et chaque tribu joue sa survie au milieu de la désintégration de l’État. Les voix dissidentes, opposées à une guerre absurde, sont criminalisées par les belligérants et souvent emprisonnées. La guerre est partie pour durer. Et les civils, prisonniers d’un engrenage meurtrier, en payent le prix.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/131123/au-darfour-la-terreur-huis-clos-ils-veulent-nous-rayer-de-la-carte
    #réfugiés_soudanais #génocide

  • Au #Tchad, « urgence humanitaire majeure » pour les #réfugiés_soudanais

    "Les besoins humanitaires empirent chaque jour" pour les quelque 400 000 réfugiés soudanais qui ont fui les combats vers le Tchad voisin, a alerté mercredi l’ONG Handicap International, affirmant que "1 500 à 2 000 personnes traversent chaque jour la frontière".

    Selon l’ONG Handicap International, ces personnes « vivent dans des conditions désastreuses, manquant de tout, notamment d’eau, de nourriture, d’abris et de soins médicaux ».

    "Les besoins humanitaires empirent chaque jour" pour les quelque 400 000 réfugiés soudanais qui ont fui les combats vers le Tchad voisin, a alerté mercredi l’ONG Handicap International, affirmant que "1 500 à 2 000 personnes traversent chaque jour la frontière".

    Ces personnes "vivent dans des conditions désastreuses manquant de tout, notamment d’eau, de nourriture, d’abris, de soins médicaux..." et "les quelques ONG présentes sur place (...) font face à une urgence humanitaire majeure qui se détériorera sans un soutien immédiat et conséquent des États bailleurs", précise l’organisation dans un communiqué.

    Au total, plus de 400 000 personnes sont aujourd’hui réfugiées au Tchad, selon le bureau de coordination des affaires humanitaires de l’ONU (UNHCR) – dont 86% sont des femmes et des enfants.

    Chaque jour, nombre d’entre eux continuent de traverser la frontière après des kilomètres de marche pour fuir les sanglants combats au Soudan déclenchés le 15 avril entre l’armée et les paramilitaires, avant que les miliciens tribaux ne se jettent eux aussi dans la bataille.

    Le Tchad est le troisième pays le moins développé au monde selon l’ONU et son système de santé à genoux ne peut souvent rien pour les plus fragiles.

    Avant la dernière guerre au Soudan, le pays accueillait déjà quelque 410 000 Soudanais ayant fui la guerre du Darfour (province occidentale du Soudan) dans les années 2000, ainsi que des dizaines de milliers de réfugiés du Cameroun dans l’ouest et de Centrafrique dans le sud.

    Selon les projections de l’ONU, 200 000 nouveaux réfugiés du Soudan pourraient encore arriver bientôt.

    https://fr.africanews.com/2023/10/06/tchad-urgence-humanitaire-majeure-pour-les-refugies-soudanais

    #crise_humanitaire #asile #migrations #réfugiés #Soudan #chiffres #statistiques

  • UK to block #visas for countries refusing to take back asylum seekers

    Bill would give home secretary power to take action against citizens of countries deemed not to be cooperating.

    The UK will block visas for visitors from countries the home secretary believes are refusing to cooperate in taking back rejected asylum seekers or offenders.

    In proposed legislation published on Tuesday, #Priti_Patel and future home secretaries would have the power to suspend or delay the processing of applications from countries that do no “cooperate with the UK government in relation to the removal from the United Kingdom of nationals of that country who require leave to enter or remain in the United Kingdom but do not have it”.

    The clause in the nationality and borders bill also allows for the home secretary to impose additional financial requirements for visa applications – that is, an increase in fees – if countries do not cooperate.

    The proposals mirror US legislation that allows officials to withdraw visa routes from countries that refuse to take back undocumented migrants. It is understood that countries such as Iraq, Iran, Eritrea and Sudan are reluctant to cooperate with the UK on such matters.

    The change is one of many in the bill, described as “the biggest overhaul of the UK’s asylum system in decades” by Patel, which includes measures such as:

    - Asylum seekers deemed to have arrived in the UK illegally will no longer have the same entitlements as those who arrive in the country via legal routes. Even if their claim is successful, they will be granted temporary refugee status and face the prospect of being indefinitely liable for removal.

    - Asylum seekers will be able to be removed from the UK while their asylum claim or appeal is pending, which opens the door to offshore asylum processing.

    - For those deemed to have arrived illegally, access to benefits and family reunion rights could be limited.

    – The appeals and judicial process will be changed to speed up the removal of those whose claims are refused.

    - The home secretary will be able to offer protection to vulnerable people in “immediate danger and at risk in their home country” in exceptional circumstances. It is thought this will be used to help a small number of people.

    – The system will be made “much harder for people to be granted refugee status based on unsubstantiated claims” and will include “rigorous age assessments” to stop adults pretending to be children. The government is considering the use of bone scanners to determine age.

    - Life sentences will be brought in as a maximum penalty for people-smugglers.

    - Foreign criminals who breach deportation orders and return to the UK could be jailed for up to five years instead of the current six months.

    – A new one-stop legal process is proposed so that asylum, human rights claims and any other protection matters are made and considered together before appeal hearings.

    Campaigners have dubbed the proposed legislation the “anti-refugee bill”, claiming it will penalise those who need help the most.

    Analysis of Home Office data by the Refugee Council suggests 9,000 people who would be accepted as refugees under current rules – those confirmed to have fled war or persecution following official checks – may no longer be given safety in the UK due to their means of arrival under the changes.

    The charity’s chief executive, Enver Solomon, said that for decades people had taken “extraordinary measures to flee oppression”, but had gone on to become “law-abiding citizens playing by the rules and paying their taxes as proud Britons”.

    Steve Valdez-Symonds, refugee and migrants rights programme director at Amnesty International UK, branded the bill “legislative vandalism”, claimed it could “fatally undermine the right to asylum” and accused Patel of a “shameful dereliction of duty”, adding: “This reckless and deeply unjust bill is set to bring shame on Britain’s international reputation.”

    Sonya Sceats, chief executive of Freedom from Torture, described the plans as “dripping with cruelty” and an “affront to the caring people in this country who want a kinder, fairer approach to refugees”.

    More than 250 organisations – including the Refugee Council, the British Red Cross, Freedom from Torture, Refugee Action and Asylum Matters – have joined to form the coalition Together with Refugees to call for a more effective, fair and humane approach to asylum in the UK.

    https://www.theguardian.com/politics/2021/jul/06/uk-to-block-visas-from-countries-refusing-to-take-back-undocumented-mig

    #asile #migrations #réfugiés #chantage #visas #UK #Angleterre

    La loi comprend aussi une disposition concernant l’#externalisation des #procédures_d'asile :
    https://seenthis.net/messages/918427

    Une des dispositions rappelle la loi de l’#excision_territoriale (#Australie) :

    Asylum seekers deemed to have arrived in the UK illegally will no longer have the same entitlements as those who arrive in the country via legal routes. Even if their claim is successful, they will be granted temporary refugee status and face the prospect of being indefinitely liable for removal.

    voir :
    https://seenthis.net/messages/901628#message901630
    https://seenthis.net/messages/416996
    #modèle_australien

    #offshore_asylum_processing
    #Irak #Iran #Erythrée #Sudan #réfugiés_irakiens #réfugiés_iraniens #réfugiés_soudanais #réfugiés_érythréens #réfugiés_soudanais #regroupement_familial #aide_sociale #procédure_d'asile #recours #mineurs #âge #tests_osseux #criminels_étrangers #rétention #détention_administrative #anti-refugee_bill

    ping @isskein @karine4

  • La Belgique condamnée pour l’expulsion d’un demandeur d’asile soudanais

    La Belgique a été condamnée mardi par la Cour européenne des droits de l’homme pour avoir renvoyé au Soudan un demandeur d’asile de ce pays, sans avoir suffisamment évalué les risques réellement encourus par ce dernier, et malgré une décision judiciaire ordonnant la suspension de la procédure.

    « Les lacunes procédurales dont se sont rendues responsables les autorités belges (...) n’ont pas permis au requérant de poursuivre la démarche de demande d’asile qu’il avait soumise à la Belgique », affirme la Cour dans un arrêt.

    Ces lacunes « ont conduit les autorités belges à ne pas suffisamment évaluer les risques réellement encourus par le requérant au Soudan ». La CEDH estime aussi que la Belgique, en renvoyant ce demandeur d’asile au Soudan, a rendu « ineffectifs les recours » qu’il avait "initié avec succès. D’autant que l’Etat belge avait été interdit de rapatrier cet homme dans son pays.

    https://www.rtbf.be/info/belgique/detail_la-belgique-condamnee-pour-l-expulsion-d-un-demandeur-d-asile-soudanais?
    #réfugiés_soudanais #Soudan #renvois #expulsions #asile #migrations #réfugiés #justice #condamnation #Belgique #CEDH #cour_européenne_des_droits_de_l'homme

    ping @karine4 @isskein

    • L’État belge est condamné pour sa politique migratoire inhumaine

      Fin 2017, l’État belge concluait un accord avec la dictature du Soudan pour permettre l’identification d’exilés en transit vers l’Angleterre(1). Monsieur M.A., ressortissant soudanais arrêté et détenu en centre fermé, était alors identifié par la délégation soudanaise qui délivra un laissez-passer pour son expulsion. L’État a agi en violation des droits fondamentaux d’un bout à l’autre de cette affaire. D’abord, en ordonnant l’expulsion sans contrôle suffisant du risque encouru de subir torture et traitements inhumains et dégradants lors du retour au pays ; ensuite, en décidant de passer outre la décision de justice qui interdisait cette expulsion vers le Soudan ; enfin, en forçant le requérant à signer un retour “volontaire” qui n’avait de volontaire que le nom. Ce 27 octobre 2020, la Cour européenne des droits de l’Homme condamne la Belgique pour ces agissements graves et indignes d’un État de droit.

      Face au scandale de la collaboration entre la Belgique et le Soudan, État dictatorial, la Ligue des droits humains (LDH) avait introduit une action devant le Tribunal de 1ère instance de Liège, qui avait alors interdit les rapatriements vers le Soudan. La décision avait malheureusement été réformée en appel au motif que la LDH n’avait pas d’intérêt à agir au nom des personnes soudanaises. La LDH était par la suite intervenue devant la Cour européenne des droits de l’Homme dans l’affaire qui nous occupe aujourd’hui, M. A. c. Belgique.

      L’arrêt rendu ce jour est une belle victoire pour les droits fondamentaux : la Cour a décidé à l’unanimité que Monsieur M.A. a été expulsé vers le Soudan sans contrôle suffisant du risque de subir torture et traitements inhumains et dégradants, et en violation de son droit à un recours effectif. La Cour estime en outre que ce retour ne pouvait être qualifié de “volontaire”.

      Monsieur M.A., ressortissant soudanais, était arrêté en Belgique en septembre 2017 et détenu en centre fermé. Identifié par la délégation soudanaise qui délivre un laisser-passer, il introduit une requête de mise en liberté devant la Chambre du conseil de Bruxelles. Avant que cette demande ne soit examinée, il est averti qu’il doit partir le lendemain vers Khartoum. Suite à une requête unilatérale, le président du Tribunal de 1ère instance néerlandophone de Bruxelles interdit à l’État belge de rapatrier le requérant avant que les juridictions ne se soient prononcées sur la mesure de privation de liberté. Le renvoi par avion est annulé mais le requérant est malgré tout emmené à l’aéroport et placé, sous la menace, dans un avion. Un agent en uniforme le menaçant d’autres tentatives d’expulsion, il signe pour un renvoi qui n’aura de “volontaire” que le nom.

      “La Cour juge en particulier que les lacunes procédurales dont se sont rendues responsables les autorités belges préalablement à l’éloignement du requérant vers le Soudan n’ont pas permis au requérant de poursuivre la démarche de demande d’asile qu’il avait soumise à la Belgique et ont conduit les autorités belges à ne pas suffisamment évaluer les risques réellement encourus par le requérant au Soudan. D’autre part, en éloignant le requérant vers le Soudan en dépit de l’interdiction qui leur en était faite, les autorités ont rendu ineffectifs les recours que le requérant avait initiés avec succès.”

      La LDH se réjouit de cette victoire mais déplore le manque de considération du gouvernement de l’époque pour les droits fondamentaux et la séparation des pouvoirs. Elle espère que cet arrêt constituera un message fort vers le nouveau Secrétaire d’Etat à l’Asile et à la Migration. Il est urgent que la politique migratoire ne soit plus celle du retour à tout prix. Parce que le droit de demander l’asile doit être respecté, partout, tout le temps.

      (1) https://www.liguedh.be/belgique-soudan-une-intolerable-collaboration-technique

      https://www.liguedh.be/letat-belge-est-condamne-pour-sa-politique-migratoire-inhumaine

  • Toujours pas de vols de #rapatriement pour les #employées_de_maison migrantes

    Le retour des travailleurs étrangers doit se faire selon un mécanisme qui respecte leurs droits, selon l’Organisation internationale du travail.

    Les premières opérations de #rapatriement de #travailleuses_migrantes devaient débuter hier, avaient annoncé les autorités libanaises. Un avion devait venir d’Addis-Abeba pour ramener chez elles des employées de maison éthiopiennes particulièrement touchées par la crise libanaise économico-financière et davantage fragilisées par la #pandémie de #coronavirus. Mais l’opération n’a pas eu lieu. Selon l’ambassade d’Éthiopie, ce vol n’était toujours pas programmé. « Nous n’avons pas encore annoncé de date », se contente de dire à L’Orient-Le Jour le consul d’Éthiopie, Aklilu Tatere. Mais du côté de la Sûreté générale, on indique que « l’Éthiopie n’aurait pas trouvé d’avion » pour rapatrier les travailleuses éthiopiennes en situation de grande #vulnérabilité coincées au Liban. « L’opération pourrait avoir lieu d’ici à deux jours », estime le porte-parole de la Sûreté générale, le général Nabil Hannoun, précisant que « la décision revient aux autorités éthiopiennes ». Car le rôle de la SG, en cette période exceptionnelle, est de donner le feu vert aux ambassades, après s’être assurée de l’identité des travailleuses migrantes, dont une grande partie est en situation irrégulière. « Nous régularisons leur situation sans contrepartie financière pour leur permettre de quitter le pays, à la condition qu’elles ne fassent pas l’objet d’une plainte judiciaire », affirme le responsable.

    Les coûts exorbitants du #retour

    Dans ce cadre, de nombreuses employées de maison éthiopiennes, philippines, bangladaises ou d’autres nationalités se pressent aux portes de leurs consulats, dans une volonté de quitter le pays du Cèdre. Même chose du côté des travailleurs étrangers, ouvriers, pompistes, éboueurs… Car travailler au Liban ne leur convient plus. Avec la dépréciation de la #livre_libanaise et la #paupérisation des employeurs libanais, leurs salaires fondent comme neige au soleil. Payées dans la monnaie nationale depuis la pénurie de dollars, alors que la promesse d’embauche était basée sur un #salaire en #dollars, les employées de maison touchent désormais le tiers, voire le quart de leur salaire initial. Et puis les #transferts_d’argent sont de plus en plus difficiles. Une situation à laquelle vient s’ajouter la crise du coronavirus, qui a mis des milliers de travailleuses au #chômage, #femmes_de_ménage ou #employées_domestiques. L’AFP rapporte le cas de Sophia notamment, une travailleuse domestique éthiopienne sous contrat, renvoyée et jetée dans la rue sans salaire, sans valise, sans passeport et qui n’a qu’un but désormais : rentrer chez elle. Alors, elle attend une promesse de rapatriement devant l’ambassade d’Éthiopie à Hazmieh, comme nombre de ses compatriotes. Or il est de notoriété publique que nombre de pays voient d’un mauvais œil le retour de leur #main-d’œuvre qui viendrait grossir les rangs des chômeurs en ces temps de crise mondiale.

    L’ambassade des Philippines a déjà rapatrié 618 employées de maison depuis le mois de décembre 2019, selon le vice-consul des Philippines, Edward Chan. La crise financière battait déjà son plein, et près de 2 000 demandes de rapatriement avaient été déposées, principalement des travailleuses non documentées qui avaient fui le domicile de leur employeur. « La pandémie de Covid-19 a interrompu le processus », regrette-t-il. Aujourd’hui, de nouveaux défis se posent, liés au #prix prohibitif des #billets_d’avion. « Affréter un charter coûterait une fortune, sachant que le billet Beyrouth-Manille coûte aujourd’hui entre 1 200 et 2 300 dollars », affirme M. Chan à L’Orient-Le Jour, précisant que « le consulat apporte un soutien financier aux travailleuses philippines pour leur permettre de rentrer chez elles ».

    Pour un #retour_volontaire et non forcé

    Une autre question se pose. Que deviendront les plaintes auprès des autorités libanaises des travailleuses domestiques victimes d’abus, de mauvais traitements ou de non-paiement de leurs salaires et qui décident de quitter le Liban ?

    Si le consulat philippin assure un ferme suivi des dossiers de ses ressortissantes auprès du ministère du Travail, sauf en cas de désistement, de nombreuses employées de maison migrantes n’auront jamais gain de cause, malgré les #abus dont elles ont été victimes.

    C’est la raison pour laquelle l’Organisation internationale du travail insiste pour que le retour des travailleurs migrants du Liban, et plus particulièrement des employées de maison, se déroule selon un mécanisme qui respecte leurs #droits. « Il faut d’abord que ce retour soit volontaire et non forcé. Car la travailleuse doit avoir le #choix entre trouver un autre emploi sur place ou partir, au cas où l’employeur n’aurait plus les moyens de respecter ses engagements », affirme la porte-parole de l’OIT, Zeina Mezher. « Il est aussi impératif que le rapatriement des travailleuses étrangères du Liban, touchées par la double #crise_économique et sanitaire, ne soit pas un prétexte pour les délester de leurs droits », ajoute-t-elle. D’autant plus que celles qui désirent quitter le pays sont généralement les plus vulnérables. Pour avoir fui un employeur abusif, elles sont souvent sans documents d’identité. « D’où la nécessité, précise la porte-parole, que l’employeur assume la responsabilité du billet d’avion comme prévu par le contrat de travail, même lorsque son employée a quitté le domicile. » Une réponse qui vient en marge d’une réunion virtuelle destinée à identifier les problèmes de la main-d’œuvre migrante au Liban en ces temps exceptionnels, organisée hier par l’OIT et l’OIM (Organisation internationale des migrations) et qui a réuni tous les acteurs locaux et internationaux, dans le but d’y apporter une réponse globale.

    https://www.lorientlejour.com/article/1218891/toujours-pas-de-vols-de-rapatriement-pour-les-employees-de-maison-mig
    #employé_domestique #employé_de_maison #migrations #femmes #crise_sanitaires #covid-19 #femmes_migrantes #Liban #Ethiopie #Philippines #Bangladesh #remittances #travail_domestique #travailleuses_domestiques

    ping @isskein @_kg_ @tony_rublon @thomas_lacroix

    • « Je veux rentrer au Soudan, je peux à peine manger à ma faim ! »

      Terrassés par la crise, des Soudanais tentent l’improbable traversée vers Israël.

      La crise économique et financière qui secoue le Liban impacte de plus en plus les travailleurs étrangers qui, avec la fermeture de l’aéroport en mars dernier, se retrouvent prisonniers dans un pays devenu trop cher pour eux et où ils voient leurs revenus fondre parallèlement à la chute libre de la livre face au billet vert.

      La forte dépréciation monétaire et l’explosion du chômage ont même provoqué un phénomène inédit à la frontière libano-israélienne, sous étroite surveillance, rapporte l’AFP sous la plume de Bachir el-Khoury à Beyrouth et Rosie Scammell à Jérusalem, en précisant que depuis début mai, au moins 16 Soudanais ont été interpellés alors qu’ils tentaient de traverser de nuit cette zone à hauts risques, gardée par les soldats de la Finul et de l’armée.

      Le dernier en date avait été retrouvé mercredi dernier par des soldats israéliens, caché dans une canalisation d’eau. Il a été interrogé par l’armée israélienne, avant d’être renvoyé de l’autre côté de la frontière, indiquent les deux auteurs.

      Des deux côtés, on s’accorde toutefois à dire que ces récentes tentatives de franchissement sont uniquement motivées par des considérations financières.

      « Selon l’enquête préliminaire », elles « ne revêtent aucune motivation sécuritaire ou d’espionnage », confirme une source de sécurité libanaise, sous le couvert de l’anonymat.

      La semaine dernière, l’armée libanaise avait découvert à la frontière le corps criblé de balles d’un Soudanais, tué dans des circonstances non élucidées à ce jour. Au cours des dernières semaines, elle avait procédé à plusieurs interpellations de Soudanais tentant de rallier Israël.

      À peine de quoi manger

      « Je veux rentrer au Soudan car la vie est devenue très chère ici. Je peux à peine manger à ma faim », déplore Issa, 27 ans, employé dans un supermarché de la banlieue sud de Beyrouth.

      Son salaire mensuel de 500 000 livres vaut désormais moins de 100 dollars, contre 333 avant la crise.

      Plus de 1 000 Soudanais se sont inscrits auprès de leur ambassade à Beyrouth dans l’espoir d’être rapatriés, sur les quelque 4 000 vivant au Liban, selon Abdallah Malek, de l’Association des jeunes Soudanais au Liban, cité par l’agence de presse.

      Ceux qui optent pour une tentative de départ vers l’État hébreu auraient des proches ou des connaissances au sein de la communauté soudanaise en Israël. Selon des informations récoltées par l’armée israélienne, il s’agit notamment d’employés du secteur de la restauration, qui ont organisé leur fuite via les réseaux sociaux.

      Protection humanitaire

      Impossible de déterminer le nombre exact ayant réussi à franchir la frontière pour s’installer en Israël. Un, au moins, Mohammad Abchar Abakar, est en détention depuis plusieurs mois après son arrestation en janvier par l’armée israélienne. L’ONG « Hotline pour les réfugiés et migrants » s’est mobilisée pour obtenir sa libération fin avril. Elle n’a pas encore pu le voir en raison de la pandémie de Covid-19.

      « Il nous a dit qu’il voulait demander l’asile », dit la porte-parole de cette ONG, Shira Abbo. Là encore, les chances de réussite sont maigres : ces dernières années, Israël a accordé le statut de réfugié à... un seul Soudanais, sur une communauté estimée à 6 000 personnes. La majorité d’entre eux ont une demande d’asile en cours d’étude depuis des années, qui leur permet de travailler provisoirement. Environ un millier ont obtenu un statut alternatif de « protection humanitaire ».

      La plupart des Soudanais en Israël ont commencé à affluer en 2007, empruntant une route là aussi périlleuse via le Sinaï égyptien. Longtemps poreuse, cette frontière a depuis été renforcée par l’État hébreu. Aujourd’hui, Mme Abbo déplore le refoulement des travailleurs interceptés par l’armée israélienne. « Si quelqu’un affirme vouloir demander l’asile, il doit au moins avoir la possibilité de rencontrer des spécialistes dans la prise en charge de ce type de population », dit-elle.

      Avec l’absence de la moindre relation entre les deux pays voisins, il n’existe évidemment aucune coopération bilatérale sur ce dossier.

      https://www.lorientlejour.com/article/1223224/-je-veux-rentrer-au-soudan-je-peux-a-peine-manger-a-ma-faim-.html
      #réfugiés #réfugiés_soudanais #faim #alimentation #nourriture

    • #Beyrouth  : les travailleuses domestiques veulent rentrer chez elles

      Souvent indécentes, les conditions de vie et de travail des employées domestiques migrantes au Liban se sont encore aggravées avec la crise économique qui ravage le pays. Cette crise a en effet poussé de nombreux employeurs et employeuses à abandonner leurs domestiques, sans argent ni papiers, devant l’ambassade du pays dont elles/ils sont originaires. Mais l’explosion du 4 août à Beyrouth renforce l’urgence de la situation pour ces migrant·es, en grande majorité des femmes, qui demandent juste à pouvoir rentrer chez elles/eux.

      Il existe environ 250.000 travailleuses domestiques au Liban, venues de pays asiatiques et africains dans l’espoir de gagner suffisamment d’argent pour subvenir aux besoins de leur famille restée au pays. Ne relevant pas du Code du travail, ces personnes sont soumises au système de la kafala  : elles sont «  parrainées  » par un·e employeur/euse qui en est donc légalement responsable. Bien souvent, cela revient à avoir son passeport confisqué, mais aussi, dans de nombreux cas, à ne pas recevoir son salaire et à subir des abus. Dans un rapport de 2019 consacré à «  l’exploitation des travailleuses domestiques migrantes au Liban  », Amnesty International dénonce «  des atteintes graves et systématiques aux droits humains imputables aux employeurs.  » L’organisation pointe notamment «  des horaires de travail journaliers indécents, l’absence de jours de repos, le non-versement ou la réduction de leur salaire, la confiscation de leur passeport, de graves restrictions à leur liberté de mouvement et de communication, le manque de nourriture, l’absence de logement convenable, des violences verbales et physiques, et la privation de soins médicaux. Des cas extrêmes de travail forcé et de traite des êtres humains  » ont également été rapportés.

      Les conditions de vie et de travail des employées domestiques migrantes se sont encore aggravées avec la crise économique qui a frappé le Liban dès 2019. Cette crise du secteur financier, qui a eu comme résultat de dévaluer la livre libanaise et de provoquer une inflation évaluée à 56,6 % en mai, a durement frappé les classes moyennes. Appauvries, ces familles n’ont plus les moyens de payer le salaire d’une domestique. Dans bien des cas, ces femmes ont juste été abandonnées par leur employeur/euse, sans argent et sans régularisation de leur situation pour pouvoir partir, tout cela en pleine pandémie de

      Une situation aggravée par l’explosion

      L’explosion du port de Beyrouth le 4 août dernier ne fait que rendre la situation des travailleuses domestiques encore plus désespérée. «  Les employeurs n’ont plus les moyens. La plupart étaient pauvres avant les multiples problèmes économiques et sanitaires suivis de l’explosion massive  », explique Dipendra Uprety, fondateur du groupe de mobilisation This is Lebanon. «  Les travailleuses migrantes n’ont pas été payées depuis des mois. Et si elles l’ont été, c’est en livres libanaises, ça n’a désormais aucune valeur. Elles travaillent 14 heures par jour pour [l’équivalent de] 30 dollars par mois [environ 25 euros, ndlr].  »

      Pour qu’une travailleuse puisse partir du pays, la Sûreté Générale [organisme sous l’autorité du ministère de l’Intérieur et des Municipalités] doit contrôler les conditions de départ de celle-ci auprès de son employeur/euse, un processus qui prend habituellement entre deux et trois mois. De nombreuses migrantes sont aussi bloquées au Liban sans papiers depuis des mois et parfois des années. Deux solutions s’offrent alors à elles  : payer des amendes astronomiques et partir après avoir obtenu un laissez-passer, ou se retrouver en prison dans des conditions dramatiques. Sans compter le prix du billet, entre 400 et 700 dollars [entre 340 et 590 euros environ, ndlr] selon les pays d’origine.
      Abandonnées à la rue

      «  Il s’agit d’un moment terrible pour les travailleuses domestiques  », raconte Farah Salka, directrice exécutive du Mouvement Anti-Raciste (ARM). «  Cette année a été très dure pour tout le monde au Liban… Si vous imaginiez un cauchemar, vous ne pourriez pas imaginer ça. Et maintenant, vous pouvez multiplier les dommages par dix pour les travailleuses domestiques. Elles demandent juste à rentrer chez elles  ! Elles sont encore sous le choc de l’explosion, comme nous. Certaines ont disparu, certaines sont mortes, les autres sont parfois blessées, et elles ne reçoivent aucun soutien pendant cette crise. Et au milieu de ce chaos, elles sont abandonnées à la rue. C’est devenu une scène commune à Beyrouth  : des centaines de migrantes à même le sol, sans abri.  »

      Les employé·es et volontaires d’ARM passent leurs journées à traiter des cas, traduire, assister administrativement, financièrement, médicalement, et lever des fonds pour permettre aux migrantes en possession de papiers de payer leur billet. «  Il faut une armée pour gérer tout ça, tout relève de l’urgence, ajoute Farah Salka. Elles sont à un stade où elles se fichent de leurs droits, de l’argent qui leur est dû. Elles veulent juste laisser ce cauchemar derrière elles et partir. Et je vais être honnête, n’importe où est mieux qu’ici.  »

      Un groupe d’activistes éthiopiennes, Egna Legna Besidet, est aussi sur le terrain, surtout depuis le début de la crise économique. L’une des membres, Zenash Egna, explique qu’elle n’a plus de mots pour décrire la situation  : «  La vie des travailleuses migrantes n’est pas bonne au Liban. Déjà avant la crise économique, la pandémie et l’explosion, on secourait des femmes battues, violées, qui s’enfuyaient sans papiers et sans argent. Tout ça a juste augmenté, c’est terrible. Le monde doit savoir quel enfer c’est de vivre sous le système de la kafala.  » En ligne, de nombreux témoignages de femmes désespérées abondent. Devant leur consulat, des Kényanes ont aussi manifesté, demandant à leur pays de les rapatrier.

      https://www.youtube.com/watch?v=KuhBhNRjxp4&feature=emb_logo

      «  Il est temps pour nous de partir  »

      Une domestique nigériane appelée Oluwayemi, 30 ans, a confié à axelle son calvaire personnel. Arrivée en juin 2019 au Liban, elle raconte avoir été traitée comme une esclave par ses employeurs/euses. «  Puis ils m’ont renvoyée de la maison, sans argent et sans passeport. Ils m’ont juste dit «  Pars  ». Avec la crise économique, tout est pire au Liban. Je pense qu’il est temps pour nous de partir. L’explosion a tué des domestiques nigérianes, d’autres ont été blessées, les maisons ont été détruites. J’ai eu tellement peur, je veux que l’on m’aide et que je puisse retourner dans mon pays. Je veux que l’on m’aide, vraiment, parce que je ne veux pas retourner au Nigeria et devenir une prostituée, ou une voleuse. Je veux que mon futur soit beau, je veux monter mon propre commerce. Je prie pour que l’on m’aide.  »

      Une autre domestique nigériane qui souhaite rester anonyme raconte qu’elle a été jetée de chez son employeur sans argent, téléphone, vêtements ou papiers après sept mois d’abus physiques. Elle a également plaidé pour recevoir de l’aide, insistant sur le fait qu’il n’y a plus rien au Liban pour les travailleuses migrantes  : «  Il n’y a pas d’argent, pas de travail, pas de nourriture. Je veux partir.  »
      Faire pression pour faciliter le retour des migrantes

      Pour que la situation se débloque, il faudrait que les pays d’origine et la Sûreté Générale se mettent d’accord pour faciliter le retour des ressortissantes bloquées au Liban. «  On doit mettre la pression sur les consulats et les ambassades pour qu’ils prennent enfin la situation au sérieux. La Sûreté Générale doit supprimer ses enquêtes, exempter les travailleuses de leurs amendes et approuver leur départ avec des laissez-passer pour celles qui n’ont pas leurs papiers, explique Farah Salka. Mais aussi, on a besoin d’argent, de tellement d’argent pour payer les billets d’avion. C’est inimaginable.  »

      Pour Dipendra Uprety, le mot à appliquer est «  amnistie  »  : «  Des efforts ponctuels ne peuvent pas répondre aux besoins. La seule solution possible est que la Sûreté Générale accorde une amnistie générale à ces femmes, ce qui équivaudra à des centaines de milliers de documents de voyage temporaires. L’argent commence à affluer maintenant pour les billets d’avion, la nourriture et les soins médicaux, mais les travailleurs sociaux ne sont pas assez nombreux pour répondre à tous les besoins [notamment en termes d’hébergement, ndlr].  »
      Dépasser le racisme

      Au-delà de l’urgence de la situation, le racisme est toujours bien présent dans les mentalités libanaises, même après l’explosion. Ainsi, la liste des personnes mortes et disparues est toujours incomplète  : les noms et visages des victimes étrangères non occidentales ne sont tout simplement pas mentionnés. Un texte publié par l’ARM le 13 août dit que  : «  Ce n’est pas un hasard. Les travailleurs migrants et les réfugiés sont systématiquement déshumanisés et marginalisés au Liban, dans la vie comme dans la mort.  »

      Selon Farah Salka, le Liban devrait se préparer à changer  : «  J’espère qu’aucune nouvelle femme ne viendra en tant que travailleuse domestique avant qu’on ne répare tout ça. J’espère que le Liban sera prêt, parce que c’est horrible. Si nous n’apprenons pas maintenant, je ne sais pas quand ou si nous pourrons apprendre.  »

      https://www.axellemag.be/beyrouth-les-travailleuses-domestiques-veulent-rentrer-chez-elles

  • Emprisonnés, torturés : le sort d’exilés soudanais rejetés par l’Europe

    Au terme d’une enquête entre l’Europe et le Soudan, Mediapart et ses partenaires du collectif The Migration Newsroom ont retrouvé la trace d’exilés soudanais expulsés de France, des #Pays-Bas ou d’#Italie. Tous racontent les menaces subies à leur retour, voire les tortures. De quoi interroger les relations privilégiées entretenues par plusieurs États de l’UE avec la #dictature.

    Jalal a disparu. Plus personne n’a de nouvelles du jeune Soudanais depuis quelques semaines. Expulsé de #France le 28 novembre, l’homme originaire du Darfour nourrissait des regrets. « Devant l’Ofpra [l’office chargé d’attribuer le statut de réfugié – ndlr], il n’a pas raconté son histoire », se lamente un membre d’une association de soutien aux exilés. Résultat, l’office a rejeté logiquement sa demande. Et Jalal a quitté la France sans avoir pu être entendu, malgré une demande de réexamen déposée lors de son passage en centre de rétention. « Je ne veux pas rentrer, je risque de mourir là-bas », expliquait-il dans une interview, quelques semaines avant son départ.

    Dès son arrivée à l’aéroport de Khartoum, en novembre dernier, Jalal est interrogé par des policiers soudanais, selon plusieurs de ses proches que nous avons pu joindre. Ces agents lui posent les mêmes questions qu’à d’autres de ses concitoyens contactés au cours de cette enquête : par où est-il passé lors de son voyage ? Qui a-t-il rencontré ? Qu’a-t-il dit aux autorités françaises dans le cadre de sa demande d’asile ? L’État soudanais se montre très friand de ces informations : on avait d’ailleurs interrogé Jalal sur des éléments similaires lors d’un rendez-vous au consulat en France.

    À Khartoum, ce « débrief » des exilés de retour au pays est l’apanage du Service des renseignements généraux, le nouveau nom du NISS, le puissant service de renseignement soudanais, rebaptisé au printemps dernier après la destitution d’Omar el-Béchir, dictateur pendant trois décennies visé par un mandat d’arrêt de la Cour pénale internationale (CPI) pour « génocide » au Darfour et « crimes contre l’humanité ».

    À l’aéroport, l’entretien avec les policiers ne dure pas. Jalal sort au bout d’une quarantaine de minutes et se rend chez des amis. Dans la foulée, il passe un coup de fil à Stéphanie, jeune Française avec laquelle il est en contact. Jalal lui annonce son projet de rallier Sennar, une ville à 300 kilomètres au sud de la capitale. Avant cela, il doit juste passer dire bonjour à un proche à Omdurman, une ville qui fait face à Khartoum de l’autre côté du Nil.

    C’est alors qu’il est arrêté par les policiers et emmené en prison – c’est un ami qui rapporte la nouvelle, le jour même, à Stéphanie en France. Jalal est enfermé dans une cellule, seul. Interrogé pendant quatre jours, matin et soir.

    Il n’a pas subi de violences physiques, a-t-il confié à l’un de ses proches, Hamad, que nous avons pu joindre. Mais derrière les barreaux, les policiers l’ont interrogé sur son voyage en France ainsi que sur les relations entretenues en exil. « Ils voulaient savoir qui étaient les Soudanais qu’il a vus en France », relate Hamad. Les officiers semblaient savoir tout de son retour au pays : chez qui il a séjourné, les gens croisés au cours de sa seule journée de liberté… « Il n’a pas été arrêté par hasard. À Khartoum, il y a 4 ou 5 millions de personnes, il était probablement surveillé. »

    Alors que le Soudan est l’une des destinations les plus risquées vers lesquelles la France expulse, trente ressortissants de ce pays ont été renvoyés à Khartoum, entre 2014 et 2018, depuis les centres de rétention de l’Hexagone. Si l’on ajoute ceux que la France a renvoyés vers un autre pays de l’Union européenne (susceptible de les expulser à leur tour), le nombre grimpe à plus de 285, d’après Eurostat. En parallèle, « il y a eu 73 retours volontaires en 2017, et 43 en 2018 », avance le ministère de l’intérieur.

    Pendant que plusieurs associations se battent pour faire cesser ces renvois, à commencer par la Cimade et Amnesty International, ce sont plus de 700 Soudanais qui ont été placés en rétention l’an dernier, avec ou sans expulsion à la clef, une partie d’entre eux étant libérés après un recours (ou autre raison).

    Ce qu’il advient de ceux qui atterrissent à Khartoum ? Personne ne le sait. « Et on n’a pas les moyens de vérifier », confiait un diplomate interrogé en février 2019. Cette question fait l’objet d’une véritable cécité de la part des gouvernements européens, dont certains entretiennent une relation privilégiée avec le Soudan, pays clé de la Corne de l’Afrique aux frontières sud de l’Égypte et de la Libye.

    C’est pourquoi Mediapart, en collaboration avec le collectif The Migration Newsroom, a enquêté pendant plusieurs mois entre la France, le Soudan, les Pays-Bas et l’Italie pour retrouver la trace de quinze expulsés d’Europe (interviewés pour certains à Khartoum même). Et les brimades qu’ils racontent tous, les menaces, voire les tortures subies à leur renvoi au pays, obligent à questionner les relations privilégiées entretenues par plusieurs pays de l’UE avec le Soudan.

    Depuis la France, en particulier, Jalal n’est pas le seul à avoir été expulsé et emprisonné, si l’on en croit les témoignages de deux anciens hommes incarcérés à la prison de Bahri, Mohammed S., célèbre dissident, et Khaled (dont nous préférons taire le vrai prénom). Emprisonnés entre mars et novembre 2017, ils répercutent les confidences de deux de leurs compatriotes, codétenus, renvoyés de France après le rejet de leur demande d’asile. Le premier est originaire de la partie orientale du pays, a grandi à deux pas de la frontière avec l’Érythrée ; le second, venu du Darfour, est zaghawa, une ethnie dont les foyers de population sont à cheval entre le Soudan et le Tchad.

    À leur atterrissage à Khartoum, les policiers s’attardent sur leurs profils : ils veulent tout savoir de la demande d’asile du premier, qui avoue s’être fait passer pour érythréen en France afin d’obtenir plus facilement des papiers. Ils soupçonnent le second d’être un espion pour un groupe armé qui se bat pour la libération du Darfour. Tous deux affirment avoir été torturés à de multiples reprises, avant d’être libérés.

    Leur description correspond à celle de deux exilés que la France a renvoyés à la même époque : Mohammed H. et Omar H. En centre de rétention, à Oissel (Seine-Maririme), tous deux avaient reçu la visite d’officiels soudanais, parmi lesquels des militaires, présents en France pour faciliter l’identification et l’éloignement forcé de déboutés de l’asile. L’expulsion survient quelques semaines seulement après cette visite. En permettant celle-ci, la France les a-t-elle mis en danger ? Pas impossible.

    Paris vient d’accorder sa protection, en décembre, à un Soudanais « identifié » en Belgique par une mission similaire. Dans cette décision favorable que Mediapart a pu consulter, la Cour nationale du droit d’asile, basée à Montreuil, écrit sans détour : « Le fait que les autorités soudanaises l’ont interrogé [en Belgique – ndlr] le 21 septembre 2017 sur sa famille et ses activités donne des raisons sérieuses de penser que les craintes de M. d’être placé en détention à son arrivée à Khartoum et maltraité par des membres des forces de sécurité soudanaises sont fondées. »

    Il faut aussi raconter l’histoire de Rami, originaire du Darfour, qui s’était trouvé une famille d’adoption à Nantes, sous l’aile de Françoise, retraitée investie dans le milieu associatif local. « Je l’appelle Raminou, vous pouvez lui demander », rigolait-elle au téléphone. Puis le 3 août dernier, Rami, marqué par son passage en Libye, est renvoyé à Khartoum après un long séjour au centre de rétention de Rennes et le rejet de sa demande d’asile. À l’aéroport Charles-de-Gaulle, les policiers français lui lient les mains et les pieds, le portent jusqu’à l’appareil à bras-le-corps. « Ils m’ont emmené dans l’avion comme un mouton, c’était très humiliant », raconte l’homme que nous avons pu joindre au Soudan, installé depuis dans l’est du pays.

    Les policiers français livrent ensuite Rami aux autorités locales. « L’échange » intervient dans le même bureau par lequel Jalal a transité, contrairement à ce qu’indiquent les autorités françaises selon lesquelles « la remise [des expulsés] se fait au pied de l’avion ». Sur la porte d’entrée, il est écrit « Enquêtes » en arabe. Rami comprend rapidement qu’il s’agit du bureau des services de sécurité soudanais. Pendant quarante-cinq minutes, il a le droit à un débrief en règle. Les fonctionnaires veulent tout savoir de son voyage : « Pourquoi est-il parti en Europe ? Qui a-t-il rencontré sur son chemin ? Comment a-t-il financé le voyage ? Qu’a-t-il dit aux autorités européennes dans le cadre de sa demande d’asile ? »

    Le récit d’Ibrahim, renvoyé le 3 décembre dernier après trois années en France, est en tout point comparable. La même escorte. Les mêmes liens qui lui scient les pieds et les bras dans l’avion (« La police m’avait dit que si je refusais de monter, j’allais un an en prison »). La même arrivée à Khartoum. Le même bureau, où lui sont posées les mêmes questions. Il se trouve que le jeune homme, en 2016, avait été arrêté à Karthoum dans le cadre de manifestations, et qu’il avait été emprisonné pendant treize jours. Alors Ibrahim n’a pas envie que l’on fouille son passé : « Je leur ai dit tout ce qu’il voulait savoir. » Nom, numéro de téléphone, ville d’origine.

    Quand on l’interroge aujourd’hui sur le changement de gouvernement à Khartoum et la fin du règne d’Omar el-Béchir (à l’issue d’un mouvement de contestation populaire, en avril dernier), Ibrahim laisse parler son amertume : « Le NISS n’a pas changé, tout comme la police. La seule chose qui a changé, c’est le président. »

    Ces persécutions à l’encontre des « retournés », de fait, ne datent pas d’hier. Mediapart et The Migration Newsroom ont pu reconstituer, aussi, le parcours de huit autres ressortissants soudanais appréhendés entre 2015 et 2017, menacés et violentés. Six ont notamment été renvoyés de Jordanie, en décembre 2015, dont quatre se sont retrouvés sous écrou à leur arrivée, entre quatre et vingt-deux jours. Tous font état de nombreuses violences et de mauvais traitements.

    Un autre a été expulsé des Pays-Bas le 8 décembre 2017. Son récit ? En tout point semblable à celui des expulsés de France. Lui aussi a été livré directement par la police néerlandaise au service de renseignement soudanais. Lui aussi a été débriefé de longues minutes sur le contenu de sa demande d’asile ou le déroulement de son parcours migratoire. Mais à l’issue de l’entretien, le jeune homme a été emmené, pieds et poings liés, dans le quartier d’Al-Sahafa à Khartoum, dans un bâtiment des Services de renseignement.

    Il y a été enfermé pendant treize jours, torturé et frappé à de multiples reprises à coups de tuyaux en fer.

    À sa sortie, les fonctionnaires soudanais l’ont assigné à résidence, avec l’obligation de venir signer chaque jour une feuille de « présence ». Il a refusé et il est entré en clandestinité.

    Au « frigo »

    Expulsé d’Italie en septembre 2017, Ahmed* a passé, lui, trois mois en prison. Sa santé en pâtit encore aujourd’hui. « Douleurs dans la poitrine, problème d’estomac, maux de têtes », égrène le jeune homme quand nous le rencontrons dans la capitale soudanaise, fin décembre 2019. Voilà deux ans qu’il se cache bien loin de la ville et de la surveillance policière qui s’y déploie. Il travaille dans la construction, confie-t-il, pour nourrir sa famille. Il vit au sud du Darfour, près de la frontière centrafricaine.

    Le récit qu’il fait de son passage en prison est glaçant. Ahmed y séjourne dès sa sortie de l’aéroport. Ce jour-là, il n’est pas le seul à être renvoyé : une dizaine de ressortissants soudanais sont expulsés avec lui. Comme pour Jalal, Rami ou Ibrahim, le jeune homme, trente ans, est livré, dès sa descente d’avion, par son escorte italienne aux policiers du NISS. Arrivé dans les bureaux du service de sécurité soudanais, les fonctionnaires le questionnent. Ahmed est membre d’une ethnie darfouri non arabe, les Dadjo, particulièrement ciblée pendant le génocide au milieu des années 2000. Une grande partie a passé la frontière pour se réfugier au Tchad. C’est d’ailleurs pour cette raison qu’Ahmed a décidé de quitter le pays. « Quand j’étais à l’université, j’étais assez actif politiquement, confie-t-il. À mon retour, le NISS pensait que j’avais donné des informations à des agences “étrangères” sur ce qui se passait au Darfour. »

    Au terme de son interrogatoire, d’une petite quarantaine de minutes, les policiers lui attachent les mains et recouvrent son visage d’un sac. Il est emmené en voiture à la prison de Shendi, l’un des complexes du NISS. Ahmed est installé dans une petite cellule, seul, dans le noir. C’est là qu’il est enfermé pendant trois mois, d’après le récit qu’il en fait. Les policiers l’interrogent à cinq reprises, avec des questions portant sur son séjour en Europe, les informations qu’il aurait pu livrer sur le Soudan : « Si je ne répondais pas aux questions, les officiers étaient de plus en plus nombreux dans la pièce. Au maximum, ils étaient sept autour de moi. Une fois, ils ont menacé de me tuer. »

    En prison, Ahmed est témoin de nombreux actes de torture, notamment un jeune homme électrocuté par les militaires. L’un des traitements les plus cruels auxquels il est soumis ? D’incessantes variations de température dans sa cellule. Soit les policiers arrêtent la climatisation – et c’est la fournaise. Soit, ils la poussent au maximum, le froid est alors glacial. De nombreux militants, interrogés dans une enquête de la BBC, ont décrit des pratiques similaires lors de la révolution soudanaise. Ce type de cellule, surnommée le « frigo », aurait été utilisé depuis 2009 par la police soudanaise pour faire craquer les détenus.

    Au bout de trois mois, Ali est relâché. Non sans quelques précautions de la part de ses anciens geôliers : « Ils ont pris son numéro de téléphone. Après ma sortie, ils m’appelaient tous les jours. Il me disait : “Si tu fais quelque chose, on viendra te chercher. Nous connaissons ta famille, si tu disparais, nous irons les chercher” », témoigne le jeune homme.

    Ali a finalement quitté Khartoum au bout de quarante-cinq jours. Là où il habite, pas de réseau. Il n’a plus eu de nouvelles des policiers. Mais la crainte est toujours là. « Il n’y a pas de droit au Darfour. Il y a des hommes en armes dans la rue, sans aucun mandat. Comment voulez-vous que la situation ait changé ? »

    Il y a plusieurs années déjà, Amnesty International s’était inquiété, dans deux rapports, des risques pour les exilés soudanais renvoyés en particulier depuis la Belgique et l’Italie, après le refus de leur demande d’asile. En décembre 2017, l’Institut Tahrir annonçait que plusieurs demandeurs d’asile en provenance de Belgique avaient ainsi été violentés à leur retour – des conclusions mises en doute un an plus tard par un rapport du CGRA, l’équivalent de l’Ofpra outre-Quiévrain.

    Un accord conclu entre l’Italie et le Soudan, en août 2016, avait aussi été éventé, quelques semaines plus tard, à la suite du renvoi de quarante exilés soudanais par charter. Cet accord a depuis été dénoncé par des militants des droits humains et des avocats – la procédure judiciaire est toujours en cours.

    Côté français, un article de StreetPress avait, en 2017, dévoilé l’existence de liens entre la dictature et Paris : échanges d’informations, visite d’officiels soudanais dans les centres de rétention pour faciliter l’expulsion de ressortissants vers leurs pays d’origine… « Aucun accord n’a été conclu avec les autorités soudanaises et il n’y a pas eu de nouveaux contacts depuis la mission de 2017, oppose aujourd’hui le ministère de l’intérieur. On ne peut donc pas parler de “partenariat” avec les autorités soudanaises. »

    Interrogé sur le cas de ces exilés dont le retour au pays s’avère dangereux, la place Beauvau se borne à des commentaires d’ordre légal : « Une mesure d’éloignement ne peut être décidée que si elle est conforme aux conventions internationales ratifiées par la France (Convention européenne de sauvegarde des droits de l’homme et de protection des libertés fondamentales et Convention de Genève relative au statut des réfugiés). » En effet.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/110220/emprisonnes-tortures-le-sort-d-exiles-soudanais-rejetes-par-l-europe

    #renvois #expulsions #retour #Soudan #réfugiés #asile #migrations #réfugiés_soudanais #torture #prison #emprisonnement

    signalé par @karine4
    ping @isskein @reka @_kg_

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    voir aussi ce qui s’était passé lors de renvois de #réfugiés_sri-lankais depuis la #Suisse...

    ODAE roman | Un Sri lankais passe deux ans en prison après son renvoi : la CourEDH condamne la Suisse
    https://seenthis.net/messages/578094

  • Sudanese refugees in Niger protest, demand relocation

    December 17, 2019 (KHARTOUM) - Sudanese refugees in Niger have staged a sit-in outside the UNHCR office #Agadez town in central Niger to protest their tough conditions and to demand their relocation from the Sahel country.

    For years Agadez on the edge of the Sahara, has been a key stop for refugees and travellers mostly young men in search of better opportunities abroad heading north Africa countries and Europe.

    In a report released in May 2019, the UNHCR estimated that 1,584 persons, mostly Sudanese, are currently registered by UNHCR in Agadez. 23.8% are minors and 126 are unaccompanied or separated children.

    Rights activists from Agadez told Sudan Tribune that all the Sudanese refugees in the refugees camp 15 km outside Agadez decided to leave their camps and to stage a sit-in at the UNHCR office in the area on Monday, December 16, 2019.

    Since Monday, the refugees say resolved to continue their peaceful protest until the UN refugees agency settle their situation.

    Some of the refugees say they can even accept a return to their areas of origin in Darfur but they would not regain the camp.

    Activists pointed out to their poor living conditions and lack of basic health service and education for the children of the refugees who are in the camp since 2017.

    “There is an increase of chronic and serious diseases, there is racism, corruption, and discrimination against Sudanese refugees and other nationalities from other countries and the delay in the legal procedures for asylum,” wrote in an email sent to the Sudan Tribune on Tuesday.

    Many of the Sudanese refugees fled Libya following the increase of attacks on refugees and foreigners by the various militias and armed gunmen who demand ransom for their release.

    https://www.sudantribune.com/spip.php?article68720
    #asile #migrations #réfugiés #Niger #réinstallation #manifestation #résistance #réfugiés_soudanais

    ping @isskein @pascaline @karine4

    • Niger : des migrants incendient un centre d’hébergement en signe de protestation

      Des demandeurs d’asile de retour de Libye ont incendié leur centre d’hébergement près d’#Agadez, où vivent un millier de personnes dans l’attente de la délivrance d’une carte de réfugiés.

      Amenés de force après un #sit-in de #protestation de plusieurs jours devant les locaux du Haut-Commissariat des Nations unies pour les refugiés (HCR) d’Agadez, des demandeurs d’asile ont mis le feu à leur #centre_d’hébergement, un camp situé à 15 km d’Agadez et où vivent un millier de personnes dans l’attente d’une éventuelle #carte_de_réfugiés.

      « 80% du #centre_d'accueil détruit par une minorité de réfugiés du Darfour à Agadez qui ne veulent entendre parler que de #réinstallation en Europe. Détruire l’espace d’asile au Niger ou ailleurs est plus facile que de le construire et de le protéger. C’est un triste jour pour la protection des réfugiés au Niger », écrit sur son compte Twitter Vincent Cochetel, envoyé spécial du HCR pour la situation en Méditerranée centrale.


      https://twitter.com/cochetel/status/1213519641563320322?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E12
      http://www.rfi.fr/afrique/20200104-niger-migrants-incendie-camp-hebergement-agadez

      Selon plusieurs sources, les demandeurs d’asile exigent, entre autres, un statut de réfugiés avec délivrance immédiate de leur carte, des soins de qualité et une meilleure collaboration avec le HCR et les autres partenaires humanitaires.

      Le gouverneur d’Agadez estime que les migrants ont posé de « faux problèmes ». Le centre dispose d’eau, de nourriture, d’un médecin. Toujours selon le gouverneur, plus de 160 cartes de réfugiés ont récemment été délivrées. « Le processus de détermination est très avancé », indique le #HCR. D’autres cartes seront bientôt distribuées par les autorités nigériennes, apprend-on.

      Après l’#incendie de ce camp, le gouverneur de la région a dénoncé « l’ingratitude des réfugiés ». Une enquête est en cours pour déterminer l’ampleur des dégâts. Les auteurs de cet acte seront poursuivis. Malgré cet incident, précise une source du HCR, plusieurs centaines de réfugiés à la merci de l’harmattan seront relogés. Il a fait cinq degrés à Agadez ce samedi.

      http://www.rfi.fr/afrique/20200104-niger-migrants-incendie-camp-hebergement-agadez
      #feu

    • Commentaire de #Sophia_Bisio sur FB :

      Non, Monsieur Cochetel, un camp qui brûle n’est pas un jour triste plus triste que les autres pour la protection des réfugiés.

      Comme tout système de camp où l’on trie et isole les indésirables, le camp HCR d’Agadez était une prison à ciel ouvert pour le millier de réfugié.e.s soudanais.es qui y vivaient, ou plutôt y survivaient.

      Car ces camps ne sont pas des lieux de vie mais bien des lieux de survie.

      Lorsque j’avais visité ce camp en décembre 2018, plusieurs centaines de personnes y survivaient péniblement, après avoir fui la guerre dans leur pays et le chaos libyen pour la plupart d’entre elles. Installé en plein désert, isolé de tout, à 15 km de la ville, le camp était exposé au vent et aux tempêtes de sable, déclenchant chez de nombreuses personnes des troubles respiratoires. Les conditions sanitaires étaient épouvantables. Des familles entières s’entassaient sous des tentes en plastiques inadaptées au climat désertique, dans lesquelles, l’été, la température pouvait atteindre 70 degrés. Pas d’eau courante. Pas de travail. Pas d’école pour les enfants. Pas de perspectives d’avenir.

      Déjà en 2018, des résidents du camp se joignaient aux manifestations devant les bureaux du HCR dans la ville d’Agadez pour protester contre leurs conditions de vie et la lenteur de la procédure de réinstallation. En décembre 2019, après un an de plus d’attente dans la poussière du désert, ce sont plusieurs centaines de résident.e.s du camp qui se sont rassemblés pour une grande marche jusqu’au centre-ville afin d’organiser à nouveau un sit-in devant les bureaux du HCR, avant d’être une fois de plus renvoyé.e.s à la poussière.

      Hier, le camp brûlait, incendié, selon la version relayée par le HCR, par une minorité énervée de Soudanais du Darfour. Représentant spécial du Haut Commissariat aux réfugiés pour la Méditerranée centrale, Monsieur Cochetel s’indignait alors contre ces personnes qui « détruisent l’espace d’asile », ajoutant : « c’est un triste jour pour la protection des réfugiés au Niger ».

      Non, Monsieur Cochetel, un camp qui brûle n’est pas un jour triste plus triste que les autres pour la protection des réfugiés.

      C’est un signal.

      Le signal que ces hommes et ces femmes qu’on tente d’invisibiliser et de réduire au silence peuvent encore se rendre visibles.

      Le signal que ces politiques migratoires, par lesquelles l’humanitaire tend à devenir le cheval Troie des pires politiques sécuritaires, doivent être dénoncées et combattues avec celles et ceux qui les subissent.

      https://www.facebook.com/photo.php?fbid=2538844326358556&set=a.1562653620644303&type=3&theater
      #Vincent_Cochetel #Cochetel

    • More than a thousand asylum seekers take part in mass sit-in in Niger

      More than a thousand asylum seekers have been taking part in a mass sit-in in front of the offices of the United Nations High Commissioner for Refugees in Agadez in northern Niger since December 16. They are protesting the terrible living conditions that they are forced to endure while waiting for the UNHCR to examine their cases, and are calling for better conditions and an acceleration to the entire process.

      A majority of the residents of the UN camp for asylum seekers in Agadez in northern Niger walked the 15 kilometres into town to take part in a protest on December 16.

      Nearly 1,600 asylum seekers are still waiting for refugee status. The large majority of them — more than 1,400 — are Sudanese. Others hail from the Central African Republic, Chad and Pakistan. Most of them arrived in 2017 and they blame both the UNHCR and Nigerien authorities for the extremely difficult conditions in the camp.

      https://observers.france24.com/en/20191224-niger-asylum-seekers-take-part-mass-sit-protest

    • Thread de Eric Reidy sur twitter, 05.01.2019

      Security forces forcefully dispersed a peaceful sit-in in front of #UNHCR's office in Agadez, Niger yesterday (Jan. 4). Many people were injured & 100s of people’s phones & belongings were confiscated.
      2/ Sudanese asylum seekers, many from Darfur, have staged a sit-in in front of the #UNHCR office in since Dec. 16 when they walked out en masse from a UNHCR administered camp 15km outside of #Agadez.
      3/ In a statement the asylum seekers said they had been completely neglected. Many suffered from psychological conditions & chronic diseases worsened by the harsh desert environment & that treatment by UNHCR staff & the handling of their asylum claims led to a total loss of trust

      4/ The Sudanese asylum seekers started arriving in Agadez in late 2017, seeking safe-haven from war & exploitation in #Libya. The population peeked at around 2,000. Tensions arose w the host population & the Nigerien gov viewed the Sudanese w suspicion & as a security threat.

      5/ In May 2018, the Nigerien gov deported 135 ppl back to Libya in violation of int law. UNHCR lobbied hard to prevent any further deportations & reached an agreement w authorities in #Niger to establish the camp outside of Agadez to reduce tensions

      https://www.thenewhumanitarian.org/special-report/2018/07/05/destination-europe-deportation

      6/ At some point, the relationship between the asylum seekers & UNHCR appears to have broken down leading to the recent protests, which have now ended with security forces using violence & the camp outside of #Agadez being burned down.

      7/ I’m still piecing everything together, but it’s important to keep in mind that this is a vulnerable population. Many have been displaced multiple times & experienced violence & tragedy in the past. They have been seeking safety for yrs & still haven’t found it. (Will update)

      https://twitter.com/Eric_Reidy/status/1213802520490831872

    • Niger breaks up Sudanese refugees sit-in as fire destroys their camp
      https://www.sudantribune.com/local/cache-vignettes/L500xH282/agadez_camp_destroyed_by_sudanese_from_darfur_on_4_january_2020_tadres…jpg

      Niger’s authorities forcibly broke up a sit-in of Sudanese refugees outside UNHCR office in the arid area of Agadez, while some of them reportedly set ablaze the camp once returned by the police.

      Hundreds of Sudanese refugees in Niger had staged a sit-in outside the office of the UN agency for refugees in Agadez on 16 December to protest the bad conditions in the camp. Also, they blamed the UNHCR officials for neglecting them pointing to the long delay in the processing of asylum requests.

      For their part, the international officials asked the refugees to end the protest and return to their camps first before to deal with their demands. However, the Sudanese who had fled the insecurity in Libya refused to regain the camp.

      On Saturday morning, local officials and police and security officers surrounded the sit-inners and asked them to take the vehicles they brought with them to return to their camp 15 km from Agadez.

      Refugees who requested anonymity told Sudan Tribune that the security forces beat the refugees and shoved them to the vehicles when they refused the orders to evacuate the site.

      Photos and videos of the raid showed protesters severely injured on the head and legs.

      Aid workers in the area said the local authorities three days ago had informed the UNHRC of their plan to disperse the sit-in.

      Tragic development

      Once the authority forcibly moved the first batch of protesters back to the camp, a huge fire tore through the refugee camp and reduced it to ashes.

      When asked about the authors of the blaze some refugees said “irresponsible” refugees were desperate and set fire on the camp to protest the forced return to the camp.

      The tents were highly flammable, aid workers said.

      For his part, Vincent Cochetel, UNHCR Special Envoy for the Central Mediterranean Situation, said in a tweet on Saturday that the Sudanese refugees destroyed the camp because they demand to be resettled in Europe.

      “80% of the reception centre destroyed by a minority of refugees from Darfur in Agadez who only want to hear about resettlement to Europe,” said Cochetel.

      “Destroying the asylum space in Niger or elsewhere is easier than building and protecting it. It is a sad day for refugee protection in Niger,” he added.

      The authorities arrested many refugees while others fled in the desert and their whereabouts are unknown.

      Also, it is not clear what the Nigerien authorities will do for the over 200 refugees who were waiting outside the UNHCR office to be transported to the camp.

      Refugees say they fear that they would be transported to Madama on the border between Niger and Libya.

      On 7 May 2018, Nigerien police deported 135 Sudanese refugees to Madama and expelled to Libya as they had already protested the bad conditions in Agadez camp. The move had been denounced by critics as a violation of international law.

      https://www.sudantribune.com/spip.php?article68808

    • Niger: Sudan refugee sit-in violently dispersed

      Niger security forces broke up the sit-in set up by Sudanese refugees in front of the offices of the United Nations Refugee Agency (UNHCR) in Agadez on Saturday, reportedly using excessive violence.

      Speaking to Radio Dabanga from Agadez, a refugee reported that 453 refugees were detained. 230 refugees suffered various injuries. Army officers and policemen stole 670 mobile phones from them.

      Their camp reportedly burned down completely. Hundreds of refugees, among them children, women, disabled, and seniors, spent Sunday night in the arid desert in the freezing cold. There are shortages of water, food, and medicines.

      The refugees called on the international community to intervene urgently and save them from the conditions in which they live. They also demand their resettlement procedures be completed.

      Three weeks ago, thousands of refugees left the refugee camp in Agadez in protest against the failure to complete their resettlement procedures and the deteriorating conditions in the camp.

      The Sudanese refugees in Niger have been a topic in the peace talks in Juba during the past weeks.

      Last year, Niger’s authorities sent Sudanese refugees back to Libya, the country they fled from to Niger.

      https://www.dabangasudan.org/en/all-news/article/niger-sudan-refugee-sit-in-violently-dispersed

    • Agadez/Incendie #centre_humanitaire : 335 demandeurs d’asile interpellés

      Après l’incendie du centre d’hébergement survenu hier matin et attribué à un groupe de demandeurs d’asile, M.Seini, Procureur de la République près le tribunal de grande instance d’Agadez a tenu un point de presse auquel la presse privée n’était pas conviée.

      Dans le souci d’informer nos lecteurs, nous vous livrons son contenu.

       » le 16 décembre 2019, plusieurs dizaines de demandeurs d’asile ont entrepris une marche de protestation qui les a conduit devant le bureau local du HCR Agadez. Ils avaient décidé d’occuper illégalement les espaces publics aux abords dudit bureau et maintenu un sit-in qui a perduré jusqu’au 4 janvier 2020.
      Vu qu’ils occupaient ces espaces en violation de la loi, la question a été inscrite au menu de la réunion du conseil de sécurité régional du 2 janvier 2020. Au cours de cette réunion, il a été décidé de faire respecter la loi notamment de les faire déguerpir. Et au besoin de les ramener sur leur site d’hébergement. C’est ainsi que le 4 janvier 2020, les autorités régionales et municipales se sont déplacées sur les lieux accompagnées des forces de sécurité. Après sommation donnée par le maire, les agents de sécurité ayant constaté que ces gens n’ont pas obtempéré, ont alors intervenu pour les embarquer et ramener sur leur site d’hébergement. Une fois là-bas, dès qu’ils étaient descendus des bus et camions qui les transportaient, ils ont mis le feu au centre et en même temps s’en sont pris aux forces de l’ordre en leur jetant des projectiles. Il ressort des constatations faites par les services que sur les 331 habitations qu’ils appellent RHU, 290 sont complétement calcinées. Ainsi que l’infirmerie. Des pare-brises de bus ont été cassés et deux personnes légèrement blessées. 162 téléphones portables, 31 couteaux et 12 barres de fer ont été pris sur les manifestants. Parmi eux, 335 identifiés comme meneurs de l’incendie ont été interpellés et mis à la disposition des enquêteurs de la police.
      Voyez-vous ! Ces gens qui sont sensés être là pour avoir la protection se comportent ainsi jusqu’à commetre des infractions graves à la loi pénale notamment attroupement non armé sur la voie publique, la rébellion, la destruction volontaire des biens meubles et immeubles, publics, et l’incendie volontaire de lieu servant d’habitation.
      Donc, malgré leur nombre très élevé, et au vu de la gravité des faits qui leur sont reprochés, nous avons décidé de les poursuivre pour qu’ils répondent de leurs actes. Compte tenu du fait qu’ils sont des étrangers, des avis de poursuite seront notifiées aux autorités compétentes ».

      A Agadez, beaucoup de gens s’inquiètent du sort de centaines d’autres demandeurs d’asile qui n’ont plus de toit et parmi eux des femmes et des enfants.

      Pour Athan, un de ces demandeurs d’asile : » le Haut Commissariat aux Réfugiés (HCR) d’Agadez est l’unique responsable de ce qui nous arrive à Agadez ».

      La visite prévue demain mardi 7 janvier 2020 à Agadez de Mme Alexandra Morelli, représentante du HCR au Niger apportera t-elle une solution à ce problème ? Attendons de voir.


      https://airinfoagadez.com/2020/01/07/agadez-incendie-centre-humanitaire-335-demandeurs-dasile-interpelles

    • Demandeurs d’asile soudanais à Agadez : La grande désillusion

      L’installation d’une antenne du Haut Commissariat pour les Réfugiés à Agadez en Mai 2016 a contribué fortement à l’afflux de demandeurs d’asile de plusieurs nationalités. La majorité d’entre eux, après avoir fui leur pays en guerre, cas du Darfour au Soudan, se sont retrouvés piégés dans l’imbroglio libyen. C’est ainsi que près de 3000 soudanais ont cherché refuge à Agadez, une ville du nord Niger.
      Sur place, l’espoir d’une vie meilleure s’est peu à peu transformé en un véritable cauchemar. D’aucuns parmi ces prétendants à l’asile, las d’attendre, posent des actes désespérés sous forme des signaux.
      Le 14 avril dernier, un jeune soudanais a tenté de mettre fin à ses jours en se tailladant le cou. D’autres s’attaquent aux biens d’autrui pour se nourrir. Des actes contraires à la loi et au bon sens. Pourquoi et comment en est-on arrivé à ce stade ?
      APAC–Niger a mené l’enquête sur un drame que tente vaille que vaille de minimiser à l’opinion et les autorités en charge de la question et les ONG concernées.

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      Depuis la dégradation de la situation sécuritaire en Libye les ressortissants soudanais ont connu des difficultés à mener une vie tranquille, ils ont alors choisi d’immigrer vers le Niger. « Notons que la première grande vague est arrivée à Agadez en 2017. Tous ces migrants ont transité par la frontière du sud libyen, Sebha et Mourzouk en passant par Madama et Dirkou à la frontière avec le Niger », selon M. Soukeyrajou Yacouba, responsable à la Direction régionale d’état civil.
      Dès leur arrivée à Agadez ils ont été pris en charge par l’Organisation Internationale pour la Migration (OIM) et le Haut Commissariat pour les Réfugiés (HCR) appuyés par des ONG comme l’APBE (Action pour le Bien-être) et COOPI une ONG Italienne.
      Après l’enregistrement et l’enrôlement biométrique, dénommé BIMS, les migrants qui le désirent font une demande d’asile au niveau de la Direction de l’état-civil. « L’asile est octroyé par l’état du Niger seul habilité à le faire car le Niger reste souverain sur cette question, les migrants ayant fui la guerre pour des raisons sécuritaires sont priorisés par rapport à ceux qui ont fui pour des raisons économiques, d’autre part les mineurs non accompagnés très vulnérables bénéficient d’un traitement particulier vu leur situation, on trouve très souvent des cas de tortures sur les migrants venant de la Libye », a expliqué à APAC M. Soukeyrajou Yacouba. « C’est un long processus qui demande de la patience », explique un commis du service de l’état-civil. Une patience que n’ont plus aujourd’hui les Soudanais présents à Agadez.

      Déception et désolation au quotidien

      Malgré tous les efforts des ONG pour leur venir en aide, leurs cris de détresse s’amplifient. Ils crient leur ras-le-bol à qui veut les écouter. Dans le camp ou dans les rues d’Agadez. Ils ne s’en cachent point. « Si j’avais su que je me retrouverai dans une telle situation à Agadez, j’aurais préféré rester d’où je viens. Au moins là bas, j’étais dans une communauté humaine, j’avais le moral. A Agadez, nous sommes loin de la ville. Comme si nous sommes des animaux. Nous sommes abandonnés à nous-mêmes ici. On n’a pas accès aux soins les plus élémentaires. On n’a pas une ambulance qui peut rapidement évacuer un malade vers la ville. Chaque soir, nous sommes dans la hantise que Boko Haram nous attaque. », nous a confié Mahmoud H, un jeune soudanais de 22 ans.

      Venus d’abord par petits groupes à Agadez, le nombre de demandeurs d’asile soudanais n’a fait que croitre au fil de mois jusqu’à atteindre presque 3000 personnes. Toutes sont en quête de protection et d’un mieux-être au Niger après avoir fui la guerre au Darfour et les sévices en Libye. Mais hélas, pour beaucoup, c’est la grande désillusion : « nous avons quitté l’enfer libyen pour tomber dans l’enfer d’Agadez. Ici aussi nous sommes mal vus ! C’est la suspicion et la haine dans tous les regards », disent-ils.

      Assis à même le sol d’un des hangars du centre d’accueil pour les réfugiés inauguré en mars 2017, Aly, est démoralisé. Il ne parle pas. Il observe. Dans ses yeux, aucune lueur. Ni de joie, ni d’espoir. Il refuse de regarder ses “ cochambriers”.
      Il nous confie en aparté. “ Ma place n’est pas ici. Pas sous ce hangar. Pas avec ces gens-là. On se bagarre tous les temps. Je ne suis pas comme eux et personne ne veut me comprendre. J’ai un statut que je n’ai pas choisi et qui fait que bien qu’étant homme, ma place n’est pas avec les hommes”.

      L’aveu d’Aly est clair mais non encore avoué. Un de ceux avec qui il partage le hangar balance le secret d’Aly : “ C’est un pédé ! C’est haram ! On ne veut pas de lui sous le même toit que nous”, dit-il rageur. Comble de cynisme ! Summum de l’intolérance, il dit menaçant à notre adresse : “On ne mange pas avec lui ! Il est malade. C’est un fils de Sheitan ! ”.

      Comment se fait-il que Aly, bien qu’ayant un statut particulier soit mis avec des hommes qui n’ont aucun respect pour son choix de vie ? “ Où voulez-vous qu’il soit ? Avec les femmes ? ”, nous répond calmement un agent du centre. “ Est-ce qu’il a même avoué au HCR son statut ! Je ne crois pas ! », a fait remarquer l’agent.
      Joint par le reporter de APAC Niger, le service du HCR Agadez dit ceci : « nous n’avons pas eu de cas pareil ! »

      Assiatou, est elle aussi une jeune femme du Darfour. Sa vie est un drame grandeur nature. Elle a tout perdu au Soudan du sud. Parents et conjoint.
      En Libye, elle a souffert vingt-sept mois les affres de violences sexuelles. “Les hommes sont cruels. Le sexe, partout et toujours le sexe. Comment puis-je me protéger quand on ne te demande aucune permission avant d’abuser de ton propre corps ? Dites-moi comment dire non à un homme drogué et violent qui a le droit de vie et de mort sur toi ? Mon corps de femme m’a permis de survivre jusqu’à aujourd’hui mais au prix de maints viols et supplices. De 2012 à aujourd’hui, j’ai porté trois grossesses que je n’ai jamais désirées. Deux sont mortes en Libye et j’ai le dernier ici avec moi ! Ne me demandez pas qui en est le père, je vous jure que je l’ignore !”.
      Son statut de femme éprouvée et allaitante fait qu’elle est mieux traitée que les autres. « Elle a beaucoup besoin de soutien surtout moral », fait remarquer une volontaire humanitaire trouvée sur place.

      À Agadez, Aly et Assiatou ont trouvé plusieurs centaines d’autres demandeurs d’asile. Tout comme eux, ils ont fui dans la douleur. Le Soudan d’abord, et la Libye ensuite. Hélas, leur rêve de liberté, leur espoir d’un lendemain meilleur se meurt aujourd’hui à Agadez.
      Au contact de dures réalités, Aly et Assiatou ne croient plus aux organisations internationales d’Agadez. « Elles font de la discrimination entre nous et les Erythréens ! Ce n’est pas normal », a fait le jeune soudanais Aly.

      « Ces soudanais ne sont pas reconnaissants…. »

      Ces demandeurs d’asile ignorent-ils que depuis la fin d’année 2017, 1.450 réfugiés, dont 1.292 Soudanais, sont arrivés dans la cité du nord du Niger jusqu’à atteindre le chiffre record de 3000 aujourd’hui ? Bien-sûr que non ! Devant leur afflux, et prises au dépourvu, les organisations humanitaires présentes à Agadez ne savent plus où donner de la tête. « On ne peut que s’occuper des personnes considérées comme « les plus vulnérables ». C’est-à-dire les femmes, les enfants et les malades », explique un agent du HCR en poste à Agadez.

      Et pourtant de l’avis d’un agent de la Direction de l’Etat-civil, « Leur situation s’améliore de plus en plus. Tenez bien ! Au début, les hommes vivaient en pleine rue, juste en face de nos locaux, des fois sous 42° de chaleur. Ils n’avaient même pas accès aux toilettes et faisaient leurs besoins à l’air libre ou dans des parcelles vides. Mais aujourd’hui, ils mangent bien, dorment bien et se promènent sans problème dans la ville d’Agadez ».

      Mais bon nombre de soudanais joints par APAC réfutent ces dires. Ils soulignent « qu’ils manquent de tout : nourriture, soins de santé, espaces sanitaires adéquats et même qu’ils n’ont droit à aucune intimité ».
      « C’est un site temporaire », nous a répondu à ce sujet Davies Kameau, chef de bureau UNHCR Agadez. « Nous attendons que les soudanais soient d’abord reconnus comme demandeurs d’asile par le Niger », a t-il poursuivi.

      Pour beaucoup de ces soudanais, le droit à l’asile leur est refusé au Niger et : « ce n’est pas normal. C’est un déni de droit clair et simple ! On fait des faveurs aux autres mais pas nous ! », a dénoncé lui aussi Hadji, un soudanais trentenaire.

      Le statut de réfugié peine à leur être accordé

      « Vous n’êtes pas sans savoir qu’il n’y a pas encore eu de session de la Commission nationale d’éligibilité (CNE) pour le cas d’Agadez mais il y a eu une commission d’éligibilité délocalisée à Tahoua pour statuer sur le cas de demandes jugées urgentes. Six ont été accordées et une rejetée. (…). C’est vrai que les gens ont l’impression que ça traîne mais en vérité c’est le souci de bien faire qui fait que le processus prend du temps », affirme. Soukeyrajou Yacouba à APAC.

      D’après nos sources jusqu’à à cette date, le Niger refuse de se prononcer sur la finalité de ces demandes d’asile.
      Pourquoi alors ? Joint par le reporter de APAC, Lawali Oudou, acteur de la société civile d’Agadez a expliqué : « Cela fait plusieurs mois que les négociations concernant le statut à accorder aux soudanais peinent à aboutir. C’est parce que les autorités du Niger ont peur de prendre cette lourde responsabilité surtout au sujet d’Agadez, une région instable et qui a connu deux rébellions armées ».
      En effet, le prétexte de la sécurité explique le refus de l’Etat du Niger d’accorder le droit d’asile à ces soudanais. « Ils sont en lien avec des pays en guerre : la Libye, le Tchad, le Soudan. Ils sont arabophones, tout comme la majorité des terroristes. On a peur qu’ils installent des bases terroristes ici », a affirmé à notre confrère Le Point le député Mano Aghali. « Les populations d’Agadez commencent à manifester contre la présence de ces gens dans la ville d’Agadez. C’est pourquoi nous prions le HCR d’accélérer le processus pour trouver une solution », s’est alarmé quant à lui Rhissa Feltou, alors maire d’Agadez.
      Mansour B. un jeune nigérien qui habite non loin du centre pour les réfugiés fait partie de ceux qui ne veulent plus des soudanais à Agadez. Et il le dit sans ambages : « ces soudanais ne sont pas reconnaissants vis-à-vis du Niger ». Il explique qu’ : « ils doivent remercier le Niger car aucun pays ne peut accepter ce qu’ils font ici à Agadez. Ils draguent nos femmes et nos filles souvent devant nos yeux ; ils coupent nos arbres et partent vendre le bois au marché pour acheter de l’alcool et de la drogue. Trop, c’est trop ! ».

      Des griefs infondés selon les soudanais

      Pour les soudanais, tous ces griefs sont infondés. « Nous sommes des civils et non des militaires. Nous n’avons aucun contact avec des groupes mafieux. Les autorités et même les populations locales nous comparent à des rebelles soudanais, pas comme des réfugiés. Si nous étions des combattants, on allait rester au pays pour nous défendre mais pas fuir comme des lâches », explique Al-Hassan.
      En attendant que leur cas soit clair, les soudanais se rongent les ongles à une quinzaine de kilomètres d’Agadez. Des couacs surviennent des fois entre eux mais aussi avec les populations riveraines du centre.

      Jusqu’à quand cette situation peut-elle tenir ? Un vent nouveau souffle au Soudan avec le changement de régime survenu. Peut-il augurer un lendemain meilleur pour tous ces jeunes soudanais bloqués aujourd’hui à Agadez ? L’Europe leur ouvrira t-elle un jour les bras ? Seront-ils laissés à Agadez pour qu’au fil du temps ils puissent se fondre à la population ?
      Telles sont les questions qui taraudent les esprits à Agadez et auxquelles des réponses doivent être données.


      https://airinfoagadez.com/2019/08/29/demandeurs-dasile-soudanais-a-agadez-la-grande-desillusion

    • Refugees in Niger Protest Against Delay of Resettlement and Dire Conditions

      Almost 1000 people have protested in front of the office of the UN Refugee Agency (UNHCR) in Agadez, Niger, against the poor conditions in the UNHCR-run facility and the delay of resettlement procedures. The systemic isolation in the centre is considered a model for “outsourcing of the asylum system outside Europe”.

      Hundreds of people, among them many refugees from Sudan, marched 18 km from the humanitarian centre where they are accommodated to the UNHCR headquarters to submit a memorandum bearing their demands to expedite their resettlement procedures and denounce the deteriorating humanitarian conditions in the facility. The march turned into a sit-in and is part of on-going series of refugee protests in Niger since early 2019.

      According to one of the protesters the facility is located in the middle of the desert lacking “the simplest means of life” as well as adequate education. Chronic disease is spreading among the refugees, many of which are unaccompanied who have been waiting in the facility for over two years, he added.

      In 2017, UNHCR established an Emergency Transit Mechanism (ETM) in Niger for the evacuation of vulnerable people from Libya identified for resettlement to Europe and elsewhere. As of November 2019, 2,143 out of 2,913 of those evacuated by UNHCR have been resettled.

      An increasing number of self-evacuated refugees have also arrived in Agadez from Libya with the hope of being resettled. Niger agreed to the ETM under the condition that all refugees would be resettled in Europe. However, as stated in a MEDAM police brief, for the self-evacuees, resettlement becomes increasingly unlikely and they were moved to a refugee camp outside the capital, which hampers local integration and their economic autonomy.

      The network Alarm Phone Sahara commented. “This situation occurs in a context where European states are seeking to outsource the processing of cases of refugees, who have fled wars and persecution in countries like in East Africa, to countries far from the borders of Europe. The state of Niger is currently serving as a model for the outsourcing of the asylum system towards outside Europe, receiving considerable amounts of money from EU member states.”

      Since 2017, a total of 4,252 persons have been evacuated from Libya: 2,913 to Niger, 808 to Italy and 531 to through the Emergency Transit Centre to Romania.

      https://www.ecre.org/refugees-in-niger-protest-against-delay-of-resettlement-and-dire-conditions

    • Agadez/Incendie centre humanitaire : » Je me suis sentie trahie… », affirme #Alexandra_Morelli, représentante du HCR au Niger

      En visite ce matin à Agadez, Mme Alexandra Morelli, représentante du HCR au Niger a répondu aux questions de Aïr Info :

      Extrait :


       » Je suis ici à Agadez pour apporter toute ma solidarité aux autorités locales et pour gérer ensemble cette crise. Pour comprendre profondément la nature et s’assurer qu’on continue à s’assurer qu’on continue à protéger et à donner de l’assistance aux victimes même parmi les soudanais de cet acte de vandalisme qui n’a pas de commentaires. Après l’incendie du site humanitaire ma réaction est celle d’une femme, d’une mère qui a cru en ses enfants, qui a tout fait avec le gouvernement du Niger pour leur garantir un espace de paix et de protection. Je me suis sentie trahie. C’est la première émotion humaine que j’ai eue, une émotion de douleur. Mais aujourd’hui, nous mettons les émotions de côté et on travaille avec le pragmatisme et la lucidité guidés par la solidarité et la loi du Niger ».

      Interview réalisée par
      Anicet Karim

      https://airinfoagadez.com/2020/01/07/agadez-incendie-centre-humanitaire-je-me-suis-sentie-trahie-affirme-a

    • A protest dispersed, a camp burned: Asylum seekers in Agadez face an uncertain future

      ‘Nobody can believe this is happening… because there [are] children, there are women that are sleeping inside the camp.’

      Early in the morning on 4 January, security forces carrying long, wooden sticks arrived outside the office of the UN refugee agency (UNHCR) in the city of Agadez, Niger: 600 or more asylum seekers, mostly from Sudan, were gathered in the street in front of the office.

      Since mid-December, they had been staging a sit-in to protest what they said was UNHCR’s “complete neglect” of their living conditions and the slow processing and mishandling of their asylum cases.

      By the end of the day, security forces had dispersed the sit-in, dozens of demonstrators were allegedly injured, more than 330 were arrested, and the camp set up to house asylum seekers outside the city was almost entirely burned to the ground.

      The events were only the latest in the more than two-year saga of the Sudanese in Agadez – a story that has always been part of a bigger picture.

      The arrival of the Sudanese to the long-time migration hub in northern Niger, beginning in November 2017, followed on the heels of European policies aimed at curbing the movement of people from West Africa to Libya and onward to Italy, as well as the initiation of a programme by the EU and UNHCR – the Emergency Transit Mechanism (ETM) – to evacuate people from Libyan detention centres, bringing them to Niamey, Niger’s capital, to await resettlement to Europe.

      Against this backdrop, some Sudanese in Libya, facing violence, rampant abuse, exploitation, and even slavery, turned south to escape, spurred on by rumours of aid and safety in Niger, and the vague possibility of a legal way to reach Europe. But authorities in Niger, itself focal point of EU efforts to stem migration in recent years, were not enthusiastic about the arrival of the Sudanese and worried that the presence of UNHCR in Agadez was acting as a “pull factor”, attracting people to the city from Libya.

      UNHCR is in a complicated position in Niger, according to Johannes Claes, an independent consultant and migration researcher who has followed the situation in Agadez since 2017.

      The organisation has had to navigate between allaying government fears of a “pull factor” while providing protection and services to the Sudanese, running the ETM – the “human face” of the EU’s otherwise harsh migration policies – and responding to a growing number of refugees and Nigeriens displaced by conflicts along the country’s borders. “It hasn’t been easy for them to manage this,” Claes said. “That is quite obvious.”

      Underlying the entire situation is a global shortage of refugee resettlement spots. UNHCR projects that 1.4 million refugees are in need of resettlement this year out of a population of nearly 26 million refugees worldwide. Last year, around 63,000 refugees were resettled through UNHCR-facilitated programmes, down from a high of 126,000 in 2016.

      “UNHCR everywhere is just overwhelmed by the numbers because they are completely dependent on slots allocated in Europe and North America, and those are really very, very few,” said Jérôme Tubiana, an independent researcher focusing on conflict and refugees in Sudan and Niger.
      Global resonance, local grievance

      Caught between restrictive EU migration policies and the global lack of resettlement spots, UNHCR’s struggle to provide services, protection, and long-term stability to asylum seekers and refugees has not been limited to Niger.

      In the past year, asylum seekers and refugees have protested in front of UNHCR offices in Libya, Lebanon, and elsewhere, and African asylum seekers in particular, including many Sudanese from Darfur, have accused UNHCR of discrimination and neglect. “[The protest in Agadez] was part of… a global story of frustration and a feeling of being, really, not treated as victims of war or mass crimes,” Tubiana said.

      Despite the global resonance, the trigger for the protest in Agadez appears to have been a local incident that took on symbolic significance as it spun through the rumour mill of a population that was already angry about the slow pace at which their asylum cases were being heard and desperate for information about their futures.

      “The core of the problem is why the procedures are slow and why some people were informed… that their files had been lost,” a Sudanese asylum seeker in Agadez told TNH on 17 December, the day after around 600 people walked out of the camp where they were housed and set up the sit-in in front of the UNHCR office. “There is a complete lack of credibility… represented by the loss of the files,” the protesters said in a statement that circulated via text message.

      “We know that these people are fighters, soldiers, and they came here because now they expect to go to Europe.”

      UNHCR Niger confirmed that the government agency responsible for processing asylum requests had misplaced around five files several months earlier, but it said the files had been reconstituted and resubmitted for consideration. “From UNHCR’s side, we can strongly confirm that no registration files nor resettlement requests have been lost and that no one has to re-conduct interviews,” UNHCR Niger told TNH.

      But by the time news about the files spread, the Sudanese had already been growing frustrated, disillusioned, and distrustful for quite some time, and UNHCR’s reassurances fell on deaf ears.
      A shaky beginning

      From the beginning, the position of the Sudanese in Agadez has rested on shaky ground.

      Hundreds of thousands of West Africans, sharing a common language and cultural background with Nigeriens, have passed through the city en route to Libya over the years.

      The Sudanese were the first group of outsiders to turn south from Libya in search of protection, and Nigerien authorities didn’t trust their motives. “We know that these people are fighters, soldiers, and they came here because now they expect to go to Europe,” Niger’s minister of interior, Mohamed Bazoum, told TNH in 2018.

      But UNHCR has maintained that the Sudanese are not fighters. For the most part, they had been driven from their homes in Darfur by conflict and government-sponsored ethnic cleansing that began in the early 2000s. They had lived in camps for the displaced in Sudan or Chad before humanitarian funding ebbed or conflict followed them and they began criss-crossing the region in search of safety, stable living conditions, and better prospects for their futures. In the process, many had been tortured, trafficked, raped, or had witnessed and suffered various forms of violence.

      At the peak in 2018, there were nearly 2,000 Sudanese in Agadez, and tensions with the local community simmered as they filled up limited UNHCR housing in the city and spilled into the streets. At the beginning of May, authorities arrested more than 100 of the Sudanese, trucked them to the Niger-Libya border, dropped them in the desert, and told them to leave.

      The incident was a major violation of the international laws protecting asylum seekers, and in its aftermath, UNHCR, which had been caught off guard by the arrival of the Sudanese in the first place, scrambled to make sure it wouldn’t happen again and to carve out a space where the Sudanese and other asylum seekers would be safe.
      ‘It was a bit existential’

      The government and UNHCR settled on a plan to open the camp – which UNHCR calls a humanitarian centre – 15 kilometres outside Agadez to de-escalate tensions, and the government eventually agreed to start hearing asylum claims from the Sudanese and others. But a message had already been sent: the number of Sudanese coming to Agadez slowed to a trickle and several hundred ended up returning to Libya or headed elsewhere on their own.

      By last December, there were around 1,600 asylum seekers, mostly Sudanese, in Agadez, and 1,200 of them were housed at the humanitarian centre. According to UNHCR, 223 people had already received refugee status in Niger, and around 500 were set to have their cases heard in the coming months. Thirty-one of the most vulnerable had been transferred to Italy as part of a humanitarian corridor, and around 100 others were in line for refugee resettlement or other humanitarian programmes that would take them out of Niger.

      “It’s not a humane situation.”

      “It was slowly, slowly ongoing, but there was a process,” Alessandra Morelli, UNHCR’s head of office in Niger, told TNH. “Nothing was in the air or in… limbo.”

      “We managed to stabilise a little bit a large group of people that for years were going from one place to another in [search] of protection,” Morelli added. “I think that was the success.”

      But many of the Sudanese in Agadez saw the situation differently. The humanitarian centre was isolated and on the edge of the desert. In the summer, the weather was very hot and in the winter, very cold. There was little shade, and the insides of the tents boiled. Storms carrying billowing clouds of sand would blow out of the desert, blocking out visibility and blanketing everything in dust. Attempts to drill wells for water failed. “It’s not a humane situation,” one asylum seeker told TNH last April. “The way they treat us here they wouldn’t treat any person.”

      “We saw… very high rates of mental illness, numerous suicide attempts, women miscarrying on a regular basis or having very, very… low-weight babies; people were wandering off into the middle of the desert due to mental illness or desperation,” a former UNHCR staff member, who worked for the organisation on and off for six years and spent eight months in Agadez, told TNH on condition of anonymity. “It was a bit existential.”

      UNHCR partnered with organisations to provide psychological support and medical care to the asylum seekers. “[But] the level of service and the treatment that these people have been receiving… has been very low,” said Claes, the migration researcher. “It is very hard to service that camp. It is not an easy area to be operating, but it’s also not impossible,” he added.
      Protest and dispersal

      The low level of service, slow processing of asylum requests and lack of clear information about what was happening with people’s cases grated on the Sudanese.

      “This is not the first time that people are expressing themselves as unhappy,” Claes said. “This was obviously the worst that we’ve seen so far, but it was not entirely unexpected that this would at some point get out of hand.”

      When the sit-in began, UNHCR in Niger said the asylum seekers were pushing to be resettled to Europe. “Resettlement is a protection tool for the most vulnerable, not a right,” UNHCR Niger told TNH. “Most asylum seekers currently in Agadez are not among the most vulnerable refugees, and other more vulnerable cases will be privileged for resettlement.”

      The claim that the protest was only about resettlement prompted the former UNHCR employee to speak out. “They keep rolling out resettlement as this kind of strawman to distract from the fact that these people have been neglected,” the former employee said. “They’ve been neglected because they’re not a priority for anybody.”

      As the sit-in wore on, the governor of Agadez, Sadou Soloke, warned in a radio broadcast that the sit-in would be dispersed – forcibly if necessary – if the protesters did not return to the camp outside the city. “We can no longer stand by and watch them trample on our laws while they are being hosted by us,” the governor said of the asylum seekers.

      The protesters did not seek the required authorisation before the sit-in began and “rejected any proposal for a friendly settlement”, Agadez mayor Maman Boukari told TNH in writing. “In accordance with the provisions of the law, we ordered the police to move the refugees,” he said.

      “Nobody can believe this is happening… because there [are] children, there are women that are sleeping inside the camp.”

      But the asylum seekers at the sit-in had no intention of returning to the camp before their grievances were addressed. The way they saw things, going back to the camp would only mean more waiting and uncertainty. “We expect disaster at any time because we have lost trust in the government and employees of UNHCR,” one demonstrater told TNH via text message on 3 January, anticipating the dispersal.

      The following morning, security forces arrived with lorries and buses to take people back to the camp.
      Aftermath

      As the smoke settled from the fire at the humanitarian site, different versions of what transpired emerged.

      According to asylum seekers at the sit-in, security forces forced people into the vehicles, beating those who didn’t comply, and severely injuring many. Mayor Boukari told TNH that no force was used to disperse the demonstration and that there were no recorded cases of injury.

      Cell phone videos taken by asylum seekers show several instances of security forces hitting people with sticks or batons, and dragging them across the ground. Photos taken afterward show people with bloody wounds on their heads and bandaged limbs. But it is unclear from the videos and photos how widespread or severe the violence was, or what injuries people sustained.

      Despite the different versions of events, one thing is certain: once back at the camp, a confrontation broke out between security forces and some of the asylum seekers. It appears – from accounts given to TNH by the mayor, UNHCR, and at least three asylum seekers – that an unknown number of people, angry at the dispersal of the sit-in, then started a blaze and burned most of the camp to the ground. Other accounts, that seem less credible, suggest the government used teargas at the camp and started the fire.

      “The discussion of what Agadez will become is still on going with the government.”

      “[Security forces] beat them… too much. When they’re back [from the sit-in], they hate everything and destroy it,” said one asylum seeker, who didn’t participate in the protest but was in the camp during the fire. “This is [a] crazy idea. Nobody can accept [it]. Nobody can believe this is happening… because there [are] children, there are women that are sleeping inside the camp,” the asylum seeker added.

      Miraculously, no one was seriously injured in the fire.

      In its aftermath, 336 people were arrested for arson and planning the sit-in. As of 30 January, 196 were still being held in custody, of which 61 had been formally charged, according to UNHCR. Other Sudanese who are not currently in custody are also expected to receive judicial summons, UNHCR added.

      After several weeks, the government gave UNHCR permission to install temporary shelter for the people still staying at the camp – they had been sleeping outside in rough shelters they cobbled together or in communal buildings on the site that survived the fire.

      But the future of the effort to create a space to protect asylum seekers and refugees in Agadez is still uncertain. UNHCR is transferring some asylum seekers from Agadez to housing in Niamey and another UNHCR centre near the capital. “The discussion of what Agadez will become is still on going with the government,” Morelli said.

      In the meantime, the asylum seekers still don’t have any more certainty about their futures than they did before the protest started, and some have told TNH they feel even more vulnerable and disillusioned. UNHCR said the government will respect the status of people who have already been recognised as refugees and continue to review asylum claims from people who have submitted files.

      That process has already dragged on for more than two years, and ambiguity about why it is taking so long and where exactly it is heading was at the root of the protest to begin with. Following the dispersal, one Sudanese asylum seeker told TNH that he feared persecution by authorities in Niger and had returned to Libya with two of his friends. Others do not want to return to the violence and chaos of Libya and feel they have no option but to stay in Niger.

      “I’m still in UNHCR’s hands. What they tell me, I’m ready,” one asylum seeker told TNH. “People, they hate the situation… [but] there’s no other choice.”

      https://www.thenewhumanitarian.org/news-feature/2020/02/10/Sudanese-asylum-seekers-Niger-Agadez-protest-EU-migration-policy

  • Sudanese refugees in Syria? The story of hundreds of people who fled one civil conflict to end up in another

    Sudanese refugees in Syria are a community of hundreds of people who came fleeing the war in Sudan only to be trapped by another deadly civil conflict in Syria. They wait to be resettled in other countries as part of a UN program to help refugees. But decades after their arrival, they are still waiting with no end in sight.

    A group of African men chatting in the heat of the afternoon is not something you see very often in Damascus. More people stop by the makeshift stands to look at the vendors than they do to look at the products.

    But here in Kshakoul district, this is becoming a usual scene since Abdulkarim and Savok Monteh started working here in late 2018. Both men arrived from Sudan to Syria fleeing civil violence in late 1999, but, since then, a lot has changed.

    When they arrived, they were both Sudanese nationals, but now Abdulkarim is from Sudan while Savok is a national of South Sudan that gained independence in 2005. Moreover, they came to Syria, which was then one of the safest countries in the world before it plunged into deadly violence. However, they continue to share the hardship they had tried to escape.

    “All I can remember even from my days as a child is suffering from Sudan to here,” says Abdulkarim, the 54-year-old man who has had two heart bypasses and have been unemployed for a while.

    Abdulkarim sells secondhand clothing in one of the most impoverished parts of Damascus. “I have been in Syria for nearly 20 years and I don’t have a job I did. The only thing I can do is this flea market. As a refugee, finding a steady job is difficult and there is a war in Syria and life is becoming more and more expensive, especially rent.”

    The obvious question would be why he stays in the country that has seen one of the worst conflicts of modern times. But options for people like Abdulkarim are not abundant. “I came to flee war in Darfur and now I find war here and I have no source of income but the aid I get. I can’t go back to Darfur. The situation there is worse than here. I would love to travel anywhere else where it is safe, just some place safe. Throughout the war here in Syria, rockets were coming down and just in this market, I saw three or four people dying right here in front of us.”

    Like the rest of the Sudanese nationals in Syria, Abdulkarim and Savok are registered as refugees with the UN refugee agency UNHCR, awaiting resettlement.

    But that much promised trip never came through for either of them, despite the dire need. Savok works at one of the stands with a Syrian partner. On a good business day, their stand would make around 1,000 Syrian pounds a day, which is less than two U.S. dollars.

    “If we make 1,000 pounds a day, and if we do, he gives me 200, and sometimes we make no money,” he talks to me as he restocks his merchandise of secondhand shoes.

    “Sometimes I think of going back to Sudan but recent turmoil there is making it more and more difficult, let alone the economic situation.”

    It seems difficult to believe that some refugees decided to come to Syria as the conflict was flaring up like Ahmad Mohamad who arrived in 2015. “I went abroad for treatment but couldn’t finish my treatment after I ran out of money. So I came back and got treatment in Syria because I can enter without a visa. Here I went to the UN and they registered me as a refugee and they helped me get into hospital and got an operation done. The situation in Sudan is uncertain and I can’t go back there as I lost my house there.”

    For many of Sudanese refugees, getting resettlement in a third country is about getting over a very difficult past; but for others like Ringer, it is his only chance at a future.

    Ringer came to Syria 20 years ago. He was a six-year-old child then. He stayed after his parents went back to Sudan as he was finishing college. “It is true that there was war here and rockets were falling around but in Syria I can get university degree for free.” He tells me that his parents told him that it will be impossible for him to find work in their part of Sudan now, so he’d better stay in Syria and wait for the UN-sponsored resettlement.

    “Just think about it. I am a stranger to my native country, a foreigner in the country I grew up in and after waiting for 20 years, I am still waiting to get to a place I can call home,” Ringer summed up as we walked through the streets of old Damascus. Like the rest of his community, he understands that his tale might not have a happy ending ever after.

    https://news.cgtn.com/news/2019-10-09/Sudanese-refugees-in-Syria-Flee-one-civil-conflict-to-another-KEcpjA3eUM/index.html
    #réfugiés_soudanais #Soudan #Syrie #asile #migrations #réfugiés #deux_fois_réfugiés

  • Expulser au #Soudan, une vocation française

    Alors que l’Union européenne a suspendu ses programmes de contrôle migratoire au Soudan, la France continue de vouloir y expulser. Aujourd’hui à la manœuvre, la préfecture d’Indre-et-Loire. Appel à soutien.

    C’est fin juillet que la Deutsche Welle obtient confirmation que l’Union européenne a suspendu ses programmes de #contrôle_migratoire au Soudan, le soutien aux #gardes-frontières et à la police, coordonné par l’#Allemagne, dès mars, et le centre de renseignement (#ROCK : #Regional_Operation_Center in Khartoum) mené par la France, en juin, après la répression sanglante du 3 juin et des jours suivants.

    https://www.dw.com/en/eu-suspends-migration-control-projects-in-sudan-amid-repression-fears/a-49701408?maca=en-Twitter-sharing

    Si l’Union européenne a suspendu sa coopération avec le Soudan en matière migratoire, ce n’est pas le cas de la France, qui continue sa politique d’expulsion vers ce pays et donc la coopération avec les autorités soudanaises que cela suppose. Un ressortissant soudanais enfermé au centre de rétention de Rennes devait être expulsé le 22 juillet sur décision de la préfecture d’Indre-et-Loire. Il a refusé d’embarquer. Ramené au centre de rétention, il peut être expulsé à tout moment.

    https://larotative.info/la-prefete-d-indre-et-loire-tente-3377.html

    Voir aussi sur le fil twitter de la Cimade :

    https://twitter.com/lacimade

    Un appel à soutien a été lancé :

    « POUR SOUTENIR R. ENVOYEZ UN MAIL A LA PRÉFETE

    Recopiez ce courriel et adressez-le à :

    prefecture@indre-et-loire.gouv.fr

    Madame la Préfète d’Indre et Loire,

    Je vous écris pour vous demander d’interrompre les procédures d’éloignement d’un homme vers le Soudan actuellement au centre de rétention de Rennes. Il a déjà refusé d’embarquer dans l’avion.

    Vous vous apprêtez à renvoyer R. vers le Soudan où sa vie est gravement menacée.

    Le Soudan ne peut aujourd’hui être regardé comme un pays sûr vu l’instabilité politique actuelle et la violente répression qui a fait de nombreux morts ces derniers mois.

    En vertu du principe de non-refoulement, garanti par l’article 33 de la Convention de 1951 relative au statut des réfugiés, par l’article 3 de la Convention contre la torture et par l’article 19.2 de la Charte des droits fondamentaux de l’Union européenne, la France ne peut procéder au renvoi d’une personne vers un pays où sa vie sera en danger.

    Compte tenu de ces risques importants, je vous demande donc d’annuler l’ordre de quitter le territoire français de R. et de le libérer.

    Je vous prie d’agréer, Madame la Préfète, l’expression de mes salutations distinguées.

    Vous pouvez envoyer cette communication par mail à cette adresse :

    prefecture@indre-et-loire.gouv.fr »

    https://blogs.mediapart.fr/philippe-wannesson/blog/240719/expulser-au-soudan-une-vocation-francaise
    #renvois #expulsions #France #réfugiés_soudanais #asile #migrations #réfugiés #suspension #UE #EU #Europe #externalisation

  • Thousands of Sudanese fled Libya for #Niger, seeking safety. Not all were welcome

    At first, the Sudanese filtered out of the migrant ghettos and across the desert by the handful. It was December 2017 in the city of #Agadez, Niger when the first group approached UNHCR, asking for protection. The UN’s refugee agency had spent the past couple of months building up its presence in the area, but the arrival of the Sudanese was not what it expected.

    A sprawling collection of walled compounds and dusty, rutted streets in the heart of the Sahara, Agadez has long been a gateway between West and North Africa. For most of its history, the travellers passing through have been caravanning traders and people moving within the African continent in search of work. But as Libya descended into chaos following the fall of longtime dictator Muammar Gaddafi in 2011, an unregulated route to Europe opened up from Libyan shores – and 2,000 kilometers to the south, hundreds of thousands of West Africans flocked to Agadez to join convoys of pickup trucks setting out across the desert towards the Libyan coast.

    With its expanded presence in the city, UNHCR anticipated identifying asylum cases among people following this route before they started the dangerous journey into Libya and across the sea. But the arrival of the Sudanese – most driven from their homes in the conflict-ridden region of Darfur more than a decade ago – signalled something new: instead of heading north towards Europe, this group of refugees and asylum seekers was travelling south from Libya in search of protection. And, once the first group arrived, more kept coming – by the dozens – until there were around 2,000 Sudanese asylum seekers in Agadez.

    What prompted the Sudanese to turn to the south was probably a confluence of factors: a desire to escape conflict and the abuses committed by militias and smugglers; European policies that have led to a nearly 78 percent drop in the number of people crossing the sea from Libya to Italy since July last year; and rumours of aid and protection for asylum seekers in Niger, and maybe – just maybe – the chance of a legal way to reach Europe.

    The fact that the Sudanese were compelled to venture to Agadez at all highlights a broader truth: the international refugee protection system has failed in its response to long-term displacement. The tense reception of the Sudanese by Nigerien authorities – ultimately resulting in the deportation of 132 people back to Libya – speaks to the consequences of that failure.

    By that point, there were close to 2,000 Sudanese in the town. For months, there had been a stalemate between UNHCR, which was negotiating for space to process the Sudanese cases and look for solutions, and the Nigerien government, which wanted to send people back to Chad and Libya.

    In the meantime, more Sudanese had arrived than there was space for in the UNHCR shelters, and people were spilling into the streets. Residents in the neighbourhood complained that some of the Sudanese were stealing fruit from gardens and going to the bathroom outdoors, and that they felt uncomfortable with the Sudanese men living in such close proximity to Nigerien women and girls. The escalation of those tensions appears to have triggered the arrests.

    https://www.irinnews.org/special-report/2018/07/05/destination-europe-deportation
    #Libye #asile #migrations #réfugiés #réfugiés_soudanais #migrerrance #renvois #expulsions #parcours_migratoires #routes_migratoires

    –-> @_kg_ : c’est probablement la même idée que les départs vers la Tunisie ?

    instead of heading north towards Europe, this group of refugees and asylum seekers was travelling south from Libya in search of protection. And, once the first group arrived, more kept coming – by the dozens – until there were around 2,000 Sudanese asylum seekers in Agadez

    • La même idée de départ, oui selon les témoignages. Pour plus de détails sur Agagdez j’attends l’entretien MdM. Vue la Tunisie : arrêt de deportations vers la frontière d’Algérie et Libye depuis hiver 2016 selon les témoignages...mais pas assez d’informations pour le Sud : Qu’est ce que se passe dans le zone bloqué de 20km par le militaire tunisien ? Où disparaissent les personnes mis ou Centre de logement à Médenine juste après quelques jours (j’ai mal à croire que le retour volontaire de l’OIM se fait dans 2 semaines...) ?

  • Dublin Italie | Un tribunal conclut à des défaillances systémiques dans la procédure d’asile
    https://asile.ch/2018/06/01/dublin-italie-un-tribunal-conclut-a-des-defaillances-systemiques-dans-la-proce

    Fin décembre 2017, le Tribunal administratif (TA) de Rennes (France) a annulé le renvoi vers l’Italie d’un ressortissant soudanais et enjoint au préfet « de l’autoriser à solliciter l’asile ». L’homme craignait des mauvais traitements et un refoulement vers le Soudan sans examen de sa demande d’asile, en raison de la situation migratoire que connaît l’Italie et d’un […]

  • Partis du Soudan, arrivés à Vichy, les longs chemins de l’exil d’Ahmed, Ali, Alsadig, Anwar et Hassan

    Dans le cadre du programme Les nouveaux arrivants, Le Monde suit depuis 2017 le groupe de musique Soudan Célestins Music, composé de réfugiés soudanais et érythréen. Cinq d’entre eux nous racontent leur parcours.

    Ici la synthèse (qui n’est apparemment pas publiée sur le site, trouvée sur twitter) :


    http://www.lemonde.fr/les-nouveaux-arrivants/visuel/2018/05/21/partis-du-soudan-arrives-a-vichy-les-longs-chemins-de-l-exil-d-ahmed-ali-als

    #réfugiés_soudanais #Soudan #parcours_migratoires #itinéraires_migratoires #asile #migrations #réfugiés #cartographie #cartographie_narrative #visualisation #cartographie_sensible
    sans #flèches
    cc @reka

  • Des demandeurs d’asile soudanais torturés dans leur pays après avoir été expulsés par la #France

    Une enquête du New York Times a révélé dimanche soir que plusieurs demandeurs d’asile soudanais renvoyés par la France, l’#Italie et la #Belgique, avaient été torturés à leur retour dans leur pays d’origine.

    https://www.lejdd.fr/international/des-demandeurs-dasile-soudanais-tortures-dans-leur-pays-apres-avoir-ete-expuls
    #torture #asile #migrations #réfugiés #renvois #expulsions #réfugiés_soudanais #Soudan

    via @isskein sur FB

    • Et ici l’article du New York Times, repris par Lejdd :

      By Stifling Migration, Sudan’s Feared Secret Police Aid Europe

      At Sudan’s eastern border, Lt. Samih Omar led two patrol cars slowly over the rutted desert, past a cow’s carcass, before halting on the unmarked 2,000-mile route that thousands of East Africans follow each year in trying to reach the Mediterranean, and then onward to Europe.

      His patrols along this border with Eritrea are helping Sudan crack down on one of the busiest passages on the European migration trail. Yet Lieutenant Omar is no simple border agent. He works for Sudan’s feared secret police, whose leaders are accused of war crimes — and, more recently, whose officers have been accused of torturing migrants.

      Indirectly, he is also working for the interests of the European Union.

      “Sometimes,” Lieutenant Omar said, “I feel this is Europe’s southern border.”

      Three years ago, when a historic tide of migrants poured into Europe, many leaders there reacted with open arms and high-minded idealism. But with the migration crisis having fueled angry populism and political upheaval across the Continent, the European Union is quietly getting its hands dirty, stanching the human flow, in part, by outsourcing border management to countries with dubious human rights records.

      In practical terms, the approach is working: The number of migrants arriving in Europe has more than halved since 2016. But many migration advocates say the moral cost is high.
      To shut off the sea route to Greece, the European Union is paying billions of euros to a Turkish government that is dismantling its democracy. In Libya, Italy is accused of bribing some of the same militiamen who have long profited from the European smuggling trade — many of whom are also accused of war crimes.

      In Sudan, crossed by migrants trying to reach Libya, the relationship is more opaque but rooted in mutual need: The Europeans want closed borders and the Sudanese want to end years of isolation from the West. Europe continues to enforce an arms embargo against Sudan, and many Sudanese leaders are international pariahs, accused of committing war crimes during a civil war in Darfur, a region in western Sudan

      But the relationship is unmistakably deepening. A recent dialogue, named the Khartoum Process (in honor of Sudan’s capital) has become a platform for at least 20 international migration conferences between European Union officials and their counterparts from several African countries, including Sudan. The European Union has also agreed that Khartoum will act as a nerve center for countersmuggling collaboration.

      While no European money has been given directly to any Sudanese government body, the bloc has funneled 106 million euros — or about $131 million — into the country through independent charities and aid agencies, mainly for food, health and sanitation programs for migrants, and for training programs for local officials.

      “While we engage on some areas for the sake of the Sudanese people, we still have a sanction regime in place,” said Catherine Ray, a spokeswoman for the European Union, referring to an embargo on arms and related material.

      “We are not encouraging Sudan to curb migration, but to manage migration in a safe and dignified way,” Ms. Ray added.

      Ahmed Salim, the director of one of the nongovernmental groups that receives European funding, said the bloc was motivated by both self-interest and a desire to improve the situation in Sudan.

      “They don’t want migrants to cross the Mediterranean to Europe,” said Mr. Salim, who heads the European and African Center for Research, Training and Development.

      But, he said, the money his organization receives means better services for asylum seekers in Sudan. “You have to admit that the European countries want to do something to protect migrants here,” he said.

      Critics argue the evolving relationship means that European leaders are implicitly reliant on — and complicit in the reputational rehabilitation of — a Sudanese security apparatus whose leaders have been accused by the United Nations of committing war crimes in Darfur.

      “There is no direct money exchanging hands,” said Suliman Baldo, the author of a research paper about Europe’s migration partnership with Sudan. “But the E.U. basically legitimizes an abusive force.”

      On the border near Abu Jamal, Lieutenant Omar and several members of his patrol are from the wing of the Sudanese security forces headed by Salah Abdallah Gosh, one of several Sudanese officials accused of orchestrating attacks on civilians in Darfur.

      Elsewhere, the border is protected by the Rapid Support Forces, a division of the Sudanese military that was formed from the janjaweed militias who led attacks on civilians in the Darfur conflict. The focus of the group, known as R.S.F., is not counter-smuggling — but roughly a quarter of the people-smugglers caught in January and February this year on the Eritrean border were apprehended by the R.S.F., Lieutenant Omar said.

      European officials have direct contact only with the Sudanese immigration police, and not with the R.S.F., or the security forces that Lieutenant Omar works for, known as N.I.S.S. But their operations are not that far removed.

      The planned countertrafficking coordination center in Khartoum — staffed jointly by police officers from Sudan and several European countries, including Britain, France and Italy — will partly rely on information sourced by N.I.S.S., according to the head of the immigration police department, Gen. Awad Elneil Dhia. The regular police also get occasional support from the R.S.F. on countertrafficking operations in border areas, General Dhia said.

      “They have their presence there and they can help,” General Dhia said. “The police is not everywhere, and we cannot cover everywhere.”

      Yet the Sudanese police are operating in one unexpected place: Europe.

      In a bid to deter future migrants, at least three European countries — Belgium, France and Italy — have allowed in Sudanese police officers to hasten the deportation of Sudanese asylum seekers, General Dhia said.

      Nominally, their official role is simply to identify their citizens. But the officers have been allowed to interrogate some deportation candidates without being monitored by European officials with the language skills to understand what was being said.

      More than 50 Sudanese seeking asylum in Europe have been deported in the past 18 months from Belgium, France and Italy; The New York Times interviewed seven of them on a recent visit to Sudan.

      Four said they had been tortured on their return to Sudan — allegations denied by General Dhia. One man was a Darfuri political dissident deported in late 2017 from France to Khartoum, where he said he was detained on arrival by N.I.S.S. agents.

      Over the next 10 days, he said he was given electric shocks, punched and beaten with metal pipes. At one point the dissident, who asked that his name be withheld for his safety, lost consciousness and had to be taken to the hospital. He was later released on a form of parole.
      The dissident said that, before his deportation from France, Sudanese police officers had threatened him as French officers stood nearby. “I said to the French police: ‘They are going to kill us,’” he said. “But they didn’t understand.”

      European officials argue that establishing Khartoum as a base for collaboration on fighting human smuggling can only improve the Sudanese security forces. The Regional Operational Center in Khartoum, set to open this year, will enable delegates from several European and African countries to share intelligence and coordinate operations against smugglers across North Africa.

      But potential pitfalls are evident from past collaborations. In 2016, the British and Italian police, crediting a joint operation with their Sudanese counterparts, announced the arrest of “one of the world’s most wanted people smugglers.” They said he was an Eritrean called Medhanie Yehdego Mered, who had been captured in Sudan and extradited to Italy.

      The case is now privately acknowledged by Western diplomats to have been one of mistaken identity. The prisoner turned out to be Medhanie Tesfamariam Berhe, an Eritrean refugee with the same first name as the actual smuggler. Mr. Mered remains at large.

      Even General Dhia now admits that Sudan extradited the wrong man — albeit one who, he says, admitted while in Sudanese custody to involvement in smuggling.

      “There were two people, actually — two people with the same name,” General Dhia said.

      Mr. Berhe nevertheless remains on trial in Italy, accused of being Mr. Mered — and of being a smuggler.

      Beyond that, the Sudanese security services have long been accused of profiting from the smuggling trade. Following European pressure, the Sudanese Parliament adopted a raft of anti-smuggling legislation in 2014, and the rules have since led to the prosecution of some officials over alleged involvement in the smuggling business.

      But according to four smugglers whom I interviewed clandestinely during my trip to Sudan, the security services remain closely involved in the trade, with both N.I.S.S and R.S.F. officials receiving part of the smuggling profits on most trips to southern Libya.

      The head of the R.S.F., Brig. Mohammed Hamdan Daglo, has claimed in the past that his forces play a major role in impeding the route to Libya. But each smuggler — interviewed separately — said that the R.S.F. was often the main organizer of the trips, often supplying camouflaged vehicles to ferry migrants through the desert.

      After being handed over to Libyan militias in Kufra and Sabha, in southern Libya, many migrants are then systematically tortured and held for ransom — money that is later shared with the R.S.F., each smuggler said.

      Rights activists have previously accused Sudanese officials of complicity in trafficking. In a 2014 report, Human Rights Watch said that senior Sudanese police officials had colluded in the smuggling of Eritreans.

      A British journalist captured by the R.S.F. in Darfur in 2016 said that he had been told by his captors that they were involved in smuggling people to Libya. “I asked specifically about how it works,” said the journalist, Phil Cox, a freelance filmmaker for Channel 4. “And they said we make sure the routes are open, and we talk with whoever’s commanding the next area.”

      General Dhia said that the problem did not extend beyond a few bad apples. Sudan, he said, remains an effective partner for Europe in the battle against irregular migration.

      “We are not,” he said, “very far from your standards.”

      https://www.nytimes.com/2018/04/22/world/africa/migration-european-union-sudan.html?hp&action=click&pgtype=Homepage&clickSo
      #externalisation

    • Soudan : des demandeurs d’asile torturés après avoir été expulsés par la France

      Un dissident politique du #Darfour, expulsé par la France fin 2017, affirme notamment avoir été électrocuté, battu et frappé avec des tuyaux en métal pendant dix jours.
      En Belgique, c’est un scandale. En France, le silence est... assourdissant. Dans une grande enquête, publiée dimanche 22 avril, le « New York Times » révèle que des demandeurs d’asile soudanais renvoyés par la France, l’Italie et la Belgique, ont été torturés à leur retour dans leur pays.

      Une enquête de Streetpress, publiée en octobre dernier, révélait déjà que la police française collaborait étroitement, et depuis 2014, avec la dictature soudanaise, et favorisait « le renvoi à Khartoum d’opposants politiques réfugiés en France ». Le titre de Streetpress parlait de lui-même : « Comment la France a livré des opposants politiques à la dictature soudanaise ».
      Le quotidien américain a de son côté retrouvé des demandeurs d’asile et a publié les témoignages de quatre d’entre eux. Ils ont été arrêtés dès leur retour puis torturés par le régime soudanais. Un dissident politique du Darfour expulsé par la France fin 2017, affirme ainsi avoir été électrocuté, battu et frappé avec des tuyaux en métal pendant dix jours. Il affirme qu’avant son expulsion, des officiers de police soudanais l’ont menacé en présence d’officiers français :
      ""Je leur ai dit : ’Ils vont nous tuer’, mais ils n’ont pas compris.""
      Des policiers soudanais dans des centres de rétention

      Interrogé par le « New York Times », le régime du général Omar el-Béchir dément. Le dictateur, qui dirige depuis 28 ans le Soudan, est visé par un mandat d’arrêt en 2008 de la Cour pénale internationale pour génocide, crimes contre l’humanité et crimes de guerre, comme le rappelle « le Journal du dimanche ».

      Comme l’écrit le quotidien américain, la Belgique, la France et l’Italie ont autorisé des « officiels soudanais » à pénétrer dans leurs centres de rétention et à interroger des demandeurs d’asile soudanais. Ces « officiels » étaient en réalité des policiers soudanais. Selon le « New York Times », les entretiens dans les centres de rétention entre les « officiels » soudanais et les demandeurs d’asile se seraient faits « en l’absence de fonctionnaire capable de traduire les propos échangés ».

      En Belgique, les révélations sur les expulsions de demandeurs d’asile soudanais ont provoqué de vives tensions. En septembre dernier, le Premier ministre belge Charles Michel a reconnu devant une commission d’enquête de son Parlement que les polices de plusieurs pays européens collaboraient étroitement avec la dictature soudanaise d’Omar el-Béchir.

      https://www.nouvelobs.com/monde/20180424.OBS5650/soudan-des-demandeurs-d-asile-tortures-apres-avoir-ete-expulses-par-la-fr

    • Et, signalé par @isskein sur FB, un communiqué de Migreurop qui date d’il y a une année. Rappel :

      L’Europe collabore avec un dictateur pour mieux expulser vers le Soudan

      Migreurop demande l’arrêt immédiat de toutes les collaborations initiées par l’Union européenne et ses Etats membres avec la dictature d’Omar El-Béchir et avec tout Etat qui bafoue les droits fondamentaux.

      http://www.migreurop.org/article2837.html

  • Nous vous avions récemment transmis l’information d’un scandaleux vol spécial prévu pour le #Soudan, à l’appui du communiqué de presse ci-joint.

    De nombreuses personnes (certain-e-s d’entre vous, du réseau des personnes concernées, etc) se sont mobilisées et ont écrit aux autorités et c’est important. Plusieurs organisations, très inquiètes (La ligue des Droits de l’Homme, Amnesty International, l’Association contre la Torture, association soudanaise, etc), se sont renseignées, se sont mobilisées et ont pour certaines également écrit au SEM et aux autres autorités concernées en parallèle de démarches juridiques alertant à nouveau sur les risques en cas de retour. Un rassemblement de plus d’une centaine de personnes a eu lieu le dimanche précédent le vol à Lausanne et un rassemblement spontané le lundi lorsqu’A. devait être transféré dans les locaux de la police Cantonale.

    Rien y a fait. Mme Sommaruga et M. Gattiker (chef du Secrétariat d’etat aux Migrations) ont simplement dit que les conditions de sécurité avaient été vérifiées pour les déportés et que tout allait bien… ceux et celles qui lisent régulièrement des décisions du SEM savent à quel point cela relève du cynisme ! (A ce propos, voir le petit reportage sur ces renvois à haut risque au Sri Lanka avec mention du Soudan et la fabuleuse déclaration de la collaboratrice du SEM ! https://www.rts.ch/play/tv/19h30/video/requerants-dasile-la-delicate-question-du-cas-tamoul?id=9475862&station=a9e76215 )

    Le Vol spécial est donc bien parti le mardi 10 avril. A bord, 5 soudanais dont A. (pour qui le recours n’a pas eu d’effet suspensif) et visiblement, un égyptien. Le voyage s’est évidemment très mal passé. La police est venue chercher A. à 4h30 du matin à la police cantonale pour l’emmener à l’aéroport où se trouvaient un nombre surréaliste de policiers pour les emmener dans l’avion (au moins une soixantaine). Ils étaient presque une vingtaine de policiers par personnes. A. a eu très peur de ce qui pourrait leur arriver… Ils ont été ligotés avec ce qu’il décrit comme des ceintures (2 par chevilles, par poignet, 1 aux hanches et du plastique pour les mains). Ils ont fait 8h dans l’avion, il n’a pas pu manger ni boire. Dans l’avion, les entraves ont été détachées mais chacun était entouré d’un nombre énorme de policiers. Pour aller aux toilettes, il y avait 3 policiers qui les accompagnaient et ils devaient laisser la porte ouverte. A l’aéroport, A. a observé qu’un des déportés s’agitait/protestait, il ne sait pas bien ce qui s’est passé mais une vingtaine de policiers se sont précipités sur lui et le médecin s’est également rendu vers lui puis il s’est calmé. Il a eu l’impression qu’on lui avait administré un médicament.

    Ce récit ressemble malheureusement à la plupart des récits des vols spéciaux, qui mettent en avant l’extrême absurdité des politiques de migration, l’extrême violence et l’acharnement que l’Etat met pour déporter et exclure des exilé-e-s.

    A. avait vécu 6 ans ici, avait une compagne et une procédure de mariage en cours et s’est engagé dans de nombreuses activités bénévoles de la ville à défaut d’avoir le droit de travailler. Sa demande de régularisation (dossier exemplaire avec promesse d’embauche) avait été refusée par le Canton (M. Leuba), comme c’est le cas presque systématiquement.

    Sur les conditions d’arrivée au Soudan, les versions différent sur le déroulement des interactions avec la police locale mais A. raconte qu’il a été interrogé à l’arrivée (pourquoi il a quitté le pays, pourquoi il n’avait pas de documents, qu’est-ce qu’il avait raconté en Suisse, ses motifs de fuite, etc). Il s’était préparé à l’avance avec des compatriotes pour éviter tout risque d’être associé à l’opposition et de s’exposer dans ses réponses. Une personne du réseau (bien placée) est également venue le chercher (ayant payé pour lui) et A. se trouve actuellement sous sa protection mais cette dernière a dû donner son identité et doit régulièrement s’annoncer au poste de Police, selon les dernières informations. Il semblerait que tout le monde a été libéré à l’arrivée mais leurs situations au vu de la situation est très incertaine.

    Les noms des déportés ont circulé dans les médias ainsi que des rumeurs selon lesquels les déportés auraient commis de dangereux crimes en Suisse (on pourrait en effet penser que ces personnes sont de dangereux criminels lorsqu’on connaît les conditions de leurs renvois ?). Amnesty a vérifié que tout le monde avait été libéré ainsi que l’avocat de certains des déportés.

    Toutefois, A. reste extrêmement inquiet pour sa sécurité étant donné ses activités passées, l’apparition de son nom, de photos, de vidéos de lui, les rumeurs qui lui sont rapportées et le fait que les projecteurs risquent de se détourner d’eux. Des avocats, compatriotes et personnes de soutien tentent de rester en contact avec A. et d’autres personnes concernées. Pour A., d’autres procédures doivent être poursuivies (procédure de mariage) puisque sa fiancée se trouve toujours en Suisse.

    Actuellement, des démarches à la Cour Européenne des Droits de l’Homme sont envisagées et diverses organisations tentent d’interpeller les autorités sur les véritables vérifications effectuées et sur leurs agissements.

    A l’arrivée, s’ il n’y a pas eu trop de vagues (contrairement aux précédents renvois dénoncés en Europe), c’est peut-être un des impacts de notre mobilisation. La Suisse a certainement exigé des autorités soudanaises que cela se passe bien d’autant plus qu’il y a un enjeu politique pour le Soudan (qui était aussi invité à la rencontre suisse du groupe de la Méditerranée centrale et en lien avec le processus de Khartoum et ces collaborations avec la Suisse).

    L’autre importance de nos mobilisations, en plus d’avoir dénoncé et témoigné, est qu’un réseau important s’est coordonné spontanément, des personnes de soutien nouvelles, personnes et groupes, et que ces synergies qui évoluent sont capitales pour la suite de la lutte contre ces renvois immondes et pour la protection des personnes menacées.
    Entre temps, nous avons appris que la Suisse s’était joint à des Accords passés entre l’UE et les services de sécurité Ethiopiens (à nouveau, les principaux auteurs de violations des droits humains sur place) pour faciliter désormais aussi les renvois forcés des exilé-e-s éthiopiens. Nous avons rencontré des exilés éthiopiens inquiets pour leur sort, se joignant dans leur angoisse à nombre de personnes qui n’ont pas été entendues par les autorités qui refusent systématiquement d’entendre et de prendre en compte la réalité des personnes concernées ayant pour seul devise le soupçon généralisé et les menaçant de refoulement prochain.

    Nous continuerons à témoigner de ces réalités inquiétantes et trop dissimulées et de lutter contre ces renvois et nous vous remercions pour vos appuis.

    Avec nos meilleurs messages,

    Le Collectif R

    Message reçu via email le 23 avril 2018.

    #réfugiés #asile #migrations #Suisse #réfugiés_soudanais #vol_spécial #renvois #expulsions

  • La Ligue des Droits de l’Homme | Le rapatriement des Soudanais est un acte illégal
    https://asile.ch/2017/12/10/ligue-droits-de-lhomme-rapatriement-soudanais-acte-illegal-2

    Le Tribunal de Première Instance de Liège confirme qu’en organisant le rapatriement de ces ressortissants Soudanais, le Secrétaire d’Etat à l’asile et aux migrations a bien commis un acte illégal.

  • Expulsions vers le Soudan : l’Etat belge condamné, Francken dit son incompréhension

    Cette fois, c’est du solide. Si vendredi, une avocate avait réussi à obtenir, in extremis, que deux migrants soudanais, qui faisaient partie de ceux identifiés par des émissaires du ministère de l’Intérieur soudanais invité à Bruxelles par le gouvernement belge, ne soient pas expulsés vers Khartoum, c’était parce que sa requête en extrême urgence introduite devant le Conseil du contentieux des étrangers était suspensive.
    Mais, lundi, le tribunal de première instance de Liège a clairement dit qu’en organisant le rapatriement des ressortissants soudanais vers leur pays d’origine, une dictature reconnue comme telle au plan international, le secrétaire d’Etat à l’Asile et aux Migrations, Theo Francken (N-VA) a commis un acte illégal, se réjouit la Ligue des droits de l’homme. Le secrétaire d’Etat à l’Asile a exprimé lundi son incompréhension devant l’ordonnance rendue par le président du tribunal de première instance de Liège.

    http://www.lalibre.be/actu/politique-belge/expulsions-vers-le-soudan-l-etat-belge-condamne-francken-dit-son-incomprehen
    #condamnation #Soudan #réfugiés #asile #migrations #Belgique #renvois #expulsions #justice #réfugiés_soudanais

    • 27 septembre 2017 - Migrations : Après la France, la Belgique collabore avec le régime dictatorial du Soudan

      Théo Francken, Secrétaire d’Etat belge à l’asile et la migration, a fait appel à des agents soudanais pour effectuer des contrôles d’identification dans le Parc Maximilien, à Bruxelles, où de nombreux migrants ont trouvé ‘refuge’. L’Association Européenne pour la Défense des droits de l’Homme (AEDH) condamne avec la plus grande force ce recours à des agents soudanais au service du régime dictatorial du Président Omar Hassan Ahmad el Béchir, lui-même visé par deux mandats d’arrêt internationaux pour génocide, crimes contre l’humanité et crimes de guerre. Cette identification des ressortissants soudanais et les retours forcés qui s’en suivront mettent en péril la vie de ces personnes et de leurs familles. Cette situation est non seulement inquiétante mais aussi inacceptable parce que contraire, notamment, à l’article 19 de la Charte des droits fondamentaux de l’Union européenne. Cette disposition interdit le renvoi de toute personne vers un Etat où il existe un risque sérieux qu’elle soit soumise à la peine de mort, à la torture ou à d’autres traitements inhumains ou dégradants. L’ AEDH appelle le gouvernement belge et ceux de tous les États membres concernés à cesser immédiatement toute collaboration avec la dictature soudanaise.

      http://www.aedh.eu/27-septembre-2017-Migrations-Apres.html

  • Reçu via la mailing-list Migreurop (envoyé par Pascaline Chappart) :

    Deux articles où il est question d’évacuation depuis les centres de détention libyens vers le #Niger, en vue d’une réinstallation en Europe...

    – « Un pont aérien pour les réfugiés », les Echos du 30/8/2017 : "Avramopoulos demande aussi le soutien des Etats-membres pour le plan de l’UNHCR de « procéder temporairement à une #évacuation d’urgence des groupes de migrants les plus vulnérables de la #Libye vers le #Niger et d’autres pays de la région ».

    – Le Monde, 22/9/2017 :Vincent Cochel, responsable de la situation en mer Méditerranée

    "Pour accélérer l’amélioration de la situation, nous oeuvrons à la création de centres ouverts de réception qui pourraient être installés en Libye. Il y a urgence compte tenu des conditions existantes
    dans les centres de détention. Le dossier avance, mais n’est pas bouclé. Ces centres nous permettront également d’évacuer en urgence certains réfugiés vers des pays tiers en vue de leur transfert dans des pays européens ou autres. Cependant, sans clarification rapide des intentions chiffrées des pays de réinstallation, nous ne pourrons pas évacuer ces réfugiés en danger vers des pays de transit susceptibles de les accueillir temporairement."

    –---------------------

    Migrants : « La France doit clarifier au plus tôt la hauteur de son engagement »

    Vincent Cochetel, responsable de la situation en mer Méditerranée pour l’Agence des Nations unies
    chargée des réfugiés, dénonce la faiblesse des réinstallations d’exilés en Europe.
    LE MONDE | 22.09.2017 à 11h19 | Propos recueillis par Maryline Baumard (/journaliste/maryline-baumard/)

    Après les annonces estivales d’Emmanuel Macron, qui propose d’ouvrir une voie légale d’accès en
    France pour éviter la traversée de la Méditerranée, Vincent Cochetel, l’émissaire spécial pour cette
    zone de l’Agence des Nations unies chargée des réfugiés (UNHCR), s’impatiente de l’absence
    d’engagement chiffré.
    Emmanuel Macron a annoncé en juillet que la France irait chercher des Africains sur les
    routes migratoires, avant leur arrivée en Libye, afin d’éviter qu’ils ne risquent la mort en mer.

    Le HCR se réjouit-il de cette initiative ?
    La réinstallation n’est pas la solution au problème migratoire, mais elle fait partie de l’approche
    globale… Ce message, qui consiste à aller chercher des réfugiés dans les pays voisins de zones de
    conflits et à leur offrir un avenir, une protection, a été plus ou moins entendu lorsqu’il s’agit des
    Syriens réfugiés au Liban, en Jordanie ou en Turquie, il ne l’était pas à ce jour pour les réfugiés
    africains.
    Nous nous réjouissons que la France organise des opérations avec notre soutien depuis le Tchad et
    le Niger. La situation est difficile sur ces deux zones, puisque le Tchad accueille un nombre
    important de réfugiés venus du Soudan (Darfour) ou de Centrafrique, et que le Niger reçoit ceux qui
    fuient les zones où sévit Boko Haram, mais aussi sur le Mali, où la situation actuelle nous inquiète.

    Quel rôle jouez-vous au Tchad et au Niger ?
    Nous gérons, avec les autorités, les camps de réfugiés dans les quinze pays qui longent la route
    migratoire des Africains que nous retrouvons ensuite en Libye. Les Etats y accordent une protection
    internationale et nous les assistons, ainsi que nos partenaires ONG, dans les services qu’ils offrent
    à ces populations fragilisées. Dans chaque pays, nous établissons une liste de personnes
    vulnérables qui nécessitent un transfert. Elle est de 83 500 au Tchad et de 10 500 au Niger, les deux
    pays dans lesquels la France projette de venir chercher des Africains pour les réinstaller. En plus,
    nous aimerions que la France et d’autres pays acceptent d’accueillir des réfugiés que nous voulons
    évacuer en urgence de Libye.

    Vous aimeriez que les pays européens en réinstallent 40 000, sélectionnés dans vos listes…
    La France vous a-t-elle fait part de quotas chiffrés d’Africains qu’elle souhaite accueillir ?
    Pas à ce jour. Aussi nous demandons au gouvernement français de clarifier au plus tôt la hauteur de
    son engagement. Le comptage des réinstallations déjà effectuées depuis ces zones est assez
    rapide. En 2015 et en 2016, aucun réfugié africain n’a été transféré depuis le Niger et un seul l’a été,
    vers la France, en 2017. Lorsque l’on s’intéresse au Tchad, 856 ont été réinstallés en 2015, 641
    en 2016 et 115 en 2017. Presque aucun vers l’Europe ; la plupart ont été accueillis au Canada ou
    aux Etats-Unis.

    Comment allez-vous travailler avec la France ?
    Nous commencerons par envoyer à l’Office français de protection des réfugiés et apatrides [Ofpra]
    une liste de dossiers de personnes vulnérables sélectionnées par nos soins comme devant de toute
    urgence rejoindre l’Europe. Leur cas sera d’abord analysé à Paris. L’Ofpra les étudiera du point de
    vue des critères de l’asile, et des spécialistes vérifieront les questions de sécurité et si toutes les
    conditions sont réunies. Ensuite, les équipes françaises de l’Ofpra entendront sur place les
    personnes sélectionnées. Ces entretiens pourront avoir lieu dans nos locaux avec éventuellement
    nos interprètes. Pendant que la France préparera leur accueil, une sensibilisation culturelle sur le
    pays leur sera prodiguée, afin qu’elles disposent d’emblée de quelques éléments de contexte.
    Emmanuel Macron a décidé d’intervenir au Niger et au Tchad, mais rêve dans le fond de
    travailler plus directement avec la Libye. Ce que fait ou tente de faire le HCR…
    Il faut que les Etats européens arrêtent de se bercer d’illusions sur les possibilités actuelles de
    travailler avec ce pays. Notre rôle à nous, agence de l’ONU, y reste malheureusement très limité.
    Même lorsque nous sommes présents dans les prisons officielles, où entre 7 000 et 9 000 migrants
    et demandeurs d’asile sont emprisonnés, sur 390 000 présents dans le pays. D’autres subissent des
    traitements inhumains dans des lieux de détention tenus par des trafiquants. Dans les prisons
    « officielles », nous n’avons pour l’instant l’autorisation de nous adresser qu’aux ressortissants de
    sept nationalités (Irakiens, Palestiniens, Somaliens, Syriens, Ethiopiens s’ils sont Oromos,
    Soudanais du Darfour et Erythréens). Ce qui signifie que nous n’avons jamais parlé à un Soudanais
    du Sud, à un Malien, à un Yéménite, etc.
    L’Organisation internationale pour les migrations a assisté cette année plus de 3 000 personnes
    arrivées en Libye afin de leur permettre de rentrer chez elles. Nous croyons que cette solution est
    très utile pour nombre d’entre elles. Il faut garder à l’esprit que 56 % des migrants en Libye disent
    avoir atteint leur destination finale. Ils espéraient y trouver du travail, ce qui ne s’est pas matérialisé
    pour beaucoup d’entre eux.
    Pour accélérer l’amélioration de la situation, nous oeuvrons à la création de centres ouverts de
    réception qui pourraient être installés en Libye. Il y a urgence compte tenu des conditions existantes
    dans les centres de détention. Le dossier avance, mais n’est pas bouclé. Ces centres nous
    permettront également d’évacuer en urgence certains réfugiés vers des pays tiers en vue de leur
    transfert dans des pays européens ou autres. Cependant, sans clarification rapide des intentions
    chiffrées des pays de réinstallation, nous ne pourrons pas évacuer ces réfugiés en danger vers des
    pays de transit susceptibles de les accueillir temporairement.

    Un pont aérien pour les réfugiés
    Les Echos, 30 août 2017
    https://www.lecho.be/economie-politique/europe-general/Un-pont-aerien-pour-les-refugies/9927215?ckc=1&ts=1507288383

    La Commission demande aux États membres de se montrer solidaires envers les Africains : jusqu’à 37.700 réfugiés pourraient rejoindre l’Europe en avion, en direct de Libye, d’Egypte, du Niger, d’Éthiopie et du Soudan.
    Dans la crise de la migration, l’attention européenne se porte de plus en plus vers le flux de migrants qui tentent la traversée vers l’Italie à partir de l’Afrique du Nord et de la corne de l’Afrique, via la Libye. Dans une lettre envoyée vendredi dernier à tous les ministres des États membres, le commissaire européen à la Migration, Dimitris Avramopoulos, demande un doublement des efforts de réinstallation, ce qui porterait à 40.000 le nombre de réfugiés accueillis en Europe.

    Le commissaire européen à la Migration demande un doublement des efforts de réinstallation.
    Le pont aérien ne devrait pas se limiter aux pays voisins de la Syrie. Avramopoulos demande également que l’on accueille les réfugiés qui ont besoin de la protection internationale le long de la route de l’Europe centrale. Il demande « que l’on concentre la réinstallation au départ de l’Egypte, la Libye, le Niger, l’Éthiopie et le Soudan ».
    C’est au Haut commissariat des Nations unies pour les réfugiés, l’UNHCR, qu’il reviendra de définir le profil des migrants qui pourront être pris en considération pour une réinstallation en Europe. Avramopoulos demande aussi le soutien des Etats-membres pour le plan de l’UNHCR de « procéder temporairement à une évacuation d’urgence des groupes de migrants les plus vulnérables de la Libye vers le Niger et d’autres pays de la région ».
    Les États membres ont jusqu’à la mi-septembre pour annoncer leurs plans. Ils ne sont pas obligés de participer à ce pont aérien. Le cadre européen de réinstallation travaille sur base d’engagements volontaires. La Commission européenne offre cependant une aide financière non négligeable de 10.000 euros par réfugié, pour un budget total de 377 millions d’euros.

    « J’ai toujours défendu le principe de réinstallation. La Belgique est prête à faire sa part. Il y a cependant une condition cruciale. La migration sûre et légale, via la réinstallation ne pourra se faire que si l’on met fin à l’asile après une migration illégale. »
    Theo Francken Secrétaire d’État à la Migration

    Vers une nouvelle controverse sur la solidarité ?
    Au cours de l’été 2015, la Commission avait déjà lancé un cadre commun pour l’UE portant sur l’acheminement direct de 22.000 réfugiés, au départ des pays voisins de la Syrie. Objectif : éviter les traversées dangereuses vers la Grèce.
    Aujourd’hui, 17.000 réfugiés – dont plus de 7.800 Syriens acheminés à partir de la Turquie dans le cadre de la convention entre l’Europe et la Turquie – ont effectivement bénéficié du pont aérien vers l’Europe au départ des pays voisins de la Syrie.
    Les diplomates européens craignent que cette nouvelle proposition ne provoque une nouvelle controverse sur la solidarité dans le cadre de la crise de la migration. La concentration sur l’Afrique et la route centrale via la mer Méditerranée pourrait avoir du mal à passer. Car elle donne l’impression que l’Europe essaie de reproduire l’accord avec la Turquie, mais dans une Libye dangereuse, instable et imprévisible. Une solution que le président du parlement européen, Antonio Tajani, défend ouvertement.
    Par ailleurs, la route entre la Libye et l’Italie est surtout utilisée par des migrants économiques, qui ne sont en principe pas éligibles pour l’asile. C’est pourquoi les efforts européens de ces derniers mois se sont surtout concentrés sur le renvoi de ces migrants dans leur pays, et l’arrêt des flux migratoires.
    Malgré tout, l’Allemagne, la France, l’Italie et l’Espagne ont déjà répondu à l’appel. Lors du mini-sommet qui s’est tenu lundi à Paris, les chefs de gouvernement de ces quatre pays ont promis, non seulement un soutien supplémentaire aux pays du Sahel afin de fermer la route vers la Libye, mais aussi davantage de solidarité lors de la réinstallation en Europe des personnes ayant droit à l’asile.
    Theo Francken, secrétaire d’État à la Migration, soutient Avramopoulos. « J’ai toujours défendu le principe de réinstallation. La Belgique est prête à faire sa part. Il y a cependant une condition cruciale. La migration sûre et légale, via la réinstallation ne pourra se faire que si l’on met fin à l’asile après une migration illégale. »
    Source : L’Echo

    #réinstallation #asile #migrations #réfugiés #centres_de_transit

  • HCR | Yémen : Mise en garde contre les traversées en mer
    http://asile.ch/2016/12/07/hcr-yemen-mise-garde-contre-traversees-mer

    En dépit du conflit et de la dégradation rapide des conditions humanitaires, plus de 100’000 personnes ont déjà risqué, cette année, leur vie en haute mer pour quitter la Corne de l’Afrique et se rendre au Yémen par bateau. Ceci souligne la nécessité d’apporter d’urgence une aide aux pays d’origine et de transit pour décourager […]

  • L’externalisation des #contrôles_migratoires est le fait pour un État de déléguer à un État voisin la mission de contrôler la #frontière du premier sur son propre #territoire, en assumant généralement les violations des droits de l’homme qui y sont liées. Situation qu’on trouve à #Calais, mais aussi sur le littoral français, belge et néerlandais à la frontière britannique, comme en Italie à la frontière française, mais aussi suisse et autrichienne.

    L’Italie vient ainsi d’expulser quarante-huit #exilés soudanais arrêtés à #Vintimille, à la #frontière_française, vers le #Soudan.
    L’Espace #Schengen était un espace où les contrôles aux frontières entre État membres avaient était abolis, à une époque où la Convention de Schengen sur le libre circulation des personnes était un des piliers de la construction européenne. Aujourd’hui, tous les États voisins de l’Italie, sauf la Slovénie, ont rétabli des contrôles à leur frontière avec elle, voire construit un #mur à la frontière comme l’Autriche. Sauf la Slovénie parce que les exilé-e-s viennent des Balkans par la Slovénie vers l’Italie, et de là vers les autres pays. La Slovénie a construit une clôture barbelée avec la Croatie sa voisine membre de l’Union européenne.

    http://passeursdhospitalites.wordpress.com/2016/08/27/quand-litalie-expulse-de-la-frontiere-francaise-ver

    Cette #expulsion a laissé des traces sur des #médias_militants mais aucun média français détectable par les moteurs de recherche, alors qu’il s’agit bien de l’externalisation sur le sol italien du contrôle de la frontière française.

    Et que la France et le Royaume-uni sont des pays moteurs du #Processus_de_Khartoum, qui est le cadre général de cette expulsion, et qui vise à traiter avec les États que fuient les exilé-e-s pour les empêcher d’arriver en #Europe.

    Tu veux devenir cobaye des relations entre États européens ? Welcome in Europe.

    http://www.hrw.org/africa/sudan

  • "Italia deporta illegalmente migranti in Sudan"

    «È un fatto gravissimo. Il Ministero dell’Interno ha disposto per oggi la deportazione di 48 migranti da Malpensa verso il Sudan con modalità assolutamente fuori legge»: Pippo Civati denuncia irregolarità da parte del Ministro dell’Interno e coglie l’occasione per discutere di Europa e immigrazione.

    http://www.fanpage.it/la-denuncia-di-civati-italia-deporta-illegalmente-migranti-in-sudan
    #Soudan #Italie #renvois #expulsions #asile #migrations #réfugiés #réfugiés_soudanais #déportation

    • Espulsione diretta per 48 migranti Sudan

      (ANSA) - VENTIMIGLIA (IMPERIA), 24 AGO - Quarantotto migranti sudanesi, in parte respinti alla frontiera e in parte fermati a Ventimiglia, sono stati trasferiti in autobus da Ventimiglia a Torino per essere direttamente rimpatriati a Karthoum. Si tratta della prima espulsione diretta di questo genere. Prosegue così la cosiddetta ’operazione di alleggerimento’ voluto nelle settimane scorse dal capo della polizia Franco Gabrielli.

      http://www.ansa.it/liguria/notizie/2016/08/24/espulsione-diretta-per-48-migranti-sudan_0de55e4a-0b87-490f-811e-c5039a8ffa5d.h

    • L’accordo con il dittatore sudanese

      Il 4 agosto il Governo Italiano firmava un accordo con la dittatura sudanese alla presenza del capo della Polizia Gabrielli e dei rappresentanti del Ministero dell’Interno e degli Affari Esteri.

      Si tratta di un accordo di polizia, #memorandum_of_understanding, formula già adottata nel 2015 con il Gambia, altra dittatura africana. L’accordo è stato firmato senza essere presentato nè ratificato dalle Camere e il contenuto resta ad oggi ancora segreto, in flagrante violazione dell’articolo 80 della Costituzione che prevede che«le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica…o importano oneri alle finanze…». La Costituzione è doppiamente violata, non solo perché l’accordo ha un carattere politico, ma anche perché in cambio della firma al Sudan sono stati promessi 100 milioni di euro dai Fondi istituiti alla Valletta. Varie fonti affermano che i primi fondi europei siano stati dati ai janjaweed, le milizie paramilitari sudanesi diventate famose per le atrocità commesse in Darfur. A dei sanguinari miliziani l’Europa avrebbe dunque deciso di affidare il controllo delle frontiere per impedire a eritrei, etiopi e sudanesi di avvicinarsi alla Libia per poi prendere il mare verso l’Italia. Le retate di centinaia di eritrei nella primavera di quest’anno dimostrano come la milizia abbia preso sul serio il suo ruolo di gendarme. Le autorità italiane non tardano a verificare l’operatività dell’accordo. Il 24 agosto dall’aeroporto di Torino parte un aereo con 48 migranti sudanesi che, dopo uno scalo al Cairo, atterra a Khartoum. Tra i 48 alcuni provengono dall’insanguinato Darfour. Gli espulsi, raggiunti a Khartoum, raccontano l’inganno e la violenza dell’operazione «Mi sono ritrovato con una quarantina di connazionali, ci hanno sequestrato telefoni e borse e ci hanno obbligato a dare le impronte per l’ennesima volta, percuotendo chi si opponeva. In seguito ci hanno portato alla Questura di Imperia, dove tre funzionari sudanesi ci hanno spiegato che ci avrebbero riportato a Khartoum il giorno dopo. In serata la polizia ci ha diviso in tre gruppi, ho dormito in cella e alle 5 del mattino ci hanno portato all’aeroporto di Torino, ognuno scortato da due agenti». I tentativi di difesa delle autorità italiane sono ben poco convincenti. Da un lato Alfano dichiara che i sudanesi sono stati espulsi perché non avrebbero fatto richiesta d’asilo. Il che è spiegabile visto che sono stati arrestati a Ventimiglia, dove si trovavano proprio perché volevano fare richiesta di protezione internazionale in un altro paese. Ancora più grave la difesa della polizia italiana che definisce il Sudan «un paese pienamente riconosciuto dall’Italia», nonostante sul suo presidente pesino due mandati di cattura da parte della Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità in Darfur. Siamo al paradosso di un capo di stato che se venisse nel nostro paese, dovrebbe essere arrestato all’aeroporto dalla polizia con cui firma accordi sull’immigrazione e che lo ritiene leader di «un paese pienamente riconosciuto dall’Italia».

      http://arci.it/news/arci-report/arcireport/arcireport-27-8-settembre-2016/laccordo-con-il-dittatore-sudanese
      #accord #accord_de_réadmission

    • Sudan il Paese che l’Italia considera sicuro

      A fine agosto 48 cittadini sudanesi sono stati rimpatriati dall’Italia. Fermati e identificati a Ventimiglia mentre cercavano di passare il confine sono stati colpiti da un decreto di espulsione che ha innescato la procedura di rimpatrio. Infatti per l’Italia il Sudan è un paese sicuro e questo rimpatrio è il primo effetto degli accordi bilaterali firmati con il paese africano a inizio agosto.
      Sudan-Italia. Italia-Sudan. Dopo la firma del Memorandum of understanding è questo il terribile doppio viaggio a cui potrebbero essere costretti i cittadini sudanesi che arrivano sulle nostre coste. Il documento firmato in Italia il 4 agosto 2016 prevede infatti “la collaborazione tra i due Paesi nella lotta al crimine, nella gestione degli effetti migratori e delle frontiere”. Un comunicato diffuso dall’Ambasciata italiana di Khartoum chiarisce che l’accordo italo-sudanese si iscrive nel piu’ ampio quadro di cooperazione tra Sudan e Unione Europea sui temi migratori, in particolare il Processo di Khartoum, lanciato in Italia nel 2014, e il Fondo fiduciario d’emergenza dell’Unione europea per la stabilita’ e la lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare e del fenomeno degli sfollati in Africa, lanciato nel novembre 2015 al Summit de La Valletta.

      http://viedifuga.org/sudan-paese-litalia-considera-sicuro
      #processus_de_khartoum

    • Sudan, accordi segreti dell’Italia con il dittatore Al-Bashir

      La denuncia del Tavolo Nazionale Asilo. Le associazioni che si occupano di immigrazione in Italia denunciano all’unanimità il rimpatrio di 48 sudanesi, avvenuto sulla base di un’intesa segreta tra la polizia italiana e quella locale. Fachile (Asgi): “L’accordo va portato in Parlamento”

      http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2016/09/27/news/sudan_accordi_segreti_dell_italia_con_il_dittatore_al-bashir-148642616

    • Migranti, accuse all’Italia: «Accordi segreti con dittatori e rimpatri illegittimi»

      La denuncia del Tavolo asilo, che riunisce le maggiori organizzazione che lavorano per la tutela dei migranti. Sotto accusa il respingimento dei 48 ragazzi sudanesi, considerato illegale. Asgi: "Agiremo anche presso la Corte europea dei diritti dell’uomo”. Arci: “Soldi della cooperazioni non devono servire per fermare i flussi”

      http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/516548/Migranti-accuse-all-Italia-Accordi-segreti-con-dittatori-e-rimpatri

    • Gentiloni incontra ministro degli esteri sudanese a Roma e promette maggiori aiuti contro migranti

      Durante una conferenza a latere del “Forum Euro-Mediterraneo 2016”, organizzato dal nostro ministero degli Esteri, tenutosi in questi giorni a Roma, il capo della Farnesina, Paolo Gentiloni, ha incontrato il suo omologo sudanese, Ibrahim A. Ghandour.


      http://www.africa-express.info/2016/12/04/gentiloni-incontra-ministro-degli-esteri-sudanese-roma-e-promette-m

    • Forced returns to Sudan, the case against Italy at the ECHR

      Five Sudanese citizens from Darfur – who were among the 48 “irregular migrants" that Italy forcibly returned to al-Bashir’s Sudan on the 24th of August – have appealed to the European Court of Human Rights (ECHR). Now Italy risks a new conviction, after the one for the push-backs to Libya under Gaddafi. 4 things to know about this case and why it is so important.

      http://openmigration.org/en/analyses/forced-returns-to-sudan-the-case-against-italy-at-the-echr

    • Deportazioni in Sudan, Italia alla sbarra in Europa: è la nona volta

      Li hanno bloccati a Ventimiglia nel centro accoglienza della Croce Rossa, portati a Torino dopo un accertamento sommario, caricati sotto scorta su un aereo e rimpatriati, contro al loro volontà, in Sudan, il paese da cui erano scappati per sottrarsi al regime di Omar Al Bashir, il dittatore colpito da un ordine di cattura internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità in seguito ai massacri nella martoriata regione del Darfur. Erano in 40, quasi tutti in fuga proprio dal Darfur. Di molti di loro si sono perse le tracce dopo lo sbarco a Khartoum. Almeno cinque, però, non si sono arresi ed hanno deciso di trascinare l’Italia di fronte alla Corte Europea per i Diritti Umani. Al loro fianco si è schierato il Tavolo Nazionale Asilo, di cui fanno parte organizzazioni come il Centro Astalli, l’Asgi, la Caritas, l’Arci, la Federazione delle Chiese Evangeliche, Amnesty. Il procedimento è seguito dagli avvocati Salvatore Fachile e Dario Belluccio, che il 13 febbraio hanno depositato un esposto presso la cancelleria della Corte, a Strasburgo.

      http://www.tempi-moderni.net/2017/02/20/deportazioni-in-sudan-italia-alla-sbarra-in-europa-e-la-nona-volta

    • La Corte Europea ammette i ricorsi contro l’espulsione collettiva di cittadini sudanesi. Conferenza stampa di Asgi e Arci giovedì 11 gennaio alle 11.30

      Sono stati dichiarati tutti ammissibili i ricorsi presentati dai cittadini sudanesi contro il Governo italiano per il respingimento collettivo che, il 24 agosto 2016, ha dato esecuzione all’accordo tra il Capo della Polizia italiana ed il suo omologo sudanese.

      La Corte Europea per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali (CEDU) ha comunicato formalmente i ricorsi al Governo italiano ed ha posto dei precisi quesiti volti a conoscere le modalità dell’espulsione e se siano stati rispettati i diritti e le garanzie previste dalla Convenzione europea.

      I ricorsi sono stati tutti depositati da avvocati dell’ASGI: i cittadini sudanesi furono oggetto di una vera e propria “retata” a Ventimiglia, alcuni furono trasportati in condizioni disumane e poi rinchiusi illegittimamente nell’ hotspot di Taranto. Quindi vi fu il tentativo di rimpatriarli tutti.

      Alcuni furono effettivamente riportati in Sudan e 5 di loro incontrarono rappresentanti di ASGI ed ARCI che, tra il 19 ed il 22 dicembre 2016, si recarono a Khartoum grazie al supporto di una delegazione di parlamentari europei del gruppo della Sinistra europea.

      Tutti coloro che non furono rimpatriati hanno ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale in Italia, in quanto soggetti a persecuzioni e discriminazioni nel Paese da cui provenivano.

      I ricorsi hanno denunciato la violazione di diverse norme della Convenzione EDU e della Convenzione di Ginevra. Il Governo italiano, entro il 30 marzo 2018, dovrà fornire una risposta al proprio operato dinanzi alla CEDU.

      Negli ultimi mesi la collaborazione con il Governo di Al Bashir per l’espulsione di cittadini sudanesi si è rafforzata anche con altri paesi europei. A fine dicembre sono state ufficialmente richieste le dimissioni del Segretario di Stato per l’asilo e la migrazione belga dopo la diffusione di informazioni relative a torture subite da cittadini sudanesi espulsi da Bruxelles.

      L’azione giudiziaria costituisce una tra le iniziative intraprese da ASGI ed ARCI per contrastare i processi di esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo attuati dal Governo italiano - che nel corso dell’ultimo anno si sono concretizzati anche nei nuovi accordi con la Libia e più recentemente col Niger, dove l’Italia invierà militari e armamenti. Un ricorso è stato presentato dall’Asgi anche contro l’uso dei fondi della cooperazione allo sviluppo per finanziare il rafforzamento della guardia costiera libica.

      I ricorsi sono strumenti finalizzati innanzitutto a tutelare le singole persone, ma sono anche rivolti a contrastare le politiche italiane ed europee volte ad accordare risorse economiche a regimi dittatoriali, come quello del Sudan o del Niger a scapito della vita e della libertà della persona.

      Tutte le iniziative e i loro esiti verranno illustrate in una conferenza stampa che si terrà l’11 gennaio presso la saletta del primo piano della Fnsi, in Corso Vittorio Emanuele 249, alle 11.30. Parteciperanno gli avvocati Salvatore Fachile e Giulia Crescini dell’Asgi, estensori di alcuni dei ricorsi; Filippo Miraglia, vicepresidente Arci, Sara Prestianni, che ha fatto parte della delegazione andata a Khartoum e coordina il progetto Externalization policies watch.

      http://www.arci.it/blog/immigrazione/news/la-corte-europea-ammette-i-ricorsi-contro-lespulsione-collettiva-di-cittadini-s

    • La Corte Europea ammette i ricorsi contro l’espulsione collettiva dall’Italia di cinque cittadini del Sudan

      Nella conferenza stampa organizzata per giovedì 11 gennaio 2018 a Roma i rappresentati di Asgi e Arci illustreranno i particolari dei ricorsi presentati dai cittadini rimpatriati in Sudan dalle autorità italiane e presenteranno altre iniziative contro l’esternalizzazione delle frontiere e del diritto d’asilo.

      https://www.asgi.it/allontamento-espulsione/sudan-italia-rimpatri-cedu

  • Enquête. Comment Israël se débarrasse de ses réfugiés africains

    De plus en plus de réfugiés érythréens en route vers l’Europe sont arrêtés en #Israël et envoyés en #Ouganda sans aucun contrôle d’identité. Y a-t-il un lien entre ces expulsions et le commerce des armes florissant entre Israël et l’Afrique de l’Ouest ? Die Tageszeitung a mené l’enquête.

    http://www.courrierinternational.com/article/enquete-comment-israel-se-debarrasse-de-ses-refugies-africain
    #expulsion #asile #migrations #réfugiés #renvoi #refoulement #push-back