• Resistere alla macchina delle espulsioni. Misure cautelari per i fatti del 28 febbraio
    https://radioblackout.org/2024/09/resistere-alla-macchina-delle-espulsioni-misure-cautelari-per-i-fatti

    All’alba del 10 settembre 2024 la Digos di Torino ha notificato misure cautelari (firme quotidiane e per alcunx due volte al giorno) emesse ai danni di 12 compagnx. Tuttx accusatx di resistenza a pubblico ufficiale con le aggravanti di violenza e minaccia, tutto in concorso in più di dieci. Alcunx a vario titolo anche di […]

    #L'informazione_di_Blackout #cpr #repressione_a_torino
    https://radioblackout.org/wp-content/uploads/2024/09/Lavatoio-repressione.wav

  • #salonicco. Sgomberato il Libertatia
    https://radioblackout.org/2024/09/salonicco-sgomberato-il-libertatia

    La polizia ha nuovamente attaccato lo squat Libertatia di Thessaloniki, in #grecia. Lo spazio è stato sgomberato lo scorso 28 agosto: 11 compagnx arrestati insieme a due persone che si trovavano alla manifestazione in solidarietà che si era nel frattempo radunata fuori dallo spazio. Per anni la polizia e i fascisti hanno tentato invano di […]

    #L'informazione_di_Blackout #repressione #sgombero_libertatia
    https://cdn.radioblackout.org/wp-content/uploads/2024/09/2024-09-10-dario-libertatia-gr.mp3

  • #pacchetto_sicurezza. Una camicia di forza per i movimenti
    https://radioblackout.org/2024/09/pacchetto-sicurezza-una-camicia-di-forza-per-i-movimenti

    La stretta securitaria imposta dal nuovo pacchetto sicurezza, la cui discussione in aula è cominciata oggi, è un ulteriore tassello nel mosaico repressivo del governo. Colpi sempre più duri a chi lotta nei CPR e nelle carceri, a chi si batte contro gli sfratti, a chi occupa, a chi osa fare scritte su caserme e […]

    #L'informazione_di_Blackout #ddl_1660 #diritto_penale_del_nemico #repressione #stato_di_polizia
    https://cdn.radioblackout.org/wp-content/uploads/2024/09/2024-09-10-vitale-pacchetto-sicureza.mp3

  • L’ossessione dell’Alto Adige per la sicurezza colpisce attivisti e migranti

    Il nuovo questore della Provincia autonoma di Bolzano, #Paolo_Sartori, insediatosi a inizio marzo, ha impresso una decisa accelerazione della repressione di attivisti politici e soggetti marginali. Fogli di via, espulsioni, Daspo urbano e avvisi orali. Buona parte della cittadinanza applaude al suo operato ma c’è anche chi continua a far sentire la propria voce

    Il 17 luglio di quest’anno una “battitura” ha dato il via alla protesta dei detenuti del carcere di Bolzano contro le condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari in Italia. Un gruppo di solidali si è recato spontaneamente sotto le mura della struttura del capoluogo altoatesino per ascoltare e sostenere le ragioni dei reclusi, nel tentativo di spezzare il loro isolamento e fare da megafono alle loro istanze.

    Più tardi il gruppo è stato raggiunto in un bar da due volanti della polizia. Portati in questura, gli attivisti sono stati fotosegnalati e denunciati per “manifestazione non autorizzata”. A uno di loro, residente a Laives, un Comune limitrofo, è stato consegnato un foglio di via da Bolzano della durata di due anni.

    Si tratta di uno degli ultimi episodi in cui il “pugno duro” del questore Paolo Sartori si è abbattuto sul gruppo di attivisti politici e militanti antimilitaristi altoatesini.

    “Il #foglio_di_via, così come il #Divieto_di_accesso_ad_aree_urbane (Dacur, il cosiddetto #daspo_urbano, ndr), è una misura di natura amministrativa che limita la libertà di movimento e opera preventivamente rispetto alla commissione di reati”, spiega l’avvocata bolzanina Francesca De Angeli. Diffusamente utilizzato durante il fascismo nei confronti di chi si opponeva al regime, oggi questo dispositivo è previsto dall’articolo 2 del decreto legislativo 159/2011, noto come “Codice antimafia e delle misure di prevenzione”.

    La sua applicazione non prevede la convalida di un giudice, ma è sufficiente che il questore ritenga -sulla base di elementi di fatto concreti e univoci- che un soggetto manifesti con il suo comportamento atteggiamenti riconducibili al concetto di pericolosità sociale. “Sebbene questo strumento dovrebbe basarsi su fatti connessi a motivazioni che sottolineino la concreta e reale pericolosità della persona -evidenzia De Angeli-, a Bolzano le misure di prevenzione sembrano essere più che altro la ricetta per isolare e allontanare i soggetti sgraditi”.

    Nel capoluogo altoatesino, infatti, si assiste a un utilizzo disinvolto di questi dispositivi e, osserva l’avvocata, “i fogli di via rilasciati appaiono spesso ciclostilati, in alcuni casi non viene menzionato il luogo di residenza o di dimora abituale -presupposto giuridico per l’applicazione del foglio di via- in cui la persona dovrebbe fare ritorno e, spesso, sono carenti nelle motivazioni”.

    È questo, per esempio, il caso dell’attivista politico allontanato da Bolzano a luglio. Ad Altreconomia l’uomo racconta che “il foglio di via che mi è stato notificato contiene alcune inesattezze macroscopiche e falsità come per esempio alcuni precedenti per i quali non sono mai stato denunciato o che a Bolzano non svolgo alcuna attività lavorativa, né abbia legami di parentela”.

    Un’altra misura utilizzata dal questore è l’avviso orale, un invito a mutare la propria condotta, preludio alla “sorveglianza speciale”. Quest’estate nei confronti di altri due militanti bolzanini a un precedente avviso orale è seguito l’“avviso orale aggravato”, sui cui l’ordinanza 46076 del 2021 della Corte di Cassazione ha sollevato questioni di legittimità costituzionale.

    Tra le prescrizioni -alcune delle quali chiaramente tarate su soggetti di altro tipo, come per esempio “il divieto di possedere mezzi di trasporto blindati, radar e visori notturni”- rientra il divieto di usare “in tutto o in parte piattaforme o servizi informatici e telematici quali social network, nonché possedere o utilizzare telefoni cellulari, smartphone, tablet, laptop che consentano connessioni dati via wi-fi o con Sim”.

    “Contro questi provvedimenti è possibile presentare ricorso al Tribunale amministrativo regionale ma va detto che non tutti hanno le medesime possibilità di accesso alla giustizia e che il costo per un procedimento amministrativo può raggiungere anche alcune migliaia di euro”, puntualizza De Angeli. Chi non ha diritto al gratuito patrocinio -per il 2024 tutti coloro che superano la soglia di reddito annua di 12.838 euro-, deve versare infatti 650 euro solo per il contributo unificato, a cui poi si devono aggiungere le spese legali.

    Nel mirino del questore di Bolzano non ci sono solo gli attivisti politici. Le operazioni di “prevenzione generale” -così vengono nominate nei comunicati stampa della questura- colpiscono anche i soggetti marginalizzati, soprattutto persone senza dimora e migranti.

    A fine luglio la questura di Bolzano ha pubblicato i dati del proprio operato in materia di “contrasto all’immigrazione”: nei primi sette mesi dell’anno si sono registrate 162 espulsioni e ordini di allontanamento (erano state 134 in tutto il 2023) e sono stati revocati 92 permessi di soggiorno. In conferenza stampa Sartori ha rivendicato la quantità dei provvedimenti emessi in un così breve arco di tempo, ma andando alla ricerca delle storie di chi queste sanzioni le subisce appare evidente come l’azione delle forze di polizia assuma in molti casi i contorni di una “pesca a strascico”, che non prende in esame la singola posizione della persona che ha di fronte, la sua storia o i rischi che può correre in caso di rimpatrio.

    In questo senso sono emblematiche diverse vicende raccolte da attivisti e volontari della società civile. “O. stava mangiando un panino all’aperto in pausa pranzo, visto che una casa non ce l’ha, ed è stato allontanato da Bolzano con l’accusa di aver tenuto ‘un comportamento lesivo del decoro della quiete pubblica’”, racconta Federica Franchi, attivista di Bozen Solidale. “Ma dove dovrebbe andare se è costretto a vivere per strada?”.

    Il caso più eclatante -denunciato anche da una lettera della campagna LasciatCIEntrare-, ad oggi, però, è senza dubbio quello di M., giovane uomo di origine irachena. Il ragazzo ha 13 anni quando, nel 2010, in seguito all’uccisione del padre, scappa dall’Iraq con la madre e i suoi sette fratelli. M. arriva quindi a Bolzano con la sua famiglia, dove vive uno zio. In Alto Adige il giovane commette alcuni reati che lo portano a scontare delle pene detentive. Chiude definitivamente i conti con la giustizia a maggio di quest’anno e qualche giorno dopo viene fermato in strada a Bolzano per un controllo. Invitato a recarsi in questura per rinnovare il permesso di soggiorno per motivi familiari che attende da tempo, quando si presenta all’appuntamento non trova il tanto agognato documento, bensì un decreto di espulsione con trasferimento immediato al Cpr di Gradisca d’Isonzo (GO).

    M. è considerato persona socialmente pericolosa, senza legami familiari in termini di convivenza e, poiché non ha mai richiesto protezione internazionale, dev’essere rispedito in Iraq. Così il 27enne viene portato all’aeroporto di Bologna e imbarcato su un volo diretto a Baghdad. I tentativi di intervento degli avvocati e delle attiviste di LasciateCIEntrare sono inutili. M. sbarca da solo in un Paese che non conosce più e che aveva abbandonato per sfuggire alla morte.

    Secondo i dati del Sole 24 Ore, nel 2022 in provincia di Bolzano si sono registrati 16.258 delitti denunciati, con una media di 30,48 denunce ogni mille abitanti. I numeri altoatesini si mantengono sotto la media nazionale di 38,1 denunce ogni mille abitanti.

    L’azione della questura di Bolzano, accolta con favore dal mondo politico e da larga parte della società e della stampa altoatesina, è accompagnata da una pesante strategia comunicativa. Se fino allo scorso primo marzo, infatti, la sezione “I fatti del giorno” del sito della questura di Bolzano contava in media una o due notizie mensili, da marzo a luglio un deciso cambio di passo ha portato alla pubblicazione di più di 70 contenuti -una media di 14 al mese- e a sfornare comunicati stampa a ritmo incessante.

    In questo modo, il gioco di sponda con alcune testate -in particolare Dolomiten e Alto Adige, principali quotidiani del gruppo editoriale Athesia, che da solo controlla circa l’80% dei media della provincia di Bolzano- da un lato contribuisce alla criminalizzazione di attivisti politici e soggetti marginalizzati, dall’altro favorisce la diffusione di un senso di paura e insicurezza tra i cittadini.

    E proprio la percezione del pericolo sembra essere la principale preoccupazione del questore, al di là dei numeri reali dei crimini commessi sul territorio provinciale. A conferma di questo, in un’intervista rilasciata al portale di informazione locale Salto, lo stesso Sartori ha ammesso che “anche se tutti i fenomeni criminali sono in decrescita, il divario tra percezione della sicurezza e sicurezza reale è più ampio” e per questo “la gente vuol vedere i lampeggianti”. Costi quel che costi.

    https://altreconomia.it/lossessione-dellalto-adige-per-la-sicurezza-colpisce-attivisti-e-migran
    #frontière_sud-alpine #migrations #anti-migrants #criminalisation_de_la_solidarité #criminalisation_de_la_migration #Bolzano #Haut-Adige
    #sécurité #répression #dangerosité_sociale #marginalisation

  • Désobéissance civile : citoyens hors la loi

    LSD explore les aspirations de la désobéissance civile. #Blocages, #sabotages, actions coup de poing : quelle place pour la possibilité de désobéir en #démocratie ?

    Du chantier de l’autoroute A69 aux assemblées générales de Total, pour soutenir les personnes exilées ou les femmes victimes de violences, des #luttes ont aujourd’hui en commun d’assumer publiquement d’enfreindre le cadre. De désobéir pour se faire entendre.

    La désobéissance civile n’est pas un phénomène nouveau. Ses aînés s’appellent #Act_Up, #Jeudi_noir, #Faucheurs_volontaires. Ses ancêtres #Gandhi, #Martin_Luther_King, #Hubertine_Auclert. Elle est le fruit d’une histoire longue, faite de multiples #combats. Elle connaît aujourd’hui un essor particulier, dans des luttes environnementales, sociales, féministes, qui ont toutes leurs spécificités, mais qui partagent une arme, celle de l’action illégale, politique, publique et non violente dans le but de changer la loi : la désobéissance civile.

    Avec cette série, c’est ce mode de lutte que nous avons voulu comprendre : questionner son essor, sa pratique, son efficacité, et sa place en démocratie. Pour ses partisans la désobéissance est un dernier recours, illégal, mais légitime. Pour ses opposants, elle est l’ennemie de l’Etat de droit, car comment vivre en société si l’on accepte que la règle commune soit niée, en conscience ?

    Cette tension entre #illégalité et légitimité, entre #interdiction et #nécessité, se manifeste avec force dans la #répression policière et judiciaire à laquelle les personnes désobéissantes s’exposent. Répression qui faisait dire en février dernier à Michel Forst, rapporteur des Nations unies sur les défenseurs de l’environnement, qu’elle constitue “une #menace majeure pour la démocratie et les droits humains”.

    Elle s’est aussi incarnée à l’été 2023 dans les déclarations bien différentes de deux des plus hautes autorités françaises en matière de justice. D’un côté le Conseil d’Etat, lorsqu’il a suspendu la dissolution des Soulèvements de la terre, a estimé que les actions du mouvement s’inscrivaient “en faveur d’initiatives de désobéissance civile”. De l’autre le ministre de la Justice Eric Dupont-Moretti, auditionné par la commission d’enquête de l’Assemblée nationale, disait en avoir “ras le bol de la petite musique de la désobéissance civile”, et poursuivait : “On a le droit, selon certains, quand on est porteur d’une cause que l’on estime légitime, de ne plus obéir à la loi. Rien n’est plus liberticide que cela.”

    Alors comment démêler les fils de la désobéissance ? Est-elle une remise en cause de l’#Etat_de_droit, ou une composante essentielle de la démocratie, comme l’affirmait son premier théoricien #Henry_David_Thoreau ?

    En partant sur la montagne de #Lure, auprès d’#Utopia_56 ou des #Robin_des_bois_de_l’énergie à la rencontre de celles et ceux qui vivent la désobéissance civile dans leurs luttes, en suivant avec ses spécialistes les chemins d’une pensée désobéissante sans cesse réinventée, en explorant avec #José_Bové, #Cédric_Herrou et les #Soulèvements_de_la_terre ce qui se joue lors des #procès, nous comprenons à quel point la tension est le cœur battant de la désobéissance civile. “Je reconnais tout de suite que le mot tension ne m’effraie pas”, écrivait Martin Luther King dans sa célèbre lettre de la prison de Birmingham, assumant que son combat voulait “engendrer une #tension telle que la communauté soit forcée de regarder la situation en face”.

    Aujourd’hui encore, il s’agit pour les actrices et acteurs de la désobéissance civile de révéler au grand jour les tensions déjà existantes. De sentir avec force qu’il serait possible d’agir ensemble. Leurs actions se préparent, se pensent, s’organisent en s’inspirant d’expériences passées, en utilisant les médias, les tribunaux et la puissance du collectif. La désobéissance civile dénonce l’illégitimité ou l’insuffisance des lois. Écouter ses battements, d’hier et d’aujourd’hui, nous raconte comment penser au-delà du cadre pourrait peut-être, parfois, parvenir à le faire changer.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/serie-desobeissance-civile-citoyens-hors-la-loi

    #désobéissance_civile #loi #légalité #légitimité #désobéissance #violence #non-violence #femmes #dissidence
    #audio #podcast
    ping @karine4

  • RKI-Protokolle und Leak : Offene Fragen
    https://multipolar-magazin.de/artikel/rki-protokolle-und-leak-offene-fragen

    On continue la série « on s’est fait avoir ». Dans les rôles pincipaux : le RKI (Robert Koch Institut, qui conseille le gouvernement en matière d’épidémiologie) et le ministre de la santé Lauterbach, médecin autocrate.

    Dans cet épisode : Le RKI donne le conseil officiel au ministère de santé de considérer les riques du covid comme élevés après avoir reçu l’ordre par le ministère de lui donner ce conseil. Cerise sur le gâteau le RKI modifie les protocoles des réunions sur la question avant de les publier sur ordre d’une cour de justice.

    Stefan Homburg und Paul Schreyer schildern in einem gemeinsamen Beitrag, was aus den Protokollen folgt, wie diese teils kurz vor Freigabe vom RKI redigiert wurden, warum Multipolar seine gerichtlichen Klagen fortführt – und weshalb ein parlamentarischer Untersuchungsausschuss unvermeidlich ist.

    STEFAN HOMBURG UND PAUL SCHREYER, 9. August 2024, 17 Kommentare, PDF

    Das auf einer Pressekonferenz am 23. Juli in Berlin veröffentlichte Material eines anonymen Informanten aus dem Robert Koch-Institut (RKI) ist auf enorme Resonanz gestoßen, sowohl in den sozialen als auch in den traditionellen Medien. Das sogenannte RKI-Leak umfasst alle ungeschwärzten Protokolle und den gesamten Emailverkehr zum Thema Corona, außerdem Präsentationen, Briefe, Kalkulationsblätter und vieles mehr, insgesamt rund 10 Gigabyte an Daten. Die Dokumente vollständig seriös auszuwerten wird Jahre dauern und die Mitarbeit vieler Helfer erfordern. Dieser Prozess hat begonnen und fördert ständig neue Erkenntnisse zutage. Freilich wurden schon kurz nach der Pressekonferenz zum RKI-Leak berechtigte Fragen nach der Authentizität des Materials laut, die in diesem Artikel ebenfalls thematisiert werden sollen.

    Die wichtigste Information hierzu vorab: In einer kürzlich aktualisierten Stellungnahme missbilligt das RKI zwar die Weitergabe der Daten, bestreitet aber nicht deren Authentizität. Dies ist von Bedeutung, weil das geleakte Material viele Beteiligte, insbesondere den früheren Bundesgesundheitsminister Jens Spahn und seinen Nachfolger Karl Lauterbach, stark beschädigt. So konnte Lauterbach noch im März 2024, nachdem er geschwärzte Protokolle herausgegeben hatte, und zwar ausschließlich solche aus der Amtszeit seines Vorgängers, kategorisch behaupten, es habe „keine politischen Weisungen“ gegenüber dem RKI gegeben. Das im RKI-Leak enthaltene interne Protokoll des Krisenstabs vom 25. Februar 2022 widerlegt dies klar:

    „Reduzierung des Risikos von sehr hoch auf hoch wurde vom BMG [Bundesgesundheitsministerium] abgelehnt“.

    Noch deutlicher ist das Protokoll vom 26. April 2023, als das RKI eine wichtige Entscheidung Lauterbachs offenbar aus der Zeitung erfährt und überlegt, wie es damit umgehen soll:

    „Der Minister hat Anfang April die Pandemie für beendet erklärt … könnte überlegt werden, die Risikobewertung auf niedrig zu setzen.“

    Beide Passagen zeigen, dass die für Lockdowns, Schulschließungen, Ausgangssperren, Masken- und Impfnötigung fundamentale Risikobewertung nicht auf wissenschaftlicher Basis durch das RKI erarbeitet, sondern von der Politik angeordnet wurde. Unter Verweis auf das RKI-Leak fordert Bundestagsvizepräsident Wolfgang Kubicki aktuell Lauterbachs Rücktritt, obwohl beide Mitglieder einer gemeinsamen Regierungskoalition sind.

    Es ist wenig wahrscheinlich, dass ein amtierender Minister die Herausgabe von Material lanciert, das ihn selbst derart schwer belastet. Ebenso unplausibel erscheint, dass die zur Politik loyalen RKI-Präsidenten Lothar Wieler und Lars Schaade das Leak billigten oder gar veranlassten; denn auch ihre Rolle gerät durch die Protokolle immer stärker ins Zwielicht. Beide müssen sich fragen lassen, warum sie sich sachfremden Weisungen beugten statt zu remonstrieren. Vor allem die Aussagen des RKI vor den Gerichten in Verfahren um Lockdowns und Impfpflichten erscheinen angesichts der Protokolle mehr als heikel. Es scheint schlüssig, dass der Whistleblower ein (ehemaliger) Mitarbeiter des Instituts ist, den sein Gewissen plagte.
    Ein nachträglich redigiertes Protokoll

    Dessen ungeachtet verbleiben unserer Ansicht nach Zweifel, ob die geleakten Protokolle vollständig wiedergeben, was zum jeweiligen Zeitpunkt im RKI besprochen wurde. Diese Zweifel gelten aber erst recht für die geschwärzten und unvollständigen Protokolle, die das RKI im Zuge des von Multipolar angestrengten Gerichtsverfahrens herausgab. Wir wollen unsere Zweifel im Folgenden begründen und damit zugleich einen Anstoß für weitere Nachforschungen und Ermittlungen geben.

    Das vom Whistleblower erlangte Zusatzmaterial enthält zu jedem Sitzungstag zwischen Januar 2020 und Juni 2023 einen separaten Ordner. Der vom 25. März 2020 sieht wie folgt aus:

    An sechster Stelle in dieser Liste findet sich das bereits bekannte Ergebnisprotokoll der Krisenstabssitzung vom betreffenden Tag. In den nicht dargestellten Metadaten dieser Datei fällt auf, dass sie zuletzt am 3. Januar 2023 bearbeitet wurde, also knapp drei Jahre nach ihrer Erstellung, und zwar von Bettina Hanke. Frau Hanke gehört keiner Fachabteilung an, sondern ist stellvertretende Leiterin der Rechtsabteilung des RKI, die mit der Abwehr von Anfragen nach dem Informationsfreiheitsgesetz und ursprünglich auch mit der Abwehr von Klagen auf Akteneinsicht betraut war, bevor diese Aufgabe an eine große externe Rechtsanwaltskanzlei übergeben wurde. An der betreffenden Sitzung des Krisenstabs hatte Frau Hanke nicht teilgenommen.

    All dies wäre nicht bemerkenswert, wenn der Ordner nicht einen Unterordner namens „Archiv“ enthalten würde. Ein derartiger Unterordner ist nur selten vorhanden und wohl als nicht gelöschtes Überbleibsel zu betrachten. In ihm befindet sich eine frühere Version des Protokolls vom 25. März 2020, die sich auffällig von der durch Frau Hanke bearbeiteten unterscheidet. Die frühere Version wurde von Ute Rexroth, der RKI-Fachgruppenleiterin für infektionsepidemiologisches Krisenmanagement und regelmäßigen Protokollführerin, erstellt und letztmalig von RKI-Mitarbeiterin Nadine Litzba gespeichert, und zwar am 25. März 2020, also dem Sitzungstag. Die von Frau Hanke geänderte und im Rahmen des Gerichtsverfahrens übergebene Version vom 3. Januar 2023 unterscheidet sich von der ursprünglichen an 639 Stellen, wobei reine Änderungen der Formatierung nicht mitgezählt sind. Es fragt sich, warum ein Protokoll derart spät und massiv bearbeitet wurde. Der Verdacht, dies könne mit dem absehbaren Prozesserfolg von Multipolar zusammenhängen, liegt nahe.
    „Gewagt, Causalität herzustellen“

    Bevor wir auf den wichtigsten Versionsunterschied eingehen, sei an die zentrale Streitfrage aus dem Frühjahr 2020 erinnert, die damals im Zusammenhang mit den zuvor nie gekannten Lockdowns und Schulschließungen aufkam. Kritiker dieser Maßnahmen führten an, dass bereits der Volksmund von „Viruswellen“ spricht, die oft im Herbst kommen und im Frühjahr automatisch abklingen. Demgegenüber vertraten die Lockdownverfechter den Standpunkt, SARS-CoV-2 sei ein Virus eigener Art, das sich anders als alle übrigen Coronaviren und sonstigen Erkältungsviren unbegrenzt ausbreiten werde, wenn der Staat nicht schärfste Grundrechtseinschränkungen verfüge.

    Große Medien stellten Modellrechnungen jahrelang nicht als Wellen dar, sondern durch psychologisch sehr wirksame „Messergrafiken“, bei denen eine Kurve ohne jeden Wendepunkt immer steiler nach oben geht. Diese Grafiken suggerierten eine unbegrenzte Ausdehnung, falls Schulen, Betriebe und Gaststätten offenblieben; sie waren ein zentraler Hebel zur Durchsetzung der Lockdownpolitik. Dass Schweden und andere Staaten die Irrigkeit solcher Vorstellung belegt hatten, blieb unerwähnt, und auch das RKI trat der irreführenden Botschaft der Messergrafiken niemals entgegen, sondern nutzte die so geschürte Angst zur Stützung des politisch vorgegebenen Kurses. Vor diesem Hintergrund ist die folgende Passage im ursprünglichen Protokoll bedeutsam:

    „Bevölkerungsbezogene Maßnahmen zeigen Effekt (…) Ute [Rexroth]: aber gewagt, Causalität herzustellen – Wir sind ja generell am Ende der Grippesaison – vorsichtig formulieren“.

    Im Protokoll, dass das RKI später im Rahmen des Gerichtsverfahrens freigab, fehlt der entscheidende Satz zur „gewagten“ Annahme einer Kausalität und der Hinweis auf das Ende der Grippewelle. Dort steht lediglich:

    „Strategien [gehen] in die richtige Richtung. Aber vorsichtig formulieren!“

    Relevanz bekommt der gelöschte Satz, den Lockdownkritiker unterschreiben würden, durch folgende Feststellung im Protokoll: „ARE Und ILI Raten bei Grippeweb sind deutlich zurückgegangen“, also sowohl die leichten Erkältungskrankheiten (ARE) als auch die schweren (ILI). Mit anderen Worten war dem RKI schon am 25. März 2020, dem dritten Tag des Lockdowns, bekannt, dass die saisonale Erkältungswelle auslief. Infolge der Inkubationszeit und des Meldeverzugs konnte das unmöglich mit dem Lockdown zusammenhängen. Nach außen hin stützte das RKI aber nicht nur diesen Lockdown, sondern auch den folgenden, der im November 2020 begann, sechs Monate dauerte und durch eine Ausgangssperre verschärft wurde.
    Geschönte Protokollversionen

    Im RKI-Protokoll vom 25. März 2020 wurde also ein Satz, der die Lockdownpolitik infrage stellte, vor der Herausgabe im Gerichtsverfahren entfernt. Diesen Satz haben wir zufällig entdeckt, weil sich in einem wohl vergessenen Unterordner das ursprüngliche Protokoll befand. Da das RKI keine Dokumentationssoftware verwendet, die jede Protokollversion mit Zeitstempel und unveränderbar speichert, sondern WORD-Dateien, wird es schwierig bis unmöglich sein, den ursprünglichen Protokollstand vollständig zu rekonstruieren. Ohne den Whistleblower indes wäre die Schönung des fraglichen Protokolls nicht herausgekommen und hätten die vom RKI geschönten Versionen als authentisch gegolten.

    Anders gesagt: Die Dokumente aus dem RKI-Leak erlauben, mathematisch ausgedrückt, eine „untere Abschätzung“ der tatsächlichen Ereignisse und Diskussionen, das heißt, die Wahrheit kann zwar schlimmer sein, aber nicht weniger schlimm. Doch bereits das erlangte Material widerlegt die offizielle Darstellung in wesentlichen Punkten: Es war keineswegs so, dass die Politik auf Grundlage wissenschaftlicher Erkenntnisse handelte. Vielmehr hat sie autonom entschieden und dem RKI diktiert, die beschlossenen Maßnahmen in der Bevölkerung zu popularisieren.

    Diese Wahrheit wird durch das Protokoll vom 29. Juni 2020 eindrücklich illustriert: Am Tag des Erhalts der sachfremden Weisung, die Risikostufe im Sommer trotz minimaler Erkältungen und PCR-Zahlen auf „hoch“ zu halten, beschloss das RKI, den Tagesordnungspunkt „Neue wissenschaftliche Erkenntnisse“ dauerhaft von der Tagesordnung zu entfernen. Derartige Erkenntnisse waren offenbar zu diesem Zeitpunkt nicht mehr gefragt. Besonders bitter und für manche fatal erwies sich solche Willkür im Hinblick auf die Impfpolitik, zu der das Protokoll vom 3. Dezember 2021 lakonisch vermerkt:

    „Politischer Entschluss ist schon längst gefasst, oberste Priorität so viele Leute so schnell wie möglich impfen.“

    Klagen werden fortgeführt, Urteil steht aus

    Multipolar führt seine Klagen auf Freigabe aller Protokolle in ungeschwärzter Form weiter. Zuletzt erklärten die RKI-Anwälte gegenüber dem Gericht, die Papiere seien ja nun geleakt worden und verwiesen auf das entsprechende X-Posting von Aya Velazquez, die das Material veröffentlicht hatte. Das Leak entbindet das RKI jedoch nicht von seiner Verpflichtung nach dem Informationsfreiheitsgesetz, die Papiere amtlich und offiziell vorzulegen. Dies teilte Christoph Partsch, der Anwalt, der Multipolar juristisch vertritt, nun auch dem Verwaltungsgericht Berlin mit. Gegenüber Multipolar führt Partsch aus:

    „Das Verhalten des RKI ist unwissenschaftlich, das seiner Anwälte unseriös – statt Transparenz und Erfüllung eines gesetzlichen Anspruchs wird im Verfahren getrickst und getäuscht. Eine Erledigung des Rechtsstreits tritt nicht durch den Verweis auf den Downloadlink einer dritten Partei ein.“

    Die Verkündung des anstehenden Urteils war vom Richter eigentlich für Ende Juli angekündigt worden, verzögert sich aber derzeit aus unklaren Gründen. Auf Nachfrage weigert sich die Pressestelle des Gerichtes, dazu Stellung zu nehmen.

    Der Ball liegt nun im Spielfeld von Politik und breiter Öffentlichkeit. Formate wie eine Enquete-Kommission oder ein Bürgerrat dürften in ihrer Unverbindlichkeit kaum mehr ausreichen, den Sachverhalt, dessen Abgründe sich mit jedem Tag und jeder Woche weiter vertiefen, angemessen aufzuklären. Ein Untersuchungsausschuss ist unvermeidlich.

    Über die Autoren: Stefan Homburg, Jahrgang 1961, ist Professor für Öffentliche Finanzen an der Leibniz Universität Hannover i.R. Er war Mitglied der Förderalismuskommission von Bundestag und Bundesrat, Mitglied des Wissenschaftlichen Beirats beim Bundesfinanzministerium und Mitglied des Rates für nachhaltige Entwicklung der Bundesregierung. Paul Schreyer, Jahrgang 1977, ist Mitherausgeber von Multipolar.

    #Allemagne #politique #répression #iatrocratie #RKI #covid

  • Accusé d’avoir la rage ! L’APU Vieux-Lille en danger
    https://labrique.net/index.php/thematiques/repressions/1307-accuse-d-avoir-la-rage-l-apu-vieux-lille-en-danger

    L’Atelier Populaire d’Urbanisme (APU) du Vieux-Lille se bat depuis 45 ans pour le droit au logement pour toustes. Il est un contre-pouvoir nécessaire face aux proprios, aux huissiers, à la police et aux administrations publiques. Parmi elles, la Métropole Européenne de Lille (MEL) décroche la palme du mépris des gens du voyage, ce que dénonce l’APU. Pour se débarrasser de ce caillou dans son soulier et continuer sa politique anti-tsiganes, la MEL attaque l’asso au porte-monnaie et lui sucre un tiers de son budget. Un sabotage permis par la macronie et son Contrat d’Engagement Républicain (CER), outil de mise au pas des voix dissidentes. Mais l’APU et ses soutiens sont déter’ à ne pas se laisser faire. Dans le climat ambiant de montée de l’extrême-droite, la riposte (...)

    #En_vedette #Répressions

  • #Massacre_de_Thiaroye et la mention « #Mort_pour_la_France »

    Depuis quelques jours, nous assistons à une tempête médiatique suite à l’octroi de la mention « Mort pour la France » pour six ex-#prisonniers_de_guerre assassinés à Thiaroye par l’armée française. Un décryptage me paraît indispensable.

    J’ai souvent regretté que les médias ne s’emparent pas de ce fait historique ou donnent la parole à des personnalités qui n’y connaissaient pas grand chose. Avec l’octroi de la mention "Mort pour la France" pour seulement six hommes et une dépêche AFP, ce fut l’emballement dont j’aurais pu me réjouir si son contenu n’avait pas véhiculé des inexactitudes. En premier lieu, évoquer l’attribution de la mention "Mort pour la France à titre posthume" est un regrettable #pléonasme. Avez-vous vu des vivants réclamer cette mention ?

    La dépêche, reprise par je ne sais combien de médias, évoque une "révolte" alors qu’ils ont réclamé leur dû avant de quitter le camp de Thiaroye et ce chiffre de 1300 rapatriés (chiffre officiel) alors qu’ils étaient plus de 1600. Puis "des #troupes_coloniales et des gendarmes français avaient tiré sur ordre d’officiers de l’#armée_française sur des tirailleurs rapatriés qui réclamaient leurs arriérés de solde". Les archives consultables sont très claires. Les tirailleurs "sénégalais" du service d’ordre n’ont pas pu tirer puisque leurs fusils n’étaient pas chargés et les gendarmes ont eu un rôle mineur. Le massacre a été perpétré par des armes automatiques dont des automitrailleuses commandées par des officiers. L’#ordre_de_tirer a été donné par le lieutenant-colonel #Le_Berre. Ce dernier a été sanctionné. Amnistié en 1947 comme les condamnés, le motif de sa sanction a été caviardé à tort. En avril 2023, le ministère m’a autorisée à me rendre au SHD, avec un laboratoire spécialisé, pour tenter de lire les lettres. Au prétexte d’une instruction complémentaire, le RDV programmé a été annulé et finalement, en avril 2024, le cabinet de la Secrétaire d’État m’a annoncé que je n’étais pas autorisée à faire cette opération de "désoccultation" alors que le rapporteur public du Conseil d’État, Alexandre Lallet, a suggéré dans ses conclusions du 4 octobre 2019 : "Par conséquent, la description des faits reprochés au lieutenant-colonel A, si elle n’avait pas été occultée, aurait été à notre avis communicable et l’administration pourrait accepter que soit déployé un dispositif technique de révélation des mentions originales, sans qu’on puisse l’y contraindre juridiquement".
    J’y vois là une nouvelle tentative d’#obstruction à la manifestation de la #vérité sur un #crime_colonial commis. Cet officier a peut-être outrepassé les ordres en faisant venir des automitrailleuses qui n’ont rien à voir avec une opération de maintien de l’ordre.

    La genèse de la liste des six

    En 2013, ne parvenant pas à trouver des documents et notamment des circulaires afin de connaître les droits de ces rapatriés, j’ai alerté le ministre de la Défense, Jean-Yves Le Drian, lorientais comme moi, qui a sollicité le SHD (service historique de la Défense). Le 22 novembre 2013, j’ai reçu une réponse du ministre avec, dans une note de bas de page cette indication "quelques dossiers individuels conservés à Caen par la division des archives des victimes des conflits contemporains qui ont pu être identifiés comme concernant des victimes des événements de Thiaroye". C’est ainsi que j’ai pu obtenir les six dossiers. Ne possédant pas les noms de ces victimes, je n’aurais jamais pu les trouver sans cette intervention. Quelque temps plus tard, j’ai reçu la circulaire du 4 décembre 1944 qui fait croire que les rapatriés avaient perçu l’intégralité des soldes.

    Le contenu des dossiers

    Contrairement à ce que prétend le ministère des armées comme indiqué dans Le Monde Afrique Le massacre de Thiaroye, enjeu politique entre le Sénégal et la France (lemonde.fr), "dont les dossiers, en possession du Service historique de la défense, mentionnent qu’ils sont décédés à la suite du massacre de Thiaroye", il n’y a aucune mention du massacre. Bien au contraire. Dans le dossier #N'Gour_N'Dour, on trouve un courrier daté du 26 mai 1952 avec : "décédé le 1er décembre 1944 à Thiaroye (Dakar) au cours d’une rébellion du détachement, n’est pas Mort pour la France". Sur des dossiers de décès est effectivement estampillé "N’a pas droit à la mention Mort pour la France".

    Dans un autre courrier daté du 31 août 1951, le commandement supérieur des forces terrestres d’AOF écrit au Gouverneur du Sénégal que "le tirailleur N’Gour N’Dour est décédé au camp de Tiaroye, le 1er décembre 1944, jour de la #répression dans ce camp d’une mutinerie fomentée par les tirailleurs rapatriés de France". Il arrive de découvrir des propos ubuesques comme ce rapport provenant du DIC (Dépôt des Isolés coloniaux) de Dakar : "Aucun décès n’étant survenu parmi les militaires du service d’ordre, la mort du soldat de 2e classe #Ibrahima_N'Diaye ne peut donc être considérée comme survenue en service commandé". C’est un argumentaire incompréhensible et un non sens.

    Récemment j’ai saisi la justice administrative pour obtenir les archives du DIC de Dakar et le ministère invariablement répond que ces archives n’existent pas ou plus. Pourtant on en trouve mais que pour montrer le fait de rébellion et de mutinerie.

    Ces six dossiers existent au SHD vraisemblablement parce que les familles ou l’administration ont réclamé des explications.

    Dans le dossier de #M'Bap_Senghor, le plus volumineux avec les courriers de son fils Biram que j’ai pu ainsi retrouver, on trouve une demande d’enquête par le ministre Hernu et son chef de cabinet Serge Daël (que j’ai rencontré alors qu’il était président de la CADA). Il n’y a pas eu d’enquête car le département de la Défense a prétendu qu’il n’y avait pas de dossier.

    Thiaroye n’est qu’une succession de #mensonges pour camoufler l’#ignominie.

    L’octroi de la mention "Mort pour la France"

    Le dernier courrier de Biram Senghor demandant la mention "Mort pour la France" à l’ONaCVG date de janvier 2023, il n’a eu aucune réponse et il s’apprêtait à saisir le tribunal judiciaire, seul compétent et non la justice administrative. Mais le 18 avril 2023, les conseillers de la secrétaire d’État Patricia Mirallès, m’annoncent que le gouvernement réfléchit à une loi mémorielle et que les victimes de Thiaroye sont reconnues "Mort pour la France", c’est acquis. Ils m’ont demandé les cotes des dossiers. J’ai tout de suite informé Biram Senghor mais il n’a reçu aucun courrier, RIEN. J’ai évidemment demandé des explications à cette annonce non suivie d’effet. Pour moi, il y avait urgence. Il a fallu attendre le 8 juillet 2024, lendemain des législatives, pour recevoir enfin de l’ONaCVG, un courriel avec l’octroi de la mention pour cinq des victimes et avec une précision importante, la signature de la décision collective. J’ai réclamé la liste des cinq noms et cette décision collective. Je n’ai reçu que la liste non pas de cinq mais de six noms. J’ai signalé que le SHD possède un feuillet nominatif de contrôle (FNC) au nom de #Fara_Gomis qui prouve qu’il est décédé le 1er décembre 1944 et j’ai adressé un acte de décès d’un autre rapatrié. J’ai mentionné également que les trois condamnés morts durant leur détention doivent obtenir la mention "MPF". Ils sont bien décédés des suites de la guerre et n’ont pas été amnistiés. En parallèle, depuis des années je réclame au ministère, la liste des rapatriés et des victimes avec les archives du DIC de Dakar.

    Je dois comprendre que l’annonce officielle a été retardée pour l’inscrire dans un chemin mémoriel, une communication voulue par l’Elysée. Mais ont-ils pensé au seul descendant d’une victime âgé de 86 ans ? Cela donne un goût amer.

    Les conséquences de la mention "Mort pour la France" dans le cas du massacre de Thiaroye

    Je ne connais pas de situation similaire dans l’histoire militaire contemporaine avec la mention "Mort pour la France" attribuée par l’État français suite à une #exécution_extrajudiciaire commise par ce même État.

    En octobre 2023, j’ai été reçue par la direction des Affaires criminelles et des grâces comme en 2014. Les conseillères du Garde des Sceaux ont clairement indiqué qu’en cas d’officialisation de la mention "#MPF", le ministre pourra saisir la commission d’instruction de la Cour de cassation afin de faire aboutir le procès en révision pour les 34 condamnés. Cette mention "MPF" peut être considérée comme un élément nouveau.

    Le ministère pourra t-il et osera t-il refuser une #indemnisation à Biram Senghor dont le père a bien été assassiné et qui, du fait du #mensonge_d'Etat, a perdu tous ses droits. Comment évaluer un tel préjudice ?

    M’Bap Senghor désormais reconnu "Mort pour la France" repose dans une #fosse_commune. Je me demande si l’État français n’a pas obligation à faire des test ADN pour identifier son corps afin qu’il repose dans une sépulture individuelle à son nom.

    En tant qu’historienne qui avait, dès 2014, transmis au ministère et au président Hollande la synthèse de mes travaux faisant état du massacre prémédité, je veux comprendre comment la DMPA (Direction de la mémoire du patrimoine et des archives) a pu mettre en place trois panneaux réitérant le mensonge d’État alors que le ministère possédait les mêmes documents qu’en 2024.

    La décision d’attribuer la mention "Mort pour la France" n’a pu se faire qu’avec des documents qui prouvent qu’ils ne sont pas des mutins alors que les archives consultables montrent la rébellion armée, la #mutinerie, les revendications illégitimes. Le ministère ne peut plus prétendre que ces #archives n’existent pas ou plus ou ont été perdues ou détruites. Une enquête interne s’impose afin de voir au plus près l’origine de ces dysfonctionnements.

    Il va falloir procéder à la fouille des fosses communes et des tombes du cimetière. Le Sénégal a tout pouvoir pour le décider. Le ministère des armées a mentionné, pour un rapport de l’assemblée nationale, que des #tombes in mémoriam avaient été construites sur trois fosses communes, information gravée dans le marbre de notre République. Pour la DMPA (devenue DPMA puis DMCA), l’Islam interdit d’exhumer des corps. C’est leur credo, tout faire pour ne pas connaître l’étendue du massacre.

    L’octroi de la mention "MPF" est une petite avancée dans une étendue de renoncements, de manque de courage politique et de #racisme. Il n’y aurait pas eu d’#affaire_Thiaroye - qui rappelle l’affaire Dreyfus - si ces soldats avaient été des métropolitains blancs.

    Puisque le 15 août le président Macron ne pourra donc pas annoncer l’octroi de la mention "Mort pour la France", il peut annoncer que le Garde des Sceaux (qui est toujours ministre) a saisi la Cour de Cassation, qu’il y aura réparation et que le ministère des Armées a versé au SHD toutes les archives sans exception et que je pourrais lire les lettres du motif de la sanction. Ces décisions sont du ressort de l’État français.

    Je signale par ailleurs que le ministère des Armées et l’ONaCVG, par un jugement du 24 juin ont injonction à me transmettre dans les deux mois les documents qui prouvent que les disparus nommés sur les plaques du "#Tata " de #Chasselay inaugurées en janvier 2022 par Geneviève Darrieussecq, devenue vice-présidente de la Commission défense, sont bien inhumés dans cette nécropole militaire. Le ministère a d’abord fait croire à des recherches génétiques. Thiaroye c’est un massacre commis par l’armée française avec l’impossibilité de nommer les victimes (sauf 6) et à Chasselay c’est un massacre commis par l’ennemi allemand. Si je ne reçois pas ces documents, nous serons confrontés à une #imposture_mémorielle.

    https://blogs.mediapart.fr/armelle-mabon/blog/010824/massacre-de-thiaroye-et-la-mention-mort-pour-la-france
    #Thiaroye #assassinat #massacre #massacre_de_Tiaroye #Sénégal #France #mémoire #histoire

  • Jeux Olympiques : fichage de masse et discrimination politique
    https://www.laquadrature.net/2024/07/30/jeux-olympiques-fichage-de-masse-et-discrimination-politique

    Les Jeux Olympiques viennent de débuter, la #Surveillance et la répression y sont reines. En vue de cet évènement, l’État a mis en œuvre tous les pouvoirs sécuritaires accumulés ces dernières années : drones, QR code,…

    • Escalade sécuritaire : Saint-Denis se dote de la surveillance algorithmique pour les JO... et après
      https://www.revolutionpermanente.fr/Escalade-securitaire-Saint-Denis-se-dote-de-la-surveillance-alg

      Ce mardi, Mediapart a révélé que la mairie de Saint-Denis, dirigée par le maire PS Mathieu Hanotin, a acquis le logiciel de surveillance algorithmique français Two-i, pour un montant de 118 000€. Le dispositif devrait être opérationnel pour les Jeux paralympiques, une fois la police municipale formée à son utilisation. La vidéosurveillance algorithmique (VSA) consiste à traiter les images de vidéosurveillance par l’intelligence artificielle pour en extraire de l’information. Dans ses applications les plus intrusives, la VSA permet la reconnaissance faciale et le traçage des personnes filmées.

      Complètement interdite jusqu’à l’an dernier – ce qui n’a pas empêché des « expérimentations » parfaitement illégales comme à Cannes pour contrôler le port du masque en 2020 ou à Metz contre les supporters interdits de stade – certaines applications de la VSA ont été autorisées à titre expérimental jusqu’en mars 2025 par la loi Jeux olympiques du 19 mars 2023. Si la reconnaissance faciale n’est pas autorisée pour le moment, la loi ouvre la voie à la VSA dans huit cas, dont la détection de port d’arme, de bagages abandonnés, d’attroupements ou encore de mouvements de foule.

      Selon Sophie Rigard, conseillère municipale d’opposition à Saint-Denis : « Il y avait une forme d’évidence après le vote de la loi Jeux olympiques. Le maire avait rapidement confirmé que la VSA serait mise en place. La question était quand et comment. ». La mairie a tout de même tenté de cacher la mise en place de la VSA. Ce n’est qu’après plusieurs relances que l’élue a finalement appris du directeur de la police municipale que cinquante licences du logiciel Two-i avaient été achetées, permettant d’équiper cinquante implantations comptant chacune trois caméras ou plus. Plusieurs centaines de caméras reliées au centre de supervision urbain du nouvel hôtel de police municipale de la rue Jean Mermoz seront ainsi équipées du logiciel.

      Pourront ainsi être couvertes les zones les plus fréquentées de la ville telles que Porte de Paris, la gare, le parvis de la mairie et de la basilique, le bassin de la Maltournée, la place du 8 mai 1945, etc. « On m’a assurée que la surveillance respecterait le décret qui l’encadre, en suivant une personne suspecte par la couleur de ses vêtements et non par recueil de données biométriques. Mais on ne sait pas si le logiciel a été bridé par l’éditeur ou s’il suffirait de le paramétrer pour débloquer des options illicites » précise Sophie Rigard qui note : « Après les Jeux, la mairie souhaite poursuivre l’utilisation de la VSA pour la surveillance quotidienne, en assimilant le dépôt d’ordures sur la voie publique à l’abandon d’un colis par exemple. »

      Avec ce déploiement, la mairie de Saint-Denis emboîte le pas à la RATP et à la SNCF, marquant ainsi une étape supplémentaire dans la diffusion de ce dispositif de surveillance. Si les Jeux olympiques et paralympiques servent de prétexte à la mise en place de la VSA à Saint-Denis, l’intention est bien de faire durablement entrer cette technologie dans l’arsenal de la police municipale, en attendant une potentielle entrée de son utilisation dans le droit commun, une fois que la période d’expérimentation fixée par la loi Jeux olympiques arrivera à son terme en mars 2025.

      Cette décision de l’équipe de Mathieu Hanotin, qui a mis le renforcement sécuritaire au cœur de sa campagne électorale puis de sa politique depuis 2020, fait de Saint-Denis la pointe avancée de nouvelles pratiques sécuritaires inquiétantes. A l’échelle locale, la mise en place de la VSA s’inscrit dans la continuité du doublement des effectifs et de l’armement de la police municipale ainsi que de l’acquisition d’un drone de surveillance.

      A l’échelle nationale, ce déploiement de la vidéosurveillance algorithmique poursuit l’approfondissement autoritaire du régime, notamment depuis l’état d’urgence décrété par Hollande puis largement entré dans le droit commun sous Macron. Face à la multiplication des crises et à un régime dont la mécanique institutionnelle semble se gripper, la répression et les dispositifs sécuritaires sont devenus une solution majeure de l’État pour faire face à toutes les contestations, de la réforme des retraites aux mouvements écologistes en passant par les révoltes après la mort de Nahel l’été dernier, mais également pour « gérer » la misère sociale, en criminalisant toujours plus les habitants des quartiers populaires. Sans surprise, dans cette dynamique mortifère, le PS applique à Saint-Denis la politique sécuritaire qui a été celle de ce parti au pouvoir et que poursuit le gouvernement actuel.

  • J0 2024 : 870.000 enquêtes administratives réalisées pour « écarter les menaces » potentielles, annonce Gérald Darmanin
    https://fr.news.yahoo.com/sport/j0-2024-870-000-enqu%C3%AAtes-170745530.html

    (...)

    Le ministre de l’Intérieur démissionnaire a indiqué que « 870.000 » enquêtes administratives ont déjà été réalisées.

    « (...) nous serons à temps pour le million d’enquêtes pour le premier jour des Jeux olympiques ».

    Au total, ce sont près de 4.000 personnes qui ont été interdites de participer aux événement liés au JO 2024.

    (...)

    Parmi ces individus, 131 sont fichés S, 18 sont fichés comme islamistes radicaux, 167 sont d’ultra gauche, 80 d’ultra droite ou encore 79 sont soupçonnés d’islam radical.

  • Veranstaltung zur RAF in Kreuzberg : Daniela Klette grüßt den Untergrund
    https://taz.de/Veranstaltung-zur-RAF-in-Kreuzberg/!6020913

    Le journal TAZ est l’un des rares journaux avec sa propre rédaction locale. Parfois on y lit des reportages sur la gauche historique à Berlin. Ce weekend son reporter a assisté à une rencontre avec des anciens militants de la lutte anticapitaliste armée clandestine.

    14.7.2024 von Erik Peter - Bei einer Podiumsdiskussion über den „bewaffneten Kampf“ wird ein Brief von Daniela Klette verlesen. Ihr Anwalt weist einen Anklagepunkt zurück.
    Auf einer Matratze an einem Kanal steht: „Viel Kraft Daniela und viel Glück Burkhard & Volker“

    Solidarität für das RAF-Trio Foto: dpa

    BERLIN taz | Es sind innige Umarmungen, mit denen sich viele Be­su­che­r:in­nen im Kreuzberger Biergarten Jockel begrüßen. Man hat sich wohl lange nicht gesehen. Zu den besonders Geherzten gehören die beiden Podiumsgäste Karl-Heinz Dellwo, einst Mitglied der RAF, und Ralf Reinders, ehemals aktiv in der Bewegung 2. Juni. Viele der etwa 150 Be­su­che­r:in­nen der Diskussion über die „Geschichte des bewaffneten Kampfes“ an diesem Freitagabend sind ebenso in die Jahre gekommen wie die beiden einstigen Terroristen oder, in diesen Kreisen, „Mitglieder der Stadtguerilla“.

    Es ist die Abschlussveranstaltung einer anarchistischen Reihe unter dem Titel „Gezeiten der Revolte“, die sich mit grundlegend antagonistischen Perspektiven auf Macht und Gesellschaft beschäftigt hat. Nach der Festnahme der einstigen RAF-Kämpferin Daniela Klette Ende Februar und durch die anhaltende Suche nach ihren früheren Mitstreitern Burkhard Garweg und Ernst-Volker Staub hat das Thema eine ungeahnte Aktualität bekommen.

    Auf dem Podium in dem voll besetzten Saal sitzt dann mit Lukas Theune auch einer der drei Rechtsanwälte von Klette. Zunächst aber verliest Moderator Sebastian Lotzer, Autor und einstiger Autonomer, ein Grußwort von einigen der untergetauchten Antifaschist:innen, die aufgrund ihrer mutmaßlichen Beteiligung an Angriffen auf Neonazis in Budapest gesucht werden. Sie schreiben, anders als zu Zeiten der Stadtguerilla, in denen der Gang in die Illegalität „kein rein defensiver“ war, habe ihnen die „staatliche Repression aufgezwungen, Glück und Freiheit in der Illegalität zu suchen“.

    Verlesen wird von einer Genossin auch ein Brief der in der JVA Vechta inhaftierten Klette, in dem sie die „von deutschen Politikern propagierte Kriegsertüchtigung der Gesellschaft“ geißelt. Über sich selbst schreibt Klette, sie habe sich ihre Festnahme und die Bedingungen im Gefängnis anders vorgestellt, spricht von Fußfesseln, verbundenen Augen und Drohungen über Einsatz der Schusswaffe.

    Ihre Verhaftung sei von „tagelanger Hetze und aufgeputschter Stimmung“ begleitet gewesen. Berichte über Sprengstoff in ihrer Wohnung, der eine Gefahr für die anderen Be­woh­ne­r:in­nen des Hauses dargestellt hätte, seien „eine Lüge“. Vergangene Woche hatten die Ermittler erstmals Bilder des Waffenarsenals gezeigt, das bei Klette gefunden wurde, darunter eine nicht funktionstüchtige Panzer-Abwehrrakete und ein Uralt-Maschinengewehr.
    Zweifel an der Anklage

    Rechtsanwalt Theune sprach von einer „Propagandashow“ um seine Mandantin, die die ersten zwei Monate in einer dauerhaft videoüberwachten Zelle, isoliert von den anderen Gefangenen, gehalten wurde. Inzwischen hätten sich die Bedingungen in der JVA verbessert.

    Gleichwohl kritisierte er die Vorwürfe gegen Klette, insbesondere in Bezug auf das Verfahren wegen acht Raubüberfällen, bei denen es in einem Fall zu einer Schussabgabe auf ein gepanzertes Fahrzeug gekommen war. „Die Grundlüge des Verfahrens ist versuchter Mord“, so Theune. Dagegen sei offensichtlich: „Da sollte niemand zu Schaden kommen.“

    Dellwo, der für seine Beteiligung an einer Geiselnahme in der deutschen Botschaft in Stockholm mit zwei Toten 18 Jahre hinter Gittern saß, führte die Notwendigkeit für Linke aus, sich außerhalb des Systems zu stellen. Eine Antwort darauf, was heutige Linke nun lernen könnten aus den bewaffneten Kämpfen von einst, blieb aber aus. Einen Spontanapplaus des andächtig lauschenden Publikums erhielt Reinders für sein Lob für Klette, Garweg und Staub: „30 Jahre in der Illegalität durchzuhalten ist eine wahnsinnige Leistung.“

    #Allemagne #politique #RAF #guerilla #répression

  • Stop méga-bassines : De Saint-Sauvant à la Rochelle, Les rendez-vous et objectifs de la mobilisation - La Grappe
    https://lagrappe.info/?Stop-mega-bassines-du-16-au-21-juillet-Plus-de-120-organisations-appelle

    Acte 1 : du 16 au 21 juillet : Tous-tes au Village de l’Eau à Melle

    Toute la semaine et dès le mardi 16 juillet, le Village de l’Eau à Melle sera un lieu de débats, de convivialité politique, de formation et de fête. Une riche programmation (https://www.bassinesnonmerci.fr/bnm79/2023/11/09/20-21-juillet-2024-stop-mega-bassines-prochaine-mobilisation-internationale/#prog-stopbassines-2024) permettra d’échanger autour des luttes pour l’eau à travers le pays et le monde. Le village sera un lieu privilégié pour s’informer sur les luttes paysannes, écologistes et sociales en cours. Un espace pour se former à l’action collective et approfondir nos alliances internationales pour la justice sociale et climatique. Un moment pour préparer la rentrée sociale. Dès cet été, il s’agit de commencer à s’organiser pour amplifier et faire confluer nos forces contre les politiques néo-libérales, le ravage écologique, la précarité sociale et la montée de l’extrême droite.

    Acte 2 : 19 juillet - Saint-Sauvant - Pas de méga-bassines ni dans la Vienne ni ailleurs !

    Le vendredi 19/07, nous vous donnons rendez-vous dans la Vienne à 12h00 dans la forêt de Saint-Sauvant, ancien maquis de la résistance Francs Tireurs Partisans, pour une grande marche populaire et un convoi de vélos. Cette journée marquera notre détermination à empêcher le démarrage de tout nouveau chantier de bassines, notamment celui annoncé pour septembre 2024 à Saint-Sauvant. Elle aura aussi pour objectif de visibiliser des coopératives agro-industrielles de la Vienne à la Limagne, qui militent activement pour les méga-bassines. Le démarrage des travaux en Vienne engendrerait inévitablement une escalade de la tension. Il est encore temps de faire « bassine arrière » alors même que ce chantier est fragilisé par le recours juridique contre le permis d’aménager dont l’audience se tiendra le 16 juillet.

    Acte 3 : 20 juillet – La Rochelle - Terminal agro-industriel portuaire de la Pallice - Bloquons les méga-bassines à la source !

    Le samedi 20/07, rendez-vous à 10h00 à La Rochelle pour une manifestation fleuve. Nous confluerons massivement en direction du terminal agro-industriel du port de La Pallice, dans une ambiance de carnaval. Nous appelons à prendre kayaks, paddle et autres bateaux gonflables pour l’encercler et le bloquer joyeusement. À la croisée des importations de soja et des exportations de céréales, des flux de pesticides et d’engrais chimiques, le port est le dernier maillon de la chaîne du système-bassines. La prolifération des méga-bassines en amont et l’agrandissement du port en aval sont les deux faces d’une même pièce d’un business juteux capturé par les méga-coopératives, telles que Sica Atlantique ou Océalia ou les autres acteurs majeurs du port comme Total, Lafarge ou Bolloré. Le port est le point nodal d’un système qui fait primer la spéculation financière et le libre échange sur la préservation des communs que sont la terre et l’eau, la juste rétribution des travailleur-euses de la terre, la défense de la biodiversité, l’accès populaire à une alimentation qualitative et la solidarité internationale. En confluant sur le port de La Pallice, le mouvement contre les méga-bassines entend remonter à la source du ravage.

  • Répression : les militants écologistes interdits de territoire
    https://www.socialter.fr/article/repression-militants-ecologistes-interdiction-territoire

    Une mesure très similaire à ce que propose aujourd’hui le RN, appelée «  l’injonction civile d’éloignement  ». Sept ans plus tard, les policiers n’ont toujours pas été gratifiés de ce pouvoir, mais les peines d’interdiction de territoire, elles, se sont généralisées dans l’enceinte des tribunaux. Parmi les personnes ciblées, les auteurs de délits graves ou de violences conjugales, et plus récemment, un nombre inhabituel de militants écologistes. «  Sur les 120 militants arrêtés pour avoir manifesté contre le projet autoroutier A69, 20 ont été placés sous contrôle judiciaire avec interdiction de se rendre dans le département du Tarn, voire du tracé entier de l’autoroute, obligation de pointer à la gendarmerie une à deux fois par semaine  », témoigne Gaëtan, coordinateur anti-répression du collectif La Voie est libre.

    S’il n’existe pas de chiffres recensant spécifiquement les interdictions de territoire prononcées contre les activistes écologistes, les interdictions de paraître ont été multipliées par 5,6 entre 2018 et 2021 selon le rapport de politique pénale du garde des Sceaux de 2022. «  En plein état d’urgence après les manifestations contre la loi Travail de Macron, une poignée de militants étaient visés par une interdiction de territoire. Dans le cadre de la lutte contre l’A69, cela s’est systématisé et porte gravement atteinte à la liberté fondamentale de manifester  », regrette Claire Dujardin, avocate au barreau de Toulouse, en charge des dossiers de certains militants ayant reçu jusqu’à deux ans d’interdiction du département du Tarn dans le cadre de leur contrôle judiciaire.

  • Madagascar, 1947
    http://anarlivres.free.fr/pages/archives_nouv/pages_nouv/Nouv_juin24.html#madagascar

    Pacification à la française – entre 11 000 et 100 000 morts, victimes directes ou indirectes – avec des troupes coloniales aux ordres d’un gouvernement composé de socialistes, de communistes et de centristes... Pour en savoir plus, écoutez l’émission « Affaire sensible » de France Inter...

  • Kanaky : huit personnes arrêtées, dont Christian Tein, le leader de la CCAT - Le Père Peinard
    https://www.leperepeinard.com/flash-info/kanaky-huit-personnes-arretees-dont-christian-tein-le-leader-de-la-cc

    Huit personnes ont été arrêtées ce mercredi, dont Christian Tein, considéré comme le leader de la Cellule de coordination des actions de terrain (CCAT), mouvement à l’origine du soulèvement contre la réforme du corps électoral en Nouvelle-Calédonie.

    #répression_coloniale ; parce qu’évidemment, les colons qui poussent à la roue depuis des années pour ignorer les demandes du camp indépendantiste, ils ne vont pas être ennuyés. Ca ne serait pas si grave, que ça en serait drôle tellement c’est caricatural, du type, t’as l’impression d’être dans une série B wokiste.

  • Le piège de la frontiere de Nador-Melilla
    Résumé

    https://vimeo.com/954056937/358dd8498d

    Le #24_juin_2022, près de deux-mille personnes migrantes ont tenté de traverser la barrière-frontalière séparant la ville de #Nador – au nord-est du Maroc – de Melilla – enclave sous contrôle espagnol. La #répression violente qui leur a été infligée par les forces de l’ordre marocaines et espagnoles a transformé le poste-frontière de #Barrio_Chino en #piège mortel, et a abouti à un véritable #charnier. Les autorités marocaines ont reconnu 23 décès, mais l’Association Marocaine des Droits Humains à Nador (AMDH) a dénombré au moins 27 personnes tuées lors de cette journée, et plus de 70 personnes demeurent disparues jusqu’à aujourd’hui. Que s’est-il passé le 24 juin 2022 ? Comment et par qui le poste-frontière de Barrio Chino a-t-il été transformé en piège mortel ?

    Pour répondre à ces questions, Border Forensics a enquêté pendant plus d’un an avec Irídia-Centre pour la Défense des Droits Humains, l’Association Marocaine des Droits Humains et d’autres acteurs de la société civile des deux côtés de la frontière. Par ailleurs, nous avons bénéficié des conseils complémentaires du Centre Européen pour les Droits Constitutionnels et Humains (ECCHR). En articulant notre analyse du massacre à travers différentes échelles spatiales et temporelles, nous avons tenté de comprendre non seulement l’enchaînement des évènements et les pratiques des acteurs présents sur place le 24 juin 2022, mais également les conditions structurelles qui ont rendu ce massacre possible, ainsi que la conjoncture politique qui a influé sur l’intensité extrême de la violence. Nous analysons également la violence qui a continué après le 24 juin à travers l’absence d’identification des morts et des disparus, l’impunité pour le massacre et l’acharnement judiciaire contre les personnes migrantes elles-mêmes.

    Bien que des zones d’ombre subsistent, les faits que nous avons reconstitués en croisant de nombreux éléments de preuve sont accablants, tant pour les autorités marocaines et espagnoles que pour l’Union européenne (UE) qui les soutient politiquement et financièrement. Les autorités des deux côtés de la frontière doivent faire toute la lumière sur ce massacre, et enfin répondre aux demandes de vérité et de justice des victimes et de leurs familles.


    https://www.borderforensics.org/fr/enquetes/nadormelilla
    #Melilla #Espagne #Maroc #frontières #massacre #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #border_forensics #architecture_forensique #violence #violences_policières #contre-enquête #apartheid_frontalier #barrières_frontalières #murs #domination_raciale #impunité #préméditation #militarisation_des_frontières #identification #externalisation

  • Israel’s Universities: The Crackdown
    Neve Gordon and Penny Green
    June 5, 2024
    New York Review of Books
    https://www.nybooks.com/online/2024/06/05/israel-universities-the-crackdown

    Last October, Palestinian students and academic staff in Israel faced unprecedented penalties for their speech. Now the repression persists.

    On April 18 Israeli police arrested the scholar Nadera Shalhoub-Kevorkian at her home in the Armenian Quarter of Jerusalem. Now sixty-three, she has researched the state repression of Palestinian children in East Jerusalem for decades, but the police’s arrival at her door was still a shock. They confiscated her cell phone, her computer, posters made by the nonprofit Defense for Children International, and multiple books by Mahmoud Darwish, and charged her with suspicion “of severe incitement against the State of Israel for statements made against Zionism and claims that Israel is currently committing genocide in Gaza.”

    Shalhoub-Kevorkian, a Palestinian citizen of Israel, is the Lawrence D. Biele Chair in Law at the Hebrew University of Jerusalem. (She is also a colleague of ours at Queen Mary University of London.) For six hours the police interrogated her about her academic articles and public statements she had made since October 7. They then shackled her wrists and ankles and took her to the Russian Compound, a detention center located near the Jerusalem city hall. She told Haaretz that a policewoman strip-searched her, cursed her, accused her of being part of Hamas, and told her to “burn” and “die.”

    A second officer took her to a cell, threw a mattress on the floor, and locked her in. “I was shivering with cold,” she remembered.

    I asked for a blanket, and they brought me one that smelled of garbage and urine and was also wet. I sat on the bed until morning, my ears and nose started to bleed, I threw up, washed my face, and went back to bed. I don’t know how something like this happens to someone my age. The light was very strong and there was noise. The cold was terrible, my teeth were chattering, even though the blanket smelled and was wet, in the end I covered myself with it because I couldn’t stand the cold.

    At a hearing the following morning, the state prosecutor asked the Jerusalem Magistrates Court to extend Shalhoub-Kevorkian’s detention. The judge, lacking evidence that she posed any danger, dismissed the request; she was released on bail. Since then, she told us in a recent conversation, she has been summoned for three further interrogations.

    Shalhoub-Kevorkian’s scholarship casts light on Israel’s degrading and inhumane treatment of Palestinian children and youth: according to Defense for Children International, in the decade leading up to the current Gaza war, close to a thousand children were killed and thousands incarcerated by Israeli soldiers and settlers; in 2019 alone, the UN reported, nearly 1,500 were maimed by Israeli forces. She calls such practices “unchilding,” a process of harsh subjugation. “Although I research these things,” she told Haaretz, “I never felt them on my flesh.”

    On October 26—by which point Israel had killed over seven thousand Palestinians in Gaza, of whom nearly three thousand were children—Shalhoub-Kevorkian signed and circulated a petition titled “Childhood Researchers and Students Calling for Immediate Ceasefire in Gaza.” The petition, which has now gathered 2,492 signatures from scholars around the world, demanded an immediate ceasefire and an end to “Western-backed Israeli genocide” and the “egregious violation of Palestinian children’s rights.”

    Three days later Hebrew University’s president, Asher Cohen, and its rector, Tamir Sheafer, sent Shalhoub-Kevorkian a letter. They were, they wrote, “astonished, disgusted and deeply disappointed” by her decision to sign the document—an act “not very far from crimes of incitement and sedition.” Israel’s actions in Gaza, they insisted, did “not come close to the definition of genocide.” Hamas’s massacre of October 7, on the other hand, met it “completely.” “We are sorry and ashamed that the Hebrew University includes a faculty member like you,” they concluded. “In light of your feelings, we believe that it is appropriate for you to consider leaving your position.”

    Members of the university community went on to disseminate the letter on social media, where Shalhoub-Kevorkian met with a barrage of hateful messages and violent threats. But everything she had said and done was within the law, and her tenure protected her from dismissal. In effect, the university’s leaders had resorted to bullying her into leaving.

    Shalhoub-Kevorkian decided to stay. The following March she was interviewed on the podcast Makdisi Street and made comments for which she was further targeted. She referred to Israel’s policy of withholding the corpses of Palestinians whom it had killed in military operations or who had died in custody—a practice widely documented by rights groups like B’Tselem and Human Rights Watch as well as in a series of Supreme Court cases since at least 1981. Later the conversation turned to the perception that Israel was using allegations of sexual violence committed by Hamas militants on October 7 to justify violence in Gaza. She denounced sexual abuse in no uncertain terms. “I will never approve it, not to Israelis nor to Palestinians and not in my name…. If a woman says she is raped I will believe her,” she said. “The issue is, is Israel allowing proper collection of evidence?…We don’t see women coming out and saying what happened, so women’s bodies are being used as political weapons.”

    Soon after a reporter on Israeli television mentioned these remarks, a member of the Knesset—Israel’s parliament—named Sharren Haskel called on Hebrew University to intervene. In a public statement in response, the president and rector reiterated that they were ashamed that Shalhoub-Kevorkian was on their faculty. Accusing her of “cynically” using free speech and academic freedom to “divide and incite,” they suspended her from all teaching responsibilities. They ended by declaring the institution a Zionist university, implying that it has no place for non-Zionist or anti-Zionist students, faculty, or staff. After a series of letters from faculty members—who argued that the president and rector had overreached their authority—and academics from abroad, the university’s leaders met with Shalhoub-Kevorkian and canceled the suspension on the grounds, Haaretz reported, that she had clarified her position about the rape charges. She was arrested three weeks later.

    What explains the intensity of the attacks against Shalhoub-Kevorkian? Her story underlines how fragile academic freedom can be when it comes under political pressure. It also offers a window into the assault that Palestinian students and staff in Israeli higher education have suffered since October 7. In the three weeks following Hamas’s attack, well over a hundred Palestinian students in Israel, nearly 80 percent of them women, faced disciplinary actions for private social media posts that supported the end of the siege on Gaza, celebrated the bulldozing of the Gaza border fence, expressed empathy with Palestinians in the Strip, or simply included memes about suffering Palestinian children. When word got out of arrests, investigations, suspensions, and expulsions, many Palestinian students and faculty stopped posting or sharing on social media. Shalhoub-Kevorkian’s treatment months later made it clear that this wave of repression had hardly abated.

    With the exception of a handful of mixed primary and secondary schools, which cater to about two thousand of Israel’s more than two million schoolchildren, Israeli universities are the only educational institutions where Palestinian and Jewish students meet. Over the years enrollment has risen among Palestinians, who make up twenty percent of the country’s citizens and currently comprise just over 16 percent of bachelor’s degree students, 11 percent of master’s students, and 8 percent of Ph.D. students. They have long been subject to disproportionate penalties for their speech. In her book Towers of Ivory and Steel, the anthropologist Maya Wind reports that in 2002, at the height of Israel’s military offensives in the West Bank, Palestinian students at the University of Haifa were suspended for peacefully protesting. At the time they comprised a minority of the student body, but between that year and 2010 they made up over 90 percent of the students summoned to disciplinary committees. Between 2010 and 2015 they remained three times as likely to be summoned as their Jewish peers.

    In 2007 the Knesset passed the “Students’ Rights Law,” which specifies that “an institution will establish and publicize, in accordance with the provisions of this law, a behavioral code for the behavior of applicants and students regarding their studies at the institution, including behavior during class and while at the institution’s facilities, as well as in the student dormitories.” Nowhere does the law give higher education institutions the authority to monitor and persecute students for their extramural statements or activities, including posts on private social media accounts. Yet many disciplinary committees have since overreached their authority to do precisely that.

    Even Palestinian students keenly aware of earlier periods of repression could not have anticipated just how widely universities would disregard such protections after Hamas’s attack. The suspensions began within days. By October 9 the human rights organization Adalah, which works with Palestinian citizens of Israel, had received a request to offer legal assistance to seven Palestinian students temporarily suspended from Haifa University. Unlike Shalhoub-Kevorkian, they were punished for posts shared among friends or on private social media accounts. The university’s rector, Gur Alroey, told Haaretz that their posts amounted to expressions of support for the attack. Elsewhere the Israeli media reported that he had sent the students a curt email: “In light of your statement on social media, and your support for the terrorist attack on the settlements surrounding Gaza and the murder of innocents, you are suspended from studying at the university until the matter is investigated.” Adalah, in a legal petition earlier this year, stressed that the students had “repeatedly made clear that they oppose violence against civilians.”

    Normally Adalah deals with a handful of student complaints a year. Now, however, it was inundated with dozens of requests for legal representation. It became clear that right-wing organizations like Im Tirtzu—which monitors faculty members as part of its “Know the Anti-Zionist Israeli Professor” project and according to a Jerusalem District Court ruling has “fascist characteristics” —were mining Palestinian citizens’ posts on social media. Soon Zionist students were assembling portfolios of their Palestinian classmates’ private accounts.

    At the Technion, Israel’s Institute of Technology, students circulated a PowerPoint presentation on WhatsApp and Telegram that included screenshots of social media posts alongside academic information about sixteen Palestinian students and brief explanations of the “offences” they committed. In the document, which was shared with us by Adalah, one student was outed for liking an Instagram image of a bulldozer breaching the fence surrounding Gaza. Zionist students at universities and colleges filed scores of complaints against their Palestinian classmates, who within days were subjected to investigations, disciplinary proceedings, suspensions, and expulsions, often without hearings. A number of institutions evicted accused students from their dormitories.

    On October 12 Israel’s minister of education, Yoav Kish, who chairs the country’s Council for Higher Education, issued a letter directing universities and colleges to “immediately suspend any student or employee who supports the barbaric terrorist acts experienced in the State of Israel, or who supports a terrorist organization, an act of terrorism, an enemy or an enemy state.” All such statements, he wrote, amounted to incitement to terrorism. “In cases where incitement is confirmed,” he went on, universities had to “issue permanent expulsions or terminations.” On October 17 Kish passed a resolution requiring universities to report to the council on how they had dealt with such students who “incite and support Hamas.” University leaders were outraged that the government seemed not to trust them.

    Some universities were flooded with complaints. A few set up screening committees to sift through social media posts and determine which students to suspend while a disciplinary committee deliberated whether the students in question could continue their studies. These committees, wittingly or not, also assisted their institutions in censoring students. Bar Ilan University tweeted that it had established a committee made up of academic, legal, and security experts to examine statements made by members of the university community that identified with terrorism or engaged in incitement or racism. The tweet included the rector’s email address, to which people could send complaints.

    AP Photo/Mahmoud Illean

    Nadera Shalhoub-Kevorkian appearing in court after her arrest on charges of incitement, Jerusalem, April 19, 2024

    “Within two weeks after the attack,” the attorney Adi Mansour, who works for Adalah, told us, “we found ourselves representing seventy-four Palestinian students in twenty-five institutions of higher education, including thirteen from Bezalel Academy of Arts and Design and the seven from the University of Haifa.” Several other students were represented by Academia for Equality or private lawyers. The vast majority were suspended, according to Mansour, for expressing solidarity with Palestinians in Gaza, demonstrating compassion for their suffering, or quoting verses from the Quran. In most cases the institution noted that as part of the procedure it had also sent the details of students under investigation to the police.

    Lubna Tuma, another attorney with Adalah, related to us that several students were arrested, interrogated, and even indicted for posting an image from October 7 of Palestinian children rejoicing on a captured military jeep. The students were stripped, searched, and humiliated. A twenty-three-year old Technion student told The Washington Post that, after posting a cooking video on October 8 with the caption “today we eat victory shakshuka,” she underwent three strip-searches and was woken up for roll call every hour of the night. Some were slapped and pushed; several alleged that the guards had exposed them to the cold, offered them food not “fit for animals,” moved them from facility to facility, and held them in closed-off rooms for hours on end before transferring them to grossly overcrowded cells. The same Technion student told PBS Newshour what had happened to other female students in her cell: “I had my hijab, but the other girls, they seized them from their bedrooms and did not allow them to put veils on their heads. Then they put garbage bags on their heads.”

    In another case, some sixty police officers stormed a student’s family home. At work when he learned about the raid, he went to the police station, where he was interrogated, then taken to Megiddo Prison and held in what lawyers described as “deplorable conditions.” After two weeks, he was released in the middle of the night. No charges were ever filed against him.

    Adalah’s lawyers accompanied university and college students to their disciplinary hearings. Tuma, who has gone to more than seventy disciplinary procedures during the past eight months, described them to us as farcical and draconian. In one case she represented a student who was suspended for sharing the Quranic verse “Their appointed time is the morning. Is not the morning near?” on October 7. In a reversal of the presumption of innocence, Tuma remembered, the judges expected the student to convince them that he did not support terrorism. They asked him why he had not shared posts condemning Hamas or demanding the return of Israeli hostages.

    The crucial offense, in many of the hearings, seemed to Tuma to be “hurting the public’s feelings.” But how, she asked, can you prove that the public’s feelings were hurt, particularly by posts shared only on private accounts with small groups of friends? And who, for that matter, is meant by “the public”? “In the imagination of most of the academic judges sitting on disciplinary panels,” she said, it “seems to denote only Israel’s Jewish citizenry.” Tuma recalled one hearing at Ben-Gurion University in which the disciplinary panel invited a student whose family members were killed on October 7 to prove that the post in question was hurtful.

    In some cases the disciplinary panels gave their verdict, only for right-wing students to take matters into their own hands. At Ben-Gurion, a panel decided not to suspend a Palestinian nursing student who shared a video clip denying some of the violence that took place on October 7. Instead the institution reprimanded her and asked her to volunteer for forty hours of community service. Students in a WhatsApp group responded to the verdict with a threat: “If she stays in this degree, no one will begin the year—the university will be turned upside down.”

    The university announced that it would appeal the panel’s decision, and according to Haaretz, the rector, Chaim Hames, sent the student an email, again using bullying rhetoric: “It seems wrong to me that you should return to school tomorrow as if nothing had happened. I recommend that you do not come to class tomorrow and that for the next few days, study by yourself in the library or anywhere else you see fit.” In the appeal, the student was found guilty and suspended for a term—but since all the courses in the nursing faculty are a year long, she was effectively suspended for twice that time.

    This was not the only or first appeal to popular justice. Already on October 16 the chairperson of the National Union of Israeli Students issued a letter suggesting that Palestinian students who allegedly supported terrorism be removed from universities and colleges. Not two weeks later, a group of Zionist students tried to break into the college dorms in the city of Netanya, shouting “death to Arabs” as police stood by. In January, a video clip circulated on Facebook showing students at Emek Yezreel Academic College draped in Israeli flags, standing on a classroom podium, declaring that they will “not sit in the same class with supporters of terrorism.” By Christmas, Palestinians were asking lawyers whether they could share images of Santa Claus standing amid the rubble in Gaza on social media. Many Palestinian students who could afford it started looking for alternative university options overseas.

    Individual faculty members have contributed to this hostile climate. In October a professor at Hebrew University posted a video, now taken offline, in which he compares Hamas to Nazis and advocates for a “Nakba 2” in Gaza. In an October 27 op-ed for the right-wing newspaper Makor Rishon, also now taken offline, Eviatar Matania, a political scientist at Tel-Aviv University, called for the complete destruction of Gaza City and the establishment of a park in its place. Neither professor was subjected to disciplinary action. But when, on October 14, twenty-five staff members at Haifa University wrote a letter criticizing the suspension of Palestinian students without due process, over 10,000 people signed a petition demanding that the staff be dismissed.

    Palestinian academic faculty are a small minority: they make up just 3.5 percent of the country’s university teaching staff, and they are almost always the only non-Jewish staff member in their academic departments. They too were targeted. On October 29 Arye Rattner, the president of Kaye Academic College of Education, sent a letter notifying the school’s staff that the college administration had received several complaints about social media from students and faculty members. “Management,” he wrote, “decided to act with a heavy hand and zero tolerance towards these cases,” including by expelling a student from her studies and firing an academic staff member. “Publications condemning the activities of IDF soldiers defending the State of Israel,” the president stressed, “will be met with zero tolerance.”

    Jewish faculty members were not entirely immune. On October 25 Yoseph Frost, the president of David Yellin Academic College for Education, summoned Nurit Peled-Elhanan, a renowned scholar who studies the portrayal of Palestinians in children’s Hebrew textbooks, to a disciplinary hearing. She was charged with sending messages on a staff WhatsApp group that criticized the conflation of Nazis with Hamas and invoked Jean-Paul Sartre’s discussion of anticolonial violence. To Frost, these WhatsApp notes evinced “understanding for the horrific act of Hamas” and “justification of their criminal act.”

    The disciplinary committee was satisfied with reprimanding Peled-Elhanan, but she resigned. “The values we used to know have long since been overturned,” she wrote in a Haaretz editorial explaining her decision:

    To say that [Hamas’s] attack and massacre occurred in a context, and that it was not an antisemitic pogrom born out of nowhere, is considered a more terrible crime than murder in this country…. Words have become dangerous and lethal bullets legitimate. People who use words are persecuted while murderers enjoy impunity. A person who burned an entire family to death is considered righteous, while anyone who dares to acknowledge the suffering of the residents of Gaza or the West Bank is denounced as a supporter of terrorism.

    In mid-November Achva Academic College, between Tel-Aviv and Beer-Sheva, fired a lecturer named Uri Horesh for two posts on his personal Facebook page: on October 7, he had changed his cover photo to one that says “Free Ghetto Gaza” in Hebrew; a week later, he posted a call to “end the genocide now” and “let Gaza live.” More recently Im Tirzu has been mining petitions signed by academic staff and sending the names to student groups, which then demand their universities fire the signatories. At Sapir College, located not far from the Gaza Strip, a lecturer named Regev Nathansohn signed a petition calling on the Biden administration to stop transferring arms and related funds to Israel. He was maligned as a supporter of terrorism, and wrote to the rector that he felt unsafe on campus. In response, he told us, the university approved an unpaid leave of absence for six months, though he had requested no such thing.

    *

    On October 24 the Committee of Academic Freedom of the British Society for Middle Eastern Studies—which one of us, Neve Gordon, chairs—sent a letter to the presidents of every Israeli university stressing the importance of defending the rights of individuals to express views that others may find offensive or challenging. It also highlighted the institutional duty to care for Palestinian students under attack. Three college leaders replied by characterizing Israel as an island of civilization in the midst of barbarism. Six days later, BRISMES, as the professional association is known, sent President Frost, of David Yellin Academic College for Education, a letter charging that his interpretation of Peled-Elhanan’s text was prejudicial. Frost responded with a letter that said, among other things, “tread carefully.”

    The crackdown has clearly not subsided. On Monday the Knesset member Ofir Katz, the current coalition’s parliamentary whip, introduced a bill dedicated to “removing terror from academia.” It would, in the words of The Jerusalem Post, “force academic institutions to fire faculty members who make statements that negate Israel’s character as a Jewish and democratic state or support terror activities.” The faculty members in question, it stipulates, would not receive a severance package. Academic institutions that fail to comply would be financially sanctioned.

    The bill has the backing of the National Union of Israeli Students, which on Sunday, in a well-coordinated campaign, hung billboards on Tel Aviv’s Ayalon Highway bearing decontextualized quotes from Shalhoub-Kevorkian and Professor Anat Matar of Tel-Aviv University. Matar was singled out for publicly mourning the Palestinian political prisoner Walid Daqqa, who died in custody this past April after thirty-seven years in prison, despite having been diagnosed with cancer in 2022. His corpse is being withheld by the prison authorities.

    Adalah’s General Director, Hassan Jabareen, represented Shalhoub-Kevorkian this past April in the hearings on her detention. In his closing remarks, he stressed that all her comments, including her criticism of the military, fell under legitimate free expression. Her case, Jabareen noted, was unprecedented in several respects. It was the first time in Israel’s history that Section 144d of the Penal Code—the provision criminalizing public incitement and incitement to racism—had been “brought against an academic to extend her detention”; the first time that “an academic had been investigated by the police over scholarly articles published in English-language international journals”; and the first time that the police arrested someone in part for citing factual accounts of Israel withholding the bodies of dead Palestinians.

    Jabareen also stressed that 150 professors from the Hebrew University had signed an open letter condemning Shalhoub-Kevorkian’s detention. But there is little chance that a small group of dissenting scholars will stem the assault on freedom of speech within Israel’s higher education system. On the contrary, the events of the past seven months suggest just how closely the country’s universities are aligned with the imperatives of the state.

    Neve Gordon
    Neve Gordon is the author of Israel’s Occupation and coauthor, with Nicola Perugini, of Human Shields: A History of People in the Line of Fire, both published by University of California Press. (March 2024)

    Penny Green
    Penny Green is an expert on state crime and genocide. She is Professor of Law and Globalization at Queen Mary University of London and, with Tony Ward, coauthor of State Crime: Governments, Violence and Corruption and State Crime and Civil Activism: On the Dialectics of Repression and Resistance. (June 2024)

    Towers of Ivory and Steel: How Israeli Universities Deny Palestinian Freedom (Verso, 2024).
    #liberté_académique #Israël #répression #censure

  • « Une des raisons du déclin de l’écologie politique est, à l’évidence, la criminalisation du mouvement environnementaliste »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/06/09/une-des-raisons-du-declin-de-l-ecologie-politique-est-a-l-evidence-la-crimin

    C’est un paradoxe qui passionnera sûrement, un jour, les politistes et les historiens. Pourquoi, alors qu’à peu près tout ce que le mouvement écologiste annonce depuis un demi-siècle est en train d’advenir, l’#écologie_politique est-elle à ce point en déclin ? En France, il est de bon ton de moquer l’incapacité des Verts à convaincre, mais force est de constater que c’est en réalité toute la thématique environnementale qui a presque disparu de la conversation publique en vue des élections européennes du 9 juin.

    Plusieurs facteurs conjoncturels expliquent cet effondrement : le retour de la guerre et l’exigence renouvelée de puissance des Etats, l’inflation, la capture de certains grands médias et leur mise au service d’intérêts idéologiques et-ou industriels, etc.

    Une autre cause, plus profonde, est aussi, à l’évidence, la #criminalisation du mouvement environnementaliste. Michel Forst, le rapporteur spécial des Nations unies (ONU) sur les défenseurs de l’environnement, s’en est ému à plusieurs reprises au cours des derniers mois. Toute l’Europe est touchée, mais, dans un entretien accordé début juin à Reporterre, M. Forst estime que, en termes de gestion policière des actions écologistes, la France fait figure d’exception – le Royaume-Uni se distinguant par l’extravagante sévérité de sa réponse judiciaire. « La France est le pire pays d’Europe concernant la répression policière des militants environnementaux, dit le rapporteur spécial de l’ONU. La violence des forces de l’ordre est hors catégorie. Leurs homologues à l’étranger ne comprennent pas la manière dont les Français répondent aux manifestations, ne comprennent pas qu’on puisse user d’une telle violence. »

    Un pouvoir normatif

    Ces mots ne sont pas ceux d’un dangereux zadiste ou d’un opposant politique. Personnalité d’une grande pondération, Michel Forst a été nommé à son poste en 2022, au terme d’un consensus des 158 Etats-parties à la convention d’Aarhus (Danemark) – signée en 1998 et entrée en vigueur en 2001, elle prévoit trois droits en matière d’environnement pour les citoyens et les associations : l’accès à l’information, la participation au processus décisionnel et l’accès à la justice.
    Les formes de #répression qu’il dénonce sont non seulement une menace pour la démocratie elle-même, comme il le dit en substance, mais elles ont aussi à n’en pas douter un effet politique. De fait, les actions de l’Etat ont sur l’esprit de ses administrés un #pouvoir_normatif, et la spectaculaire brutalité du traitement réservé aux militants écologistes agit comme une remise en cause « officielle » de la légitimité de leur cause, une relativisation de la gravité des questions qu’ils soulèvent.

    Les exemples ne manquent pas. Le 24 mai, l’action de protestation menée par Extinction Rebellion et Greenpeace devant le siège d’Amundi (une société de gestion qui est l’un des principaux actionnaires de TotalEnergies), à Paris, s’est soldée, selon une note interne des services de la Préfecture de police que Le Monde a pu consulter, par 220 interpellations dont 215 gardes à vue. Parmi elles, seules cinq personnes ont finalement fait l’objet de poursuites.
    Sans occulter la réalité des troubles et des dégâts provoqués par certains militants, sans ignorer non plus les gestes de violence gratuite commis par les forces de l’ordre à leur endroit, quel sens donner à un tel fiasco policier ? Interpellations de masse, gardes à vue abusives ou _interdiction -de_manifester ne sont pas seulement des instruments d’intimidation, ils sont autant de signaux adressés au corps social.

    L’écologie ? Une affaire de dangereux délinquants.

    Ce stigmate, les militants d’extrême droite, ou ceux de l’agriculture productiviste, y échappent largement. On s’en souvient : le 30 janvier, au moment même où le premier ministre Gabriel Attal prononçait son discours de politique générale assorti d’un martial « Tu casses ? Tu répares ! Tu salis ? Tu nettoies ! » (adressé à la jeunesse), les forces de l’ordre ouvraient poliment le passage aux engins agricoles un peu partout en France, afin que ceux-ci puissent procéder au déversement de dizaines de tonnes de lisier et de déchets sur les bâtiments de l’Etat – avec des perspectives limitées de réparation ou de nettoyage.

    Aucun communiqué

    Ces asymétries, dont il faut reconnaître qu’elles confinent parfois à l’absurde, sont légion. La journée du 1er juin en offre un remarquable précipité. Ce jour-là, à moins d’une semaine des commémorations du Débarquement, la préfète du Morbihan annonce avoir porté plainte contre Les Soulèvements de la Terre, pour des « dégradations » commises sur le monument aux anciens combattants de Sérent (Morbihan). Curieusement, son communiqué n’apporte aucun détail sur ces « dégradations ». Il faut se reporter aux images de revendication de l’action pour constater que celles-ci consistent essentiellement en un collage aux dimensions de deux rangées de feuilles A4, non sur le monument lui-même, mais sur son parvis, formant la phrase : « Le vivant en résistance. »

    S’agit-il, comme s’en indigne la préfecture dans son communiqué – aussitôt répercuté par la secrétaire d’Etat aux anciens combattants –, d’un « acte de vandalisme qui porte atteinte à la mémoire des combattants tombés pour défendre notre pays » ? Peut-être, après tout.

    Mais le même jour et dans la même région, à Rosporden (Finistère), France Bleu Breizh Izel rapporte qu’un ancien candidat du Rassemblement national se lève au cours d’une réunion publique pour faire le salut nazi, prononçant distinctement « Heil, Hitler ! » Rien, manifestement, qui salisse la mémoire des soldats du 6 juin 1944 : aucun communiqué de la préfecture du Finistère sur une éventuelle plainte – elle sera déposée par la Ligue des droits de l’homme –, aucune déclaration ou émotion particulière du côté du gouvernement.

    En miroir de la criminalisation des mouvements écologistes se construit ainsi la banalisation des postures et des mots de l’#extrême_droite la plus radicale, ratifiée par les silences du gouvernement et des services de l’Etat.

    #climat_politique

    • Et ça sans compter le risque que fait courir (quelque soit l’intensité de la répression si on peut se permettre une telle abstraction) toute action un tant soit peu efficiente contre l’organisation sociale, ni non plus tenir compte de l’épreuve qu’implique toute critique approfondie qui ne se paie pas de mots (et en minorant au passage la débilité notabiliaire, gestionnaire et centriste des Verts).

  • En Nouvelle-Calédonie, la machine judiciaire tourne à plein régime | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/france/030624/en-nouvelle-caledonie-la-machine-judiciaire-tourne-plein-regime

    Le tribunal de #Nouméa se retrouve à l’épicentre de la répression judiciaire des révoltes. C’est aussi dans cette enceinte que débutent des enquêtes au long cours, notamment sur les sept morts recensées depuis le 13 mai.

    #Kanaky #justice_d'abattage

  • Autoroute A69 : enterrons ce projet zombi !
    https://www.terrestres.org/2024/06/07/autoroute-a69-enterrons-ce-projet-zombi

    Alors qu’une mobilisation d’ampleur se prépare du 7 au 9 juin contre l’A69, le pouvoir politique souhaite l’interdire. Cette tribune de soutien rappelle la nécessité de poursuivre un mouvement d’opposition créatif et massif contre un projet écocidaire qui détruirait 400 hectares de terres agricoles. L’article Autoroute A69 : enterrons ce projet zombi ! est apparu en premier sur Terrestres.

    #Infrastructures #Luttes #Répression

  • #pacchetto_sicurezza. Più galera per chi lotta
    https://radioblackout.org/2024/06/pacchetto-sicurezza-piu-galera-per-chi-lotta

    Innalzare fino a 25 anni di reclusione la pena per chi protesta in modo “minaccioso o violento” contro le grandi opere infrastrutturali è l’obiettivo di un emendamento della Lega, firmato dal deputato Igor #iezzi, al cosiddetto “pacchetto sicurezza“, il ddl approvato a novembre dal Consiglio dei ministri e ora in discussione nelle Commissioni Giustizia e […]

    #L'informazione_di_Blackout #repressione
    https://cdn.radioblackout.org/wp-content/uploads/2024/06/2024-06-03-losco-pacchetto-sicurezza.mp3

  • Corteo nazionale del 2 giugno a Torino
    https://radioblackout.org/2024/05/corteo-nazionale-del-2-giugno-a-torino

    Il corteo del 2 Giugno prossimo è una prima risposta all’operazione repressiva denominata “City”, che ha colpito alcunx compagnx per i fatti del 4 Marzo di Torino. Pochi giorni prima di quella data, una sentenza della Corte di Cassazione aveva stabilito la permanenza in 41bis del nostro compagno Alfredo Cospito e pareva sancire la sua […]

    #L'informazione_di_Blackout ##2giugno ##operazionecity #repressione

  • Lumière sur les #financements français et européens en #Tunisie

    Alors que la Tunisie s’enfonce dans une violente #répression des personnes exilées et de toute forme d’opposition, le CCFD-Terre Solidaire publie un #rapport qui met en lumière l’augmentation des financements octroyés par l’Union européenne et les États européens à ce pays pour la #sécurisation de ses #frontières. Cette situation interroge la #responsabilité de l’#UE et de ses pays membres, dont la France, dans le recul des droits humains.

    La Tunisie s’enfonce dans l’#autoritarisme

    Au cours des deux dernières années, la Tunisie sous la présidence de #Kaïs_Saïed s’engouffre dans l’autoritarisme. En février 2023, le président tunisien déclare qu’il existe un “un plan criminel pour changer la composition démographique de la Tunisie“, en accusant des “hordes de migrants clandestins“ d’être responsables “de violences, de crimes et d’actes inacceptables“.

    Depuis cette rhétorique anti-migrants, les #violences à l’encontre des personnes exilées, principalement d’origine subsaharienne, se sont exacerbées et généralisées dans le pays. De nombreuses associations alertent sur une montée croissante des #détentions_arbitraires et des #déportations_collectives vers les zones frontalières désertiques de l’#Algérie et de la #Libye.

    https://ccfd-terresolidaire.org/lumiere-sur-les-financements-francais-et-europeens-en-tunisie
    #EU #Union_européenne #externalisation_des_frontières #migrations #réfugiés #désert #abandon

    ping @_kg_

  • « SDAT is the question »
    https://expansive.info/SDAT-is-the-question-4587

    On est en plein gros backlash après l’affaire Tarnac. Ya eu une grosse affaire avec des gros soutiens et une "victoire" après 10 ans. Mais ensuite toutes les affaires suivantes sont maintenant durement réprimés avec les outils (en gens, en arme et en droit) de l’anti-terrorisme et là ya plus forcément autant de soutien (médiatique et matériel) que pour Tarnac. Et même quand il y a, comme c’est pour 5, 10, 15 affaires en même temps ça se dilue.

    Mais après avoir longuement délibéré, les 3 juges décidèrent de condamner les prévenus à des peines allant de 7500 euros à 15000 euros, soit le maximum légal encouru en terme d’amende. On saura apprécier l’exercice de multiplication qu’il leur a fallu faire pour gonfler le réquisitoire du procureur : 37,5 fois supérieur !
    Après avoir plus qu’ouvertement décrié le droit au silence des prévenus, au prétexte de leur supposée ’contestation systématique de toute forme d’autorité’, ils appuyèrent leur décision par l’implication de la SDAT dans les arrestations et la tenue des mesures de garde à vue sur la commune de Levallois. Envoûtement ou raison, si la SDAT est dans le coup, ce ne doit pas être pour rien !

    #répression #SLT #désarmement #justice #SDAT #anti-terrorisme #backlash