• Presentazione del Rapporto – Denuncia «Al di là di quella porta»
    https://www.meltingpot.org/2023/10/presentazione-del-rapporto-denuncia-al-di-la-di-quella-porta

    Il lavoro di un anno (Maggio 2022 – Maggio 2023) con dati, testimonianze, ricerche, cartelle cliniche, accessi agli atti, sopralluoghi, verifiche, per cercare di far luce sul Centro Di Permanenza per il Rimpatrio di Milano e rendere pubblici i quotidiani abusi, violenze, discriminazioni e ostruzionismo. Un report-denuncia unico, dettagliato, approfondito su un non-luogo progettato, come gli altri luoghi di detenzione amministrativa in Italia, per essere nascosto e nascondere gli orrori che strutturalmente contiene. Buchi neri da chiudere immediatamente ed evitare che si moltiplichino, come invece sta per accadere. Sono due gli appuntamenti previsti per Mercoledì 25 ottobre a Milano. Alle (...)

    #Rapporti_e_dossier #CPR,_Hotspot,_CPA

  • 2023 : Dai 2,4 milioni d’immigrati il 9% del Pil italiano

    #Fondazione_Moressa: gli stranieri sono il 28,9% tra il personale non qualificato Dichiarati redditi per 64 miliardi e versati 9,6 miliardi di Irpef. Aumentano gli imprenditori. Da Il Sole 24 ore.

    Sostengono crescita demografica e soprattutto il Pil con un valore aggiunto di 154,3 miliardi di euro, il 9% del prodotto interno lordo. Sono i lavoratori immigrati, per lo più manuali e concentrati in agricoltura ed edilizia, una delle grandi stampelle dell’economia interna. Parola della Fondazione Leone Moressa che ieri alla Camera per bocca dei ricercatori Chiara Tronchin ed Enrico di Pasquale ha presentato insieme al segretario di Europa+ Riccardo Magi il 13° Rapporto annuale 2023 sull’economia dell’Immigrazione. Il report è stato presentato anche al Viminale.

    https://sbilanciamoci.info/dai-24-milioni-dimmigrati-il-9-del-pil-italiano

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    Rapporto 2023 sull’economia dell’immigrazione


    http://www.fondazioneleonemoressa.org/2023/10/19/rapporto-2023-sulleconomia-dellimmigrazione

    #PIB #agriculture #BTS #économie_de_l'immigration #rapport
    #statistiques #chiffres #Italie #migrations #économie #réfugiés #asile

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    ajouté à la métaliste sur le lien entre #économie (et surtout l’#Etat_providence) et la #migration... des arguments pour détruire l’#idée_reçue : « Les migrants profitent (voire : viennent POUR profiter) du système social des pays européens »...
    https://seenthis.net/messages/971875

  • Walls and fences at EU borders

    The number of border walls and fences worldwide has increased dramatically in recent decades. This also holds for the EU/Schengen area, which is currently surrounded or criss-crossed by 19 border or separation fences stretching for more than 2 000 kilometres (km). Between 2014 and 2022, the aggregate length of border fences at the EU’s external borders and within the EU/Schengen area grew from 315 km to 2 048 km. Two main official reasons are put forward for building border fences: to prevent irregular migration and combat terrorism. The construction of fences at EU borders raises important questions as to their compatibility with EU law, in particular the Schengen Borders Code, fundamental rights obligations, and EU funding rules on borders and migration. While border fences are not explicitly forbidden under EU law, their construction and use must be in accordance with fundamental rights (such as the right to seek international protection) and the rights and procedural safeguards provided by EU migration law. Amid renewed pressure and tensions at the EU’s external borders, in 2021, several Member States asked the European Commission to allow them the use of EU funds to construct border fences, which they regarded as an effective border protection measure against irregular migration. According to Regulation (EU) 2021/1148, EU funding can support ’infrastructure, buildings, systems, and services’ required to implement border checks and border surveillance. The Commission has so far resisted demands to interpret this provision as allowing for the construction or maintenance of border fences. The European Parliament has condemned the practice of ’pushbacks’ at the EU borders consistently, expressing deep concern ’about reports of severe human rights violations and deplorable detention conditions in transit zones or detention centres in border areas’. Moreover, Parliament stressed that the protection of EU external borders must be carried out in compliance with relevant international and EU law, including the EU Charter of Fundamental Rights.

    https://www.europarl.europa.eu/thinktank/en/document/EPRS_BRI(2022)733692
    #murs #barrières_frontalières #frontières #EU #UE #Union_européenne #migrations #asile #réfugiés #chiffres #statistiques #rapport #droits_humains #droits_fondamentaux #contrôles_frontaliers

  • #Eni sapeva” degli impatti delle fonti fossili sul clima sin dagli anni 70

    Una documentata ricerca di Greenpeace e ReCommon svela pubblicazioni ufficiali in cui già cinquant’anni fa il colosso evidenziava i rischi dell’accumulo di carbonio in atmosfera e della connessa crisi climatica. Ma la multinazionale ha continuato (e continua) a investire sull’estrazione di idrocarburi. Il ruolo dell’organizzazione Ipieca

    “A causa dell’aumento dell’uso di oli minerali l’anidride carbonica in atmosfera, secondo quanto riportato in un recente documento del Segretario generale delle Nazioni Unite, è aumentata a livello globale di circa il 10% nell’ultimo secolo; attorno all’anno 2000 potrebbe raggiungere il 25% con ‘catastrofiche’ conseguenze per il clima”.

    Questa frase è contenuta in uno studio pubblicato nel 1970, quando iniziava a diffondersi anche nell’opinione pubblica una crescente attenzione per i problemi legati all’inquinamento. A mettere a fuoco quell’allarme, però, non furono ricercatori o scienziati, e nemmeno attivisti o associazioni ambientaliste, ma Eni.

    Nel 1969 la società -all’epoca controllata interamente dallo Stato- aveva affidato a un proprio centro studi (l’Istituto per gli studi sullo sviluppo economico e il progresso tecnico, Isvet) il compito di realizzare un’indagine tecnico-economica per valutare i danni causati dall’inquinamento e i costi economici collegati. Un’affermazione inequivocabile, contenuta in una pubblicazione ufficiale commissionata dalla società e realizzata da un centro studi dell’Eni stessa.

    A riportarla alla luce è stata la ricerca “Eni sapeva” condotta da Greenpeace e ReCommon realizzata grazie ad approfondimenti svolti nel corso di alcuni mesi nelle biblioteche e negli archivi della stessa società o di istituzioni scientifiche come il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Lo studio è basato su recenti analisi simili che hanno indagato gli archivi e le pubblicazioni di compagnie come la francese TotalEnergies. Comprende inoltre i contributi di storici della scienza come Ben Franta, ricercatore in climate litigation presso l’Oxford sustainable law programme, tra i maggiori esperti del tema a livello mondiale, e Christophe Bonneuil, direttore di ricerca presso il più grande ente pubblico di ricerca francese, il Centre national de la recherche scientifique (Cnrs).

    Il passaggio dello studio di Isvet del 1970 non è un caso isolato. “In diverse sue pubblicazioni risalenti agli anni Settanta e Ottanta, il colosso italiano metteva in guardia sui possibili impatti distruttivi sul clima del Pianeta derivanti dalla combustione delle fonti fossili –denunciano le due organizzazioni-. Eppure, nonostante questi ammonimenti, l’azienda ha proseguito e continua ancora oggi a investire principalmente sull’estrazione e lo sfruttamento di petrolio e gas”.

    I casi citati nel report di Greenpeace e ReCommon sono diversi, come due studi pubblicati dalla società Tecneco (sempre appartenente a Eni) rispettivamente nel 1973 e nel 1978. Nel secondo (intitolato “Ambiente e fonti di energia esauribili e rinnovabili”) gli autori si chiedevano quali fossero i limiti che l’ambiente poneva alla produzione e al consumo di energia in costante aumento: “È auspicabile, tecnicamente fattibile ed economicamente valido ridurre il tasso di crescita del consumo energetico, senza diminuire il prodotto nazionale lordo -si legge nel documento del 1978-. Sarebbe inoltre necessario implementare un programma intensivo di sviluppo energetico da fonti rinnovabili ed estensive come l’energia solare, geotermica ed eolica”.

    Lo studio condotto da Tecneco continuava poi concentrandosi sulle emissioni di CO2, evidenziando come queste avessero già raggiunto nel 1970 una concentrazione di 320 parti per milione (ppm) in crescita del 10% nel corso dei 110 anni precedenti: “Si presume che con l’aumento del consumo di combustibili fossili, iniziato con la rivoluzione industriale, la concentrazione di CO2 raggiungerà le 375-400 ppm. Ipotizzando che il 35-45% della CO2 emessa rimanga in atmosfera e che il resto venga rimosso dal ciclo bio-geochimico, questo aumento è considerato da alcuni scienziati un possibile problema a lungo termine, soprattutto perché potrebbe alterare il bilancio termico dell’atmosfera, portando a cambiamenti climatici con gravi conseguenze per la biosfera”.

    Inoltre, sin dalla prima metà degli anni Settanta Eni ha fatto parte dell’Ipieca (International petroleum industry environmental conservation association), un’organizzazione fondata nel 1974 da diverse compagnie petrolifere internazionali che, secondo recenti studi, a partire dagli anni Ottanta avrebbe consentito al gigante petrolifero statunitense Exxon di coordinare “una campagna internazionale per contestare la scienza del clima e indebolire le politiche internazionali sul clima”.

    “A partire dal 1974 questa associazione ha assunto il ruolo di una diplomazia petrolifera internazionale di fronte alle emergenti normative transnazionali, ad esempio sulle fuoriuscite di petrolio, sull’inquinamento atmosferico e, negli anni Ottanta, sul riscaldamento globale -ha spiegato lo storico dell’ambiente Christophe Bonneuil-. Sebbene non si sia mai definita un gruppo di pressione, dal 1988 al 1994 è diventata chiaramente un canale attraverso il quale le compagnie petrolifere hanno condiviso informazioni e strategie relative al lavoro delle Nazioni Unite sulla strada verso il Vertice della terra di Rio del 1992 e i dettagli dei negoziati sulla Convenzione sui cambiamenti climatici”.

    Ipieca ha iniziato a occuparsi di riscaldamento globale attorno al 1984 e nel 1988 ha dato vita al “Working group on global climate change” i cui compiti erano -tra gli altri- quelli di documentare lo stato della scienza dei cambiamenti climatici indotti dall’effetto serra ed elaborare strategie di risposta vantaggiose per l’industria. Sebbene non fosse presente all’interno di questo gruppo di lavoro, “nella sua rivista Ecos, Eni ha dichiarato di essere stata coinvolta nei primi anni Novanta nel sostegno agli studi e alle azioni sul cambiamento climatico condotte dall’Ipieca -si legge nel report di Greenpeace e ReCommon-. Attività che si rifanno a una delle strategie già descritte da Bonneuil in precedenza, ovvero mettere in evidenza le presunte incertezze della scienza climatica promuovendo ulteriori ricerche per ritardare l’azione necessaria per porre fine alla combustione dei combustibili fossili”.

    “La nostra indagine dimostra come Eni possa essere aggiunta al lungo elenco di compagnie fossili che, come è emerso da numerose inchieste internazionali condotte negli ultimi anni, erano consapevoli almeno dai primi anni Settanta dell’effetto destabilizzante che lo sfruttamento di carbone, gas e petrolio esercita sugli equilibri climatici globali, a causa delle emissioni di gas serra -conclude Felice Moramarco, che ha coordinato la ricerca per Greenpeace Italia e ReCommon-. Se ci troviamo oggi nel pieno di una crisi climatica che minaccia le vite di tutte e tutti noi, la responsabilità ricade principalmente su aziende come Eni, che hanno continuato per decenni a sfruttare le fonti fossili, ignorando gli allarmanti e crescenti avvertimenti provenienti dalla comunità scientifica globale”.

    Lo scorso 9 maggio, come abbiamo raccontato su Altreconomia, Greenpeace Italia, ReCommon e dodici cittadine e cittadini italiani hanno presentato una causa civile nei confronti della società amministrata da Claudio Descalzi per i danni subiti e futuri, di natura patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici a cui la compagnia avrebbe significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendo consapevole degli impatti sul clima delle proprie attività. La “Giusta causa” punta a costringere Eni a rivedere la sua strategia industriale e a ridurre le sue emissioni del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020, come raccomandato dalla comunità scientifica internazionale per rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.

    https://altreconomia.it/eni-sapeva-degli-impatti-delle-fonti-fossili-sul-clima-sin-dagli-anni-7

    #industrie_pétrolière #changement_climatique #climat

    • #ENI_SAPEVA

      In diverse sue pubblicazioni risalenti agli anni Settanta e Ottanta, il colosso italiano ENI, all’epoca interamente controllato dallo Stato, metteva in guardia sui possibili impatti distruttivi sul clima del pianeta derivanti dalla combustione delle fonti fossili. Eppure, nonostante questi ammonimenti, l’azienda ha proseguito e continua ancora oggi a investire principalmente sull’estrazione e lo sfruttamento di petrolio e gas.

      Inoltre sin dalla prima metà degli anni Settanta il Cane a sei zampe ha fatto parte dell’IPIECA, un’organizzazione fondata da diverse compagnie petrolifere internazionali che, secondo recenti studi, a partire dagli anni Ottanta avrebbe consentito al gigante petrolifero statunitense Exxon di coordinare “una campagna internazionale per contestare la scienza del clima e indebolire le politiche internazionali sul clima”.

      È quanto denuncia «ENI sapeva», il rapporto diffuso oggi da Greenpeace Italia e ReCommon e realizzato grazie a ricerche effettuate negli scorsi mesi presso biblioteche e archivi della stessa ENI o di istituzioni scientifiche come il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).

      https://www.greenpeace.org/italy/rapporto/18843/eni-sapeva

      #rapport #responsabilité

  • The taxation of labour vs. capital income

    This working paper presents novel analysis comparing in a consistent way the tax treatment of labour and capital income across OECD countries, through stylised effective tax rates (ETRs). It shows that dividend income and capital gains are generally subject to lower ETRs than wage income at the personal level. In many countries, capital income is also tax-favoured even when considering taxes paid by both firms and individuals, although the gap between labour and capital income taxation tends to be smaller than when considering only personal-level taxes. The gap between ETRs on labour and capital income varies between countries and grows with income levels in some. The paper highlights that differential tax treatment of labour and capital income can affect the efficiency and equity of tax systems.

    https://www.oecd-ilibrary.org/taxation/the-taxation-of-labour-vs-capital-income_04f8d936-en

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    Les dividendes moins taxés que le travail

    Une récente étude de l’OCDE a mesuré que, dans la quasi-totalité des pays de l’organisation, les #revenus_du_capital sont moins taxés que les #revenus_du_travail.

    https://www.alternatives-economiques.fr/dividendes-taxes-travail/00108019

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    https://twitter.com/ChrisChavagneux/status/1703677762865643745
    #fisc #fiscalité #capital #travail #dividendes #statistiques #chiffres #OCDE #rapport #impôts

  • Sans les #services_publics, les #inégalités exploseraient

    Une étude de l’#Insee montre à quel point le modèle social français et les services publics, notamment l’#éducation et la #santé, permettent de réduire les inégalités en #France. Et que leur #dégradation s’avérerait désastreuse.

    SouventSouvent vilipendés pour le poids trop important qu’ils représentent dans la dépense publique, le modèle social français et les services publics jouent un rôle fondamental dans la baisse des inégalités en France. Une étude de l’Insee publiée le 19 septembre le montre de manière chiffrée.

    Pour étayer leur propos, les statisticiens de l’Insee ont développé une approche comptable élargie du système de redistribution français. Ils considèrent d’abord, concernant les prélèvements obligatoires, que « tout impôt prélevé a in fine une contrepartie directe ou indirecte pour les ménages ». Dès lors, ils prennent en compte dans leurs calculs « outre les impôts directs, les autres prélèvements comme les taxes sur les produits et la production ainsi que les cotisations sociales des employeurs et des salariés ».

    Et côté versements, l’Insee considère toutes les prestations sociales – retraites, chômage, APL, etc. – mais aussi, et c’est une particularité de son étude, « une valorisation monétaire des services publics » qu’ils soient individualisables – comme l’éducation et la santé – ou collectifs, comme la défense ou la recherche.
    Baisse drastique des inégalités

    Tout cela pris en compte, l’Insee estime que l’ensemble de ces transferts publics s’élève « à un peu plus de 500 milliards d’euros (25 % du revenu national net en 2019) » et « contribue à une réduction significative des inégalités de revenus ».

    Voyez plutôt : avant transferts, les ménages aisés – les 10 % les plus riches – ont un revenu 18 fois plus élevé que celui des ménages pauvres – ceux dont les revenus sont inférieurs à 60 % du niveau de vie médian, soit environ 13 % de la population. Mais après transferts publics, ce rapport n’est plus que de… 1 à 3.

    Autres chiffres : en 2019, et toujours en prenant en compte l’approche de redistribution élargie de l’Insee, 57 % des personnes recevaient plus qu’ils ne versaient à la collectivité. Cette part de bénéficiaires nets de la redistribution élargie s’élève à 85 % parmi les 30 % les plus modestes et, à l’inverse, à 13 % parmi les 5 % les plus aisés. Preuve que le système redistributif, s’il est loin d’être parfait, remplit une partie de sa mission.

    Quels sont les principaux facteurs explicatifs de cette baisse des inégalités ? Principalement « l’ampleur des dépenses en santé et d’éducation » qui explique plus de 50 % de la réduction des inégalités ; ainsi que les minima sociaux ciblés sur les plus modestes, qui pèsent 40 % de la baisse, répond l’Insee.

    Les dépenses de santé, d’abord, réduisent les inégalités du fait « des montants plus importants de remboursements de santé en direction des plus modestes, liés à un état de santé plus dégradé de cette partie de la population », dit l’Insee.

    Les dépenses d’éducation, ensuite, bénéficient de la même manière aux ménages ayant des enfants scolarisés indépendamment de leurs revenus, donc « elles contribuent à réduire la différence relative de revenus ». Par ailleurs, « les ménages ayant des enfants en âge d’être scolarisés (ou à leur charge) se retrouvent plus souvent dans le bas de la distribution du niveau de vie [...] en premier lieu les familles monoparentales » qui bénéficient donc plus en part de leurs revenus « du service rendu par l’éducation », ce qui tend à réduire les inégalités.

    Enfin, précise l’Insee, les prestations sociales en espèces – hors retraites – jouent un rôle déterminant dans la réduction de la pauvreté : « Les minima sociaux et allocations logement sont en effet ciblés sur les 30 % des personnes les plus modestes et décroissent fortement avec les revenus. »

    En plus des plus modestes, des familles avec enfants et des ménages les moins diplômés, une autre catégorie de population bénéficie fortement de la redistribution en France : les retraités. Environ 90 % des individus appartenant à un ménage dont la personne de référence est âgée de 65 ans ou plus voient leur niveau de vie augmenter grâce au système de redistribution élargie, nous dit l’Insee.

    S’ils bénéficient moins des dépenses d’éducation que les autres ménages car ils n’ont pour la plupart plus d’enfant scolarisé, en revanche ils sont les principaux destinataires des dépenses de santé et du système de retraite par répartition.
    Un système fiscal injuste

    Mais il demeure toutefois d’importants trous dans la raquette du système de redistribution en France. Et ce, principalement concernant le système fiscal qui, précise l’Insee, tend à augmenter légèrement les inégalités.

    Cela est dû à deux choses : d’abord à l’effet dégressif avec les revenus des taxes sur les produits et sur la production, qui pénalisent les plus modestes. L’exemple le plus connu est celui de la TVA dont le taux sur les produits dans les rayons des supermarchés s’applique de la même manière au consommateur au Smic qu’à l’ultrariche. C’est également le cas avec les impôts indirects sur l’alcool, le tabac et les carburants.

    Hélas, dit l’Insee, l’effet de ces taxes inégalitaires n’est pas compensé totalement par l’effet progressif des impôts sur le revenu et le patrimoine.

    L’autre raison au caractère injuste du système fiscal français tient à la sous-taxation des plus riches : au sein des 10 % les plus aisés, explique l’Insee, le profil des prélèvements décroît en part du revenu, principalement en raison d’une hausse de l’épargne, qui n’est pas imposée au moment de sa constitution, et des revenus du patrimoine, qui sont moins soumis aux cotisations sociales que les salaires.
    Besoins de services publics

    En somme, faute de système fiscal efficace, heureusement que le modèle social et les services publics sont là pour compenser, grâce aux transferts publics, les effets inégalitaires de l’économie de marché. Il est toujours bon de le rappeler à quelques jours de l’ouverture des débats budgétaires sur la prochaine loi de finances, durant lesquels la vision comptable de l’économie l’emporte souvent sur l’intérêt général.

    D’autant que la qualité des services publics au regard des besoins tend à se dégrader. Une étude récente du collectif « Nos services publics » montre que sur plusieurs pans de l’action publique – la santé, l’éducation, la justice, les transports, l’environnement... –, les dépenses pour les services publics sont très loin de suivre l’évolution des besoins non pourvus de la population en la matière.

    Cela a des conséquences désastreuses : l’augmentation des inégalités, le désamour de la chose publique et la marchandisation de secteurs pourtant considérés comme d’intérêt général. L’exécutif gagnerait à prendre davantage en compte ce constat pour le maintien de la cohésion sociale du pays.

    https://www.mediapart.fr/journal/economie-et-social/200923/sans-les-services-publics-les-inegalites-exploseraient
    #statistiques #chiffres

    • La #redistribution_élargie, incluant l’ensemble des #transferts_monétaires et les services publics, améliore le #niveau_de_vie de 57 % des personnes

      Les #impôts, #taxes et #cotisations_sociales financent les #retraites, les #prestations_sociales et les services publics, individualisables – comme l’éducation et la santé – ou collectifs, comme la #défense ou la #recherche. L’ensemble de ces #transferts_publics, prélevés sur ou perçus par les ménages, organisent une #redistribution dite élargie. Cette redistribution élargie à l’ensemble des services publics et incluant les #retraites correspond à un transfert de 500 milliards d’euros (25 % du revenu national net en 2019) et contribue à une réduction significative des inégalités de revenus. À ce titre, en 2019, 57 % des personnes reçoivent plus qu’ils ne versent. Cette part de personnes bénéficiaires nets de la redistribution élargie s’élève à 49 % autour du niveau de vie médian, contre plus de 85 % parmi les 30 % les plus modestes et 13 % parmi les 5 % les plus aisés. Avant transferts, les ménages aisés ont un revenu 18 fois plus élevé que celui des ménages pauvres, contre 1 à 3 après transferts.

      La redistribution élargie améliore le niveau de vie de 90 % des individus appartenant à un ménage dont la personne de référence est âgée de 65 ans ou plus ; ils sont les principaux destinataires des dépenses de santé et du système de retraite par répartition. Parmi les 50-59 ans, près de 70 % des individus sont à l’inverse contributeurs nets à la redistribution élargie. En dehors des retraités, les bénéficiaires nets de la redistribution élargie sont surtout les plus modestes, ainsi que les familles avec enfants et les ménages moins diplômés ; pour les ouvriers et les employés, le bilan redistributif est quasi neutre, alors que les cadres, travailleurs indépendants, chefs d’entreprise sont contributeurs nets ainsi que, dans une moindre mesure, les professions intermédiaires. La redistribution réduit également les inégalités entre les habitants de l’agglomération de Paris aux revenus primaires plus élevés et ceux des autres territoires. Les contributeurs nets sont ainsi des ménages actifs, aisés, âgés entre 40 et 60 ans, plutôt cadres ou urbains.

      https://www.insee.fr/fr/statistiques/7669723

      #rapport #étude

    • Le service public, un besoin radical

      Organiser les services publics en fonction des #besoins n’est pas seulement une nécessité évidente, c’est aussi un premier pas vers une organisation de la production fondamentalement différente.

      PourPour dénoncer la dégradation des services publics, le discours est bien rodé et semble évident. Il suffit d’insister sur le décalage entre les « besoins » et les « moyens ». C’est d’ailleurs le cœur de l’étude du groupe Nos Services publics publiée à la mi-septembre, et c’est sur ce même créneau que beaucoup d’hommes et femmes politiques de gauche l’ont repris. C’est d’autant plus parfait que c’est là le slogan principal de la gauche française : « gouverner par les besoins ».

      Si on prend ces ambitions au sérieux, si l’on veut des services publics qui répondent aux « besoins », alors il faut prendre à bras-le-corps cette question centrale, mais hautement difficile. Car rien n’est moins évident que ces besoins, et rien n’est moins facile que de trouver une méthode pour les définir. L’enjeu est pourtant essentiel. De fait, on pourrait presque lire l’histoire des échecs de la gauche et des projets de dépassement du capitalisme à l’aune de cette esquive.

      En effet, si l’on veut une société où les besoins soient définis collectivement, mais en laissant aux marchés le soin de les satisfaire, une tension apparaît immédiatement et se traduit par une instabilité souvent difficilement tenable : inflation, déséquilibres externes, mécontentements populaires. Du Front populaire au « tournant de la rigueur » en passant par l’expérience chilienne, la gauche a partout été « disciplinée » parce qu’elle avait évité de se confronter à ce sujet.

      Or, les services publics sont en première ligne de cette affaire, car, leur existence même les plaçant dans une logique non marchande, ils sont le fruit d’une décision indépendante d’un marché destiné à gérer leur satisfaction, et cette indépendance est bien souvent la source même de leur existence. En définissant les « besoins » en services publics, on ouvre donc le champ à une réflexion politique plus large qui pose la question des conditions de cette prise de décision.
      Des besoins évidents ?

      La réflexion précédente peut paraître à beaucoup sans objet. On sait bien quels sont les besoins non satisfaits de notre société. On les constate avec un peu de bon sens. La liste est longue mais simple à faire. Les queues des étudiants devant les banques alimentaires, les sans-abri qui n’ont pas accès à un logement décent, les travailleurs qui sont au bord de la pauvreté, le système de santé qui ne peut plus fonctionner, l’Éducation nationale qui ne peut plus recruter, les transports publics trop rares… Il y en a encore bien d’autres, mais il suffit de sortir pour les constater.

      Face à l’abondance délirante et révoltante des ultrariches, ces besoins semblent bien « évidents ». Mais il convient de se méfier de ce type de réflexe, si moralement juste soit-il. Car une telle vision se fonde sur l’idée que les besoins essentiels s’imposent objectivement à la société. Sauf que, dans ce cas, le « gouvernement par les besoins » serait absurde. Car si les besoins sont objectifs, extérieurs à la société, il n’y a aucun sens à demander des choix démocratiques les concernant. C’est d’ailleurs pour cela que les sectateurs du marché contestent toute conception a priori des besoins.

      En réalité, se nourrir, se loger, se soigner, apprendre et se déplacer sont des actes sociaux. S’il faut certes bien manger pour vivre, la signification de cet acte n’a pas le même sens selon les sociétés et les époques. Dans les Grundrisse, Marx a écrit cette phrase qui résume toute l’affaire : « La faim est la faim, mais la faim qui se satisfait de la viande cuite avec un couteau et une fourchette est une autre faim que celle qui avale de la viande crue avec des mains, des ongles et des dents. »

      Autrement dit, tous les besoins, même ceux qui nous semblent les plus essentiels, sont construits dans un cadre social. Si nous ne tolérons pas que des étudiants peinent à se nourrir correctement, ce qui a été le cas d’une part massive de la population pendant des siècles, c’est parce que nous nous faisons une autre idée des rapports sociaux que, par exemple, le XVIIe siècle. Et de même, si l’état de nos services de santé nous révolte, c’est parce que nous sommes convaincus que notre société doit assurer la meilleure prise en charge possible, quand bien même notre système serait historiquement et géographiquement un des meilleurs.

      Et dès lors, si l’on veut « gouverner par les besoins », on ne peut pas s’en sortir par la pirouette rhétorique des « besoins essentiels » sans répondre à la question de savoir pourquoi les besoins sont essentiels, et de ce que l’on fait des autres besoins que l’on juge non essentiels. Et cela renvoie immédiatement à une décision collective, c’est-à-dire démocratique.

      Pour expliquer cela, on peut prendre un exemple simple. Quels sont les besoins du système de santé ? Le gouvernement a placé quelques rustines après la crise sanitaire, tout en continuant à sous-dimensionner les dépenses courantes. On pourrait, au contraire, estimer que les « besoins essentiels » du secteur consisteraient à lui fournir un objectif de dépenses qui lui permette d’assurer le rythme « naturel » de ces besoins. Mais ce serait un objectif conservateur, considérant que les besoins ne se modifient pas, alors que tant de malades sont, même dans ce cadre, mal pris en charge. On pourrait alors estimer que les besoins du système de santé sont encore plus larges, que, même en sauvegardant l’existant, tant de besoins sont insatisfaits. Tout dépend en réalité des choix sociaux que l’on fait.

      « Gouverner par les besoins » revient ainsi nécessairement à prendre en compte et à assumer la subjectivité des besoins. Les besoins sont toujours et partout des besoins sociaux, c’est-à-dire construits par la société. Leur satisfaction renvoie donc à une organisation sociale globale et à une question beaucoup plus délicate, celle de savoir à quels besoins cette organisation est capable de répondre.

      C’est d’ailleurs ici que réside la différence entre la gestion des besoins par les services publics et la gestion des besoins par le marché. Dans ce deuxième cas, c’est le marché qui valide socialement les besoins et qui, en conséquence, va réaliser cette détermination en apparence « objective » des besoins parce qu’il les impose au reste de la société, tant du côté de la production que de la consommation. C’est une mystification que l’on appelle « fétichisme » : les personnes renoncent à leur responsabilité en s’en remettant aux règles fixées par une institution qu’ils ont créée, mais qui leur échappe.

      Dans le premier cas, au contraire, la validation des besoins est préalable à l’acte capable de les satisfaire. Cette validation ne peut donc se prévaloir d’une quelconque « objectivité » extérieure, sauf à vouloir retrouver un fétichisme finalement peu différent de celui de l’organisation marchande. La collectivité doit assumer cette validation a priori en faisant des choix conscients. Et, dès lors, c’est bien la forme politique capable de réaliser cette validation qui devient centrale.

      Dans un ouvrage de 1981 devenu introuvable mais qui est un des plus fouillés sur le sujet, On human needs (Harvester, non traduit), la philosophe britannique Kate Soper souligne ce fait : la définition des besoins est fondamentalement politique, en raison même de leur aspect social. « La tentative de nier l’aspect politique des besoins est elle-même une forme de politique des besoins et l’on devrait peut-être distinguer entre une politique des besoins qui vise à distinguer cet aspect politique et une politique des besoins qui se reconnaîtrait implicitement comme telle », explique-t-elle.
      Quels besoins satisfaire ?

      Une fois cette première étape franchie, il faut aller un peu plus loin. Car disposer d’une conscience sur ses besoins est un autre obstacle considérable à dépasser. Si, en effet, les besoins sont des faits sociaux, alors l’organisation sociale existante crée ses propres besoins et les impose aux citoyens. La difficulté devient alors considérable : il faut construire une subjectivité sociale capable de dépasser la subjectivité existante. Ou bien le changement même de rapport de propriété pourrait n’être pas suffisant.

      Dans le capitalisme, les besoins ne sont satisfaits que s’ils reçoivent la validation ultime de la rentabilité. La satisfaction de certains besoins non rentables est donc volontiers laissée à la charge de « services publics » et, en parallèle, de nouveaux besoins rentables sont créés et deviennent bientôt essentiels pour les individus, venant remplacer ou dégrader des services publics existants. L’automobile individuelle devient une nécessité qui rend caduques les petites lignes de chemin de fer et même, parfois, les grandes. Le téléphone portable individuel s’appuyant sur une pseudo-concurrence remplace le combiné partagé par une famille et régulé par un service public.

      Dans tous les cas, bien rares sont celles et ceux qui veulent revenir en arrière et sont prêts à renoncer à ces biens ou à ces services. Et bientôt d’autres besoins seront créés, qui deviendront tout aussi indispensables. C’est qu’il ne s’agit pas réellement là d’une question de volonté. Les besoins de la marchandise sont devenus ceux des individus, aussi essentiels (parfois davantage) que la santé, la nourriture ou l’éducation, parce que ces derniers évoluent dans la société de la marchandise. Le consommateur adopte pour lui-même des besoins qui, en réalité, ne viennent pas de lui mais du système économique. C’est ce que Marx appelle « l’aliénation ».

      C’est évidemment un argument des plus solides pour les conservateurs qui, défendant la société existante, jugent légitimes les besoins qu’elle produit en refusant de remettre en cause leur processus de production. Et cela place le camp de la transformation dans une double difficulté : celle de risquer de se placer dans une posture moralisatrice en jugeant négativement des besoins désormais ancrés et celle de devoir gouverner en prenant en compte les besoins créés par la marchandise.

      C’est un problème que l’on ne réglera pas dans ces lignes et qui est des plus vastes sur le plan philosophique, mais qu’il semble urgent de prendre en considération, au risque de perdre irrémédiablement l’ambition de définir a priori les besoins.

      Du moins peut-on tenter de comprendre le phénomène. Un des fondements de la production capitaliste est la séparation du producteur et du fruit de sa production, qui conduit à la séparation du même individu entre le producteur et le consommateur. Cette séparation fait échapper la valeur d’usage des marchandises aux producteurs et cette dernière peut alors être imposée au même individu en tant que consommateur. Mais on comprend alors que tout change : le besoin ne peut plus être défini a priori lors de la production, il ne peut plus l’être qu’au moment de l’échange par le consommateur. Et dès lors, le consommateur n’a accès qu’à une offre déterminée par la valorisation du capital, c’est-à-dire par la seule fin de la production capitaliste. La valeur d’usage est alors soumise à la valeur d’échange.

      Dans La Société du spectacle, Guy Debord résume ce phénomène ainsi : « La valeur d’échange est le condottiere de la valeur d’usage qui finit par mener la guerre pour son propre compte. » Se développent alors des « pseudo-besoins », fruit de « pseudo-usages » qui s’imposent à des consommateurs formellement libres mais en réalité englués dans une logique qui ne peut que leur échapper, même s’ils la font leur. C’est cette organisation sociale qui est au service de ces besoins imposés, et pourtant bien réels, que Debord appelle le « spectacle » : « Le spectacle n’est pas seulement le serviteur du pseudo-usage, il est déjà en lui-même le pseudo-usage de la vie. »

      Si les besoins du consommateur ne sont pas authentiques, on peut dire qu’ils sont « artificiels », comme le fait Razmig Keucheyan dans un livre qui est une référence (Les Besoins artificiels, Zones, 2019) pour tous ceux que le sujet intéresse. Ce caractère « artificiel » ne découle pas du rapport à une référence extérieure, métaphysique ou morale, mais du point de vue même de l’individu puisque le mode de production lui arrache la possibilité de construire ses propres besoins. La marchandise devient un pouvoir autonome qui soumet les besoins ou, comme le dit Debord, « falsifie la vie sociale ».
      Radicaliser les besoins pour s’émanciper

      Tout cela amène deux conséquences majeures. La première est que l’accusation de « totalitarisme » qu’avance en permanence le camp conservateur dès qu’il est question d’une définition a priori des besoins ne tient pas. L’individu dans le capitalisme, et encore plus dans celui dominé par le « spectacle », peut se croire libre et la fiction juridique peut entretenir cette illusion, mais ses choix sont toujours déterminés par la nécessité de produire de la valeur. Il est en cela « objectifié », « réifié », comme dirait Lukács.

      Comme le souligne Kate Soper, un des aspects les plus évidents de ce phénomène est la prétention à une « neutralisation » des besoins, à leur dépolitisation. Une neutralisation que, selon la même autrice, on retrouvait, sous une autre forme dans le « socialisme réel » où une bureaucratie « consciente » définissait les besoins pour le reste de la population, selon des critères « scientifiques ». Dans les deux cas, pour reprendre les termes de Debord, le « vécu » n’avait pas son mot à dire dans la formation des besoins. Il n’était que l’objet d’un choix pris ailleurs.

      L’enjeu devient alors de permettre à l’individu de redevenir un sujet capable de décider de ses besoins. C’est la condition sine qua non de tout « gouvernement par les besoins ». Toute tentative de réaliser cette ambition ou de « sauver les services publics » sans affronter directement ce problème est vouée à l’échec. Ce qui est à la fois un défi considérable et un défi « libérateur » que les conservateurs ne peuvent proposer.

      La deuxième conséquence de cette situation est évidemment celle de l’urgence. La conséquence de la définition de l’usage, et donc des besoins, par les convenances de la valorisation du capital, c’est que ces besoins vont au rythme de l’accumulation du capital. C’est ce que Debord appelle la « libération d’un artificiel illimité ». Mais cette production incessante de besoins nouveaux à la satisfaction toujours décevante et toujours renouvelée est de moins en moins tenable, tant du point de vue économique qu’écologique.

      La situation actuelle ouvre donc la porte à un nouveau besoin, qui est celui de sortir de ce cercle infernal. Et l’enjeu désormais est de ne pas voir ce besoin lui-même falsifié par la marchandise sous les atours de la « croissance verte » et de la « consommation durable ». Gouverner par les besoins n’a ainsi jamais été aussi difficile et, en même temps, aussi indispensable.

      Or, c’est peut-être ici qu’est la faille. Razmig Keucheyan en 2019 reprend ainsi la notion de « besoins radicaux » développée par la philosophe hongroise Agnès Heller dans un ouvrage de 1974, La Théorie des besoins chez Marx (disponible en anglais dans une édition de 2018 chez Verso). Ces « besoins radicaux » sont issus du développement capitaliste, ils se développent avec lui, mais échappent à la possibilité d’une satisfaction marchande. Ils seraient donc une forme d’appel à modifier le mode de définition et de satisfaction des besoins et donc un moyen de poser le problème des besoins authentiques et de l’organisation sociale.

      Le besoin de faire face à la crise écologique et sociale serait alors un levier important. Mais la crise des services publics pourrait en être un autre. Le constat de leur dégradation, de leur abandon ou de leur soumission à la marchandise pourrait être le ferment d’une réflexion plus générale.

      Ce serait alors logique : si les services publics sont des formes imparfaites mais réelles de « gouvernement par les besoins », leur défense, contre la logique de la marchandise, devient de fait un « besoin radical » qui permet de s’interroger sur le système d’organisation et de création des besoins. Kate Soper rappelle ainsi que l’abolition de la forme aliénée des besoins se fait par le fait que « l’affirmation a priori des besoins remplace l’ajustement a posteriori de la production à la consommation par l’échange sur le marché ». C’est la définition même d’un service public.

      Mais il faut alors assumer le contenu radical de ce besoin, c’est-à-dire en faire un levier d’émancipation libéré de l’emprise étatique et un laboratoire de la définition consciente des besoins. Si la question des besoins est réellement révolutionnaire, la lutte pour les services publics deviendrait alors non plus une simple « défense », mais bien une offensive à l’ambition plus vaste.

      https://www.mediapart.fr/journal/economie-et-social/250923/le-service-public-un-besoin-radical

  • Europe spent more on roads than rail in the last 25 years: These 10 countries bucked the trend

    A new report reveals how European countries are cutting railways and building roads.

    Europe’s rail network has dramatically declined over the past three decades, new research has warned, while investment in roads has soared.

    But with the funding gap between the two narrowing, could there be a light at the end of the (previously shuttered) tunnel?

    The length of motorways in Europe grew 60 per cent between 1995 and 2020, or 30,000km, according to research conducted by German thinktanks Wuppertal Institute and T3 Transportation and commissioned by Greenpeace.

    Meanwhile, railways shrank by 6.5 per cent, or 15,650km, and more than 2,500 railway stations were closed.

    The figures expose how governments prioritise cars over rail, warned Greenpeace EU senior climate campaigner Lorelei Limousin.

    “Millions of people outside cities have no option but to own a car to get to work, take kids to school or access basic services, living in areas with little or no public transport,” she said.

    “This is a direct result of governments dismantling local and regional rail networks while pouring money into roads.”

    However, there is a slight silver lining to the sobering research: the funding gap is narrowing.

    Between 1995 and 2018, European countries spent 66 per cent more on roads than railways. During the years 2018-2021, European countries spent 34 per cent more on extending roads than on extending railways.

    Nonetheless, the disparity is still jarring, Limousin commented.

    “Governments and the EU must hit the brakes on this dismantling of our train lines, reopen disused tracks and invest in rail – and stop the massive subsidies for roads that wreck the climate, pollute the air and make people’s lives miserable,” she said.
    Which European countries have invested in public transport?

    Trains are one of the most eco-friendly ways of getting around. Cars, vans and trucks are responsible for 72 per cent of Europe’s transport emissions, while rail accounts for only 0.4 per cent.

    But governments continue to pour money into polluting car infrastructure.

    EU-27 countries, Norway, Switzerland and the UK spent approximately €1.5 trillion on road infrastructure and only €930 billion on rail over this 1995-2020 period.

    Ten countries report a net increase of their railway networks’ lengths since 1995. These are Belgium, Croatia, Estonia, Finland, Ireland, Italy, Netherlands, Slovenia, Spain and Switzerland.

    The bulk of the railway closures took place in Germany (reduced by 6,706 km), Poland (by 4,660 km) and France (by 4,125 km). Despite this, these three countries still represent the longest total network lengths, followed by the UK and Spain.

    Between 2018 and 2021, Austria, Belgium, Denmark, France, Italy, Luxembourg and the UK invested more in rail than roads. The other countries spent more on roads than rail. In Romania, the funding gap was particularly stark, with the government spending 12 times as much on roads as it did on rail.

    Motorways grew most in Ireland, Romania and Poland, and least in Lithuania, Latvia and Belgium. In 15 out of the 30 countries analysed, the motorway length more than doubled, including Spain, Norway and Greece.
    What do researchers think should be done to improve the European rail network?

    Several European countries have launched cheap public transport fares in a bid to reduce emissions. More than three million people have purchased Germany’s Deutschlandticket, priced at €49 a month.

    But inexpensive fares are not enough. Greenpeace urged policymakers to pour money into railways, public transport, and cycle lanes, and divert it away from motorways and airports.

    The researchers believe that more than 13,500km of closed railway lines could be reopened “relatively easily.”

    “European nations have a commitment to reduce energy and transport poverty, and

    they are committed to the Paris Agreement,” the report authors urge.

    “Therefore, from a social and environmental perspective, the funding priorities for transport infrastructure need to shift accordingly.

    https://www.euronews.com/green/2023/09/19/europe-spent-more-on-roads-than-rail-in-the-last-25-years-these-10-countri

    #transports_publics #transports #rail #train #routes #automobile #investissements #transport_ferroviaire #Europe #transport_routier

    • Europe lost 15,000 km of rail, built 30,000 km of motorway since 1995

      Since 1995, European countries invested on average 66% more in expanding and refurbishing roads than in railways, new research has found. The new study (https://greenpeace.at/uploads/2023/09/analysis_development-of-transport-infrastructure-in-europe_2023.pdf) by the Wuppertal Institut and T3 Transportation Think Tank, commissioned by Greenpeace Central and Eastern Europe, looked at the investments in road and rail infrastructure by the 27 EU countries, as well as Norway, Switzerland and the UK.

      The study shows that European countries have spent approximately €1.5 trillion on road infrastructure and only €930 billion on rail in the last three decades, encouraging people to use cars instead of sustainable public transport.

      Click here (https://greenpeace.at/uploads/2023/09/factsheet_key-findings-and-country-data_transport-infrastructure-report_s) for a factsheet of the study’s main findings and country data.

      Lorelei Limousin, Greenpeace EU senior climate campaigner, said: “Millions of people outside cities have no option but to own a car to get to work, take kids to school or access basic services, living in areas with little or no public transport. This is a direct result of governments dismantling local and regional rail networks while pouring money into roads. Climate pollution from transport is through the roof, and we’ve seen people around Europe and across the world suffer the consequences. Governments and the EU must hit the brakes on this dismantling of our train lines, reopen disused tracks and invest in rail – and stop the massive subsidies for roads that wreck the climate, pollute the air and make people’s lives miserable.”

      This lopsided funding has come with a 60% increase in the length of Europe’s motorways since 1995 – more than 30,000 km – while European rail lines shrank by 6.5%, or 15,650 km. This contributed to a 29% increase in demand for motorised road transport between 1995 and 2019. Cars, vans and trucks are responsible for 72% of Europe’s transport emissions, while rail accounts for only 0.4%.

      About 13,700 km of mostly regional railway lines and more than 2,500 railway stations have been temporarily or permanently closed to passenger trains. This disproportionately affects rural communities, which suffer from reduced access to rail and other public transport. More than half of the kilometres of closed railway line could be reopened relatively easily, according to the study.

      The study looks at how the funding gap between road and rail in Europe has evolved over time, and finds that since 2018 the gap has begun to narrow, from 66% in favour of roads before 2018 to 34% since then. However, despite this, many European countries continued to close further railway lines and stations, and to plan and build new motorways and airport extensions.

      Transport remains the only sector in the EU that has consistently increased its domestic greenhouse gas emissions. Greenhouse gas emissions from transport have actually increased by 15% in the period from 1995 to 2019. At the same time, an average train journey in Europe produces 77% less greenhouse gas emissions than a car trip per passenger kilometre. Data shows that a dense and well-developed rail network is key to making public transport accessible and attractive to people, which brings pollution down.

      As European governments prepare to set their budgets for next year, Greenpeace is calling on national and EU policymakers to finally shift funding priorities from road to rail, better maintaining rail infrastructure, and making public transport more affordable.

      https://www.greenpeace.org/eu-unit/issues/climate-energy/46794/europe-lost-15000-km-of-rail-built-30000-km-of-motorway-since-1995
      #comparaison #rapport #étude #autoroutes #statistiques

  • Les oubliés du droit d’asile

    Plus de 500 personnes ont participé à l’enquête réalisée sur 5 structures d’accueil parisiennes. L’enquête a permis la production d’un rapport final à partir de l’analyse des données quantitatives et qualitatives recueillies.


    Le rapport « Les oubliés du droit d’asile » dresse un constat alarmant sur les conditions d’existence des #hommes_isolés fréquentant les structures sur lesquelles l’enquête a été menée. Ces résultats amènent les associations à formuler des recommandations qui supposent une adaptation réglementaire et législative, l’augmentation des moyens ou l’ajustement des pratiques. Les associations en sont convaincues, les réponses aux difficultés rencontrées par les hommes isolés visés par l’enquête ne pourront se construire qu’en concertation et collaboration entre les associations, les services et agences de l’Etat et les collectivités.

    https://www.youtube.com/watch?v=ScjteUjbWAA

    https://www.actioncontrelafaim.org/publication/les-oublies-du-droit-dasile
    #rapport #France #Paris #asile #migrations #réfugiés #accueil #recommandations #SDF #sans-abris #sans-abrisme #hébergement #conditions_d'accueil #île_de_France #conditions_matérielles_d'accueil #enquête #dispositif_d'accueil #précarisation #allocation_pour_demandeurs_d'asile (#ADA) #accès_aux_droits #faim #santé_mentale

    ping @karine4

    • 95 entretiens poussés , un peu de sérieux , 85 bénévoles combien ça coute ? transmission des résultats aux services publiques , canal habituel ? l’honorable correspondant ? etc ...

  • Mille situations d’#abus_sexuels documentées dans l’#Eglise_catholique en Suisse

    L’Université de Zurich a documenté 1002 situations d’abus sexuels dans l’Eglise catholique en Suisse depuis le milieu du XXe siècle, dans une étude inédite qui a eu accès pour la première fois à la quasi totalité des archives. Il ne s’agirait que de la pointe de l’iceberg, la plupart des cas n’ayant pas été signalés et des documents ayant été détruits.

    L’étude présentée mardi par le département d’histoire de l’Université de Zurich constitue la première étape des recherches mandatées par trois organes catholiques dont la Conférence des évêques suisses. Jamais une équipe indépendante n’avait encore recherché sur ce sujet. Ce projet pilote a impliqué tous les diocèses du pays, les structures de droit public ecclésiastique et les communautés religieuses.

    Historiennes et historiens ont obtenu presque toujours les accès nécessaires aux archives, indique l’Université de Zurich. Des dizaines de milliers de pages de documents secrets, constitués par les responsables de l’Église catholique depuis le milieu du XXe siècle, ont pu être consultées. L’équipe a aussi mené de nombreux entretiens, notamment avec des personnes concernées.

    Les victimes : des mineurs, garçons en tête

    Il en ressort que 1002 situations d’abus sexuels ont été identifiées jusqu’à présent dans toute la Suisse sur l’ensemble de la période étudiée. On déplore au moins 921 victimes dont 74% de mineurs, 14% d’adultes et 12% de personnes à l’âge non établi. Au total, 510 personnes – presque uniquement des hommes – ont commis ces abus. 56% des victimes sont de sexe masculin, 39% de sexe féminin. On ignore le sexe de la victime pour les cas restants.

    La grande majorité des abus ont été commis dans le cadre de la pastorale. Tel était le cas surtout en situation de confession ou de consultation, de service de servants et servantes de messe, d’enseignement religieux ou encore d’activités avec des groupes d’enfants ou d’ados.

    Le deuxième domaine touché par les abus sexuels est celui de la formation et de l’aide sociale. Ainsi, environ 30% des cas se sont déroulés dans des foyers, des écoles et des internats catholiques ou établissements similaires.

    Les ordres religieux et les communautés nouvelles constituent le troisième domaine avec moins de 2% des cas documentés. La recherche de sources y a été particulièrement difficile, soulignent l’équipe historique.

    Des documents détruits dans deux diocèses

    De manière générale, historiennes et historiens ont trouvé des preuves d’un large éventail de situations d’abus sexuels, du franchissement problématique des limites aux abus systématiques les plus graves et ayant duré des années. Pourtant, ces situations « ne représentent sans doute que la pointe de l’iceberg », selon les professeures Monika Dommann et Marietta Meier, qui ont dirigé l’étude.

    En effet, de nombreuses archives susceptibles de documenter d’autres situations d’abus sexuels n’ont pas encore été étudiées. Tel est le cas des archives des communautés religieuses, des documents des instances diocésaines et des archives des écoles, internats et foyers catholiques, ainsi que des archives étatiques.

    De plus, les historiens ont pu prouver la destruction de documents dans deux diocèses. En outre, tous les signalements d’abus n’ont pas été documentés par écrit et archivés systématiquement. Seule une petite partie des cas a donc été signalée, supposent chercheuses et chercheurs.
    Un grand nombre de cas dissimulés

    Si les abus sexuels sur des mineurs constituent depuis longtemps un délit grave dans le droit canonique, ce dernier n’a pourtant guère été appliqué en la matière durant une longue partie de la période étudiée par l’Université de Zurich. Un grand nombre de cas ont même été dissimulés, couverts ou minimisés. En règle générale, les sanctions étaient inexistantes ou légères.

    L’Église catholique transférait systématiquement les clercs accusés et condamnés à l’interne, parfois même à l’étranger, dans le but d’éviter des poursuites pénales séculières et d’assurer aux clercs une réaffectation. Ils privilégiaient ainsi les intérêts de l’Eglise et de leurs représentants par rapport à la protection des paroissiennes et paroissiens, constatent l’équipe de recherche.

    Cette pratique n’a changé qu’au début du XXIe siècle, alors que la gestion des abus dans l’Eglise catholique suscitait de plus en plus de scandales. La Conférence des évêques suisses a publié alors des directives claires et a fondé des commissions d’experts, dont la façon de travailler et le degré de professionnalisation sont toutefois variables, selon les historiennes et les historiens.
    De nouvelles accusations

    Dans la dernière édition du SonntagsBlick toutefois, l’évêque de Fribourg Charles Morerod et l’évêque de Sion Jean-Marie Lovey sont accusés de dissimulation. Présent lui aussi face aux médias, l’évêque de Coire Joseph Bonnemain, chargé de l’enquête interne, s’est dit « certain » que des plaintes ont été déposées à ce sujet.

    L’Eglise catholique aurait dû commencer à laisser les historiens travailler indépendamment sur ses archives il y a vingt ans, déplore Monika Dommann. L’Université de Zurich va poursuivre et élargir son travail de 2024 à fin 2026, en accord avec les mandataires pour établir l’ampleur réelle des abus, la responsabilité de l’Etat dans le placement de mineurs et les liens entre les spécificités catholiques et les abus.

    https://www.rts.ch/info/suisse/14306183-mille-situations-dabus-sexuels-documentees-dans-leglise-catholique-en-s
    #Eglise #Suisse #histoire #rapport #archives #dissimulation #violences_sexuelles

    • Projet pilote sur l’histoire des abus sexuels dans le contexte de l’Église catholique romaine en Suisse depuis le milieu du 20ème siècle

      But du projet

      Le projet pilote d’une année pose les bases pour des futurs projets de recherche sur l’histoire des violences sexuelles commises en Suisse par des membres du clergé catholique, des employés de l’Église et les religieux depuis le milieu du 20ème siècle. L’accent est mis sur les structures qui ont permis les abus sexuels de mineurs et d’adultes et qui ont rendu difficiles leur mise à jour et leur sanction. Toutes les régions linguistiques sont prises en compte.

      Le projet à orientation historique, mené par Monika Dommann et Marietta Meier, poursuit deux buts. Premièrement, il convient de clarifier quelles sources existent et sont accessibles. Pour atteindre ce but, des organisations de victimes et de témoins seront contactées. Deuxièmement, des questions et des méthodes possibles pour des projets de recherche ultérieurs seront proposées.

      Lorsque le projet pilote sera terminé, les résultats seront consignés dans un rapport. Ce rapport précisera dans quelle mesure les institutions de l’Église catholique auront soutenu l’équipe de recherche dans la collecte d’informations et l’accès aux archives, aux dossiers et aux témoins.

      D’autres projets de recherche sur l’histoire des abus sexuels dans le contexte ecclésial en Suisse pourront s’appuyer sur les résultats du projet pilote. C’est dans ce cadre que se tiennent l’étude empirique complète, éventuellement interdisciplinaire, des questions de recherche ainsi que la présentation, l’analyse et l’interprétation approfondie des structures, des événements et des expériences à reconstituer.

      https://www.abuscontexteecclesial.ch

      Pour télécharger le rapport :

      Lors d’une conférence de presse à Zurich (https://www.youtube.com/watch?v=AUy3aBeS3tA

      ), les responsables de projet et les représentants de l’Église catholique romaine ont présenté le rapport final du projet pilote sur l’histoire des abus sexuels dans le cadre de l’Église catholique romaine en Suisse depuis le milieu du 20ème siècle. Le rapport peut être téléchargé ici : https://zenodo.org/record/8315774

      https://www.abuscontexteecclesial.ch/rapport-final

  • Le #train deux fois plus cher que l’#avion en Europe !

    À l’occasion des départs en vacances estivaux pour de nombreux Français et Françaises, le prix des billets de train reste malheureusement très supérieur à celui des billets d’avion, à trajet égal.

    C’est ce que dénonce un nouveau rapport [1] de Greenpeace Europe centrale et de l’Est qui analyse, dans le détail, le fossé entre les prix des billets d’avion, mode de transport extrêmement polluant, et ceux des billets de train, dont l’impact sur le climat est pourtant jusqu’à 100 fois moins important.

    Lire le résumé du rapport en français : https://cdn.greenpeace.fr/site/uploads/2023/07/Analyse-comparative-du-prix-des-billets-davion-vs-train-en-Europe_Res

    Une fiscalité inéquitable au profit des compagnies aériennes et à contre-courant de la lutte contre la crise climatique

    En Europe, les billets de train sont en moyenne deux fois plus chers que ceux d’avion pour un même trajet, un trajet entre Barcelone et Londres coûtant même jusqu’à 30 fois plus cher !

    Cette différence abyssale entre les #tarifs de ces deux modes de transport va à l’encontre de l’urgence climatique et de la nécessité de diminuer le trafic aérien et de développer le #réseau_ferroviaire. Greenpeace appelle pour cela les institutions européennes et les gouvernements nationaux à rendre les trains plus abordables que les vols.

    Selon Alexis Chailloux, chargé de campagne voyage durable chez Greenpeace France :

    “Ce rapport démontre, chiffres à l’appui, ce que toutes les personnes qui voyagent en Europe ont déjà expérimenté : une différence de prix délirante entre les prix des billets d’avion et ceux de train pour un même trajet. Pour inverser la tendance, il est urgent de mettre fin aux #exemptions_fiscales anachroniques dont jouit le secteur aérien. Cela permettra d’investir massivement dans le réseau ferroviaire, et de rendre le train plus accessible”.

    La France dans le TOP 3 des pires élèves en Europe

    La situation est encore plus prononcée en #France, où les billets de train sont en moyenne 2,6 fois plus chers que les billets d’avion. La France se place ainsi en troisième position – à égalité avec la Belgique et derrière le Royaume-Uni et l’Espagne – des pays européens les plus inconséquents en termes de tarification, allant ainsi à contre-courant de l’urgence climatique et de la nécessité de réduire les émissions.

    Sur le trajet Paris – Valence (Espagne), par exemple, les billets de train sont en moyenne 8 fois plus chers que l’avion. Comment, avec de telles différences, demander sérieusement à la population de privilégier le train ?

    Nécessité d’adopter des mesures politiques impactantes et pérennes

    Forte de cette étude inédite Greenpeace demande au gouvernement français de mettre en place des mesures efficaces :

    – La fin des #avantages_fiscaux dont bénéficie le secteur aérien, et l’augmentation de la #taxe_de ^:solidarité sur les billets afin de financer les alternatives bas-carbone. Le manque à gagner lié aux avantages fiscaux du secteur aérien en France est estimé à 5 milliards d’euros par an par l’association Transport & Environnement.

    – L’accessibilité du train pour tout le monde, via la mise en place d’un “#ticket_climat” – un #forfait qui permet d’utiliser le train (hors TGV) de manière illimitée et à un prix abordable -, la relance du #train_de_nuit et le renfort de #tarifs_réduits sur les trains longue distance pour les personnes à faibles revenus.

    La deuxième version de notre Baromètre des pratiques de voyage des jeunes [2] montre justement que la jeunesse française est largement favorable à un rééquilibrage des tarifs entre les billets d’avion et de train (84%) et à la fin des exemptions fiscales pour le secteur aérien (68%).

    Notes aux rédactions :

    [1] La recherche porte sur 112 trajets de moins de 1500 km dans 27 pays européens (EU27 plus la Suisse, la Norvège et le Royaume-Uni, moins les îles de Malte, Chypre et l’Irlande. Pour chaque trajet, nous avons comparé le prix d’un aller simple en train et en avion sur 9 dates : 3 à très court terme (à +2, +4 et +7 jours après la date de recherche), 3 à moyen terme (un mois pile après la date de recherche, et à plus et moins 2 jours), et 3 à long terme (4 mois pile après la date de recherche, et à plus et moins 2 jours).

    Lire l’intégralité du rapport Analyse comparative du prix des billets d’avion et de train en Europe – comment une fiscalité inéquitable incite à voyager en avion au détriment du climat :
    https://greenpeace.at/uploads/2023/07/report-ticket-prices-of-planes-vs-trains-in-europe.pdf

    [2] L’enquête a été réalisée en ligne auprès d’un échantillon de 1200 personnes représentatif de la population de France métropolitaine âgée de 18 à 34 ans. Cette tranche d’âge a été ciblée prioritairement car elle est encline à un usage plus régulier de l’avion.

    https://www.greenpeace.fr/espace-presse/nouveau-rapport-le-train-deux-fois-plus-cher-que-lavion-en-europe
    #rapport #Greenpeace #fiscalité #compagnies_aériennes #transport #transport_public #transport_ferroviaire

    –—

    voir aussi :
    In Europa viaggiare in treno costa il doppio che viaggiare in aereo
    https://seenthis.net/messages/1015811

  • What safey are they talking about? Why Turkey cannot be considered a „safe third country“

    Le rapport est en anglais, mais je ne trouve que le résumé en allemand:

    Warum die Türkei nicht als „sicherer Drittstaat“ betrachtet werden kann – ein Expert:innengutachten im Auftrag von medico international.

    Die Erweiterung des Begriffs des ‚sicheren Drittstaates‘ und damit die ausgedehnte Anwendung dieses Konzepts ist ein wesentlicher Bestandteil des ‚Neuen Pakts für Migration und Asyl‘ der Europäischen Union (EU) und der Reform des Gemeinsamen Europäischen Asylsystems (GEAS). Die Bezeichnung eines Staates als ‚sicherer Drittstaat‘ ermöglicht es in der Praxis, dass Asylanträge von Personen, die durch diesen angeblich sicheren Drittstaat gereist sind, formell als unzulässig einzustufen. Mit anderen Worten: Ihre Asylanträge werden inhaltlich gar nicht erst geprüft. Die Einstufung eines Drittstaates als ‚sicher‘, um damit Geflüchteten den Zugang zum europäischen Asylsystem zu verwehren, ist jedoch nicht neu.

    Der EU-Türkei-Erklärung von 2016 lag die Annahme zugrunde, dass die Türkei ein ‚sicherer Drittstaat‘ im Sinne von Artikel 38 der EU-Asylverfahrensrichtlinie sei. Das ebnete den Weg für die Abschiebung von Geflüchteten in die Türkei, nachdem sie eine der griechischen Ägäis-Inseln erreicht hatten. Damals – und heute – war diese Einstufung eine politische Entscheidung und nicht das Ergebnis einer Evaluierung der Gegebenheiten vor Ort, die sich an der gelebten Erfahrung von Geflüchteten orientiert. Vielmehr kritisierten Nichtregierungsorganisationen bereits zum Zeitpunkt der Aushandlung der EU-Türkei-Erklärung die Einstufung der Türkei als ‚sicher‘ und dokumentierten schwere Menschenrechtsverletzungen wie zum Beispiel Massenabschiebungen nach Syrien. Das vorliegende Gutachten zeigt auf, wie sich die Situation von Geflüchteten in der Türkei seither kontinuierlich weiter verschlechtert hat.

    Zusammenfassung auf Deutsch

    Im ersten Abschnitt des Gutachtens wird das Konzept des ‚sicheren Drittstaates‘ erläutert und die praktische Bedeutung seiner Anwendung in der heutigen Migrationspolitik der EU dargelegt (I.). Im nachfolgenden Abschnitt wird der rechtliche Rahmen in der Türkei dargestellt (II.): Obwohl die Türkei die Genfer Flüchtlingskonvention (GFK) von 1951 ratifiziert hat, hält sie immer noch an deren geografischer Begrenzung fest und schließt damit faktisch alle außereuropäischen Asylsuchenden vom Flüchtlingsschutz nach der GFK aus (II.1.). Dementsprechend können Asylsuchende aus nicht-europäischen Ländern in der Türkei nur internationalen Schutz nach türkischem Recht oder eine der anderen Aufenthaltsgenehmigungen im Rahmen der innerstaatlichen Gesetzgebung beantragen (II.2.).

    Konkret stehen in der Türkei folgende Formen des ‚Schutzes‘ zur Verfügung: erstens der temporäre Schutzstatus für syrische Staatsangehörige (II.2.a. & II.3.a.); zweitens der ‚bedingte Flüchtlingsstatus‘ und der subsidiäre Schutzstatus (II.2.b & II.3.b.); und drittens eine Aufenthaltserlaubnis auf der Grundlage der allgemeinen migrationsrechtlichen Gesetzgebung. Solche Aufenthaltstitel können rechtlich jedoch nicht als ‚Schutzstatus‘ betrachtet werden (II.2.c.). Zudem entsprechen weder der internationale Schutz nach türkischem Recht noch migrationsrechtliche Aufenthaltstitel dem Schutz, der gestützt auf die GFK gewährt werden muss.

    Darüber hinaus werden besonderen Schutzbedürfnissen und spezifischen Anforderungen an die Aufnahmebedingungen von z.B. Überlebenden von Folter, Überlebenden sexueller und geschlechtsspezifischer Gewalt (SGBV) oder LGBTQIA+ nur unzureichend Rechnung getragen (II.3.c.). Die damit verbundenen Unzulänglichkeiten gegenüber bestimmten Gruppen von Geflüchteten können sowohl in konkreten Situationen gegen völkerrechtlich verankerte Antidiskriminierungsnormen verstoßen als auch in Extremfällen eine Bedrohung für das Leben oder die Freiheit einer Person darstellen und damit Artikel 38 Abs. 1 Bst. a der Asylverfahrensrichtlinie verletzten.

    Von allen Personen, die für das vorliegende Gutachten interviewt wurden, wurde als bedeutendstes Hindernis auf dem Weg zur Erlangung eines Schutzstatus in der Türkei der eingeschränkte Zugang zur Registrierung hervorgehoben (III.). Im Jahr 2018 hat die regionale Migrationsbehörde (damals PDMM, heute PPMM) die Registrierung neu ankommender Syrer:innen, mit Ausnahme von besonders schutzbedürftigen Fällen, in neun Provinzen de facto eingestellt. Betroffen waren große Städte wie İstanbul und andere Provinzen, in denen Geflüchtete einen relativ hohen Bevölkerungsanteil ausmachten.

    Seither hat die Zahl derjenigen Städte und Viertel, die für Neuregistrierungen von Anträgen auf temporären und internationalen Schutz ‚geschlossen‘ sind, weiter zugenommen. So wurde im Februar 2022 bekannt gegeben, dass in 16 Provinzen keine Registrierungen mehr angenommen würden. Zudem wurde ab Mai 2022 der Anteil Geflüchteter an der Gesamtbevölkerung in jedem Stadtteil gesetzlich auf 25 Prozent begrenzt – mit der Folge, dass die Registrierung oder die Neuanmeldung durch Umzug in 781 Stadtteile für der meisten ausländischen Staatsangehörigen mit temporärem Schutz, internationalem Schutz oder einer Aufenthaltsgenehmigung ‚geschlossen‘ wurden.

    Seit dem 1. Juli 2022 darf der Anteil Geflüchteter 20 Prozent der Gesamtbevölkerung nicht überschreiten, wodurch die Zahl der ‚geschlossenen‘ Viertel auf 1.169 anstieg. Gemäß Angaben von NGOs und Rechtsanwält:innen gäbe es aber selbst in Provinzen, die nicht ’offiziell geschlossen’ seien, Probleme bei der Registrierung neuer Anträge. Fortlaufend aktualisierte Informationen über den ‚Registrierungsstatus‘ einer Stadt oder Provinz seien zudem öffentlich nicht zugänglich. Vor diesem Hintergrund würden Antragsteller:innen, in der Hoffnung eine Stelle zu finden, die sich bereit erklärt, ihren Antrag auf internationalen Schutz zu registrieren, von einem regionalen Migrationsbüro zum nächsten geschickt – von Human Rights Watch als „wild-goose chase“[1] bezeichnet.

    Anträge auf temporären Schutz müssen seit Juni 2022 in einem der ‚Temporären Unterbringungslager‘ entlang der syrisch-türkischen Grenze gestellt werden. Zum Zeitpunkt der Erstellung dieses Gutachtens ist es für syrische Staatsangehörige jedoch faktisch unmöglich geworden, neue Anträge zu registrieren. Vor diesem Hintergrund müssen vorliegend die Voraussetzungen nach Artikel 38 Abs. 1 Bst. e Asylverfahrensrichtlinie – und damit die Definition des ‚sicheren Drittstaates‘ – wiederum als nicht erfüllt qualifiziert werden.

    Geflüchtete, die ihren Antrag auf temporären oder internationalen Schutz in der Türkei nicht registrieren können, bleiben gleichzeitig vom Ausüben anderer Rechte sowie von der Inanspruchnahme sozialer Dienstleistungen ausgeschlossen. Wem es gelingt, entweder einen Schutzstatus oder ein Identitätsdokument für Antragsteller:innen zu erhalten, hat theoretisch das Recht auf Zugang zu Bildung sowie Gesundheitsversorgung und hat die Möglichkeit, eine Arbeitserlaubnis zu beantragen (IV.).

    In der Praxis ist es jedoch äußerst schwierig, diese Rechte auszuüben. Prekäre Lebensbedingungen zwingen Menschen oft dazu, die ihnen zugewiesene Wohnprovinz zu verlassen und in größere Städte zu ziehen, um dort ihren Lebensunterhalt zu verdienen. Wer die zugewiesene Stadt aber verlässt, verliert den Zugang zu allen mit dem Status verbundenen sozialen Rechte und Ansprüche.

    Im vorliegenden Gutachten wird dargelegt, dass Geflüchtete in der Türkei oft gezwungen sind, unter katastrophalen Bedingungen in völliger Armut zu leben. In seiner Rechtsprechung hat der Europäische Gerichtshof für Menschenrechte (EGMR) festgehalten, dass die Verpflichtungen aus dem Non-Refoulement-Gebot nach Artikel 3 der Europäischen Menschenrechtskonvention (EMRK) einem Vertragsstaat verbieten können, eine Person in ein Land zurückzuschicken, wenn diese Person dort Aufnahmebedingungen ausgesetzt würde, die als unmenschlich oder erniedrigend eingestuft werden. Zudem kann der Ausschluss eines bestimmten Personenkreises vom Zugang zu sozialen Rechten und Dienstleistungen sowie das Nichtzurverfügungstellen adäquater Aufnahmebedingungen Diskriminierung darstellen, die als solche gegen menschenrechtliche Verpflichtungen verstößt.

    Gleichzeitig hat die zunehmende rassistische Hetze in der türkischen Politik zur Verbreitung einer xenophoben Stimmung geführt, die immer wieder auch in physische Gewalt umschlägt. Insgesamt wurde damit ein Umfeld geschaffen, in dem sich viele Geflüchtete nicht mehr sicher fühlen (IV.5.). Darüber hinaus steht das Risiko, als geflüchtete Person in der Türkei Ziel verbaler oder physischer, rassistischer Gewalt zu werden, in einem potenziellen Konflikt mit Artikel 38 Abs. 1 Bst. a der Asylverfahrensrichtlinie.

    Zwar ist das bereits erwähnte Non-Refoulement-Gebot auch in der türkischen Gesetzgebung verankert. Dennoch beinhaltet die Erteilung eines Schutzstatus in der Türkei nicht unbedingt einen wirksamen Schutz vor Refoulement. Erstens ist zu beachten, dass Personen mit temporärem oder internationalem Schutzstatus respektive einem migrationsrechtlichen Aufenthaltstitel stets der potenziellen Gefahr ausgesetzt sind, dass die Aufenthaltserlaubnis willkürlich aufgehoben wird (II.4. & V.1.). In der Praxis bedeutet dies, dass die betroffenen Personen einem tatsächlichen Risiko ausgesetzt sind, ohne vorherige Berücksichtigung der persönlichen Umstände – einschließlich individueller Risiken im Herkunftsstaat oder der Dauer ihres Aufenthalts in der Türkei – abgeschoben zu werden (VI.3.).

    Zweitens bedient sich die Türkei routinemäßig dem Mittel der erzwungenen ‚freiwilligen Rückkehr‘, um außereuropäische Staatsangehörige – z.B. nach Syrien – deportieren zu können. Hierbei wird die Unterschrift der betroffenen Personen auf der entsprechenden Einverständniserklärung entweder erschlichen oder gewaltsam erzwungen (VI.2.). Im Juli 2022 hat der EGMR mit seinem Urteil Akkad v. Turkey faktisch anerkannt, dass die Türkei Zwangsmittel einsetzt, um Menschen zur ‚freiwilligen Rückkehr‘ nach Syrien zu bewegen und gleichzeitig festgestellt, dass die türkischen Behörden mit dieser Praxis in mehrfacher Hinsicht gegen die individuellen Menschenrechte des Beschwerdeführers verstoßen haben.

    Drittens werden Schutzsuchende von türkischen Sicherheitskräften systematisch über die Landgrenzen nach Syrien und Iran zurück gepusht (VI.1.). Seit Mai 2015 – und damit noch vor Abschluss der EU-Türkei-Erklärung – hat sich die türkische Regierung von der „Politik der offenen Tür gegenüber Syrien“[2] abgewandt und versucht seither, diese Grenze, unter anderem durch eine von der EU teilfinanzierte Grenzmauer, zu schließen. Bereits im November 2015 erschienen erste Berichte, wonach die Türkei Syrer:innen gewaltsam in das kriegsversehrte Syrien zurückdrängt. Im August 2022 und November 2022 haben Amnesty International[3] und Human Rights Watch[4] sodann ausführliche Berichte über systematische und äußerst gewaltvolle Pushbacks afghanischer Staatsbürger:innen veröffentlicht. Diese Berichte bestätigen, dass die Türkei Geflüchteten keinen wirksamen Schutz bietet und daher die Voraussetzungen eines ‚sicheren Drittstaates‘ gemäß Artikel 38 Abs. 1 Bst. c, d und e der Asylverfahrensrichtlinie nicht erfüllt.

    Vor einer allfälligen Abschiebung werden Geflüchtete in der Regel inhaftiert (V.), dies teilweise unter unmenschlichen und erniedrigenden Haftbedingungen (V.2.). Zwar sieht das türkische Recht sowohl gegen die Abschiebung als auch gegen die Inhaftierung Rechtsmittel vor, laut Rechtsanwält:innen und NGOs fehle den Betroffenen jedoch oft der Zugang zu Rechtsbeistand, weshalb die Ausübung dieser Verfahrensrechte während der Haft erheblich erschwert sei (V.3.) – in der Praxis blieben die meisten Inhaftierten ohne Rechtsvertretung.

    Konkrete Hürden bilden etwa systemische Mängel wie unzureichende Informationen über die bestehenden Rechte, begrenzter oder fehlender Zugang zu Kommunikationsmitteln, kurze Fristen oder die häufigen Transfers zwischen den Abschiebehaftanstalten. Diese systematischen Hindernisse, wenn Geflüchtete versuchen wollen, aus der Haft heraus eine Rechtsvertretung zu mandatieren, führen letztlich dazu, dass sich Betroffene mit einer potenziellen Gefährdung der Freiheit konfrontiert sehen und damit gleichzeitig zur Annahme der Nichterfüllung von Artikel 38 Abs. 1 Bst. a der Asylverfahrensrichtlinie.

    Im letzten Abschnitt geht das Gutachten der Frage nach, wie sich die Situation von Geflüchteten nach den verheerenden Erdbeben Anfang Februar 2023 entwickelt hat (VII.) Insgesamt wurden mehr als 50.000 Menschen getötet und schätzungsweise 2,7 Millionen Menschen – einschließlich Geflüchtete – allein in der Türkei vertrieben. Im Zusammenhang mit den Erdbeben „haben sich die Lebensbedingungen für Migrant:innen verschlechtert“ und neu aufkommender „Rassismus hat zu gewalttätigen Übergriffen geführt“.[5] Zudem wurden Syrer:innen – zumindest anfangs – von Hilfslieferungen ausgeschlossen und hatten Schwierigkeiten, Zugang zu Notunterkünften zu erhalten. Dieser diskriminierende Ausschluss eines bestimmten Personenkreises vom Zugang zu Nothilfe kann wiederum eine völkerrechtswidrige Diskriminierung darstellen.
    Die Türkei erfüllt die Kriterien eines ‚sicheren Drittstaats‘ nicht

    Zusammenfassend wird im vorliegenden Gutachten festgestellt, dass die Türkei die Kriterien eines ‚sicheren Drittstaats‘ nicht erfüllt – und zwar weder nach dem derzeitigen Artikel 38 der Asylverfahrensrichtlinie noch nach der geplanten GEAS-Reform (I.) –, weil die Türkei außereuropäischen Schutzsuchenden keinen ‚effektiven Schutz‘ bietet (VIII.). Der EGMR hat in seiner Rechtsprechung bestätigt, dass Asylsuchende durch Abschiebung nicht der Gefahr einer Verletzung von Artikel 3 der EMRK ausgesetzt werden dürfen – weder direkt in diesem Drittstaat oder indirekt, zum Beispiel durch eine Kettenabschiebung. Wenn es also Gründe zur Annahme gibt, dass nach einer Abschiebung eine eben solche, den Artikel 3 der EMRK verletzende Behandlung drohen könnte, hat der EGMR die Verpflichtung bestätigt, die betroffene Person dieser Gefahr nicht auszusetzen und sie daher nicht abzuschieben. Dies schließt auch die Pflicht ein, die allgemeinen Aufnahmebedingungen für Geflüchtete im Zielstaat sowie die individuelle Situation der jeweiligen Person in die Prüfung einer drohenden Verletzung von Artikel 3 der EMKR zu berücksichtigen. Zu betonen ist, dass diese Pflicht unabhängig von jeder politischen Vereinbarung gilt, die ein bestimmtes Land als ‚sicher‘ bezeichnet – einschließlich der EU-Türkei-Erklärung.

    Der eklatante Widerspruch zwischen der Behauptung, die Türkei sei ‚sicher‘ und der gelebten Erfahrung von Geflüchteten vor Ort lässt nur eine Schlussfolgerung zu: Die Einstufung der Türkei als ‚sicherer Drittstaat‘ entspringt politischem Kalkül und hält rechtlichen Kriterien nicht stand. Am Beispiel der Türkei zeigt sich, dass die erweiterte Anwendung des Konzepts des ‚sicheren Drittstaates‘ die Gefahr für nichts Geringeres birgt, als die komplette Erosion des Rechts auf Asyl.

    https://www.medico.de/von-welcher-sicherheit-sprechen-sie-19176

    #rapport #migrations #réfugiés #Turquie #pays_sûr #pays-tiers_sûr #medico #medico_international

    ping @_kg_

  • Le #Comité_anti-torture_du_Conseil_de_l'Europe (#CPT) publie deux rapports sur l’observation d’une opération de retour soutenue par #Frontex depuis la #Belgique et #Chypre vers la #République_démocratique_du_Congo

    Le Comité pour la prévention de la torture et des peines ou traitements inhumains ou dégradants (CPT) du Conseil de l’Europe publie aujourd’hui deux rapports sur ses visites ad hoc effectuées en Belgique du 7 au 10 novembre et à Chypre du 7 au 9 novembre 2022, dans le cadre d’une opération de retour, organisée avec le soutien de Frontex, vers la République démocratique du #Congo, ainsi que les réponses des autorités belges et chypriotes.

    Les deux rapports examinent le traitement et les conditions de détention des ressortissants étrangers privés de liberté en vertu de la loi sur les étrangers, ainsi que les garanties accordées dans le cadre de leur éloignement. Le CPT a envoyé, pour la première fois, deux délégations pour observer la préparation et le déroulement d’une opération de retour conjointe (JRO) par voie aérienne qui a eu lieu le 8 novembre 2022 depuis la Belgique et Chypre vers la République démocratique du Congo. Le vol de retour a été organisé par la Belgique, avec la participation notamment de Chypre et avec le soutien de l’Agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes (Frontex). Il s’agit de la sixième opération d’éloignement par voie aérienne observée par le CPT au cours des dix dernières années.

    Dans son rapport concernant la visite effectuée en Belgique, le CPT a noté que sa délégation n’a reçu aucune allégation de mauvais traitements de la part des personnes éloignées. Le Comité a constaté qu’elles ont été traitées avec respect par les agents d’escorte de la Police fédérale belge tout au long de l’opération d’éloignement, qui a été menée de manière professionnelle. Néanmoins, le CPT considère que les garanties procédurales contre le refoulement arbitraire, y compris les voies de recours contre l’ordre de quitter le territoire, devraient être renforcées davantage afin de veiller à ce que personne ne soit renvoyé dans un pays où il y a un risque réel de mauvais traitements. Ce risque devrait être évalué de manière adéquate au moment de l’éloignement.

    En ce qui concerne le recours à la force et aux moyens de contrainte, le CPT prend note des lignes directrices détaillées et des instructions opérationnelles émises par les autorités belges, qui reflètent la position du Comité en la matière. Il se félicite du recours proportionné et progressif à la force et aux moyens de contrainte dont tous les agents d’escorte de la Police fédérale ont fait preuve, sur la base d’une approche dynamique de la sécurité. Plusieurs recommandations sont formulées pour améliorer le respect du secret médical et la transmission des informations médicales.

    Dans le rapport sur la visite à Chypre, le CPT a constaté que les personnes renvoyées étaient traitées avec respect par la police chypriote, mais il a souligné la nécessité d’adopter des lignes directrices claires concernant la phase de préparation du vol et la procédure d’embarquement, y compris à l’égard des questions liées à la santé. Le CPT a également pris connaissance d’allégations de mauvais traitements après des tentatives d’éloignement non abouties qui ont eu lieu dans les mois précédant la visite du CPT. Cela implique que les autorités chypriotes adoptent une approche proactive en ce qui concerne la détection et la prévention des mauvais traitements, y compris grâce à un examen médical systématique des ressortissants étrangers, à leur arrivée au centre de rétention administrative et après une tentative d’éloignement non aboutie, ainsi que la consignation et le signalement des indices médicaux de mauvais traitements.

    Le CPT formule également des recommandations spécifiques visant à améliorer les garanties dans le cadre de la préparation à l’éloignement, notamment en ce qui concerne la notification en temps utile de l’éloignement, l’accès à un avocat et l’examen médical par un médecin avant l’éloignement, dans le cadre d’une évaluation de « l’aptitude à voyager en avion ».

    Dans leur réponse, les autorités belges notent que des mesures ont été prises au niveau européen pour améliorer la manière dont les informations médicales sont partagées par les États membres participant aux JRO avec le médecin accompagnant le vol. Au niveau national, les autorités ont pris des mesures pour améliorer l’accessibilité des informations sur le mécanisme de plainte de Frontex. En outre, les autorités belges se réfèrent aux lois, procédures et pratiques existantes en réponse aux recommandations du CPT de renforcer les garanties contre le refoulement arbitraire. Les autorités notent également les familles avec enfants ne sont pas retenues dans les centres de rétention.

    Dans leur réponse, les autorités chypriotes fournissent des informations sur les enquêtes en cours concernant les cas d’allégations de mauvais traitements soulevés par le CPT. Les autorités indiquent également les mesures prises en ce qui concerne, entre autres, les examens médicaux, la consignation et le signalement de lésions, les procédures pour les agents d’escorte policière lors des retours forcés et volontaires, l’utilisation de moyens de contrainte, et la mise à disposition de services d’interprétation et de formation pour les agents d’escorte. En outre, ils indiquent que, dans le cadre de la politique publique, aucune personne vulnérable n’est placée en rétention, y compris les mineurs non accompagnés ou les familles avec enfants.

    https://www.coe.int/fr/web/cpt/-/council-of-europe-anti-torture-committee-cpt-publishes-two-reports-on-the-monit

    #renvois #expulsions #asile #réfugiés #déboutés #migrations #rapport #privation_de_liberté #conditions_de_détention #détention_administrative #rétention #vols #opération_de_retour_conjointe #joint_return_operation (#JRO) #observation

  • Agosto 2023: detenzioni abusive e aggressioni da parte della polizia in Costa Azzurra

    Progetto20K: «Questa frontiera produce e riproduce questo tipo di violenza 365 giorni all’anno»

    Progetto20K ha diffuso un comunicato il 24 agosto 2023 con il quale denuncia diversi abusi monitorati al confine di Ventimiglia tra l’Italia e la Francia e in Costa Azzurra.

    Da domenica 20 agosto 2023, sono state segnalate violazioni più allarmanti del solito da parte della polizia presso la stazione di frontiera di Ponte San Luigi a Mentone, nelle Alpi Marittime (Francia). Oltre alle consuete pratiche illegali della polizia, c’è l’attuale detenzione prolungata di circa 70 minori non accompagnati almeno da domenica 20 agosto (quindi già da 4 giorni) ed il rilascio di documenti di espulsione ad almeno 2 minori non accompagnati e l’aggressione fisica di una famiglia su un treno italiano.

    Nonostante il caldo asfissiante, la polizia francese continua a detenere illegalmente le persone in container al posto di frontiera di Ponte San Luigi (che si affaccia sul porto turistico di Mentone) per diverse ore o addirittura per giorni, al punto che decine di persone dormono e aspettano all’esterno, sotto una rete metallica.

    Durante questa ondata di caldo, decine di minori sono stati rinchiusi e ci sono rimasti per diversi giorni. Le informazioni che ci sono state riferite dal personale di un centro di accoglienza per minori non accompagnati nelle Alpi Marittime sono le seguenti:

    – 68 minori, lunedì 21 agosto alle 21.00;
    – 78 minori, mercoledì mattina 23 agosto;
    – 72 minori, mercoledì 23 agosto alle 22.00;

    Questa situazione ricorda la detenzione diffusa, arbitraria e collettiva di minori che si verifica regolarmente alla frontiera: l’episodio più recente risale all’aprile 2023.

    Inoltre, secondo diverse testimonianze di persone espulse in Italia, la polizia falsifica le date di nascita, nonostante le numerose proteste degli ultimi anni contro questa pratica.

    Questa la testimonianza di Siaka 1:

    “Martedì 22 agosto mi hanno chiamato, da solo ed hanno controllato le mie impronte digitali. Le informazioni emerse erano le stesse registrate al mio arrivo in Italia: ho riconosciuto la foto che mi era stata scattata a Lampedusa. Poi mi hanno preso di nuovo le impronte, ma con un’altra macchina, e mi hanno scattato una nuova foto.

    Non sapevo cosa stesse facendo la polizia, non mi hanno chiesto ne spiegato nulla. So che alcuni altri giovani hanno parlato con qualcuno che non era un agente di polizia e che li ha interrogati sulla loro età, sulla loro situazione familiare e su come sono arrivati qui. Ho visto questa persona ma non mi ha parlato. Sono stato riportato nella stanza e dopo un po’ mi hanno chiamato di nuovo. Mi hanno dato dei documenti a mio nome, ma la mia data e il mio luogo di nascita erano stati cambiati. C’era scritto che ero nat* nel 2005, mentre sono nat* nel 2007.

    Non conosco il luogo in cui hanno scritto che sono nat*, e a volte c’è anche confusione tra il mio Paese, la Guinea Conakry, e la Guinea Bissau. Questo documento è un obbligo di lasciare il territorio francese con il divieto di rientrare nel territorio francese per un anno.”

    Siaka è stat* bersaglio di una novità del 2023 nell’arsenale delle pratiche illegali di polizia su questa frontiera: l’emissione di una Obligation de Quitter Territoire Français (Obbligo di lasciare il territorio francese ndR.) (OQTF) a minori, senza alcuna procedura regolare per la valutazione dello status di minore da parte del dipartimento delle Alpi Marittime. Già nel gennaio 2023, un minore è stato respinto con un OQTF senza che il dipartimento gli fornisse alcun tipo di rapporto di valutazione della minore età che giustificasse la sua decisione.

    In questo caso, la polizia non ha potuto ignorare la minore età di Siaka poiché ha presentato una foto del suo certificato di nascita. Hanno anche consultato gli archivi della polizia italiana, che identificavano chiaramente Siaka come un minore.

    Senza procedura, l’assegnazione arbitraria delle date di nascita alle persone da parte della polizia non può che costituire una falsificazione, quindi un reato penale (a maggior ragione se in una scrittura pubblica), mentre la mancata assistenza ai minori non accompagnati è una violazione dei diritti dei bambini/minori.

    Al momento in cui scriviamo, la situazione rimane irrisolta, senza che sia stata fatta giustizia per i/le giovani detenut* e per quell* che si trovano per strada su entrambi i lati del confine.

    Aggressioni della polizia di frontiera: violenza, razzismo e impunità

    Alla fine della giornata del 22 agosto, un treno partito da Ventimiglia e diretto a Cuneo è stato controllato dalla gendarmeria francese. Questo treno è particolare in quanto serve 5 stazioni francesi (in cui avvengono sistematicamente controlli d’identità da parte delle autorità) anche se il suo capolinea è in Italia. All’arrivo alla prima stazione francese (Breil-sur-Roya), la gendarmeria controlla il treno e chiede a* passegger* razzializzat* i loro documenti d’identità, visto che in base ai loro criteri sono loro ad avere maggiori probabilità di viaggiare illegalmente.

    Una famiglia composta da un uomo, una donna incinta di 7 mesi e un bambino piccolo è stata presa di mira da 3 gendarmi della compagnia di intervento “Gendarmeria India 14/6”, con un comportamento eccessivamente violento e ansiogeno, nonostante la presenza di un bambino terrorizzato e di testimoni che riprendevano la scena e gridavano “Basta!”, “Lasciatela andare!“. È stata una scena di violenza inaudita (perché la violenza è la norma qui al confine, ma questo è un nuovo livello).

    https://www.youtube.com/watch?v=twsY-BMKx_w&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.meltingpot.org%

    Un avvocato si è assunto il compito di rappresentare e difendere la donna che è stata arrestata e messa in custodia con l’accusa di “ribellione e violenza nei confronti di una persona che detiene pubblica autorità (PDAP)”.

    Secondo Maître Zia Oloumi, la donna viaggiava con un biglietto e non sapeva che questo treno italiano Ventimiglia-Limone stava attraversando la Francia. Stava andando a chiedere asilo in Italia con il padre di suo figlio e il suo bambino di un anno.

    La mattina successiva il marito e il bambino sono stati rimandati in Italia (a piedi) dopo essere stati trattenuti contro la loro volontà nella stazione di polizia di frontiera di Ponte San Luigi (Mentone). Solo alla fine della giornata, dopo un lungo periodo di detenzione da parte della polizia, la donna ha potuto raggiungerli a Ventimiglia, in Italia.

    Quest’ultimo episodio di violenza da parte della polizia è un altro di una lunga serie di abusi di potere, di profilazione razziale e di attacchi fisici e verbali contro le persone in movimento e, più in generale, contro le persone di colore. Queste pratiche sono avallate dalla retorica politica fascista, così come dai disegni di legge (la nuova legge sull’asilo e l’immigrazione in fase di elaborazione da parte del governo francese) e da poteri di polizia sempre più pericolosi e fuori controllo (la “Border Force” del primo ministro Elisabeth Borne che mira a “rendere sicure le nostre frontiere”, usare droni per pattugliare i sentieri di montagna; con un bilancio destinato alla sicurezza che prevede un aumento di 1,05 miliardi di euro nel bilancio del Ministero dell’Interno tra il 2022 e il 2023, secondo Le Monde).

    Vorremmo anche far notare ai giornalisti, ai rappresentanti eletti e a tutt* che questa frontiera produce e riproduce questo tipo di violenza 365 giorni all’anno e che, se da un lato è importante amplificare e pubblicizzare questi episodi di violenza conclamata, è anche fondamentale istituire centri di osservazione permanenti e strutture di supporto legale e politico direttamente sul posto.

    Gli agenti di polizia possono fare quello che vogliono anche quando sono sorvegliati, quindi sosteniamo gli sforzi di autodifesa collettiva.

    «Filmare la polizia, sostenere i gruppi locali di persone in movimento, prendere posizione contro il razzismo sistemico.»

    https://www.meltingpot.org/2023/08/agosto-2023-detenzioni-abusive-e-aggressioni-da-parte-della-polizia-in-c
    #détention_abusive #détention #mineurs #asile #migrations #réfugiés #frontières #frontière_sud-alpine #Alpes-Maritimes #Alpes #Italie #France #racisme #progetto20k #rapport #Vintimille #Menton #Ponte_San_Luigi #OQTF #obligation_de_quitter_le_territoire_français #violences_policières #impunité

  • La drammatica condizione dei migranti in arrivo a Trieste: “500 persone abbandonate in strada”

    I trasferimenti dei richiedenti asilo in arrivo nella città dalla rotta balcanica sono fermi, mentre gli arrivi aumentano (quasi 8mila tra gennaio e luglio). Crescono i casi di famiglie e i minori soli costretti a dormire all’addiaccio. Le istituzioni restano immobili, negando servizi di bassa soglia. La rete solidale cittadina fa il punto della situazione

    La situazione dei migranti a Trieste, principale punto di passaggio delle rotte balcaniche nel nostro Paese, è sempre più drammatica: a fine agosto sono quasi 500 i richiedenti asilo costretti a vivere all’addiaccio, mentre i trasferimenti si sono completamente azzerati. Lo evidenzia il nuovo rapporto stilato dalla rete solidale cittadina, network di realtà che operano nel capoluogo giuliano nel campo dell’accoglienza e dell’assistenza alle persone in transito e che comprende la Comunità di San Martino al Campo, il Consorzio italiano di solidarietà (Ics), la Diaconia valdese (Csd), Donk humanitarian medicine, International rescue committee Italia e l’associazione Linea d’Ombra.

    Il documento fa seguito al report “Vite abbandonate”, predisposto all’inizio dell’estate, che rendeva noti i dati raccolti dagli attivisti e dagli operatori nel corso del 2022. La necessità di un aggiornamento deriva dal grave inasprimento della situazione, ormai di estrema emergenza, dovuta alla carenza dei servizi a fronte di un’elevata richiesta di aiuto. Il numero di migranti a Trieste è in aumento -sono 7.890 gli arrivi dall’inizio di gennaio alla fine di luglio, contro i 3.191 dello stesso periodo dello scorso anno- con una presenza sempre maggiore di nuclei familiari, donne sole o con bambini e minori non accompagnati. Questi ultimi sono saliti dell’11% rispetto al 2022, con un’età in calo.

    Alcuni dei ragazzi incontrati dalle realtà autrici del report sono sotto i 14 anni e in alcuni casi ne hanno anche 10 o 11. Nel solo mese di luglio sono arrivate nel capoluogo giuliano 2.277 persone, il 20% delle quali non era ancora maggiorenne; solo in questo periodo sono giunte 55 famiglie, molte delle quali di provenienza curda.

    A questa impennata di presenze non è corrisposto affatto un incremento dei servizi di bassa soglia. Anzi, l’amministrazione comunale ha deciso di chiudere, a inizio luglio, il progetto “Emergenza freddo”, che garantiva una sessantina di posti letto in più per le persone vulnerabili costrette a vivere per strada. Per l’accoglienza temporanea dei nuclei familiari e delle donne sole, un grande lavoro è stato fatto dall’hotel Alabarda, struttura di proprietà del Comune gestita dalla Caritas; oggi, tuttavia, l’albergo si trova in una situazione di tale saturazione -dovuta anche all’aumento di minori stranieri non accompagnati- che risulta difficile trovare posto per nuove persone. “L’altro giorno c’era una famiglia curda con quattro bambini, di cui la più grande aveva sei anni e il più piccolo tre mesi -ha raccontato nella conferenza stampa del 24 agosto Gian Andrea Franchi di Linea d’Ombra-. Sono andato alla parrocchia più vicina, che risponde al sontuoso nome di ‘Santissimo cuore immacolato di Maria’, ho suonato, abbiamo parlato un po’ e mi hanno detto di andare alla Caritas, che però era chiusa. Alla fine un amico ha dato ospitalità a suo rischio a questo nucleo familiare”.

    Il rapporto evidenzia, così come il precedente, la mancanza strutturale di servizi di bassa soglia e “suggerisce” al Comune di Trieste di prendere atto della realtà in cui è inserito e del periodo storico che stiamo attraversando. La città, infatti, essendo il punto di ingresso su suolo italiano delle rotte balcaniche, dovrebbe prepararsi agli arrivi di persone migranti e intervenire aumentando l’assistenza e i posti letto disponibili. L’incremento nel numero di ingressi dipende in larghissima parte dalle condizioni di vita nei Paesi di partenza ed è quindi pressoché inevitabile. La maggiore responsabilità della situazione drammatica che si è delineata nel capoluogo giuliano, tuttavia, va ricercata nell’azzeramento totale dei trasferimenti verso altre Regioni; il rapporto mette infatti in evidenza lo strettissimo rapporto tra la quantità di spostamenti organizzati e il numero di richiedenti asilo segnalati senza accoglienza. Se a gennaio c’erano 132 trasferimenti e 313 persone rimaste in strada, ad agosto, con zero trasferimenti, i migranti costretti a vivere all’addiaccio sono 494. Di questi, almeno 74 sono in attesa di un posto nel sistema di accoglienza da più di tre mesi.

    “Nel momento in cui il ministero fa un programma, i richiedenti asilo devono essere considerati tutti uguali e devono essere tutti ricollocati -ha aggiunto Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) e tra le anime della rete RiVolti ai Balcani-. Ci dovrebbe essere una quota da ripartire per area di ingresso. A Trieste se prima questa quota era bassa e avevamo persone in strada, adesso siamo a zero. Questo territorio è completamente abbandonato, lo Stato è sparito. Per questa situazione catastrofica ci sono delle responsabilità su cui la magistratura dovrà indagare”. Come messo in luce dall’associazione Donk humanitarian medicine, chi vive in situazioni critiche di abbandono ha più probabilità di sviluppare patologie.

    Le persone che si ammalano, tuttavia, dopo esser state visitate dal pronto soccorso, tornano sulla strada, spesso a dormire nel silos accanto alla stazione, in un ambiente estremamente malsano e precario e certamente non adatto a un periodo di convalescenza o alla cura di una malattia. Gli operatori segnalano, inoltre, che da giugno si sono verificati alcuni episodi di violenza, dovuti all’arrivo di un gruppo di individui che parrebbe lavorare in rapporto con i passeur. La situazione di stallo che caratterizza la città è ormai nota anche alle persone in arrivo: rispetto all’anno scorso è aumentato il numero di coloro che dichiarano di non volersi fermare in zona per chiedere asilo (dal 59 al 72%). La maggior parte degli ingressi (77,1%) sono di cittadini provenienti dall’Afghanistan, che spesso preferiscono continuare il proprio viaggio. Chi invece tende a fare maggiori domande di asilo nell’area sono i cittadini pakistani, che rappresentano il 51,3% dei richiedenti asilo in attesa di accoglienza a Trieste. Lasciati lì.

    https://altreconomia.it/la-drammatica-condizione-dei-migranti-in-arrivo-a-trieste-500-persone-a

    #Trieste #asile #migrations #réfugiés #frontières #frontière_sud-alpine #Italie #Slovénie #SDF #sans-abris #hébergement #route_des_Balkans #Balkans #statistiques #chiffres #accueil #vulnérabilité

    • Aggiornamento sulla situazione dei migranti in arrivo dalla rotta balcanica – gennaio/luglio 2023

      Nella mattina di oggi, nell’ufficio di ICS, è stato presentato l’aggiornamento del report “Vite abbandonate”, comprendente i dati da gennaio a luglio 2023. È possibile scaricarlo cliccando qui: https://www.icsufficiorifugiati.org/wp-content/uploads/2023/08/PRESENTAZIONE-DATI-GIU-LUG-23-2.pdf. Di seguito potete leggere invece l’analisi dei dati contenuti nel report.

      Arrivi e vulnerabilità

      Durante le attività di monitoraggio svolte nell’area di Piazza Libertà e del Centro Diurno, mediatori e operatori hanno incontrato dall’inizio di gennaio alla fine di luglio 7890 persone provenienti dalla Rotta Balcanica. Un confronto con i dati pubblicati nel Report 2022 “Vite abbandonate”, indica che il totale nello stesso periodo considerato era stato di 3191. Una media di arrivi nel 2023 di 37 al giorno contro i 15 dell’anno precedente. Il 91,8% di essi è di sesso maschile, circa 4% femminile (sole, sole con figli o in famiglia) e il 4% bambini. I nuclei famigliari sono stati 120. Il 16% delle persone che attraversano la Rotta Balcanica che coinvolge Trieste è composta da Minori Stranieri Non Accompagnati, categoria di altissima vulnerabilità, in forte aumento rispetto l’anno precedente (11%). Riguardo la provenienza, è evidente un aumento della componente afghana (il 73% in questi mesi del 2023, nel 2022 erano il 54%), rispetto a un calo delle nazionalità pakistana (11% contro il 25% del 2022), bengalese (3,5 % contro 6%), stabili le percentuali nepalese (il 2%, tra loro un alto tasso di donne sole) e kurda turca (il 4%, nella loro totalità significano nuclei famigliari in transito verso altre destinazioni). La destinazione dichiarata continua ad essere l’estero. Le attività della rete confermano questo dato, incontrando persone che passano pochissime ore a Trieste prima di riprendere il viaggio verso altri paesi europei. Rispetto all’anno precedente infatti vi è un aumento netto delle persone che preferiscono questa opzione, ad oggi il 72% (nel 2022 erano il 59%). Va posta attenzione ai risultati del monitoraggio del mese di luglio: sono arrivate solo in questo periodo 2277 persone, il numero delle famiglie incontrate sono state 55 (su un totale 2023 di 120) e i Minori Stranieri Non Accompagnati addirittura il 21,5% del totale del mese. 270 persone (11,8% del mese) hanno dichiarato di voler fare domanda di asilo a Trieste, che sono andate ad aumentare le fila di chi già era sul territorio nei due mesi precedenti in attesa di entrare in accoglienza. È un dato importante, perché il mese di luglio ha significato la chiusura del progetto Emergenza Freddo del Comune, riducendo significativamente i posti in accoglienza a rotazione nei dormitori di bassa soglia della Comunità di San Martino e Caritas, fondamentali per venire incontro alle situazioni di emergenza e vulnerabilità che spesso le organizzazioni si trovano a dover affrontare quotidianamente, costringendo alla strada moltissime persone in stato di necessità. Una delle strutture più efficaci per intervenire in ottica di riduzione del danno come l’Hotel Alabarda che accoglie donne sole e famiglie, nelle ultime settimane si è trovata senza disponibilità di posti letto, generando un’emergenza che ancora perdura e rendendo impossibile l’accoglienza di questi casi fragili.

      Stato dei trasferimenti e delle accoglienze

      Il rallentamento delle procedure di trasferimento e ricollocazione dei richiedenti asilo in altre regioni italiane a cui abbiamo assistito nel 2022 è continuato anche nei primi mesi del 2023, con eccezione dei mesi di febbraio e marzo, ed è andato peggiorando fino ad arrivare ad un blocco pressoché totale nei mesi estivi – quelli in cui è prevedibile avere un incremento degli arrivi di richiedenti asilo.

      Dopo il mese di marzo che aveva notevolmente abbassato il numero di persone in strada e ridotto i tempi medi di attesa per l’ingresso nelle strutture di prima accoglienza, siamo dunque tornati in una situazione di forte emergenza, chiaramente creata artificialmente. Ciò si verifica non tanto per l’aumento dei flussi di arrivo, che hanno visto solo un piccolo incremento rispetto ai mesi precedenti, quanto invece all’ennesima paralisi nei trasferimenti. A ciò si è aggiunta la decisione della Prefettura di ridurre la capienza di uno dei centri di prima accoglienza, l’Ostello scout di Prosecco (con la conseguente chiusura di un’intera camerata), passata a 75 richiedenti asilo rispetto ai precedenti 95, che ha quindi costretto a limitare le accoglienze successive alle partenze.

      Nonostante la situazione di emergenza fosse totalmente prevedibile, nel corso del 2023 non è stato dato avvio ai lavori presso l’Ostello per la creazione di una nuova fognatura con l’installazione di moduli abitativi ma neppure vi sono state collocate in via provvisoria delle tende con relativi servizi igienici chimici. Tale scelta avrebbe potuto assicurare il raggiungimento di almeno 200 posti complessivi nella struttura, alleggerendo parzialmente la gravissima situazione di abbandono in strada dei richiedenti asilo.

      Di fronte al numero sempre più elevato di richiedenti asilo che si trovano in strada e al blocco dei trasferimenti nessuna misura di emergenza è stata adottata dalla Prefettura – Ufficio territoriale del Governo per mitigare la situazione. Tale quadro di generale inerzia ha colpito anche le situazioni più vulnerabili tra i richiedenti, quali persone traumatizzate, persone con patologie mediche evidenti, persone appena dimesse dalle strutture ospedaliere locali: tutte indistintamente sono state abbandonate in strada senza curarsi delle loro condizioni.

      L’esplosione nel 2022 del fenomeno delle persone richiedenti asilo abbandonate in strada, ha raggiunto nei mesi estivi del 2023 dei numeri ancora eccezionalmente elevati: al 22 agosto sono più di 494 richiedenti asilo che sono costretti a vivere per strada, con una permanenza all’addiaccio che arriva a più di 3 mesi per almeno 74 persone, prima di poter accedere al sistema di prima accoglienza previsto dalla legge.

      Di fronte a questo scenario, tristemente non inusuale, le organizzazioni della società civile impegnate a Trieste continuano in forma volontaria a dare supporto alle centinaia di persone abbandonate a loro stesse, a monitorare in maniera indipendente gli sviluppi, a rendere la Prefettura edotta della situazione in cui versano i richiedenti asilo privi di accoglienza, comunicando in maniera più circostanziata possibile il loro numero, i tempi di attesa e le situazioni più vulnerabili. Questo lavoro è stato svolto anche per mezzo di 10 segnalazioni formali inviate alla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Trieste dal Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS) tra gennaio e agosto 2023 via PEC; segnalazioni rimaste, purtroppo, senza risposta. Nel periodo menzionato sono state censite 1202 persone richiedenti asilo in stato di indigenza che non hanno avuto accesso tempestivo alle misure di accoglienza, in violazione di quanto previsto dalle normative vigenti (sono invece 2.068 le persone riportate nelle segnalazioni formali: con l’incremento dei tempi di attesa, infatti, molte persone sono state segnalate anche più volte prima di ricevere adeguate misure di accoglienza). L’ultima segnalazione, quella che meglio dipinge la situazione ormai fuori controllo, è quella del 22 agosto 2023. Alla Prefettura sono state fatte pervenire le generalità delle 494 persone fuori accoglienza, di cui 74 da maggio 2023, che avevano quindi raggiunto i 3 mesi di attesa.

      Raccomandazioni

      Come già evidenziato nel rapporto “Vite Abbandonate” è inderogabile ed urgente mettere in atto da parte delle pubbliche autorità le seguenti iniziative urgenti al fine di contenere una situazione che ha assunto il profilo di una vera emergenza umanitaria:

      1) La Prefettura di Trieste e il Ministero dell’Interno, nell’ambito delle rispettive competenze, devono immediatamente riprendere l’attuazione di un piano di sistematici trasferimenti dei richiedenti asilo dalle aree di confine tramite l’assegnazione di quote adeguate. La situazione di evidente difficoltà conseguente al netto incremento degli arrivi nel Mediterraneo può in parte giustificare il fatto che la quota assegnata a Trieste e al resto del FVG non sia del tutto adeguata ma in nessun caso si può giustificare la totale assenza di quote, come invece sta avvenendo da giugno 2023.

      Un’attenzione specifica va riservata alle situazioni maggiormente vulnerabili (famiglie con minori, donne sole, malati, persone vittime di traumi) alle quali in ogni caso va garantita una temporanea accoglienza in ogni caso, se necessario in mancanza di posti, attraverso la collocazione in strutture alberghiere.

      2) Il Comune di Trieste deve assumere piena conspaevolezza del fatto che la città, per la sua collocazione geografica quale terminale della rotta balcanica, si trova ad affrontare problematiche di intervento di “bassa soglia” più simili a quelle di un’area metropolitana che non a quelle di una città di media dimensione. In tale ottica è necessario implementare un Piano di intervento umanitario che sia attivo anche al di fuori del periodo invernale e che consenta di assicurare posti di accoglienza notturna presso il sistema dei dormitori a bassa soglia con alta turnazione per una capienza complessiva di almeno 100 posti letto giornalieri da destinare a tutte le persone in transito e ai richiedenti asilo nelle more del loro tempestivo passaggio al sistema di accoglienza loro dedicato previsto dalle normative vigenti. Tale Piano deve prevedere altresì un reale sostegno alle attività del Centro Diurno di via Udine quale luogo cruciale della prima assistenza umanitaria. Si sottolinea nuovamente come gli interventi di assistenza oggi realizzati presso il Centro Diurno di via Udine sono quasi interamente a carico delle associazioni di volontariato per ciò che riguarda i costi degli interventi e quello relativo al personale che gestisce la struttura, nonché la mediazione linguistica. Si tratta di una situazione insostenibile nel lungo periodo; qualora infatti, per mancanza di risorse, l’attività attuale presso il Centro Diurno dovesse cessare, la situazione umanitaria a Trieste diventerebbe immediatamente drammatica e di ciò le istituzioni devono essere consapevoli.

      3) La ASUGI (Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina) dovrebbe far fronte in maniera più attenta ai numerosi bisogni di cure mediche delle persone migranti, anche prive di documenti, superando il mero rinvio al pronto soccorso nei soli casi di estrema urgenza e provvedendo a un rifornimento costante e sistematico di medicinali nonché alla messa a disposizione di in servizio di mediazione culturale presso il Centro Diurno.

      https://www.icsufficiorifugiati.org/aggiornamento-sulla-situazione-dei-migranti-in-arrivo-dalla-rot
      #rapport #ICS #2023

    • Trieste. Invisibili sotto gli occhi di tutti (I parte)

      Pioggia torrenziale e vento a 120 km orari. Un trasferimento di 60 ragazzi

      Quello che, ormai da troppo tempo, sta succedendo nella città di Trieste, è gravissimo. Centinaia di persone in transito e richiedenti asilo nel più totale e vergognoso abbandono delle istituzioni. Una situazione che non ci stancheremo mai di denunciare.

      Questo è la testimonianza di Chiara Lauvergnac, un’attivista triestina, che pubblicheremo in più parti. Nel primo articolo si parla delle forti piogge di fine agosto.

      Il caldo torrido degli ultimi giorni si è sciolto sotto un temporale che pareva un uragano. La mattina del 28 agosto tutta la parte bassa della città, quella più vicina al mare, si è allagata. Lo scirocco ha raggiunto i 120 chilometri all’ora, cosa che non si era mai vista, facendo volare gli arredi dei caffè eleganti di Piazza Unità, mentre i cassonetti delle immondizie navigavano, trascinati dall’acqua.

      Anche il Silos, che è aperto alla pioggia e a tutti i venti, si è allagato. Gli effetti personali di ogni persona che è costretta a viverci si sono completamente inzuppati; tutti i vestiti, anche quelli che avevano addosso, coperte, documenti, tutto. Parecchie tende sono state sradicate dal vento, alcune danneggiate irreparabilmente, qualche baracca è stata scoperchiata. I generi alimentari, soprattutto farina e zucchero, sono andati perduti. Poi ha continuato a piovere per tutta la giornata, un susseguirsi di temporali con piogge torrenziali 1.

      Marianna Buttignoni, volontaria da 3 anni e membro del direttivo di Linea D’Ombra, spiega, «Immaginate un edificio diroccato, senza luce, acqua, infissi. Immaginate la mitica bora di Trieste, e ora pensate all’inverno. È tempo di aprire gli occhi sulla realtà e vedere che serve aprire un dormitorio. Noi possiamo portare le tende, le coperte, qualche indumento asciutto, ma manca un intervento di civiltà: la grande Trieste lascia i suoi ospiti nel fango e senza un cesso, per poi dire “si adeguino ai nostri costumi”. Guardate le foto: non pensate che per qualunque altra popolazione sarebbe già intervenuta la protezione civile?»

      In questo tempo infernale sono arrivati molti ragazzi dalla rotta balcanica, anche loro bagnati fino all’osso. La sera è arrivato un grosso gruppo di afghani (112 secondo i volontari) tra cui molti minori: c’è un ragazzino di 10 o 11 anni al massimo e un altro di 14 circa, altri più grandi, tra i 15 e i 17 anni. Tutti hanno i piedi a pezzi.

      Quando l’acqua entra nelle scarpe i piedi si macerano, la pelle assorbe l’acqua, si gonfia e diventa bianca, molle e piena di grinze, poi comincia a rompersi per la frizione prodotta dal camminare. Tre volontarie di Linea d’Ombra hanno curato i piedi feriti fino a dopo la mezzanotte, riparate alle meno peggio sotto la tettoia della stazione perché la piazza era sferzata dalla pioggia, il sottopassaggio pedonale allagato.

      La polizia ha costretto tutti ad uscire dalla stazione: «È solo per chi ha il biglietto, è il regolamento». Altri volontari sono arrivati con thé caldo cibo, vestiti asciutti, si è distribuito uno stock di vestiti troppo grandi, quelli di misura medio/piccola erano finiti, come erano finite tende e coperte. C’erano solamente coperte d’emergenza isotermiche, le cosiddette metalline, teli di plastica sottile color oro. Ne vanno pacchi interi. Si attende un carico di coperte vere che arriverà tra qualche giorno, ma non bastano mai. Anche se è ancora estate, con la pioggia e la temperatura che scende al di sotto dei 16 gradi il freddo è tagliente.

      Serata difficile. Diciamo arrivederci sotto la pioggia battente a un gruppo di ragazzi che il giorno successivo, il 29, verranno trasferiti. Sono venuti in tanti da Campo Sacro, una località vicina, dove dopo tre mesi o più nel Silos erano stati sistemati in una struttura d’accoglienza temporanea, dormendo 25 per camerone. Sono ritornati per salutarci. Certo, noi tutti vorremmo che ci fossero più trasferimenti e che questa situazione di abbandono delle persone lasciate in strada finisse, ma non possiamo sapere se e quando. non crediamo affatto che la situazione si risolverà.

      Per me questo è stato il trasferimento più doloroso. Vedendo i ragazzi ogni giorno, per mesi, finisce che ci si affeziona, con alcuni si instaurano vere amicizie. La partenza è una lacerazione, è lo strapparsi delle relazioni che si sono create. Noi siamo tristi, anche loro lo sono, alcuni ragazzi hanno pianto. Verranno tutti portati in Sardegna, un’isola troppo lontana. Non sappiamo come verranno sistemati, magari in qualche orribile mega CAS come quello di Monastir vicino a Cagliari, dove centinaia di persone sono ammassate in casermoni isolati, il cibo è scadente, non c’è adeguata assistenza medica, e non c’è niente da fare, non ci sono lezioni di italiano, né supporto legale, né supporto di alcun genere.

      Questo trasferimento è il primo dal 13 luglio, e riguarda solamente 60 persone. I richiedenti asilo fuori struttura a Trieste sono ormai più di 550.

      «Non servono interventi spot. Va attuato un piano ordinario di redistribuzione settimanale dei richiedenti asilo da Trieste verso il resto del territorio nazionale, nel rispetto delle leggi vigenti, con una quota di almeno 100 trasferimenti a settimana». Questo è il sunto del comunicato stampa diffuso da ICS (Consorzio italiano di solidarietà).

      Gli arrivi continuano a ritmo serrato, solo il giorno delle forti piogge, il 28 agosto, come dicevamo, sono arrivate 112 persone. La maggior parte di loro proseguono verso la Francia, la Germania o il Belgio, ma quasi il 30% presentano la domanda d’asilo e restano qui. Gli edifici fatiscenti del Silos hanno già molti nuovi abitanti che non conosciamo ancora. I ragazzi continuano ad arrivare in piena notte, fradici, con occhi enormi per la stanchezza e sguardi cupi di tristezza e di paura. Non sanno dove sono arrivati, né come riusciranno a cavarsela. Per loro è un tale sollievo trovare qualcuno che si prende cura di loro, lo sguardo cambia, riprendono coraggio, ricominciano a sorridere. Il miracolo della solidarietà.

      La mattina dopo vado al Silos per distribuire bustine di thé, zucchero e biscotti. Voglio vedere come stanno, con questo freddo e questa pioggia si ammalano. Stanno benino e stanno asciugando la loro roba e le loro coperte, è venuto un po’ di sole che purtroppo non durerà, è prevista ancora pioggia. Ci sono anche alcuni degli afghani arrivati ieri, compresi i due minori più piccoli: si sono appena svegliati, hanno dormito malgrado la pioggia, senza tenda, per terra su coperte bagnate abbandonate da altri passati prima di loro.

      Dopo un incontro tra Linea d’Ombra e il vescovo di Trieste, 22 persone verranno ospitate da una parrocchia, scelte tra le più vulnerabili. Gli altri, centinaia, rimangono in strada, attendendo una soluzione.

      In queste ore arriva la notizia di un altro trasferimento previsto per martedì prossimo, il 3 settembre. La destinazione è sempre la Sardegna.

      https://www.meltingpot.org/2023/09/trieste-invisibili-sotto-gli-occhi-di-tutti-i-parte

  • En #Arabie_Saoudite, les #gardes-frontières auraient abattu des « centaines » de #migrants_éthiopiens

    L’ONG Human Rights Watch dévoile ce lundi 21 août un rapport selon lequel des migrants éthiopiens ont été tués par les gardes-frontières saoudiens alors qu’ils tentaient d’entrer dans le pays en passant par le #Yémen. Ces meurtres pourraient constituer un crime contre l’humanité.

    Un massacre « à l’abri du regard du reste du monde ». Les gardes-frontières saoudiens ont tué depuis l’an dernier des « centaines » de migrants éthiopiens qui tentaient de pénétrer dans la riche monarchie du Golfe passant par sa frontière avec le Yémen, a dénoncé ce lundi 21 août l’ONG Human Rights Watch (HRW). « Les autorités saoudiennes tuent des centaines de migrants et de demandeurs d’asile dans cette zone frontalière reculée », a déclaré dans un communiqué Nadia Hardman, spécialiste des migrations à HRW.

    Des centaines de milliers d’Ethiopiens travaillent en Arabie Saoudite, empruntant parfois la « route de l’Est » reliant la Corne de l’Afrique au Golfe, en passant par le Yémen, pays pauvre et en guerre depuis plus de huit ans. Le #meurtre « généralisé et systématique » des migrants éthiopiens pourrait même constituer un #crime_contre_l’humanité, estime l’ONG. « Nous parlons d’un minimum de 655 personnes, mais il est probable qu’il s’agisse de milliers », a déclaré Nadia Hardman à la BBC. « Ce que nous avons documenté, ce sont essentiellement des massacres, a-t-elle ajouté. Les gens ont décrit des sites qui ressemblent à des champs d’extermination avec des corps éparpillés sur les flancs des collines ».

    Ryad accusé de « détourner l’attention » de « ces crimes horribles »

    Les « milliards dépensés » dans le sport et le divertissement « pour améliorer l’image de l’Arabie Saoudite » ne devraient pas détourner l’attention de « ces crimes horribles », a-t-elle fustigé. Les ONG accusent régulièrement Ryad d’investir dans les grands événements sportifs et culturels pour « détourner l’attention » des graves violations des droits humains et la crise humanitaire au Yémen où l’armée saoudienne est impliquée.

    L’année dernière, des experts de l’ONU avaient déjà fait état d’« allégations préoccupantes » selon lesquelles « des tirs d’artillerie transfrontaliers et des tirs d’armes légères par les forces de sécurité saoudiennes ont tué environ 430 migrants »dans le sud de l’Arabie Saoudite et le nord du Yémen durant les quatre premiers mois de 2022. Le nord du Yémen est largement contrôlé par les #Houthis, des rebelles que les Saoudiens combattent depuis 2015 en soutien aux forces pro-gouvernementales.

    Entretiens et images satellites

    Pour en arriver à de telles conclusions, Human Right Watch s’appuie sur des entretiens avec 38 migrants éthiopiens ayant tenté de passer en Arabie Saoudite depuis le Yémen, des images satellite et des vidéos et photos publiées sur les réseaux sociaux « ou recueillies auprès d’autres sources ». Les personnes interrogées ont parlé d’« armes explosives » et de tirs à bout portant, les gardes-frontières saoudiens demandant aux Ethiopiens « sur quelle partie de leur corps ils préféreraient que l’on tire ».

    Ces migrants racontent des scènes d’horreur : « Femmes, hommes et enfants éparpillés dans le paysage montagneux, gravement blessés, démembrés ou déjà morts », relate HRW. « Ils nous tiraient dessus, c’était comme une pluie (de balles) », témoigne une femme de 20 ans, originaire de la région éthiopienne d’Oromia, citée par l’ONG. « J’ai vu un homme appeler à l’aide, il avait perdu ses deux jambes », mais, raconte-t-elle, « on n’a pas pu l’aider parce qu’on courrait pour sauver nos propres vies ».

    Auprès de la BBC, plusieurs personnes qui ont tenté de passer la frontière en pleine nuit racontent les scènes d’horreurs. « Les tirs n’ont pas cessé, témoigne Mustafa Soufia Mohammed âgé 21 ans. Je n’ai même pas remarqué qu’on m’avait tiré dessus. Mais lorsque j’ai essayé de me lever et de marcher, une partie de ma jambe m’a échappé ». La jambe de Mustafa a ensuite dû être amputée sous le genou l’obligeant aujourd’hui à marcher avec des béquilles et une prothèse mal ajustée. Zahra [le prénom a été modifié par le média britannique] a, elle, eu tous les doigts d’une main arrachée à cause d’une pluie de balles.

    D’après l’Organisation internationale pour les migrations des Nations unies, plus de 200 000 personnes tentent chaque année ce voyage périlleux qui traverse la mer la #Corne_de_l’Afrique jusqu’au Yémen, pour atteindre l’Arabie saoudite. HRW appelle Ryad à « cesser immédiatement » le recours à la force meurtrière contre des migrants et demandeurs d’asile, exhortant l’ONU à enquêter sur ces allégations.

    AFP / Libération / https://www.liberation.fr/international/moyen-orient/en-arabie-saoudite-les-gardes-frontieres-auraient-abattu-des-centaines-de

    VIDEO. https://www.youtube.com/watch?v=f90vwqCYU1c&t=4s

    FR. https://www.hrw.org/fr/news/2023/08/21/arabie-saoudite-massacres-de-migrants-la-frontiere-du-yemen

    EN. https://www.hrw.org/news/2023/08/21/saudi-arabia-mass-killings-migrants-yemen-border

    AR. https://www.hrw.org/ar/news/2023/08/21/saudi-arabia-mass-killings-migrants-yemen-border

    #massacre #migrations #réfugiés #frontières #rapport #HRW

  • #Rapport d’activités 2022 de l’association #Framasoft
    https://framablog.org/2023/08/16/rapport-dactivites-2022-de-lassociation-framasoft

    Oui : c’est à la mi-août 2023 que nous publions notre rapport d’activités 2022. Il faut dire qu’avec près d’une centaine de pages, c’est un sacré pavé ! À la mi-août, c’est tellement plus romantique… Notre #Association mène, contribue ou échange avec … Lire la suite­­

    #Communaute

  • Carbon cash machine

    As the world burns, shareholders are getting record cash pay outs from their fossil fuel investments. Cash earnings made by shareholders in the UK’s two largest oil companies BP and Shell are now triple the amount they were when the Paris Agreement was signed in December 2015.

    This is the headline finding of our new report written and researched in collaboration with Corporate Watch.

    The report uses a unique analysis of financial data to calculate the combined earnings of shareholders derived from dividend pay outs and share buybacks.

    We found that shareholders in BP and Shell have earned a total of £131 billion in dividends and share buybacks combined since the Paris Agreement was signed. And this is just the value of cash earnings; the value of their shares has risen significantly in this period.

    In the same period, the top 8 shareholders have significantly expanded their holdings in BP and Shell; those 8 companies alone have raked in a total of £28.7bn in cash earnings from both BP and Shell. The report analyses the environmental and social strategies of those top eight shareholders in BP and Shell and raises major questions about the failure of fossil fuel divestment strategies and market solutions to climate change.

    Those shareholders are not likely to be influenced by campaigners demanding divestment since they all use passive investment strategies. Passive investing is the strategy of buying and holding stocks and based on sector and market benchmarks, such as stock market indices such as Dow Jones, S&P 500 or Nasdaq. Passive investment strategies therefore involve fewer judgement calls and are more automated, making them less responsible to non-financial considerations.

    Asset management firms deploying passive investment strategies have ensured that the tidal wave of fossil fuel investment has not abated, despite growing demands for divestment. While some investors have decreased their shareholding in Shell and BP since 2016, a large majority have retained or increased their stakes in the two companies.

    The report concludes that we will not be able to stem the flow of oil unless we stem the flow of cash to rich investors. The report therefore raises fundamental questions about the limits facing divestment campaigns. While investment and divestment patterns will be explored in more detail in a follow-up report next month, the analysis we present here demonstrates that a move away from fossil fuels at a pace necessary to abate climate change is simply not possible while power is becoming even more concentrated in the hands of asset managers.

    https://ccccjustice.org/2023/08/08/carbon-cash-machine

    Pour télécharger le #rapport :
    https://ccccjustice.org/wp-content/uploads/2023/08/Carbon-Cash-Machine.pdf

    #énergies_fossiles #investissement #pétrole #combustibles_fossiles #énergie_fossile #BP #Shell #profits #dividendes #business

  • Ventimiglia: persone bloccate e respinte alla frontiera franco-italiana

    #Vietato_Passare – La sfida quotidiana delle persone in transito respinte e bloccate alla frontiera franco-italiana” è il titolo del nostro nuovo rapporto pubblicato oggi sulle condizioni di centinaia di persone migranti in transito nella città di Ventimiglia, che cercano ogni giorno di attraversare il confine italo-francese e raggiungere altri paesi europei.

    Adulti e bambini sistematicamente respinti dalla polizia francese – talvolta con violenza, trattamenti inumani e privazione temporanea della libertà personale – e lasciati senza un’adeguata assistenza sul territorio italiano.

    Vietato passare in Francia

    Tra i 320 pazienti visitati tra febbraio e giugno 2023 durante le nostre attività di clinica mobile e le 684 persone in transito che hanno partecipato ad attività di promozione della salute e orientamento ai servizi socio-sanitari, il 79,8% ha dichiarato di aver tentato più di una volta di raggiungere la Francia e di essere stato respinto.

    Persone che dopo aver lasciato il loro paese di origine per sfuggire a violenze, morte, soprusi e povertà e dopo aver affrontato viaggi estremamente pericolosi, si ritrovano nuovamente esposte a violenze, umiliazioni e abusi nel cuore dell’Unione Europea.

    Molte delle persone in transito che abbiamo incontrato e assistito, hanno raccontato di violazioni da parte delle autorità francesi durante le procedure di notifica del refus d’entré (rifiuto d’ingresso), menzionando ad esempio trascrizioni imprecise dei dati personali, la fornitura imparziale o insufficiente di informazioni da parte delle autorità o l’assenza di mediatori interculturali.

    Tra loro ci sono anche persone vulnerabili, come minori non accompagnati, donne incinte o con bambini, anziani e individui con patologie mediche. Più di un terzo dei 48 minori non accompagnati ha riferito di essere stato respinto, mentre diverse persone hanno raccontato di essere state detenute arbitrariamente dalla polizia francese e trattenute in container durante la notte, in condizioni di promiscuità e senza alcuna protezione specifica per donne e minori.

    Secondo quanto riferito al nostro team, nelle notti trascorse nei container non sempre sono stati forniti cibo e acqua, l’assistenza medica è stata spesso negata, i servizi igienici ritenuti inadeguati e le persone sono state costrette a dormire a terra in spazi ridotti e spesso sovraffollati.

    Inoltre, solo nella prima metà dell’anno, abbiamo registrato almeno quattro casi di separazione familiare durante i respingimenti.

    Assistenza inadeguata sul territorio italiano

    Sul territorio di Ventimiglia, d’altro canto, le persone in transito hanno un accesso estremamente limitato ad alloggi adeguati, all’assistenza sanitaria, all’acqua potabile o ai servizi igienici, con conseguenze dirette sulle loro condizioni di salute.

    Tra i 320 pazienti che abbiamo assistito da febbraio a giugno, 215 persone hanno riportato problemi dermatologici, infezioni respiratorie e gastrointestinali, ferite e dolori articolari – condizioni causate o aggravate dalla vita in strada – mentre 14 soffrivano di malattie croniche come diabete e malattie cardiovascolari con necessità di terapia continuativa e a lungo termine.

    Nonostante siano stati recentemente aperti due nuovi PAD (Punto Assistenza Diffusa) dove i migranti più vulnerabili respinti dalla Francia possono trovare riparo per la notte, decine di persone in transito sono ancora costrette a dormire in strada o in accampamenti di fortuna. Due dei quattro PAD promessi dalle autorità locali non sono ancora operativi e i servizi essenziali come alloggi, assistenza sanitaria e legale vengono forniti dalle associazioni locali e dalla società civile.

    https://www.youtube.com/watch?v=QoMbUmD8yuM&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.medicisenzafron

    https://www.medicisenzafrontiere.it/news-e-storie/news/ventimiglia-assistenza-migranti

    #Vintimille #asile #migrations #réfugiés #frontières #push-backs #refoulements #accès_aux_soins #rapport #MSF #Medici_senza_frontiere #frontière_sud-alpine #Alpes

    • “Vietato passare”: il report di Msf sui soprusi contro i migranti alla frontiera franco-italiana

      Bloccati e respinti dalla polizia francese -con violenza, trattamenti inumani e temporanea privazione della libertà-, centinaia di uomini, donne, bambini, persone vulnerabili si ritrovano a Ventimiglia senza un riparo adeguato e con un accesso limitato all’assistenza sanitaria. Il rapporto di Medici Senza Frontiere

      “Siamo stati fermati ieri a Nizza dalla polizia. Mia moglie è incinta. È stata portata in ospedale perché è svenuta mentre la ammanettavano. Io e mio figlio di due anni siamo stati condotti alla stazione di polizia di frontiera di Mentone. Abbiamo passato la notte al freddo e questa mattina siamo stati respinti e portati in Italia, ma non abbiamo notizie di mia moglie. Mio figlio piange, vuole la sua mamma e io non posso contattarla perché non ha il telefono”.

      La testimonianza di questa famiglia originaria della Costa d’Avorio è solo una delle storie di soprusi che si verificano quotidianamente al confine italo-francese di Ventimiglia (IM) e raccolte da Medici Senza Frontiere (Msf) nel nuovo report intitolato “Vietato passare” e pubblicato a inizio agosto 2023.

      “Vediamo persone estremamente vulnerabili che vengono respinte dalla polizia francese in maniera indiscriminata, senza che le loro specifiche condizioni individuali vengano adeguatamente valutate, per poi ritrovarsi sul territorio italiano senza un’adeguata assistenza da parte delle istituzioni”, spiega Sergio Di Dato, coordinatore del progetto di Msf nella cittadina ligure. “Molte delle persone in transito incontrate e assistite da Msf, hanno raccontato di violazioni da parte delle autorità francesi durante le procedure di notifica del refus d’entré (rifiuto d’ingresso), menzionando ad esempio trascrizioni imprecise dei dati personali, la fornitura imparziale o insufficiente di informazioni da parte delle autorità o l’assenza di mediatori interculturali”.

      Il rapporto si basa sui dati raccolti durante l’attività medica dell’équipe di Msf tra febbraio e giugno 2023 a cui si aggiungono 14 interviste semistrutturate con pazienti e membri del personale sanitario. Proprio all’inizio del 2023 l’organizzazione, già presente sul territorio di confine ligure nel 2016, ha deciso di tornare con il proprio staff in risposta al crescente numero di persone bloccate al confine.

      Delle 320 persone assistite la maggioranza proviene da Costa d’Avorio (28,1%), Guinea (27,5%) e Camerun (4,9%) ed è arrivata a Ventimiglia principalmente da Lampedusa (82,2%) e Trieste (5,3%). L’età media dei pazienti è di 23 anni con il gruppo più numeroso compreso tra i 16 e i 20: il 21% del totale, infatti, si è dichiarato minorenne al momento della visita. Oltre un terzo delle persone incontrate (37%) è donna.

      “Entrambi i miei genitori sono morti -racconta una di queste, originaria della Guinea-. Sono rimasta con mia zia che mi ha detto che era arrivato il momento di sposarmi. Avevo 15 anni. Non conoscevo l’uomo che avrei sposato; fu lei a trovarlo. Non ho scelto di sposarmi. L’uomo che è diventato mio marito ha iniziato a picchiarmi, ogni giorno. Era sempre violento con me. Sono finita in ospedale molte volte. Non avevo nessuno che mi proteggesse da lui. Sono passati quattro anni e ne porto ancora le cicatrici sul corpo […]. Ho deciso di andarmene per allontanarmi da quella vita”. Una storia di violenza non isolata. Quasi una persona su due di quelle visitate era infatti portatrice di “bisogni specifici e di estrema vulnerabilità a causa di caratteristiche o vissuti personali particolarmente complessi, correlati al genere, all’etnia, all’orientamento sessuale, alle convinzioni politiche o religiose e alle violazioni subite nei loro Paesi d’origine”.

      Il 38,8% ha impiegato più di un anno per raggiungere l’Italia, per alcuni il percorso è durato oltre cinque anni. Ma il “sogno europeo” sbatte contro l’ennesima frontiera sigillata.

      Su un campione di un migliaio di persone intercettate da Msf, l’80% ha dichiarato di aver già tentato di attraversare il confine tra Italia e Francia; il 25% riportava di essere stato respinto più di una volta “affrontando innumerevoli difficoltà ed esponendosi a rischi sempre maggiori fino a compromettere, a volte, la propria incolumità”, scrive Msf. E questo vale anche per le donne in gravidanza o che stanno allattando, per le persone anziane o gravemente malate e per i minori non accompagnati. Un terzo di quelli incontrati da Msf era stato respinto al confine, “tra cui due sopravvissuti a violenze e naufragi e una madre di 16 anni con un neonato”.

      Emblematica è la storia di A., 17 anni, originario di un Paese dell’Africa subsahariana. In Libia è stato rinchiuso in un centro di detenzione dove ha subito violenze e maltrattamenti di ogni tipo “che gli hanno lasciato cicatrici ancora visibili sulla schiena e un dolore cronico al ginocchio”. Ha deciso di raggiungere la Tunisia ma dopo i rastrellamenti operati dal presidente Kaïs Saïed ai danni delle persone migranti, ha deciso di partire per l’Europa.

      A 35 chilometri da Lampedusa un’imbarcazione, “probabilmente tunisina”, li ha abbordati pretendendo il loro motore. Li ha affiancati sempre di più, minacciandoli con toni aggressivi e creando forti onde che hanno fatto imbarcare acqua al piccolo natante, che alla fine è affondato. Nonostante le grida, le suppliche e le richieste di soccorso, l’altra nave ha abbandonato i passeggeri della barca di A. al loro destino. Lui, è tra i 22 tratti in salvo. “Da Lampedusa A. è arrivato a Ventimiglia. Vuole raggiungere la Francia perché parla francese e pensa che lì potrebbe avere più possibilità per costruirsi un futuro -si legge nel rapporto-. Tuttavia, è stato respinto due volte dalle autorità francesi, anche se è vittima di naufragio, ha subito innumerevoli violenze, si dichiara minore e non è accompagnato”.

      La condizione sanitaria delle persone incontrate dagli operatori presenti a Ventimiglia è pessima. “Tra le persone assistite, 215 pazienti (67,2%) hanno riportato una condizione acuta, tra cui malattie dermatologiche, patologie respiratorie, disturbi gastrointestinali, problemi muscoloscheletrici o lesioni -si legge nel report-. In totale, sono stati segnalati 31 episodi di traumi accidentali acuti, di cui il 90,3% (28) tra la popolazione di sesso maschile e tre (9,7%) tra i minori. Inoltre, 32 individui (10%) hanno presentato sintomi neurologici, la maggior parte dei quali riconducibili a mal di testa o emicrania (25, 78,1%), e per 14 persone (4,4%) sono state individuate patologie croniche con necessità di terapia continuativa e a lungo termine”.

      Sono stati raccolti dati anche rispetto alle vittime di violenza intenzionale (in totale 12, il 3,8%) e alle persone che presentavano sintomi associati a problemi di salute mentale (15, ovvero il 4,7%). Ma su queste stime gli operatori sottolineano la “difficoltà di stabilire relazioni di fiducia con pazienti transitanti che sono concentrati sul proseguimento del loro viaggio, sulla ricerca di sicurezza o sul soddisfacimento dei bisogni primari”.

      Anche la soddisfazione dei bisogni primari a Ventimiglia è un miraggio. “Con la chiusura del campo Roja nel 2020, che rappresentava l’unico centro ufficiale di accoglienza di emergenza nella zona, e gli sgomberi forzati effettuati nel maggio 2023 dalle autorità italiane presso l’insediamento informale sulle rive del fiume Roja -si legge nel rapporto- le persone in transito si trovano costrette a dormire per strada, in edifici abbandonati o in ripari di fortuna. Questa situazione le espone a marginalizzazione, soprusi, condizioni climatiche avverse, rischi per la salute privandole dell’accesso a servizi igienici, all’acqua pulita o a un riparo adeguato”.

      Molti bisogni restano, così, senza risposta. E lo staff di Msf che fornisce assistenza medica a Ventimiglia “misura quotidianamente” l’impatto della mancanza di alloggi e servizi igienici: “Malattie della pelle (48 persone; il 15,8%), infezioni gastrointestinali (25, il 18,2%), infezioni urinarie e del tratto respiratorio superiore (35, l’11,5%) sono solo alcuni dei disturbi che spesso derivano direttamente dalle pessime condizioni di vita e di marginalizzazione sociale in cui è costretta a vivere la popolazione in transito”.

      E di cui soffrono soprattutto donne e minori, i più vulnerabili. L’accesso alle cure per chi dichiara di avere meno di 18 anni è complesso: per richiedere la tessera sanitaria è necessario coinvolgere chi esercita la potestà genitoriale o il responsabile della struttura di accoglienza in cui sono ospitati i minori. Struttura da cui però, nella maggior parte dei casi, è scappato chi arriva a Ventimiglia desideroso di raggiungere altri Paesi europei. Anche per le donne e ragazze, “che presentano bisogni e rischi sanitari specifiche” l’accesso alle cure mediche ginecologiche è difficoltoso. “Sia perché sono riluttanti a interrompere il loro percorso migratorio, sia perché hanno sfiducia nei confronti del sistema sanitario”, spiegano i curatori del report. “Tutto questo si traduce in un’interruzione della continuità delle cure mediche e in un aumento dei rischi di complicazioni e morbilità durante la gravidanza”.

      Salute calpestata, diritti negati. Chi è respinto al confine è spesso vittima di violenza e detenzione arbitraria nei container in cui le persone, una volta intercettate, aspettano di essere riportate sul territorio italiano. Secondo i dati raccolti da Msf dalla prefettura di Nizza, più di 13.395 persone tra il primo gennaio e il 15 giugno 2023 sono state soggette a “respingimenti o trattenimenti al confine italo-francese, con un aumento del 30% rispetto all’anno precedente”. Una media di 80 persone al giorno costrette a tornare indietro, tra cui sempre più minori.

      Le raccomandazioni di Msf che chiudono il report sono così rivolte ai tre principali protagonisti di questa paradossale situazione: alle autorità di Ventimiglia e al governo italiano di garantire l’accesso ai servizi di base e un’accoglienza dignitosa per le persone che transitano dal confine; alle autorità francesi di assicurare il rispetto delle garanzie procedurali durante i controlli di frontiera al confine italo-francese, proteggere i minori e porre fine alla detenzione arbitraria dei migranti. Infine, all’Unione europea, di “impedire i respingimenti alle frontiere interne” e “impedire le espulsioni collettive dagli Stati membri e stabilire meccanismi per valutare le situazioni individuali delle persone in transito”. Per provare a salvare quel che resta di quello spazio Schengen dove, a oggi, le merci attraversano più facilmente i confini di (alcune) persone.

      https://altreconomia.it/vietato-passare-il-report-di-msf-sui-soprusi-contro-i-migranti-alla-fro

  • North Africa a ’testing ground’ for EU surveillance technology

    The EU is outsourcing controversial surveillance technologies to countries in North Africa and the Sahel region with no human rights impact assessments, reports say.

    Controversial surveillance technologies are being outsourced by the European Union to countries in North Africa and the Sahel region with no transparency or regulation, according to two new reports.

    Funding, equipment and training is funnelled to third countries via aid packages, where autocratic governments use the equipment and techniques to surveil the local population.

    Beyond the borders of Europe, the movements of asylum seekers are being policed and eventually used to assess their asylum applications.

    Antonella Napolitano, author of a report for human rights group EuroMed Rights, told Middle East Eye that the implementation of these projects is opaque and lacks proper consideration for the rights of civilians and the protection of their data.

    “There aren’t enough safeguards in those countries. There aren’t data protection laws,” Napolitano said. “I think the paradox here is that border externalisation means furthering instability [in these countries].”

    The complex web of funding projects and the diversity of actors who implement them make the trails of money difficult to track.

    “This enables states to carry out operations with much less transparency, accountability or regulation than would be required of the EU or any EU government,” Napolitano told MEE.

    The deployment of experimental technologies on the border is also largely unregulated.

    While the EU has identified AI regulation as a priority, its Artificial Intelligence Act does not contain any stringent provision for the use of the technologies for border control.

    “It’s creating a two-tiered system,” Napolitano told MEE. “People on the move outside the EU don’t have the same rights by design.”
    Asylum claims

    The surveillance of migrants on the move outside of Europe is also brought to bear back inside Europe.

    A Privacy International report published in May found that five companies were operating GPS tagging of asylum seekers for Britain’s Home Office.

    “It’s been massively expanded in the past couple of years,” Lucie Audibert, legal officer at Privacy International, told MEE.

    Other, less tangible forms of surveillance are also deployed to monitor asylum seekers. “We know, for example, that the Home Office uses social media a lot… to assess the veracity of people’s claims in their immigration applications,” Audibert told MEE.

    According to the reports, surveillance equipment and training is supplied by the EU to third countries under the guise of development aid packages.

    These include the EU Emergency Trust Fund for Africa (EUTF for Africa) and now the Neighbourhood, Development and International Cooperation Instrument.

    The reports cite multiple instances of how these funding instruments served to bolster law enforcement agencies in Algeria, Egypt, Libya and Tunisia, furnishing them with equipment and training that they then used against the local population.

    The EUTF for Africa allocated 15 million euros ($16.5m USD) in funding to these countries to train up a group of “cyber specialists” in online surveillance and data extraction from smart devices.

    A Privacy International investigation into the role of CEPOL, the EU law enforcement training agency, revealed that it had supplied internet surveillance training to members of Algeria’s police force.

    The investigation highlights a potential connection between these tactics, which contravened the EU’s own policies on disinformation, and the wave of online disinformation and censorship driven by pro-regime fake accounts in the aftermath of the 2019 Hirak protests in Algeria.
    A dangerous trend

    For journalist Matthias Monroy, the major development in border surveillance came after the so-called migration crisis of 2015, which fuelled the development of the border surveillance industrial complex.

    Prior to that, Europe’s border agency, Frontex, was wholly dependent on member states to source equipment. But after 2015, the agency could acquire its own.

    “The first thing they did: they published tenders for aircraft, first manned and then unmanned. And both tenders are in the hands of private operators,” Monroy told MEE.

    Frontex’s drones are now manned by the British company Airbus. “The Airbus crew detected the Crotone boat,” Monroy told MEE, referring to a shipwreck off the coast of Crotone, Italy, in February.

    “But everybody said Frontex spotted the boat. No, it was Airbus. It’s very difficult to trace the responsibility, so if this surveillance is given to private operators, who is responsible?”

    Almost 100 people died in the wreck.

    Since 2015, with the expansion of the border surveillance industrial complex, its digitisation and control has been concentrated increasingly in the hands of private actors.

    “I would see this as a trend and I would say it is very dangerous,” Monroy said.

    https://www.middleeasteye.net/news/eu-north-africa-surveillance-technology-testing-ground

    #surveillance #technologie #test #Afrique_du_Nord #Sahel #asile #migrations #réfugiés #frontières #intelligence_artificielle #IA #EU_Emergency_Trust_Fund_for_Africa (#EUTF_for_Africa) #développement #Emergency_Trust_Fund #Algérie #Egypte #Tunisie #Libye #complexe_militaro-industriel #contrôles_frontaliers #Frontex #Airbus #drones #privatisation

    ping @_kg_

    • The (human) cost of Artificial Intelligence and Surveillance technology in migration

      The ethical cost of Artificial Intelligence tools has triggered heated debates in the last few months. From chatbots to image generation software, advocates and detractors have been debating the technological pros and societal cons of the new technology.

      In two new reports, Europe’s Techno-Borders and Artificial Intelligence: The New Frontier of the EU’s Border Externalisation Strategy, EuroMed Rights, Statewatch and independent researcher Antonella Napolitano have investigated the human and financial costs of AI in migration. The reports show how the deployment of AI to manage migration flows actively contribute to the instability of the Middle East and North African region as well as discriminatory border procedures, threatening the right to asylum, the right to leave one’s country, the principle of non-refoulement as well as the rights to privacy and liberty.

      European borders and neighbouring countries have been the stage of decades-long efforts to militarise and securitise the control of migration. Huge sums of public money have been invested to deploy security and defence tools and equipment to curb arrivals towards the EU territory, both via externalisation policies in countries in the Middle East and North Africa and at the EU’s borders themselves. In this strategy of “muscling-up” the borders, technology has played a crucial role.

      EuroMed Rights’ new reports highlight how over the decades, surveillance technology has become a central asset in the EU’s migration policies with serious impacts on fundamental rights and privacy. In Artificial Intelligence: The New Frontier of the EU’s Border Externalisation Strategy we analyse how surveillance technology has been a crucial part of the European policy of externalisation of migration control. When surveillance technologies are deployed with the purpose of anti-smuggling, trafficking or counterterrorism in countries where democracies are fragile or there are authoritarian governments, they can easily end up being used for the repression of civic space and freedom of expression. What is being sold as tools to curb migrant flows, could actually be used to reinforce the security apparatus of repressive governments and fuel instability in the region.

      At the same time, Europe’s Techno-Borders highlights how this security obsession has been applied to the EU’s borders for decades, equipping them with ever-more advanced technologies. This architecture for border surveillance has been continuously expanding in an attempt to detect, deter and repel refugees and migrants. For those who manage to enter, they are biometrically registered and screened against large-scale databases, raising serious concerns on privacy violations, data protection breaches and questions of proportionality.

      Decades of “muscling-up” the EU’s borders keep showing the same thing: military, security, defence tools or technology do not stop migration, they only make it more dangerous and lethal. Nonetheless, the security and surveillance apparatus is only expected to increase: more and more money is being invested to research and develop new tech tools to curb migration, including through Artificial Intelligence.

      In a context that is resistant to public scrutiny and accountability, and where the private military and security sector has a vested interest in expanding the surveillance architecture, it is crucial to keep monitoring and denouncing the use of these technologies, in the struggle for a humane migration policy that puts the right of people on the move at the centre!

      Read our reports here:

      - Artificial Intelligence: the new frontier of the EU’s border externalisation strategy: https://euromedrights.org/wp-content/uploads/2023/07/Euromed_AI-Migration-Report_EN-1.pdf
      - Europe’s Techno-Borders: https://euromedrights.org/wp-content/uploads/2023/07/EuroMed-Rights_Statewatch_Europe-techno-borders_EN-1.pdf

      https://euromedrights.org/publication/the-human-cost-of-artificial-intelligence-and-surveillance-technology
      #rapport #EuroMed_rights

  • Une version mise à jour de la brochure « L’oppression des femmes... » - La Hutte des Classes
    http://www.lahuttedesclasses.net/2023/07/une-version-mise-jour-de-la-brochure.html

    Le texte de ma brochure « L’#oppression_des_femmes... » n’avait pas été révisé depuis 2016. Je viens de procéder à un petit toilettage, avec quelques modifications cosmétiques mais surtout l’ajout d’une partie qui lui faisait défaut, sur la manière dont on peut reconstituer le passé à partir des indices disponibles. La brochure a ainsi grossi de deux ou trois pages, mais elle reste un moyen rapide de prendre connaissance du raisonnement que je défends, et qui est exposé avec beaucoup plus de détails dans mon #Communisme_primitif.

    Et tant que j’y étais, j’en ai profité pour donner un petit coups de peps à la maquette. #marxisme

    C’est donc cette version 2023 qui est dorénavant téléchargeable sur ce blog en version pdf ou en version epub (avec une mise en page aléatoire), au moins dans sa version française - la mise à jour des traductions se fera peu à peu.

    Et, pour information, je recopie ici la partie qui a été rajoutée (en omettant les quelques références en notes de bas de page) :

    Remonter le temps…

    Les faits qui viennent d’être présentés concernent uniquement des sociétés sur lesquelles nous disposons d’observations directes, et qui étaient donc encore vivantes dans les derniers siècles. Dans quelle mesure peut-on considérer qu’ils donnent une image fidèle du passé, comme si ces sociétés étaient en quelque sorte restées figées à un stade antérieur ? C’est précisément cette démarche qu’appliquaient #Morgan et Engels, en supposant de surcroît que le cas iroquois était généralisable et qu’il représentait le modèle universel de « l’économie communiste domestique » typique de la « Barbarie inférieure ». Mais il est clair que les choses ne sont pas aussi simples, d’autant plus que l’ethnologie a montré que sur une même base technique et économique, certains #rapports_sociaux sont susceptibles de varier considérablement – c’est le cas de ceux qui prévalent entre les sexes. Inversement, il serait absurde de rejeter par principe tout raisonnement par analogie entre les sociétés observées en ethnologie et celles qui ont pu exister dans le passé. On ne peut donc qu’adopter une attitude prudente, en s’efforçant de cerner au plus près quels sont les éléments que l’on peut extrapoler, et avec quelle confiance.

    En ce qui concerne la domination masculine, répétons-le, sa présence, à des degrés divers, dans une très grande majorité de ces sociétés remet clairement en cause l’idée selon laquelle elle serait incompatible avec l’égalitarisme économique et qu’elle serait nécessairement apparue tardivement, avec l’émergence des classes sociales. Mais si l’on peut donc affirmer que cette domination pouvait fort bien exister dans le passé néolithique ou paléolithique, il est beaucoup plus difficile de démontrer formellement que tel était bien le cas. Trois arguments plaident néanmoins en ce sens.

    Le premier est que si l’on rejette l’idée que la domination masculine plonge ses racines loin dans le passé, il faut expliquer quand et pourquoi elle serait apparue dans ces sociétés un peu partout sur la planète, à une époque nécessairement récente et par conséquent de manière indépendante. Pour ne parler que des chasseurs-cueilleurs, à quelle période et pour quelles raisons les hommes se seraient-ils mis à dominer les femmes chez les Inuits, en Terre de Feu, en Australie, etc. alors qu’ils ne le faisaient pas il y a quelques millénaires ? Personne ne s’est aventuré à répondre à cette question, et pour cause : une telle réponse, quelle qu’elle soit, nécessiterait des hypothèses très lourdes et hasardeuses – bien plus, en tout cas, que d’admettre tout simplement que les mêmes causes produisant les mêmes effets, la domination masculine, dans ses mille nuances, existait déjà dans la plupart des sociétés préhistoriques depuis des temps très reculés.

    Le second argument concerne la division sexuée du travail qui, comme on le verra dans la partie suivante, constitue une dimension fondamentale de l’inégalité des rapports entre les sexes. Sous certaines conditions, cette division sexuée du travail peut imprimer sa marque sur les corps des individus et être identifiée par les traces archéologiques. Pour le #Néolithique, toutes les études confirment son existence et sa conformité avec les observations ethnologiques – en particulier, l’association étroite entre les hommes et les armes. Le #Paléolithique, malheureusement, est beaucoup plus avare en vestiges. Les sépultures sont très rares et les squelettes souvent en mauvais état, ce qui fait qu’il est très difficile d’avoir des certitudes. Le seul indice disponible, récemment découvert, révèle une marque sur certains coudes droits d’individus masculins – et d’eux seuls – qui serait compatible avec la répétition du geste du lancer et dont la plus ancienne remonte à 25 000 ans. Ajoutons sur ce point que même si ces dernières années, les annonces tonitruantes à propos de femmes chasseuses se sont multipliées, l’écho donné à ces travaux est inversement proportionnel à leur solidité ; c’est notamment le cas d’une étude emblématique publiée en 2020 à propos d’un squelette péruvien en particulier et de l’Amérique paléolithique en général. En fait, au-delà de tel ou tel cas archéologique, c’est aujourd’hui l’idée d’une absence de division sexuée du travail au Paléolithique qui fascine les milieux progressistes, comme si cette idée constituait en quoi que ce soit un appui pour les aspirations féministes actuelles.

    Enfin, ces dernières années, une troisième catégorie d’indices a été apportée par le renouveau des approches dans l’étude des mythes. Certains chercheurs ont en effet appliqué à leurs éléments constitutifs (les « mythèmes ») les méthodes forgées pour reconstituer l’arbre généalogique des espèces vivantes à partir de leur ADN. Les arbres que l’on peut bâtir ainsi pour les mythes s’avèrent remarquablement cohérents avec ce que l’on sait des migrations humaines. Ils permettent de situer l’époque et le lieu de la naissance de certains récits ; par exemple, celui selon lequel l’humanité est apparue sur Terre en émergeant d’un monde souterrain, ou celui qui raconte comment elle fut jadis presque entièrement exterminée par un déluge. En ce qui concerne les rapports hommes-femmes, un ensemble de mythes font état d’un matriarcat primitif qui mena au chaos et qui fut renversé, instaurant et justifiant ainsi l’ordre actuel du monde, dirigé par les hommes. Si de tels récits ne permettent nullement de conclure à la réalité de ces matriarcats révolus dont ils font état, ils sont en revanche les indicateurs fiables d’une domination masculine dans les sociétés qui les racontent et qui les transmettent. Or la reconstitution opérée par les chercheurs montre que de tels narratifs remontent probablement au moins à l’époque où sapiens est sorti d’Afrique, il y a plus de 60 000 ans.

    La domination masculine – avec toutes ses variations locales – constitue donc probablement un phénomène extrêmement ancien, bien qu’il soit très difficile de se prononcer de manière plus précise sur cette ancienneté. Au demeurant, rien ne permet d’exclure la possibilité qu’elle plonge ses racines dans la biologie et que l’humanité en ait hérité de la branche des primates de laquelle elle descend : nos cousins chimpanzés robustes, à la différence de nos autres cousins chimpanzés bonobo, sont marqués par une domination des mâles très prononcée. Est-il besoin de préciser que même si cette hypothèse était avérée, le programme féministe n’en serait nullement affaibli ? #Homo_sapiens se caractérise par son évolution culturelle, c’est-à-dire par sa capacité à produire des formes d’#organisation_sociale (et des valeurs morales) indépendantes de son héritage biologique. Dans un autre ordre d’idées, si les marxistes œuvrent pour la réorganisation de la société humaine sur une base collectiviste et internationaliste, c’est parce qu’ils la considèrent comme une nécessité eu égard au développement économique et social, et non parce qu’elle correspondrait à on ne sait quelle nature humaine. Il en va exactement de même pour les rapports entre les sexes.

    Quoi qu’il en soit, et de manière symétrique, l’idée avancée par #Bachofen et reprise par #Engels d’une « défaite historique du sexe féminin » qui serait intervenue à l’aube de la formation des classes sociales et de l’Etat apparaît très discutable, pour au moins deux raisons. La première est que la #domination_masculine, comme on l’a vu, a été observée dans des sociétés encore très éloignées de ce stade, et qu’elle était donc manifestement d’ores et déjà présente bien avant lui. La seconde est qu’il n’est pas si certain que la situation des femmes se soit systématiquement dégradée avec l’apparition de la richesse, puis des classes sociales. Une telle dégradation, en tout cas, est loin de se dégager clairement de l’examen des données disponibles. Dans certains cas, comme en Nouvelle-Guinée, le mouvement semble même inverse : c’est dans les sociétés les plus égalitaires sur le plan économique (comme celle des Baruya) que les #femmes sont les plus directement et les plus cruellement opprimées par les hommes. Quant aux évolutions défavorables aux femmes qui seraient intervenues avec l’émergence de la « civilisation », elles sont probablement moins dues à l’approfondissement des inégalités économiques en général qu’à un ensemble de facteurs dont, par exemple, l’introduction de la culture attelée. Dans l’Antiquité, les rapports entre les sexes variaient ainsi significativement d’un État à l’autre et, pour autant qu’on puisse le savoir, la situation des femmes égyptiennes paraît avoir été beaucoup moins défavorable que celles des Grecques, des Romaines ou des Chinoises.

  • Le rapport d’enquête parlementaire confirme qu’Emmanuel Macron a favorisé Uber
    https://www.radiofrance.fr/franceinter/le-rapport-d-enquete-parlementaire-confirme-qu-emmanuel-macron-a-favoris

    Cette proximité entre Emmanuel Macron et Uber semble avant tout relever d’une vision commune de ce que devait être une société moderne, et une conviction partagée que la règlementation des taxis devait être réformée. Car la commission n’a pas été en mesure de mettre en évidence une éventuelle contrepartie au “deal” négocié avec Uber. Elle relève cependant qu’après cela, Mark MacGann alors qu’il travaillait encore à mi-temps comme lobbyiste pour le compte d’Uber, a donné de l’argent au candidat Macron et a participé à une levée de fonds pour le compte d’En Marche.

    Il lui a aussi proposé de le mettre en relation avec Jim Messina, l’ex-directeur de campagne de Barack Obama, ainsi que d’autres entrepreneurs de la Silicon Valley. Des échanges de SMS montrent encore que le candidat Macron a invité à dîner Thibaud Simphal, le directeur général d’Uber France, pour lui proposer de financer sa campagne.

  • Uber Files : le rapport de la commission d’enquête accable Macron et sa « volonté de protéger les plateformes » | Chez Pol / Libé | 18.07.23

    https://www.liberation.fr/politique/uber-files-le-rapport-de-la-commission-denquete-accable-macron-et-sa-volo

    Rapporteure = Simonnet, c’est du LFI donc poubelle, j’imagine.

    Le président de la commission d’enquête, le député Renaissance Benjamin Haddad, n’a pas répondu à nos sollicitations. Mais il ne partage évidemment pas les conclusions du rapport et l’avant-propos qu’il a rédigé devrait être le reflet de cette opposition.

    Pour les détails :

    Six mois après le lancement de la commission d’enquête parlementaire sur les Uber Files, sa rapporteure (LFI) Danielle Simonnet présente ce mardi 18 juillet son rapport et ses conclusions. Un rapport adopté dans le dissensus la semaine dernière, par 12 voix pour (Nupes, Liot et RN) et 11 abstentions (majorité et LR). 67 auditions et 120 personnes entendues plus tard, la commission confirme d’abord les révélations de presse initiales, à savoir la relation personnelle et étroite entre Emmanuel Macron (alors ministre de l’Economie) et les dirigeants d’Uber et son implication active dans l’installation de la firme américaine en France.

    Danielle Simonnet écrit ainsi : « Uber a trouvé des alliés au plus haut niveau de l’Etat, à commencer par M. Macron, en tant que ministre de l’Economie puis en tant que président de la République. La confidentialité et l’intensité des contacts entre Uber, M. Macron et son cabinet témoignent d’une relation opaque mais privilégiée, et révèlent toute l’incapacité de notre système pour mesurer et prévenir l’influence des intérêts privés sur la décision publique. Du “deal” caché secrètement négocié avec Uber, contre les orientations privilégiées par le gouvernement d’alors et sans même que les acteurs de l’époque ne puissent s’en rendre compte, à l’influence occulte jouée sur un certain nombre d’amendements à la loi ou de textes réglementaires, M. Macron aura été un soutien précieux pour Uber et la question de savoir quelles contreparties il a pu obtenir demeure ouverte. » Contreparties supposées que la commission d’enquête n’a pas pu déterminer.

    Alors que le développement du service UberPop, en 2014-2015 quand Emmanuel Macron était ministre de l’Economie, se faisait de manière illégale, c’est « grâce à un lobbying agressif auprès des décideurs publics que l’entreprise américaine est parvenue à concurrencer de manière déloyale la profession réglementée des taxis », accuse encore le rapport de l’élue insoumise de Paris, qui assène : « En exploitant toutes les failles possibles pour refuser d’appliquer la réglementation relative au transport public particulier de personnes, en rejetant toutes les règles du droit du travail et toutes ses obligations en tant qu’employeur, et en s’exonérant de payer en France les impôts et cotisations sociales dont elle était redevable, Uber a tenté d’imposer un état de fait à l’Etat de droit. […] Comment des décideurs publics ont-ils pu laisser une entreprise multinationale refusant de s’acquitter de ses obligations légales s’imposer sur un secteur réglementé par l’Etat ? »

    Auprès de Chez Pol, la députée LFI précise toutefois que ces conclusions n’entraînent aucune « conséquence judiciaire » pour le chef de l’Etat, les membres de son cabinet de l’époque à Bercy ou ses collègues (Premiers) ministres d’alors. « On était avant la loi Sapin 2 [sur la transparence et contre la corruption, ndlr]. Les pratiques mises au jour sont choquantes d’un point de vue démocratique, car on sent l’impunité des élus à travailler en toute opacité, mais on n’est pas dans le cadre de la légalité. »

  • Study: A legal vacuum - the systematic criminalisation of migrants for driving a boat or car to Greece

    The fight against migrant smuggling has been a top priority of European migration policy since 2015, with a vast amount of resources being invested into this policy goal. This study gives new and in-depth insights about the criminalisation of people on the move for “smuggling” in Greece, analysing the current legal framework as well as its practical enforcement. It shows that instead of protecting the rights of smuggled migrants and asylum seekers, these policies criminalise them and expose them to long prison sentences with the accusation of smuggling, all simply for having crossed the border by boat or car.

    This is made possible both by the legal framework set up in Greece and the EU, which is formulated very broadly, and further reinforced by an implementation that is characterised by gross rights violations such as arbitrary arrests, torture, abuse, coercion, and lack of access to legal support and interpretation.

    Individuals are typically arrested immediately upon arrival, held in pre-trial detention for months, and have very limited options to defend themselves and access support. The trials that tackle these accusations are very short and flout basic standards of fairness.

    The report examines a total of 81 trials of 95 people who were arrested and tried in Greece for smuggling in eight different locations, namely in Komotini, Thessaloniki, Rhodes, Samos, Lesvos, Crete, Syros and Kalamata. The findings are alarming:

    Main findings

    - Arresting boat / car drivers or other individuals on board for the offence of smuggling is a routine practice by law enforcement, with little regard for the actual involvement or intention of the accused;

    – Smuggled people themselves, including asylum seekers, are systematically convicted of smuggling because they (allegedly) drove or assisted in driving the boat or car;

    – At least 1374 people were arrested for smuggling in 2022;

    – Arrests and preliminary investigations are riddled with gross human rights violations; including arbitrary arrests, violence and coercion, little to no access to interpretation or legal support as well as problems in accessing the asylum procedure during detention;

    – 84% of the cases are subjected to pre-trial detention, lasting an average of 8 months. As of February 28, 2023 there are 634 people in pre-trial detention for smuggling.

    – Judgements are issued on the basis of limited and questionable evidence, such as the testimony of a single police or coast guard officer; the police or coast guard officers who provided the testimony on which the indictments were based did not appear in 68% of all documented cases to be cross-examined;

    – On average, trials last for 37 minutes, which drops to 17 minutes in trials with state-appointed lawyers; the shortest trial we documented lasted 6 minutes;

    – Trials lead to an average prison sentence of 46 years and a fine of 332.209 Euros;

    - 52% of all convicted people are serving a prison sentence of 15 years to life;

    - As of February 28, 2023 there are 2154 people who are detained in Greek prisons with the accusation of smuggling (which remains the second largest group per crime); nearly 90% of them are third-country nationals (1897).

    https://www.borderline-europe.de/unsere-arbeit/studie-ein-rechtsfreier-raum-die-systematische-kriminalisierung-vo

    #criminalisation #asile #migrations #réfugiés #Grèce #scafisti #rapport #passeurs #trafiquants #emprisonnement #Borderline_Europe #Boderline-Europe

  • Subprimes, brevets médicaux, algorithmes… Comment le monde de la finance impose sa loi
    https://www.telerama.fr/debats-reportages/subprimes-brevets-medicaux-algorithmes-comment-le-monde-de-la-finance-impos

    Une interview éclairante sur la manière dont le capital écrit les lois qui arrangent le capital.

    Partout dans le monde, des avocats tordent le droit au profit de leurs clients. En accaparant le bien commun, ils sapent la démocratie, alerte Katharina Pistor, juriste et professeure à Colombia, à New York.

    « Le codage juridique est le processus par lequel des avocats ou des intermédiaires financiers prennent n’importe quels produits financiers et les légalisent. » Illustration Timothée Moreau
    Par Olivier Pascal-Moussellard
    Réservé aux abonnés
    Publié le 07 mai 2023 à 10h05

    On connaît l’adage : les hommes naissent libres et égaux… mais certains sont plus égaux que d’autres. Qui sont ces « plus égaux » ? Les avocats des grands cabinets de droit des affaires anglo-saxons et les intermédiaires financiers, affirme Katharina Pistor, professeure de droit comparé à l’université Columbia, à New York. Dans un essai rigoureux, accessible et accablant, Le Code du capital, elle raconte comment les marionnettistes du droit privé, libres d’élaborer eux-mêmes le code juridique du capital, provoquent l’envol insensé des inégalités. Ce « codage » — c’est-à-dire les règles de droit privé — du capital n’est pas nouveau, rappelle l’autrice : commencé dès le XVIe siècle en Angleterre, avec l’accaparement des terres communes (les fameuses enclosures) par des propriétaires fonciers, il s’est ensuite poursuivi avec le codage juridique des entreprises, de la dette, de la connaissance et même de la nature. Avec, à chaque fois, un même objectif : accroître les possibilités d’accumuler des richesses en inventant de nouveaux contrats et instruments financiers flirtant avec l’illégalité… avant de les faire valider par la loi ! Une mécanique conçue dans l’intérêt exclusif de riches acteurs privés, qui accentue considérablement les inégalités, abîme la démocratie et transforme tribunaux publics et responsables politiques en simples observateurs d’un quasi-racket à l’échelle mondiale.

    Que signifie « coder le capital » ?
    Le codage juridique est le processus par lequel des avocats ou des intermédiaires financiers prennent n’importe quels produits financiers, y compris les plus douteux, et les « légalisent ». Très ouvertes, ambiguës et hautement modulables, les structures juridiques de droit privé leur offrent, en effet, une grande liberté pour le faire. Même la propriété privée laisse une marge d’interprétation dans sa définition ! Ils profitent donc de ces zones grises pour « élargir » le champ du capital en exploitant les lacunes de la loi et autres frictions entre systèmes juridiques concurrents, et proposent à leurs clients de nouveaux produits situés aux limites de la loi.

    Ce flirt avec l’illégalité est possible parce que le droit privé est fabriqué par les avocats eux-mêmes…
    C’est un point essentiel. Et nous ne pouvons pas totalement éviter ce paradoxe. Les systèmes juridiques les plus largement appliqués sur notre planète s’inspirent en effet de la common law des droits anglais et américain, qui favorise les acteurs privés au détriment du droit public, des juges et des régulateurs, contrairement aux droits civils adoptés en France et en Allemagne. Évoluer dans un paysage économique dynamique et fluide est évidemment plus facile si l’on peut adapter les règles de manière décentralisée, et c’est ce que font ces avocats en jouant avec les limites. En théorie, le législateur pourrait surveiller leurs activités et dire « Vous allez trop loin », mais l’essentiel des innovations étant écrit dans l’entre-soi des cabinets privés, le législateur ne découvre ces produits que lorsqu’une crise éclate !

    La pression exercée par les banques pour déréglementer ne faiblit jamais. Et le législateur les écoute !
    Les marchés ne pourraient pourtant pas fonctionner sans l’État.
    Ils ont effectivement besoin de la loi quand les choses tournent mal, pour garantir, par exemple, le droit de propriété ou le droit des contrats. Mais comment obtenir ces garanties sur l’ensemble de la planète, alors qu’il n’existe pas d’État mondial unifié ? Tout simplement en permettant aux entreprises de choisir elles-mêmes les juridictions dont elles veulent dépendre, c’est-à-dire celles qui leur sont les plus favorables — en l’occurrence, le droit anglais et le barreau de New York. Cette règle sur mesure a été acceptée par quasiment tous les pays. Si vous êtes impliqués dans un litige à l’autre bout de la planète mais que vous avez opté pour la common law anglaise, le droit privé britannique sera appliqué et devra être accepté par les tribunaux locaux. C’est ce qu’on appelle la « portabilité » du droit.

    Que le droit privé favorise les plus puissants, ce n’est pas nouveau…
    On découvre, en effet, cette façon d’opérer dès le mouvement des « enclosures » — ou « enclavement » — en Angleterre, aux XVIe et XVIIe siècles. À l’époque, il n’existait pas de droit immobilier et la majorité des terres étaient communes. Certains propriétaires fonciers les ont accaparées de force avant d’exiger des tribunaux qu’ils reconnaissent leur droit de propriété et légalisent ainsi leur forfait. Ils ont gagné la guerre sur le terrain juridique et mis fin aux communaux.

    Katharina Pistor. Illustration Timothée Moreau
    Le codage juridique n’est-il pas, au fond, une façon pour des privilégiés de s’offrir une forme de couverture multirisque ?
    Le droit privé n’a cessé, au fil des siècles, de créer des mécanismes juridiques limitant la responsabilité des mieux lotis lorsque les choses tournaient mal. C’était vrai avec l’accaparement des terres. C’est aussi vrai quand l’entreprise « moderne » est apparue au XIXe siècle et que ses actionnaires ont bénéficié d’un véritable privilège légal : en cas de faillite, ils pouvaient perdre l’argent dépensé pour acheter leurs actions, mais pas davantage, quand bien même l’entreprise s’était endettée. Cette règle pouvait faire sens dans un système qui souhaite favoriser l’industrialisation du pays en incitant les petits épargnants à investir leur argent sans risquer leur patrimoine personnel. Mais elle continue de profiter à des banques et investisseurs privés qui font courir des risques énormes à la collectivité : seuls bénéficiaires de leurs paris financiers tant que tout va bien, ils transmettent le fardeau à l’ensemble de la société quand les choses déraillent.

    La même responsabilité limitée est d’ailleurs accordée aux propriétaires d’actions de sociétés pétrolières ou gazières, qui s’enrichissent sur la pollution de notre environnement — une pollution dont la collectivité tout entière devra payer les conséquences. Cette irresponsabilité n’est plus tenable : nous devons repenser l’ensemble du « code » juridique.

    Seuls maîtres du « code », les intermédiaires financiers se sont même assurés d’être toujours les premiers indemnisés…
    Avec le système des « Safe Harbors » que ces cabinets d’avocats ont mis en place, certains bénéficient, en effet, de protections supplémentaires par rapport à l’investisseur lambda. Normalement, quand un débiteur fait faillite et devient insolvable, je ne peux pas exécuter les créances que j’ai contre lui, je dois attendre les décisions du tribunal qui examinera toutes les demandes, établira une liste des priorités puis distribuera à chacun sa part. Mais le secteur financier a réussi à convaincre le législateur que, si vous faisiez cela avec ce qu’on appelle les produits dérivés (type subprimes), l’ensemble du marché risquait de s’effondrer, mettant l’économie à l’arrêt : il faut absolument que les échanges se poursuivent… en permettant aux gros investisseurs de récupérer en premier l’argent des débiteurs insolvables ! En 2008, lorsque Lehman Brothers a coulé, ceux qui possédaient un Safe Harbor ont ainsi sauvé une partie de leur mise, voire la totalité, quand les autres essuyaient des pertes sèches. Vous pensez que le législateur aura retenu la leçon ? Pas du tout, rien n’a changé. Sans doute parce que beaucoup de ces « élites » ont été formées dans les mêmes écoles et partagent une même façon de penser. Parfois aussi, le législateur et le pouvoir exécutif ne comprennent tout simplement rien au fonctionnement, il est vrai complexe, des produits mis sur le marché…

    Après le codage juridique de la terre et des sociétés, il y a eu celui de la connaissance et même de la nature.
    Aux États-Unis, la Cour suprême considère que, chaque fois que l’ingéniosité humaine est à l’origine d’une innovation, il faut accorder un droit de propriété intellectuelle à ses auteurs. Mais où tracer la limite ? Il y a un siècle, les juges considéraient par exemple que les lois de la nature ne pouvaient pas être brevetées, mais ils se sont ravisés, pour autant, ont-ils expliqué, que certaines conditions soient réunies. C’est ce qu’il s’est passé avec le BRCA, le gène responsable du cancer du sein. Des scientifiques financés par des fonds publics ont été les premiers à l’identifier, mais il fallait encore déterminer la séquence précise responsable du cancer. Une rude compétition s’est engagée entre un consortium public et une entreprise privée, et, cette dernière l’ayant emporté, elle s’est immédiatement adressée au bureau des brevets pour exiger que ses droits de propriété intellectuelle soient protégés. Avec succès : du jour au lendemain, des milliers de médecins et d’hôpitaux ont été forcés d’utiliser son test de dépistage, qui est passé entre-temps de 100 dollars… à 3 000 ! Près de vingt ans — et quelques dizaines d’actions en justice — plus tard, la Cour suprême a fait marche arrière. Cela n’a pas empêché l’entreprise concernée de faire fortune et de disposer de toutes les données des patientes testées, sur lesquelles elle continue de gagner beaucoup d’argent. A-t-on franchi les limites ? Selon moi, coder juridiquement la nature revient à exploiter à titre privé une partie du patrimoine commun de l’humanité. Le danger que certains brevets de ce type soient de nouveau attribués ne peut pas être totalement écarté.

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    Et la même chose se produit avec les données personnelles…
    Facebook et d’autres ont déclaré que l’aspiration, le nettoyage et l’organisation de nos données grâce à leurs algorithmes engageaient à la fois du travail et de l’innovation, deux critères clés pour obtenir un brevet. Elles avaient donc un droit de propriété sur nos données « retouchées ». L’idée reste la même qu’à l’époque des enclosures : profiter d’une zone grise où personne ne sait qui possède les droits, s’emparer de la ressource et attendre avec une armée d’avocats que quelqu’un vienne contester cette appropriation…

    Le droit public semble vraiment mal armé pour lutter.
    Il n’est pas assez puissant et beaucoup trop lent. Mais tenter de réguler le système capitaliste en faisant intervenir le droit public ne peut être qu’une solution temporaire. La question est d’abord politique, et la pression des banques pour déréglementer — sous prétexte de rester compétitives sur un marché mondial toujours plus concurrentiel — ne faiblit jamais. Le problème est que le législateur les écoute ! Aux États-Unis, les politiciens font grosso modo ce que le secteur financier exige. Et vous aurez beau voter pour que le système change, le système reste en place, ce qui explique en partie l’émergence du populisme. Beaucoup de gens ont en effet le sentiment d’avoir perdu le contrôle de leur avenir, au profit des plus puissants et de leurs bataillons d’avocats ! Ne croyant plus dans la capacité des institutions à corriger les excès, ils se tournent vers des hommes forts. On peut critiquer leur choix mais leur instinct est juste, et nous devons réfléchir ensemble à la manière de reprendre le contrôle sur ce système.

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    Comment le capitalisme a fait du livre une marchandise comme une autre
    Comment ?
    Ceux qui se rebellent sont souvent décrits comme des radicaux, mais privatiser l’eau et la santé, breveter la nature sans se soucier de pollution, n’est-ce pas radical ? Nous devons nous réveiller et faire quelque chose pour remédier à cette brutalité imposée par codages juridiques successifs. Il est dans la structure même du système capitaliste de ne pas changer spontanément. Lui confier la responsabilité de trouver des solutions à des problèmes comme le réchauffement climatique est donc une aberration. C’est la logique du droit privé, son modus operandi, qui doit être modifiée : il faut lui imposer l’idée qu’il n’y a pas de droits sans responsabilités, et que ceux qui jouent avec les limites seront tenus responsables des dommages qu’ils ont causés.

    Katharina Pistor en quelques dates
    1963 Naissance à Fribourg- en-Brisgau (Allemagne).
    2001 Enseigne à l’université de Columbia, à New York.
    2012 Colauréate du prix de recherche Max-Planck.
    2019 The Code of Capital dans la liste des meilleurs livres de l’année du Financial Times.
    Le Code du capital. Comment la loi fabrique la richesse capitaliste et les inégalités, traduit de l’anglais (États-Unis) par Baptiste Mylondo, éd. Seuil, 372 p., 24,50 €.

    #Loi #Droit #Capital #rapports_de_force #Avocats #Multinationales

  • On sait mieux où va la France - Jean-François Bayart, Le Temps
    https://www.letemps.ch/opinions/on-sait-mieux-ou-va-la-france

    Reprenons les faits. La France brûle. Pour un homme qui se faisait fort de l’apaiser et clignait de l’œil à la #banlieue lors de sa première campagne électorale, le constat est amer. Il vient après le mouvement des Gilets jaunes et une succession de mouvements sociaux de grande intensité. Tout cela était prévisible et fut prévu, comme était attendu l’embrasement des #quartiers_populaires, tant était connue la colère sociale qui y couvait. Tellement redouté, même, qu’Emmanuel Macron, Elisabeth Borne et Gérald Darmanin ont immédiatement compris la gravité et le caractère inacceptable de l’#exécution_extra-judiciaire de Nahel – le mot est fort, j’en conviens, mais de quoi s’agit-il d’autre au vu de la vidéo ?
    Les paroles d’apaisement furent vaines. Car la mort de Nahel, loin d’être une simple bavure, était programmée. Elle est la conséquence mécanique de la démission du pouvoir politique, depuis trente ans, sous la pression corporatiste de la #police qui n’a cessé de s’affranchir des règles de l’Etat de droit bien que lui ait été concédée, de gouvernement en gouvernement, une kyrielle de lois liberticides, jamais suffisantes, sous couvert de lutte contre le terrorisme, l’immigration et la délinquance. Jusqu’à la réécriture de l’article 435-1 du Code de la sécurité intérieure, en 2017, qui assouplit les conditions d’emploi des armes à feu par les forces de l’ordre. Annoncé, le résultat ne se fit pas attendre. Le nombre des tués par la police a doublé depuis 2020 par rapport aux années 2010. Le plus souvent pour « refus d’obtempérer à un ordre d’arrêt » :5 fois plus de tirs mortels dans ces circonstances. Nahel est mort de cette modification du Code de la sécurité intérieure.
    Et l’avocat du policier meurtrier de justifier son client : Nahel n’obtempérait pas et il n’y avait pas d’autre moyen de l’arrêter que de tirer. A-t-on besoin d’un avocat pour entendre une insanité pareille alors qu’il suffit de tirer dans les roues ? On se croirait à Moscou ou Minsk, où des hommes politiques promettent à Prigojine une « balle dans la tête ». Aux yeux de certains, le refus d’obtempérer semble désormais passible de la peine de mort. Une grammaire s’installe, qui brutalise les rapports sociaux, et dont on voudrait faire porter la responsabilité à l’« ultragauche », aux « éco-terroristes », à La France insoumise, alors qu’elle émane d’abord de certains médias et des pouvoirs publics, sous influence de l’extrême droite.

    Nils Wilcke @paul_denton
    https://twitter.com/paul_denton/status/1675117088661286915

    Macron n’a pas activé l’état d’urgence suite aux violences après la mort de Nahel : « En réalité, l’exécutif a à sa disposition un tel arsenal de lois répressif depuis 2015 qu’il n’est presque plus nécessaire d’y avoir recours », observe un conseiller. Vu comme ça... #Off

    #Nahel #racisme #révolte #émeutes #média #extrême_droite

    • Le texte complet:

      Où va la France ? demandai-je le 8 mai, dans Le Temps. Aujourd’hui, on le sait mieux. Vers l’#explosion_sociale, vers son inévitable #répression_policière puisque la fermeture des canaux démocratiques contraint la #protestation à la #violence_émeutière, et vers l’instauration d’un régime paresseusement qualifié d’« illibéral » (c’est le sociologue du politique qui écrit, peu convaincu par cette notion valise qui pourtant fait florès).

      Reprenons les faits. La France brûle. Pour un homme qui se faisait fort de l’apaiser et clignait de l’œil à la #banlieue lors de sa première campagne électorale, le constat est amer. Il vient après le mouvement des Gilets jaunes et une succession de mouvements sociaux de grande intensité. Tout cela était prévisible et fut prévu, comme était attendu l’#embrasement des #quartiers_populaires, tant était connue la #colère_sociale qui y couvait. Tellement redouté, même, qu’Emmanuel Macron, Elisabeth Borne et Gérald Darmanin ont immédiatement compris la gravité et le caractère inacceptable de l’#exécution_extra-judiciaire de #Nahel – le mot est fort, j’en conviens, mais de quoi s’agit-il d’autre au vu de la vidéo ?

      Les paroles d’#apaisement furent vaines. Car la mort de Nahel, loin d’être une simple #bavure, était programmée. Elle est la conséquence mécanique de la #démission du #pouvoir_politique, depuis trente ans, sous la pression corporatiste de la #police qui n’a cessé de s’affranchir des règles de l’#Etat_de_droit bien que lui ait été concédée, de gouvernement en gouvernement, une kyrielle de lois liberticides, jamais suffisantes, sous couvert de lutte contre le #terrorisme, l’#immigration et la #délinquance. Jusqu’à la réécriture de l’article #435-1 du #Code_de_la_sécurité_intérieure, en 2017, qui assouplit les conditions d’emploi des #armes_à_feu par les #forces_de_l’ordre. Annoncé, le résultat ne se fit pas attendre. Le nombre des tués par la police a doublé depuis 2020 par rapport aux années 2010. Le plus souvent pour « refus d’obtempérer à un ordre d’arrêt » :5 fois plus de tirs mortels dans ces circonstances. Nahel est mort de cette modification du Code de la sécurité intérieure.

      Et l’avocat du policier meurtrier de justifier son client : Nahel n’obtempérait pas et il n’y avait pas d’autre moyen de l’arrêter que de tirer. A-t-on besoin d’un avocat pour entendre une insanité pareille alors qu’il suffit de tirer dans les roues ? On se croirait à Moscou ou Minsk, où des hommes politiques promettent à Prigojine une « balle dans la tête ». Aux yeux de certains, le #refus_d’obtempérer semble désormais passible de la #peine_de_mort. Une grammaire s’installe, qui brutalise les #rapports_sociaux, et dont on voudrait faire porter la #responsabilité à l’« #ultragauche », aux « #éco-terroristes », à La France insoumise, alors qu’elle émane d’abord de certains médias et des pouvoirs publics, sous influence de l’extrême droite.

      Une #violence_policière qui est aussi le prix du retrait de l’Etat

      Comme l’ont démontré depuis des années nombre de chercheurs,la violence policière est devenue la règle dans les « quartiers », et le refus des autorités politiques de prononcer ce vilain mot aggrave le #sentiment_d’injustice. Mais la vérité oblige à dire que ladite violence policière est aussi le prix du retrait de l’Etat qui a asphyxié financièrement le tissu associatif de proximité et démantelé les #services_publics en confiant à ses flics une mission impossible : celle de maintenir la #paix_sociale dans un Etat d’#injustice_sociale, prompt à l’#injure_publique à l’encontre de la « #racaille ». Tout cela sur fond de dénonciation hystérique du « #wokisme » et de vociférations sur les chaînes d’information continue des syndicats de police, dont les membres sont de plus en plus nombreux à porter sur leur uniforme la #Thin_Blue_Line prisée de l’extrême droite suprémaciste américaine.

      Bien sûr, l’Etat ne peut laisser sans réagir la banlieue s’embraser. L’ « #ordre_républicain » est en marche, avec son lot d’#arrestations, de #blessés, peut-être au prix de l’#état_d’urgence ou d’un #couvre-feu national, « quoi qu’il en coûte », à un an des #Jeux_Olympiques. Le #piège s’est refermé. Quel « #Grand_débat_national » (ou banlieusard) le magicien Macron va-t-il sortir de son chapeau pendant que les chats de Marine Le Pen se pourlèchent les babines ?

      Certains lecteurs de ma tribune « Où va la France ? » se sont offusqués de la comparaison que j’établissais entre Macron et Orban, voire Poutine ou Erdogan. C’était mal me comprendre. Il ne s’agissait pas d’une question de personnes, bien que les qualités ou les faiblesses d’un homme puissent avoir leur importance. Il s’agit d’une logique de situation, qui me faisait écrire que la France « bascule ». Or, depuis la parution de cette tribune, les signes d’un tel basculement se sont accumulés. Que l’on en juge, en vrac.

      Pour reconquérir l’opinion le président de la République, fébrile, sans jamais se départir de sa condescendance à l’égard de « Jojo » – c’est ainsi qu’il nomme dans l’intimité le Français moyen – ce « Gaulois réfractaire » : « Mon peuple », disait-il en 2017, en monarque frustré – sillonne le pays, court-circuite le gouvernement et multiplie les effets d’annonce, au point que Le Monde titre : « Emmanuel Macron, ministre de tout ». On pourrait ajouter : « et maire de Marseille ».

      #Anticor mis à l’index, dissolution des #Soulèvements_de_la_Terre

      La justice refuse à l’association Anticor (lire « anticorruption »), à l’origine de la plainte qui a conduit à la mise en examen du secrétaire général de l’Elysée, le renouvellement de son « agrément », lequel lui permet de se porter partie civile devant les tribunaux. Cela sent un peu les eaux troubles du Danube, non ?

      Le mouvement des Soulèvements de la Terre a été dissous sous la pression de la #FNSEA, le grand syndicat de l’agro-industrie dont les militants ou les responsables multiplient les menaces et les violences contre les écologistes, en toute impunité, quitte à faire oublier que dans l’histoire il a à son actif nombre d’assauts contre des préfectures. Le décret de dissolution justifie notamment la mesure par le fait que les militants des Soulèvements de la Terre lisent l’essai d’Andreas Malm Comment saboter un pipeline et mettent en mode avion leur téléphone portable quand ils vont manifester. Olivier Véran, le porte-parole du gouvernement, va jusqu’à les accuser d’intentions homicides à l’encontre des forces de l’ordre, contre toute évidence. Orwell n’est pas loin.

      #Vincent_Bolloré, le grand argentier de la révolution conservatrice en France, fait nommer un journaliste d’extrême droite, un ami d’#Eric_Zemmour, comme rédacteur en chef du Journal du Dimanche,l’un des principaux hebdomadaires du pays. Le piquant de la chose est que ledit journaliste s’était fait congédier par un autre hebdomadaire, d’extrême droite celui-ci, Valeurs actuelles, qui lui reprochait sa radicalité.

      #Laurent_Wauquiez, président de la méga région Auvergne-Rhône-Alpes, prive de subvention un théâtre dont le directeur avait osé critiquer sa politique.

      La Commission nationale de contrôle des techniques de renseignement s’alarme de la hausse des requêtes des services secrets en matière de surveillance du militantisme politique et social.

      #Richard_Ferrand, ancien président de l’Assemblée nationale, l’un des plus proches conseillers d’Emmanuel Macron, lâche un ballon d’essai sur la possibilité d’une révision constitutionnelle qui autoriserait à celui-ci un troisième mandat, pendant que d’autres préparent une candidature de Jean Castex-Medvedev. Sommes-nous à Dakar ou à Moscou ?

      Tout cela en deux petits mois. Oui, la France bascule. Nul doute que l’explosion sociale dans les banlieues accélérera le mouvement. Mais peut-être faut-il rappeler la définition du « #point_de_bascule » que donnent les experts du GIEC : le « degré de changement des propriétés d’un système au-delà duquel le système en question se réorganise, souvent de façon abrupte, et ne retrouve pas son état initial même si les facteurs du changement sont éliminés ».

      Le #climat_politique en France en est bien là, et Macron, qui dans son #immaturité se voulait « maître des horloges » et se piquait de séduire la banlieue par diaspora africaine interposée, n’est que le fondé de pouvoir d’une situation qui échappe à son entendement, mais qu’il a contribué à créer. Comme, par ailleurs, les droites de gouvernement, à l’échelle européenne, de l’Italie à la Suède et à la Finlande, se compromettent de plus en plus avec l’extrême droite, la comparaison que certains m’ont reprochée est hélas politiquement pertinente, et même nécessaire.

      #basculement

    • même à BFM, on s’interroge sur les racines du problème

      mais soyons en certains, "Il n’y a pas de racisme dans la police", Nunez, préfet de Paris.

      l’avocat du flic assassin de Nahel, n’est pas sur la même longues d’onde :_"J’ai un client qui a eu des idées suicidaires parce qu’on parle de son métier. Il est triste parce qu’on parle en mal de son métier. lui il est persuadé de faire le bien. Et son ministre lui a enfoncé la tête Je lui dis ’Changez-de travail’. Il me dit ’Mais je veux être policier ! Je veux interpeller des gens ! Je veux pouvoir les étrangler quand ils luttent !’. Évidemment qu’il y a du racisme dans la police. Et d’ailleurs être raciste c’est autorisé par la loi, ce qui est interdit c’est les manifestations d’opinions racistes", Laurent-Franck Lienard