• I processi farsa che in Marocco trasformano i migranti in trafficanti

    Quasi 70 persone in transito sono state accusate di reati legati all’immigrazione irregolare in seguito al “massacro di Melilla” del 24 giugno 2022. Una strategia, con il benestare dell’Ue, per scoraggiare le partenze e gli arrivi nel Paese.

    Ange Dajbo si trova a oltre quattromila chilometri da casa sua ma a meno di dieci minuti di strada in auto dalla destinazione finale del suo viaggio. Nonostante non sia mai stata così vicina all’enclave spagnola di Melilla (assieme a Ceuta le uniche frontiere terrestri dell’Unione europea con l’Africa) la donna ivoriana di 31 anni è più lontana che mai dalla Spagna. Non ci sono soltanto decine di chilometri di filo spinato, rilevatori di movimento, droni, e numerose squadre della polizia marocchina e spagnola a separarla dall’Europa. A fine settembre scorso, Ange Dajbo e suo marito Alphonse, genitori di un bambino di un anno, sono stati processati dal giudice di Nador, città nel Nord del Paese, entrambi accusati di reati legati all’immigrazione irregolare.

    Le autorità marocchine accusano i Dajbo di essere la catena di trasmissione tra la comunità subsahariana e una rete di trafficanti, sulla base di una deposizione alla polizia giudiziaria che la famiglia racconta essergli stata estorta con la violenza. “Ero venuto in Marocco per emigrare irregolarmente -si legge nel documento- ma poi ho iniziato questo business e con i 500 dirham (46 euro, ndr) a persona che guadagnavo mantenevo me e mia moglie”. Questo impianto accusatorio è valso ad Alphonse Dajbo la condanna a un anno di carcere, una pena che potrebbe salire in appello. Sua moglie è stata assolta. “Noi non parliamo neanche arabo -ricorda Ange Dajbo- non capivamo di cosa ci accusavano e non sappiamo cosa ci hanno fatto firmare”.

    Il 18 ottobre 2022, pochi giorni dopo la nascita di suo figlio, 470 migranti tentano in massa l’attraversamento della frontiera di Melilla. Una settimana dopo la polizia marocchina, di notte, sfonda la porta del loro appartamento e li arresta. “Abbiamo vissuto mesi nascosti in una foresta. Quando ho scoperto di essere incinta abbiamo trovato una camera in affitto per accudire il bambino, mentre mio marito faceva qualche lavoretto come carrozziere o garzone al mercato”, racconta la donna mentre discute la strategia difensiva con l’avvocato Mbarek Bouirig, che si è fatto carico probono della difesa della famiglia.

    Città del Nord del Marocco come Nador, Tangeri e Fnidaq sono diventate magneti per i candidati all’emigrazione. A migliaia si nascondono nelle foreste in periferia nel timore di essere arrestati, processati o deportati verso il Sud del Regno dove c’è richiesta di manodopera agricola a basso costo.

    L’avvocato, che assiste altri dieci migranti coinvolti in processi simili a Nador, ritiene che l’impianto accusatorio dei pubblici ministeri “risenta dell’influenza della politica migratoria dello Stato”. In altre parole, secondo Bouirig, il processo alla famiglia Dajbo è soltanto uno dei tasselli della strategia del governo, volta scoraggiare i migranti subsahariani non solo dal tentare il passaggio, ma anche dal sostare nelle città frontaliere in attesa della notte giusta per partire in gommone per la Spagna o tentare di oltrepassare il confine terrestre con Melilla. Nel 2023 circa 15mila migranti sono arrivati in Spagna dal Nord del Marocco e altri 35mila si sono diretti alle Canarie partendo dal Sud del Regno: numeri che si avvicinano a quelli degli arrivi in Grecia (43mila) e non erano così cospicui dal 2018, su una rotta che ha fatto più di 950 vittime secondo l’Ong Caminando Fronteras.

    Il 24 giugno 2022, Ange e Alphonse Dajbo si trovavano a Casablanca quando circa duemila migranti, principalmente sudanesi, attaccarono in massa la barriera dell’enclave in quello che è passato alle cronache come “il massacro di Melilla”. La reazione violenta della Guardia Civil spagnola e della Gendarmerie marocchina ha causato la morte di almeno 37 persone, mentre 77 risultano tutt’oggi scomparse.

    Nonostante entrambi i Paesi abbiano aperto dei fascicoli per indagare sulle responsabilità delle autorità, i soli colpevoli a essere individuati dai giudici marocchini sono stati 33 migranti, di cui 18 hanno visto triplicare la pena in appello arrivando a condanne anche di tre anni in carcere. Altri 32 sono tutt’ora in giudizio con l’accusa di appartenere a reti criminali. “A partire da quella data abbiamo riscontrato un aumento dei procedimenti giudiziari a carico dei migranti subsahariani”, spiega Omar Naji, responsabile dell’Association marocaine des droits de l’homme (Amdh).

    Da allora analizza l’attività dei tribunali della regione per la controversa pratica di perseguire le persone in transito come trafficanti, una strategia apparentemente progettata per scoraggiare ulteriori flussi migratori. Benché non sia disponibile nessun dato statistico sui procedimenti aperti nei confronti dei migranti subsahariani, Omar Naji è convinto che i numeri di quella che definisce “repressione giudiziaria delle migrazioni” siano in costante aumento.

    Sono 1.221 i morti registrati nel 2022 lungo la rotta, sia di terra sia di mare, tra il Marocco e l’Unione europea a fronte di 30mila arrivi. Nel 2015 erano decedute 67 persone su 17mila che erano riuscite a raggiungere il territorio europeo. È il tragico costo della “gestione dei flussi” dell’Ue

    “Un processo non lascia cicatrici sul corpo -osserva nel suo ufficio a Nador- ma allarma l’intera comunità con la minaccia della privazione della libertà, una delle poche gioie della vita che resta ai migranti”. Il Marocco è considerato un partner strategico per il controllo dell’immigrazione e la sua collaborazione con l’Ue illustra ciò che potrebbe accadere anche in Tunisia, da dove sono già partiti più di 95mila migranti nel 2023. Anche se i numeri dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) non distinguono tra i morti via mare lungo la rotta delle Isole Canarie e quelli lungo la frontiera terrestre con Ceuta e Melilla, secondo l’Amdh i dati restano indicativi del fatto che ci sia una correlazione tra l’aumento dei fondi europei e l’aumento delle persone che muoiono.

    “Addobbato con la retorica del voler salvare vite umane e del combattere le reti criminali, il denaro europeo ha reso il passaggio più remunerativo per i trafficanti e più rischioso per i migranti”, spiega Omar Naji, che sottolinea anche come il Marocco renda più o meno porose le sue frontiere per rinforzare la propria posizione nello scacchiere diplomatico. A fronte di 234 milioni di euro stanziati dal 2015, di cui quasi quattro quinti spesi per la gestione dei confini, e di ulteriori 500 milioni fino al 2027, il numero dei migranti che hanno perso la vita nel tragitto dal Marocco all’Europa è salito vertiginosamente: da 67 morti su circa 17mila arrivi nel 2015, a 1.221 su 30mila nel 2022.

    L’Europa riconosce il Marocco come un “Paese sicuro”, ma poche persone più di Aboubacar Wann Diallo sanno che la realtà è più ombreggiata delle categorie del diritto. Esce dalla prigione di Nador dopo aver visitato uno dei sopravvissuti alla strage del 24 giugno, oggi in galera. “Come sta?”, crepita una voce all’altro capo del telefono, in Sudan. “Abdallah è triste, ma sta bene. Vi manda un abbraccio”, risponde Aboubacar alla madre del condannato.

    Dopo esser fuggito dalle persecuzioni politiche nel suo Paese, il guineano laureato in giurisprudenza è arrivato in Marocco nel 2013 dove oggi lavora per un’associazione locale: accompagna i migranti di passaggio nella regione, ma soprattutto trascorre le sue giornate tra l’obitorio, il tribunale e il carcere, occupato nel reperire informazioni sui migranti arrestati e nel riconoscimento dei morti in mare o alla frontiera terrestre. “Cerco di restare professionale -spiega-. Ma vacillo quando ascolto la voce in pena della madre di un fratello condannato ingiustamente o deceduto”.

    Racconta che i pubblici ministeri richiedono condanne dure per i migranti, a volte senza conoscere il dossier: “Sembra che ci sia una volontà politica di mandare un messaggio alla comunità nera: se attraversate, andate in prigione”. Aboubacar è diventato una figura rispettata in città e ha saputo costruire stretti legami con le autorità politiche, giudiziarie e di pubblica sicurezza di Nador, superando le discriminazioni quotidiane contro i neri subsahariani. Ma non tutti hanno la stessa fortuna.

    A Oujda, città frontaliera con l’Algeria a circa due ore di macchina da Nador, due famiglie di quattro persone della Costa d’Avorio vivono in un appartamento di trenta metri quadrati in un quartiere periferico. Ritenendo la rotta marocchina troppo rischiosa, stanno preparando le valige per attraversare l’Algeria e raggiungere l’Europa dalla Tunisia. “Preferiamo attraversare il deserto piuttosto che essere obbligati a vivere nascosti per paura di finire in galera”, afferma Karen Jospeh, trentacinquenne camerunense. Come loro, secondo un volontario locale di Alarm Phone, circa 200 persone al giorno stanno facendo la stessa scelta.

    https://altreconomia.it/i-processi-farsa-che-in-marocco-trasformano-i-migranti-in-trafficanti

    #Maroc #migrations #criminalisation_de_la_migration #justice (well...) #procès #dissuasion #Melilla #24_juin_2022 #trafiquants_d'êtres_humains #répression #répression_judiciaire #externalisation

  • « On a désappris aux gens à faire durer les choses »

    Prendre soin des choses relève d’une activité souvent peu visible : la maintenance. Au nom de la croissance, cette pratique a été refoulée, racontent les sociologues Denis Pontille et Jérôme Denis.

    Réparer, recoudre, huiler, nettoyer, mettre à jour, aiguiser, inspecter… Toutes ces actions consistent à tenter de faire durer les objets avec lesquels nous vivons, de notre pull préféré aux aiguillages d’une ligne TGV. Toutes font partie d’un « art de la maintenance », remis sur le devant de la scène par les sociologues Jérôme Denis et David Pontille, rattachés au Centre de sociologie de l’innovation, dans leur ouvrage Le soin des choses, politique de la maintenance (éd. La Découverte). Ils nous invitent à repenser la relation au monde matériel qui nous entoure.

    Reporterre — Vous écrivez que « faire durer les choses est une opération presque subversive ». Pourquoi ?

    Jérôme Denis — Dans les configurations particulières que sont les pays riches et les zones riches de ces pays, une certaine forme de capitalisme s’est constituée autour d’une durée de vie restreinte des choses et d’une hyperconsommation. Face à cela, la maintenance, faire durer des choses, est une opération qui n’est pas révolutionnaire, mais qui met un grain de sable dans la machine.

    C’est différent de la réparation. Pourquoi ?

    David Pontille — La réparation est incluse dans la maintenance. Mais la réparation met en scène des héros et des héroïnes, des gens qui viennent « sauver » la situation, ou le monde, de la rupture, de la casse,de la panne, du désastre. Ils remettent la situation en ordre. Au contraire, la maintenance, ce sont des gestes pratiqués en continu, et c’est potentiellement tout le monde. Il n’y a pas de figures spécifiques qui viennent créer l’événement.

    À quel moment la maintenance a-t-elle été reléguée en arrière-plan ?

    Jérôme Denis — A un moment, dans les pays riches, s’est construit une lutte très explicite contre certaines pratiques de maintenance et de réparation ordinaire, quotidienne. Elles étaient populaires, domestiques ou à l’usine, en grande partie faites par les femmes. De l’économie, au sens « être économe ». Au tournant du XXᵉ siècle, un modèle économique s’est constitué contre ces pratiques. Il ne fallait pas que les gens fassent durer ce qu’ils consommaient. Il fallait qu’ils désapprennent, presque, à faire durer les choses. C’est allé jusqu’à des formes de stigmatisation publique. Des campagnes de communication aux États-Unis prétendaient qu’il était antinationaliste de faire des économies de bouts de chandelle, qu’il fallait absolument acheter parce que c’est un acte héroïque et patriotique.

    « Les personnes qui pratiquent la maintenance doivent produire leur invisibilité, comme les femmes de ménage dans les bureaux »

    Cela va avec l’invention du jetable. On n’est plus responsables, on n’a plus le fardeau de s’occuper de ce que l’on achète, d’y prêter attention. Après, il faut être très précis et ne pas oublier qu’aujourd’hui, dans n’importe quel quartier populaire, campagne, et dans pas mal de maisonnées, on trouve des traces de gens qui savent faire et font quand même, notamment parce qu’ils ne peuvent pas faire autrement. Et on ne parle pas évidemment des pays du Sud.

    Pourquoi la maintenance a-t-elle été — au moins dans certains domaines — invisibilisée ?

    David Pontille — Au cœur de l’acte de maintenance, il y a l’idée de faire durer. Cela va à l’inverse des grands récits sur l’innovation, où il faut faire de la disruption, du nouveau, du créatif. Il y a aujourd’hui une survalorisation de l’acte créateur par rapport à l’acte reproducteur, de faire durer, de simplement poursuivre ce qui est déjà là. Cela va jusque dans la comptabilité, où c’est l’investissement qui est valorisé, qui crée la valeur, alors que les frais de fonctionnement sont considérés comme moins importants.

    Quelles conséquences sociales cela a-t-il sur ceux dont la maintenance est le métier ?

    Jérôme Denis — Une grande partie des activités de maintenance sont mal reconnues. Les personnes qui la pratiquent doivent produire leur invisibilité, comme les femmes de ménage dans les bureaux. Il y a des conséquences sur la reconnaissance de leur expertise, ce qui pose tout simplement des questions de rémunération. Comme on ne sait pas ce que rapporte la maintenance — c’est ce que disait Denis sur la comptabilité — on a du mal à la payer correctement.

    « Il faut prendre en compte le fait que si cette machine fonctionne bien, c’est grâce à des personnes qui l’entretiennent »

    La deuxième conséquence est que, comme à peu près n’importe quel travail productif, physique, la maintenance use. Il y a des troubles musculo-squelettiques, des expositions à des produits dangereux. Il faut prendre en compte le fait que si cette machine fonctionne bien dans cette usine, si cette infrastructure tient, c’est grâce à des personnes qui l’entretiennent. Et se demander quel est le coût financier et humain des travailleurs et travailleuses impliqués dans la maintenance.

    Quels sont les enjeux communs aux travailleuses du soin aux personnes et aux travailleurs de la maintenance ?

    Jérôme Denis — C’est le rapprochement que fait Mierle Laderman Ukeles [artiste américaine née en 1939, connue pour ses œuvres mettant en scène les tâches de maintenance et de nettoyage], qui est en couverture du livre. Cette artiste conceptuelle fait une connexion entre ce qu’elle fait à la maison et le travail des éboueurs de New York. Dans son Manifeste pour l’art de la maintenance, le care [soin] est un mot très important.

    « Le soin des choses et des personnes remet en cause le mythe de l’autonomie »

    Que ce soit pour le soin des personnes ou des choses, la fragilité est le point de départ, la condition commune. Les gens qui prennent soin des personnes sont des gens qui considèrent qu’il n’y a pas un état sain, puis des écarts à cet état sain. Tout le monde a des formes de vulnérabilité. Cela retourne l’idée du normal, de l’ordre : les mainteneurs et les mainteneuses prennent également la fragilité comme point de départ.

    L’autre point commun est la part d’invisibilité de ces personnes. Les deux activités — soin des choses et des personnes — remettent aussi en cause le mythe de l’autonomie, cette figure très libérale de l’individu qui fait ses choix en toute responsabilité, seul. Les théories féministes du soin redéfinissent l’autonomie et assument l’interdépendance, le fait qu’on a toujours besoin, à un moment donné dans notre vie, d’être pris en charge par d’autres.

    Et le dernier point commun, c’est l’ambivalence de ces activités et les jeux de pouvoir qui s’y jouent. Prendre soin, c’est potentiellement imposer des manières de faire. Qui prend soin de qui ? Jusqu’où ? Qui peut se permettre de ne jamais prendre soin et d’être insouciant ?

    Prendre soin des choses et des personnes peut-il nous apprendre à prendre soin de la nature ?

    Jérôme Denis — Oui, parce que les humains habitent le monde avec des choses. Dans le livre, on utilise les termes de « tact » et de « diplomatie matérielle », car quand on prend soin des choses, il y a cette idée de négociation. Jusqu’où peut-on se permettre d’aller pour faire durer, préserver, conserver, restaurer, entretenir ? C’est une question éminemment politique, mais aussi très philosophique. Et centrale dans la préservation environnementale.

    « Il faut se débarrasser du mythe de l’équilibre, de l’idée que les choses vont revenir à un état stable »

    Pour y répondre, on peut s’inspirer des formes de maintenance que l’on appelle modestes, qui assument qu’il faut faire, qu’il ne faut pas disparaître, mais qu’il ne faut pas être trop brutal. La conservation patrimoniale des monuments historiques est un excellent exemple. Alors que le modèle de Viollet-le-Duc était très immodeste, qu’il assumait des grandes transformations pour revenir à l’état « original » d’un monument, la profession s’est organisée depuis quelques années à l’échelle internationale autour du principe « d’intervention minimale » qui assume qu’il y a bien des interventions nécessaires pour la conservation, mais qui insiste aussi sur la nécessité de rester parcimonieux. Cela produit un rapport à l’environnement qui ressemble plus à ce que propose Aldo Leopold [1887-1948, considéré comme l’un des pères de la protection de l’environnement aux États-Unis], c’est-à-dire à une sorte de partenariat. Les humains sont à l’intérieur des écosystèmes, en essayant d’être le moins nuisibles possible, au nom d’une communauté de vie sur Terre.

    Et puis, on peut avoir tendance à imaginer que la maintenance ou le soin sont un statu quo. Certaines formes de maintenance essayent de fabriquer une immobilité. Ce que l’on montre, c’est que pour y arriver, il faut accepter les transformations. C’est typique de la signalétique du métro, que nous avons étudiée. C’est un dispositif destiné à être toujours présent, toujours en bon état. Pour assurer cela, il faut accepter d’en remplacer régulièrement des composants. Il y a là aussi une connexion avec la question de conservation environnementale. Il faut se débarrasser du mythe de l’équilibre, de l’idée que les choses vont revenir à un état stable, une fixité.

    https://reporterre.net/On-a-desappris-aux-gens-a-faire-durer-les-choses
    #objets #réparation #maintenance #capitalisme #consumérisme #hyperconsommation #économie #jetable #innovation #faire_durer #création #production #reproduction #investissement #fragilité #tact #diplomatie_matérielle #négociation

    • Le soin des choses. Politiques de la maintenance

      Qu’ont en commun une chaudière, une voiture, un panneau de signalétique, un smartphone, une cathédrale, une œuvre d’art, un satellite, un lave-linge, un pont, une horloge, un serveur informatique, le corps d’un illustre homme d’État, un tracteur ? Presque rien, si ce n’est qu’aucune de ces choses, petite ou grande, précieuse ou banale, ne perdure sans une forme d’entretien. Tout objet s’use, se dégrade, finit par se casser, voire par disparaître. Pour autant, mesure-t-on bien l’importance de la maintenance ? Contrepoint de l’obsession contemporaine pour l’innovation, moins spectaculaire que l’acte singulier de la réparation, cet art délicat de faire durer les choses n’est que très rarement porté à notre attention.
      Ce livre est une invitation à décentrer le regard en mettant au premier plan la maintenance et celles et ceux qui l’accomplissent. En suivant le fil de différentes histoires, ses auteurs décrivent les subtilités du « soin des choses » pour en souligner les enjeux éthiques et la portée politique. Parce que s’y cultive une attention sensible à la fragilité et que s’y invente au jour le jour une diplomatie matérielle qui résiste au rythme effréné de l’obsolescence programmée et de la surconsommation, la maintenance dessine les contours d’un monde à l’écart des prétentions de la toute-puissance des humains et de l’autonomie technologique. Un monde où se déploient des formes d’attachement aux choses bien moins triviales que l’on pourrait l’imaginer.

      https://www.editionsladecouverte.fr/le_soin_des_choses-9782348064838
      #livre

  • "Le #populisme sordide de #Macron

    Pour justifier sa loi immigration, le #président de la #République en appelle soudainement aux sondages et aux « Français ». Piétinant des valeurs fondamentales, il surfe sur un invariant humain : la #peur de l’autre qui, dans sa version ultime, s’appelle le #racisme. (...)"



    #politique #France #confusion #déliquescence #démagogie #spéculation #langue_de_bois #double_langage #société #seenthis #vangauguin

    https://www.politis.fr/articles/2023/12/le-populisme-sordide-de-macron

  • Analyse des méthodes de la justice dans le procès anti-terro des inculpé.es du 8.12 - Paris-luttes.info
    https://paris-luttes.info/analyse-des-methodes-de-la-justice-17685

    A chaque interrogatoire, la juge use de la même méthode. Elle ne pose pas les questions par ordre chronologique, c’est-à-dire les éléments « reprochés » de février ou avril 2020, mais elle débute systématiquement par les propos tenus en GAV. En procédant ainsi, elle enferme le/la prévenu.e dans un discours souvent tenu en état de choc et de sidération, et il est alors beaucoup plus difficile pour elle/lui de faire entendre sa voix au présent. Même si le/la prévenu.e réfute complètement les propos tenus en GAV, la juge revient dessus comme si elle ne prenait pas en compte les conditions dans lesquelles ces propos ont été tenus.
    Les propos tenus en GAV deviennent un boulet qu’on se traine tout au long de la procédure judiciaire, et il sera alors impossible de faire comprendre que les barbouzeries et les manipulations de la DGSI ont biaisé ces propos.

  • MADE IN ITALY PER REPRIMERE IN EGITTO: Rapporto annuale sulle esportazioni di armi italiane all’Egitto nel 2022

    Sistemi di difesa prodotti in Italia vengono esportati in Egitto ogni anno, dove vengono utilizzati dalle forze armate e di sicurezza egiziane, che operano in un clima di impunità in cui non sono in vigore meccanismi di tutela adeguati, e il principio di proporzionalità nell’uso della forza viene sistematicamente derogato.

    Il rapporto «Made in Italy per Reprimere in Egitto: il Ruolo delle Armi Piccole e Leggere italiane delle Violazioni dei Diritti Umani in Egitto» traccia la fornitura di #SALW dall’Italia all’Egitto tra il 2013 e il 2021, evidenziando il nesso tra commerci d’arma e deterioramento dei diritti umani a partire dalla documentazione dell’uso delle SALW prodotte in Italia nelle gravi violazioni dei diritti umani ed atti di repressione interna compiuti da attori statali egiziani.

    Il rapporto «Made in Italy per Reprimere in Egitto: Rapporto Annuale sull’Export di Armi italiane all’Egitto nel 2022» inizia una serie di analisi annuali delle esportazioni di sistemi d’arma italiani all’Egitto. Monitorare l’andamento delle esportazioni di armi significa vigilare sull’osservanza dello Stato italiano dei propri obblighi derivanti dalla normativa su diritti umani e vendita di armi, per richiamarlo alle proprie responsabilità per la complicità nella crisi dei diritti umani in Egitto.

    Il Rapporto 2022 fa luce sul notevole aumento del valore delle esportazioni di materiale bellico all’Egitto, pressoché raddoppiato rispetto all’anno precedente. Il materiale autorizzato all’esportazione nel 2022 include un ampio numero di pezzi di ricambio, ma anche TNT, un componente chiave usato nella produzione di mine antiuomo, nonostante l’Italia sia parte del Trattato di Ottawa.

    https://www.egyptwide.org/publication/made-in-italy-to-suppress-in-egypt-2
    #Egypte #Italie #armes #commerce_d'armes #armement #exportation #rapport #2022 #EgyptWide

    • “Made in Italy per reprimere in Egitto”. Così l’Italia continua vendere armi al regime

      Nel 2022 il nostro Paese ha autorizzato l’esportazione di armi a Il Cairo per 72 milioni di euro. Con 11 licenze sulle 16 concesse Leonardo ha il peso maggiore ma nell’elenco figurano anche #Beretta e #Rheinmetall_Italia. I ricercatori di EgyptWide lanciano l’allarme sull’uso delle armi “leggere” per la repressione del dissenso

      Nonostante le frequenti denunce sulla violazione dei diritti umani in Egitto, l’Italia continua a vendere armi al regime di Abdel Fattah al-Sisi. Nel 2022, ultimo anno per cui sono disponibili dati aggiornati, il valore delle armi autorizzate per l’esportazione verso Il Cairo hanno raggiunto un valore pari a 72,7 milioni di euro. Una cifra che si va a sommare ai circa 262 milioni di euro di strumentazioni belliche che sono state consegnate al Paese Nordafricano dopo essere state vendute negli anni precedenti.

      È quanto emerge dal report “Made in Italy per reprimere in Egitto” curato dai ricercatori di EgyptWide, iniziativa italo-egiziana per i diritti umani e le libertà civili, basato sui dati contenuti nell’ultima Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, pubblicata con grande ritardo solo a metà luglio 2023 dalla presidenza del Consiglio dei ministri.

      Nel corso del 2022 sono state rilasciate 16 licenze per l’esportazione di armi verso l’Egitto: nonostante il valore totale aggregato risulti visibilmente diminuito rispetto ai picchi del 2019 e del 2020 (anni in cui sono stati toccati rispettivamente gli 871 e i 991 milioni di euro) il dato per il 2022 mostra un raddoppio rispetto all’anno precedente. Occorre però precisare che i picchi toccati nel 2019 e nel 2020 sono stati trainati principalmente da due importanti commesse per la fornitura di 32 elicotteri prodotti da #Leonardo Spa e di due fregate #Fremm costruite da #Fincantieri.

      Nel 2022 l’Egitto sale al sedicesimo posto tra gli importatori di armi ed equipaggiamento bellico di produzione italiana (guadagnando due posizioni rispetto all’anno precedente). Tra i produttori che hanno ottenuto nuove le licenze per l’export figurano Leonardo (primo esportatore in Egitto con 11 licenze), Fabbrica d’armi Beretta e Rheinmetall Italia.

      Il report curato da EgyptWide evidenzia poi il caso di #Simmel_Difesa (azienda specializzata nella produzione di munizioni di grosso calibro) che ha ottenuto il via libera all’export verso Il Cairo dell’esplosivo denominato “#Composto_B”. “È un componente primario di proiettili di artiglieria, razzi, bombe a mano, mine terrestri e altre munizioni -si legge nel rapporto-. Nonostante l’Italia abbia aderito alla Convenzione di Ottawa, nel 2022 ha comunque esportato in Egitto una quantità non chiara di Tnt, che è l’esplosivo più comunemente usato nelle mine anticarro e antiuomo”.

      I ricercatori non sono in grado di affermare con certezza la quantità di esplosivo autorizzata ma si tratta comunque di un elemento preoccupante “alla luce del fatto che la fame di esplosivi utilizzati in operazioni militari offensive da parte dell’Egitto appare ingiustificata, dato che il Paese non è attualmente in guerra, ma solleva anche notevoli preoccupazioni per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro lungo le catene di approvvigionamento”.

      Questi dati si inseriscono poi all’interno di uno scenario particolarmente allarmante, ovvero l’utilizzo di armi piccole e leggere (#Small_arms_and_light_weapons, Salw) da parte delle forze di sicurezza egiziane in operazioni che hanno portato alla violazione dei diritti umani nel Paese e che EgyptWide ha documentato in un precedente report pubblicato a maggio 2023. Nel rapporto si evidenzia come tra il 2013 e il 2021 (ultimo anno per cui erano disponibili dati aggiornati) il nostro Paese abbia venduto a Il Cairo armi leggere per un valore compreso tra i 18,9 e i 19,2 milioni di euro. L’elenco comprende oltre 30mila revolver e pistole, più di 3.600 fucili e oltre 470 fucili d’assalto a cui si aggiunge un numero non precisato di carabine, mitragliatrici, munizioni, parti di ricambio e attrezzature per la direzione del tiro, tecnologie militari e software.

      “I modelli italiani di armi piccole e leggere #Beretta_70/90, #Benelli_SuperNova_Tactical e #Beretta_92FS sono stati utilizzati da militari e forze di sicurezza egiziane per intimidire e disperdere civili nell’ambito di operazioni di sicurezza urbana; fucili Beretta 70/90 sono stati impiegati dalle forze speciali ad #Al-Nahda e #Rabaa_Al-Adawiya, durante il massacro del 2013 in cui hanno perso la vita quasi mille civili”, si legge nel rapporto.

      La vendita di queste armi è avvenuta nonostante le conclusioni del Consiglio d’Europa dell’agosto 2013 con le quali i Paesi dell’Unione avevano concordato una sospensione delle forniture militari verso l’Egitto alla luce delle gravi violazioni dei diritti umani. A seguito della destituzione del governo di Mohamed Morsi, infatti, la presa del potere da parte di al-Sisi quell’anno ha segnato l’inizio di una stagione di terrore e di progressivo deterioramento dei diritti nel Paese. Basti ricordare il massacro di Rabaa dell’agosto 2013 in cui hanno perso la vita quasi settecento manifestanti, il rapimento e l’uccisione del ricercatore Giulio Regeni, il conflitto a bassa intensità che dal 2014 interessa la penisola del Sinai e che ha gravi ripercussioni sulla popolazione civile. Per non parlare delle molte leggi che reprimono il dissenso da parte dei media e delle Ong indipendenti, fino a quella antiterrorismo che autorizza indirettamente esecuzioni extragiudiziali e garantisce ampia impunità agli agenti delle varie forze di polizia e dell’esercito.

      Eppure, nonostante la gravità di questa situazione l’export di piccole armi “made in Italy” non si è mai fermato. Dal 2013 al 2014 il valore totale delle esportazioni dall’Italia all’Egitto è quasi raddoppiato, passando da 17,2 a 31,7 milioni di euro; nel 2015 aveva raggiunto i 37,6 milioni di euro. A seguito dell’omicidio Regeni, avvenuto nel 2016, si registra una contrazione, ma già nel 2018 il valore autorizzato all’export per le piccole armi aveva toccato quota 69 milioni di euro.

      Ma in quali mani sono finite queste pistole e questi fucili? EgypWide “ha riscontrato le prove di un consistente abuso” a partire dal 2013, “tra cui anche le prove dell’uso di armi italiane in violazione dei diritti umani commesse da attori statali”. Sono diversi i casi ricostruiti dai ricercatori indipendenti, a partire dall’uccisione di un gruppo di sospetti disarmati nel Nord del Sinai a febbraio 2018: la fonte è un video pubblicato su YouTube dall’esercito egiziano in cui si mostra l’uccisione di un gruppo di presunti terroristi. “Nel video si vede un piccolo distaccamento dell’esercito egiziano che apre il fuoco con fucili Beretta”, scrivono i ricercatori.

      Armi italiane sarebbero state usate anche nella repressione di proteste di piazza, a partire da quelle di al-Nahda e Rabaa avvenute a Il Cairo il 14 agosto 2013: “Un video pubblicato dal quotidiano online el-Badil mostra le forze di polizia egiziane equipaggiate con fucili Beretta 70/90 mentre aggrediscono un manifestante disarmato”. Ulteriori prove fotografiche -immagini scattate dall’agenzia Getty Immages- mostrano poliziotti armati di fucili Benelli M3T.

      “Il gravissimo stato dei diritti umani in Egitto implica che il Paese dovrebbe essere annoverato tra quelli in cui esiste un rischio significativo che gli armamenti di importazione vengano utilizzati per commettere gravi violazioni dei diritti umani -concludono gli autori del report-. L’analisi del materiale audiovisivo presentata in questo rapporto mostra armi piccole e leggere fabbricate in Italia e impiegate nella repressione interna, in atti che includono l’uso eccessivo della forza contro manifestanti, nonché l’impiego su larga scala in processi più ampi di securitizzazione e militarizzazione dello spazio pubblico, che finiscono per limitare le libertà di movimento e di riunione pacifica”.

      https://altreconomia.it/made-in-italy-per-reprimere-in-egitto-cosi-litalia-continua-vendere-arm
      #droits_humains #répression

  • Non, le « #choc_des_civilisations » n’aide pas à comprendre notre époque

    Depuis le 7 octobre, les idées du professeur américain #Samuel_Huntington sont à nouveau vantées, au service d’un idéal de #repli_identitaire. Pourtant, ces thèses fragiles ont été largement démontées, sur le plan empirique comme théorique.

    C’est un des livres de relations internationales les plus cités au monde. Publié en 1996, trois ans après un article dans Foreign Affairs, Le Choc des civilisations a fourni un concept qui a proliféré dans le débat public. À la faveur de sa republication en poche aux éditions Odile Jacob, la journaliste et essayiste Eugénie Bastié a eu une révélation : son auteur, le politiste Samuel Huntington (1927-2008), était le prophète de notre époque. Sacrément épatée, elle affirme dans Le Figaro que « chaque jour, l’actualité donne raison » à ce livre « majeur ».

    Elle n’est ni la première ni la seule à le penser. À chaque attentat ou chaque guerre mettant aux prises des belligérants de religions différentes, la théorie est ressortie du chapeau comme une grille explicative. Depuis les massacres du Hamas du 7 octobre, c’est à nouveau le cas. Dans Le Point, Franz-Olivier Giesbert n’a pas manqué de la convoquer dans un de ses éditoriaux. Dans la plus confidentielle et vénérable Revue politique et parlementaire, un juriste s’est appuyé sur Huntington pour conclure tranquillement à « une certaine incompatibilité civilisationnelle entre Arabes et Israéliens et, partant, entre Orient et Occident ».

    Huntington pensait qu’avec la fin de la Guerre froide, les #facteurs_culturels allaient devenir prédominants pour expliquer la #conflictualité dans le système international. Il ajoutait que les risques de conflictualité seraient maximisés aux points de rencontre entre « #civilisations ». À l’en croire, ces dernières seraient au nombre de neuf. La #religion serait un de leurs traits distinctifs essentiels, parmi d’autres caractéristiques socio-culturelles ayant forgé, selon lui, des différences bien plus fondamentales que celles qui existent entre idéologies ou régimes politiques.

    De nombreuses critiques ont été faites aux thèses d’Huntington. Aujourd’hui, ces dernières sont largement considérées comme infirmées et inutilisables dans sa propre discipline. Elles ne sont plus reprises que par des universitaires qui ne sont pas spécialistes de relations internationales, et des acteurs politico-médiatiques qui y trouvent un habillage scientifique aux obsessions identitaires qui les habitent déjà.

    Il faut dire que dans la réflexion d’Huntington, la reconnaissance des #identités_civilisationnelles à l’échelle globale va de pair avec un rejet du multiculturalisme à l’intérieur des États. Eugénie Bastié l’a bien compris, se délectant des conclusions du professeur américain, qu’elle reprend à son compte : « La #diversité est bonne au niveau mondial, mortifère au niveau national. L’#universalisme est un danger à l’extérieur, le #multiculturalisme une #menace à l’intérieur. »

    Des résultats qui ne collent pas

    Le problème, c’est que les thèses d’Huntington ont été largement démontées, sur le plan empirique comme théorique. Comme l’a déjà rappelé Olivier Schmitt, professeur à l’Université du Sud au Danemark, des chercheurs ont « testé » les prédictions d’Huntington. Or ils sont tombés sur des résultats qui ne collent pas : « Les actes terroristes, comme les conflits, ont historiquement toujours eu majoritairement lieu – et continuent d’avoir majoritairement lieu – au sein d’une même civilisation. »

    Dans Philosophies du multiculturalisme (Presses de Sciences Po, 2016), le politiste Paul May relève que « les arguments avancés par Huntington pour justifier sa thèse du choc des civilisations ne reposent pas sur de larges analyses empiriques, mais plutôt sur une série d’anecdotes et d’intuitions ». Il dresse le même constat à propos des alertes angoissées d’Huntington sur le supposé moindre sentiment d’appartenance des #minorités à la nation états-unienne, notamment les Hispaniques.

    Huntington procède en fait par #essentialisation, en attribuant des #valeurs_figées à de vastes ensembles socio-culturels, sans prendre au sérieux leur #variabilité dans le temps, dans l’espace et à l’intérieur des groupes appartenant à ces ensembles. Par exemple, son insistance sur l’hostilité entre l’#Occident_chrétien et la #civilisation_islamique néglige de nombreux épisodes de coopération, d’influences mutuelles, d’alliances et de renversement d’alliances, qui ont existé et ont parfois répondu à des intérêts politico-stratégiques. Car si les #identités_culturelles ont bien un potentiel mobilisateur, elles sont justement intéressantes à enrôler et instrumentaliser dans une quête de puissance.

    Le « #déterminisme_culturaliste » d’Huntington, écrivait le professeur Dario Battistella dès 1994, « mérite une #critique approfondie, à l’image de toutes les explications unifactorielles en sciences sociales ». Au demeurant, les frontières tracées par Huntington entre les civilisations existantes reposent sur des critères peu clairs et discutables. Le chercheur Paul Poast a remarqué, dans un fil sur X, que ses choix aboutissent à une superposition troublante avec une carte des « races mondiales », « produite par Lothrop Stoddard dans les années 1920, [ce dernier étant connu pour être] explicitement un suprémaciste blanc ».

    Les mauvais exemples d’#Eugénie_Bastié

    Les exemples mobilisés par Eugénie Bastié dans Le Figaro illustrent toutes les limites d’une lecture outrancièrement culturaliste de la réalité.

    « Dans le cas du conflit israélo-palestinien, écrit-elle, l’empathie n’est plus dictée par des choix rationnels ou idéologiques mais par des appartenances religieuses et identitaires. » Il était toutefois frappant, avant le 7 octobre, de constater à quel point les États du monde arabe et musulman s’étaient désintéressés de la question palestinienne, l’un des objectifs du #Hamas ayant justement été de faire dérailler la normalisation des relations en cours. Et si la composante islamiste de l’identité du Hamas est indéniable, la situation est incompréhensible sans tenir compte du fait qu’il s’agit d’un conflit pour la terre, que d’autres acteurs palestiniens, laïques voire, socialisants, ont porté avant le Hamas.

    Concernant l’#Ukraine, Bastié explique qu’« entre un Ouest tourné vers l’Occident et un Est russophone, Huntington prévoyait trois scénarios : une Ukraine unie pro-européenne, la division en deux avec un est annexé à la Russie, une Ukraine unie tournée vers la Russie. On sait désormais que l’on s’achemine plus ou moins vers le deuxième scénario, le plus proche du paradigme du choc des civilisations. »

    Remarquons d’abord la précision toute relative d’une théorie qui « prédit » des issues aussi contradictoires. Soulignons ensuite que malgré tout, Huntington considérait bien que « si la #civilisation est ce qui compte, la probabilité de la #violence entre Ukrainiens et Russes devrait être faible » (raté). Pointons enfin la séparation caricaturale établie par l’essayiste entre les parties occidentale et orientale du pays. Comme l’a montré l’historien Serhii Plokhy, les agressions russes depuis 2014 ont plutôt contribué à homogénéiser la nation ukrainienne, « autour de l’idée d’une nation multilingue et multiculturelle, unie sur le plan administratif et politique ».

    Enfin, Bastié devait forcément glisser qu’Huntington a formulé sa théorie du choc des civilisations avant même les attentats du 11 septembre 2001, censés illustrer « la résurgence du conflit millénaire entre l’islam et l’Occident ».

    Reprenant sa critique du politiste américain à l’aune de cet événement, Dario Battistella a cependant souligné que « loin de constituer les prémices d’une bataille à venir entre deux grandes abstractions, #Occident et #Islam, les attentats du 11 septembre sont bien l’expression d’une forme pervertie de l’islam utilisée par un mouvement politique dans sa lutte contre la puissance hégémonique américaine ; quant aux bombardements américano-britanniques contre Al-Qaïda et les talibans, ce sont moins des croisades que des opérations de police, de maintien de la “pax americana”, entreprises par la puissance impériale et sa principale alliée parmi les puissances satisfaites de l’ordre existant. »

    À ces illustrations guère convaincantes du prophétisme de Samuel Huntington, il faut ajouter les exemples dont Eugénie Bastié ne parle pas, et qui ne collent pas non plus avec sa grille de lecture.

    Avec la tragédie du Proche-Orient et l’agression russe en Ukraine, l’autre grand drame historique de cette année s’est ainsi joué en #Arménie et en #Azerbaïdjan, avec le #nettoyage_ethnique du #Haut-Karabakh. Or si ce dernier a été possible, c’est parce que le régime arménien a été lâché par son protecteur russe, en dépit de populations communiant majoritairement dans le #christianisme_orthodoxe.

    Cet abandon, à laquelle la difficile révolution démocratique en Arménie n’est pas étrangère, a permis au dirigeant azéri et musulman #Ilham_Aliev de donner libre cours à ses ambitions conquérantes. L’autocrate a bénéficié pour cela d’armes turques, mais il a aussi alimenté son arsenal grâce à l’État d’Israël, censé être la pointe avancée de l’Occident judéo-chrétien dans le schéma huntingtonien interprété par Eugénie Bastié.

    Le côté « chacun chez soi » de l’essayiste, sans surprendre, témoigne en parallèle d’une indifférence aux revendications démocratiques et féministes qui transcendent les supposées différences civilisationnelles. Ces dernières années, ces revendications se sont données à voir avec force en Amérique latine aussi bien qu’en #Iran, où les corps suppliciés des protestataires iraniennes témoignent d’une certaine universalité du combat contre la #domination_patriarcale et religieuse. Cela ne légitime aucune aventure militaire contre l’Iran, mais rappelle que toutes les actions de soutien aux peuples en lutte pour leurs droits sont positives, n’en déplaise au fatalisme huntingtonien.

    On l’aura compris, la thématique du choc des civilisations n’aide aucunement à comprendre notre chaotique XXIe siècle. Il s’agit d’un gimmick réactionnaire, essentialiste et réductionniste, qui donne une fausse coloration scientifique à une hantise du caractère mouvant et pluriel des identités collectives. Sur le plan de la connaissance, sa valeur est à peu près nulle – ou plutôt, elle est la pire manière d’appeler à prendre en compte les facteurs culturels, ce qui souffre beaucoup moins la contestation.

    Sur le plan politique, la théorie du choc des civilisations est un obstacle aux solidarités à construire dans un monde menacé par la destruction de la niche écologique dont a bénéficié l’espèce humaine. Ce sont des enjeux de justice climatique et sociale, avec ce qu’ils supposent de réparations, répartition, redistribution et régulation des ressources, qu’il s’agit de mettre en avant à toutes les échelles du combat politique.

    Quant aux principes libéraux et démocratiques, ils méritent également d’être défendus, mais pas comme des valeurs identitaires opposées à d’autres, dont nous serions condamnés à vivre éloignés. L’universalisme n’est pas à congédier parce qu’il a servi d’alibi à des entreprises de domination. Quand il traduit des aspirations à la paix, à la dignité et au bien-être, il mérite d’être défendu, contre tous les replis identitaires.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/231223/non-le-choc-des-civilisations-n-aide-pas-comprendre-notre-epoque
    #Palestine #Israël

    #Huntington

  • France : des peines de prison pour sept militants de l’ultragauche jugé à Paris
    https://www.ouest-france.fr/societe/justice/projet-daction-violente-sept-militants-dultragauche-condamnes-a-des-pei

    Publié le : 22/12/2023 - 14:13

    Des peines allant de deux ans de prison avec sursis à cinq ans de prison, dont trente mois avec sursis probatoire, ont été prononcées vendredi par le tribunal correctionnel de Paris à l’encontre de sept sympathisants d’ultragauche jugés pour association de malfaiteurs terroriste dans le cadre de « l’affaire du 8 décembre 2020 ».

    (...)

    Après l’énoncé de la décision, Me Raphaël Kempf, un de ses avocats, a estimé que les motivations étaient « extrêmement problématiques ». Tout en se disant soulagé que son client ne retourne pas en prison, il s’est inquiété de l’ « extension à la sphère politique et militante de la notion de terrorisme que signe ce jugement ». « Les juges disent clairement que le fait d’exprimer des critiques ou du ressentiment à l’égard de l’institution policière pouvait constituer un acte de terrorisme », a déclaré l’avocat.

    (...)

  • L’#activisme_écologiste, nouveau terrain d’#expérimentation de la #Technopolice

    Drones, reconnaissance faciale, marqueurs codés… Outre l’arsenal administratif et répressif déployé par l’État pour les punir, le ministère de l’Intérieur expérimente et perfectionne sur les activistes écologiques ses nouveaux outils technopoliciers.

    Plusieurs affaires récentes ont mis en lumière la surveillance particulièrement intensive subie par les militantes écologistes. Outre l’arsenal administratif et répressif déployé par l’État pour les punir, c’est la nature des moyens utilisés qui interpelle : drones, reconnaissance faciale, marqueurs codés… Le ministère de l’Intérieur expérimente et perfectionne sur les activistes écologiques ses outils technopoliciers.

    Plusieurs articles ont révélé le caractère intensif des moyens de surveillance et de répression déployés par l’État pour punir certaines actions militantes écologistes. Si cela avait déjà été documenté pour le mouvement de résistance nucléaire à Bure, c’est dernièrement le cas de l’affaire Lafarge pour laquelle un article paru sur Rebellyon a détaillé les outils mis en œuvre par la police afin d’identifier les personnes ayant participé à une action ciblant une usine du cimentier.

    Vidéosurveillance, analyse des données téléphoniques, réquisitions aux réseaux sociaux, relevés ADN, virements bancaires, traceurs GPS… La liste paraît infinie. Elle donne une idée de la puissance que peut déployer l’État à des fins de surveillance, « dans un dossier visant avant tout des militants politiques » – comme le souligne Médiapart dans son article.

    Pour avoir une idée de l’étendue complète de ces moyens, il faut y ajouter la création des cellules spécialisées du ministère de l’Intérieur (la cellule Démeter, créée en 2019 pour lutter contre « la délinquance dans le monde agricole » et la cellule « anti-ZAD », mise en place en 2023 à la suite de Sainte-Soline) ainsi que l’alerte donnée par la CNCTR (l’autorité de contrôle des services de renseignement) qui en 2023 a souligné son malaise sur l’utilisation accrue des services de renseignement à des fins de surveillance des organisations écologistes.

    Les forces de sécurité semblent continuer de perfectionner et expérimenter sur les organisations écologistes leurs nouveaux outils de surveillance : drones, caméras nomades, reconnaissance faciale, produits de marquages codés… Parce que ces organisations leur opposent une résistance nouvelle, souvent massive, déployée sur un ensemble de terrains différents (manifestations en milieu urbain, ZAD, méga-bassines…), les forces de police semblent trouver nécessaire l’utilisation de ces outils de surveillance particulièrement invasifs.
    Capter le visage des manifestantes

    Outil phare de la Technopolice, le drone a été expérimenté dès ses débuts sur les écologistes. Difficile d’y voir un hasard quand (d’après la gendarmerie), la première utilisation d’un drone à des fins de surveillance par la gendarmerie a lieu dans le Tarn en 2015, pour évacuer la ZAD du barrage de Sivens. En 2017, c’est Bure (site prévu pour l’enfouissement de déchets nucléaires) qui sert d’expérimentation avant une utilisation officialisée pour la ZAD de Notre-Dame-des-Landes en 2018.

    La gendarmerie y décrit dans sa revue officielle un contexte idéal d’expérimentation avec une utilisation permettant un « grand nombre de premières » : utilisation simultanée de drones et d’hélicoptères de surveillance, retransmission en direct des divers flux vidéos, guidage des tirs de lacrymogènes… Des utilisations qui seront ensuite reprises et normalisées dans les futures utilisations des drones, en particulier pour la surveillance des manifestations. À noter dans la revue officielle de la gendarmerie l’utilisation répétée du terme d’ « adversaires » pour décrire les militantes : « marquage d’adversaire », « manœuvre de l’adversaire »….

    Ce n’est pas non plus un hasard si dans le Livre blanc de la sécurité intérieure, document publié fin 2020 par le ministère de l’Intérieur pour formuler un ensemble de propositions sur le maintien de l’ordre, l’exemple de Notre-Dame-des-Landes est cité pour justifier l’utilisation massive de drones, comme une « une étape importante dans la planification et l’exécution d’une opération complexe de maintien de l’ordre ».

    Résultat : après la généralisation des drones dès 2020 avec le Covid-19, on a ensuite assisté, une fois l’ensemble légalisé à posteriori (et non sans difficultés), à la normalisation de l’usage des drones pour la surveillance des manifestations. Les drones sont aujourd’hui encore bien utiles à la police pour suivre les actions militantes écologistes, que ce soit récemment pour le Convoi de l’eau ou la mobilisation contre les travaux de l’A69.

    À noter que l’imagination de la police et de la gendarmerie ne se limite pas aux drones en ce qui concerne les nouveaux moyens de surveillance vidéo. Plusieurs organisations ont documenté l’utilisation de caméras nomades ou dissimulées pour épier les allées et venues des activistes : caméras dans de fausses pierres ou troncs d’arbres pour la ZAD du Carnet, caméras avec vision nocturne en 2018 dans la Sarthe…
    Ficher le visage des manifestantes

    Autre outil phare de la Technopolice : la reconnaissance faciale. Rappelons-le : la reconnaissance faciale est (malheureusement) autorisée en France. La police ou la gendarmerie peuvent identifier des personnes grâce à leurs visages en les comparant à ceux enregistrés dans le fichier du traitement des antécédents judiciaires (TAJ). L’utilisation qui en est faite par les services de sécurité est aujourd’hui massive, estimée à plus de 600 000 fois en 2021 (donc plus de 1600 fois par jour).

    Il est néanmoins assez rare d’avoir des exemples concrets de son utilisation pour comprendre comment et sur qui la police utilise ce dispositif. À ce titre, comme souligné dans l’article de Rebellyon, la reconnaissance faciale a été utilisée pour incriminer des personnes censément impliquées dans l’affaire Lafarge, avec l’utilisation d’images tirées de la réquisition des vidéosurveillances des bus de la ville pour les comparer au fichier TAJ. Médiapart dénombre dans son enquête huit personnes identifiées via ce dispositif.

    Même chose pour la manifestation de Sainte-Soline : dans un article de juillet 2023, Médiapart relate que les quatre personnes qui ont comparu ont été retrouvées grâce à la reconnaissance faciale. Un premier procès plus tôt, déjà sur Sainte Soline, fait également mention de l’utilisation de la reconnaissance faciale.

    Notons bien qu’au vu des chiffres cités plus haut, l’utilisation de la reconnaissance faciale est massive et n’est pas concentrée sur les militant·es écologistes (voir ici une utilisation récente pour retrouver une personne soupçonnée de vol). On constate néanmoins une utilisation systématique et banalisée de la reconnaissance faciale du TAJ, normalisée au point de devenir un outil d’enquête comme les autres, et de plus en plus présentée comme élément de preuve dans les tribunaux.

    En 2021, nous avions attaqué devant le Conseil d’État cette reconnaissance faciale en soulevant que celle-ci devait légalement être limitée à la preuve d’une « nécessité absolue », un critère juridique qui implique qu’elle ne soit utilisée qu’en dernier recours, si aucune autre méthode d’identification n’est possible, ce qui n’était déjà pas le cas à l’époque. Cela l’est encore moins aujourd’hui à lire les comptes-rendus de Rebellyon ou de Médiapart.
    Marquer les manifestantes

    D’autres outils de surveillance, encore au stade de l’expérimentation, semblent testés dans les mobilisations écologistes. Parmi les plus préoccupants, les produits de marquage codés. Il s’agit de produits, tirés par un fusil type paintball, invisibles, indolores, permettant de marquer une personne à distance et persistant sur la peau et les vêtements. Ils peuvent être composés d’un produit chimique ou d’un fragment d’ADN de synthèse, se révélant à la lumière d’une lampe UV, porteurs d’un identifiant unique pour « prouver » la participation à une manifestation.

    Comme rappelé par le collectif Désarmons-les, c’est dès 2021 que Darmanin annonce l’expérimentation de ce dispositif. Il semble être ensuite utilisé pour la première fois en 2022 lors d’une première manifestation contre la bassine de Sainte-Soline (via l’utilisation par la police de fusils spéciaux, ressemblant à ceux utilisés par les lanceurs paintball). En 2022, Darmanin dénombrait déjà plus de 250 utilisations de ce dispositif.

    En 2023, son utilisation est de nouveau remarquée pour la manifestation contre la bassine de Sainte-Soline. Elle entraîne la garde à vue de deux journalistes qui ont détaillé à la presse la procédure suivie par la police et la gendarmerie pour récupérer et analyser la trace de peinture laissée par le fusil PMC.

    Cet usage ne semble être aujourd’hui qu’à ses débuts. Dans le cadre d’un recours contentieux contre les drones, la préfecture de police, dans une surenchère sécuritaire sans limite, avait notamment émis le souhait de pouvoir équiper ses drones d’un lanceur de PMC. Le ministre de la Justice a également vanté l’utilisation de ces outils dans une récente audition sur le sujet, « utiles pour retrouver la trace d’un individu cagoulé ». Un rapport parlementaire de novembre 2023 rappelle néanmoins que son utilisation se fait aujourd’hui sans aucun cadre légal, ce qui la rend purement et simplement illégale. Si certains parlementaires semblent également s’interroger sur son efficacité, d’autres, dans un rapport sur « l’activisme violent », appellent à sa pérennisation et sa généralisation. Côté gouvernement, après l’avoir expérimenté sur les militants sans aucun cadre légal, le ministère de l’intérieur semble pour l’instant avoir suspendu son utilisation.

    Les mouvements militants ne sont évidemment pas les seuls à connaître cette intensité dans le déploiement des moyens de surveillance : les exilées, les habitantes des quartiers populaires ont toujours été les premières à subir la militarisation forcenée des forces du ministère de l’Intérieur. Néanmoins, cette expérimentation des technologies sur les organisations écologistes est une nouvelle preuve de l’escalade sécuritaire et déshumanisée de la police et de la gendarmerie en lien avec la criminalisation des mouvements sociaux. La France est à l’avant-garde de la dérive autoritaire en Europe, puisqu’il semble être l’un des pays du continent ayant une pratique régulière et combinée de ces nouveaux outils

    https://blogs.mediapart.fr/la-quadrature-du-net/blog/191223/l-activisme-ecologiste-nouveau-terrain-d-experimentation-de-la-techn

    #répression #contrôle #surveillance #écologie #résistance #activisme #technologie #technologie_de_surveillance #cellule_Démeter #cellule_anti-ZAD #CNCTR #drone #ZAD #Sivens #Bure #Notre-Dame-des-Landes #reconnaissance_faciale

  • Les Aventures de Rabbi Macron à l’Elysée... :-D :-D :-D

    "Hanouka à l’Elysée, on se pince" : le jour où Macron a perdu toute crédibilité sur la laïcité

    "La vidéo du grand rabbin de France Haïm Korsia allumant la première bougie d’Hanouka dans la salle des fêtes de l’Élysée a provoqué un tollé sur les réseaux sociaux. De la gauche à la droite, les opposants d’Emmanuel Macron ont dénoncé une atteinte grave à la laïcité, et une « cécité volontaire » des ministres qui le défendent. (...)"

    https://www.marianne.net/societe/laicite-et-religions/hanouka-a-l-elysee-on-se-pince-le-jour-ou-macron-a-perdu-toute-credibilite

    #politique #religion #laïcité #démagogie #hanouka #Macron #république #dévoiement #société

  • Qui est Myriam Lebkiri, dirigeante de la CGT, convoquée le 8 décembre par la gendarmerie ?
    https://www.humanite.fr/social-et-economie/cgt/qui-est-myriam-lebkiri-dirigeante-de-la-cgt-convoquee-le-8-decembre-par-la-

    La secrétaire confédérale cégétiste est entendue ce vendredi par la gendarmerie, après des actions contre la réforme des retraites.

    À 39 ans, Myriam Lebkiri n’imaginait pas devoir répondre de son engagement syndical devant les gendarmes. Pas plus que de recevoir, en main propre, sa convocation, un mercredi soir à 20 heures, devant ses enfants. Ce vendredi 8 décembre, la secrétaire confédérale de la #CGT sera pourtant entendue par la brigade de recherche de Pontoise (Val-d’Oise) pour « dégradation ou détérioration légère d’un bien par inscription, signe ou dessin ». Assise dans son bureau au siège de la confédération, à Montreuil, elle rétorque : « Concrètement, on me reproche d’avoir collé des affiches durant le mouvement contre la #réforme_des_retraites. »

    À la différence de Sébastien Menesplier, un autre secrétaire confédéral entendu en septembre, Myriam Lebkiri n’est pas convoquée pour ses responsabilités syndicales, mais bien comme une personne physique. Elle sera aussi entendue pour « menace, violence ou acte d’intimidation envers un élu public pour qu’il accomplisse ou s’abstienne d’acte de son mandat ». Durant le mouvement, les cégétistes avaient multiplié les interpellations de députés pour les convaincre de ne pas voter cette réforme injuste et rejetée par plus de 90 % des actifs.

    #répression_antisyndicale

    • Répression antisyndicale : « Il y a de façon quasi systématique des poursuites et des convocations des dirigeants »

      https://www.liberation.fr/economie/social/repression-antisyndicale-il-y-a-de-facon-quasi-systematique-des-poursuite

      Plusieurs responsables de la CGT s’inquiètent d’un ciblage des syndicats par le gouvernement dans le sillage de la réforme des retraites. Un rassemblement est prévu ce vendredi 8 décembre à Pontoise pour soutenir deux représentants locaux convoqués par les gendarmes.

      Sophie Binet dénonce un « contexte de répression antisyndicale inédit depuis l’après-guerre ». Dans une lettre envoyée mardi 5 décembre à Elisabeth Borne et consultée par Libération, la secrétaire générale de la CGT s’inquiète et s’insurge contre une « réelle volonté politique de porter atteinte à l’action » des syndicats de travailleurs, au premier rang desquels la centrale qu’elle dirige. Dans son courrier, la numéro 1 de la CGT indique que plus de 1 000 militants de son organisation sont aujourd’hui poursuivis devant les tribunaux pour des faits relevant d’actions syndicales, notamment pendant la mobilisation du premier semestre 2023 contre la réforme des retraites. Réclamant une « loi d’amnistie », Sophie Binet dénonce une « judiciarisation des conflits sociaux » et « une grave dérive qui fait peser sur des individus la responsabilité d’actions qui ont été décidées collectivement ».

      Dans ce contexte, deux dirigeants de la CGT du Val-d’Oise, Myriam Lebkiri (par ailleurs membre du bureau confédéral de la CGT, la direction nationale) et Marc Roudet, sont convoqués vendredi matin en audition libre à la gendarmerie de Pontoise, devant laquelle un rassemblement de soutien est organisé. « On me reproche deux choses : détérioration légère et menaces envers un élu, liste Myriam Lebkiri. Mais je ne sais pas à quelle occasion précise, ni de quels faits exacts il s’agit. Par contre, ce que je sais, c’est que c’est dans le cadre de revendications contre la réforme des retraites. »

      Chargée de l’égalité femmes-hommes au sein du syndicat, elle constate une « montée en puissance », ces dernières années, des procédures et des convocations dirigées contre les leaders de la centrale de Montreuil. L’augmentation serait même « exponentielle » depuis le début de l’année. Myriam Lebkiri prend pour exemple la convocation à la gendarmerie de son collègue au bureau confédéral, Sébastien Menesplier, également numéro 1 de la très active Fédération des mines et de l’énergie, le 6 septembre. Deux membres de la direction de la CGT convoqués coup sur coup, « c’est du jamais vu », selon elle.

      Prélèvement ADN

      A la tête de l’union départementale de l’Allier et également membre de la direction confédérale, Laurent Indrusiak situe le « changement de doctrine » à 2016, avec la loi El Khomri du gouvernement Valls. D’après lui, ce tournant a pris de l’ampleur l’année suivante avec les ordonnances travail de septembre 2017 : « A ce moment-là, on a senti qu’il y avait de façon quasi systématique des poursuites et des convocations des dirigeants, dès qu’une action était menée. »

      A titre personnel, « tableau Excel » à l’appui, Laurent Indrusiak a recensé « 28 convocations » le visant nommément. Ce qui fait probablement de lui le syndicaliste français le plus sollicité par la police et la justice ces dernières années. Les prétextes varient d’un jour à l’autre : « Diffamation, entrave à la liberté de circulation [lors de blocages, ndlr], entrave à la liberté du travail, vitesse insuffisante [après une opération escargot], agression sonore ou encore manifestation non-déclarée. » Ce dernier motif, lui a par exemple été signifié après une manifestation à Montluçon (Allier) dans le cadre de la réforme des retraites. Ce jour-là, le cortège s’était scindé en deux et une partie de la foule n’avait pas suivi l’itinéraire prévu : « J’ai dû expliquer à la police que je n’avais pas le pouvoir de commander un cortège de 6 000 personnes », s’amuse-t-il à moitié. Une autre fois, il a été poursuivi pour dégradation de mobilier urbain. La raison ? « Des autocollants de la CGT collés sur des horodateurs. »

      Dernièrement, à l’issue d’une audition, on lui a aussi demandé de soumettre à un prélèvement ADN. « J’ai refusé car j’estime qu’un syndicaliste n’a pas à être fiché comme un criminel. Pour ça, je fais à nouveau l’objet de poursuites. Au moment où je vous parle, j’ai six affaires me concernant en cours d’instruction. » Par le passé, il a été condamné en appel pour manifestation non déclarée et destruction de mobilier urbain (« un feu de palettes et de pneus sur un rond-point ») à 10 000 euros d’amende avec sursis et 16 000 euros de dommages et intérêts au civil.

      « Le gouvernement s’est senti vaciller »

      Au-delà de ce cas extrême, les militants de la CGT ont le sentiment d’être délibérément ciblés par les autorités. A l’issue d’actions ou de manifestations organisées pendant la bataille contre la réforme des retraites, beaucoup de meneurs cégétistes disent avoir été les seuls représentants syndicaux convoqués ou poursuivis. Pourtant, la plupart des actions menées à cette période ont été décidées par l’intersyndicale formée pour l’occasion avec la CFDT, FO, SUD… C’est par exemple le cas en Haute-Vienne, où Arnaud Raffier, secrétaire de l’union locale, rapporte avoir été le seul syndicaliste convoqué après une coupure de courant ayant visé la caisse d’assurance retraite de Limoges : « Les autres meneurs présents devant le bâtiment n’ont pas été inquiétés. »

      Pourquoi s’en prendre uniquement à la CGT ? Laurent Indrusiak a sa petite idée : « Malgré nos difficultés, on reste l’organisation capable de mobiliser le plus de monde dans l’action. C’est ce qui inquiète le gouvernement. » Sollicité à ce sujet par Libération, le ministère de l’Intérieur n’a pas répondu à nos questions. A ce jour, la lettre de Sophie Binet n’a pas non plus reçu de réponse de la part de la Première ministre. « Très en colère » à l’approche de son entrevue avec les gendarmes, Myriam Lebkiri estime, elle, que cette stratégie de « répression syndicale est à la hauteur de la peur qui a frappé le gouvernement » lors de ce dernier mouvement social. Pour elle, pas de doute, « il s’est senti vaciller et nous fait aujourd’hui payer l’addition ».

  • Mise à l’écart de la cheffe des urgences de Laval : le ministre de la Santé interpellé - France Bleu
    https://www.francebleu.fr/infos/sante-sciences/mise-a-l-ecart-de-la-cheffe-des-urgences-de-laval-le-ministre-de-la-sante

    Caroline Brémaud n’est plus la cheffe du service des urgences de l’hôpital de Laval depuis le 1ᵉʳ décembre. Très médiatique, celle qui a lancé l’alerte sur le manque criant de moyens à l’hôpital en 2021, est démise de ses fonctions. Des syndicats de soignants et des élus crient au scandale.

  • Ecco quello che hanno fatto davvero gli italiani “brava gente”

    In un libro denso di testimonianze e documenti, #Eric_Gobetti con “I carnefici del duce” ripercorre attraverso alcune biografie i crimini dei militari fascisti in Libia, Etiopia e nei Balcani, smascherando una narrazione pubblica che ha distorto i fatti in una mistificazione imperdonabile e vigliacca. E denuncia l’incapacità nazionale di assumersi le proprie responsabilità storiche, perpetuata con il rosario delle “giornate della memoria”. Ci fu però chi disse No.

    “I carnefici del duce” è un testo che attraverso alcune emblematiche biografie è capace di restituire in modo molto preciso e puntigliosamente documentato le caratteristiche di un’epoca e di un sistema di potere. Di esso si indagano le pratiche e le conseguenze nella penisola balcanica ma si dimostra come esso affondi le radici criminali nei territori coloniali di Libia ed Etiopia, attingendo linfa da una temperie culturale precedente, dove gerarchia, autoritarismo, nazionalismo, militarismo, razzismo, patriarcalismo informavano di sé lo Stato liberale e il primo anteguerra mondiale.

    Alla luce di tali paradigmi culturali che il Ventennio ha acuito con il culto e la pratica endemica dell’arbitrio e della violenza, le pagine che raccontano le presunte prodezze italiche demoliscono definitivamente l’immagine stereotipa degli “italiani brava gente”, una mistificazione imperdonabile e vigliacca che legittima la falsa coscienza del nostro Paese e delle sue classi dirigenti, tutte.

    Anche questo lavoro di Gobetti smaschera la scorciatoia autoassolutoria dell’Italia vittima dei propri feroci alleati, denuncia l’incapacità nazionale di assumere le proprie responsabilità storiche nella narrazione pubblica della memoria – anche attraverso il rosario delle “giornate della memoria” – e nell’ufficialità delle relazioni con i popoli violentati e avidamente occupati dall’Italia. Sì, perché l’imperialismo fascista, suggeriscono queste pagine, in modo diretto o indiretto, ha coinvolto tutta la popolazione del Paese, eccetto coloro che, nei modi più diversi, si sono consapevolmente opposti.

    Non si tratta di colpevolizzare le generazioni (soprattutto maschili) che ci hanno preceduto, afferma l’autore,­ ma di produrre verità: innanzitutto attraverso l’analisi storiografica, un’operazione ancora contestata, subissata da polemiche e a volte pure da minacce o punita con la preclusione da meritate carriere accademiche; poi assumendola come storia propria, riconoscendo responsabilità e chiedendo perdono, anche attraverso il ripudio netto di quel sistema di potere e dei suoi presunti valori. Diventando una democrazia matura.

    Invece, non solo persistono ambiguità, omissioni, false narrazioni ma l’ombra lunga di quella storia, attraverso tante biografie, si è proiettata nel secondo dopoguerra, decretandone non solo la radicale impunità ma l’affermarsi di carriere, attività e formazioni che hanno insanguinato le strade della penisola negli anni Settanta, minacciato e condizionato l’evolversi della nostra democrazia.

    Di un sistema di potere così organicamente strutturato – come quello che ha retto e alimentato l’imperialismo fascista – pervasivo nelle sue articolazioni sociali e culturali, il testo di Gobetti ­accanto alle voci dei criminali e a quelle delle loro vittime, fa emergere anche quelle di coloro che hanno detto no, scegliendo di opporsi e dimostra che, nonostante tutto, era comunque possibile fare una scelta, nelle forme e nelle modalità più diverse: dalla volontà di non congedarsi dal senso della pietà, al tentativo di rendere meno disumano il sopravvivere in un campo di concentramento; dalla denuncia degli abusi dei propri pari, alla scelta della Resistenza con gli internati di cui si era carcerieri, all’opzione netta per la lotta di Liberazione a fianco degli oppressi dal regime fascista, a qualunque latitudine si trovassero.

    È dunque possibile scegliere e fare la propria parte anche oggi, perché la comunità a cui apparteniamo si liberi dagli “elefanti nella stanza” – così li chiama Gobetti nell’introduzione al suo lavoro –­ cioè dai traumi irrisolti con cui ci si rifiuta di fare i conti, che impediscono di imparare dai propri sbagli e di diventare un popolo maturo, in grado di presentarsi con dignità di fronte alle altre nazioni, liberando dalla vergogna le generazioni che verranno e facendo in modo che esse non debbano più sperimentare le nefandezze e i crimini del fascismo, magari in abiti nuovi. È questo autentico amor di patria.

    “I carnefici del duce” – 192 pagine intense e scorrevolissime, nonostante il rigore della narrazione,­ è diviso in 6 capitoli, con un’introduzione che ben motiva questa nuova ricerca dell’autore, e un appassionato epilogo, che ne esprime l’alto significato civile.

    Le tappe che vengono scandite scoprono le radici storiche dell’ideologia e delle atrocità perpetrate nelle pratiche coloniali fasciste e pre-fasciste; illustrano la geopolitica italiana del Ventennio nei Balcani, l’occupazione fascista degli stessi fino a prospettarne le onde lunghe nelle guerre civili jugoslave degli anni Novanta del secolo scorso; descrivono la teoria e la pratica della repressione totale attuata durante l’occupazione, circostanziandone norme e regime d’impunità; evidenziano la stretta relazione tra la filosofia del regime e la mentalità delle alte gerarchie militari.


    Raccontano le forme e le ragioni dell’indebita appropriazione delle risorse locali e le terribili conseguenze che ne derivarono per le popolazioni, fino a indagare l’inferno, il fenomeno delle decine e decine di campi d’internamento italiani, di cui è emblematico quello di Arbe. Ciascun capitolo è arricchito da una testimonianza documentaria, significativa di quanto appena esposto. Impreziosiscono il testo, oltre ad un’infinità di note che giustificano quasi ogni passaggio – a riprova che nel lavoro storiografico rigore scientifico e passione civile possono e anzi debbono convivere – una bibliografia e una filmografia ragionata che offrono strumenti per l’approfondimento delle questioni trattate.

    https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/ecco-quello-che-hanno-fatto-davvero-gli-italiani-brava-gente
    #Italiani_brava_gente #livre #Italie #colonialisme #fascisme #colonisation #Libye #Ethiopie #Balkans #contre-récit #mystification #responsabilité_historique #Italie_coloniale #colonialisme_italien #histoire #soldats #armée #nationalisme #racisme #autoritarisme #patriarcat #responsabilité_historique #mémoire #impérialisme #impérialisme_fasciste #vérité #résistance #choix #atrocités #idéologie #occupation #répression #impunité #camps_d'internement #Arbe

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    • I carnefici del Duce

      Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili. Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni?
      In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858151396
      #patrie #patriotisme #Grèce #Yougoslavie #crimes_de_guerre #camps_de_concentration #armes_chimiques #violence #brutalité

  • #José_Vieira : « La #mémoire des résistances face à l’accaparement des terres a été peu transmise »

    Dans « #Territórios_ocupados », José Vieira revient sur l’#expropriation en #1941 des paysans portugais de leurs #terres_communales pour y planter des #forêts. Cet épisode explique les #mégafeux qui ravagent le pays et résonne avec les #luttes pour la défense des #biens_communs.

    Né au Portugal en 1957 et arrivé enfant en France à l’âge de 7 ans, José Vieira réalise depuis plus de trente ans des documentaires qui racontent une histoire populaire de l’immigration portugaise.

    Bien loin du mythe des Portugais·es qui se seraient « intégré·es » sans le moindre problème en France a contrario d’autres populations, José Vieira s’est attaché à démontrer comment l’#immigration_portugaise a été un #exode violent – voir notamment La Photo déchirée (2001) ou Souvenirs d’un futur radieux (2014) –, synonyme d’un impossible retour.

    Dans son nouveau documentaire, Territórios ocupados, diffusé sur Mediapart, José Vieira a posé sa caméra dans les #montagnes du #Caramulo, au centre du #Portugal, afin de déterrer une histoire oubliée de la #mémoire_collective rurale du pays. Celle de l’expropriation en 1941, par l’État salazariste, de milliers de paysans et de paysannes de leurs terres communales – #baldios en portugais.

    Cette #violence étatique a été opérée au nom d’un vaste #projet_industriel : planter des forêts pour développer économiquement ces #territoires_ruraux et, par le même geste, « civiliser » les villageois et villageoises des #montagnes, encore rétifs au #salariat et à l’ordre social réactionnaire de #Salazar. Un épisode qui résonne aujourd’hui avec les politiques libérales des États qui aident les intérêts privés à accaparer les biens communs.

    Mediapart : Comment avez-vous découvert cette histoire oubliée de l’expropriation des terres communales ou « baldios » au Portugal ?

    José Vieira : Complètement par hasard. J’étais en train de filmer Le pain que le diable a pétri (2012, Zeugma Films) sur les habitants des montagnes au Portugal qui sont partis après-guerre travailler dans les usines à Lisbonne.

    Je demandais à un vieux qui est resté au village, António, quelle était la définition d’un baldio – on voit cet extrait dans le documentaire, où il parle d’un lieu où tout le monde peut aller pour récolter du bois, faire pâturer ses bêtes, etc. Puis il me sort soudain : « Sauf que l’État a occupé tous les baldios, c’était juste avant que je parte au service militaire. »

    J’étais estomaqué, je voulais en savoir plus mais impossible, car dans la foulée, il m’a envoyé baladé en râlant : « De toute façon, je ne te supporte pas aujourd’hui. »

    Qu’avez-vous fait alors ?

    J’ai commencé à fouiller sur Internet et j’ai eu la chance de tomber sur une étude parue dans la revue de sociologie portugaise Análise Social, qui raconte comment dans les années 1940 l’État salazariste avait pour projet initial de boiser 500 000 hectares de biens communaux en expropriant les usagers de ces terres.

    Je devais ensuite trouver des éléments d’histoire locale, dans la Serra do Caramulo, dont je suis originaire. J’ai passé un temps fou le nez dans les archives du journal local, qui était bien sûr à l’époque entièrement dévoué au régime.

    Après la publication de l’avis à la population que les baldios seront expropriés au profit de la plantation de forêts, plus aucune mention des communaux n’apparaît dans la presse. Mais rapidement, des correspondants locaux et des éditorialistes vont s’apercevoir qu’il existe dans ce territoire un malaise, qu’Untel abandonne sa ferme faute de pâturage ou que d’autres partent en ville. En somme, que sans les baldios, les gens ne s’en sortent plus.

    Comment sont perçus les communaux par les tenants du salazarisme ?

    Les ingénieurs forestiers décrivent les paysans de ces territoires comme des « primitifs » qu’il faut « civiliser ». Ils se voient comme des missionnaires du progrès et dénoncent l’oisiveté de ces montagnards peu enclins au salariat.

    À Lisbonne, j’ai trouvé aussi une archive qui parle des baldios comme étant une source de perversion, de mœurs légères qui conduisent à des enfants illégitimes dans des coins où « les familles vivent presque sans travailler ». Un crime dans un régime où le travail est élevé au rang de valeur suprême.

    On retrouve tous ces différents motifs dans le fameux Portrait du colonisé d’Albert Memmi (1957). Car il y a de la part du régime un vrai discours de colonisateur vis-à-vis de ces régions montagneuses où l’État et la religion ont encore peu de prise sur les habitants.

    En somme, l’État salazariste veut faire entrer ces Portugais reculés dans la modernité.

    Il y a eu des résistances face à ces expropriations ?

    Les villageois vont être embauchés pour boiser les baldios. Sauf qu’après avoir semé les pins, il faut attendre vingt ans pour que la forêt pousse.

    Il y a eu alors quelques histoires d’arrachage clandestin d’arbres. Et je raconte dans le film comment une incartade avec un garde forestier a failli virer au drame à cause d’une balle perdue – je rappelle qu’on est alors sous la chape de plomb du salazarisme. D’autres habitants ont aussi tabassé deux gardes forestiers à la sortie d’un bar et leur ont piqué leurs flingues.

    Mais la mémoire de ces résistances a peu été transmise. Aujourd’hui, avec l’émigration, il ne reste plus rien de cette mémoire collective, la plupart des vieux et vieilles que j’ai filmés dans ce documentaire sont déjà morts.

    Comment justement avez-vous travaillé pour ce documentaire ?

    Quand António me raconte cette histoire d’expropriation des baldios par l’État, c’était en 2010 et je tournais un documentaire, Souvenirs d’un futur radieux. Puis lorsqu’en 2014 un premier incendie a calciné le paysage forestier, je me suis dit qu’il fallait que je m’y mette.

    J’ai travaillé doucement, pendant trois ans, sans savoir où j’allais réellement. J’ai filmé un village situé à 15 kilomètres de là où je suis né. J’ai fait le choix d’y suivre des gens qui subsistent encore en pratiquant une agriculture traditionnelle, avec des outils de travail séculaires, comme la roue celte. Ils ont les mêmes pratiques que dans les années 1940, et qui sont respectueuses de l’écosystème, de la ressource en eau, de la terre.

    Vous vous êtes aussi attaché à retracer tel un historien cet épisode de boisement à marche forcée...

    Cette utopie industrialiste date du XIXe siècle, des ingénieurs forestiers parlant déjà de vouloir récupérer ces « terres de personne ». Puis sous Salazar, dans les années 1930, il y a eu un débat intense au sein du régime entre agrairistes et industrialistes. Pour les premiers, boiser ne va pas être rentable et les baldios sont vitaux aux paysans. Pour les seconds, le pays a besoin de l’industrie du bois pour décoller économiquement, et il manque de bras dans les villes pour travailler dans les usines.

    Le pouvoir central a alors même créé un organisme étatique, la Junte de colonisation interne, qui va recenser les baldios et proposer d’installer des personnes en leur donnant à cultiver des terres communales – des colonies de repeuplement pour résumer.

    Finalement, l’industrie du bois et de la cellulose l’a emporté. La loi de boisement des baldios est votée en 1938 et c’est en novembre 1941 que ça va commencer à se mettre en place sur le terrain.

    Une enquête publique a été réalisée, où tout le monde localement s’est prononcé contre. Et comme pour les enquêtes aujourd’hui en France, ils se sont arrangés pour dire que les habitants étaient d’accord.

    Qu’en est-il aujourd’hui de ces forêts ? Subsiste-t-il encore des « baldios » ?

    Les pinèdes sont exploitées par des boîtes privées qui font travailler des prolos qui galèrent en bossant dur. Mais beaucoup de ces forêts ont brûlé ces dernière décennies, notamment lors de la grande vague d’incendies au Portugal de 2017, où des gens du village où je filmais ont failli périr.

    Les feux ont dévoilé les paysages de pierre qu’on voyait auparavant sur les photos d’archives du territoire, avant que des pins de 30 mètres de haut ne bouchent le paysage.

    Quant aux baldios restants, ils sont loués à des entreprises de cellulose qui y plantent de l’eucalyptus. D’autres servent à faire des parcs d’éoliennes. Toutes les lois promues par les différents gouvernements à travers l’histoire du Portugal vont dans le même sens : privatiser les baldios alors que ces gens ont géré pendant des siècles ces espaces de façon collective et très intelligente.

    J’ai fait ce film avec en tête les forêts au Brésil gérées par les peuples autochtones depuis des siècles, TotalEnergies en Ouganda qui déplace 100 000 personnes de leurs terres pour du pétrole ou encore Sainte-Soline, où l’État aide les intérêts privés à accaparer un autre bien commun : l’eau.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/021223/jose-vieira-la-memoire-des-resistances-face-l-accaparement-des-terres-ete-

    #accaparement_de_terres #terre #terres #dictature #histoire #paysannerie #Serra_do_Caramulo #communaux #salazarisme #progrès #colonisation #colonialisme #rural #modernité #résistance #incendie #boisement #utopie_industrialiste #ingénieurs #ingénieurs_forestiers #propriété #industrie_du_bois #Junte_de_colonisation_interne #colonies_de_repeuplement #cellulose #pinèdes #feux #paysage #privatisation #eucalyptus #éoliennes #loi #foncier

  • L’erosione di Schengen, sempre più area di libertà per pochi a danno di molti

    I Paesi che hanno aderito all’area di libera circolazione strumentalizzano il concetto di minaccia per la sicurezza interna per poter ripristinare i controlli alle frontiere e impedire così l’ingresso ai migranti indesiderati. Una forzatura, praticata anche dall’Italia, che scatena riammissioni informali e violazioni dei diritti. L’analisi dell’Asgi

    Lo spazio Schengen sta venendo progressivamente eroso e ridotto dagli Stati membri dell’Unione europea che, con il pretesto della sicurezza interna o di “minacce” esterne, ne sospendono l’applicazione. Ed è così che da spazio di libera circolazione, Schengen si starebbe trasformando sempre più in un labirinto creato per isolare e respingere le persone in transito e i cittadini stranieri.

    Per l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) la sospensione della libera circolazione, che dovrebbe essere una pratica emergenziale da attivarsi solo nel caso di minacce gravi per la sicurezza di un Paese, rischia infatti di diventare una prassi ricorrente nella gestione dei flussi migratori.

    A fine ottobre di quest’anno il governo italiano ha riattivato i controlli al confine con la Slovenia, giustificando l’iniziativa con l’aumento del rischio interno a seguito della guerra in atto a Gaza e da possibili infiltrazioni terroristiche. La decisione è stata anche proposta come reazione alla pressione migratoria a cui è soggetto il Paese. Lo stesso giorno in cui l’Italia ha annunciato la sospensione della libera circolazione -misura prorogata- la stessa scelta è stata presa anche da Slovenia, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Germania. Una prassi che rischia di agevolare le violazioni dei diritti delle persone in transito. “Questa pratica, così come l’uso degli accordi bilaterali di riammissione, ha di fatto consentito alle autorità di frontiera dei vari Stati membri di impedire l’ingresso nel territorio e di applicare respingimenti ai danni di persone migranti e richiedenti asilo, in violazione di numerose norme nazionali e sovranazionali”, scrive l’Asgi.

    Il “Codice frontiere Schengen” prevede che i confini interni possano essere attraversati in un qualsiasi punto senza controlli sulle persone, in modo indipendente dalla loro nazionalità. Secondo i dati del Consiglio dell’Unione europea, circa 3,5 milioni di persone attraverserebbero questi confini ogni giorno mentre in 1,7 milioni lavorerebbero in un Paese diverso da quello di residenza, attraversando così una frontiera interna. In caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna in uno Stato membro, però, quest’ultimo è autorizzato a ripristinare i controlli “in tutte o in alcune parti delle sue frontiere interne per un periodo limitato non superiore a 30 giorni o per la durata prevedibile della minaccia grave”. Tuttavia, lo stesso Codice afferma che “la migrazione e l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini di Paesi terzi non dovrebbero in sé essere considerate una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza”.

    Inoltre, anche nel caso in cui vengano introdotte restrizioni alla libera circolazione, queste vanno applicate in accordo con il diritto delle persone in transito. “La reintroduzione temporanea dei controlli non può giustificare alcuna deroga al rispetto dei diritti fondamentali delle persone straniere che fanno ingresso nel territorio degli Stati membri e, nel caso specifico dell’Italia, attraverso il confine italo-sloveno -ribadisce l’Asgi-. In particolare, il controllo non può esentare le autorità di frontiera dalla verifica delle situazioni individuali delle persone straniere che intendano accedere nel territorio dello Stato e che intendano presentare domanda di asilo”. In particolare, la sicurezza dei confini non può impedire l’accesso alle procedure di protezione internazionale per chi ne fa richieste e di riceve informazioni sulla possibilità di farlo. Infine, i controlli non possono portare a una violazione del diritto di non respingimento, che impedisce l’espulsione di una persona verso Paese dove potrebbe subire trattamenti inumani o degradanti o dove possa essere soggetta a respingimenti “a catena” verso Stati che si macchiano di queste pratiche.

    Le operazioni di pattugliamento lungo il confine tra Italia e Slovenia presentano criticità proprio in tal senso. Secondo le notizie riportate dai media e le recenti dichiarazioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, l’Italia avrebbe applicato ulteriori misure che hanno l’evidente effetto di impedire alla persona straniera l’accesso al territorio nazionale e ai diritti che ne conseguono. Già a settembre del 2023 il ministro aveva dichiarato, in risposta a un’interrogazione parlamentare, la ripresa dell’attività congiunta tra le forze di polizia di Italia e Slovenia a partire dal 2022. Sottolineando come grazie all’accordo fosse stato possibile impedire, per tutto il 2023, l’ingresso sul territorio nazionale di circa 1.900 “migranti irregolari”. “Preoccupa, inoltre, l’opacità operativa che caratterizza questi interventi di polizia: le modalità, infatti, con le quali vengono condotti sono poco chiare e difficilmente osservabili ma celano evidenti profili di criticità e potenziali lesioni di diritti”.

    Le azioni di polizia, infatti, avrebbero avuto luogo già in territorio italiano oltre il confine: una simile procedura appare in linea con quanto previsto dalle procedure di riammissione bilaterale, ma in contrasto con il Codice frontiere Schengen, che presuppone che i controlli possano essere svolti solo presso i valichi di frontiera comunicati alle istituzioni competenti. Una prassi simile è stata riscontrata lungo il confine italo-francese, dove l’Asgi ha identificato la coesistenza di pratiche legate alla sospensione della libera circolazione con procedure di riammissione informale.

    “La libera circolazione nello spazio europeo è una delle conquiste più importanti dei nostri tempi -è la conclusione dell’Asgi-. Il suo progressivo smantellamento dovrebbe essere dettato da una effettiva emergenza e contingenza, entrambe condizioni che sembrano non rinvenibili nelle motivazioni addotte dall’Italia e dagli altri Stati membri alla Commissione europea. La libertà di circolazione, pilastro fondamentale dell’area Schengen, rivela forse a tutt’oggi la sua vera natura: un’area di libertà per pochi a danno di molti”.

    https://altreconomia.it/lerosione-di-schengen-sempre-piu-area-di-liberta-per-pochi-a-danno-di-m

    #Schengen #contrôles_frontaliers #contrôles_systématiques_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #frontières #Europe #frontières_intérieures #espace_Schengen #sécurité #libre_circulation #Italie #Slovénie #terrorisme #Gaza #Slovénie #Autriche #République_Tchèque #Slovaquie #Pologne #Allemagne #accords_bilatéraux #code_frontières #droits_humains #droits_fondamentaux #droit_d'asile #refoulements_en_chaîne #patrouilles_mixtes #réadmissions_informelles #France #frontière_sud-alpine

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    ajouté au fil de discussion sur la réintroduction des contrôles systématiques à la frontière entre Italie et Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/1021994

  • Aumento di arrivi alle Canarie. Dall’inizio dell’anno più di 1.000 le persone disperse

    La principale causa è la repressione delle proteste in Senegal.

    A partire dallo scorso maggio 2023 il collettivo spagnolo Caminando Fronteras ha registrato un nuovo importante aumento di sbarchi alle isole Canarie dovuto principalmente alla situazione politica in Senegal, da dove partono la maggior parte delle imbarcazioni. Come sempre accade, proporzionalmente all’aumento di approdi, aumenta anche il numero di morti e dispersi. La risposta del governo spagnolo è la promessa di maggiore controllo sulle coste africane di partenza, mentre le strutture di “accoglienza” sono al collasso e non forniscono le condizioni minime di igiene e abitabilità.

    Secondo le ricerche di Caminando Fronteras le persone scomparse sono già più di mille dall’inizio dell’anno. Solo nel mese di giugno sono scomparse 3 imbarcazioni con oltre 300 persone a bordo. La maggior parte delle imbarcazioni che stanno raggiungendo le Canarie in questi mesi partono dal Senegal, a causa di una situazione politica sempre più tesa, che vive ora una fase particolarmente acuta.

    Migliaia di persone stanno protestando per la stretta autoritaria messa in atto dall’attuale presidente Macky Sall in vista delle prossime elezioni presidenziali che si terranno a febbraio 2024. Dalla fine di maggio in particolare, la situazione è peggiorata notevolmente e diverse organizzazioni senegalesi per la protezione dei diritti umani hanno denunciato arresti di massa che stanno colpendo anche un gran numero di adolescenti.

    La repressione è molto dura, attualmente si contano circa due mila arresti e 16 persone uccise durante le proteste. Tra le persone detenute si contano anche numerosi minori, motivo per cui negli ultimi due mesi, il numero di bambini e adolescenti che viaggiano sui cayucos è aumentato, rappresentando in alcuni casi fino al 40% delle persone che scelgono di partire a bordo di queste tradizionali imbarcazioni da pesca. Anche donne e intere famiglie stanno iniziando a imbarcarsi in misura sempre maggiore.

    Le autorità spagnole concentrano la loro azione sugli arrivi, ma non sulla pericolosa rotta che divide il Senegal dalle Canarie, attualmente quella che provoca più morti. Il viaggio da Kafountine, in Senegal, al Hierro, l’isola delle Canarie più vicina, può durare anche due settimane. Si tratta di un viaggio molto lungo, in cui le persone sono esposte alle forti correnti dell’oceano, alle condizioni meteorologiche avverse e alla possibilità di imprevisti o guasti al motore. Per queste ragioni la rotta verso le Canarie continua ad affermarsi come una delle più pericolose e con il più alto tasso di mortalità.

    L’azione statale rispetto al soccorso e alla ricerca dei dispersi presenta grosse falle, dal momento che non esiste nessun protocollo per la ricerca dei dispersi in mare e che le operazioni di salvataggio risultano attraversate e ostacolate dalle politiche razziste implementate dal governo spagnolo. Dal 2018 esiste infatti un protocollo specifico per il salvataggio delle persone che naufragano a bordo delle pateras, diverso dal protocollo di salvataggio per il resto delle persone che si trovano a rischio in mare.

    Questo protocollo è fortemente deficitario in termini di mezzi e di azione, ciò obbliga gli operatori e le operatrici di Salvamento marítimo a una differenziazione di tipo razzista nelle operazioni di salvataggio. Molte morti si sarebbero potute evitare, per esempio, se si fossero attivati i mezzi di soccorso nel momento dell’avvistamento delle imbarcazioni invece di aspettare che queste naufragassero. Queste gravi mancanze nel soccorso e nella ricerca dei dispersi non sono un caso, bensì una precisa strategia per tentare di invisibilizzare questa situazione nel discorso pubblico e il governo la mette in atto impunemente, sulla pelle di migliaia di persone che potevano invece essere salvate, la cui vita viene considerata niente più che una moneta di scambio per le proprie esigenze politiche.

    Anche una volta arrivate le persone continuano a essere oggetto di razzismo e maltrattamento istituzionale. A El Hierro, dove sta arrivando la maggior parte di persone in questi mesi, i mezzi per gestire l’accoglienza sono scarsi. Le persone vengono trattenute sulle darsene dei porti, in spazi sovraffollati e in cui le condizioni di vita sono ridotte al minimo. Anche i lavoratori e le lavoratrici delle ONG hanno denunciato la difficile situazione, soprattutto durante le ondate di caldo, in cui le persone sono state costrette a permanere diversi giorni sedute sul cemento in attesa di essere identificate e trasferite in altre isole.

    A tutta questa situazione il governo risponde attraverso la solita retorica del bisogno di un maggiore controllo migratorio. Le misure promesse dal ministro dell’interno Marlaska, riconfermato dopo le ultime elezioni, comprenderebbero anche un aereo della Guardia Civil che sorvoli costantemente le coste africane per identificare le partenze. Questo controllo non sarebbe funzionale ad attività di soccorso, come dimostrano i numerosi casi di omissione di soccorso da parte delle autorità spagnole denunciati da Caminando Fronteras, di cui uno documentato il 20 giugno scorso dall’emittente radio CadenaSER 1.

    Una volta in più assistiamo a come le politiche di controllo, non potendo fermare le migrazioni, siano solamente un dispositivo funzionale alla criminalizzazione e al confinamento delle persone migranti, e di come si rivelino uno strumento di violenza che provoca ogni anno la morte di migliaia di persone che potevano invece essere salvate. I tentativi di insabbiamento di queste morti da parte del governo spagnolo dimostrano la disumanità con cui vengono gestite le frontiere e l’opportunismo politico con cui i governi europei rigirano a proprio favore queste tragedie, di cui sono i responsabili, per mettere in campo nuovi strumenti per la persecuzione delle persone migranti.

    1. Está dentro de la zona SAR nuestra”: la SER accede a las grabaciones de Salvamento Marítimo del último naufragio en la ruta canaria, Cadenaser (22 giugno 2022): https://cadenaser.com/nacional/2023/06/22/esta-dentro-de-la-zona-sar-nuestra-la-ser-accede-a-las-grabaciones-de-sal

    https://www.meltingpot.org/2023/11/aumento-di-arrivi-alle-canarie-dallinizio-dellanno-sono-gia-piu-di-1-000

    J’avais loupé ce protocole raciste:

    Dal 2018 esiste infatti un protocollo specifico per il salvataggio delle persone che naufragano a bordo delle pateras, diverso dal protocollo di salvataggio per il resto delle persone che si trovano a rischio in mare.

    Questo protocollo è fortemente deficitario in termini di mezzi e di azione, ciò obbliga gli operatori e le operatrici di Salvamento marítimo a una differenziazione di tipo razzista nelle operazioni di salvataggio.

    –-> deepl translation:

    « En effet, depuis 2018, il existe un protocole spécifique pour le sauvetage des naufragés à bord des pateras, qui diffère du protocole de sauvetage du reste des personnes en danger en mer.

    Ce protocole est gravement déficient en termes de moyens et d’action, ce qui oblige les opérateurs du Salvamento marítimo à une #différenciation_raciale dans les opérations de sauvetage. »

    #route_atlantique #asile #migrations #réfugiés #Canaries #îles_Canaries #statistiques #chiffres #Sénégal #répression #Caminando_Fronteras #Macky_Sall #cayucos #Kafountine #Hierro #mourir_en_mer #frontières #morts #décès #mortalité #secours #pateras #Salvamento_marítimo #racisme #sauvetage_différencié #contrôles_frontaliers

  • Priced out by imports, Ghana’s farmers risk death to work in Italy

    Farmers in Ghana say cheap Italian tomatoes are ruining their businesses. Many have travelled to seek work abroad.

    Adu Poku was a farmer in Ghana. It was all he’d ever known. The maize, okra and tomatoes he grew had brought in enough money to pay for his wedding, and to prepare for the birth of his twins. But then everything changed.

    A mining company came and took over most of his land, and what he grew on the patch he had left was no longer enough to make ends meet. Cheap tomatoes from Italy had flooded the market and driven prices down. Most people in the area were struggling, and few could still afford to eat the more expensive local produce. If Adu kept farming, he was afraid he was going to starve.

    He heard that people were travelling to Italy, and there they were earning enough to keep their families alive back in Ghana. He decided he had no choice but to try his luck as well. What happens after such a decision is made is the focus of this series.

    Adu is one of six Ghanaians who tell the stories of their attempts to get Europe. All risked death in search of a better future, and many of them witnessed their travelling companions die along the way. These six men are still alive to tell us what they saw.
    The economics of survival

    This series sheds light on how, in the age of globalisation, agricultural exports from rich countries impact livelihoods and migration in poorer ones.

    We’re not the first to report on stories like this. The documentary Displaced: Tomatoes and Greed from Deutsche Welle and the results of the Modern Marronage research project both corroborate the series’ main point. But here you will hear it straight from the people experiencing it, in their own words. Their message is simple: people are leaving Ghana’s Bono region, once the country’s bread basket, because canned and frozen foods from abroad are causing their farms to fail.

    For them, the taste of this is made more bitter by what happens next. Farming is what these men know, so in Europe they often end up producing the products that had made their livelihoods unviable in the first place. They become the problem they’re trying to escape. On top of all this, their lack of papers makes them highly vulnerable in Europe. Exploitation, violence, dismal living and working conditions, precarity, and deportation are all commonplace for people in their position. All our contributors who made it were eventually detained and sent back. Getting their security back isn’t part of the bargain, despite the risks they take to get it.

    That is, if they get there. Many never make it all the way. For several of our contributors, the journey ended in Libya, where they were arrested after failing in their attempts to cross the sea. They describe their time in detention as “torture”, but what they had experienced up until that point wasn’t much better. In order to pay for their sea crossing, most had spent weeks, months, sometimes even years labouring on construction sites, trying to save money while running the gauntlet of abusive employers, kidnappers, robbers, and armed actors every single day.

    Giving in to ‘voluntary return’

    Once caught, all our contributors eventually chose to be ‘voluntarily returned’ to Ghana. Usually this is done by the International Organization for Migration – the UN body in charge of coordinating such repatriations. What they say about that experience highlights the ethically ambiguous nature of the idea.

    Voluntary returns are often presented as humanitarian. Proponents say they are good because they help people exit bad situations, even if they take migrants away from their goal rather than toward it. And to make that easier to accept, coordinators often offer migrants various kinds of support if they cooperate. This can include work and skills training, as well as capital to start small businesses or to invest in old ones.

    Researchers have long argued that migrants’ experiences of voluntary return are often very different to what is being advertised. Our contributors confirm this.

    To start with, they take issue with how the whole process is framed. They say that ‘voluntary’ is a strange word to use when their only alternative is continued detention in Italy or abuse by their Libyan jailers. That is a choice in name only, rather than saying ‘yes’ to something they want.

    They also believe they were misled – they claim they were offered substantially more help than they ended up receiving. They got a plane trip to Ghana and a bus ticket back to their home villages, but not the support for a fresh start that they believe they were promised. As a result, most returned worse off to the same situation they had left.

    Except for getting out of jail, nothing had been solved by voluntary return. Instead, it had exacerbated the challenges. Even after they were back for a year, our contributors said they were still facing worse socio-economic economic hardship, marginalisation, and vulnerability than before they first decided to travel. And the only solution they could see for that is more travel.

    Returning people back to an on-going problem isn’t a solution. Our contributors call instead for safe and accessible travel options, equal rights, and dignity for all. They also call for their home government, the international system, and the EU to change practices and policies so that a dignified life at home is possible.

    https://www.opendemocracy.net/en/beyond-trafficking-and-slavery/priced-out-by-imports-ghanas-farmers-risk-death-to-work-in-italy-migr

    #Ghana #Italie #tomates #exploitation #migrations #prix #mines #extractivisme #terres #industrie_agro-alimentaire #exportation #importation #économie_de_survie #Bono #livelihoods #migrerrance #itinéraire_migratoire #retour_volontaire

    –—

    voir aussi le très bon webdoc (que j’avais mis sur seenthis en 2014):
    The dark side of the Italian tomatos

    https://seenthis.net/messages/270740

    ping @_kg_

    • Tomatoes and greed – the exodus of Ghana’s farmers

      What do tomatoes have to do with mass migration? Tomatoes are a poker chip in global trade policies. Subsidized products from the EU, China and elsewhere are sold at dumping prices, destroying markets and livelihoods in Africa in the process.

      Edward still harvests tomatoes. But he is no longer on his own fields in Ghana. He now works on plantations in southern Italy under precarious conditions. The tomatoes he harvests are processed, canned and shipped abroad - including to Ghana, where they compete with local products. The flood of cheap imports from China, the US and the EU has driven Ghana’s tomato industry to ruin. Desperate farmers find themselves having to seek work elsewhere, including in Europe. For many, the only route available is a dangerous journey through the desert and across the Mediterranean. Ghana is a nation at peace, a democracy with free elections and economic growth. Nonetheless, tomato farmer Benedicta is only able to make ends meet because her husband regularly sends her money from his earnings in Italy.

      A former tomato factory in Pwalugu, Ghana, illustrates the predicament. This factory once helped secure the livelihood of tomato farmers across the region. Today it lies empty, guarded by Vincent, a former employee who hopes to keep it from falling into ruin. In the surrounding region, the market for tomatoes has collapsed and most farmers are no longer growing what could easily be Ghana’s ‘red gold’. An agricultural advisor is trying to help local tomato farmers, but has little by way of hope to offer. Conditions like this are what drive local farmers to cut their losses and head for Europe. Once in Italy, migrants from Ghana and other African countries are forced to live in desperate conditions near the plantations. They work as day laborers for extremely low wages, helping to grow the very tomatoes that are costing people back home their work and livelihoods. These days, canned tomatoes from China, Italy and Spain are available for purchase on the market of Accra. Some may call this free trade. But economist Kwabena Otoo says free trade should open doors; not destroy people’s lives.

      Every two seconds, a person is forced to flee their home. Today, more than 70 million people have been displaced worldwide. The DW documentary series ‘Displaced’ sheds light on the causes of this crisis and traces how wealthy industrialized countries are contributing to the exodus from the Global South.

      https://www.youtube.com/watch?v=rlPZ0Bev99s

      #reportage #vidéo

    • I left Ghana to farm in Italy. I was exploited in both places

      Kojo risked his life mining in Ghana. He went to Italy for better opportunities, but was shocked by what he saw.

      Kojo Afreh was a farmer and miner in Ghana before he decided to travel to Italy. He hoped that by finding work abroad, he could support his family and eventually marry the mother of his child. But his journey didn’t go to plan. Kojo is one of six migrant workers who told us about their experiences of migration for this series. An explanation of how we produced this interview can be found at the end.

      Raphel Ahenu (BTS): Hello Kojo, thank you for meeting me today. Can you tell me about yourself?

      Kojo Afreh: I’m 27 years old. I have a child but am no longer with the mother. I come from a family of maize farmers, and that was what I was doing for seven years before I travelled.

      My farm was small – I never had the money to invest in something bigger. I was also working in galamsey (small-scale, illegal mining) in order to supplement my income from the farm.

      Raphel: Why did you decide to leave Ghana?

      Kojo: Hardship! I was really struggling. I never had enough money. Galamsey mining is dangerous as well. Bad accidents happen and sometimes people lose their lives. My parents were always worried about me.

      My lack of finances was having a big impact on me. The mother of my child couldn’t marry me because of it – her parents didn’t think I could take care of her even though we had a child together. This situation was so sad and frustrating to me. I decided I had to change something.

      Down in the mining pits, all people spoke about was going overseas. Lots of people were leaving the area, so I decided to join them. I asked my older siblings and parents to help me with the trip, and they put some money together for me. It wasn’t exactly a loan, but they expected me to return the favour by helping them out once I was settled in my new life. They told me not to forget about them when I got there.

      Raphel: What was the journey like?

      Kojo: I joined a car going through Burkina Faso to Niger. One man in the group had travelled that way before and knew where to go. That was good, since it meant we didn’t have to pay anyone to take us.

      Then we had to get out and trek until we got to the edge of the Sahara Desert, where we were met by a pickup truck. There were about 30 people in that car. We each had to bring enough drinking water and food for the journey. Once we ran out, that was it.

      It’s a dangerous route: the desert is scorching hot and so windy. There are no trees for miles. It’s like walking on the sea: there’s simply nothing there.

      Finally, we made it to Libya. I stayed with a group of Ghanaians for about five months, where I did all sorts of jobs to make some money for the boat crossing. Then the opportunity came to leave Libya and we got on a boat crossing to Sicily.

      A lot of things happened on that journey, but I can’t talk about them. They’re too painful.

      Raphel: What was life like in Italy?

      Kojo: When we arrived, the Italian authorities processed us and sent us to a reception centre. From there I called some people who had told me they would help me when I got there. They collected me and took me to Piacenza in northern Italy, where I started working on farms in the countryside. There were a few of us doing whatever work we could find, mostly harvesting potatoes and tomatoes.

      Honestly, it was not great. The work was hard and I was lonely – I felt very far from my people. Our supervisors also treated us badly. They often cheated us out of our wages. I was told that workers are meant to receive €100 a day, but we never got more than €40. When we complained, they said it was because they had deducted food and tool costs. We didn’t have papers, so we couldn’t report them to anyone.

      Despite this, I was still able to send some money back home to repay my family and to buy a small plot of land. And in some ways, the work in Italy was still better than what I was doing in Ghana. Galamsey mining was so dangerous.

      Raphel: When did you get sent back?

      Kojo: I was in Italy for about two years, moving from place to place for work. I worked in Puglia, Campania, Foggia and several other places. I was always careful because I didn’t have papers. But, one day some labour inspectors showed up at a farm I was working on.

      My Italian was not very good, so a man who had been there for longer spoke for all of us. He explained to us that the inspectors thought we were slaves and were offering to assist us if we cooperated with them.

      The inspectors said they would help us get our papers and protection. We agreed and they took us away. We did all they asked. We told them where we’d worked, the pay we had received, and the names of the people we had worked for. Only then did we realise they’d tricked us and were planning to deport us.

      Raphel: You couldn’t stay like they’d promised?

      Kojo: No, we couldn’t. The police told me that because I left the processing centre without permission, I had broken the rules and therefore couldn’t get protection.

      I was taken to an immigration centre for deportation. I didn’t have anything with me – all my money and possessions were still where we’d been staying when the inspectors took us away. Fortunately, I had been transferring money home regularly, so I didn’t lose everything. But I had to leave behind around €300.

      In the detention centre, we were told that we would receive some money if we agreed to go back voluntarily. I felt I had no option but to take the offer. It was my choice, but at the same time it was not my choice.

      Raphel: What was the offer?

      Kojo: They gave me a ticket to Ghana and €1,600. In exchange, I wouldn’t be able to receive a visa for Italy or Europe for 10 years.

      I came back just before the Covid-19 pandemic. I wasn’t able to earn anything during the lockdown, so all the money I had saved quickly disappeared. Suddenly, I was back where I started.

      Hustling for work in Italy is hard, but it’s better than what I have in front of me right now. I’m working in the galamsey mines again, and am trying to raise enough money to return to Italy. This time I hope I will be more successful.

      Raphel: Can you tell me about the association you’re part of in your area?

      Kojo: There’s a movement for people like me who have been returned from Italy and Libya by the UN and IOM. We are trying to get these organisations to honour the promises they made to us.

      When they sent me back, they said they would help me stay in Ghana if I agreed to voluntary return. That’s why I cooperated. But they’re not helping me. I am on my own, and it’s the same for the others who were sent back.

      Most of us say that if we ever go back to Europe or North Africa, we will not agree to voluntary return. We now know they just tell us what we want to hear so that we agree to come back.

      The association meets every once in a while, but we haven’t achieved much because things are tough for everyone. People are thinking about how to afford food, not about what to do with this group.

      Raphel: In the meantime, do you have any requests for the government or local authorities in Ghana?

      Kojo: Yes, I want the authorities to offer people like me more support. I’ve been back for nearly four years and it’s been so difficult financially. I’m still supporting my child and the mother of my child. But I will never earn enough to actually be with them.

      https://www.opendemocracy.net/en/beyond-trafficking-and-slavery/i-left-ghana-to-farm-in-italy-i-was-exploited-in-both-places-migratio

      #choix

  • « Le #bien-être est toxique, transformons-le »

    Chaque mois de septembre, nous sommes des millions à nous inscrire dans des cours de fitness ou de relaxation. Prof de yoga et militante, #Camille_Teste imagine un « #bien-être_révolutionnaire ».

    Reporterre — À chaque rentrée, nous sommes nombreuses et nombreux à nous ruer sur les cours de yoga, fitness et autres coachings. Dans votre livre, vous épinglez ce marché du bien-être, « devenu poule aux œufs d’or du #capitalisme ». En quoi le bien-être est-il le « meilleur ami du #néolibéralisme » ?

    Camille Teste — Le système néolibéral nous considère comme des entreprises individuelles à faire fructifier. On nous enjoint donc de nous « auto-optimiser », afin de devenir « la meilleure version de nous-mêmes », via des pratiques de bien-être. Il s’agit d’être en bonne santé, le plus beau et le plus musclé possible, mais aussi — surtout depuis le Covid — le plus spirituellement développé.

    Cette « #auto-optimisation » a deux intérêts : nous pousser à consommer — le #marché du bien-être générerait près de 5 000 milliards de chiffre d’affaires chaque année dans le monde [1] — et nous enfermer dans une forme d’#illusion. Car derrière cette #idéologie, il y a la promesse du #bonheur. Il suffirait de faire du sport, de la méditation et de bien se nourrir pour être heureux. Or résumer le bonheur à une question d’#effort_individuel relève de l’arnaque. La société capitaliste n’est pas structurée pour notre #épanouissement. On peut faire tout le vélo d’appartement qu’on veut, rien n’y fera, nous ne serons pas heureux.

    Vous écrivez : « Face à la planète qui brûle, nous ne savons que faire. Alors, à défaut de changer l’ordre du monde, nous tentons de nous changer nous-mêmes. » Autrement dit, le néolibéralisme se servirait du bien-être pour évacuer la crise climatique.

    Tout à fait. Le monde est en train de s’écrouler : croire qu’on va régler les grands problèmes du XXIe siècle à coups de pratiques de développement personnel, c’est faux et dangereux. Surtout, ça nous détourne de l’#engagement et de l’#organisation_collective.

    « Un bien-être révolutionnaire favorise les #luttes »

    C’est pour ça que les milieux de gauche et militants regardent avec une très grande méfiance les pratiques de bien-être. Je trouve ça dommage, il me semble qu’elles pourraient nous apporter beaucoup, si elles étaient faites autrement. Le bien-être est ringard, inefficace et toxique ? Transformons-le !

    Ne jetons pas le bébé avec l’eau du bain…

    Oui, les pratiques de bien-être ont tout un tas de #vertus dont il serait dommage de se passer dans la construction d’un autre monde. Elles sont avant tout des pratiques de « #care » [#prendre_soin], et permettent de créer des espaces de douceur, d’attention à l’autre, de soin, où l’on accueille les vulnérabilités. Ce sont aussi des espaces où l’on se sent légitimes à déposer les armes, à se reposer, à ne rien faire, à cultiver le non agir.

    À quoi pourrait ressembler un bien-être révolutionnaire ?

    Ce serait un bien-être qui favorise l’#émancipation_individuelle. Pas juste pour maigrir, être efficace au travail ou pour nous faire accepter la crise climatique. Les pratiques de bien-être peuvent nous libérer, nous faire ressentir plus de #plaisir, plus de puissance dans nos corps…

    Un bien-être révolutionnaire favorise aussi les luttes. Comment faire dans un cours de fitness pour sortir des discours individualisant, pour avoir un discours plus collectif, politique ? Par exemple, plutôt que de rappeler, à l’approche de l’été, l’importance de « se donner à fond pour passer l’épreuve du maillot », on pourrait parler patriarcat et injonction à la minceur.

    Que peuvent apporter les pratiques de bien-être aux luttes ?

    Dans les milieux militants, on s’épuise vite et on reste dans une forme d’#hyperproductivisme chère au capitalisme. Le #burn-out_militant est une réalité : on ne peut pas passer tout son temps à lutter ! Quand un ou une athlète prépare les Jeux olympiques, elle ne fait pas que courir et s’entraîner. Il faut aussi dormir, se relâcher. De la même manière, il est essentiel dans nos luttes d’avoir des espaces de #repos. Toutes les pratiques qui visent la pause, le silence, le non agir — comme le yoga, la méditation, la retraite silencieuse, la sieste, la marche — me semble ainsi intéressantes à explorer.

    Les pratiques de bien-être créent aussi du #commun, du #lien : s’entraider, prendre plaisir à être en groupe, être attentif aux autres, apprendre à communiquer ses besoins, expliciter ses limites. Tous ces outils sont utiles pour des milieux militants qui peuvent être toxiques, où l’on peut vite s’écraser, ne pas s’écouter.

    Certaines #pratiques_corporelles permettent aussi de développer l’intelligence du corps. Ce sont des pratiques de #puissance. Personnellement, depuis que mon corps est assez fort, je ne marche plus devant un groupe de mecs de la même manière ; je me sens davantage capable d’aller en manif, de faire en sorte que mon #corps se frotte aux difficultés. Attention, ça ne veut pas dire que si on fait tous de la muscu, on pourra faire un énorme blocage d’autoroute ! Mais ça peut aider.

    Enfin, il y a aussi une question de #projet_politique. Comment donner envie aux gens de nous rejoindre, d’adhérer ? Un projet à la dure ne va pas convaincre les gens : le côté sacrificiel du #militantisme, ça ne donne pas envie. Il faut une place pour la #joie, le soin.

    Le bien-être, tel qu’il est transmis actuellement, est fait pour les classes dominantes (blanches, riches, valides). Peut-on le rendre plus accessible ?

    Le bien-être est aujourd’hui un produit, une #marchandise, que l’on vend en particulier aux classes moyennes et supérieures. Pourtant, nombre de choses qui nous font du bien ne sont pas forcément des choses chères : faire des siestes, être en famille, mettre de la musique dans son salon pour danser ou marcher dehors.

    Les espaces de bien-être sont très normés du point de vue du corps, avec des conséquences très directes : il est par exemple difficile pour les personnes se sentant grosses de venir dans ces lieux où elles peuvent se sentir jugées. On peut y remédier, en formant les praticiens, en adaptant les espaces : les salles de yoga où l’on considère qu’un mètre carré par personne suffit ne sont pas adéquates. Des flyers montrant des femmes blondes minces dans des positions acrobatiques peuvent être excluants.

    Il s’agit aussi de penser la question de l’#appropriation_culturelle : les pratiques de bien-être piochent souvent dans tout plein de rites culturels sans les comprendre. Il faudrait interroger et comprendre le sens de ce qu’on fait, et les conséquences que cela peut avoir. La diffusion à grande échelle de la cérémonie de l’ayahuasca [une infusion à des fins de guérison] a par exemple profondément transformé ce rite en Amérique latine.

    Vous expliquez que les pratiques de bien-être pourraient nous aider à « décoloniser nos corps » du capitalisme. Comment ?

    Le capitalisme ne nous valorise que dans l’hyperaction, dans l’hyperactivité. Cela crée des réflexes en nous : restez une demi-journée sans rien faire dans votre canapé, et sentez monter l’angoisse ou la culpabilité ! De la même manière, le système patriarcal crée des réflexes chez les femmes, comme celui de rentrer notre ventre pour avoir l’air plus mince par exemple.

    Observer nos pensées, nos angoisses, nos réactions, ralentir ou ne rien faire… sont autant de méthodes qui peuvent nous aider à décoloniser nos corps. Prendre conscience des fonctionnements induits par le système pour ensuite pouvoir choisir de les changer. Ça aussi, c’est révolutionnaire !

    https://reporterre.net/Le-bien-etre-est-toxique-transformons-le
    #développement_personnel #business

  • L’#errance des habitants de #Gaza dans leur ville transformée en champ de #ruines

    Près de la moitié des bâtiments de la métropole, qui comptait plus d’un million d’habitants avant la guerre, a été détruite ou endommagée par les #bombardements israéliens lancés en #représailles à l’attaque du Hamas le 7 octobre.

    Gaza est une ville brisée. Un géant aveugle semble avoir piétiné des pans entiers de cette métropole de 1,2 million d’habitants. Depuis les massacres commis par le Hamas le 7 octobre dans le sud d’Israël, les bombardements indiscriminés de l’armée israélienne l’ont ruinée pour une bonne part. L’armée cherche un ennemi qui se cache au beau milieu des civils, mais elle punit aussi une cité entière, jugée, dès les premiers jours, coupable des crimes du Hamas par les autorités israéliennes.

    Des lointaines banlieues nord de la #ville de Gaza, il ne reste que des carcasses calcinées, arasées par les frappes qui ont préparé l’invasion terrestre du 28 octobre. En trois semaines, les blindés et l’infanterie se sont rendus maîtres de la moitié ouest de la principale cité de l’enclave, progressant lentement sous un appui aérien serré, qui a percé de nombreux cratères le long des boulevards de Rimal et aux alentours des hôpitaux. Des combats ont encore eu lieu, dimanche 19 novembre, dans le centre-ville de Gaza. L’armée israélienne a affirmé, lundi, continuer « à étendre ses opérations dans de nouveaux quartiers » , notamment à Jabaliya.

    Depuis vendredi 17 novembre, l’#infanterie avance vers les ruelles étroites de la #vieille_ville, le centre et la moitié orientale de Gaza. Qu’en restera-t-il dans quelques semaines, lorsque Israël proclamera que le Hamas en a été chassé ? Dimanche, 25 % des zones habitées de la ville et de sa région nord avaient déjà été détruites, estime le ministère des travaux publics de l’Autorité palestinienne.

    Le Bureau des Nations unies pour la coordination des affaires humanitaires avance qu’au moins 58 % des habitations de l’ensemble de l’enclave sont détruites ou endommagées. L’étude de photographies satellitaires, à l’aide d’un logiciel développé par le site Bellingcat, permet d’estimer, avec prudence, que de 40 % à 50 % du bâti de la ville de Gaza avaient été détruits ou endommagés au 16 novembre – et jusqu’à 70 % du camp de réfugiés d’Al-Chati, sur le front de mer.

    Errance aux quatre coins de la ville

    Les autorités de Ramallah dressent des listes sans fin : elles dénombrent 280 institutions d’éducation et plus de 200 lieux de culte endommagés. Tous les hôpitaux de Gaza sont à l’arrêt, sauf un. Les réseaux de distribution d’eau et d’électricité sont inutilisables. Un quart des routes de l’enclave ont subi des dommages.

    « Gaza est d’ores et déjà détruite. Ce n’est plus qu’une ville fantôme, peuplée de quelques centaines de milliers de déplacés [800 000, selon l’Autorité palestinienne] . Les Israéliens ont voulu punir l’une des plus anciennes cités du monde, en frappant ses universités, ses librairies, ses grands hôtels, son parlement et ses ministères, déplore Ehab Bsaiso, ancien ministre de la culture de l’Autorité palestinienne . Le 13 novembre, une immense professeure de musique, Elham Farah, a été blessée en pleine rue par un éclat de shrapnel. Elle s’est vidée de son sang sur le trottoir, et elle est morte. C’est toute une mosaïque sociale, une culture qu’ils effacent, et bientôt les chars vont avancer vers le Musée archéologique et la vieille église orthodoxe Saint-Porphyre, dont une annexe a été bombardée dès le 19 octobre. » Issu d’une vieille famille gazaouie, ce haut fonctionnaire suit par téléphone, de Bethléem, dans la Cisjordanie occupée, l’errance de ses proches aux quatre coins de leur ville natale et de l’enclave sous blocus, le cœur serré.

    Depuis vendredi, l’armée bombarde puissamment le quartier de Zeitoun, dans le centre-ville. Oum Hassan y est morte ce jour-là. Les trois étages de sa maison se sont écroulés sur ses onze enfants, sur ses petits-enfants et sur des membres des familles de son frère et de son mari. Ils avaient trouvé refuge chez cette parente de 68 ans, après avoir fui des zones pilonnées plus tôt. « Ils sont tous morts. Ma sœur, son mari, leurs enfants, leurs petits-enfants, en plus des voisins qui étaient réfugiés chez eux » , craignait, le 18 novembre, Khaled [un prénom d’emprunt], le frère cadet d’Oum Hassan, exilé en Europe et informé par des voisins qui fouillent les décombres. « On a réussi à extraire deux ou trois corps, des enfants. Les autres sont encore sous les gravats. Il y avait environ 80 personnes dans la maison. Il y a un enfant survivant, peut-être deux. »

    Israël interdit aux journalistes d’entrer dans Gaza pour constater par eux-mêmes ces destructions. Le ministère de la santé de Gaza, contrôlé jusqu’au début de la guerre par le Hamas, n’a pas encore publié lui-même un bilan de cette frappe : les réseaux téléphoniques se rétablissent lentement depuis vendredi, après une énième coupure complète. Depuis le 7 octobre, il estime qu’au moins 13 000 personnes ont péri sous les bombardements.

    « On marche sur nos voisins, sous les décombres »

    Depuis le début de cette guerre, le 7 octobre, Khaled maintient par téléphone un lien ténu entre ses six frères et sœurs encore en vie, éparpillés dans l’archipel de Gaza. Il demande que leurs noms soient modifiés, et que leurs abris ne soient pas identifiables. « Ils m’interrogent : “C’est quoi, les nouvelles ? Tu entends quoi ?” Parfois, je ne sais plus quoi leur dire et j’invente. Je prétends qu’on parle d’un cessez-le-feu imminent, mais je fais attention de ne pas leur donner trop d’espoir. »

    Le centre du monde, pour cette fratrie, c’est la maison de leur défunte mère, dans le quartier de Chajaya. Le fils aîné, Sufyan, vit encore dans un bâtiment mitoyen. A 70 ans, il est incapable de le quitter. Il a subi plusieurs opérations cardiaques : « Son cœur marche sur batterie. Il mourra s’il a une nouvelle crise », craint son cadet, Khaled. Trois de ses enfants ont choisi de demeurer à ses côtés, plutôt que de fuir vers le sud de l’enclave, où les chars israéliens ne sont pas encore déployés.

    D’autres parents les ont rejoints dans ce quartier qui n’est plus que l’ombre de lui-même. Dès les premiers jours, l’armée israélienne a bombardé cette immense banlieue agricole, qui s’étend à l’est de Gaza, jusqu’à la frontière israélienne. Les représentants de ses vieilles familles, les clans Faraj, Jandiya ou Bsaiso, menés par le mokhtar(juge de paix) Hosni Al-Moghani, ont exhorté leurs voisins à évacuer, par textos et en passant de porte en porte.

    Ils craignaient de revivre la précédente invasion terrestre israélienne, en 2014, durant laquelle l’armée avait rasé Chajaya. Au-delà du mur israélien, tout près, s’étendent les kibboutz de Nahal Oz et de Kfar Aza, où le Hamas a semé la mort le 7 octobre. Ces communautés, longtemps agricoles, exploitaient les terres dont les grandes familles de Chajaya ont été expropriées en 1948, à la naissance de l’Etat d’Israël.

    Derrière la maison natale de Khaled, un pâté de maisons a été aplati par les bombes israéliennes, fin octobre. « Le feu et la fumée sont entrés jusque chez nous, la maison a vibré comme dans un tremblement de terre. Les portes et les fenêtres ont été arrachées » , lui a raconté l’une de ses nièces. Les enfants épuisés ne se sont endormis qu’à l’aube. Le lendemain, Sufyan, le patriarche, pleurait : « On marche sur nos voisins, sous les décombres. »Ce vieil homme se désespère de voir ces rues s’évanouir sous ses yeux. Il ressasse ses souvenirs. L’antique mosquée voisine, celle de son enfance, a été endommagée en octobre par une autre frappe, et le vieux pharmacien des environs a plié bagage, après que son échoppe a été détruite.

    Morne succession de blocs d’immeubles

    Dans les années 1970, du temps de l’occupation israélienne, le chemin de fer qui reliait Gaza à l’Egypte courait encore près de ces ruines. « Enfants, on montait sur le toit de la maison quand on entendait arriver les trains israéliens, et on comptait les blindés camouflés qu’ils transportaient vers le Sinaï » , se souvient Khaled. Aujourd’hui, ses petits-neveux regardent passer à pied les cohortes de Gazaouis qui quittent leur ville par milliers. Sur la route Salah Al-Din, chaque jour entre 9 heures et 16 heures depuis le 9 octobre, ils agitent des drapeaux blancs devant les blindés que l’armée israélienne a enterrés dans des trous de sable, dans une vaste zone arasée au sud.

    Début novembre, un second frère, Bassem, a rejoint la maison maternelle, après des semaines d’errance. Cet ancien promoteur immobilier, âgé de 68 ans, vivait à Tel Al-Hawa, une morne succession de blocs d’immeubles aux façades uniformes et poussiéreuses, qui borde la mer à l’extrémité sud-ouest de la ville de Gaza. Dès les premiers jours de bombardements, une frappe a tué son voisin, un avocat. Bassem a quitté immédiatement les lieux, avec sa trentaine d’enfants et de petits-enfants. Ils l’ignoraient alors, mais l’armée préparait son opération terrestre : les blindés qui ont pénétré l’enclave le 28 octobre ont rasé un vaste espace au sud de Tel Al-Hawa, pour en faire leur base arrière.

    Bassem souffre d’un cancer du côlon. Il transporte son « estomac »(un tube de plastique greffé) dans un sac. Marcher lui est difficile. Epaulé par ses enfants, il s’est établi chez des proches, plus près du centre, aux environs du cinéma Nasser, fermé au début des années 1980. A deux rues de son abri, il a retrouvé l’un des plus vieux parcs de Gaza, une merveille fermée le plus clair de l’année, dont seuls de vieux initiés gardent le souvenir. Puis l’armée a progressé jusqu’à la place Al-Saraya, un complexe administratif, une ancienne prison de l’occupant israélien. Bassem et les siens ont quitté les lieux.

    Communauté de pêcheurs

    Le propriétaire d’une vieille camionnette Volkswagen a bien voulu l’embarquer vers la maison de sa mère à Chajaya, avec sa nièce, une jeune photographe qui aurait dû se rendre en Europe, le 10 octobre, invitée pour une résidence d’artiste. Les autres se sont séparés. Plusieurs enfants de Bassem ont gagné le sud de l’enclave. D’autres ont rejoint leur tante, Oum Hassan, dans sa maison de Zeitoun, où ils ont été bombardés le 17 novembre.

    S’il est un lieu aujourd’hui méconnaissable de Gaza, c’est son front de mer. La nuit, les pêcheurs du camp de réfugiés d’Al-Chati ont tremblé sous le roulement des canons des bateaux de guerre israéliens, au large. Parmi eux, selon Musheir El-Farra, un activiste qui tournait un film sur cette communauté de pêcheurs avant la guerre, Madlen Baker fut l’une des premières à quitter ce labyrinthe de ruelles étroites, construit pour des réfugiés chassés de leurs terres en 1948, à la naissance d’Israël, dont les descendants forment 70 % de la population de Gaza.

    Enceinte de sa troisième fille, Madlen a fui la rue Baker, où la famille de son mari, Khaled, installait, avant la guerre, de longues tables mixtes, pour déguster des ragoûts épicés de crevettes aux tomates, les jours de fête. Elle a renoncé à se réfugier dans un village de tentes, dans les cours de l’hôpital Al-Shifa tout proche. Avec une quarantaine de voisins, tous parents, la jeune femme a rejoint Khan Younès, au sud. Elle y a accouché une semaine plus tard, et a juré que sa fillette aurait un sort meilleur que le sien.

    A 31 ans, Madlen est l’unique pêcheuse de la communauté d’Al-Chati, métier d’hommes et de misère. Pour nourrir sa famille, elle a pris charge, à 13 ans, de la barque de son père, gravement malade. Elle a navigué dans les 6 à 15 milles nautiques que la marine israélienne concède aux pêcheurs gazaouis, qui éblouissent et font fuir le poisson à force de serrer les uns contre les autres leurs bateaux et leurs lampes. Elle a craint les courants qui poussaient son embarcation au-delà de cette zone, l’exposant aux tirs de l’armée.

    « Le port a été effacé »

    Elle a envié les grands espaces des pêcheries de l’Atlantique, qu’elle observait sur les réseaux sociaux. « Je courais après les poissons et les Israéliens me couraient après », disait-elle avant la guerre, de sa voix profonde et mélodieuse, devant la caméra de Musheir El-Farra. Ce dernier l’a retrouvée à Khan Younès. Madlen ignore si sa maison est encore debout, mais elle sait que son bateau gît au fond de l’eau, dans les débris du port de Gaza.

    « Même si la guerre finissait, on n’aurait plus une barque pour pêcher. Le port a été effacé. Les bâtiments, le phare, les hangars où nous entreposions nos filets et nos casiers, tout a disparu », énumère son ami et l’un des meneurs de leur communauté, Zakaria Baker, joint par téléphone. Les grands hôtels et les immeubles qui donnent sur le port sont en partie éventrés. L’asphalte de l’interminable boulevard côtier a été arraché par les bulldozers israéliens, comme celui des rues aérées qui, avant la guerre, menaient les promeneurs vers la rive.

    Seule la mer demeure un repère stable pour Zakaria Baker : « Tous mes voisins ont été chassés par les bombardements, qui ont presque détruit Al-Chati, surtout la dernière semaine avant l’invasion du camp. » M. Baker s’est résolu à partir à la veille de l’entrée des chars dans Al-Chati, le 4 novembre. Il a mené un convoi de 250 voisins et parents vers le sud, jusqu’à Khan Younès. Ce fier-à-bras moustachu, plutôt bien en chair avant la guerre, est arrivé émacié, méconnaissable, dans le sud de l’enclave.

    De son refuge de fortune, il assure qu’il retournera à Al-Chati après la guerre. Mais nombre de ses concitoyens n’ont pas sa détermination. « Les gens ont perdu leurs maisons, leurs enfants. Gaza est une âme morte. Beaucoup d’habitants chercheront à émigrer à l’étranger après la guerre. Sauf si une force internationale vient protéger la ville, et prépare le terrain pour que l’Autorité palestinienne en prenne le contrôle. Mais il faudra encore au moins cinq ans et des milliards d’euros pour rendre Gaza de nouveau vivable » , estime l’analyste Reham Owda, consultante auprès des Nations unies.

    « Ce qui a été le plus détruit, ce sont les gens »

    A 43 ans, Mme Owda résidait, avant le conflit, du joli côté d’un boulevard qui sépare le pauvre camp d’Al-Chati du quartier bourgeois de Rimal. Son défunt père, médecin, a fondé le département de chirurgie plastique du grand hôpital voisin Al-Shifa. Il a aussi bâti la maison que Reham a fuie dès le 13 octobre avec sa mère, ses quatre frères et sœurs, et leurs enfants. Sa famille s’est établie durant une semaine à Khan Younès, parmi des milliers de réfugiés, dans les odeurs d’ordures et d’égouts. Manquant de nourriture, ils ont décidé de retourner à Gaza. « Chez nous, nous avions au moins des boîtes de conserve, du gaz et un puits dans le jardin de nos voisins pour l’eau de cuisson » , dit Reham.

    Ils y ont passé dix-sept jours, calfeutrés dans la maison, jusqu’à ce que les chars encerclent l’hôpital. Le 8 novembre, des balles ont ricoché sur leur balcon. « Une boule de feu » , dit-elle, s’est abattue non loin. Un mur d’enceinte s’est écroulé dans leur jardin. La famille a repris le chemin de l’exil, vers le sud. « C’était comme un film de zombies, d’horreur. Des gens erraient sur les boulevards sans savoir où aller. J’ai vu des morceaux de cadavres en décomposition, qui puaient. Mon frère poussait le fauteuil roulant de ma mère, tout en portant son fils et un sac. Quand j’ai voulu m’asseoir au milieu d’un boulevard, pour me reposer, un tir a retenti et je suis repartie. »

    Depuis lors, l’armée israélienne a pris le contrôle de l’hôpital Al-Shifa. Elle a affirmé, dimanche 19 novembre, y avoir découvert un tunnel du Hamas, menant à un centre de commandement. Pressant plusieurs centaines de malades d’évacuer les lieux, elle a aussi permis, dimanche, l’évacuation de 31 nouveau-nés, prématurés en danger de mort – quatre autres étaient décédés auparavant.

    Mme Owda craint d’être bientôt contrainte par l’armée de revenir une seconde fois dans sa ville natale, à Gaza. « Je crois que d’ici à la fin du mois, si Israël contrôle toute la cité, l’armée demandera aux habitants de revenir, puis elle pourra poursuivre son opération terrestre dans le Sud. » Samedi 18 novembre, le ministre de la défense, Yoav Gallant, a indiqué que les soldats s’y lanceraient bientôt à la poursuite des chefs du Hamas.

    « Ce qui a été le plus détruit à Gaza, ce sont les gens. Je ne les reconnais plus. Mon voisin est venu vérifier l’état de sa maison récemment. Il pesait 120 kilos avant la guerre, il en a perdu trente en six semaines » , s’épouvante le photographe Mohammed Al-Hajjar, joint par téléphone le 17 novembre. Ce barbu trentenaire, au rire rocailleux de fumeur, réside dans la rue Al-Jalaa, au nord de chez Owda, avec trente parents : ses frères et leurs familles. Le père de son épouse, Enas, a été tué dans un bombardement au début de la guerre.

    Les trésors du verger

    « Nous mangeons une fois par jour du riz, du pain ou une soupe. Nous, les adultes, nous pouvons survivre avec un biscuit par jour, mais pas nos enfants. Nous espérons que la guerre finisse et de ne pas être forcés de boire de l’eau polluée » , dit-il. Depuis le début de la guerre, Mohammed échange régulièrement sur WhatsApp avec deux amies, l’une à Jérusalem, l’autre, réfugiée dans le sud de Gaza. Mardi 14 novembre au matin, il leur écrivait que la pluie tombait sur Gaza depuis une heure : « Les rues sont pleines de boue, nos fenêtres brisées laissent entrer l’eau, mais je remercie Dieu pour cette pluie bienfaisante. » Il envoyait peu après une photographie de sa cuisine, où des grenades, des clémentines, des citrons et des oranges dégorgeaient de grandes bassines d’aluminium : des taches lumineuses dans l’air gris de Gaza.

    La veille, Mohammed avait tenu une promesse faite à son fils de 7 ans, Majed, et à sa cadette, Majdal, âgée de 2 ans. Il a parcouru la ville à ses risques et périls pour rejoindre un verger qui appartient à sa famille. Il en a rapporté ces fruits, véritables trésors, dans des sacs en plastique gonflés à ras bord. « Nos oliviers et nos goyaviers ont été ravagés par le bombardement d’une maison, en face du jardin. Il y a eu aussi des combats au sol, pas loin. Nos canards et nos moutons en ont profité pour s’échapper » , écrivait-il alors, par texto, à ses deux amies .Mohammed l’a regretté : sa famille aurait eu bien besoin de cette viande.

    Plusieurs fois par semaine, lorsque son téléphone est près de s’éteindre, Mohammed dit un dernier « adieu » à ses amies. Puis il trouve le moyen de le recharger, sur une batterie de voiture à laquelle des voisins branchent une douzaine de mobiles. Il rentre alors embrasser son épouse, dans le salon neuf du rez-de-chaussée, où elle lui interdisait de traîner avant la guerre, de peur qu’il le salisse. Il monte quatre à quatre les escaliers jusqu’au sixième étage, où le réseau téléphonique est meilleur. Là-haut, le jeune homme filme les éclats des bombardements, la nuit, dans une ville sans électricité que seuls les incendies éclairent, et où les blindés israéliens circulent tous feux éteints, lâchant parfois une fusée éclairante.

    Au matin, Mohammed raconte ses rêves à ses amies sur WhatsApp, et leur demande des nouvelles de la progression de l’armée. C’est lui qui leur avait annoncé, les 7 et 8 octobre, la destruction par les bombes israéliennes des grands immeubles du centre-ville, les tours Palestine, Watane, Al-Aklout et Alimane ; celle du plus moderne centre commercial de la ville, Le Capital, et les frappes méthodiques sur les demeures des responsables politiques du Hamas. Mais il sort de moins en moins. Le photographe rassemblait encore son courage afin de photographier, pour le site britannique Middle East Eye, l’hôpital Al-Shifa, avant son invasion par l’armée. Aujourd’hui, il a faim : il envoie des images des épiceries détruites de la rue Al-Jalaa, et d’une longue rangée de réfrigérateurs vides dans un supermarché voisin.

    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/20/l-errance-des-habitants-de-gaza-dans-leur-ville-transformee-en-champ-de-ruin

    #guerre #IDPs #déplacés_internes #réfugiés #destruction #7_octobre_2023 #armée_israélienne #cartographie #visualisation

  • The Listening Post sur X :

    “The same day when we went for a silent protest - Jewish activists - we were brutally beaten by the police.”

    B’Tselem’s NoyOrly spoke with us about the repression anti-war voices in Israel have faced since October 7th and the war in Gaza. Watch the full interview ⤵️…

    https://twitter.com/AJListeningPost/status/1727019613207073016

    https://video.twimg.com/ext_tw_video/1727018675289399296/pu/vid/avc1/720x720/3fFWZgK_CbczmmVC.mp4?tag=12

  • 🟥 Comment des députés veulent réprimer encore plus les militants...

    Dissolution, amendes, intelligence artificielle... Dans deux rapports parlementaires, des députés proposent d’accroître la répression des manifestants. Analyse de textes par la juriste Anne-Sophie Simpere (...)

    #répression #manifestations

    https://reporterre.net/Comment-des-deputes-veulent-reprimer-encore-plus-les-militants

  • Conflit israélo-palestinien : une #chape_de_plomb s’est abattue sur l’université française

    Depuis les attaques du Hamas contre Israël le 7 octobre 2023, le milieu de la #recherche, en particulier les spécialistes du Proche-Orient, dénonce un climat de « #chasse_aux_sorcières » entretenu par le gouvernement pour toute parole jugée propalestinienne.

    « #Climat_de_peur », « chasse aux sorcières », « délation » : depuis les attaques du Hamas contre Israël, le 7 octobre dernier, et le déclenchement de l’offensive israélienne sur #Gaza, le malaise est palpable dans une partie de la #communauté_scientifique française, percutée par le conflit israélo-palestinien.

    Un #débat_scientifique serein, à distance des agendas politiques et de la position du gouvernement, est-il encore possible ? Certains chercheurs et chercheuses interrogés ces derniers jours en doutent fortement.

    Dans une tribune publiée sur Mediapart (https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/151123/defendre-les-libertes-dexpression-sur-la-palestine-un-enjeu-academiq), 1 400 universitaires, pour beaucoup « spécialistes des sociétés du Moyen-Orient et des mondes arabes », ont interpellé leurs tutelles et collègues « face aux faits graves de #censure et de #répression […] dans l’#espace_public français depuis les événements dramatiques du 7 octobre ».

    Ils et elles assurent subir au sein de leurs universités « des #intimidations, qui se manifestent par l’annulation d’événements scientifiques, ainsi que des entraves à l’expression d’une pensée académique libre ».

    Deux jours après l’attaque du Hamas, la ministre de l’enseignement supérieur et de la recherche, #Sylvie_Retailleau, avait adressé un courrier de mise en garde aux présidents d’université et directeurs d’instituts de recherche.

    Elle y expliquait que, dans un contexte où la France avait « exprimé sa très ferme condamnation ainsi que sa pleine solidarité envers Israël et les Israéliens » après les attaques terroristes du 7 octobre, son ministère avait constaté « de la part d’associations, de collectifs, parfois d’acteurs de nos établissements, des actions et des propos d’une particulière indécence ».

    La ministre leur demandait de « prendre toutes les mesures nécessaires afin de veiller au respect de la loi et des principes républicains » et appelait également à signaler aux procureurs « l’#apologie_du_terrorisme, l’#incitation_à_la_haine, à la violence et à la discrimination ».

    Un message relayé en cascade aux différents niveaux hiérarchiques du CNRS, jusqu’aux unités de recherche, qui ont reçu un courrier le 12 octobre leur indiquant que l’« expression politique, la proclamation d’opinion » ne devaient pas « troubler les conditions normales de travail au sein d’un laboratoire ».

    Censure et #autocensure

    Le ton a été jugé menaçant par nombre de chercheurs et chercheuses puisque étaient évoquées, une fois de plus, la possibilité de « #poursuites_disciplinaires » et la demande faite aux agents de « signaler » tout écart.

    Autant de missives que des universitaires ont interprétées comme un appel à la délation et qu’ils jugent aujourd’hui responsables du « #climat_maccarthyste » qui règne depuis plusieurs semaines sur les campus et dans les laboratoires, où censure et autocensure sont de mise.

    Au point que bon nombre se retiennent de partager leurs analyses et d’exprimer publiquement leur point de vue sur la situation au Proche-Orient. Symbole de la chape de plomb qui pèse sur le monde académique, la plupart de celles et ceux qui ont accepté de répondre à nos questions ont requis l’anonymat.

    « Cela fait plus de vingt ans que j’interviens dans le #débat_public sur le sujet et c’est la première fois que je me suis autocensurée par peur d’accusations éventuelles », nous confie notamment une chercheuse familière des colonnes des grands journaux nationaux. Une autre décrit « des échanges hyper violents » dans les boucles de mails entre collègues universitaires, empêchant tout débat apaisé et serein. « Même dans les laboratoires et collectifs de travail, tout le monde évite d’évoquer le sujet », ajoute-t-elle.

    « Toute prise de parole qui ne commencerait pas par une dénonciation du caractère terroriste du Hamas et la condamnation de leurs actes est suspecte », ajoute une chercheuse signataire de la tribune des 1 400.

    Au yeux de certains, la qualité des débats universitaires se serait tellement dégradée que la production de connaissance et la capacité de la recherche à éclairer la situation au Proche-Orient s’en trouvent aujourd’hui menacées.

    « La plupart des médias et des responsables politiques sont pris dans un #hyperprésentisme qui fait commencer l’histoire le 7 octobre 2023 et dans une #émotion qui ne considère légitime que la dénonciation, regrette Didier Fassin, anthropologue, professeur au Collège de France, qui n’accepte de s’exprimer sur le sujet que par écrit. Dans ces conditions, toute perspective réellement historique, d’une part, et tout effort pour faire comprendre, d’autre part, se heurtent à la #suspicion. »

    En s’autocensurant, et en refusant de s’exprimer dans les médias, les spécialistes reconnus du Proche-Orient savent pourtant qu’ils laissent le champ libre à ceux qui ne craignent pas les approximations ou les jugements à l’emporte-pièce.

    « C’est très compliqué, les chercheurs établis sont paralysés et s’interdisent de répondre à la presse par crainte d’être renvoyés à des prises de position politiques. Du coup, on laisse les autres parler, ceux qui ne sont pas spécialistes, rapporte un chercheur lui aussi spécialiste du Proche-Orient, qui compte parmi les initiateurs de la pétition. Quant aux jeunes doctorants, au statut précaire, ils s’empêchent complètement d’évoquer le sujet, même en cours. »

    Stéphanie Latte Abdallah, historienne spécialiste de la Palestine, directrice de recherche au CNRS, a été sollicitée par de nombreux médias ces dernières semaines. Au lendemain des attaques du Hamas, elle fait face sur certains plateaux télé à une ambiance électrique, peu propice à la nuance, comme sur Public Sénat, où elle se trouve sous un feu de questions indignées des journalistes, ne comprenant pas qu’elle fasse une distinction entre l’organisation de Daech et celle du Hamas…

    Mises en cause sur les #réseaux_sociaux

    À l’occasion d’un des passages télé de Stéphanie Latte Abdallah, la chercheuse Florence Bergeaud-Blackler, membre du CNRS comme elle, l’a désignée sur le réseau X, où elle est très active, comme membre d’une école de pensée « antisioniste sous couvert de recherche scientifique », allant jusqu’à dénoncer sa « fausse neutralité, vraie détestation d’Israël et des juifs ».

    S’est ensuivi un déluge de propos haineux à connotation souvent raciste, « des commentaires parfois centrés sur mon nom et les projections biographiques qu’ils pouvaient faire à partir de celui-ci », détaille Stéphanie Latte Abdallah, qui considère avoir été « insultée et mise en danger ».

    « Je travaille au Proche-Orient. Cette accusation qui ne se base sur aucun propos particulier, et pour cause (!), est choquante venant d’une collègue qui n’a de plus aucune expertise sur la question israélo-palestinienne et aucune idée de la situation sur le terrain, comme beaucoup de commentateurs, d’ailleurs », précise-t-elle.

    Selon nos informations, un courrier de rappel à l’ordre a été envoyé par la direction du CNRS à Florence Bergeaud-Blackler, coutumière de ce type d’accusations à l’égard de ses collègues via les réseaux sociaux. La direction du CNRS n’a pas souhaité confirmer.

    Commission disciplinaire

    À l’École des hautes études en sciences sociales (EHESS), après la diffusion le 8 octobre d’un communiqué de la section syndicale Solidaires étudiant·e·s qui se prononçait pour un « soutien indéfectible à la lutte du peuple palestinien dans toutes ses modalités et formes de lutte, y compris la lutte armée », la direction a effectué un signalement à la plateforme Pharos, qui traite les contenus illicites en ligne.

    Selon nos informations, une chercheuse du CNRS qui a relayé ce communiqué sur une liste de discussion interne, en y apportant dans un premier temps son soutien, est aujourd’hui sous le coup d’une procédure disciplinaire. Le fait qu’elle ait condamné les massacres de civils dans deux messages suivants et pris ses distances avec le communiqué de Solidaires étudiant·e·s n’y a rien fait. Une « commission paritaire » – disciplinaire en réalité – sur son cas est d’ores et déjà programmée.

    « Il s’agit d’une liste intitulée “opinions” où l’on débat habituellement de beaucoup de sujets politiques de façon très libre », nous précise un chercheur qui déplore le climat de suspicion généralisée qui s’est installé depuis quelques semaines.

    D’autres rappellent l’importance de la chronologie puisque, le 8 octobre, l’ampleur des crimes contre les civils perpétrés par le Hamas n’était pas connue. Elle le sera dès le lendemain, à mesure que l’armée israélienne reprend le contrôle des localités attaquées.

    Autre cas emblématique du climat inhabituellement agité qui secoue le monde universitaire ces derniers jours, celui d’un enseignant-chercheur spécialiste du Moyen-Orient dénoncé par une collègue pour une publication postée sur sa page Facebook privée. Au matin du 7 octobre, Nourdine* (prénom d’emprunt) poste sur son compte une photo de parapentes de loisir multicolores, assortie de trois drapeaux palestiniens et trois émoticônes de poing levé. Il modifie aussi sa photo de couverture avec une illustration de Handala, personnage fictif et icône de la résistance palestinienne, pilotant un parapente.

    À mesure que la presse internationale se fait l’écho des massacres de civils israéliens auxquels ont servi des ULM, que les combattants du Hamas ont utilisés pour franchir la barrière qui encercle la bande de Gaza et la sépare d’Israël, le chercheur prend conscience que son post Facebook risque de passer pour une célébration sordide des crimes du Hamas. Il le supprime moins de vingt-quatre heures après sa publication. « Au moment où je fais ce post, on n’avait pas encore la connaissance de l’étendue des horreurs commises par le Hamas, se défend-il. Si c’était à refaire, évidemment que je n’aurais pas publié ça, j’ai été pétri de culpabilité. »

    Trop tard pour les regrets. Quatre jours après la suppression de la publication, la direction du CNRS, dont il est membre, est destinataire d’un mail de dénonciation. Rédigé par l’une de ses consœurs, le courrier relate le contenu du post Facebook, joint deux captures d’écran du compte privé de Nourdine et dénonce un « soutien enthousiaste à un massacre de masse de civils ».

    Elle conclut son mail en réclamant « une réaction qui soit à la mesure de ces actes et des conséquences qu’ils emportent », évoquant des faits pouvant relever de « l’apologie du terrorisme » et susceptibles d’entacher la réputation du CNRS.

    On est habitués à passer sur le gril de l’islamo-gauchisme et aux attaques extérieures, mais pas aux dénonciations des collègues.

    Nourdine, chercheur

    Lucide sur la gravité des accusations portées à son égard, Nourdine se dit « démoli ». Son état de santé préoccupe la médecine du travail, qui le met en arrêt et lui prescrit des anxiolytiques. Finalement, la direction de l’université où il enseigne décide de ne prendre aucune sanction contre lui.

    Également directeur adjoint d’un groupe de recherche rattaché au CNRS, il est néanmoins pressé par sa hiérarchie de se mettre en retrait de ses fonctions, ce qu’il accepte. Certaines sources universitaires affirment que le CNRS avait lui-même été mis sous pression par le ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche pour sanctionner Nourdine.

    Le chercheur regrette des « pratiques vichyssoises » et inédites dans le monde universitaire, habitué aux discussions ouvertes même lorsque les débats sont vifs et les désaccords profonds. « Des collègues interloqués par mon post m’ont écrit pour me demander des explications. On en a discuté et je me suis expliqué. Mais la collègue qui a rédigé la lettre de délation n’a prévenu personne, n’a pas cherché d’explications auprès de moi. Ce qui lui importait, c’était que je sois sanctionné », tranche Nourdine. « On est habitués à passer sur le gril de l’#islamo-gauchisme et aux #attaques extérieures, mais pas aux dénonciations des collègues », finit-il par lâcher, amer.

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    Sciences Po en butte aux tensions

    Ce mardi 21 novembre, une manifestation des étudiants de Sciences Po en soutien à la cause palestinienne a été organisée rue Saint-Guillaume. Il s’agissait aussi de dénoncer la « censure » que subiraient les étudiants ayant trop bruyamment soutenu la cause palestinienne.

    Comme l’a raconté L’Obs, Sciences Po est confronté à de fortes tensions entre étudiants depuis les attaques du Hamas du 7 octobre. Le campus de Menton, spécialisé sur le Proche-Orient, est particulièrement en ébullition.

    Une boucle WhatsApp des « Students for Justice in Palestine », créée par un petit groupe d’étudiants, est notamment en cause. L’offensive du Hamas y a notamment été qualifiée de « résistance justifiée » et certains messages ont été dénoncés comme ayant des relents antisémites. Selon l’hebdomadaire, plusieurs étudiants juifs ont ainsi dit leur malaise à venir sur le campus ces derniers jours, tant le climat y était tendu. La direction a donc convoqué un certain nombre d’étudiants pour les rappeler à l’ordre.

    Lors d’un blocus sur le site de Menton, 66 étudiants ont été verbalisés pour participation à une manifestation interdite.

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    En dehors des cas particuliers précités, nombre d’universitaires interrogés estiment que le climat actuel démontre que le #monde_académique n’a pas su résister aux coups de boutoir politiques.

    « Ce n’est pas la première fois qu’une telle situation se produit », retrace Didier Fassin. « On l’avait vu, sous la présidence actuelle, avec les accusations d’islamo-gauchisme contre les chercheuses et chercheurs travaillant sur les discriminations raciales ou religieuses. On l’avait vu, sous les deux présidences précédentes, avec l’idée qu’expliquer c’est déjà vouloir excuser », rappelle-t-il en référence aux propos de Manuel Valls, premier ministre durant le quinquennat Hollande, qui déclarait au sujet de l’analyse sociale et culturelle de la violence terroriste : « Expliquer, c’est déjà vouloir un peu excuser. »

    « Il n’en reste pas moins que pour un certain nombre d’entre nous, nous continuons à essayer de nous exprimer, à la fois parce que nous croyons que la démocratie de la pensée doit être défendue et surtout parce que la situation est aujourd’hui trop grave dans les territoires palestiniens pour que le silence nous semble tolérable », affirme Didier Fassin.

    Contactée, la direction du #CNRS nous a répondu qu’elle ne souhaitait pas s’exprimer sur les cas particuliers. « Il n’y a pas à notre connaissance de climat de délation ou des faits graves de censure. Le CNRS reste très attaché à la liberté académique des scientifiques qu’il défend depuis toujours », nous a-t-elle assuré.

    Une répression qui touche aussi les syndicats

    À la fac, les syndicats sont aussi l’objet du soupçon, au point parfois d’écoper de sanctions. Le 20 octobre, la section CGT de l’université Savoie-Mont-Blanc (USMB) apprend sa suspension à titre conservatoire de la liste de diffusion mail des personnels, par décision du président de l’établissement, Philippe Galez. En cause : l’envoi d’un message relayant un appel à manifester devant la préfecture de Savoie afin de réclamer un cessez-le-feu au Proche-Orient et dénonçant notamment « la dérive ultra-sécuritaire de droite et d’extrême droite en Israël et la politique de nettoyage ethnique menée contre les Palestiniens ».

    La présidence de l’université, justifiant sa décision, estime que le contenu de ce message « dépasse largement le cadre de l’exercice syndical » et brandit un « risque de trouble au bon fonctionnement de l’établissement ». La manifestation concernée avait par ailleurs été interdite par la préfecture, qui invoquait notamment dans son arrêté la présence dans un rassemblement précédent « de nombreux membres issus de la communauté musulmane et d’individus liés à l’extrême gauche et ultragauche ».

    La section CGT de l’USMB n’a pas tardé à répliquer par l’envoi à la ministre Sylvie Retailleau d’un courrier, depuis resté lettre morte, dénonçant « une atteinte aux libertés syndicales ». La lettre invite par ailleurs le président de l’établissement à se plier aux consignes du ministère et à effectuer un signalement au procureur, s’il estimait que « [le] syndicat aurait “troublé le bon fonctionnement de l’établissement” ». Si ce n’est pas le cas, « la répression syndicale qui s’abat sur la CGT doit cesser immédiatement », tranche le courrier.

    « Cette suspension vient frontalement heurter la #liberté_universitaire, s’indigne Guillaume Defrance, secrétaire de la section CGT de l’USMB. C’est la fin d’un fonctionnement, si on ne peut plus discuter de manière apaisée. »

    Le syndicat dénonce également l’attitude de Philippe Galez, qui « veut désormais réguler l’information syndicale à l’USMB à l’aune de son jugement ». Peu de temps après l’annonce de la suspension de la CGT, Philippe Galez a soumis à l’ensemble des organisations syndicales un nouveau règlement relatif à l’utilisation des listes de diffusion mail. Le texte limite l’expression syndicale à la diffusion « d’informations d’origine syndicale ou à des fins de communication électorale ». Contacté par nos soins, le président de l’USMB nous a indiqué réserver dans un premier temps ses « réponses et explications aux organisations syndicales et aux personnels de [son] établissement ».

    Interrogé par Mediapart, le cabinet de Sylvie Retailleau répond que le ministère reste « attaché à la #liberté_d’expression et notamment aux libertés académiques : on ne juge pas des opinions. Il y a simplement des propos qui sont contraires à la loi ».

    Le ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche fait état de « quelques dizaines de cas remontés au ministère ». Il reconnaît que des événements ont pu être annulés pour ne pas créer de #trouble_à_l’ordre_public dans le climat actuel. « Ils pourront avoir lieu plus tard, quand le climat sera plus serein », assure l’entourage de la ministre.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/211123/conflit-israelo-palestinien-une-chape-de-plomb-s-est-abattue-sur-l-univers
    #université #Israël #Palestine #France #7_octobre_2023 #délation #ESR

  • 🏳️‍🌈 L’homophobie et l’intolérance de l’autocrate du Kremlin...

    🏳️‍🌈 Russie : Le « mouvement » LGBT+ bientôt classé comme « extrémiste » - Association STOP Homophobie

    Le ministère de la justice russe a indiqué dans un communiqué, vendredi 17 novembre, avoir déposé une demande administrative auprès de la Cour suprême afin de classer comme « extrémiste », le mouvement de société international LGBT et d’interdire ses activités sur le territoire de la Fédération. Une audience est prévue dès ce 30 novembre.
    Aucune précision néanmoins si ce sont des organisations spécifiques qui sont visées, ou bien le mouvement de défense des droits des identités de genre et orientations sexuelles minoritaires d’une manière générale.
    « C’est une mesure typique des régimes répressifs et non démocratiques : persécuter les plus vulnérables », a réagi auprès de l’AFP, Dilia Gafourova, la directrice du fonds Sphere, une association de défense des droits LGBT+ en Russie. Mais « le pouvoir oublie une nouvelle fois que la communauté LGBT+, ce sont des gens, des citoyens de ce pays comme les autres. Et maintenant ils ne veulent pas seulement nous faire disparaître de l’espace public, mais nous interdire en tant que groupe social » (...)

    #Russie #Poutine #homophobie #LGBT #répression #discrimination

    https://www.stophomophobie.com/russie-le-mouvement-lgbt-bientot-classe-comme-extremiste

    https://www.nouvelobs.com/monde/20231117.OBS80992/la-russie-veut-interdire-le-mouvement-international-lgbt-juge-extremiste.

  • 🟥 Alexandra Skotchilenko, une artiste russe détenue pour avoir critiqué la guerre en Ukraine - Amnesty International France

    Parce qu’elle a critiqué la guerre en Ukraine, Alexandra Skotchilenko se retrouve en prison en Russie. Accusée d’avoir diffusé de fausses informations sur l’armée russe, elle a été condamnée à sept ans de prison par un tribunal de Saint-Petersbourg le 16 novembre 2023 (...)

    #Russie #répression #antiguerre #AlexandraSkotchilenko #solidarité

    https://www.amnesty.fr/personnes/alexandra-skotchilenko-russie