• No, la tecnologia non è neutrale ed ecco come ha condizionato la vita delle donne

    In Tecnologia della rivoluzione Diletta Huyskes apre una riflessione sulle responsabilità sociali di chi innova. Dal forno a microonde all’AI.

    L’idea che la tecnologia sia una forza neutrale e inarrestabile, che opera indipendentemente dai contesti sociali, economici e culturali, è un mito radicato nel nostro immaginario collettivo. Tuttavia, come dimostra Diletta Huyskes nel suo libro Tecnologia della rivoluzione. Progresso e battaglie sociali dal microonde all’intelligenza artificiale (Il Saggiatore, 2024), questo mito è ben lontano dalla verità. La tecnologia non è mai stata neutrale e spesso amplifica le ingiustizie esistenti.

    Un esempio significativo che viene raccontato nel libro è il caso di ProKid+, l’algoritmo di polizia predittiva impiegato nei Paesi Bassi nel 2015, che ha condannato preventivamente un adolescente, Omar (nome fittizio), a un futuro da criminale. Reddito basso, background migratorio e un’età inferiore ai diciotto anni, sono solo alcune delle caratteristiche utilizzate dai sistemi di intelligenza artificiale per valutare il rischio di migliaia di persone ogni giorno. Il progetto, noto come Top400, inizialmente pensato come una lista di adolescenti precedentemente condannati per almeno un reato, è stato successivamente ampliato includendo anche bambini e ragazzi che, pur non avendo ancora avuto problemi legali, erano considerati dall’algoritmo a rischio di esserlo presto.
    Una tecnologia a sfavore delle minoranze

    Questo algoritmo, che avrebbe dovuto rappresentare un approccio innovativo alla prevenzione del crimine, non ha fatto altro che reiterare stereotipi e pregiudizi preesistenti, privando i soggetti come Omar di qualsiasi possibilità, riscatto ed emancipazione e lasciandoli intrappolati in un circolo di sospetti e discriminazioni: “Questa sentenza è il risultato di una raccomandazione proveniente da un modello matematico che prometteva il rilevamento della criminalità utilizzando principalmente metodologie di apprendimento automatico, un sottoinsieme dell’intelligenza artificiale che utilizza modelli statistici e algoritmi per analizzare e fare previsioni basate sui dati”.

    La pretesa di prevedere il crimine attraverso l’analisi dei dati ignora il fatto che tali modelli sono costruiti su basi che riflettono le disuguaglianze sociali, contribuendo a perpetuarle piuttosto che risolverle. Non a caso Huyskes cita Andrew Feenberg che nel suo testo, Transforming Technology, asserisce che la progettazione della tecnologia è una decisione ontologica ricca di conseguenze politiche. Huyskes ci guida attraverso una riflessione critica, evidenziando come ogni nuova tecnologia sia il risultato di un preciso percorso storico e sociale. Contrariamente all’immagine romantica del genio inventore che cambia il mondo con un’illuminazione improvvisa, la realtà ci mostra come le innovazioni tecnologiche siano frutto di compromessi, conflitti e distribuzioni ineguali di potere.

    L’idea di un progresso lineare e inevitabile si sgretola di fronte all’analisi che Huyskes offre, svelando una verità fattuale: la tecnologia è costruita, modificata e implementata per servire interessi specifici, spesso a scapito delle fasce più vulnerabili della società. Un altro esempio significativo è rappresentato dall’introduzione delle tecnologie domestiche nel ventesimo secolo. Queste invenzioni, come il forno a microonde, venivano presentate come soluzioni liberatorie per le donne, promettendo di alleviare il carico del lavoro domestico.
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    Tuttavia, come dimostra Huyskes, la realtà è stata ben diversa: piuttosto che emancipare, queste tecnologie hanno rafforzato gli stereotipi di genere, relegando ulteriormente le donne al loro ruolo tradizionale di casalinghe. Invece di liberarle, le hanno intrappolate in un ciclo di lavori domestici sempre più standardizzati e invisibili: “La speranza era che la tecnologia domestica avrebbe sollevato le donne dal loro lavoro non pagato nelle case, un tema politico su cui il movimento femminista stava concentrando quasi interamente le sue lotte in quegli anni”.
    Il controllo dei corpi

    Infatti, nel 1974, Joann Vanek dimostrò come la condizione femminile nel lavoro casalingo non avesse subito nessun cambiamento con l’introduzione delle tecnologie domestiche; l’industrializzazione del lavoro domestico e la meccanicizzazione del focolare aveva creato nuove aspettative, un aumento della produttività e nuovi compiti: “Lungi dal sentirsi liberate, le donne che lavoravano nelle case, che quotidianamente e instancabilmente portavano avanti tutto il lavoro di cura necessario al sostentamento della vita economica e politica di intere nazioni, si sentivano sempre più meccanizzate, ma anche sempre più affaticate”.

    Nell’analisi di Diletta Huyskes emerge con forza il tema del controllo dei corpi come uno dei nodi cruciali nell’intersezione tra tecnologia e genere: “Come può una società che per decenni si è basata esclusivamente sul corpo maschile come metro di misura garantire un trattamento equo in base al genere?”. L’esclusione delle donne dalla tecnologia non ha significato solo tenerle lontane dai luoghi di potere, formazione e creazione, ma anche privarle della possibilità di utilizzare e beneficiare di tali innovazioni. Questo schema di esclusione, che continua a persistere anche dopo molti decenni, rappresenta ancora il modello dominante nella gestione del rapporto tra genere e tecnologia.

    Nel libro si racconta anche come a partire dal 1980, il gruppo di ricerca su donne e tecnologia della Fondazione per la ricerca scientifica e industriale dell’Istituto norvegese di tecnologia (Sintef), con le studiose Anne-Jorunn Berg e Merete Lie, ha iniziato a riflettere sulle conseguenze pratiche dell’esclusiva presenza maschile nelle fasi di progettazione e sviluppo tecnologico. Inizialmente, le domande riguardavano l’impatto delle nuove tecnologie sulla vita delle donne. Tuttavia, con il progredire delle loro ricerche, la questione si è evoluta in: “Gli artefatti hanno un genere?”.

    Questo ha portato a un ampliamento della ricerca, dall’analisi delle donne all’indagine sul genere e sul design in generale, invece di concentrarsi solo sulle conseguenze delle tecnologie. Berg e Lie hanno scoperto che gli artefatti tecnologici riflettono un genere, poiché vengono progettati con specifiche configurazioni di genere in mente. In altre parole, nascono con un’idea chiara di chi dovrà utilizzarli.
    AI e stereotipi sociali

    Automobili, computer, smartphone sono alcuni esempi di tecnologie usate da uomini e donne, ma progettate principalmente tenendo conto delle caratteristiche e delle abitudini di un uomo medio: "La testimonianza più forte degli ultimi anni sulle persistenti disuguaglianze di genere nel design di ciò che diamo più per scontato l’ha scritta l’attivista e scrittrice Caroline Criado Perez. Un catalogo di fatti e cifre che raccontano di un mondo a misura d’uomo, forse tra i più scioccanti quello sulle case automobilistiche statunitensi che solo nel 2011 hanno iniziato a effettuare crash test anche con manichini femminili. Prima di quel momento, tutti i dati a disposizione e gli interventi necessari riguardo agli incidenti automobilistici avevano a che fare esclusivamente con i corpi maschili, per cui l’accuratezza nei casi di corpi femminili era sconosciuta”.

    Nel panorama contemporaneo, l’intelligenza artificiale rappresenta la nuova frontiera di questa riflessione critica. Lungi dall’essere una tabula rasa, l’AI porta con sé i bias e le ingiustizie del passato, riflettendo le stesse logiche di potere che hanno caratterizzato le tecnologie precedenti:“Non solo incorporano cultura, valori, pregiudizi durante le fasi di design iniziale, ma continuano ad alimentarsi di questi input sempre nuovi durante la loro intera esistenza”. Oggi, le nuove tecnologie sono progettate per mantenere lo status quo e perpetuare le disuguaglianze sociali esistenti, contribuendo a rafforzare ciò che la studiosa femminista Patricia Hill Collins chiama “la matrice del dominio”, un sistema sociologico che comprende diverse forme di oppressione come il capitalismo, l’eteropatriarcato, la supremazia bianca e il colonialismo.

    Uno degli esempi più emblematici dell’automazione di sistemi istituzionali già particolarmente discriminatori ed escludenti è quello della giustizia penale. Con l’obiettivo di trovare una formula matematica che potesse prevedere con precisione la probabilità di recidiva, sempre più dipartimenti di giustizia hanno sperimentato l’uso dell’intelligenza artificiale: quasi tutti gli stati nordamericani hanno adottato o testato software basati su AI per questo scopo. Questi sistemi calcolano le probabilità attraverso la valutazione del rischio: un punteggio di rischio elevato indica una maggiore probabilità che l’individuo commetta nuovamente un crimine in futuro: "Il calcolo che porta a questi punteggi è basato solitamente su delle domande rivolte direttamente alle persone imputate e i dati estratti dal casellario giudiziario. Si tratta di previsioni sul futuro in base a comportamenti passati, frequenze, statistiche, e i dati per addestrare modelli come questi spesso includono variabili proxy come «arresto» per misurare il «crimine» o qualche nozione di «rischiosità» sottostante.”

    Ripensare la tecnologia: giustizia e inclusione

    Negli Stati Uniti, dove i dati relativi al crimine sono stati influenzati da decenni di pratiche di polizia basate su pregiudizi razziali, e dove alcuni gruppi sociali ed etnici sono stati storicamente più esposti a controlli di polizia, la mappatura del crimine non può essere considerata neutrale. A partire da questi presupposti, l’etnia viene tracciata indirettamente attraverso altre variabili correlate, come il codice postale o la condizione socio-economica.

    Il risultato è un modello che presenta un tasso significativamente più alto di falsi positivi, cioè attribuisce un rischio elevato di recidiva a individui neri rispetto a quelli bianchi. Alcuni di questi strumenti mirano a prevedere i rischi di criminalità associati a singoli individui, basandosi sulla loro storia personale e su altre caratteristiche. È proprio ciò che è accaduto a Omar: giudicato da un software di polizia predittiva come un adolescente ad alto rischio di diventare un criminale, è stato trattato come tale fin da subito.

    Come asserisce l’autrice, “L’intelligenza artificiale è molto più di una tecnologia. È un discorso utilizzato attivamente per plasmare le realtà politiche, economiche e sociali del nostro tempo”. La tecnologia può essere un potente strumento di liberazione, ma solo se siamo disposti e disposte a interrogarci su chi ne controlla lo sviluppo e su chi ne beneficia davvero. È essenziale che il dibattito sulla tecnologia non rimanga confinato a un’élite specifica, ma diventi un discorso collettivo, aperto e inclusivo, in grado di affrontare le domande fondamentali su giustizia, equità e democrazia. In questo senso, Tecnologia della rivoluzione è un invito a ripensare il nostro rapporto con il progresso e con le forze che plasmano il nostro presente e il nostro futuro. Huyskes ci ricorda che ogni innovazione porta con sé una responsabilità, e che è nostro compito vigilare affinché il futuro tecnologico sia costruito su basi più giuste e consapevoli.

    https://www.wired.it/article/tecnologia-donne-pregiudizi-rivoluzione-progresso-diletta-huyskes
    #neutralité #technologie #femmes #impact #conditionnement #genre #responsabilité_sociale #contrôle #corps #inégalités

    • Tecnologia della rivoluzione. Progresso e battaglie sociali dal microonde all’intelligenza artificiale

      Sara è una donna, una madre. È disoccupata, single e migrante. La sua è un’identità stratificata, unica e irripetibile. Queste caratteristiche sociali la renderanno sospetta per tutta la vita. Perché per un modello matematico – e per il governo del suo paese – Sara è solo un insieme di indicatori che, sommati tra loro, generano un alto punteggio di rischio, una previsione statistica che la trasforma in una potenziale criminale. Ma la sua unica colpa è quella di essere se stessa, e di condividere un profilo simile ad altre persone esistite e accusate prima di lei.

      Questa e molte altre storie ci mostrano che un singolo numero elaborato da un algoritmo può cambiare le sorti di interi gruppi sociali, rischiando un ritorno a ingiustizie antiche, oggi amplificate dal modo in cui stiamo usando questi strumenti. Ripercorrendo la storia della tecnologia possiamo attraversare anche quella dell’esclusione sociale: ogni invenzione, dalla bicicletta al forno a microonde, fino all’intelligenza artificiale, è il risultato di scelte precise, valori e compromessi umani che causano forti impatti sulla società.

      Grazie alla riscoperta di molti contributi femministi proposti tra gli anni settanta e duemila, Tecnologia della rivoluzione ci spinge a riflettere su come intervenire per fare in modo che le rivoluzioni tecnologiche non portino a involuzioni sociali.

      https://www.ilsaggiatore.com/libro/tecnologia-della-rivoluzione
      #livre #Diletta_Huyskes

  • #Incendie du foyer des #Tattes. La #responsabilité de l’État était engagée

    « Ce jour-là, j’étais dans le foyer. J’y pense encore aujourd’hui. Merci aux avocates et à Solidarité Tattes de n’avoir pas lâché. Vous avez montré que la justice peut être rendue et qu’elle peut donner de la dignité à toutes les personnes. Merci encore. »

    Le 4 juin 2024, la salle d’audience du Palais de justice était pleine pour entendre le #verdict de la Cour d’appel dans l’affaire de l’incendie du foyer des Tattes survenu le 17 novembre 2014. Un jugement reconnaissant enfin la responsabilité de l’État de Genève en la personne du coordinateur de sécurité incendie de l’Hospice général, condamné pour homicide et lésions corporelles par négligence. Celui-ci avait été disculpé par le Tribunal de police en première instance. Les juges d’appel ont confirmé les condamnations de deux agents de sécurité et d’un résident du foyer. 10 ans après le sinistre, les victimes voient donc enfin un début de justice rendue.

    150 personnes vivaient dans cet immeuble du foyer d’hébergement des Tattes lorsqu’un feu s’est déclaré dans l’une des chambres. Un système d’alarme non relié à la centrale des pompiers, des portes coupe-feu qui se sont révélées être un piège fatal pour Fikre, un jeune demandeur d’asile mort asphyxié par la fumée, des habitants non formés aux comportements à adopter en cas de sinistre… 40 personnes se sont défenestrées, dont 10 gardent de lourdes séquelles et des handicaps.

    Sur les marches du Tribunal, les trois avocates des victimes, Laïla Batou, Sophie Bobillier et Magali Buser, ont insisté sur le rôle déterminant joué par la société civile, en particulier Solidarité Tattes, association née suite à cette tragédie, dans cette procédure sinueuse. Une mobilisation essentielle tant les méandres de la justice auraient poussé à baisser les bras. Viviane Luisier, l’une des chevilles ouvrières de Solidarité Tattes, a rappelé par ailleurs que nombre de victimes du sinistre ne sont plus là pour entendre ce verdict. Et d’appeler le canton et la Confédération à octroyer des permis B à celles résidant encore sur notre territoire et la réparation qui leur est due, ainsi qu’à leurs familles.

    La procédure civile pour l’octroi des dédommagements se poursuivra. Les avocates s’attendent néanmoins à un recours de l’État et que l’affaire soit portée au Tribunal fédéral. Quel qu’en soit le résultat, l’audience publique, malgré une acoustique difficile, a au moins permis à certaines des victimes et à leurs amis présents de voir que la justice est aussi là pour défendre les droits des plus faibles.

    https://asile.ch/2024/08/19/incendie-du-foyer-des-tattes-la-responsabilite-de-letat-etait-engagee
    #justice #procès #appel #asile #migrations #réfugiés #Suisse #Genève

    voir aussi :
    4-5-6 mars 2024 : #Procès en #appel concernant l’#incendie des #Tattes
    https://seenthis.net/messages/1039035

  • Face au pire, nos aveuglements contemporains

    « La #polarisation a empêché l’#information d’arriver. » Iryna Dmytrychyn est parvenue à cette conclusion après avoir disséqué ce que la presse écrivait sur l’Holodomor, la grande famine de 1932-1933 en Ukraine, au moment où elle avait lieu.

    Malgré tous les efforts du pouvoir soviétique, quelques reporters avaient réussi à rendre compte de la catastrophe en cours, le plus célèbre étant le Gallois Gareth Jones et la plus effacée peut-être Rhea Clyman, une journaliste canadienne. En France, Suzanne Bertillon avait publié le témoignage circonstancié d’un couple de paysans américains d’origine ukrainienne dans le journal d’extrême droite Le Matin.

    Dans le paysage médiatique des années 1930, terriblement clivé selon l’orientation politique, la #presse d’extrême droite couvre la famine, tandis que les titres liés au Parti communiste, à commencer par L’Humanité, la taisent voire la nient. Dans les deux cas, la lecture politique des événements s’impose.

    Les #faits comptent moins que les #opinions : selon que l’on soit communiste ou anticommuniste, on croit ou non à l’existence de la famine, comme si les personnes affamées relevaient d’un point de vue. « Au-delà des faits, c’était une question de #foi », résume Iryna Dmytrychyn dans son livre. Peu importe le réel, ce qui fait « foi », c’est l’idée que l’on veut s’en faire.

    Si la presse fasciste a eu raison, c’était parce que les circonstances l’arrangeaient. Et encore, tous les journaux de l’extrême droite n’ont pas couvert cette gigantesque famine avec la même intensité : l’Ukraine, périphérie d’un empire colonial, avait moins d’importance aux yeux de Rivarol ou de L’Action française que ce régime communiste honni pour ne pas rembourser les emprunts russes, remarque Iryna Dmytrychyn.

    #Dissonance_cognitive

    « La presse du centre n’en parle pas car elle manque d’informations ou considère n’en avoir pas suffisamment », ajoute la chercheuse. L’approche sensationnaliste, quant à elle, exacerbe les récits déjà terribles. Des millions de morts sur des terres fertiles, en paix, des cas de cannibalisme… « Une disette peut se concevoir, mais manger ses enfants ? L’entendement se dérobe, conclut Dmytrychyn en reprenant la formule de l’historien Jean-Louis Panet. Notre cerveau ne pouvait l’admettre. »

    L’écrivain hongrois Arthur Koestler fut l’un des rares compagnons de route du parti communiste à être lucide sur l’#Holodomor, parce qu’il s’est rendu sur place. Il a fait l’expérience de cette « trieuse mentale » qui le poussait à refuser ce qui heurtait ses convictions. Il en va de même, aujourd’hui, pour les catastrophes en cours : les dizaines de milliers de morts aux frontières de l’Europe, les guerres meurtrières plus ou moins oubliées (au Soudan, à Gaza, en Ukraine, en Éthiopie…), ou encore le changement climatique. Ce dernier fait l’objet de nombreuses recherches pour tenter d’expliquer l’apathie, l’indifférence, voire le déni, qu’il suscite, comme d’autres catastrophes.

    La philosophe Catherine Larrère propose de reprendre le concept de dissonance cognitive, développé dans les années 1950 par le psychologue Leon Festinger. « Notre vie suppose une forme de #croyance dans l’avenir car cette #confiance nous permet d’agir. Quand quelque chose met en question ces #certitudes, on préfère trouver une autre #explication que de remettre en cause nos croyances. On préfère croire que le monde dans lequel on vit va continuer », résume l’intellectuelle.

    Les #neurosciences confirment le « coût » biologique de renoncer à ce qu’on pensait établi. « Lorsque les faits contredisent nos représentations du monde, le cerveau envoie un signal d’erreur en produisant des “#hormones_du_stress” », décrit Sébastien Bohler, docteur en neurosciences et rédacteur en chef du magazine Cerveau & Psycho. Créer des stratégies pour s’adapter à la nouvelle donne nécessite d’activer d’autres parties du cerveau, dont le cortex préfrontal, ce qui est « très consommateur d’énergie », poursuit le chercheur.

    Plutôt que de procéder à ces remises en cause, la première réaction consiste à s’en prendre au messager. « Les porteurs de mauvaises nouvelles, on les met à mort, au moins symboliquement », note le psychanalyste Luc Magnenat, qui a publié La Crise environnementale sur le divan en 2019. « On impute aux écologistes la #responsabilité de ce qui arrive parce qu’ils en parlent », précise Catherine Larrère, en suggérant nombre d’illustrations tirées de l’actualité : les inondations dans le nord de la France seraient causées par l’interdiction de curer les fossés afin de protéger les batraciens, et non par le changement climatique qui provoque des pluies diluviennes… Ou encore les incendies seraient dus « à des incendiaires », et non à la sécheresse.

    « Être écologiste, c’est être seul dans un monde qui ne veut pas entendre qu’il est malade », reprend Luc Magnenat en citant Aldo Leopold, le père de l’éthique environnementale. Dans sa chanson From Gaza, With Love, le rappeur franco-palestinien Saint Levant le dit dans son refrain : « Continuez à parler, on vous entend pas. »

    Cette difficulté à dire une catastrophe que personne ne veut entendre est étudiée dans l’ouvrage collectif Violence et récit. Dire, traduire, transmettre le génocide et l’exil (Hermann, 2020). « La #violence limite toute possibilité de #récit, mais aussi toute possibilité d’#écoute et de réception. Elle hante une société d’après-guerre peu encline à admettre la dimension impensable du #génocide […]. Elle se traduit par l’#effroi : d’un côté la #négation de ceux dont le récit ne peut pas se dire ; de l’autre le déni et la #peur d’une société qui ne veut pas être témoin de la #cruauté_humaine dont atteste le récit. Comment dire et entendre les rafles, les morts de faim ou sous la torture dans les prisons ou sur les routes d’Arménie ou dans les camps nazis ? […] Le témoignage met des décennies à pouvoir se tisser, le temps de sortir du #silence_traumatique et de rencontrer une #écoute possible », pose en introduction la directrice de l’ouvrage, Marie-Caroline Saglio-Yatzimirsky, à la tête de l’Institut Convergences Migrations du CNRS.

    #Responsabilités_collectives

    Anthropologue et psychologue clinicienne, elle s’est concentrée sur la parole des personnes exilées, qui subissent une « triple violence » : une première fois sur le lieu du départ, ce qui constitue souvent la cause de l’exil (opposition politique, risques en raison de son identité, etc.) ; lors de la #migration pour éviter les risques inhérents à la clandestinité ; à l’arrivée en France où l’#administration impose un cadre qui ne permet pas à la #parole de s’exprimer librement.

    La possibilité du récit disparaît donc dans la société qui ne veut pas l’entendre, car elle se retrouverait sinon face à ses responsabilités dans ces violences. « Les #morts_aux_frontières relèvent de l’intentionnel, c’est une politique économique qui érige des murs », synthétise Marie-Caroline Saglio-Yatzimirsky.

    Refuser d’« attester de la violence » est l’une des formes du déni, qui en revêt d’autres. « Plus l’#angoisse est forte, plus le déni est fort », relève Luc Magnenat.

    Au-delà de son intensité, il trouve différentes manifestations. Dans son livre States of Denial (non traduit, « les états du déni »), le sociologue Stanley Cohen propose une typologie : le déni peut être littéral (cet événement ne s’est pas produit), interprétatif (la signification des faits est altérée), implicatif (les conséquences et implications sont minimisées). Surtout, Stanley Cohen sort le déni du champ psychologique en montrant qu’il peut relever de #politiques_publiques ou de #pratiques_sociales.

    Dans ses recherches sur les massacres des opposants politiques dans les prisons iraniennes en 1988, l’anthropologue Chowra Makaremi a observé ces « reconfigurations du discours du déni ». Après des décennies de négation pure et simple, le régime iranien a, sous la pression d’une mobilisation de la société civile, tenté d’en minimiser l’ampleur, puis a dénié aux victimes leur statut en considérant qu’elles n’étaient pas innocentes, avant de se présenter lui-même en victime agissant prétendument en légitime défense.

    Indispensable « #reconnaissance »

    Sortir du déni n’est pas un phénomène linéaire. S’agissant du #changement_climatique, Sébastien Bohler a observé une prise de conscience forte en 2018-2019. À ce « grand engouement », incarné notamment par les manifestations pour le climat, a succédé « un retour du climato-rassurisme », « nouvelle tentative de ne pas poursuivre la prise de conscience ».

    La théorie d’un #effondrement global simultané, qui a connu un nouvel essor à ce moment-là, a constitué un « #aveuglement », estime pour sa part Catherine Larrère dans le livre Le pire n’est jamais certain (Premier Parallèle), coécrit avec Raphaël Larrère, parce qu’elle empêchait de regarder la « multiplicité des catastrophes locales déjà en cours ». « La fascination pour le pire empêche de voir ce qui est autour de soi », en déduit la philosophe.

    Malgré les retours en arrière, des idées progressent inexorablement : « Au début des années 1990, il allait de soi que le progrès et les innovations techniques allaient nous apporter du bien-être. C’était l’évidence. Ceux qui émettaient des réserves passaient pour des imbéciles ou des fous. Aujourd’hui, c’est l’inverse, la croyance dans l’évidence du progrès fait passer pour étrange. »

    Le mur du déni se fissure. Ce qui l’abattra, c’est le contraire du déni, c’est-à-dire la reconnaissance, selon Stanley Cohen. Indispensable, la connaissance des faits ne suffit pas, ils doivent faire l’objet d’une reconnaissance, dans des modalités variables : procès, commissions vérité et réconciliation, compensation, regrets officiels…

    L’Ukraine a dû attendre la chute de l’URSS pour qualifier officiellement l’Holodomor de génocide, une reconnaissance qui a pris la forme d’une loi adoptée par le Parlement en 2006. Après l’invasion de son territoire par la Russie le 24 février 2022, plusieurs États européens, dont la France, ont fait de même, reconnaissant, 90 ans après, que cette famine organisée par le pouvoir soviétique n’était pas une « disette », ni une « exagération colportée par les ennemis du régime », mais bel et bien un génocide.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/180824/face-au-pire-nos-aveuglements-contemporains

    #déni #aveuglement

    • Violence et récit. Dire, traduire, transmettre le génocide et l’exil

      Face au désastre, peut-il y avoir un récit ? Au sortir du camp de Buchenwald, à l’heure des dizaines de milliers de morts en Méditerranée, que dire, que traduire, que transmettre ? Le récit peut-il prendre forme lorsqu’il s’agit d’attester du mal et de la cruauté, dont la conflagration mine l’écrit ? La violence empêche le récit lorsque les mots manquent radicalement pour dire l’expérience génocidaire ou exilique. Elle l’abîme, tant sa transmission et son écoute sont hypothéquées par le déni et le silence de la société qui le recueille. À travers l’étude de plusieurs formes de récits – chroniques de ghetto, récits de guerre ou poèmes et fictions – émerge l’inconscient de l’Histoire qui ne cesse de traduire les expériences de domination et de persécution de populations marginalisées. Comment décentrer la violence pour rendre le récit audible ? Les dispositifs d’écoute, d’interprétariat et de transmission se renouvellent. Ce livre apporte une lecture inédite des récits de violence, en proposant un parallèle entre les violences génocidaires et les exils contemporains dans une perspective résolument pluridisciplinaire.

      https://www.editions-hermann.fr/livre/violence-et-recit-marie-caroline-saglio-yatzimirsky

      #livre

    • States of Denial: Knowing about Atrocities and Suffering

      Blocking out, turning a blind eye, shutting off, not wanting to know, wearing blinkers, seeing what we want to see ... these are all expressions of ’denial’. Alcoholics who refuse to recognize their condition, people who brush aside suspicions of their partner’s infidelity, the wife who doesn’t notice that her husband is abusing their daughter - are supposedly ’in denial’. Governments deny their responsibility for atrocities, and plan them to achieve ’maximum deniability’. Truth Commissions try to overcome the suppression and denial of past horrors. Bystander nations deny their responsibility to intervene.

      Do these phenomena have anything in common? When we deny, are we aware of what we are doing or is this an unconscious defence mechanism to protect us from unwelcome truths? Can there be cultures of denial? How do organizations like Amnesty and Oxfam try to overcome the public’s apparent indifference to distant suffering and cruelty? Is denial always so bad - or do we need positiv...

      https://www.wiley.com/en-us/States+of+Denial%3A+Knowing+about+Atrocities+and+Suffering-p-9780745623924

  • 200 milliards : le #coût exorbitant des #aides_publiques_aux_entreprises

    Près de 200 milliards d’euros. C’est le montant des #aides_publiques versées aux grandes #entreprises_privées sans aucune contrepartie. Ce montant a été révélé par une étude de l’Institut de recherches économiques et sociales (Ires) et du Clersé (groupe de chercheurs de l’université de Lille). Il s’agit du premier #budget de l’État : plus de 30% de son budget total, et deux fois plus que le budget de l’Éducation nationale. #Subventions_directes, #niches_fiscales et sociales en tout genre ou encore #aides régionales et européennes, ces 200 milliards prennent des formes diverses, mais ont une même finalité : partir en poussière chez des intérêts privés, plutôt qu’au service de la collectivité.

    Le #capitalisme français est sous #perfusion, selon le titre même de l’étude de l’Ires. Il ne survit qu’avec l’aide d’un État qui lui donne tout sans rien attendre en retour. Une histoire d’amour et de dépendance donc ; au détriment d’une #politique_économique sensée. Toutes les études, y compris celles des services ministériels eux-mêmes, le montrent : les effets de ces milliards d’aides sont faibles voire inexistants. Pour la dernière étude de l’Ires : « L’#efficacité des allègements du coût du travail se trouve sans doute ailleurs : dans le soutien apporté aux marges de l’entreprises« . La puissance publique utilise donc l’argent du contribuable pour augmenter le profit du secteur privé.

    Résultat : pas de création d’emplois, pas de hausse des salaires, pas de relocalisations de l’industrie, mais une augmentation des dividendes des actionnaires. Pourtant, Emmanuel Macron et son gouvernement refuse toujours fermement de s’attaquer à ce premier poste de dépense. Il a même augmenté les niches fiscales de 10 milliards d’euros pour 2024, le même montant qu’il a retiré aux #services_publics. Une politique qui entraîne la #France droit dans le mur. Notre article.

    D’où viennent ces 200 milliards ?

    Le gâteau des #aides_aux_entreprises a considérablement grossi ces dernières années : l’État accorde 3 fois plus d’aides au #secteur_privé qu’en 1999. Et ce gâteau se découpe en plusieurs parts. Le magazine Frustration fournit un graphique de la répartition de ces aides (https://www.frustrationmagazine.fr/subvention-capitalisme). C’est environ 20% de #subventions directes de l’État ou des collectivités, 40% d’#exonérations de #cotisations_sociales, et 40% de niches fiscales et #baisses_d’impôts.

    Ces milliards d’aides ne tombent pas du ciel. Ils résultent très nettement des politiques des gouvernements libéraux depuis les années 2000. En particulier, des politiques d’Emmanuel Macron depuis 2017 et même avant, à la tête de l’Économie de François Hollande. Avant lui, les politiques de réduction des #cotisations_patronales des entreprises ont pavé le chemin sous Nicolas Sarkozy. Ensuite, le grand bond en arrière : la mise en place du #Crédit_d’Impôt_Compétitivité_Recherche (#CICE), qui a coûté à l’État plus de 100 milliards depuis 2013.

    Sa suppression permettrait de rapporter 10 milliards d’euros, a minima. La baisse pérenne des cotisations sociales est venue remplacer le CICE en 2019 par Macron, pour le même effet. D’autres dispositifs encore : le #Crédit_impôt_recherche (#CIR : sa suppression pour les grandes entreprises rapporterait 1.3 milliard), ou encore le #Pacte_de_Responsabilité (un ensemble de différents crédits d’impôts mis en place en bloc par François Hollande).

    Sous Macron, ces dispositifs perdurent et s’étendent. Ils cohabitent surtout avec d’autres milliards tendus par Macron aux entreprises. Par exemple, Macron a décidé seul de supprimer la #cotisation_sur_la_valeur_ajoutée_des_entreprises (#CVAE), qui bénéficiait aux collectivités territoriales, et de les rendre dépendantes aux recettes de la #TVA, l’impôt le plus injuste. Ce nouveau cadeau aux grandes entreprises coûte cette année 12 milliards d’euros, et coûtera 15 milliards en 2027.

    D’innombrables niches sont encore en vigueur : la niche « #Copé » (5 milliards d’euros) ou les niches fiscales défavorables au climat (19 milliards d’euros selon l’Institut d’étude pour le climat) pour ne citer qu’elles.

    200 milliards pour licencier ?

    Problème majeur : ces milliards d’aides aux entreprises se font sans contrepartie aucune. Bien souvent, elles permettent et encouragent même les attaques sociales des entreprises envers leurs salariés : baisses des salaires, #licenciements, #délocalisations, etc. Un exemple récent : l’entreprise #Forvia (ex-Forecia), fabricant français d’équipements automobiles. Depuis son lancement dans la filière de l’hydrogène, elle a touché 600 millions de subventions – et ce, hors CICE. Pourtant, le 19 février 2024, le directeur annonce d’une pierre deux coups le retour des bénéfices pour 2023 et la suppression progressive de 10.000 emplois pour les quatre prochaines années.

    Douche froide pour les salariés, dont l’entreprise annonce le même jour des bénéfices records et un grand #plan_de_licenciement qui ne dit pas son nom. L’Insoumission s’est entretenue avec des travailleurs de Forvia mobilisés contre la décision de leur direction. Ils dénoncent d’une même voix l’hypocrisie de leur direction mais aussi de la puissance publique :

    « On leur a donné 600 millions d’argent de l’Etat. Non seulement ils n’ont pas créé d’emplois mais en plus ils en suppriment. Ils touchent de l’agent pour virer les travailleurs, aussi simple que ça. C’était 600 millions pour un seul site de 300 salariés : ça fait 2 millions par salarié, et ils se permettent de fermer des sites. Juste pour leur marge. Et honnêtement, on a même l’impression que c’est nous qui payons le licenciement de nos collègues, puisqu’on va travailler plus pour compenser leur départ.« 

    Résultat direct et rationnel de l’absence de conditionnement social (et écologique) de ces aides publiques, les entreprises font ce qu’elles veulent de cet argent. Et Forvia est loin d’être la seule à profiter des aides d’entreprises pour augmenter ses marges au détriment des salariés, comme le soulignait l’étude de l’Ires. En 2019, le groupe #Michelin s’était déjà par exemple servi d’un crédit d’impôt (CICE) de 65 milliards d’euros pour délocaliser sa production en Pologne, en Roumanie et en Espagne.

    Et ces quelques exemples ne sont très certainement que l’arbre qui cache la forêt, au vu de l’ampleur des sommes engagées. D’une manière générale : beaucoup d’#argent_public pour les #actionnaires, qui aurait pu être consacré aux grands chantiers de #politiques_publiques. Combien d’écoles, d’hôpitaux, de lignes ferroviaires auraient pu être construits avec ces 200 milliards ? Combien de personnels soignants, de professeurs et d’AESH dans les écoles auraient pu être rémunérés ?

    Pour continuer d’arroser les entreprises, le Gouvernement fait les poches aux français

    Alors que le chantage à la dette et à la compression des dépenses repart de plus belle avec l’annonce des 5.5% de PIB de déficit, la #responsabilité de ces 200 milliards d’aides est immense. Le Gouvernement détourne les yeux de cette responsabilité et préfère concentrer ses attaques ciblées sur les dépenses sociales et les services publics. Les conséquences de ce récit politique sont déjà à l’oeuvre : moins 10 milliards d’euros passés par décret en février, multiples réformes de l’assurance-chômage, etc. Et d’autres coupes sont à venir pour atteindre les 3% de déficit d’ici 2027, jusqu’à 80 milliards d’euros de coupe selon Bruno Le Maire.

    Selon les mots de l’étude de l’Ires, « un État-providence caché en faveur des entreprises » se développe à l’heure où le Gouvernement détricote l’Etat-providence social. Romaric Godin résume la situation dans un article sur le chantage à la dette pour Mediapart : « L’épouvantail de la dette a pour fonction de démanteler ce qui reste de l’État social pour préserver les transferts vers le secteur privé et soutenir sa rentabilité face à une croissance stagnante.« 

    Plus encore, pour Benjamin Lemoine, sociologue et auteur de l’ouvrage L’Ordre de la dette (2022) : « Le maintien de l’ordre de la dette demande un dosage incessant entre le soutien au capital privé et une capacité à assurer sans chocs politiques le service de la dette, et depuis des années cette capacité repose entièrement sur le sacrifice de l’État social.« (https://www.editionsladecouverte.fr/l_ordre_de_la_dette-9782707185501)

    Derrière le refus du Gouvernement de s’attaquer aux aides aux entreprises, c’est donc tout un #modèle_économique qui ne veut être remis en cause par les macronistes. Le #capitalisme_français repose tout entier sur ce système de #soutien_public_au_capital. 200 milliards, cela commence à faire cher le fonctionnement de l’#économie.

    #Conditionnement_des_aides, suppression des niches fiscales inutiles : les recettes fiscales existent

    Un autre modèle est pourtant possible. Toutes les études sur les aides aux entreprises parlent d’une même voix : il faut conditionner les aides. Elles rejoignent ainsi les revendications de la France Insoumise depuis des années. La suppression du CICE est au programme de l’Avenir en Commun dès l’élection présidentielle de 2017. De même pour le CIR, et toutes les niches « anti-sociales et anti-écologiques ». La France Insoumise a ainsi publié ce 28 mars ses « 10 mesures d’urgence pour faire face à l’austérité » dans un document intitulé « Moins de dépenses fiscales, plus de recettes fiscales !« .

    Au programme : rétablir l’#ISF (+15 milliards), taxer les superprofits (+15 milliards), supprimer le CICE (+10 milliards), supprimer le CIR (+1.3 milliards), supprimer les niches fiscales les plus polluantes (+6 milliards), rétablir la CVAE (+15 milliards), mettre en place une #imposition_universelle_sur_les_entreprises (+42 milliards), renforcer la #taxe_sur_les_transactions_financières (+10.8 milliards) et mettre fin à la #flat_tax (+1 milliards). Un large panel qui vise à montrer une chose : « Les seules dépenses à réduire sont celles en faveur des plus riches » écrit la France Insoumise, pour qui les 200 milliards d’aides seraient un bon premier ciblage.

    Une chose est certaine : il existe, effectivement, de nombreux postes de dépenses sur lesquels le Gouvernement pourrait se pencher pour réduire le #déficit_public. Conditionner les aides aux entreprises paraît être une étape essentielle.

    https://linsoumission.fr/2024/04/05/200-milliards-aides-entreprises

    #alternative

    –—

    Le rapport est probablement celui-ci, datant de 2022, à moins qu’un nouveau n’a pas été publié depuis :

    Un capitalisme sous perfusion : Mesure, théories et effets macroéconomiques des aides publiques aux entreprises françaises

    La pandémie apparue à l’hiver 2019-2020 a souligné avec une acuité spectaculaire le rôle des aides publiques pour maintenir sur pied les entreprises face à la mise en arrêt artificiel de l’activité. Il ne s’agit cependant que d’une partie d’un processus plus ample et ancien de développement, par la puissance publique et depuis maintenant plusieurs décennies, de dispositifs de soutien des entreprises, dispositifs qui mobilisent les finances publiques et sociales (mêlant dépenses effectives et exonérations) mais qui ne sont pas recensés sous la forme d’une catégorie statistique dédiée.

    L’étude se penche sur cet enjeu des aides publiques aux entreprises en posant quatre grandes questions : Combien ? Pourquoi ? Pour quels effets ? Et enfin, à quelles conditions ?

    Les informations statistiques sur l’ensemble des mesures d’aide aux entreprises et leur évolution dans le temps existent, sont publiques mais souvent disséminées et parcellaires. En particulier, il n’existe pas de catégorie statistique qui les regroupe. Celles-ci sont constituées de trois composantes : les dépenses fiscales (avec notamment le crédit d’impôt pour la compétitivité et l’emploi et le crédit d’impôt recherche), les dépenses socio-fiscales (exonérations de cotisations sociales employeurs) et les dépenses budgétaires de subvention et d’aide à l’investissement. Comme le montre l’étude, alors qu’elles oscillaient en moyenne autour de 30 milliards d’euros par an dans les années 1990, elles représentaient un montant de plus de 100 milliards d’euros par an dès 2008, et culminaient à 157 milliards en 2019, avant même la mise en œuvre du « quoi qu’il en coûte ».

    Mises en place selon des arguments en termes de compétitivité, d’emploi, d’investissement ou d’innovation, la discussion autour des effets théoriques et la revue de la littérature empirique laissent subsister de sérieux doutes sur la pertinence de ces mesures. Ces politiques peuvent de surcroît entraîner des effets d’accoutumance et de dépendance pour les entreprises, assorti d’un coût permanent pour les finances publiques et sociales, ceci pour des effets réels, mais souvent transitoires. Il en ressort l’idée que notre système économique est de plus en plus « sous perfusion » d’aides publiques aux entreprises.

    L’étude met enfin en évidence grâce à un modèle macroéconomique les différentes (in)efficacités des mesures de baisse de prélèvements obligatoires sur les entreprises selon qu’elles s’accompagnent ou pas de contreparties (par exemple en termes d’investissement productif), comparativement notamment à la dépense publique directe. Elle envisage également une utilisation alternative des sommes dépensées.

    En conclusion, l’étude s’interroge sur la conditionnalité des aides publiques aux entreprises, en particulier l’application de critères sociaux et/ou environnementaux.

    https://ires.fr/publications/cgt/un-capitalisme-sous-perfusion-mesure-theories-et-effets-macroeconomiques-des-ai

  • Climat : les 1% les plus riches polluent plus que 5 milliards d’êtres humains – le rapport accablant d’OXFAM
    (publié en 2023, ici pour archivage)

    Les chiffres de l’étude d’Oxfam « Égalité climatique : une planète pour les 99% » sont implacables. Que ce soit les particuliers, les entreprises ou à l’échelle des pays, la conclusion est toujours la même : les principaux destructeurs de notre monde se trouvent en haut de la pyramide des revenus. Le constat est accablant : les 1% les plus riches émettent plus de #CO2 que les deux tiers les plus pauvres de la population mondiale, soit 5 milliards de personnes.

    Les riches polluent, les pauvres en paient le prix. En dépit de trente ans d’alertes des conférences internationales et des rapports scientifiques, les politiques économiques hégémoniques se suivent et se ressemblent pendant que l’effondrement climatique s’accélère. Notre article.

    Climat : le capitalisme récompense les fossoyeurs de l’humanité

    Le constat est aussi clair que le ciel sans nuages à Dubaï : les 1% les plus riches émettent plus de CO2 que les deux tiers les plus pauvres de la population mondiale, soit 5 milliards de personnes. Et pendant que les ultra riches se préparent des bunkers climatisés en Nouvelle-Zélande, les plus pauvres essuient les conséquences dévastatrices du dérèglement climatique.

    Les chiffres du rapport d’Oxfam font voler en éclat les prétentions au pragmatisme des éditorialistes payés grassement par les milliardaires. Plus on se rapproche du sommet de la pyramide, plus le sommet de l’injustice perce de nouveaux plafonds. Les 0,1% les plus fortunés, une poignée de 770 000 individus, recrachent plus de CO2 que 38% de la population mondiale. Si cela ne vous donne pas de haut-le-cœur, vous n’avez probablement pas de pouls.

    En France, les révélations d’Oxfam sont tout aussi choquantes. Chaque personne appartenant à la clique des 1% les plus riches déverse autant de CO2 en un an qu’une personne au sein des 50% les plus pauvres n’en émettra en dix ans. Les 1% les plus riches, produisent en moyenne dix fois plus de CO2 par an que la moitié la plus démunie. Les 10% les plus riches sont responsables d’un quart des émissions de la France.
    Pour donner une chance de survie au 99%, il y a urgence à désarmer les 1%

    Les mesures proposées par Oxfam résonnent fortement avec celles présentées dans l’Avenir en Commun, le programme porté par Jean-Luc Mélenchon à la présidentielle 2022 : Un impôt sur la fortune climatique, une taxe sur les dividendes pour les entreprises irrespectueuses de l’Accord de Paris, la fin des avantages fiscaux néfastes pour le climat, un conditionnement strict des financements publics aux objectifs climatiques, et une trajectoire contraignante de réduction des émissions pour les multinationales.

    Face à l’urgence, des solutions radicales s’imposent. Jusqu’au GIEC, le consensus scientifique est désormais à un programme pré-révolutionnaire. C’est pourquoi les médias du système ne parlent jamais des solutions. Quand ils finissent par parler climat, ils se cantonnent à du spectaculaire, souvent à côté de la réalité, parce qu’ils refusent par dessus tout de pointer les véritables responsables de la catastrophe.

    Pour aller plus loin : Climat : pourquoi les médias ne vous parlent jamais des solutions ?

    Et c’est pourquoi Oxfam a placé tout en haut le programme de Jean-Luc Mélenchon pour l’élection présidentielle 2022. C’est le seul qui propose une rupture avec le dogme économique néolibérale dans tous les aspects.

    https://linsoumission.fr/2023/11/20/climat-riches-polluent-oxfam
    #pollution #riches #pauvres #statistiques #chiffres #rapport #oxfam #climat #changement_climatique #responsabilité

    voir aussi :
    Les 10% les plus riches sont responsables de plus de la moitié des émissions de CO2
    https://seenthis.net/messages/877228

    Le rapport de #oxfam déjà signalé ici par @socialisme_libertaire et @biggrizzly :


    https://seenthis.net/messages/1027600
    https://seenthis.net/messages/1027540

  • Le changement climatique comme motif de fuite

    En 2015, un homme dépose une demande d’asile en Nouvelle-Zélande. La raison qu’il invoque : il peut se prévaloir de la qualité de réfugié car son pays d’origine, Kiribati, est devenu inhabitable en raison du changement climatique. Estimant que son renvoi viole son droit à la vie, il porte l’affaire devant le Comité des droits de l’homme de l’ONU, qui rend son appréciation en 2020. Si celui-ci ne reconnait pas d’atteinte au droit à la vie dans ce cas particulier, il estime en revanche qu’une telle logique est sur le principe recevable. Cette décision est fondamentale pour des affaires similaires, et met en lumière un sujet qui occupera toujours plus les États à l’avenir.

    Aggravation des phénomènes météorologiques extrêmes, multiplication des catastrophes naturelles, élévation du niveau de la mer : il ne s’agit là que de quelques-unes des conséquences du changement climatique, qui rendent un nombre croissant de terres inhabitables, obligeant leurs habitant·e·x·s à fuir - quelque 200 millions concernées d’ici à 2050 d’après les expert·e·x·s. Nombre d’entre elles sont ce qu’on appelle des « personnes déplacées à l’intérieur de leur propre pays », ou « internally displaced persons (IDP) ». En 2022, l’Internal Displacement Monitoring Center (IDMC) en a recensé 32,6 millions, un nombre jamais atteint auparavant. Certaines personnes sont toutefois contraintes de quitter leur pays, parcourant des milliers de kilomètres pour se mettre en sécurité.
    Situation juridique

    Un·e·x réfugié·e·x est une personne qui, du fait de son origine ethnique, de sa religion, de sa nationalité, de son appartenance à un groupe social déterminé ou de ses opinions politiques, est exposée à de sérieux préjudices ou craint à juste titre de l’être, se trouvant par conséquent dans l’impossibilité de demeurer dans son pays d’origine. Au sens de la Convention de Genève relative au statut de réfugié et de la loi suisse sur l’asile, seule une personne exposée à des menaces personnellement dirigées contre elle peut recevoir officiellement le statut de réfugiée. Or les personnes touchées par le changement climatique ne remplissent pas cette condition, car elles appartiennent à un groupe forcé d’abandonner son lieu de résidence, à la suite d’une catastrophe naturelle par exemple. N’étant pas personnellement menacées, elles sont privées de la protection dont bénéficient les réfugié·e·x·s au sens de la Convention de Genève.

    Les exemples suivants illustrent la situation actuelle des personnes en fuite pour des motifs climatiques :

    - En raison de la pénurie d’eau et de la sécheresse, un pays voit les conflits armés se multiplier. Persécutée dans le cadre de ces conflits, une personne est contrainte de fuir. Dans ce cas, elle peut être considérée comme réfugiée au sens de la Convention de Genève.
    - Un glissement de terrain détruit un village. Les habitant·e·x·s doivent fuir mais, n’étant pas personnellement menacé·e·x·s, ne peuvent obtenir le statut de réfugié·e·x. Si leur pays leur refuse une aide ciblée pour l’un des motifs cités dans la Convention de Genève, celle-ci est néanmoins applicable.
    – À la suite de l’élévation du niveau de la mer, un État insulaire disparaît. Les habitant·e·x·s doivent fuir dans un autre pays mais, là encore, n’étant pas personnellement menacé·e·x·s, ne peuvent être officiellement reconnu·e·x·s comme réfugié·e·x·s.

    Le principe de non-refoulement interdit le renvoi d’une personne vers un pays où celle-ci est exposée à des risques de persécution ou de traitements inhumains, ou à des menaces pour sa vie ou son intégrité corporelle. D’après le Comité des droits de l’homme de l’ONU, ce principe est applicable tant que le pays concerné demeure inhabitable, que ce soit à cause d’une catastrophe naturelle, d’un conflit attisé par le changement climatique, ou pour toute autre raison. Dans une certaine mesure, les personnes en fuite pour des motifs climatiques peuvent ainsi bénéficier d’une protection internationale, mais uniquement si un retour dans une autre région de leur pays est exclu.

    Cette situation est insatisfaisante : des personnes en fuite se voient refuser le statut de réfugiées, sans toutefois pouvoir retourner dans leur pays, devenu inhabitable.
    Pistes de solutions

    En 2012, la Suisse et la Norvège lancent l’Initiative Nansen, qui vise à améliorer la protection des personnes déplacées à la suite de catastrophes naturelles. Le projet s’est achevé en 2015, avec l’élaboration d’un agenda de protection ainsi que la création d’une plateforme dédiée aux déplacements liés au changement climatique (Platform on Disaster Displacement), qui continue de chercher des solutions à cette problématique. Les actions concrètes en faveur de l’instauration d’un statut juridique international fondé sur des règles uniformes pour les personnes en fuite pour des motifs climatiques sont rares ; actuellement, la priorité est donnée aux mesures d’atténuation des catastrophes et de leurs conséquences.

    Un État insulaire du Pacifique a déjà instauré une protection juridique ses citoyen·ne·x·s contre les effets du changement climatique : il s’agit de l’archipel de Tuvalu, gravement menacé par la montée des eaux, qui pourrait se retrouver totalement englouti en quelques décennies. Son gouvernement a négocié un traité avec l’Australie, qui accueillera chaque année 280 Tuvaluans.

    En Allemagne, un conseil d’experts a proposé de créer un « passeport climatique », une « carte climatique » et un « visa de travail climatique ». Le premier serait destiné aux personnes originaires de pays devenus inhabitables en raison du changement climatique ; la deuxième s’adresserait aux personnes venant de pays gravement menacés par le changement climatique, qui bénéficieraient d’une autorisation de séjour jusqu’à ce que leur État d’origine ait mis en œuvre des mesures de protection suffisantes pour qu’elles puissent y retourner ; le troisième serait quant à lui réservé aux personnes bénéficiant d’un contrat de travail en Allemagne et provenant de pays modérément touchés par le changement climatique. En recourant à ces outils, l’Allemagne assumerait sa part de responsabilité dans le changement climatique anthropique.

    En Suisse, les quelques interventions politiques relatives au changement climatique comme motif de fuite se sont soldées par des échecs. Déposée en 2022, une motion qui demandait l’extension de l’application de la Convention de Genève aux « personnes déplacées en raison de catastrophes naturelles liées au changement climatique » a été rejetée en 2023. Une motion de 2021 exigeant à l’inverse que la Suisse s’oppose à une telle extension auprès de l’ONU a également été refusée.
    Responsabilité de la Suisse

    La majorité des réfugié·e·x·s et des personnes déplacées en raison de conflits vivent dans des pays tels que la Syrie, le Venezuela ou le Myanmar, qui sont particulièrement touchés par le changement climatique. La plupart des personnes contraintes de fuir à cause du changement climatique ou de catastrophes naturelles recherchent la sécurité dans leur propre pays.La Suisse ne compte donc pas parmi les principaux pays d’accueil des personnes en fuite pour des motifs climatiques. Se pose dès lors la question suivante : combien d’entre elles seraient véritablement susceptibles de venir y chercher la sécurité ? Bien que vraisemblablement peu concernée par la question de l’accueil de migrant·e·x·s climatiques, la Suisse contribue massivement au changement climatique et à ses effets néfastes dans le monde entier. Elle a donc le devoir d’assumer ses responsabilités, en participant à la recherche de réponses globales à la question de la migration climatique.

    https://www.humanrights.ch/fr/pfi/droits-humains/climat/dossier-climat-droitshumains/focus-climat/changement-climatique-motif-de-fuite
    #climat #changement_climatique #réfugiés #asile #migrations #réfugiés_climatiques #réfugiés_environnementaux #statut #Suisse #Initiative_Nansen #catastrophes_naturelles #protection #passeport_climatique #responsabilité

  • #Pologne : les forces armées peuvent tirer sur des migrants sans responsabilité pénale

    En Pologne, la crise migratoire à la frontière avec la #Biélorussie continue de s’intensifier. Cet été, le gouvernement a mis en place une #zone-tampon complètement militarisée le long de la frontière pour empêcher les migrants de pénétrer dans le pays. Ce vendredi 12 juillet, le gouvernement a élargi les prérogatives des forces armées. Elles ont désormais le droit de tirer sur les migrants sans en être tenues responsables pénalement. Une mesure qui inquiète les humanitaires sur place.

    Tirer de façon préventive et à #balles_réelles sur quiconque tenterait de violer la frontière. Ce vendredi, les députés polonais ont levé la #responsabilité_pénale des #soldats désormais autorisés à tirer face aux migrants.

    Une erreur selon l’activiste humanitaire Kasia Mazurkiewicz, qui s’inquiète pour la vie des réfugiés : « En voyant quelqu’un dans la #forêt, on n’est pas en mesure de dire s’il représente une menace ou s’il s’agit d’une personne fuyant un pays en guerre, et qui cherche juste à survivre. Et il faut les traiter comme des humains. Or, on ne tire pas sur des humains ».

    Avec son association d’aide aux migrants, elle arpente régulièrement la forêt le long de la frontière, et craint désormais pour sa propre sécurité.

    « Pour nous, c’est très inquiétant, car on sauve des vies humaines, mais on a peur de se faire fusiller en portant secours aux autres. Désormais, on va réfléchir à deux fois avant d’aller sauver quelqu’un, car on sait qu’on risque nous-mêmes d’y rester ».

    Entre les forces armées et les activistes, les tensions sont au plus haut cet été. Cette année, plus de 18 000 personnes ont tenté de traverser illégalement la frontière. La zone tampon, elle, restera en vigueur au moins jusqu’au 13 septembre.

    https://www.rfi.fr/fr/europe/20240716-pologne-les-forces-arm%C3%A9es-peuvent-tirer-sur-des-migrants-sans-resp
    #tir #tirs #armes_à_feu #migrations #asile #réfugiés #tirs_préventifs #frontières #militarisation_des_frontières #responsabilité #armée

    • Greater use of firearms at the border with Belarus: PACE Rapporteur expresses deep human rights concerns at Polish draft law

      PACE rapporteur #Stephanie_Krisper (Austria, ALDE) has expressed concerns at the decision by the Polish government in June 2024 to enhance the operations of the armed forces, the police and the border guard in Poland in the event of a threat to state security. The draft law suggests that the use of firearms at the border be liberalised, and that soldiers be granted immunity when using such firearms in the border area.

      "The draft law risks running counter to human rights obligations of Council of Europe’s member states, including non-derogable rights such as the prohibition of torture,” said Ms Krisper.

      “These measures would supplement the ministerial regulation temporarily restricting access to the border area contiguous with Belarus, including for citizens, media, NGOs and parliamentarians, and which has significantly limited public oversight over the respect of human rights standards in this particular border zone.

      This decision by the government suggests that pushbacks and the use of firearms against individuals crossing the border will continue unsanctioned, in clear violation of the non-refoulement principle and the right to seek asylum. Non-derogable Convention rights such as the right to life, and the prohibition of torture and inhumane or degrading treatment, may also be at risk.

      The Polish government’s policy regarding the situation at the border with Belarus has been negatively assessed by the Polish Ombudsman, the UNHCR, and Polish human rights organisations.

      As stressed in Resolution 2555 (2024), ‘policies of deterrence have neither demonstrated their efficiency in enhancing domestic security nor strengthened the protection of civil liberties’. I call on the Polish government to cease work on this draft law and to implement human rights compliant border management policies.”

      https://pace.coe.int/en/news/9550/greater-use-of-firearms-at-the-border-with-belarus-pace-rapporteur-express

    • Pour repousser les migrants, la Pologne adopte une loi permettant aux garde-frontières de tirer plus facilement

      Le Parlement polonais a légiféré pour modifier les règles d’engagement des militaires polonais à la frontière avec la Russie et la Biélorussie après une série d’incidents impliquant des migrants.

      Cette loi a largement fait consensus chez les Parlementaires polonais. 401 députés ont voté en sa faveur, 17 y étaient opposés. Le Parlement a adopté un texte allégeant les règles d’engagement des militaires, garde-frontières et gendarmes aux frontières entre la Pologne, la Biélorussie et la Russie, qui sont soumises à une intense pression migratoire.

      Adopté en deuxième lecture le 11 juillet dernier, le texte exonère de toute responsabilité les militaires qui utilisent leurs armes à la frontière, en situation de légitime défense, mais aussi de manière préventive, lorsque la vie, la santé et la liberté des membres des forces de l’ordre sont menacées dans le cadre d’une « atteinte directe et illégale contre l’inviolabilité de la frontière de l’État ».

      Comme le rapporte le quotidien polonais Gazeta Wyborcza, le projet de loi a été très critiqué par certaines associations qui y voient un « droit de tuer ». Le journal polonais explique que le gouvernement avait d’abord prévu d’exonérer de toute responsabilité pénale des soldats pour tout acte constituant un crime commis lors d’une opération à la frontière. Le gouvernement a ensuite amendé lui-même son texte pour préciser les circonstances dans lesquels la responsabilité des militaires pouvait être allégée.

      Le Parlement polonais a légiféré après une série d’incidents impliquant des militaires polonais et des migrants. En mars, trois soldats polonais ont ainsi été poursuivis par la justice de leur pays pour avoir tiré à balles réelles sur des migrants qui traversaient la frontière biélorusse. Cette décision judiciaire avait suscité une forte réprobation dans l’opinion publique. Elle avait été dénoncée par de nombreuses personnalités politiques.

      En mai dernier, un soldat polonais est mort après avoir été poignardé alors qu’il tentait, derrière une clôture, d’empêcher des migrants de pénétrer sur le territoire polonais. L’événement avait provoqué une forte émotion en Pologne et même conduit le premier ministre Donald Tusk à déclarer que les forces de sécurité aux frontières pourraient désormais utiliser leurs armes face aux migrants. Le PiS, parti conservateur d’opposition à la coalition libérale au pouvoir avait accusé le gouvernement de « persécuter les soldats polonais » et de « déshonorer l’uniforme polonais », comme le rapporte aussi la Gazeta Wyborcza.
      17.000 tentatives de passage

      Moscou et Minsk, accusé de déstabiliser volontairement les frontières de l’UE, maintiennent une pression migratoire constante sur la Pologne depuis l’automne 2021 où une grave crise diplomatique avait éclaté entre l’UE et la Biélorussie. La France avait accusé le chef d’État biélorusse d’être derrière un « trafic » d’êtres humains « savamment organisé » avec des pays tiers, vers l’Union européenne, via la Turquie et Dubaï. L’Union européenne accuse les dirigeants de la Biélorussie d’orchestrer l’afflux de migrants.

      Selon les garde-frontières polonais, plus de 17.000 tentatives de passage illégal depuis la Biélorussie ont été détectées depuis le début de l’année. La Pologne prévoit de renforcer sa présence militaire à la fois avec l’enclave russe de Kaliningrad mais aussi avec la Biélorussie.

      Il s’agit de soutenir les garde-frontières mais aussi de renforcer la frontière orientale de l’Otan dans le contexte de la guerre d’Ukraine. « Actuellement, il y a près de 6000 militaires » mais « à terme, il y en aura jusqu’à 17.000, dont huit sur place et 9000 en réserve », prêts à y être déployés en 48 heures, formant « une force de réaction frontalière rapide », a précisé le chef de l’état-major de l’armée polonaise, le général Wieslaw Kukula. Dans le cadre de ce projet, Varsovie va investir plus de deux milliards d’euros dans la sécurité et la fortification de sa frontière avec la Russie et la Biélorussie, avait récemment déclaré le premier ministre Donald Tusk.

      https://www.lefigaro.fr/international/pour-repousser-les-migrants-la-pologne-adopte-une-loi-permettant-aux-garde-

    • Polish MPs allow security forces to use arms with impunity

      Polish lawmakers on Friday (26 July) voted to allow the security forces to use lethal weapons with impunity in response to active threats, including at the tense border with Belarus.

      The pan-European rights body Council of Europe and other activists had expressed concern that the police, border guards and soldiers would now be able to act — or even kill — without accountability.

      The bill, which still requires the president’s signature, was introduced after a Polish soldier was fatally stabbed on the Belarusian border.

      NATO and EU member Poland has accused Minsk’s ally Moscow of what it calls attempts to smuggle thousands of people from Africa to Europe by flying them to Russia and then sending them to the Polish border with Belarus.

      The new legislation “excludes criminal liability for the use of arms or direct force in violation of the rules” by the security forces if there was a threat to the safety of an individual or the country.

      The Council of Europe’s Commissioner for Human Rights, Michael O’Flaherty, voiced concern that the bill could “foster a lack of accountability and suggest a lack of commitment to human rights obligations”.

      It “may create a legal and policy framework that provides a disincentive for state agents deployed in the border areas, or in other situations within its scope, to act in respect of the rules on the proportionality in the use of force and firearms”, he added earlier this month.

      Polish lawyer and activist Hanna Machinska on Friday said that “the issue of national security cannot be a carte blanche for acts that violate human rights”.

      “Nothing justifies introducing rules that are a licence to kill, as some people have said,” she told TOK FM radio.

      Earlier this month Poland said it would boost its military presence and defence fortifications along its Belarusian border because of “constant provocations”.

      In June, a soldier on patrol at the border was stabbed through a five-metre-high metal fence that Poland had erected in 2022 to deter migrants.

      The Polish army also reported other attacks on troops at the border.

      https://www.euractiv.com/section/global-europe/news/polish-mps-allow-security-forces-to-use-arms-with-impunity

  • Scandale des eaux en bouteille : la fraude de #Nestlé s’élève à plus de 3 milliards en 15 ans

    Dans le cadre de l’#enquête_judiciaire visant Nestlé sur les traitements interdits des #eaux_minérales naturelles, de nouvelles investigations révèlent que la multinationale trompe les consommateurs depuis plus de quinze ans.

    L’ampleur de la #fraude est inédite. Par sa durée : plus de quinze ans, et par son montant : plus de 3 milliards d’euros au minimum. C’est ce que révèle un nouveau rapport d’enquête, que Mediapart a pu consulter, sur le traitement frauduleux des eaux minérales par Nestlé.

    Depuis 2005, la #multinationale a vendu plus de 18 milliards de bouteilles d’eau sous les marques #Contrex, #Hépar ou #Vittel, dont la #qualité équivalait à celle de l’#eau_du_robinet. Mais à un #prix près de cent fois supérieur.

    « Au vu de la durée des pratiques et du nombre de directeurs qui ont pu se succéder sur cette période », le caractère systémique de cette fraude conduit les enquêteurs à retenir principalement la #responsabilité du groupe Nestlé davantage que des responsabilités individuelles. Contacté, le groupe Nestlé nous a renvoyés vers son site, où sont publiées des réponses types.

    Tout a commencé en novembre 2020, lorsqu’un salarié du groupe #Alma (qui commercialise les eaux de la marque #Cristaline) signale auprès de la direction générale de la concurrence, de la consommation et de la répression des fraudes (DGCCRF) des #traitements non conformes des eaux commercialisées comme « #eaux_minérales_naturelles ». Cette alerte déclenche un premier rapport du Service national d’enquête (SNE) de la DGCCRF, et un deuxième de l’Inspection générale des affaires sociales (Igas), comme l’avaient révélé Mediacités puis Le Monde et Radio France,

    Ces enquêtes concluent que près de 30 % des marques françaises, dont celles du groupe Nestlé, ont recours à des techniques de #purification des eaux classées comme « minérales naturelles » interdites, traitements utilisés notamment contre des #contaminations bactériennes ou chimiques.

    Les procédés auxquels ont recours les entreprises, tels que l’utilisation d’#UV, de #filtres_à_charbon_actif ou de #microfiltres (en deçà de 0,8 µm) sont seulement autorisés pour l’eau du robinet ou les « eaux rendues potables par traitements ». Ils sont strictement interdits pour les « eaux minérales naturelles » et les « #eaux_de_source », qui ne doivent pas subir d’opérations modifiant leur composition.

    Saisi en octobre 2022 par l’agence régionale de santé (ARS) Grand Est, chargée du contrôle de plusieurs sites du groupe Nestlé, le parquet d’Épinal (Vosges) a ouvert une enquête préliminaire, visant le groupe pour « #tromperie par personne morale sur la nature, la qualité, l’origine ou la quantité d’une marchandise ».

    C’est dans ce contexte que le service enquête de la DGCCRF a de nouveau été missionné et ce sont ses conclusions, rendues en avril, que Mediapart a pu consulter. Les investigations ont porté sur les eaux du groupe, embouteillées dans les #Vosges : Contrex, Hépar et Vittel. Leur enquête révèle que pour ces trois eaux minérales, Nestlé a recours à des traitements interdits depuis au moins 2005, voire 1993 pour certaines, et cela de façon permanente, en raison, notamment, de #contaminations_bactériennes fréquentes. À partir de ces éléments d’investigation, le procureur va décider de l’orientation des poursuites.

    Des contaminations fréquentes

    Selon les résultats de contrôles réalisés par Nestlé, de janvier 2020 à mars 2022, plusieurs sources d’eau sont contaminées « de #pathogènes et de #bactéries hétérotropes au-dessus de la limite légale », parfois même jusqu’à 85 % supérieurs. Et ce problème n’est pas récent. Pour y remédier, Nestlé a recours à des traitements par UV, supprimant les micro-organismes, des « process qui ne sont pas conformes avec la réglementation française », signale une note interne à l’entreprise.

    Lors de leur audition, plusieurs responsables reconnaissent ces pratiques interdites. L’ancien directeur de l’usine Nestlé dans les Vosges (en poste de 2019 à 2023) explique que ces appareils étaient utilisés « sur des captages qui avaient des dérives microbiologiques ».

    Dans un courrier adressé à l’ARS, l’entreprise précise que « ces traitements ont été mis en place depuis plusieurs décennies » et cela sur plusieurs captages d’eau des groupes Contrex et Hépar. Pour justifier de telles pratiques, la multinationale attribue la présence de ces dérives bactériennes « au #changement_climatique », provoquant la diminution des nappes d’eau et favorisant les contaminations des sols versants.

    Autre facteur potentiel de contamination, la surexploitation des ressources en eau par Nestlé n’est, en revanche, par abordée. Pas un mot non plus sur le signalement de ces bactéries que le groupe aurait dû faire auprès des autorités, et notamment de l’agence sanitaire de santé (ARS). Rien, non plus, sur la fermeture du site qui aurait dû être envisagée, ou encore sur le changement de #classification de l’eau commercialisée, de « minérale naturelle » à « rendue potable par traitements ».

    C’est en toute connaissance de cause que Nestlé a choisi d’avoir recours de façon intensive aux traitements par UV, ainsi que le constatent les enquêteurs. En épluchant les factures des différentes entreprises spécialisées dans ces installations, on découvre que de septembre 2005 à novembre 2022 (dates du début de l’enquête judiciaire et de l’arrêt de ces traitements), Nestlé a acheté plusieurs appareils à UV, dont quatre utilisés pour les eaux minérales naturelles. Les enquêteurs notent également que le « changement systématique des lampes UV une fois par an », par Nestlé, révèle une utilisation continuelle de cette technique.

    Mais manifestement, cela ne suffit pas à endiguer les contaminations et concernant plusieurs sources, Nestlé installe également des microfiltres (de membrane inférieure à 8 micromètres – µm), permettant de désinfecter l’eau en filtrant les bactéries. Cependant, non seulement ces installations peuvent elles-mêmes être factrices d’infections mais elles ne permettent pas de retenir certains virus ou bactéries.

    Sans se prononcer sur les #pollutions_bactériennes fréquentes des sources ni sur les risques de telles pratiques, les enquêteurs relèvent « une utilisation de filtres non autorisés par les arrêtés préfectoraux à différents niveaux de filtration allant de 0,2 µm à 10 µm depuis au moins 2010 », et cela pour les trois eaux minérales exploitées dans les Vosges.

    Nestlé date certains traitements de 1993

    Certains traitements ne répondent nullement à des « besoins de sécurité sanitaire ». L’utilisation de filtres à charbon actif, là encore interdite, permet de retenir « d’éventuelles traces de résidus de pesticides » dans les eaux. Mais, lors de son audition par les enquêteurs, l’ancien directeur des usines du groupe dans les Vosges explique que cette technique visait surtout à « la protection de la réputation de la marque [Vittel, en l’occurrence – ndlr]. Il était possible de détecter des traces d’herbicides en très faible quantité ».

    Cette stratégie est confirmée par le groupe dans un courrier envoyé à l’ARS en 2022 : « Ce type de #filtration a été mis en place afin d’éviter toutes traces de #pesticides et de #métabolites qui pourraient être mal perçus par les consommateurs et ainsi protéger l’#image de #marque et plus généralement de l’industrie des minéraliers, face à un risque réputationnel important. »

    Les enquêteurs n’ont étonnamment pas retenu cette année-là, mais datent de 2010 la mise en place de ce traitement interdit, qui correspond à l’année de prise de poste du responsable ressource en eaux (REE) auditionné.

    Ils ne retiennent pas non plus la responsabilité de l’ARS, qui est pourtant mise en cause par les déclarations de l’ancien directeur de l’usine. Interrogé sur l’utilisation de #CO2, traitement interdit mais mis en place par Nestlé, il affirme aux enquêteurs : « J’étais au courant pour l’ajout de CO2 pour Vittel. Nous l’avons montré à l’ARS lors des visites mais ils n’ont jamais considéré cela comme un point important. »

    Le garant de la sécurité sanitaire, l’ARS, n’en a pas tenu rigueur à l’exploitant, ce qui soulève de facto la responsabilité de l’État dans les pratiques trompeuses de Nestlé. Interrogée sur ce point par Mediapart, l’ARS n’a pas souhaité répondre.

    La longévité de la fraude interroge également sur l’efficacité des contrôles effectués par l’ARS. Certes, Nestlé a sciemment dissimulé les installations permettant les traitements des eaux illégaux : dans des armoires, dans des bâtiments isolés, voire dans « une pièce souterraine », ainsi que le constatent les enquêteurs. Par ailleurs, les points de prélèvement pour les contrôles de la qualité de l’eau brute étaient sciemment positionnés après les différentes techniques frauduleuses. Pourtant, l’ARS connaissait au moins l’un des traitements interdits et a fait le choix, malgré tout, de fermer les yeux.

    Caractère systémique de la fraude

    Les enquêteurs n’iront pas plus loin sur la responsabilité de l’État dans cette fraude. Concernant la multinationale, c’est le caractère systémique de la fraude qui est soulevé. En effet, dans leurs conclusions, les inspecteurs déplorent que l’expertise des responsables du groupe Nestlé « [soit] cependant utilisée de manière dévoyée, au regard de leur volonté de tromper les consommateurs et l’administration ».

    « L’installation des traitements semble ancienne et pourrait être antérieure au rachat, en 1992, par le groupe Netslé des deux usines » de Vittel et #Contrexéville. Mais ces pratiques ont perduré « non par négligence mais bien [du fait] d’un réel #choix de l’entreprise de maintenir ces traitements en place ».

    Par ailleurs, « au vu de la durée des pratiques et du nombre de directeurs qui ont pu se succéder sur cette période, ayant agi pour le compte et au bénéfice de la société […], la #responsabilité_morale de Nestlé doit être retenue à titre principal ».

    De fait, les enquêteurs établissent qu’il s’agit d’une fraude organisée, qui a duré plusieurs décennies, relevant davantage d’une stratégie du groupe que d’une initiative individuelle.

    La commercialisation d’au moins 18 milliards de bouteilles, selon les estimations des enquêteurs, « à destination finale des consommateurs, sous la dénomination “eau minérale naturelle” alors que ces eaux ne pouvaient prétendre à cette qualité, constitue l’élément matériel du #délit_de_tromperie sur les qualités substantielles et la composition des marchandises ».

    La tromperie est renforcée par la #publicité_mensongère présentant ces eaux comme « pures » et exemptes de tout traitement.

    Ce délit est passible d’une peine de trois ans d’emprisonnement et d’une amende pouvant être portée à 10 % du chiffre d’affaires moyen annuel, soit 20 millions d’euros dans le cas de Nestlé, une somme qui peut paraître dérisoire comparée aux 3 milliards d’euros acquis par l’entreprise grâce à cette fraude (d’après les calculs faits dans le cadre des investigations).

    En effet, selon les enquêteurs, « la différence de chiffre d’affaires réalisée en vendant ces produits en eau minérale naturelle au lieu d’eau rendue potable par traitement est estimée à 3 132 463 297 euros pour les différentes marques et périodes infractionnelles correspondantes ».

    Mais le préjudice pour l’environnement induit par la #surexploitation des ressources en eau par Nestlé n’est quant à lui pas chiffré. Les risques sanitaires ne font pas non plus à ce stade l’objet d’investigations. Ainsi que le concluent les inspecteurs, « le maintien des traitements a permis la continuité de l’exploitation de l’ensemble des sources. Le retrait des traitements UV a entraîné un arrêt de l’exploitation de certains captages qui étaient contaminés microbiologiquement ».

    https://www.mediapart.fr/journal/france/180724/scandale-des-eaux-en-bouteille-la-fraude-de-nestle-s-eleve-plus-de-3-milli
    #réputation

  • Le responsabilità della Garde Nationale della #Tunisia nel naufragio del 5 aprile 2024
    https://irpimedia.irpi.eu/tunisia-garde-nationale-responsabilita-naufragi

    Testimonianze, immagini satellitari e video dai social raccontano come sono morti almeno 15 #Migranti. Gli stessi guardacoste tunisini sono da poco responsabili di una zona di salvataggio in mare L’articolo Le responsabilità della Garde Nationale della Tunisia nel naufragio del 5 aprile 2024 proviene da IrpiMedia.

    #Mediterraneo #Europa #Libia
    https://irpimedia.irpi.eu/wp-content/uploads/2024/07/video-tunisia-guardia-costiera-attacco-diretto-2.mp4


    https://irpimedia.irpi.eu/wp-content/uploads/2024/07/signal-2022-11-09-180038_002_2.mp4

    https://irpimedia.irpi.eu/wp-content/uploads/2024/07/video-tunisia-guardia-costiera-interception-24-03.mp4

  • Gaza sera inhabitable pour les générations à venir - L’Orient-Le Jour
    https://www.lorientlejour.com/article/1419430/gaza-sera-inhabitable-pour-les-generations-a-venir.html

    Le droit international exige qu’Israël assume le coût de la reconstruction de Gaza, vu sa responsabilité reconnue en tant que puissance occupante. Un rapport d’évaluation provisoire des dommages établi par la Banque mondiale indique que le coût total des dégâts à la fin du mois de janvier 2024 s’élevait à environ 18,5 milliards de dollars. Le coût des dommages déjà subis dans le secteur environnemental est de 411 millions de dollars. Selon la Conférence des Nations unies sur le commerce et le développement (Cnuced), « il faudra des dizaines de milliards de dollars et plusieurs décennies pour réparer les destructions sans précédent à Gaza ». Un rapport du PNUD indique que « le niveau de destruction à Gaza est tel que la reconstruction des infrastructures publiques nécessiterait une aide extérieure d’une ampleur inégalée depuis 1948 ».

    #Gaza #reconstruction #Israël #responsabilité

  • Désobéir lorsqu’on est fonctionnaire : que dit le droit ?

    Depuis 10 jours, la question de l’#obéissance ou de la désobéissance est particulièrement présente chez les fonctionnaires. Et à cette question intime, déontologique, politique, le statut de la fonction publique apporte de premiers éléments de réponse structurants et salutaires.

    Obéissance ou désobéissance : que dit le droit ? Depuis 10 jours, la question de l’obéissance est particulièrement présente chez les fonctionnaires. Une question déontologique, intime, politique, mais sur laquelle il faut commencer par rappeler les bases : le droit.

    Un statut pour des fonctionnaires-citoyen.ne.s

    Le premier statut de la fonction publique entre en vigueur le 20 octobre 1946, soit à peine plus d’un an après la fin de la seconde guerre mondiale. Il est marqué par une urgence : reconnaître le fait que les fonctionnaires ne sont plus, ne doivent plus être considérés comme des sujets, mais comme des citoyennes et des citoyens à part entière.

    Ce texte consacre le choix des fonctionnaires par #concours (et non par cooptation) ou le #droit_syndical (grande nouveauté). Mais il proclame également des #principes_déontologiques forts, et notamment celui de #responsabilité. L’article 11 de ce statut est ainsi rédigé : “Tout fonctionnaire, quel que soit son rang dans la hiérarchie, est responsable de l’exécution des tâches qui lui sont confiées”. “Responsable”, le mot est écrit. Près de 80 ans après, cette rédaction est toujours en vigueur, et même renforcée d’une seconde phrase : “Il n’est dégagé d’aucune des responsabilités qui lui incombent par la responsabilité propre de ses subordonnés.”

    Devoir de désobéissance

    Le vote du statut de 1983 a complété et élargi ces dispositions. D’abord il les a rendues applicables aux fonctionnaires comme aux contractuels, sur les trois versants de la fonction publique : d’État, hospitalière et territoriale. Il a ensuite ajouté, au même article, une phrase déterminante (elle aussi encore en vigueur) : “Il doit se conformer aux instructions de son #supérieur_hiérarchique, sauf dans le cas où l’ordre donné est manifestement illégal et de nature à compromettre gravement un #intérêt_public.” Une seule phrase, qui ne saurait être découpée. Aucune mention du terme “obéissance” mais une “conformité aux instructions”. Et surtout, immédiatement après ce principe, une mention d’un #devoir fondamental : le devoir de désobéissance.

    Ce devoir avait été dégagé par le Conseil d’État dès 1944, dans les mêmes termes. Un fonctionnaire qui avait, sur instruction de son maire, versé des allocations chômage de manière illégale, s’était vu sanctionner disciplinairement, et la sanction confirmée par le Conseil d’État. La désobéissance, dans ce cas, n’était pas une possibilité : c’était un devoir. Le #code_pénal (article 122-4) a depuis complété ses dispositions : obéir à un #ordre_manifestement_illégal, c’est mettre en jeu sa propre #responsabilité_pénale

    Prendre conscience de nos responsabilités

    Les principes dégagés par la loi sont limpides : les fonctionnaires ont une responsabilité propre.

    Ils sont cohérents avec le principe proclamé à l’article 15 de la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen de 1789 : “La société a le droit de demander compte à tout agent public de son administration.” Chaque agent public doit individuellement des comptes à la société dans son ensemble.

    C’est cela le sens du statut. Une protection particulière pour pouvoir exercer ces responsabilités énormes. Nous sommes déjà dans une période où ces responsabilités sont mises à rude épreuve, et où il nous faut être plus vigilant.e.s que jamais

    A toutes et à tous mes collègues fonctionnaires et agents publics : alors que l’extrême-droite a la possibilité d’arriver demain au pouvoir, et avec elle un projet xénophobe, d’exclusion, de remise en cause des libertés et des droits fondamentaux, il nous faut en prendre conscience de nos responsabilités, en parler à nos collègues dès aujourd’hui et nous organiser collectivement. Demain il sera trop tard.

    https://blogs.mediapart.fr/arnaud-bontemps/blog/200624/desobeir-lorsquon-est-fonctionnaire-que-dit-le-droit

    #désobéissance #fonctionnaires #fonction_publique

    • #Devoir_de_réserve : les agents ont le droit de prendre la parole

      Dans cette période préoccupante, entendre le point de vue de celles et ceux qui font vivre au quotidien nos services publics est important. Mais nombre d’#agents_publics se demandent s’ils ont le droit de s’exprimer sur les événements en cours. On entend souvent que les fonctionnaires seraient tenus au silence s’agissant des événements politiques, surtout en période électorale, en raison du devoir de réserve qui s’impose à eux. Qu’en est-il vraiment ?

      On s’est penchés sur le sujet, et on a publié un guide du devoir de réserve et de la #liberté_d'expression des agents publics. En substance : on exagère souvent l’importance du devoir de réserve, dont la portée est encadrée. Dans le cadre de ses fonctions, l’agent est tenu à un devoir de #neutralité. Il ne peut tenir des propos qui pourraient mettre en doute la neutralité du service public. Il est aussi tenu à un devoir de #discrétion : ne pas divulguer d’#informations_confidentielles.

      Quid des propos tenus par l’agent en dehors de l’exercice de ses fonctions. Cette situation est différente : la seule règle légale est la #liberté_d'opinion, garantie aux agents publics. Le devoir de réserve n’apparaît pas dans le code général de la fonction publique. C’est une invention jurisprudentielle, par les juges. Une sorte d’"exception" au principe de liberté d’opinion, ayant moindre valeur que celui-ci.

      Le devoir de réserve signifie que l’agent peut exprimer publiquement ses #opinions, mais avec #retenue et #modération. Le devoir de réserve est plus restrictif dans les domaines régaliens (magistrats, forces de l’ordre) et plus souple dans d’autres (enseignants, universitaires). Il varie également selon le niveau hiérarchique et le niveau de publicité des propos. Les propos tenus dans un cadre privé, la parole des agents est parfaitement libre. Le devoir de réserve ne vaut que pour les prises de parole publiques.

      A condition de rester modéré dans ses propos, la liberté d’opinion est donc la règle. Période électorale ou non, les agents peuvent participer à des meetings, être candidats, manifester, signer des tribunes, poster sur les réseaux sociaux...

      La jurisprudence le confirme : même en période électorale, critiquer un candidat est possible tant que les propos respectent “les limites de la polémique électorale” et que l’on ne s’exprime pas en sa qualité d’agent public. En dehors de l’exercice de nos fonctions, nous sommes donc avant tout des citoyens. Alors qu’une prise de pouvoir par l’extrême droite aurait des conséquences concrètes pour les agents publics, leur parole est d’#utilité_publique.

      Enfin, la première des protections reste et restera le collectif. Alors prenons la parole, partout et collectivement.

      https://blogs.mediapart.fr/collectif-nos-services-publics/blog/210624/devoir-de-reserve-les-agents-ont-le-droit-de-prendre-la-parole

  • Lumière sur les #financements français et européens en #Tunisie

    Alors que la Tunisie s’enfonce dans une violente #répression des personnes exilées et de toute forme d’opposition, le CCFD-Terre Solidaire publie un #rapport qui met en lumière l’augmentation des financements octroyés par l’Union européenne et les États européens à ce pays pour la #sécurisation de ses #frontières. Cette situation interroge la #responsabilité de l’#UE et de ses pays membres, dont la France, dans le recul des droits humains.

    La Tunisie s’enfonce dans l’#autoritarisme

    Au cours des deux dernières années, la Tunisie sous la présidence de #Kaïs_Saïed s’engouffre dans l’autoritarisme. En février 2023, le président tunisien déclare qu’il existe un “un plan criminel pour changer la composition démographique de la Tunisie“, en accusant des “hordes de migrants clandestins“ d’être responsables “de violences, de crimes et d’actes inacceptables“.

    Depuis cette rhétorique anti-migrants, les #violences à l’encontre des personnes exilées, principalement d’origine subsaharienne, se sont exacerbées et généralisées dans le pays. De nombreuses associations alertent sur une montée croissante des #détentions_arbitraires et des #déportations_collectives vers les zones frontalières désertiques de l’#Algérie et de la #Libye.

    https://ccfd-terresolidaire.org/lumiere-sur-les-financements-francais-et-europeens-en-tunisie
    #EU #Union_européenne #externalisation_des_frontières #migrations #réfugiés #désert #abandon

    ping @_kg_

  • Global producer responsibility for plastic pollution

    Brand names can be used to hold plastic companies accountable for their items found polluting the environment. We used data from a 5-year (2018–2022) worldwide (84 countries) program to identify brands found on plastic items in the environment through 1576 audit events. We found that 50% of items were unbranded, calling for mandated producer reporting. The top five brands globally were The #Coca-Cola Company (11%), #PepsiCo (5%), #Nestlé (3%), #Danone (3%), and #Altria (2%), accounting for 24% of the total branded count, and 56 companies accounted for more than 50%. There was a clear and strong log-log linear relationship production (%) = pollution (%) between companies’ annual production of plastic and their branded plastic pollution, with food and beverage companies being disproportionately large polluters. Phasing out single-use and short-lived plastic products by the largest polluters would greatly reduce global plastic pollution.

    https://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.adj8275

    #responsabilité #plastique #multinationales

    via @freakonometrics

  • Plastic experts say recycling is a scam. Should we even do it anymore?

    Evidence shows fossil fuel companies pushed recycling instead of addressing our growing plastic problem

    When the #Center_for_Climate_Integrity released its report (https://climateintegrity.org/plastics-fraud) about plastic recycling, one might have expected the environmentalist non-profit to encourage the practice. Anyone raised in the late-20th and early-21st century knows that the term “recycle” is often synonymous with “environmentalist causes.”

    Yet the title of Center for Climate Integrity’s report — “The Fraud of Plastic Recycling” — reveals a very different point-of-view. What if plastic recycling in fact does little to help the environment, and instead serves the interests of the same Big Oil interest groups destroying Earth’s ecosystems?

    “Through new and existing research, ’The Fraud of Plastic Recycling’ shows how Big Oil and the plastics industry have deceptively promoted recycling as a solution to plastic waste management for more than 50 years, despite their long-standing knowledge that plastic recycling is not technically or economically viable at scale,” the authors of the report proclaim. “Now it’s time for accountability.”

    The Center for Climate Integrity is not alone in characterizing plastic recycling as a false crusade. Erica Cirino, communications manager at the Plastic Pollution Coalition and author of “Thicker Than Water: The Quest for Solutions to the Plastic Crisis,” pointed to data that clearly shows we do very little recycling anyway, despite the overwhelming emphasis on it.

    “In 2017, scientists estimated that just 9% of the 6.3 billion metric tons of plastics produced from about the 1950s (when plastics were first mass produced) up to 2015 had been recycled,” Cirino told Salon. “Plastic recycling rates vary widely from region to region around the world. In the U.S., plastic recycling rates are currently below 6 percent.”

    Yet even those numbers are deceptive, Cirino warned, as they incorrectly imply that at least the plastic which does get “recycled” is handled in ways that help the environment. “Unfortunately, it doesn’t matter where or how you set out your plastic for recycling collection, whether at the end of your driveway, at your local recycling center, or in a municipal recycling bin: Most plastic items collected as recycling are not actually recycled,” Cirino explained. “Surprisingly, plastic is not designed to be recycled — despite industries and governments telling the public that we should recycle plastic.”

    Instead the plastics that people think get “recycled” are often instead shipped from the Global North to the Global South, with waste haulers often dumping and openly burning plastic without regard to environmental laws, Cirino explained. People who live near the sites where these things happen face a lifetime of health risks, to say nothing of living in a degraded environment.

    “People who earn incomes by picking wastes make the least from cheap plastics, and because of constant exposure to plastics in their line of work face elevated risks of cancers, infectious diseases (which cling to plastics), respiratory problems and other serious health issues.” Even the plastics that do get reused somehow are less “recycled” than “downcycled,” as “manufacturers mix in a large portion of freshly made plastic or toxic additives to melted down plastic waste to restore some of its desirable properties.”

    If you want to understand why the general public mistakenly believes that plastic pollution significantly helps the environment, one must look at the same fossil fuel companies that caused the problem.

    “Many people in the Baby Boomer Generation and Generation X remember the ’crying Indian ad’ that was published in the 1970s,” Melissa Valliant, communications director for the nonprofit Beyond Plastics, told Salon by email. “It was an iconic ad of the time, created by Keep America Beautiful — a corporate front created in 1953 by powerful generators of plastic waste, like PepsiCo and Coca-Cola. This was really the start of a decades-long streak of multi-million dollar ad campaigns leveraged by the plastics industry to convince consumers that if they just were a little better at putting the right plastic in the right bin, the plastic pollution problem would disappear.”

    Simply put, the same companies that created the plastic pollution crisis are motivated to keep the public from believing that their product needs to be phased out. By claiming to care about the environment while presenting a false solution to the problem of plastic pollution — one that, conveniently, removes the onus of responsibility from the companies themselves — plastic manufacturers have been able to have their cake and eat it too.

    “The continued promotion of recycling, which is a proven failure, distracts from the real solutions,” John Hocevar, Greenpeace USA Oceans Campaign Director, told Salon by email. “Most people agree that we can no longer afford to produce trillions of items packaged in a material that will last for generations and that we will only use for a few minutes or seconds before being discarded. Plastic bottles and bags don’t typically get turned into bottles and bags, but the myth that they will is one of the biggest barriers to real solutions.”

    Indeed, a compelling question arises from the fact that the crusade to recycle plastic is more corporate propaganda than true Earth-saving measure: Should we recycle plastic at all?

    “No,” Cirino told Salon. “Even if plastic recycling rates were higher, recycling alone could never come close to solving the serious and wide-ranging health, justice, socio-economic, and environmental crises caused by industries’ continued plastic production and plastic pollution, which go hand in hand.” Cirino argued that, given how plastic production has grown exponentially and its pollution problems have likewise worsened, emphasizing recycling over meaningful solutions is at best irresponsible.

    “It’s clear recycling is not enough to solve the plastic pollution crisis,” Cirino concluded. “The fossil fuel industry, governments, and corporations really need to turn off the plastic tap, and the UN Plastics Treaty could be an opportunity to do so on a global level—if member states can come together and form a treaty with real ambition. Ultimately, our world must decide what it values: money or life.”

    Erin Simon, the vice president and head of plastic waste and business at the World Wildlife Fund (WWF), offered a different perspective.

    “Everyone has a role to play – and that includes the average consumer as well,” Simon wrote to Salon. “But individuals are often limited in what they can contribute because recycling infrastructure and availability is different in every community. For those who can recycle, they should understand what can and can’t go in their recycling bin by contacting their local waste manager. For those who currently can’t recycle at home or work, they should advocate for better access to recycling services by contacting local community leaders and local government officials. In addition to recycling, shifting to reusable products is another way for individuals to reduce personal waste.”

    Simon also advocates for multinational approaches, writing to Salon that the upcoming fourth (of five) negotiating session for a United Nations Global Treaty to End Plastic Pollution has promise.

    “A Global Treaty is a once-in-a-generation opportunity for governments, businesses, and communities to secure a future free from plastic pollution,” Simon explained. “As we approach the next round of negotiations in April 2024 in Canada, WWF will be advocating to ensure the final draft of the treaty is globally binding for all Member states, and provides a clear path to ban, phase out or reduce problematic single-use plastics. WWF is also calling for the treaty to include defined requirements for product design and innovation in plastic waste management systems, while also providing policies and incentives that allow businesses to transition to more sustainable and innovative options.”

    Hocevar also praised the Global Plastics Treaty as a possible solution to the pollution crisis.

    “The Global Plastics Treaty being negotiated right now is a huge opportunity to finally solve the plastics crisis,” Hocevar told Salon. “We need President Biden to ensure that the U.S. deals with the root cause and works to reduce plastic production and use. Without dramatically reducing plastic production, it will be impossible to end plastic pollution.”

    Chelsea Linsley, a staff attorney at the Center for Climate Integrity and one of the report co-authors, perhaps summed it up best.

    “The best and most effective solution to the plastic waste crisis is to reduce the amount of plastic produced in the first place, especially for unnecessary single-use plastics,” Linsley wrote to Salon. “The Break Free from Plastic Pollution Act is an example of legislation that could implement real solutions, such as reducing and banning non-recyclable or easily replaced single-use plastics and establishing programs to support reuse and refill efforts. However, for such measures to be successful, the plastics industry must not be allowed to perpetuate the myth that recycling is an equally effective solution.”

    https://www.salon.com/2024/02/23/plastic-experts-say-recycling-is-a-scam-should-we-even-do-it-anymore

    #recyclage #plastique #greenwashing #green-washing #rapport #arnaque #escroquerie
    via @freakonometrics

  • De la complicité de la France

    Cet épisode pilote revient sur le soutien apporté par l’État français au gouvernement génocidaire rwandais. Les documents secret défense analysés et rassemblés permettent de comprendre les mécanismes qui ont permis l’une des plus atroces compromissions de la Ve République autour de 4 questions : Pourquoi la France s’est-elle impliquée au Rwanda ? A quand remonte l’implication de la France au Rwanda ? Jusqu’à quand la France a-t-elle poursuivi son soutien au régime génocidaire ? Que penser des conclusions du « rapport Duclert » quant aux "responsabilités lourdes et accablantes de la France dans le génocide des Tutsis ?

    https://www.youtube.com/watch?v=zElcjCs4GE8&list=PLnTYnV3R1tVAO35eRrLP1a1QJxXD_Ts5z

    #génocide #complicité #France #Rwanda #vidéo #colonisation #politique_coloniale #Front_patriotique_rwandais (#FPR) #opération_Noroît #armée #armée_française #François_Mittérand #responsabilité #néo-colonialisme #rapport_Duclert #commission_Duclert #excuses #Macron #Emmanuel_Macron #soutien_actif #forces_spéciales #plainte #justice

  • #Ikea, le seigneur des forêts

    Derrière son image familiale et écolo, le géant du meuble suédois, plus gros consommateur de bois au monde, révèle des pratiques bien peu scrupuleuses. Une investigation édifiante sur cette firme à l’appétit démesuré.

    C’est une des enseignes préférées des consommateurs, qui équipe depuis des générations cuisines, salons et chambres d’enfants du monde entier. Depuis sa création en 1943 par le visionnaire mais controversé Ingvar Kamprad, et au fil des innovations – meubles en kit, vente par correspondance, magasins en self-service… –, la petite entreprise a connu une croissance fulgurante, et a accompagné l’entrée de la Suède dans l’ère de la consommation de masse. Aujourd’hui, ce fleuron commercial, qui participe pleinement au rayonnement du pays à l’international, est devenu un mastodonte en expansion continue. Les chiffres donnent le tournis : 422 magasins dans cinquante pays ; près d’un milliard de clients ; 2 000 nouveaux articles au catalogue par an… et un exemplaire de son produit phare, la bibliothèque Billy, vendu toutes les cinq secondes. Mais le modèle Ikea a un coût. Pour poursuivre son développement exponentiel et vendre toujours plus de meubles à bas prix, le géant suédois dévore chaque année 20 millions de mètres cubes de bois, soit 1 % des réserves mondiales de ce matériau… Et si la firme vante un approvisionnement responsable et une gestion durable des forêts, la réalité derrière le discours se révèle autrement plus trouble.

    Greenwashing
    Pendant plus d’un an, les journalistes d’investigation Xavier Deleu (Épidémies, l’empreinte de l’homme) et Marianne Kerfriden ont remonté la chaîne de production d’Ikea aux quatre coins du globe. Des dernières forêts boréales suédoises aux plantations brésiliennes en passant par la campagne néo-zélandaise et les grands espaces de Pologne ou de Roumanie, le documentaire dévoile les liens entre la multinationale de l’ameublement et l’exploitation intensive et incontrôlée du bois. Il révèle comment la marque au logo jaune et bleu, souvent via des fournisseurs ou sous-traitants peu scrupuleux, contribue à la destruction de la biodiversité à travers la planète et alimente le trafic de bois. Comme en Roumanie, où Ikea possède 50 000 hectares de forêts, et où des activistes se mobilisent au péril de leur vie contre une mafia du bois endémique. Derrière la réussite de l’une des firmes les plus populaires au monde, cette enquête inédite éclaire l’incroyable expansion d’un prédateur discret devenu un champion du greenwashing.

    https://www.arte.tv/fr/videos/112297-000-A/ikea-le-seigneur-des-forets
    #film #film_documentaire #documentaire #enquête
    #greenwashing #green-washing #bois #multinationale #meubles #Pologne #Mazovie #Mardom_House #pins #Ingvar_Kamprad #délocalisation #société_de_consommation #consumérisme #résistance #justice #Fondation_Forêt_et_citoyens #Marta_Jagusztyn #Basses-Carpates #Carpates #coupes_abusives #exploitation #exploitation_forestière #consommation_de_masse #collection #fast-furniture #catalogue #mode #marketing #neuro-marketing #manipulation #sous-traitance #chaîne_d'approvisionnement #Sibérie #Russie #Ukraine #Roumanie #accaparement_de_terres #Agent_Green #trafic_de_bois #privatisation #Gabriel_Paun #pillage #érosion_du_sol #image #prix #impact_environnemental #FSC #certification #norme #identité_suédoise #modèle_suédois #nation_branding #Estonie #Lettonie #Lituanie #lobby #mafia_forestière #coupes_rases #Suède #monoculture #sylviculture #Sami #peuples_autochtones #plantation #extrême_droite #Brésil #Parcel_Reflorestadora #Artemobili #code_de_conduite #justice #responsabilité #abattage #Nouvelle-Zélande #neutralité_carbone #compensation_carbone #maori #crédits-carbone #colonisation

    • #fsc_watch

      This site has been developed by a group of people, FSC supporters and members among them, who are very concerned about the constant and serious erosion of the FSC’s reliability and thus credibility. The group includes Simon Counsell, one of the Founder Members of the FSC; Hermann Edelmann, working for a long term FSC member organisation; and Chris Lang, who has looked critically at several FSC certifications in Thailand, Laos, Brazil, USA, New Zealand, South Africa and Uganda – finding serious problems in each case.

      As with many other activists working on forests worldwide, we share the frustration that whilst the structural problems within the FSC system have been known for many years, the formal mechanisms of governance and control, including the elected Board, the General Assembly, and the Complaints Procedures have been highly ineffective in addressing these problems. The possibility of reforming – and thus ‘saving’ – the FSC through these mechanisms is, we feel, declining, as power within the FSC is increasingly captured by vested commercial interest.

      We feel that unless drastic action is taken, the FSC is doomed to failure. Part of the problem, in our analysis, is that too few FSC members are aware of the many profound problems within the organisation. The FSC Secretariat continues to pour out ‘good news stories’ about its ‘successes’, without acknowledging, for example, the numerous complaints against certificates and certifiers, the cancellation of certificates that should never have been awarded in the first place, the calls for FSC to cease certifying where there is no local agreement to do so, the walk-outs of FSC members from national processes because of their disillusionment with the role of the economic chamber, etc. etc. etc.

      There has been no honest evaluation of what is working and what is not what working in the FSC, and no open forum for discussing these issues. This website is an attempt to redress this imbalance. The site will also help people who are normally excluded from the FSC’s processes to express their views and concerns about the FSC’s activities.

      Please share your thoughts or information. Feel free to comment on our postings or send us any information that you consider valuable for the site.

      UPDATE (25 March 2010): A couple of people have requested that we explain why we are focussing on FSC rather than PEFC. Shortly after starting FSC-Watch we posted an article titled: FSC vs PEFC: Holy cows vs the Emperor’s new clothes. As this is somewhat buried in the archives, it’s reproduced in full here (if you want to discuss this, please click on the link to go to the original post):
      FSC vs PEFC: Holy cows vs the Emperor’s new clothes

      One of the reasons I am involved in this website is that I believe that many people are aware of serious problems with FSC, but don’t discuss them publicly because the alternative to FSC is even worse. The alternative, in this case is PEFC (Programme for the Endorsement of Forest Certification schemes) and all the other certification schemes (Cerflor, Certflor, the Australian Forestry Standard, the Malaysian Timber Certification Council and so on). One person has suggested that we should set up PEFC-Watch, in order “to be even-handed”.

      The trouble with this argument is that PEFC et al have no credibility. No NGOs, people’s organisations or indigenous peoples’ organisations were involved in setting them up. Why bother spending our time monitoring something that amounts to little more than a rubber stamp? I can just see the headlines: “Rubber stamp PEFC scheme rubber stamps another controversial logging operation!” Shock, horror. The Emperor is stark bollock naked, and it’s not just some little boy pointing this out – it’s plain for all to see, isn’t it?

      One way of countering all these other schemes would be to point out that FSC is better. But, if there are serious problems with FSC – which there are, and if we can see them, so can anyone else who cares to look – then the argument starts to look very shaky.

      FSC standards aren’t bad (apart from Principle 10, which really isn’t much use to anyone except the pulp and paper industry). They say lots of things we’d probably want forest management standards to say. The trouble is that the standards are not being applied in practice. Sure, campaign against PEFC, but if FSC becomes a Holy Cow which is immune to criticism (not least because all the criticism takes place behind closed doors), then we can hardly present it as an alternative, can we?…”

      By the way, anyone who thinks that PEFC and FSC are in opposition should read this interview with Heiko Liedeker (FSC’s Executive Director) and Ben Gunneberg (PEFC’s General Secretary). In particular this bit (I thought at first it must be a mix up between FSC and PEFC, or Liedeker and Gunneberg):

      Question: As a follow-up question, Heiko Liedeker, from your perspective, is there room ultimately for programs like the Australian Forestry Standard, Certfor and others to operate under the FSC umbrella?

      Heiko Liedeker: Absolutely. FSC was a scheme that was set-up to provide mutual recognition between national standard-setting initiatives. Every national initiative sets its standard. Some of them are called FSC working groups, some of them are called something else. In the UK they are called UKWAS. We’ve been in dialogue with Edwardo Morales at Certfor Chile. They are some of the FSC requirements listed for endorsement, we certainly entered into discussion. We’ve been in discussion with the Australian Forestry Standard and other standard-setting initiatives. What FSC does not do is, it has one global scheme for recognizing certification. So we do not, and that’s one of the many differences between FSC and PEFC, we do not require the development of a certification program as such. A standard-setting program is sufficient to participate in the network.

      https://fsc-watch.com

    • Complicit in destruction: new investigation reveals IKEA’s role in the decimation of Romania’s forests

      IKEA claims to be people and planet positive, yet it is complicit in the degradation and destruction of Romania’s forests. A new report by Agent Green and Bruno Manser Fonds documents this destruction and presents clear requests to the furniture giant.

      A new investigative report (https://www.bmf.ch/upload/Kampagnen/Ikea/AG_BMF_report_IKEA_web_EN.pdf) by Agent Green and Bruno Manser Fonds shows a consistent pattern of destructive logging in IKEA-linked forests in Romania, with massive consequences for nature and climate. The findings are based on an analysis of official documents and field investigations of nine forest areas in Romania. Seven of them are owned by the IKEA-related company Ingka Investments and two are public forests supplying factories that produce for IKEA. The analysis uncovers over 50 suspected law violations and bad forest management practices. Biodiversity rich forest areas cut to the ground, intensive commercial logging conducted in ecologically sensitive or even old-growth forests without environmental assessments, dozens of meters deep tractor roads cutting through the forest are just a few of the issues documented.

      Most of the visited forests are fully or partially overlapping with EU protected areas. Some of these forests were strictly protected or under low-intensity logging before Ingka took over. Now they are all managed to maximize wood extraction, with no regard to forest habitats and their vital role for species. Only 1.04% of the total Ingka property in Romania are under a strict protection regime and 8.24% under partial protection. This is totally insufficient to meet EU goals. The EU biodiversity strategy requires the protection of a minimum of 30% of EU land area, from which 10% need to be strictly protected. One key goal is to strictly protect all remaining primary and old-growth forests in the EU.

      At the press conference in Bucharest Gabriel Păun, President of Agent Green, stated: “IKEA/Ingka seem to manage their forests like agricultural crops. Letting trees grow old is not in their culture. Removing entire forests in a short period of time is a matter of urgency for IKEA, the tree hunter. The entity disregards both the written laws and the unwritten ways of nature. IKEA does not practice what they preach regardless of whether it is the European Union nature directives, Romanian national legislation, or the FSC forest certification standard. But as a company with revenues of billions of Euros and Romania’s largest private forest owner, IKEA / Ingka should be an example of best practice.”

      Ines Gavrilut, Eastern Europe Campaigner at the Bruno Manser Fonds, added: “It is high time that IKEA started to apply its declared sustainability goals. IKEA could do so much good if it really wanted to set a good example as a forest owner, administrator, and large wood consumer in Romania and beyond. Needs could also be covered without resorting to destructive logging, without converting natural forests into plantations – but this requires tackling difficult issues such as the core of IKEA’s business model of “fast furniture”. Wood products should not be for fast consumption but should be made to last for decades.”

      Agent Green and Bruno Manser Fonds urge IKEA and the Ingka Group to get a grip on their forest operations in Romania to better control logging companies, not to source wood from national or natural parks, to effectively increase protection and apply forestry close to nature in own forests, to ensure full traceability and transparency of the IKEA supply chain, and allow independent forest oversight by civil society and investigative journalists.

      In August 2021, Agent Green published its first report documenting destruction in IKEA-linked forests in Romania. In May 2023, Agent Green and Bruno Manser Fonds sent an open letter of concern to the Ingka Group and IKEA Switzerland. BMF also started a petition demanding IKEA to stop deforestation in Romania’s protected forest areas and other high conservation value forests.

      The ARTE documentary IKEA, the tree hunter brilliantly tells the story of the real cost of IKEA furniture, the uncontrolled exploitation of wood and human labour.

      https://bmf.ch/en/news/neue-untersuchung-belegt-ikeas-beteiligung-an-der-waldzerstorung-in-rumanien-256

      #rapport

  • SAINTE SOLINE, AUTOPSIE D’UN CARNAGE

    Le 25 mars 2023, une #manifestation organisée par des mouvements de défense de l’environnement à #Sainte-Soline (#Deux-Sèvres) contre les #megabassines pompant l’#eau des #nappes_phréatiques pour l’#agriculture_intensive débouche sur de véritables scènes de guerre. Avec près de 240 manifestants blessés, c’est l’une des plus sanglantes répressions de civils organisée en France depuis le 17 octobre 1961 (Voir en fin d’article le documentaire de Clarisse Feletin et Maïlys Khider).

    https://www.off-investigation.fr/sainte-solineautopsie-dun-carnage
    Vidéo :
    https://video.off-investigation.fr/w/9610c6e9-b18f-46b3-930c-ad0d839b0b17

    #scène_de_guerre #vidéo #répression

    #Sainte_Soline #carnage #méga-bassines #documentaire #film_documentaire #violences_policières #violence #Gérald_Darmanin #résistance #militarisation #confédération_paysanne #nasse
    #off_investigation #cortège #maintien_de_l'ordre #gaz_lacrymogènes #impuissance #chaos #blessés #blessures #soins #élus #grenades #LBD #quads #chaîne_d'élus #confusion #médic #SAMU #LDH #Serge_Duteuil-Graziani #secours #enquête #zone_rouge #zone_d'exclusion #urgence_vitale #ambulances #évacuation #plainte #justice #responsabilité #terrain_de_guerre #désinformation #démonstration_de_force #récit #contre-récit #mensonge #vérité #lutte #Etat #traumatisme #bassines_non_merci #condamnations #Soulèvements_de_la_Terre #plainte

    à partir de 1h 02’26 :

    Hélène Assekour, manifestante :

    « Moi ce que je voudrais par rapport à Sainte-Soline c’est qu’il y ait un peu de justice. Je ne crois pas du tout que ça va se faire dans les tribunaux, mais au moins de pouvoir un peu établir la vérité et que notre récit à nous puisse être entendu, qu’il puisse exister. Et qu’il puisse même, au fil des années, devenir le récit qui est celui de la vérité de ce qui s’est passé à Sainte-Soline ».

    • question « un peu de vérité », il y avait aussi des parlementaires en écharpe, sur place, gazé.es et menacé.es par les quads-à-LBD comme le reste du troupeau alors qu’ils protégeaient les blessés étendus au sol ; personne n’a fait de rapport ?

      Il y a eu une commission d’enquête parlementaire aussi, je crois, qui a mollement auditionné Gérald ; pas de rapport ?

    • Dans cet article, on apprend qu’elle a été mandatée par le Secrétariat d’État chargé des Anciens Combattants et de la Mémoire pour participer à la dernière journée durant laquelle a eu lieu la cession officielle des archives sur Thiaroye au Sénégal. Elle a donc entendu le président Hollande évoquer au moins soixante-dix morts.

      #historienne_de_prefecture

  • Rotta balcanica: i sogni spezzati nella Drina
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Rotta-balcanica-i-sogni-spezzati-nella-Drina-229948

    Nelle acque del fiume Drina, in Bosnia Erzegovina, decine di migranti sono morti nel tentativo di avvicinarsi al sogno di una vita migliore in quell’Europa che li respinge. Volontari del Soccorso alpino di Bijeljina e attivisti sono impegnati nel difficile recupero dei corpi

    • Rotta balcanica : i sogni spezzati nella Drina

      Nelle acque del fiume Drina, in Bosnia Erzegovina, decine di migranti sono morti nel tentativo di avvicinarsi al sogno di una vita migliore in quell’Europa che li respinge. Volontari del Soccorso alpino di Bijeljina e attivisti sono impegnati nel difficile recupero dei corpi.

      “Finora non mi è mai capitato di sognare uno dei corpi ritrovati, non ho mai avuto incubi. Proprio mai. Credo sia una questione di approccio. Soltanto chi non ha la coscienza pulita fa incubi”, afferma Nenad Jovanović, 37 anni, membro della squadra del Soccorso alpino di Bijeljina.

      Negli ultimi sei anni, Jovanović ha partecipato alle operazioni di recupero di oltre cinquanta corpi di migranti nell’area che si estende dal villaggio di Branjevo alla foce del fiume Drina [nella Bosnia orientale], tutti di età inferiore ai quarant’anni, annegati nel tentativo di entrare in Bosnia Erzegovina dalla Serbia, per poi proseguire il loro viaggio verso altri paesi europei, in cerca di un posto sicuro per sé e per i propri familiari.

      “Ogni volta che scoppia un nuovo conflitto in Medio Oriente, in Afghanistan, Iraq o altrove, assistiamo ad un aumento degli arrivi di migranti in cerca di salvezza nei paesi dell’Unione europea. Purtroppo, per alcuni di loro la Drina si rivela un ostacolo insormontabile. Il loro è un destino doloroso che può capitare a chiunque”, spiega Nenad Jovanović.

      Durante le operazioni di recupero dei corpi, Jovanović più volte è stato costretto a gettarsi nel fiume in piena, rischiando la propria vita.

      “Recentemente abbiamo recuperato il corpo di un uomo proveniente dall’Afghanistan. Era in acqua da circa un anno. I pescatori che per primi lo avevano notato non erano nemmeno sicuri che si trattasse di un corpo umano. Potete immaginare lo stato in cui si trovava”, afferma Jovanović.

      Un suo collega, Miroslav Vujanović, si sofferma sull’aspetto umano del lavoro del soccorritore. “A prescindere dallo stato di decomposizione, cerchiamo in tutti in modi possibili di recuperare il corpo nelle condizioni in cui lo troviamo. Nulla deve essere perso, nemmeno i vestiti. Perché siamo tutti esseri umani. Nel momento del recupero di un corpo magari non pensi alla sua identità, cerchi di fare il tuo lavoro in modo professionale e basta. Poi però quando torni a casa e vedi tua moglie e i figli, inizi a chiederti chi fosse quell’uomo e se anche lui avesse una famiglia. È del tutto normale riflettere su queste cose. Sono però pensieri intimi, che tendiamo a tenere dentro”.

      I volontari del Soccorso alpino di Bijeljina hanno partecipato anche alle operazioni di ricerca e assistenza alle popolazioni colpite dal terremoto nella regione di Banovina (in Croazia) nel 2020 e alle vittime del terremoto che l’anno scorso ha devastato la Turchia. In tutte queste operazioni sono stati costretti ad utilizzare le attrezzature prese in prestito o noleggiate, perché le autorità locali non rispettano gli accordi di cooperazione stipulati con altri paesi. Del resto, la Bosnia Erzegovina è il paese delle assurdità. Lo confermano anche i nostri interlocutori, aggiungendo che a volte si sentono incompresi anche dai loro familiari.

      “Mia moglie spesso si chiede come io possa fare questo lavoro. Oppure invito ospiti a casa per la celebrazione del santo della famiglia, e proprio quando stiamo per tagliare il pane tradizionale, mi chiama la polizia dicendo di aver trovato un cadavere nella Drina. Quindi, mi scuso con gli ospiti, chiedo loro di rimanere e vado a fare il mio lavoro. Non è un lavoro facile, ma per me la più grande soddisfazione è sapere che quel corpo recuperato sarà sepolto degnamente e che la famiglia della vittima, straziata dalla sofferenza, finalmente troverà pace”, spiega Nenad Jovanović.

      Recentemente, Jovanović, insieme ai suoi colleghi Miroslav Vujanović e Safet Omerbegić, ha partecipato ad una cerimonia di commemorazione in memoria dei migranti scomparsi e morti ai confini d’Europa. In quell’occasione sono state inaugurate le lapidi delle tombe dei sedici migranti sepolti nel nuovo cimitero di Bijeljina, situato nel quartiere di Hase. Trattandosi di corpi non identificati, ciascuna delle lastre in marmo nero reca incise, a caratteri dorati, la sigla N.N e l’anno della morte.

      Nel cimitero è stato piantato anche un filare di alberi in memoria delle vittime e sono state collocate due targhe commemorative con la scritta: “Non dimenticheremo mai voi e i vostri sogni spezzati nella Drina”. L’iniziativa è stata realizzata grazie al sostegno dell’associazione austriaca «SOS Balkanroute» e di Nihad Suljić, attivista di Tuzla, che da anni fornisce assistenza concreta ai rifugiati e partecipa alle procedure di identificazione e sepoltura dei morti.

      “Per noi è un grande onore e privilegio sostenere simili progetti. Si tratta di un’iniziativa pionieristica che può fungere da modello per l’intera regione. Per quanto possa sembrare paradossale, siamo contenti che queste persone, a differenza di tante altre, abbiano almeno una tomba. Abbiamo voluto che le loro tombe fossero dignitose e che non venissero lasciate al degrado, come accaduto recentemente a Zvornik”, sottolinea Petar Rosandić dell’associazione SOS Balkanroute.

      Rosandić spiega che la sistemazione delle tombe dei migranti nei cimiteri di Bijeljina e Zvornik è frutto di un’iniziativa di cooperazione transfrontaliera a cui hanno partecipato anche le comunità religiose di Vienna. Queste comunità, che durante la Seconda guerra mondiale erano impegnate nel salvataggio degli ebrei, oggi partecipano a diversi progetti a sostegno dei migranti lungo le frontiere esterne dell’UE.

      “Sulle lastre c’è scritto che si tratta di persone non identificate, ma noi sappiano che in ogni tomba giace il corpo di un giovane uomo i cui sogni si sono spezzati nella Drina. Ognuno di loro aveva una famiglia, un passato, i propri desideri e le proprie aspirazioni. Il loro unico peccato, secondo gli standard europei, era quello di avere un passaporto sbagliato, quindi sono stati costretti a intraprendere strade pericolose per raggiungere i luoghi dove speravano di trovare serenità e un futuro migliore”, afferma l’attivista Nihad Suljić.

      Suljić poi spiega che nel prossimo periodo i ricercatori e gli attivisti si impegneranno al massimo per instaurare una collaborazione con diverse istituzioni e organizzazioni. L’obiettivo è quello di identificare le persone sepolte in modo da restituire loro un’identità e permettere alle loro famiglie di avviare un processo di lutto.

      “Questi monumenti neri sono le colonne della vergogna dell’Unione europea – commenta Suljić - non è stata la Drina a uccidere queste persone, bensì la politica delle frontiere chiuse. Se avessero avuto un altro modo per raggiungere un posto sicuro dove costruire una vita migliore, sicuramente non sarebbero andati in cerca di pace attraversando mari, fiumi e fili spinati. Le loro tombe testimonieranno per sempre la vergogna e il regime criminale dell’UE”.

      Suljić ha invitato i cittadini dell’UE che hanno partecipato alla cerimonia di commemorazione a Bijeljina a chiamare i governi dei loro paesi ad assumersi la propria responsabilità.

      “Non abbiamo bisogno di donazioni né di corone di fiori. Vi invito però a inviare un messaggio ai vostri governi, a tutti i responsabili dell’attuazione di queste politiche, per spiegare loro le conseguenze delle frontiere chiuse, frontiere che uccidono gli esseri umani, ma anche i valori europei”.

      Dalla chiusura del corridoio sicuro lungo la rotta balcanica [nel 2015], nell’area di Bijeljina, Zvornik e Bratunac sono stati ritrovati circa sessanta corpi di migranti annegati nel fiume Drina. Stando ai dati raccolti da un gruppo di attivisti e ricercatori, nel periodo compreso tra gennaio 2014 e dicembre 2023 lungo il tratto della rotta balcanica che include sei paesi (Macedonia del Nord, Kosovo, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia) hanno perso la vita 346 persone in movimento. Trattandosi di dati reperiti da fonti pubbliche, i ricercatori sottolineano che il numero effettivo di vittime con ogni probabilità è molto più alto. In molti casi, la tragica sorte dei migranti è direttamente legata ai respingimenti effettuati dalle autorità locali e dai membri dell’agenzia Frontex.

      “La morte alle frontiere è ormai parte integrante di un regime di controllo che alcuni autori definiscono un crimine in tempo di pace, una forma di violenza amministrativa e istituzionale finalizzata a mantenere in vita un determinato ordine sociale. Molte persone morte ai confini restano invisibili, come sono invisibili anche le persone scomparse. I decessi e le sparizioni spesso non vengono denunciati, e alcuni corpi non vengono mai ritrovati”, spiega Marijana Hameršak, ricercatrice dell’Istituto di etnologia e studi sul folklore di Zagabria, responsabile di un progetto sui meccanismi di gestione dei flussi migratori alle periferie dell’UE.

      In assenza di un database regionale e di iniziative di cooperazione transfrontaliera, sono i volontari e gli attivisti a portare avanti le azioni di ricerca di persone scomparse e i tentativi di identificazione dei corpi. Al termine della cerimonia di commemorazione, a Bijeljina si è tenuta una conferenza per discutere di questo tema.

      “Molte famiglie non sanno a chi rivolgersi, non hanno mai ricevuto indicazioni chiare. Finora le istituzioni non hanno mai voluto impegnarsi su questo fronte. Spero che a breve ognuno si assuma la propria responsabilità e faccia il proprio lavoro, perché non è normale che noi, attivisti e volontari, portiamo avanti questo processo”, denuncia Nihad Suljić.

      A dare un contributo fondamentale è anche Vidak Simić, patologo ed esperto forense di Bijeljina. Dal 2016 Simić ha eseguito l’autopsia e prelevato un campione di DNA di circa quaranta corpi di migranti, per la maggior parte rinvenuti nel fiume Drina.

      “Questa vicenda mi opprime, non mi sento bene perché non riesco a portare a termine il mio lavoro. Credo profondamente nel giuramento di Ippocrate e lo rispetto. Le leggi e altre norme mi obbligano a conservare i campioni per sei mesi, ho deciso però di conservarli per tutto il tempo necessario, in attesa che il sistema venga cambiato. La mia idea è di raccogliere tutti questi campioni, creare profili genetici individuali, pubblicarli su un sito appositamente creato in modo da aiutare le famiglie – in Afghanistan, Pakistan, Algeria, Marocco e in altri paesi – che cercano i loro cari scomparsi.

      Lo auspicano anche il padre, la madre, la sorella e i fratelli di Aziz Alimi, vent’anni, proveniente dall’Afghanistan, che nel settembre dello scorso anno, nel tentativo di raggiungere la Bosnia Erzegovina dalla Serbia, aveva deciso di attraversare la Drina a nuoto con altri tre ragazzi. Poco dopo la sua scomparsa, nello stesso luogo da dove Aziz per l’ultima volta aveva contattato uno dei suoi fratelli, è stato ritrovato un corpo.

      Dal momento che non è stato possibile identificare il corpo per via del pessimo stato in cui si trovava, i familiari di Aziz, che nel frattempo hanno trovato rifugio in Iran, hanno inviato un campione del suo DNA in Bosnia Erzegovina. Ripongono fiducia nelle istituzioni e nei cittadini bosniaco-erzegovesi per garantire ad Aziz almeno una sepoltura dignitosa.

      Ai presenti alla conferenza di Bijeljina si è rivolta anche la sorella di Aziz, Zahra Alimi, intervenuta con un videomessaggio. “Non abbiamo parenti in Europa che possano aiutarci e davvero non sappiamo cosa fare. Per favore aiutateci, nostro padre è affetto da un tumore e nostra madre ha sofferto molto dopo aver appreso la triste notizia [della scomparsa di Aziz]. Possiamo contare solo su di voi”.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Rotta-balcanica-i-sogni-spezzati-nella-Drina-229948
      #route_des_Balkans #Balkans #rivière #Bosnie-Hezégovine #migrations #réfugiés #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #Bijeljina #Branjevo #Nenad_Jovanović #Nenad_Jovanovic #Serbie #frontières #commémoration #mémoire #cimetière #tombes #SOS_Balkanroute #Nihad_Suljić #Nihad_Suljic #dignité #monument #responsabilité

  • Jury convicts #Ibrahima_Bah : Statement from Captain Support UK

    Following a three-week trial, Ibrahima Bah, a teenager from Senegal, has been convicted by an all-white jury at Canterbury Crown Court. The jury unanimously found him guilty of facilitating illegal entry to the UK, and by a 10-2 majority of manslaughter by gross negligence. This conviction followed a previous trial in July 2023 in which the jury could not reach a verdict.

    Ibrahima’s prosecution and conviction is a violent escalation in the persecution of migrants to ‘Stop the Boats’. Observing the trial has also made it clear to us how anti-black racism pervades the criminal ‘justice’ system in this country. The verdict rested on the jury’s interpretation of generic words with shifting meanings such as ‘reasonable’, ‘significant’, and ‘minimal’. Such vagueness invites subjective prejudice, in this case anti-black racist profiling. Ibrahima, a teenage survivor, was perceived in the eyes of many jurors to be older, more mature, more responsible, more threatening, with more agency, and thus as more ‘guilty’.
    Why Ibrahima was charged

    Ibrahima was arrested in December 2022 after the dinghy he was driving across the Channel broke apart next to the fishing vessel Arcturus. Four men are known to have drowned, and up to five are still missing at sea. The court heard the names of three of them: Allaji Ibrahima Ba, 18 years old from Guinea who had travelled with Ibrahima from Libya and who Ibrahima described as his brother; Hajratullah Ahmadi, from Afghanistan; and Moussa Conate, a 15 year old from Guinea.

    The jury, judge, defense, and prosecution agreed the shipwreck and resultant deaths had multiple factors. These included the poor construction of the boat, water ingress after a time at sea, and later everyone standing up to be rescued causing the floor of the dinghy ripping apart. A report by Alarm Phone and LIMINAL points to other contributing factors, including the lack of aerial surveillance, the failure of the French to launch a search and rescue operation when first informed of the dinghy’s distress, and the skipper of Arcturus’ delay in informing Dover Coastguard of the seriousness of the wreck. Nonetheless, the Kent jury has decided to exclusively punish a black teenaged survivor.

    What the jury heard

    Many of the other survivors, all of whom claimed asylum upon reaching the UK, testified that Ibrahima saved their lives. At the moment the dinghy got into danger, Ibrahima steered it towards the fishing vessel which rescued them. He was also shown holding a rope to keep the collapsed dinghy alongside the fishing vessel while others climbed onboard. One survivor told the court that Ibrahima “was an angel”.

    The story told by witnesses not on the dinghy contrasted greatly to that of the asylum seekers who survived. Ray Strachan, the captain of the shipping vessel Arcturus offered testimony which appeared particularly prejudiced. He described Ibrahima using racist tropes – “mouthy”, not grateful enough following rescue, and as behaving very unusually. He complained about the tone in which Ibrahima asked the crew to rescue his drowning friend Allaji, who Strachan could only describe as being “dark brown. What can you say nowadays? He wasn’t white.” Strachan also has spoken out in a GB News interview against what he considers to be the “migrant taxi service” in the Channel, and volunteered to the jury, “It wasn’t my decision to take them to Dover. I wanted to take them back to France.” This begs the question of whether Strachan’s clearly anti-migrant political opinions influenced his testimony in a way which he felt would help secure Ibrahima’s conviction. It also raises the question if jury members identified more with Strachan’s retelling than the Afghans who testified through interpreters, and to what extent they shared some of his convictions.

    When Ibrahima took the stand to testify in his defense he explained that he refused to drive the rubber inflatable after he was taken to the beach and saw its size compared to the number of people expecting to travel on it. He told how smugglers, who had organised the boat and had knives and a gun, then assaulted him and forced him to drive the dinghy. The other survivors corroborated his testimony and described the boat’s driver being beaten and forced onboard.

    The prosecutor, however, sought to discredit Ibrahima, cross-examining him for one-and-a-half days. He demonised Ibrahima and insisted that he was personally responsible for the deaths because he was driving. Ibrahima’s actions, which survivors testified saved their lives, were twisted into dangerous decisions. His experiences of being forced to drive the boat under threat of death, and following assault, were disbelieved. The witness stand became the scene of another interrogation, with the prosecutor picking over the details of Ibrahima’s previous statements for hours.

    Ibrahima’s account never waivered. Yes he drove the dinghy, he didn’t want to, he was forced to, and when they got into trouble he did everything in his power to save everybody on board.
    Free Ibrahima!

    We have been supporting, and will continue to support, Ibrahima as he faces his imprisonment at the hands of the racist and unjust UK border regime.

    This is a truly shocking decision.

    We call for everybody who shares our anger to protest the unjust conviction of Ibrahima Bah and to stand in solidarity with all those incarcerated and criminalised for seeking freedom of movement.

    https://captainsupport.net/jury-convicts-ibrahima-bah-statement-from-captain-support-uk

    #scafista #scafisti #UK #Angleterre #criminalisation_de_la_migration #migrations #réfugiés #procès #justice #condamnation #négligence #Stop_the_Boats #verdict #naufrage #responsabilité #Arcturus

    • “NO SUCH THING AS JUSTICE HERE”. THE CRIMINALISATION OF PEOPLE ARRIVING TO THE UK ON ‘SMALL BOATS’

      New research shows how people arriving on small boats are being imprisoned for their ‘illegal arrival’. Among those prosecuted are people seeking asylum, victims of trafficking and torture, and children with ongoing age disputes.

      This research provides broader context surrounding the imprisonment of Ibrahima Bah, a Senegalese teenager, who has recently been found ‘guilty’ of both facilitating illegal entry and manslaughter. He was sentenced to 9 years and 6 months imprisonment on Friday 23rd February. In their statement, Captain Support UK argue that “Ibrahima’s prosecution and conviction is a violent escalation in the persecution of migrants to ‘Stop the Boats’.”

      The research

      This report, published by the Centre for Criminology at the University of Oxford and Border Criminologies, shows how people have been imprisoned for their arrival on a ‘small boat’ since the Nationality and Borders Act (2022) came into force. It details the process from sea to prison, and explains how this policy is experienced by those affected. Analysis is based on observations of over 100 hearings where people seeking asylum were prosecuted for their own illegal arrival, or for facilitating the arrival of others through steering the dinghy they travelled on. The report is informed by the detailed casework experience of Humans for Rights Network, Captain Support UK and Refugee Legal Support. It also draws on data collected through Freedom of Information requests, and research interviews with lawyers, interpreters, and people who have been criminalised for crossing the Channel on a ‘small boat’.

      Background

      In late 2018, the number of people using dinghies to reach the UK from mainland Europe began to increase. Despite Government claims, alternative ‘safe and legal routes’ for accessing protection in the UK remain inaccessible to most people. There is no visa for ‘seeking asylum’, and humanitarian routes to the UK are very restricted. For many, irregular journeys by sea have become the only way to enter the UK to seek asylum, safety, and a better life.

      Soon after the number of people arriving on small boats started to increase, the Crown Prosecution Service began to charge those identified as steering the boats with the offences of ‘illegal entry’ or ‘facilitation’. These are offences within Section 24 and Section 25 of the Immigration Act 1971. However, in 2021, a series of successful appeals overturned these prosecutions. This was on the basis that if the people on a small boat intended to claim asylum at port, there was no breach of immigration law through attempted ‘illegal entry’. The Court of Appeal found that those who arrive by small boat and claim asylum do not enter illegally, as they are granted entry as an asylum seeker.

      In response, in June 2022, the Nationality and Borders Act expanded the scope of criminal offences relating to irregular arrival to the UK. First, the offence of ‘illegal arrival’ was introduced, with a maximum sentence of 4 years. Second, the offence of ‘facilitation’ was expanded to include circumstances in which ‘gain’ was difficult to prove, and the maximum sentence was increased from 14 years to life imprisonment. During Parliamentary debates, members of both Houses of Parliament warned that this would criminalise asylum seeking to the UK.

      Who has been prosecuted since the Nationality and Borders Act (2022)?

      New data shows that in the first year of implementation (June 2022 – June 2023), 240 people arriving on small boats were charged with ‘illegal arrival’ off small boats. While anyone arriving irregularly can now be arrested for ‘illegal arrival’, this research finds that in practice those prosecuted either:

      – Have an ‘immigration history’ in the UK, including having been identified as being in the country, or having attempted to arrive previously ( for example, through simply having applied for a visa), or,
      – Are identified as steering the dinghy they travelled in as it crossed the Channel.

      49 people were also charged with ‘facilitation’ in addition to ‘illegal arrival’ after allegedly being identified as having their ‘hand on the tiller’ at some point during the journey. At least two people were charged with ‘facilitation’ for bringing their children with them on the dinghy.

      In 2022, 1 person for every 10 boats was arrested for their alleged role in steering. In 2023, this was 1 for every 7 boats. People end up being spotted with their ‘hand on the tiller’ for many reasons, including having boating experience, steering in return for discounted passage, taking it in turns, or being under duress. Despite the Government’s rhetoric, both offences target people with no role in organised criminal gangs.

      The vast majority of those convicted of both ‘illegal arrival’ and ‘facilitation’ have ongoing asylum claims. Victims of torture and trafficking, as well as children with ongoing age disputes, have also been prosecuted. Those arrested include people from nationalities with a high asylum grant rate, including people from Sudan, South Sudan, Afghanistan, Iran, Eritrea, and Syria.

      Those imprisoned are distressed and harmed by their experiences in court and prison

      This research shows how court hearings were often complicated and delayed by issues with interpreters and faulty video link technology. Bail was routinely denied without proper consideration of each individual’s circumstances. Those accused were usually advised to plead guilty to ‘illegal arrival’ at the first opportunity to benefit from sentence reductions, however, this restricted the possibility of legal challenge.

      Imprisonment caused significant psychological and physical harm, which people said was particularly acute given their experiences of displacement. The majority of those arrested are imprisoned in HMP Elmley. They frequently reported not being able to access crucial services, including medical care, interpretation services including for key documents relating to their cases, contact with their solicitors, immigration advice, as well as work and English lessons. People shared their experiences of poor living conditions, inadequate food, and routine and frequent racist remarks and abuse from prison staff as ‘foreign nationals’.

      Children with age disputes are being imprisoned for their arrival on small boats

      Research (see, for example, here) by refugee support organisations has highlighted significant flaws in the Home Office’s age assessment processes in Dover, resulting in children being aged as adults, and treated as such. One consequence of this is that children with ongoing age disputes have been charged as adults with the offences of ‘illegal arrival’ and ‘facilitation’ for their alleged role in steering boats across the Channel.

      Humans for Rights Network has identified 15 age-disputed children who were wrongly treated as adults and charged with these new offences, with 14 spending time in adult prison. This is very likely to be an undercount. The Home Office fails to collect data on how many people with ongoing age disputes are convicted. These young people have all claimed asylum, and several claim (or have been found to be) survivors of torture and/or trafficking. The majority are Sudanese or South Sudanese, who have travelled to the UK via Libya.

      Throughout the entirety of the criminal process, responsibility lay with the child at every stage to reject their ‘given’ age and reassert that they are under 18. Despite this, the Courts generally relied on the Home Office’s ‘given age’, without recognition of evidence highlighting clear flaws in these initial age enquiries. Children who maintained that they were under 18 in official legal proceedings faced substantial delays to their cases, due to the time required by the relevant local authority to carry out an age assessment, and delays to the criminal process. Due to this inaction, several children have decided to be convicted and sentenced as adults to try to avoid spending additional time in prison.

      These young people have experienced serious psychological and physical harm in adult courts and prisons, raising serious questions around the practices of the Home Office, Border Force, Ministry of Justice, magistrates and Judges, the CPS, defence lawyers, and prison staff.

      Pour télécharger le rapport :
      Full report:https://blogs.law.ox.ac.uk/sites/default/files/2024-02/No%20such%20thing%20as%20justice%20here_for%20publication.pdf
      Summary : https://blogs.law.ox.ac.uk/sites/default/files/2024-02/SUMMARY_No%20such%20thing%20as%20justice%20here_for%20publication.pd

      https://www.law.ox.ac.uk/content/news/report-launch-no-such-thing-justice-here
      #rapport

    • Ibrahima Bah was sentenced to nine years for steering a ‘death trap’ dinghy across the Channel. Was he really to blame?

      The young asylum seeker was forced into piloting the boat on which at least four people drowned. Under new ‘stop the boats’ laws, he’s responsible for their deaths – but others say he’s a victim

      In the dock at Canterbury crown court, Ibrahima Bah listened closely as his interpreter told him he was being sentenced to nine years and six months in prison.

      In December 2022, Bah had steered an inflatable dinghy full of passengers seeking asylum in the UK across the Channel from France. The boat collapsed and four people were confirmed drowned – it is thought that at least one other went overboard, but no other bodies have yet been recovered.

      Bah’s conviction – four counts of gross negligence manslaughter and one of facilitating a breach of immigration law – is the first of its kind. The Home Office put out a triumphant tweet after his sentencing, with the word “JAILED” in capital letters above his mugshot. According to the government, Bah’s sentence is proof that it is achieving one of Rishi Sunak’s main priorities: to “Stop the Boats”. But human rights campaigners are less jubilant and fear his conviction will be far from the last.

      Of the 39 passengers who survived that perilous journey in December 2022, about a dozen were lone children. Bah is a young asylum seeker himself, from Senegal. The judge determined he is now 20; his birth certificate says he is 17. Either way, he was a teenager at the time of the crossing. So how did his dream of a new life in the UK end up here, in this courtroom, being convicted of multiple counts of manslaughter?

      As with so many asylum seekers, details about Bah’s life are hazy and complicated. He has had little opportunity to speak to people since he arrived in the UK because he has been behind bars. His older sister, Hassanatou Ba, who lives in Morocco, says the whole family is devastated by his imprisonment, especially their mother. Hassanatou says her brother – the only son in the family, and the only male after the death of their father – has always been focused on helping them all.

      “He is gentle, kind and respectful, and loves his family very much,” she says. “He always wanted to take care of all of us. He knew about the difficulties in our lives and wanted our problems to stop.”

      In court, the judge, Mr Justice Johnson KC, noted that Bah’s early upbringing was difficult and that he was subjected to child labour. His initial journey from Senegal was tough, too, as he travelled to the Gambia, then Mali (where the judge acknowledged he had been subjected to forced labour), Algeria and Libya before crossing the Mediterranean to reach Europe. The risk of drowning in a flimsy and overcrowded boat in the Mediterranean is extremely high, with more than 25,000 deaths or people missing during the crossing since 2014. The Immigration Enforcement Competent Authority found there were reasonable grounds to conclude Bah was a victim of modern slavery based on some of his experiences on his journey. He told the police the boat journey was “terrifying”, and took four days and four nights in an “overcrowded and unsuitable” vessel.

      Bah and his fellow travellers were rescued and taken to Sicily. From there, he travelled to France and met Allaji Ba, 18, from Guinea, who became his friend and who he has described as his “brother”. The pair spent five months in Bordeaux before travelling to Paris, then Calais, then Dunkirk, spending three months in an area known as the Jungle – a series of small, basic encampments. The refugees who live there are frequently uprooted by French police. The vast original Calais refugee encampment – also known as the Jungle – was destroyed in October 2016, but the camps still exist, albeit in more compact and makeshift forms. Some people have tents, while others sleep in the open air, whatever the weather.

      In the Jungle, Bah met a group of smugglers. He was unable to pay the going rate of about £2,000 for a space on a dinghy to come to the UK, so instead he agreed to steer the boat in exchange for free passage. Smugglers don’t drive boats themselves: they either offer the job to someone like Bah, who can’t afford to pay for their passage; force a passenger to steer; or leave it to the group to share the task between them.

      When Bah saw how unseaworthy and overcrowded the boat was, he refused to pilot it, and in court, the judge accepted there was a degree of coercion by the smugglers. Bah said smugglers with a knife and a gun assaulted him, and other survivors corroborated his account of being beaten after refusing to board the boat.

      Once the dinghy was afloat, survivors have said the situation became increasingly terrifying. Out at sea, under a pitch black sky, the dinghy began taking in water up to knee level. It was when the passengers saw a fishing vessel, Arcturus, that catastrophe struck, with some standing up, hoping that at last they were going to be saved from what they believed was certain drowning.

      At Bah’s trial, witnesses gave evidence about his efforts to save lives by manoeuvring the stricken dinghy towards the fishing trawler, so that people could be rescued.

      One witness said that if it hadn’t been for Bah, everyone on board would have drowned. “He was trying his best,” he said. Another survivor called him an “angel” for his efforts to save lives, holding a rope so others could be hoisted to safety on the fishing vessel and putting the welfare of others first. The judge acknowledged that Bah was one of the last to leave the dinghy and tried to help others after he did so, including his friend Ba, “who tragically died before your eyes”.

      The dinghy was described by the judge as a “death trap”; he also recognised that the primary responsibility for what happened that night rests with the criminal gangs who exploit and endanger those who wish to come to the UK. He noted that Bah was “significantly less culpable” than the gangs and did not coerce other passengers or organise the trip.

      “Everything that has happened to Ibrahima since he was forced to drive the boat in 2022 has been bad luck,” says Hassanatou. “In fact, Ibrahima’s whole journey has been suffering on top of suffering.”

      Had Bah made the journey just a few months earlier, he would not be in this courtroom today. His conviction was made possible by recent changes in the law – part of the Conservative government’s clampdown on small boats. In June 2022, the Nationality and Borders Act (NABA) expanded the scope of criminal offences relating to irregular arrival to the UK. The offence of “illegal arrival” was introduced, with a maximum sentence of four years. This criminalises the act of arriving in the UK to claim asylum – and effectively makes claiming asylum impossible since, by law, you have to be physically in the country to make a claim.

      At the same time, the pre-existing offence of “facilitation” – making it possible for others to claim asylum by piloting a dinghy, for example – was expanded, with the maximum sentence increased from 14 years to life imprisonment. Hundreds of people, including children and victims of torture and smuggling, have subsequently been jailed for the first offence and a handful for the second.

      The reasons Bah and thousands of others are forced into this particularly deadly form of Russian roulette on the Channel is due to government policy not to provide safe and legal routes for those who are fleeing persecution. Last year, the government went further than NABA with the Illegal Migration Act, making any asylum claim by someone arriving by an “irregular” means, such as on a small boat, inadmissible. It is hard to overstate the significance of this change. The right to claim asylum was enshrined in the 1951 Geneva Convention after the horrors of the second world war – and has saved many lives. The UK is still signed up to that convention, but the Illegal Migration Act now makes it almost impossible to exercise that essential right, and has been strongly criticised by the UN.

      None of these legal changes are stopping the boats. Although the number of Channel crossings fell by 36% last year, much of that reduction was due to 90% fewer crossings by Albanians (there had been a spike in the numbers of Albanians coming over in 2022). Those fleeing conflict zones are still crossing in large numbers, and according to a report by the NGO Alarm Phone, measures introduced to stop the boats are likely to have increased the number of Channel drownings.

      Most asylum seekers do not seek sanctuary in the UK but instead head to the nearest safe country. Those who do come here often have family in the UK, or speak English. The decisions people make before stepping into a precarious dinghy on a beach in northern France are not a result of nuanced calculations based on the latest law to pass through parliament. “I come or I die,” one Syrian asylum seeker told me recently, when I asked about his decision to make a high-risk boat crossing after experiencing torture in his home country.

      Some lawyers who have followed Bah’s case and the broader implications of the new legislation are worried about these developments. “There is now no legal way to claim asylum,” one lawyer says.

      “The use of manslaughter in these circumstances is completely novel and demonstrates how pernicious the new laws are. It is the most vulnerable who end up piloting the boats and asylum seekers have no knowledge that the law has changed.”

      Bah’s case has also caused consternation among campaigners. “The conviction of Ibrahima Bah demonstrates a violent escalation in the prosecution of people for the way in which they arrive in the UK,” reads a joint statement from Humans for Rights Network and Refugee Legal Support, two of the organisations supporting Bah. They also point out that Bah had already spent 14 months in prison without knowing how long he would remain there, after a previous trial against him last year collapsed when the jury failed to reach a verdict.

      “He too is a survivor of the shipwreck he experienced in December 2022,” the statement continues. “Imprisonment has severely impacted his mental health and will continue to do so while he is incarcerated. Ibrahima navigated a horrific journey to the UK in the hope of finding safety here through the only means available to him and yet he has been punished for the deaths of others seeking the same thing, sanctuary.”

      The organisation Captain Support is helping 175 people who face prosecution as a result of the new laws to find legal representation. A letter-writing campaign calling for Bah to be freed has been launched.

      Hassanatou says she is struggling to comprehend the UK’s harsh laws towards people like her little brother, and she fears his age will make it particularly difficult for him to cope behind bars. He will be expected to serve two-thirds of his sentence in custody, first in a young offenders’ institute and then in an adult jail.

      In his sentencing remarks the judge said to Bah: “This is also a tragedy for you. Your dream of starting a new life in the UK is in tatters.”

      https://www.theguardian.com/uk-news/2024/mar/12/ibrahima-bah-teenage-asylum-seeker-manslaughter

  • Quand le #comité_d’éthique du #CNRS se penche sur l’#engagement_public des chercheurs et chercheuses

    #Neutralité ? #Intégrité ? #Transparence ?

    Le Comité d’éthique du CNRS rappelle qu’il n’y a pas d’#incompatibilité de principe, plaide pour un « guide pratique de l’engagement » et place la direction de l’institution scientifique devant les mêmes obligations que les chercheurs.

    Avec la crise climatique, la pandémie de covid-19, l’accroissement des inégalités, le développement de l’intelligence artificielle ou les technologies de surveillance, la question de l’#engagement public des chercheurs est d’autant plus visible que les réseaux sociaux leur permettent une communication directe.

    Cette question dans les débats de société n’est pas nouvelle. De l’appel d’#Albert_Einstein, en novembre 1945, à la création d’un « #gouvernement_du_monde » pour réagir aux dangers de la #bombe_atomique à l’alerte lancée par #Irène_Frachon concernant le #Médiator, en passant par celle lancée sur les dangers des grands modèles de langage par #Timnit_Gebru et ses collègues, les chercheurs et chercheuses s’engagent régulièrement et créent même des sujets de #débats_publics.

    Une question renouvelée dans un monde incertain

    Le #comité_d'éthique_du_CNRS (#COMETS) ne fait pas semblant de le découvrir. Mais, selon lui, « face aux nombreux défis auxquels notre société est confrontée, la question de l’engagement public des chercheurs s’est renouvelée ». Il s’est donc auto-saisi pour « fournir aux chercheurs des clés de compréhension et des repères éthiques concernant l’engagement public » et vient de publier son #rapport sur le sujet [PDF].

    Il faut dire que les deux premières années du Covid-19 ont laissé des traces dans la communauté scientifique sur ces questions de prises de paroles des chercheurs. Le COMETS avait d’ailleurs publié en mai 2021 un avis accusant Didier Raoult alors que la direction du Centre avait rappelé tardivement à l’ordre, en août de la même année, et sans le nommer, le sociologue et directeur de recherche au CNRS Laurent Mucchielli, qui appelait notamment à suspendre la campagne de vaccination.

    Le COMETS relève que les chercheurs s’engagent selon des modalités variées, « de la signature de tribunes à la contribution aux travaux d’ONG ou de think tanks en passant par le soutien à des actions en justice ou l’écriture de billets de blog ». Il souligne aussi que les #réseaux_sociaux ont « sensiblement renforcé l’exposition publique des chercheurs engagés ».

    La présidente du comité d’éthique, Christine Noiville, égrène sur le site du CNRS, les « interrogations profondes » que ces engagements soulèvent :

    « S’engager publiquement, n’est-ce pas contraire à l’exigence d’#objectivité de la recherche ? N’est-ce pas risquer de la « politiser » ou de l’« idéologiser » ? S’engager ne risque-t-il pas de fragiliser la #crédibilité du chercheur, de mettre à mal sa réputation, sa carrière ? Est-on en droit de s’engager ? Pourrait-il même s’agir d’un devoir, comme certains collègues ou journalistes pourraient le laisser entendre ? »

    Pas d’incompatibilité de principe

    Le comité d’éthique aborde les inquiétudes que suscite cet engagement public des chercheurs et pose franchement la question de savoir s’il serait « une atteinte à la #neutralité_scientifique ? ». Faudrait-il laisser de côté ses opinions et valeurs pour « faire de la « bonne » science et produire des connaissances objectives » ?

    Le COMETS explique, en s’appuyant sur les travaux de l’anthropologue #Sarah_Carvallo, que ce concept de neutralité est « devenu central au XXe siècle, pour les sciences de la nature mais également pour les sciences sociales », notamment avec les philosophes des sciences #Hans_Reichenbach et #Karl_Popper, ainsi que le sociologue #Max_Weber dont le concept de « #neutralité_axiologique » – c’est-à-dire une neutralité comme valeur fondamentale – voudrait que le « savant » « tienne ses #convictions_politiques à distance de son enseignement et ne les impose pas subrepticement ».

    Mais le comité explique aussi, que depuis Reichenbach, Popper et Weber, la recherche a avancé. Citant le livre d’#Hilary_Putnam, « The Collapse of the Fact/Value Dichotomy and Other Essays », le COMETS explique que les chercheurs ont montré que « toute #science s’inscrit dans un #contexte_social et se nourrit donc de #valeurs multiples ».

    Le comité explique que le monde de la recherche est actuellement traversé de valeurs (citant le respect de la dignité humaine, le devoir envers les animaux, la préservation de l’environnement, la science ouverte) et que le chercheur « porte lui aussi nécessairement des valeurs sociales et culturelles dont il lui est impossible de se débarrasser totalement dans son travail de recherche ».

    Le COMETS préfère donc insister sur les « notions de #fiabilité, de #quête_d’objectivité, d’#intégrité et de #rigueur de la #démarche_scientifique, et de transparence sur les valeurs » que sur celle de la neutralité. « Dans le respect de ces conditions, il n’y a aucune incompatibilité avec l’engagement public du chercheur », assure-t-il.

    Liberté de s’engager... ou non

    Il rappelle aussi que les chercheurs ont une large #liberté_d'expression assurée par le code de l’éducation tout en n’étant pas exemptés des limites de droit commun (diffamation, racisme, sexisme, injure ...). Mais cette liberté doit s’appliquer à double sens : le chercheur est libre de s’engager ou non. Elle est aussi à prendre à titre individuel, insiste le COMETS : la démarche collective via les laboratoires, sociétés savantes et autres n’est pas la seule possible, même si donner une assise collective « présente de nombreux avantages (réflexion partagée, portée du message délivré, moindre exposition du chercheur, etc.) ».

    Le comité insiste par contre sur le fait que, lorsque le chercheur s’engage, il doit « prendre conscience qu’il met en jeu sa #responsabilité, non seulement juridique mais aussi morale, en raison du crédit que lui confère son statut et le savoir approfondi qu’il implique ».

    Il appuie aussi sur le fait que sa position privilégiée « crédite sa parole d’un poids particulier. Il doit mettre ce crédit au service de la collectivité et ne pas en abuser ».

    Des #devoirs lors de la #prise_de_parole

    Outre le respect de la loi, le COMETS considère, dans ce cadre, que les chercheurs et chercheuses ont des devoirs vis-à-vis du public. Notamment, ils doivent s’efforcer de mettre en contexte le cadre dans lequel ils parlent. S’agit-il d’une prise de parole en nom propre ? Le thème est-il dans le domaine de compétence du chercheur ? Est-il spécialiste ? A-t-il des liens d’intérêts ? Quelles valeurs sous-tendent son propos ? Le #degré_de_certitude doit aussi être abordé. Le Comité exprime néanmoins sa compréhension de la difficulté pratique que cela implique, vu les limites de temps de paroles dans les médias.

    Une autre obligation qui devrait s’appliquer à tout engagement de chercheurs selon le COMETS, et pas des moindres, est de l’asseoir sur des savoirs « robustes » et le faire « reposer sur une démarche scientifique rigoureuse ».

    Proposition de co-construction d’un guide

    Le COMETS recommande, dans ce cadre, au CNRS d’ « élaborer avec les personnels de la recherche un guide de l’engagement public » ainsi que des formations. Il propose aussi d’envisager que ce guide soit élaboré avec d’autres organismes de recherche.

    La direction du CNRS à sa place

    Le Comité d’éthique considère en revanche que « le CNRS ne devrait ni inciter, ni condamner a priori l’engagement des chercheurs, ni opérer une quelconque police des engagements », que ce soit dans l’évaluation des travaux de recherche ou dans d’éventuelles controverses provoquées par un engagement public.

    « La direction du CNRS n’a pas vocation à s’immiscer dans ces questions qui relèvent au premier chef du débat scientifique entre pairs », affirme-t-il. La place du CNRS est d’intervenir en cas de problème d’#intégrité_scientifique ou de #déontologie, mais aussi de #soutien aux chercheurs engagés « qui font l’objet d’#attaques personnelles ou de #procès_bâillons », selon lui.

    Le comité aborde aussi le cas dans lequel un chercheur mènerait des actions de #désobéissance_civile, sujet pour le moins d’actualité. Il considère que le CNRS ne doit ni « se substituer aux institutions de police et de justice », ni condamner par avance ce mode d’engagement, « ni le sanctionner en lieu et place de l’institution judiciaire ». Une #sanction_disciplinaire peut, par contre, être envisagée « éventuellement », « en cas de décision pénale définitive à l’encontre d’un chercheur ».

    Enfin, le Comité place la direction du CNRS devant les mêmes droits et obligations que les chercheurs dans son engagement vis-à-vis du public. Si le CNRS « prenait publiquement des positions normatives sur des sujets de société, le COMETS considère qu’il devrait respecter les règles qui s’appliquent aux chercheurs – faire connaître clairement sa position, expliciter les objectifs et valeurs qui la sous-tendent, etc. Cette prise de position de l’institution devrait pouvoir être discutée sur la base d’un débat contradictoire au sein de l’institution ».

    https://next.ink/985/quand-comite-dethique-cnrs-se-penche-sur-engagement-public-chercheurs-et-cherc

    • Avis du COMETS « Entre liberté et responsabilité : l’engagement public des chercheurs et chercheuses »

      Que des personnels de recherche s’engagent publiquement en prenant position dans la sphère publique sur divers enjeux moraux, politiques ou sociaux ne constitue pas une réalité nouvelle. Aujourd’hui toutefois, face aux nombreux défis auxquels notre société est confrontée, la question de l’engagement public des chercheurs s’est renouvelée. Nombre d’entre eux s’investissent pour soutenir des causes ou prendre position sur des enjeux de société – lutte contre les pandémies, dégradation de l’environnement, essor des technologies de surveillance, etc. – selon des modalités variées, de la signature de tribunes à la contribution aux travaux d’ONG ou de think tanks en passant par le soutien à des actions en justice ou l’écriture de billets de blog. Par ailleurs, le développement des médias et des réseaux sociaux a sensiblement renforcé l’exposition publique des chercheurs engagés.

      Dans le même temps, de forts questionnements s’expriment dans le monde de la recherche. Nombreux sont ceux qui s’interrogent sur les modalités de l’engagement public, son opportunité et son principe même. Ils se demandent si et comment s’engager publiquement sans mettre en risque leur réputation et les valeurs partagées par leurs communautés de recherche, sans déroger à la neutralité traditionnellement attendue des chercheurs, sans perdre en impartialité et en crédibilité. Ce débat, qui anime de longue date les sciences sociales, irrigue désormais l’ensemble de la communauté scientifique.

      C’est dans ce contexte que s’inscrit le présent avis. Fruit d’une auto-saisine du COMETS, il entend fournir aux chercheurs des clés de compréhension et des repères éthiques concernant l’engagement public.

      Le COMETS rappelle d’abord qu’il n’y a pas d’incompatibilité de principe entre, d’un côté, l’engagement public du chercheur et, de l’autre, les normes attribuées ou effectivement applicables à l’activité de recherche. C’est notamment le cas de la notion de « neutralité » de la science, souvent considérée comme une condition indispensable de production de connaissances objectives et fiables. Si on ne peut qu’adhérer au souci de distinguer les faits scientifiques des opinions, il est illusoire de penser que le chercheur puisse se débarrasser totalement de ses valeurs : toute science est une entreprise humaine, inscrite dans un contexte social et, ce faisant, nourrie de valeurs. L’enjeu premier n’est donc pas d’attendre du chercheur qu’il en soit dépourvu mais qu’il les explicite et qu’il respecte les exigences d’intégrité et de rigueur qui doivent caractériser la démarche scientifique.

      Si diverses normes applicables à la recherche publique affirment une obligation de neutralité à la charge du chercheur, cette obligation ne fait en réalité pas obstacle, sur le principe, à la liberté et à l’esprit critique indissociables du travail de recherche, ni à l’implication du chercheur dans des débats de société auxquels, en tant que détenteur d’un savoir spécialisé, il a potentiellement une contribution utile à apporter.

      Le COMETS estime que l’engagement public doit être compris comme une liberté individuelle et ce, dans un double sens :

      -- d’une part, chaque chercheur doit rester libre de s’engager ou non ; qu’il choisisse de ne pas prendre position dans la sphère publique ne constitue en rien un manquement à une obligation professionnelle ou morale qui lui incomberait ;

      -- d’autre part, le chercheur qui s’engage n’a pas nécessairement à solliciter le soutien de communautés plus larges (laboratoire, société savante, etc.), même si le COMETS considère que donner une assise collective à une démarche d’engagement présente de nombreux avantages (réflexion partagée, portée du message délivré, moindre exposition du chercheur, etc.).

      S’il constitue une liberté, l’engagement nécessite également pour le chercheur de prendre conscience qu’il met en jeu sa responsabilité, non seulement juridique mais aussi morale, en raison du crédit que lui confère son statut et le savoir approfondi qu’il implique. En effet, en s’engageant publiquement, le chercheur met potentiellement en jeu non seulement sa réputation académique et sa carrière, mais aussi l’image de son institution, celle de la recherche et, plus généralement, la qualité du débat public auquel il contribue ou qu’il entend susciter. Le chercheur dispose d’une position privilégiée qui crédite sa parole d’un poids particulier. Il doit mettre ce crédit au service de la collectivité et ne pas en abuser. Le COMETS rappelle dès lors que tout engagement public doit se faire dans le respect de devoirs.

      Ces devoirs concernent en premier lieu la manière dont le chercheur s’exprime publiquement. Dans le sillage de son avis 42 rendu à l’occasion de la crise du COVID-19, le COMETS rappelle que le chercheur doit s’exprimer non seulement en respectant les règles de droit (lois mémorielles, lois condamnant la diffamation, l’injure, etc.) mais aussi en offrant à son auditoire la possibilité de mettre son discours en contexte, au minimum pour ne pas être induit en erreur. A cet effet, le chercheur doit prendre soin de :

      situer son propos : parle-t-il en son nom propre, au nom de sa communauté de recherche, de son organisme de rattachement ? Quel est son domaine de compétence ? Est-il spécialiste de la question sur laquelle il prend position ? Quels sont ses éventuels liens d’intérêts (avec telle entreprise, association, etc.) ? Quelles valeurs sous-tendent son propos ? ;
      mettre son propos en perspective : quel est le statut des résultats scientifiques sur lesquels il s’appuie ? Des incertitudes demeurent-elles ? Existe-t-il des controverses ?

      Le COMETS a conscience de la difficulté pratique à mettre en œuvre certaines de ces normes (temps de parole limité dans les médias, espace réduit des tribunes écrites, etc.). Leur respect constitue toutefois un objectif vers lequel le chercheur doit systématiquement tendre. Ce dernier doit également réfléchir, avant de s’exprimer publiquement, à ce qui fonde sa légitimité à le faire.

      En second lieu, les savoirs sur lesquels le chercheur assoit son engagement doivent être robustes et reposer sur une démarche scientifique rigoureuse. Engagé ou non, il doit obéir aux exigences classiques d’intégrité et de rigueur applicables à la production de connaissances fiables – description du protocole de recherche, référencement des sources, mise à disposition des résultats bruts, révision par les pairs, etc. Le COMETS rappelle que ces devoirs sont le corollaire nécessaire de la liberté de la recherche, qui est une liberté professionnelle, et que rien, pas même la défense d’une cause, aussi noble soit-elle, ne justifie de transiger avec ces règles et de s’accommoder de savoirs fragiles. Loin d’empêcher le chercheur d’affirmer une thèse avec force dans l’espace public, ces devoirs constituent au contraire un soutien indispensable à l’engagement public auquel, sinon, il peut lui être facilement reproché d’être militant.

      Afin de munir ceux qui souhaitent s’engager de repères et d’outils concrets, le COMETS invite le CNRS à élaborer avec les personnels de la recherche un guide de l’engagement public. Si de nombreux textes existent d’ores et déjà qui énoncent les droits et devoirs des chercheurs – statut du chercheur, chartes de déontologie, avis du COMETS, etc. –, ils sont éparpillés, parfois difficiles à interpréter (sur l’obligation de neutralité notamment) ou complexes à mettre en œuvre (déclaration des liens d’intérêt dans les médias, etc.). Un guide de l’engagement public devrait permettre de donner un contenu lisible, concret et réaliste à ces normes apparemment simples mais en réalité difficiles à comprendre ou à appliquer.

      Le COMETS recommande au CNRS d’envisager l’élaboration d’un tel guide avec d’autres organismes de recherche qui réfléchissent actuellement à la question. Le guide devrait par ailleurs être accompagné d’actions sensibilisant les chercheurs aux enjeux et techniques de l’engagement public (dont des formations à la prise de parole dans les médias).

      Le COMETS s’est enfin interrogé sur le positionnement plus général du CNRS à l’égard de l’engagement public.

      Le COMETS considère que de manière générale, le CNRS ne devrait ni inciter, ni condamner a priori l’engagement des chercheurs, ni opérer une quelconque police des engagements. En pratique :

      – dans l’évaluation de leurs travaux de recherche, les chercheurs ne devraient pas pâtir de leur engagement public. L’évaluation de l’activité de recherche d’un chercheur ne devrait porter que sur ses travaux de recherche et pas sur ses engagements publics éventuels ;

      – lorsque l’engagement public conduit à des controverses, la direction du CNRS n’a pas vocation à s’immiscer dans ces questions qui relèvent au premier chef du débat scientifique entre pairs ;

      – le CNRS doit en revanche intervenir au cas où un chercheur contreviendrait à l’intégrité ou à la déontologie (au minimum, les référents concernés devraient alors être saisis) ou en cas de violation des limites légales à la liberté d’expression (lois mémorielles, lois réprimant la diffamation, etc.) ; de même, l’institution devrait intervenir pour soutenir les chercheurs engagés qui font l’objet d’attaques personnelles ou de procès bâillons.

      – au cas où un chercheur mènerait des actions de désobéissance civile, le CNRS ne devrait pas se substituer aux institutions de police et de justice. Il ne devrait pas condamner ex ante ce mode d’engagement, ni le sanctionner en lieu et place de l’institution judiciaire. A posteriori, en cas de décision pénale définitive à l’encontre d’un chercheur, le CNRS peut éventuellement considérer que son intervention est requise et prendre une sanction.

      Plus généralement, le COMETS encourage le CNRS à protéger et à favoriser la liberté d’expression de son personnel. Il est en effet de la responsabilité des institutions et des communautés de recherche de soutenir la confrontation constructive des idées, fondée sur la liberté d’expression.

      Si le CNRS venait à décider de s’engager en tant qu’institution, c’est-à-dire s’il prenait publiquement des positions normatives sur des sujets de société, le COMETS considère qu’il devrait respecter les règles qui s’appliquent aux chercheurs – faire connaître clairement sa position, expliciter les objectifs et valeurs qui la sous-tendent, etc. Cette prise de position de l’institution devrait pouvoir être discutée sur la base d’un débat contradictoire au sein de l’institution.

      Pour télécharger l’avis :
      https://comite-ethique.cnrs.fr/wp-content/uploads/2023/09/AVIS-2023-44.pdf

      https://comite-ethique.cnrs.fr/avis-du-comets-entre-liberte-et-responsabilite-engagement-public

      #avis

  • Externalisation des politiques migratoires : le rôle de la #France

    A la veille d’un nouveau projet de loi sur la migration et l’asile, le CCFD-Terre Solidaire publie une analyse sur l’externalisation des politiques migratoires européennes à des #pays_tiers. La note éclaire le rôle joué par la France dans cette approche.

    Appelée externalisation, cette stratégie est présentée par les institutions européennes comme un moyen de mieux contrôler ses propres #frontières tout en délégant cette compétence à des pays tiers. Cela revient à limiter les déplacements de population dans et depuis ces pays mais également à faciliter les expulsions vers ces territoires, une dynamique renforcée depuis 2015.

    L’externalisation des politiques migratoires est largement critiquée par la société civile mais également par des agences onusiennes. Elles y voient en effet un moyen pour l’UE :

    – de se déresponsabiliser des conséquences de ses politiques migratoires sur les droits et la dignité des personnes exilées
    – d’esquiver ses obligations internationales en matière de protection.

    La France, principale artisane de l’externalisation

    La France demeure l’Etat européen qui a signé le plus d’#accords de #coopération_migratoire avec des pays tiers.

    La France a également largement participé à la mise en œuvre de financements européens dédiés à ces politiques, via ses opérateurs. Dans la nouvelle programmation budgétaire européenne relative aux projets de #développement, elle se positionne déjà sur plusieurs initiatives régionales focalisées sur les routes migratoires vers l’Europe.

    Enfin, la France a adapté son architecture institutionnelle pour répondre aux enjeux liés à la « dimension externe des migrations », avec un rôle toujours plus prépondérant du ministère de l’Intérieur sur le ministère des Affaires étrangères.

    Une absence de contrôle démocratique

    L’externalisation des politiques migratoires est liée à un certain nombre de risques importants : violations des droits humains, dilution des responsabilités en matière de protection internationale, instrumentalisation de l’#aide_publique_au_développement, etc.

    Pourtant, elle bénéficie d’une grande #opacité sur son déploiement, qui permet à la Commission européenne et aux Etats membres de l’UE d’agir sans un cadre de redevabilité clair quant à leurs actions.

    https://ccfd-terresolidaire.org/rapport-dans-langle-mort-quel-role-de-la-france-dans-lexternali
    #externalisation #migrations #asile #réfugiés
    #rapport #CCFD #aide_au_développement #responsabilité
    ping @karine4

  • Cadences, sous-traitance, pression… quand le travail tue

    « Morts au travail : l’hécatombe. » Deux personnes meurent chaque jour, en moyenne, dans un accident dans le cadre de leur emploi. Ce chiffre, sous estimé, qui n’intègre pas les suicides ou les maladies, illustre un problème systémique

    « J’ai appris la mort de mon frère sur Facebook : la radio locale avait publié un article disant qu’un homme d’une trentaine d’années était décédé près de la carrière, raconte Candice Carton. J’ai eu un mauvais pressentiment, j’ai appelé la gendarmerie, c’était bien lui… L’entreprise a attendu le lendemain pour joindre notre mère. » Son frère Cédric aurait été frappé par une pierre à la suite d’un tir de mine le 28 juillet 2021, dans une carrière à Wallers-en-Fagne (Nord). Il travaillait depuis dix-sept ans pour le Comptoir des calcaires et matériaux, filiale du groupe Colas.

    Deux ans et demi plus tard, rien ne permet de certifier les causes de la mort du mécanicien-soudeur de 41 ans. D’abord close, l’enquête de gendarmerie a été rouverte en septembre 2023 à la suite des conclusions de l’inspection du travail, qui a pointé la dizaine d’infractions dont est responsable l’entreprise. Cédric Carton n’avait pas le boîtier pour les travailleurs isolés, qui déclenche une alarme en cas de chute. « Ils l’ont retrouvé deux heures après, se souvient sa sœur. Le directeur de la carrière m’a dit que mon frère était en sécurité, et qu’il avait fait un malaise… alors qu’il avait un trou béant de 20 centimètres de profondeur de la gorge au thorax. » En quête de réponses, elle a voulu déposer plainte deux fois, chacune des deux refusée, multiplié les courriers au procureur, pris deux avocats… Sans avoir le fin mot de cette triste histoire.

    Que s’est-il passé ? Est-ce la « faute à pas de chance », les « risques du métier » ? Qui est responsable ? Chaque année, des centaines de familles sont confrontées à ces questions après la mort d’un proche dans un accident du travail (AT), c’est-à-dire survenu « par le fait ou à l’occasion du travail, quelle qu’en soit la cause ».

    « Un chauffeur routier a été retrouvé mort dans son camion », « Un ouvrier de 44 ans a été électrocuté », « Un homme meurt écrasé par une branche d’arbre », « Deux ouvriers roumains, un père et son fils, trouvent la mort sur un chantier à Istres [Bouches-du-Rhône] »… Le compte X de Matthieu Lépine, un professeur d’histoire-géographie, qui recense depuis 2019 les accidents dramatiques à partir des coupures de presse locale, illustre l’ampleur du phénomène. Vingt-huit ont été comptabilisés depuis janvier.

    En 2022, selon les derniers chiffres connus, 738 décès ont été recensés parmi les AT reconnus. Soit deux morts par jour. Un chiffre en hausse de 14 % sur un an, mais stable par rapport à 2019. Et, depuis une quinzaine d’années, il ne baisse plus. A cela s’ajoutent 286 accidents de trajet mortels (survenus entre le domicile et le lieu de travail) et 203 décès consécutifs à une maladie professionnelle.

    Et encore, ces statistiques sont loin de cerner l’ampleur du problème. La Caisse nationale d’assurance-maladie (CNAM) ne couvre que les salariés du régime général et n’intègre donc ni la fonction publique, ni les agriculteurs, ni les marins-pêcheurs, la majorité des chefs d’entreprise ou les autoentrepreneurs. C’est ainsi qu’en 2022 la Mutualité sociale agricole (MSA) a dénombré 151 accidents mortels dans le secteur des travaux agricoles, 20 % de plus qu’en 2019.

    Pour disposer de chiffres plus complets, il faut se tourner vers la direction de l’animation de la recherche, des études et des statistiques du ministère du travail (Dares). Problème : sa dernière étude porte sur 2019… A cette époque, elle dénombrait 790 AT mortels chez les salariés affiliés au régime général ou à la MSA et les agents des fonctions publiques territoriale et hospitalière.

    Le secteur de la construction est celui où la fréquence des accidents mortels est la plus importante (le triple de la moyenne). Arrivent ensuite l’agriculture, la sylviculture et la pêche, le travail du bois et les transports-entreposage. Quatre-vingt-dix pour cent des victimes sont des hommes, et les ouvriers ont cinq fois plus de risques de perdre la vie que les cadres.

    Les accidents mortels sont deux fois plus fréquents chez les intérimaires. (...)
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/06/cadences-sous-traitance-pression-quand-le-travail-tue_6214988_3234.html

    https://justpaste.it/2ozrb

    #travail #accidents_du_travail #le_travail_tue

    • Accidents du travail : la lenteur de la justice pour faire reconnaître la responsabilité de l’employeur
      https://www.lemonde.fr/emploi/article/2024/02/06/morts-au-travail-la-douloureuse-lenteur-de-la-justice_6215011_1698637.html

      Les familles de victimes d’accidents mortels doivent parfois attendre des années avant de voir le bout de procédures judiciaires complexes.

      Pour ceux qui ont perdu un proche à la suite d’un accident du travail, la reconnaissance de la responsabilité de l’employeur est essentielle. Mais les procédures, d’ordre pénal ou civil, tournent parfois au parcours du combattant, voire s’étirent sur des années, ajoutant à la douleur des familles. Fabienne Bérard, du collectif Familles : stop à la mort au travail, cite l’exemple de Fanny Maquin, qui a perdu son mari cordiste, Vincent, il y a douze ans. Et qui n’est toujours pas passée en justice pour être indemnisée. « Comme souvent, il y a eu un grand nombre de renvois d’audience, explique-t-elle. L’avocat adverse met en avant que, depuis ce temps, elle a reconstruit une cellule familiale et que le préjudice ne peut pas être établi de la même manière… »

      Tout accident du travail mortel est suivi d’une enquête de l’inspection du travail (qui doit intervenir dans les douze heures), et de la gendarmerie ou de la police. Depuis 2019, les deux institutions peuvent mener une enquête en commun, mais c’est encore rare. Et souvent, l’enquête de l’inspection dure plusieurs mois, parce que les effectifs manquent pour mener à bien les constats immédiats, les auditions des témoins ou encore solliciter des documents auprès de l’entreprise.

      Ces investigations permettent de déterminer si la responsabilité pénale de l’employeur est engagée. Si les règles de santé et sécurité n’ont pas été respectées, l’inspection du travail en avise le procureur, qui est le seul à pouvoir ouvrir une procédure. « Dès lors, le parquet a trois possibilités, explique l’avocat Ralph Blindauer, qui accompagne souvent des familles. Soit l’affaire est classée sans suite, soit une information judiciaire avec juge d’instruction est ouverte, car le cas est jugé complexe, soit, le plus couramment, une ou plusieurs personnes sont citées à comparaître devant le tribunal correctionnel. »

      Un montant négligeable

      En cas de poursuite au pénal, l’employeur est fréquemment condamné pour homicide involontaire en tant que personne morale – ce qui est peu satisfaisant pour les victimes, et peu dissuasif. L’amende est en effet de 375 000 euros maximum, un montant négligeable pour un grand groupe. L’employeur est plus rarement condamné en tant que personne physique, car il est difficile d’identifier le responsable de la sécurité – la peine encourue est alors l’emprisonnement.

      Dans le cas d’une procédure au civil, la reconnaissance d’une « faute inexcusable » de l’employeur permet aux ayants droit (conjoints, enfants ou ascendants) d’obtenir la majoration de leur rente, ainsi que l’indemnisation de leur préjudice moral. La faute est caractérisée lorsque l’entreprise a exposé son salarié à un danger dont il avait, ou aurait dû, avoir conscience et qu’il n’a pas pris les mesures nécessaires pour l’en préserver.

      « Le nœud du sujet, c’est la conscience du danger, en particulier lors d’un malaise mortel, explique Morane Keim-Bagot, professeure de droit à l’université de Strasbourg. Les employeurs remettent en question le caractère professionnel de l’accident, en démontrant qu’il y a une cause étrangère exclusive. » Certains prétendent ainsi que la victime souffrait d’un problème cardiaque décelé au moment de l’autopsie, de surpoids, de stress ou de tabagisme.

      « Si vous tombez sur un inspecteur surchargé, un parquet qui s’y attelle moyennement, des gendarmes non spécialisés et débordés, les procédures durent facilement des années, sans compter les renvois d’audience fréquents, conclut Me Blindauer. La longueur très variable de ces affaires illustre aussi le manque de moyens de la #justice. »

      #responsabilité_de_l’employeur #inspection_du_travail #responsabilité_pénale

    • Entre déni des entreprises et manque de données, l’invisibilisation des suicides liés au travail

      https://www.lemonde.fr/emploi/article/2024/02/06/entre-deni-des-entreprises-et-manque-de-donnees-l-invisibilisation-des-suici

      Le manque de prise en compte du mal-être au travail renforce les risques d’accidents dramatiques.
      Par Anne Rodier

      « La dernière conversation que j’ai eue avec mon mari [Jean-Lou Cordelle] samedi 4 juin [2022] vers 22 heures concernait les dossiers en cours à son travail. Le lendemain matin, mon fils découvrait son père au bout d’une corde pendu dans le jardin », témoigne Christelle Cordelle dans la lettre adressée aux représentants du personnel d’Orange pour leur donner des précisions sur l’état psychologique de son mari avant son suicide, à l’âge de 51 ans, après des mois de surcharge de travail, d’alertes vaines à la hiérarchie et à la médecine du travail.

      Son acte, finalement reconnu comme « accident de service » – c’est ainsi que sont nommés les accidents du travail (#AT) des fonctionnaires –, n’est pas recensé dans le bilan annuel de la Sécurité sociale. Celui-ci ne tient pas, en effet, compte de la fonction publique, invisibilisant les actes désespérés des infirmières, des professeurs ou encore des policiers.

      L’Assurance-maladie parle d’une quarantaine de suicides-accidents du travail par an. Un chiffre stable, représentant 5 % du total des accidents du travail mortels, mais qui serait nettement sous-évalué. C’est entre vingt et trente fois plus, affirme l’Association d’aide aux victimes et aux organismes confrontés aux suicides et dépressions professionnelles (ASD-pro), qui l’évalue plutôt entre 800 et 1 300 chaque année, sur la base d’une étude épidémiologique sur les causes du suicide au travail réalisée fin 2021 par Santé publique France. https://www.santepubliquefrance.fr/recherche/#search=Suicide%20et%20activité%20professionnelle%20en%20France

      L’explosion des risques psychosociaux (RPS) en entreprise constatée étude après étude et par la Caisse nationale d’assurance-maladie (CNAM : https://assurance-maladie.ameli.fr/etudes-et-donnees/2018-sante-travail-affections-psychiques) apporte de l’eau au moulin de l’ASD-pro : 1 814 maladies professionnelles relèvent de maladies psychiques, en augmentation régulière, note le rapport 2022. Quant au dernier baromètre du cabinet Empreinte humaine, publié en novembre 2023, il est sans équivoque : près d’un salarié sur deux (48 %) était en détresse psychologique en 2023.

      « Passage à l’acte brutal »

      La mécanique mortifère de la souffrance au travail est connue. « Les mécanismes à l’œuvre semblent être toujours liés : atteintes à la professionnalité et à l’identité professionnelle, perte de l’estime de soi, apparition d’un sentiment d’impuissance », explique Philippe Zawieja, psychosociologue au cabinet Almagora.
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      Tous les RPS ne conduisent pas au geste fatal. « Il y a moins de suicidés chez les #salariés que parmi les #chômeurs, et 90 % des suicides interviennent sur fond de problème psychiatrique antérieur », souligne M. Zawieja. Mais « il existe des actes suicidaires qui ne sont pas la conséquence d’un état dépressif antérieur, qui marquent un passage à l’acte brutal [raptus], lié à un élément déclencheur conjoncturel », indique l’Institut national de recherche et de sécurité pour la prévention des accidents du travail et des maladies professionnelles (INRS) https://www.inrs.fr/risques/suicide-travail/ce-qu-il-faut-retenir.html. Comme ce fut le cas du management toxique institutionnel à France Télécom. C’est alors que survient l’accident.

      « Pour Jean-Lou, tout s’est passé insidieusement, témoigne sa veuve. Il était en surcharge de travail depuis octobre-novembre 2021, avec des salariés non remplacés, des départs en retraite. Un jour de janvier, je l’ai vu buguer devant son ordinateur. A partir de là, j’ai été plus attentive. En mars [2022], ils ont allégé sa charge de travail mais insuffisamment. En avril, il a craqué. La médecine du travail a été prévenue. Il a finalement été mis en arrêt, sauf qu’il continuait à recevoir des mails. Ils lui avaient laissé son portable professionnel et il n’y avait pas de message de gestion d’absence renvoyant vers un autre contact. Jusqu’au bout, Orange n’a pas pris la mesure ».

      Le plus souvent, les suicides au travail sont invisibilisés, au niveau de l’entreprise d’abord, puis des statistiques. « Classiquement, l’entreprise, quand elle n’est pas tout simplement dans le déni, considère que c’est une affaire privée et que le travail n’en est pas la cause », explique le juriste Loïc Lerouge, directeur de recherche au Centre national de la recherche scientifique (CNRS) et spécialiste du sujet.

      Un déni qui a valu à Renault la première condamnation pour « faute inexcusable de l’employeur pour n’avoir pas pris les mesures nécessaires alors qu’il avait conscience du danger » concernant les salariés du Technocentre de Guyancourt (Yvelines) qui ont mis fin à leurs jours dans les années 2000. [en 2012 https://www.lemonde.fr/societe/article/2012/05/12/suicide-au-technocentre-renault-condamne-pour-faute-inexcusable_1700400_3224 « On reconnaît pleinement la responsabilité de la personne morale de l’entreprise depuis l’affaire #France_Télécom », précise M. Lerouge.

      Caractérisation délicate

      L’#invisibilisation des suicides commence par le non-dit. En réaction aux deux suicides de juin 2023 à la Banque de France, où l’une des victimes avait laissé une lettre incriminant clairement ses conditions de travail, la direction a déclaré avoir « fait ce qui s’impose » après un tel drame https://www.lemonde.fr/economie/article/2023/10/10/a-la-banque-de-france-le-suicide-de-deux-salaries-empoisonne-le-dialogue-soc . Puis, lors des vœux 2024 adressés au personnel le 2 janvier, le gouverneur de la Banque de France, François Villeroy de Galhau, n’a pas prononcé le mot « suicide », évoquant les « décès dramatiques de certains collègues ». Et s’il a déclaré « prendre au sérieux les résultats et les suggestions » de l’enquête qui acte le problème de #surcharge_de_travail, présentée au comité social et économique extraordinaire du 18 janvier, il n’a pas mis sur pause le plan de réduction des effectifs dans la filière fiduciaire. Celle-là même où travaillaient les deux salariés qui ont mis fin à leurs jours. « Beaucoup de gens n’ont pas les moyens de faire correctement leur travail et sont en souffrance. Il existe à la Banque de France une forme de maltraitance généralisée », affirme Emmanuel Kern, un élu CGT de l’institution.

      La caractérisation des suicides en accidents du travail est un exercice délicat, au cœur de la reconnaissance de la responsabilité de l’employeur. Pour Santé publique France, la définition est assez simple (« Surveillance des suicides en lien potentiel avec le travail », 2021). Il s’agit de tout suicide pour lequel au moins une des situations suivantes était présente : la survenue du décès sur le lieu du travail ; une lettre laissée par la victime mettant en cause ses conditions de travail ; le décès en tenue de travail alors que la victime ne travaillait pas ; le témoignage de proches mettant en cause les conditions de travail de la victime ; des difficultés connues liées au travail recueillies auprès des proches ou auprès des enquêteurs.

      Mais pour l’administration, le champ est beaucoup plus restreint : l’Assurance-maladie prend en compte « l’acte intervenu au temps et au lieu de travail ». Et la reconnaissance n’aura pas lieu si des éléments au cours de l’enquête permettent d’établir que « le travail n’est en rien à l’origine du décès », précise la charte sur les accidents du travail rédigée à destination des enquêteurs de la Sécurité sociale https://www.atousante.com/wp-content/uploads/2011/05/Charte-des-AT-MP-acte-suicidaire-et-accident-du-travail.pdf. « En dehors du lieu de travail, c’est à la famille de faire la preuve du lien avec l’activité professionnelle », explique Michel Lallier, président de l’ASD-pro. Une vision nettement plus restrictive, qui explique cet écart entre les bilans des suicides au travail.

      #suicide_au_travail #risques_psychosociaux #médecine_du_travail #conditions_de_travail #management #cadences #pression #surcharge_de_travail

    • Manque de sécurité sur les chantiers : « Notre fils est mort pour 6 000 euros », Aline Leclerc
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/07/manque-de-securite-sur-les-chantiers-notre-fils-est-mort-pour-6-000-euros_62

      Pour réduire les coûts et tenir les délais, certaines entreprises du bâtiment accumulent les négligences et infractions au code du travail, susceptibles d’engendrer de graves accidents du travail

      Alban Millot avait trouvé l’offre d’emploi sur Leboncoin. Touche-à-tout débrouillard enchaînant les petits boulots, il n’avait aucune expérience dans la pose de panneaux photovoltaïques ni dans le travail en hauteur. Trois semaines après son embauche, il est passé à travers la toiture d’un hangar, le 10 mars 2021. Une chute mortelle de plus de 5 mètres. Le jour de ses 25 ans.

      « Quand le gendarme vous l’annonce, il parle d’un “accident”, comme on dit quand quelqu’un meurt sur la route », se rappelle douloureusement Laurent Millot, son père. La chute renvoie toujours d’abord l’idée d’une erreur d’attention, d’un déséquilibre. La faute à pas de chance. Et à la victime surtout – Alban n’a-t-il pas marché sur une plaque translucide qu’il savait fragile ?

      Ce n’est que quelque temps après que reviennent en mémoire ces petites phrases qui donnent à l’« accident » un autre sens. « J’avais eu Alban au téléphone une semaine avant. Il m’a dit que son travail était hyperdangereux, et qu’il allait s’acheter son propre harnais parce que celui fourni par la boîte était bas de gamme », raconte Véronique Millot, sa mère. Quand pour la rassurer il lui a dit : « Je fais ça seulement jusqu’à l’été », elle a répondu : « Te tue pas pour un boulot… »

      Inexpérimentés

      L’enquête, étoffée dans ce dossier, a mis en évidence une effarante liste de dysfonctionnements et d’infractions au code du travail de la PME qui l’employait, dont l’activité officiellement enregistrée (son code NAF ou APE) était « commerce de détail en quincaillerie, peintures ». Le seul technicien dûment diplômé avait quitté la société deux mois avant l’embauche d’Alban. Sur les vingt-cinq salariés, une dizaine de commerciaux et seulement trois équipes de deux poseurs, lesquels étaient en conséquence soumis à un rythme intense pour honorer les commandes.

      Avant sa mort, Alban et son collègue de 20 ans, et trois mois d’ancienneté seulement, étaient partis le lundi de Narbonne (Aude) pour un premier chantier en Charente, puis un autre en Ille-et-Vilaine, avant un troisième, le lendemain, dans les Côtes-d’Armor, et un ultime, le mercredi, en Ille-et-Villaine, où a eu lieu l’accident. Alban, seul à avoir le permis, avait conduit toute la route.

      Inexpérimentés, les deux hommes n’avaient reçu qu’une formation sommaire à la sécurité. Et, surtout, ne disposaient pas de harnais complets pour s’attacher, comme l’a constaté l’inspectrice du travail le jour du drame.

      « Méconnaissance totale » et « déconcertante » du dirigeant

      Sans matériel, ils ont loué sur place une échelle chez Kiloutou. « Combien pèse une plaque photovoltaïque ? », a demandé le président du tribunal correctionnel de Rennes, lors du procès en première instance. « Dix-huit kilos », a répondu le chef d’entreprise. « Il faut monter l’échelle avec le panneau sous le bras ? », s’est étonné le président. « Cela dépend du chantier. »

      Il sera démontré pendant l’enquête, puis à l’audience, la « méconnaissance totale » et « déconcertante » du dirigeant, commercial de formation, de la réglementation en vigueur sur le travail en hauteur comme sur les habilitations électriques. Il n’avait entrepris aucune démarche d’évaluation des risques. Et ce, alors que deux autres accidents non mortels avaient eu lieu peu de temps avant sur ses chantiers.

      Dans son jugement du 6 juin 2023, le tribunal a reconnu l’employeur – et non l’entreprise, déjà liquidée – coupable d’homicide involontaire, retenant la circonstance aggravante de « violation manifestement délibérée » d’une obligation de sécurité ou de prudence, « tant l’inobservation était inscrite dans ses habitudes ».

      Enjeux financiers

      Car ces négligences tragiques cachent aussi des enjeux financiers. Monter un échafaudage, c’est plusieurs heures perdues dans un planning serré, et un surcoût de 6 000 euros, qui aurait doublé le devis, a chiffré un ouvrier à l’audience. « En somme, notre fils est mort pour 6 000 euros », souligne Mme Millot.

      L’affaire résonne avec une autre, dans laquelle Eiffage Construction Gard et un sous-traitant ont été condamnés en première instance comme en appel lors des procès qui se sont tenus en mai 2021 et avril 2022, à Nîmes. Mickaël Beccavin, cordiste de 39 ans, a fait une chute mortelle le 6 mars 2018, alors qu’il assemblait des balcons sur les logements d’un chantier d’envergure. Pour une raison restée inexpliquée, une corde sur laquelle il était suspendu a été retrouvée sectionnée, trop courte de plusieurs mètres. Quand la défense de l’entreprise a plaidé la seule responsabilité de la victime, qui aurait mal vérifié son matériel, l’inspecteur du travail a proposé une autre analyse.

      « On peut vous expliquer que le cordiste doit faire attention, mais la question n’est pas que là. La question est : est-ce qu’on devait faire appel à des cordistes pour ce chantier ? », a expliqué Roland Migliore à la barre, en mai 2021. Car la législation n’autorise les travaux sur cordes, particulièrement accidentogènes, qu’en dernier recours : cette pratique n’est possible que si aucun autre dispositif de protection dite « collective » (échafaudage, nacelle…) n’est envisageable. « La protection collective protège le salarié indépendamment de ce qu’il peut faire lui. S’il s’attache mal, il est protégé, rappelle l’inspecteur du travail. Au contraire, si l’on choisit la protection individuelle, on fait tout reposer sur le salarié. »

      « Précipitation »

      Le recours à la corde était apparu à l’audience comme un choix de dernière minute, sur un chantier où « tout le monde était pressé ». L’inspecteur du travail avait alors souligné cet aspect : « Malheureusement, dans le BTP, les contraintes sur les délais de livraison poussent à la précipitation : on improvise, quitte à ne pas respecter le plan général de coordination. »

      Secrétaire CGT-Construction, bois et ameublement de Nouvelle-Aquitaine, Denis Boutineau n’en peut plus de compter les morts. « Très souvent, c’est lié à un manque de sécurité. Quand vous êtes en ville, regardez les gens qui travaillent sur les toits, il n’y a aucune protection ! Pourquoi ? Pour des raisons économiques ! » Il cite ainsi le cas d’un jeune couvreur passé à travers un toit Everite. « L’employeur avait fait deux devis ! Un avec la mise en sécurité, un sans ! Bien sûr, le second était moins cher. Lequel croyez-vous qu’a accepté le client ? »

      Caroline Dilly reste, elle aussi, hantée par un échange avec son fils Benjamin, 23 ans, quelque temps avant sa mort, le 28 février 2022. Couvreur lui aussi, il aurait chuté en revenant dans la nacelle après avoir remis une ardoise en place sur un toit. Il n’était pas titulaire du certificat d’aptitude à la conduite d’engins en sécurité (Caces), nécessaire à l’utilisation de cet engin. Et la nacelle était-elle adaptée pour réaliser ce chantier ? C’est ce que devra établir la procédure judiciaire, encore en cours.

      Mais avant de rejoindre cette entreprise, Benjamin avait été renvoyé par une autre, au bout de quinze jours. « Il avait refusé de monter sur un échafaudage qui n’était pas aux normes », raconte sa mère, qui s’entend encore lui faire la leçon : « Y a ce que t’apprends à l’école et y a la réalité du monde du travail ! » « Je m’en veux tellement d’avoir dit ça… J’ai pris conscience alors à quel point prendre des risques au travail était entré dans nos mœurs. Tout ça pour aller plus vite. Comment en est-on arrivés à ce que la rentabilité prime sur le travail bien fait, en sécurité ? », se désole-t-elle.

      « Quand on commence, on est prêt à tout accepter »

      Depuis qu’elle a rejoint le Collectif familles : stop à la mort au travail, elle est frappée par la jeunesse des victimes : « Quand on commence dans le métier, on n’ose pas toujours dire qu’on a peur. Au contraire, pour s’intégrer, on est prêt à tout accepter. »

      Alexis Prélat avait 22 ans quand il est mort électrocuté sur un chantier, le 5 juin 2020. Son père, Fabien, bout aujourd’hui d’une colère qui lui fait soulever des montagnes. Sans avocat, il a réussi à faire reconnaître par le pôle social du tribunal judiciaire de Périgueux la « faute inexcusable » de l’employeur.

      C’est-à-dire à démontrer que ce dernier avait connaissance du danger auquel Alexis a été exposé et n’a pas pris les mesures nécessaires pour l’en préserver. Le jeune homme est descendu dans une tranchée où était clairement identifiée, par un filet rouge, la présence d’un câble électrique. « Le préposé de l’employeur sous les ordres duquel travaillait la victime ce jour-là aurait dû avoir connaissance du danger », dit le jugement rendu le 11 mai 2023, qui liste des infractions relevées par l’inspecteur du travail, notamment l’« absence d’habilitation électrique » et l’« absence de transcription de l’ensemble des risques dans le document unique d’évaluation des risques ».

      Fabien Prélat relève également que, comme pour Alban Millot, le code APE de l’entreprise ne correspond pas à son activité réelle. Elle est identifiée comme « distribution de produits informatiques, bureautique et papeterie ». Il estime par ailleurs que le gérant, « de fait », n’est pas celui qui apparaît sur les documents officiels. « Bien sûr, ce n’est pas ça qui a directement causé la mort de mon fils. Mais si l’Etat contrôlait mieux les choses, ces gens-là n’auraient jamais pu s’installer », s’emporte-t-il.

      « Pas assez de contrôles de l’inspection du travail »

      Cheffe du pôle santé et sécurité à la Confédération de l’artisanat et des petites entreprises du bâtiment (Capeb), syndicat patronal, et elle-même gestionnaire d’une PME de charpente et couverture dans le Puy-de-Dôme, Cécile Beaudonnat s’indigne de ces pratiques. « Ce sont des gens contre qui on lutte, explique-t-elle. On les repère quand leurs clients nous contactent, dépités, quand ils comprennent que l’entreprise qui leur a mal installé des panneaux solaires n’avait ni les techniciens qualifiés, ni l’assurance professionnelle décennale », explique-t-elle.

      Normalement, pour s’installer, il y a l’obligation d’avoir une formation professionnelle qualifiante homologuée (au moins un CAP ou un BEP) ou de faire valider une expérience de trois ans sous la supervision d’un professionnel. « Malheureusement, il n’y a pas assez de contrôles de l’inspection du travail », déplore-t-elle. Avant d’ajouter : « Pour nous, c’est avant tout au chef d’entreprise d’être exemplaire, sur le port des équipements de protection, en faisant ce qu’il faut pour former ses salariés et en attaquant chaque chantier par une démarche de prévention des risques. Nous sommes une entreprise familiale, on n’a aucune envie d’avoir un jour un décès à annoncer à une famille. »

      « Il y a une bataille à mener pour faire changer les mentalités. Y compris chez les ouvriers, pour qu’ils ne se mettent pas en danger pour faire gagner plus d’argent à l’entreprise ! Quand on voit les dégâts que ça fait sur les familles… », s’attriste Denis Boutineau.

      Les deux parents d’Alexis Prélat ont obtenu, chacun, 32 000 euros en réparation de leur préjudice moral, sa sœur 18 000 euros. Ils espèrent maintenant un procès en correctionnelle. « La meilleure façon de changer les choses, c’est d’obtenir des condamnations exemplaires », estime Fabien Prélat.

      Fait rare, l’employeur d’Alban Millot a, lui, été condamné en correctionnelle à trente-six mois de prison dont dix-huit ferme. Il a fait appel du jugement. « Avant le procès, j’avais la haine contre ce type, confie Laurent Millot. L’audience et, surtout, une sanction telle que celle-là m’ont fait redescendre. »

    • Accidents du travail : quand les machines mettent en péril la vie des salariés
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/08/accidents-du-travail-quand-les-machines-tuent_6215360_3234.html

      Dans l’industrie, le BTP ou l’agriculture, les accidents liés à l’utilisation de machines comptent parmi les plus graves et les plus mortels. Employeurs, fabricants et responsables de la maintenance se renvoient la faute.

      Lorsqu’il prend son poste, ce lundi 27 décembre 2021, cela fait déjà plusieurs mois que Pierrick Duchêne, 51 ans, peste contre la machine qu’il utilise. Après deux décennies dans l’agroalimentaire, il est, depuis cinq ans, conducteur de presse automatisée dans une agence Point P. de fabrication de parpaings, à Geneston (Loire-Atlantique). Depuis un an et demi, la bonne ambiance au boulot, cette fraternité du travail en équipe qu’il chérit tant, s’est peu à peu délitée. L’atmosphère est devenue plus pesante. La cadence, toujours plus infernale. Les objectifs de #productivité sont en hausse. Et ces #machines, donc, « toujours en panne », fulmine-t-il souvent auprès de sa femme, Claudine.

      Ce jour-là, il ne devait même pas travailler. Mais parce qu’il était du genre à « toujours aider et dépanner », dit Claudine, il a accepté de rogner un peu sur ses vacances pour participer à la journée de maintenance et de nettoyage des machines. Pierrick Duchêne a demandé à son fils qu’il se tienne prêt. Dès la fin de sa journée, à 15 heures, ils devaient aller à la déchetterie. Mais, vers 11 h 30, il est retrouvé inconscient, en arrêt cardiorespiratoire, écrasé sous une rectifieuse à parpaing. Dépêché sur place, le service mobile d’urgence et de réanimation fait repartir son cœur, qui s’arrête à nouveau dans l’ambulance. Pierrick Duchêne meurt à l’hôpital, le 2 janvier 2022.

      Son histoire fait tragiquement écho à des centaines d’autres, se produisant chaque année en France. En 2022, la Caisse nationale d’assurance-maladie a recensé 738 accidents du travail mortels dans le secteur privé, selon son rapport annuel publié en décembre 2023. 1 % d’entre eux sont liés au « risque machine » – auquel on peut ajouter les accidents liés à la « manutention mécanique », de l’ordre de 1 % également. Selon l’Institut national de recherche et de sécurité (INRS), qui répertorie plus précisément les incidents de ce type, les machines sont mises en cause dans 10 % à 15 % des accidents du travail ayant entraîné un arrêt supérieur ou égal à quatre jours, ce qui représente environ 55 000 accidents. Dont une vingtaine sont mortels chaque année.

      « La peur suppure de l’usine parce que l’usine au niveau le plus élémentaire, le plus perceptible, menace en permanence les hommes qu’elle utilise (…), ce sont nos propres outils qui nous menacent à la moindre inattention, ce sont les engrenages de la chaîne qui nous rappellent brutalement à l’ordre », écrivait Robert Linhart, dans L’Etabli (Editions de Minuit), en 1978. L’industrie, et notamment la métallurgie, est un secteur d’activité dans lequel les risques pour la santé des ouvriers sont amplifiés par l’utilisation d’outils et de machines. Les employés agricoles, les salariés de la chimie ou les travailleurs du BTP sont aussi très exposés. Sur le terrain, les services de l’inspection du travail font régulièrement état de la présence de machines dangereuses.

      « Aveuglement dysfonctionnel »

      Si leur fréquence baisse depuis les années 1990, ces accidents sont souvent les plus graves, avec des blessures importantes, et les procédures qui s’ensuivent sont extrêmement longues. La responsabilité peut être difficile à établir, car plusieurs acteurs sont en jeu : l’employeur, le fabricant de la machine, l’installateur, la maintenance. La plupart du temps, chacun se renvoie la faute. Comme si la machine permettait à tous de se dédouaner.

      « Le risque zéro n’existe pas », entend-on régulièrement au sujet des accidents du travail, qui plus est quand une machine est en cause. Pourtant, le dysfonctionnement brutal que personne ne pouvait anticiper, qui accréditerait la thèse d’une infortune létale, n’est quasiment jamais à l’œuvre. Au contraire, les défaillances des machines sont souvent connues de tous. « Il peut s’installer une sorte d’aveuglement dysfonctionnel, analyse Jorge Munoz, maître de conférences en sociologie à l’université de Bretagne occidentale. Le problème est tellement récurrent qu’il en devient normal. »

      Une situation qui hante encore les jours et les nuits de Delphine et de Franck Marais, les parents de Ludovic. Personne ne pouvait soupçonner que ce jeune apprenti barman de 19 ans mettait sa vie en péril en servant pintes et cafés derrière le comptoir d’une brasserie réputée de Tours. Mais, le 16 décembre 2019, quelques minutes avant de rentrer chez lui, à 23 h 45, sa tête est percutée par le monte-charge des poubelles.

      La machine fonctionnait depuis des mois, voire plusieurs années, avec les grilles de protection ouvertes. « Quelqu’un a désactivé la sécurité qui empêchait le monte-charge de démarrer ainsi, grilles ouvertes », raconte Franck, le père. Qui ? Un salarié, pour gagner du temps ? L’employeur, pour que ses salariés aillent plus vite ? Le responsable de la maintenance, à la demande de l’employeur ? Un oubli du technicien ? « On ne saura probablement jamais, mais, finalement, là n’est pas la question, estime l’avocate des parents, Marion Ménage. Ce qui compte, c’est que l’entreprise savait qu’il fonctionnait grilles ouvertes et qu’elle n’a rien fait. »

      « Il se sentait en danger »

      Sécurité désactivée, maintenance non assurée, prévention déconsidérée… Les mêmes logiques, les mêmes légèretés face à des machines dangereuses reviennent méthodiquement dans les récits, soulignant le caractère systémique de ces événements dramatiques. « Les dispositifs de sécurité ralentissent parfois le processus de travail et empêchent de tenir la cadence, analyse Jorge Munoz. On peut être tenté de défaire le mécanisme et, donc, de mettre en péril l’utilisateur. » C’est cette logique mortifère qui a été fatale à Flavien Bérard. Le jeune homme de 27 ans était sondeur pour la Société de maintenance pétrolière (SMP), une entreprise de forage et d’entretien de puits pétroliers, gaziers et de géothermie.

      D’abord employé sur un site dans le Gard, où il s’épanouit malgré les conditions de travail difficiles, Flavien Bérard est transféré après une semaine à Villemareuil, en Seine-et-Marne. Il se retrouve sur un chantier de forage pétrolier dont est propriétaire SMP, « les puits du patron », comme on surnomme le lieu. Industrie lourde, à l’ancienne, rythme en trois-huit, rendements à tout prix… Flavien est confronté à un milieu dur et peu accueillant. « Il nous a vite dit que c’était difficile, se souvient sa mère, Fabienne. Le gaillard de 1,84 mètre, plus de 80 kilos, corps de rugbyman, est pourtant du genre à tenir physiquement.

      « Il nous a surtout dit qu’il se sentait en danger, que les machines étaient dangereuses et qu’il avait des doutes sur la sécurité », déplore aujourd’hui Fabienne Bérard. Ses inquiétudes s’avèrent prémonitoires. Alors qu’il avait décidé de ne pas poursuivre sur le site une fois sa mission arrivée à son terme, le 5 mars 2022, vers 4 heures, une pièce métallique d’une trentaine de kilos se détache d’une machine de forage et percute Flavien à la tête, une quinzaine de mètres plus bas. Il meurt le lendemain, à l’hôpital de la Pitié-Salpêtrière, à Paris.

      « On nous a tout de suite parlé d’une erreur humaine, avec une sécurité désactivée », explique le père de la victime, Laurent Bérard. Selon l’avocat des parents, Lionel Béthune de Moro, le rapport machine de l’expert judiciaire ferait état de « 373 non-conformités », dont 3 concerneraient le système responsable de l’accident. « Une sécurité essentielle a été désactivée, pour le rendement », ajoute-t-il. « On nous a même dit que ce n’était pas la première fois qu’il y avait un problème avec cette machine », renchérit Fabienne Bérard.

      Complexité des procédures

      Ces exemples posent la question de la #prévention et de la maintenance. « L’objectif, c’est que les entreprises voient celles-ci comme un profit et non comme un coût », affirme Jean-Christophe Blaise, expert de l’INRS. L’institut a justement pour mission de développer et de promouvoir une culture de prévention des accidents du travail au sein des entreprises. « Dans certains cas, elle peut être perçue comme quelque chose qui alourdit les processus, qui coûte plus cher, complète Jorge Munoz. Mais l’utilisation d’une machine nécessite une organisation spécifique. »

      D’autant qu’une politique de prévention se déploie sur le long terme et nécessite des actions régulières dans le temps. Les agents de l’INRS travaillent sur trois aspects pour éviter les drames autour des machines : les solutions techniques, l’organisation du travail et le levier humain (formation, compétences, etc.). « Un accident du travail est toujours multifactoriel et il faut agir sur tout à la fois, souligne M. Blaise. La clé, c’est la maintenance préventive : anticiper, prévoir plutôt que subir. »

      Les accidents du travail liés aux machines ont un autre point commun : la complexité des procédures qui s’ensuivent. Plus de deux ans après les faits, Claudine Duchêne ne connaît toujours pas les circonstances exactes de la mort de son mari. « Je sais juste que la machine n’aurait pas dû fonctionner en ce jour de maintenance, qu’il n’aurait pas dû y avoir d’électricité », assure-t-elle. L’enquête de la gendarmerie a été close en juillet 2022, celle de l’inspection du travail a été remise à la justice en juin 2023. Celle-ci révélerait « une faute accablante sur l’organisation de la journée de maintenance », précise Claudine Duchêne. Depuis, elle attend la décision du parquet de Nantes.

      Aux enquêtes de police et de l’inspection du travail peut s’ajouter une expertise judiciaire, ralentissant encore un peu plus la procédure, comme dans le cas de Flavien Bérard. « L’attente est longue et douloureuse pour les familles, souligne Me Béthune de Moro. Plus il y a d’intervenants, plus cela alourdit les choses, mais c’est toujours pour éclairer la situation, dans un souci de manifestation de la vérité. » La famille attend désormais d’éventuelles mises en examen et une ordonnance de renvoi dans l’année pour un procès en 2025.

      Après l’accident de Ludovic Marais, le monte-charge a été mis sous scellé jusqu’en mars 2023, une procédure indispensable mais qui allonge encore les délais. Cela a empêché l’intervention d’un expert judiciaire pendant plus de trois ans. « Le nouveau juge d’instruction a décidé de lever les scellés et une nouvelle expertise est en cours », confie Me Ménage. Le rapport pourrait arriver d’ici à l’été. Sachant que les avocats de la défense pourront éventuellement demander une contre-expertise. La brasserie, le patron, la tutrice du jeune apprenti, Otis (la société ayant installé le monte-charge) et un de ses techniciens chargé de la maintenance sont mis en examen pour « homicide involontaire par violation manifestement délibérée d’une obligation de sécurité et de prudence dans le cadre du travail ». Un procès pourrait avoir lieu fin 2024 ou en 2025. La fin d’un chemin de croix judiciaire pour qu’enfin le deuil soit possible.

    • Accidents du travail : les jeunes paient un lourd tribut
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/09/accidents-du-travail-les-jeunes-paient-un-lourd-tribut_6215566_3234.html

      Entre les entreprises peu scrupuleuses et la nécessité pour les jeunes de faire leurs preuves dans un monde du travail concurrentiel, les stagiaires, élèves de lycées professionnels ou apprentis sont les plus exposés aux risques professionnels.

      Quatre jours. L’unique expérience professionnelle de Jérémy Wasson n’aura pas duré plus longtemps. Le #stage d’observation de cet étudiant en première année à l’Ecole spéciale des travaux publics, du bâtiment et de l’industrie (ESTP) devait durer deux mois, dans l’entreprise Urbaine de travaux (filiale du géant du BTP Fayat). Le 28 mai 2020, il est envoyé seul sur le toit du chantier du centre de commandement unifié des lignes SNCF de l’Est parisien, à Pantin (Seine-Saint-Denis). A 13 h 30, il fait une chute en passant à travers une trémie de désenfumage – un trou laissé dans le sol en attente d’aménagement – mal protégée. Il meurt deux jours plus tard, à 21 ans.

      L’accident de Jérémy a laissé la grande école du bâtiment en état de choc. « C’est ce qui m’est arrivé de pire en trente ans d’enseignement supérieur », exprime Joël Cuny, directeur général de l’ESTP, directeur des formations à l’époque. La stupeur a laissé la place à de vibrants hommages. Un peu courts, toutefois… L’ESTP ne s’est pas portée partie civile au procès, regrette Frédéric Wasson, le père de Jérémy, qui souligne que « Fayat est l’entreprise marraine de la promo de [s]on fils… », ou que, dès 2021, Urbaine de travaux reprenait des dizaines de stagiaires issus de l’école.

      #Stagiaires, élèves de lycées professionnels en période de formation en milieu professionnel, #apprentis… Les jeunes paient un lourd tribut parmi les morts au travail : trente-six travailleurs de moins de 25 ans n’ont pas survécu à un accident du travail en 2022, selon le dernier bilan de la Caisse nationale d’assurance-maladie (CNAM). C’est 29 % de plus qu’en 2019. Et encore cela ne porte que sur les salariés du régime général. La CNAM souligne aussi que, par rapport aux autres accidents du travail, il s’agit davantage d’accidents « classiques, c’est-à-dire hors malaises et suicides », et d’accidents routiers.

      « Irresponsabilité totale »

      L’inexpérience de ces jeunes, quand elle n’est pas compensée par un accompagnement renforcé, explique en partie cette surmortalité. Quelque 15 % des accidents graves et mortels surviennent au cours des trois premiers mois suivant l’embauche, et plus de la moitié des salariés de moins de 25 ans morts au travail avaient moins d’un an d’ancienneté dans le poste.

      Tom Le Duault a, lui, perdu la vie le lundi 25 octobre 2021. Cet étudiant en BTS technico-commercial entame alors son quatrième contrat court dans l’abattoir de LDC Bretagne, à Lanfains (Côtes-d’Armor). Sa mère y travaille depuis vingt-neuf ans, et il espère ainsi mettre un peu d’argent de côté. Comme lors de ses premières expériences, il est « à la découpe », où il s’occupe de mettre en boîte les volailles. Ce matin-là, un salarié est absent. Tom doit le remplacer dans le réfrigérateur où sont stockées les caisses de viande. Il est censé y empiler les boîtes avec un gerbeur, un appareil de levage.

      « Sur les dernières images de vidéosurveillance, on le voit entrer à 9 h 53. Il n’est jamais ressorti, et personne ne s’est inquiété de son absence », regrette Isabelle Le Duault, sa mère. Il est découvert à 10 h 45, asphyxié sous deux caisses de cuisses de volaille. Elle apprend la mort de son fils par hasard. « J’ai vu qu’il y avait plein de monde dehors. Une fille m’a dit qu’il y avait un accident grave, elle m’a dit de demander si ce n’était pas mon fils au responsable. Il m’a demandé : “C’est Tom comment ?” C’était bien lui… »

      Les conclusions des enquêtes de gendarmerie et de l’inspection du travail ont vite écarté une éventuelle responsabilité du jeune homme. Jean-Claude Le Duault, son père, en veut à l’entreprise. « Tom n’a pas voulu les décevoir, vu que sa mère travaillait là. Mais on ne met pas un gamin de 18 ans seul dans un atelier, une heure, sans vérifier, sur un gerbeur. Il ne connaît pas les dangers, les règles de sécurité. C’est une irresponsabilité totale, à tous les étages. »

      Manquements

      Dans un monde du travail concurrentiel, les jeunes se doivent de faire leurs preuves. A quel prix ? Selon une enquête du Centre d’études et de recherches sur les qualifications publiée en 2020, 59 % des jeunes sortant de la voie professionnelle sont exposés à des risques de blessures ou d’accidents. Or, dans le même temps, ils n’ont pas la même connaissance de leurs droits. Toujours dans cette étude, 42 % déclaraient ne pas avoir reçu de formation ou d’informationsur la santé et la sécurité à l’arrivée sur leur poste. C’est le cas de Tom Le Duault, qui n’avait même pas de fiche de poste. Comme son utilisation du gerbeur n’était pas prévue, il avait été formé sur le tas.

      « Il avait déjà travaillé avec un appareil de levage lors de son précédent contrat, et il s’était déjà blessé à la cheville, ce qui avait causé trois semaines d’arrêt, fulmine Ralph Blindauer, avocat de la famille. Il a été formé par un autre intérimaire. C’était une formation à l’utilisation, pas à la sécurité ! »

      A l’absence d’encadrement et de formation s’ajoutent d’autres manquements, détaillés lors du procès de l’entreprise au pénal : l’appareil était défaillant, ce qui a vraisemblablement causé l’accident, et les salariés de LDC avaient l’habitude d’empiler les caisses sur trois niveaux au lieu de deux, faute de place dans la chambre froide, ce qui est contraire aux règles de sécurité.

      Le rôle du tuteur est crucial

      LDC Bretagne a été condamné, en mai 2023, à une amende de 300 000 euros, tandis que l’ancien directeur de l’#usine – devenu, entre-temps, « chargé de mission » au sein de l’entreprise – a été condamné à deux ans de prison avec sursis. Reconnaissant ses manquements, l’entreprise n’a pas fait appel, chose rare. La direction de cette grosse PME déclare que des mesures complémentaires ont été prises à la suite du décès de Tom, notamment un « plan de formation renforcé à la sécurité, des habilitations, une évaluation complète et approfondie des risques sur les différents postes, des audits par des cabinets indépendants ou le suivi d’indicateurs ».

      Un badge est désormais nécessaire pour se servir d’un gerbeur, ajoute Isabelle Le Duault. Elle a choisi de rester dans l’entreprise, mais à mi-temps. « Moi, je ne peux plus passer devant cette usine, ou même dans cette ville », renchérit son mari.

      En stage ou en apprentissage, le rôle du tuteur est crucial. Sur le chantier d’Urbaine de travaux, à Pantin, l’arrivée de Jérémy Wasson n’avait pas été anticipée. Le lundi matin, personne ne s’occupe de lui, car le chantier est en retard. Il ne reçoit rien d’autre qu’un livret d’accueil et un rendez-vous de quinze minutes pendant lequel on lui parle surtout des gestes barrières. « Jérémy s’est très vite interrogé sur la nature de son stage. Dès le premier jour, on lui a fait faire du marteau-piqueur, le mercredi soir, il trouvait ça fatigant et inintéressant. Ce soir-là, on a hésité à prévenir l’école… », raconte son père.

      Renforcer la formation à la sécurité

      La société Urbaine de travaux a été condamnée, en 2022, à 240 000 euros d’amende pour « homicide involontaire », et l’ingénieure en chef du chantier à 10 000 euros et deux ans de prison avec sursis. Cette décision du tribunal de Bobigny a confirmé les lourdes conclusions de l’inspection du travail, notamment la violation délibérée d’une obligation de #sécurité, l’absence d’encadrement et de formation de Jérémy et l’absence de #sécurisation de la trémie. L’entreprise a fait appel.

      Face à la violence de ces récits, qui concernent parfois des mineurs, le sujet a été érigé en axe prioritaire dans le plan santé au travail du gouvernement. Mais le choix du ministère du travail de publier deux mémentos qui mettent jeunes et entreprises sur le même plan, les invitant à « respecter toutes les consignes », peut étonner.

      Les écoles et centres de formation ont aussi un rôle à jouer pour renforcer la formation à la sécurité. En 2022, la CNAM a recensé plus de 1 million d’élèves et apprentis (CAP et bac professionnel) ayant reçu un enseignement spécifique en santé et sécurité au travail.

      Faciliter la mise en situation des adolescents

      A la suite du décès de Jérémy, l’ESTP a renforcé les enseignements – déjà obligatoires – sur la sécurité. Un élève ne peut se rendre en stage sans avoir obtenu une certification. « En cas de signalement, on fait un point avec les RH de l’entreprise, et si ça ne se résout pas, nous n’avons pas de scrupules à arrêter le stage. Mais je ne remets pas en cause la volonté des entreprises de créer un environnement de sécurité pour accueillir nos élèves », déclare Joël Cuny.

      Un argument difficile à entendre pour la famille de Jérémy Wasson… Car les #entreprises restent les premières responsables de la santé des jeunes sous leur responsabilité, comme du reste de leurs salariés. Le nombre d’apprentis a explosé ces dernières années, la réforme du lycée professionnel souhaite faciliter la mise en situation des adolescents.

      Par ailleurs, le gouvernement a annoncé l’obligation pour les élèves de 2de générale et technologique, dès 2024, d’effectuer un stage en entreprise ou en association de deux semaines, semblable au stage de 3e. La question ne s’est jamais autant posée : les employeurs mettront-ils les moyens pour protéger tous ces jeunes ?

      #apprentissage

    • Avec la sous-traitance, des accidents du travail en cascade, Anne Rodier
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/10/avec-la-sous-traitance-des-accidents-du-travail-en-cascade_6215798_3234.html

      Pression économique des donneurs d’ordre, délais resserrés, manque de prévention… Les salariés des entreprises en sous-traitance, en particulier sur les chantiers et dans le nettoyage, sont plus exposés aux accidents du travail. Surtout lorsqu’ils sont #sans-papiers.

      https://justpaste.it/axscq

      #sous-traitance

  • #Productivisme et destruction de l’#environnement : #FNSEA et #gouvernement marchent sur la tête

    Répondre à la #détresse des #agriculteurs et agricultrices est compatible avec le respect de l’environnement et de la #santé_publique, expliquent, dans cette tribune à « l’Obs », les Scientifiques en rébellion, à condition de rejeter les mesures productivistes et rétrogrades du duo FNSEA-gouvernement.

    La #crise de l’agriculture brasse croyances, savoirs, opinions, émotions. Elle ne peut laisser quiconque insensible tant elle renvoie à l’un de nos #besoins_fondamentaux – se nourrir – et témoigne du #désarroi profond d’une partie de nos concitoyen·nes qui travaillent pour satisfaire ce besoin. Reconnaître la #souffrance et le désarroi du #monde_agricole n’empêche pas d’examiner les faits et de tenter de démêler les #responsabilités dans la situation actuelle. Une partie de son #traitement_médiatique tend à faire croire que les agriculteurs et agricultrices parleraient d’une seule voix, celle du président agro-businessman de la FNSEA #Arnaud_Rousseau. Ce directeur de multinationale, administrateur de holding, partage-t-il vraiment la vie de celles et ceux qui ne parviennent plus à gagner la leur par le travail de la terre ? Est-ce que les agriculteur·ices formeraient un corps uniforme, qui valoriserait le productivisme au mépris des #enjeux_environnementaux qu’ils et elles ne comprendraient soi-disant pas ? Tout cela est difficile à croire.

    Ce que la science documente et analyse invariablement, en complément des savoirs et des observations de nombre d’agriculteur·ices, c’est que le #modèle_agricole industriel et productiviste conduit à une #catastrophe sociale et environnementale. Que ce modèle concurrence dangereusement les #alternatives écologiquement et socialement viables. Que cette agriculture ne s’adaptera pas indéfiniment à un environnement profondément dégradé. Qu’elle ne s’adaptera pas à un #réchauffement_climatique de +4 °C pour la France et une ressource en #eau fortement diminuée, pas plus qu’à une disparition des #insectes_pollinisateurs.

    Actuellement, comme le rappelle le Haut Conseil pour le Climat (HCC), l’agriculture représente le deuxième secteur d’émissions de #gaz_à_effet_de_serre, avec 18 % du total français, derrière les transports. La moitié de ces émissions agricoles (en équivalent CO2) provient de l’#élevage_bovin à cause du #méthane produit par leur digestion, 14 % des #engrais_minéraux qui libèrent du #protoxyde_d’azote et 13 % de l’ensemble des #moteurs, #engins et #chaudières_agricoles. Le HCC rappelle aussi que la France s’est engagée lors de la COP26 à baisser de 30 % ses émissions de méthane d’ici à 2030, pour limiter le réchauffement climatique. L’agriculture, bien que répondant à un besoin fondamental, doit aussi revoir son modèle dominant pour répondre aux enjeux climatiques. De ce point de vue, ce qu’indique la science, c’est que, si l’on souhaite faire notre part dans le respect de l’accord de Paris, la consommation de #viande et de #produits_laitiers doit diminuer en France. Mais la solidarité avec nos agriculteur.ices ainsi que l’objectif légitime de souveraineté et #résilience_alimentaire nous indiquent que ce sont les importations et les élevages intensifs de ruminants qui devraient diminuer en premier.

    Côté #biodiversité, la littérature scientifique montre que l’usage des #pesticides est la deuxième cause de l’effondrement des populations d’#insectes, qui atteint 80 % dans certaines régions françaises. Les #oiseaux sont en déclin global de 25 % en quarante ans, mais ce chiffre bondit à 60 % en milieux agricoles intensifs : le printemps est devenu particulièrement silencieux dans certains champs…

    D’autres voies sont possibles

    Le paradoxe est que ces bouleversements environnementaux menacent particulièrement les agriculteur·ices, pour au moins trois raisons bien identifiées. Tout d’abord environnementale, à cause du manque d’eau, de la dégradation des sols, des événements météorologiques extrêmes (incendies ou grêles), ou du déclin des insectes pollinisateurs, qui se traduisent par une baisse de production. Sanitaires, ensuite : par leur exposition aux #produits_phytosanitaires, ils et elles ont plus de risque de développer des #cancers (myélome multiple, lymphome) et des #maladies_dégénératives. Financière enfin, avec l’interminable fuite en avant du #surendettement, provoqué par la nécessité d’actualiser un équipement toujours plus performant et d’acheter des #intrants pour pallier les baisses de production engendrées par la dégradation environnementale.

    Depuis des décennies, les #traités_de_libre-échange et la compétition intra-européenne ont privé la grande majorité des agriculteur·ices de leur #autonomie, dans un cercle vicieux aux répercussions sociales tragiques pouvant mener au #suicide. Si la FNSEA, les #JA, ou la #Coordination_rurale réclament une forme de #protectionnisme_agricole, d’autres de leurs revendications portent en revanche sur une baisse des #contraintes_environnementales et sanitaires qui font porter le risque de la poursuite d’un modèle délétère sur le long terme. Ce sont justement ces revendications que le gouvernement a satisfaites avec, en particulier, la « suspension » du #plan_Ecophyto, accueilli par un satisfecit de ces trois organisations syndicales rappelant immédiatement « leurs » agriculteurs à la ferme. Seule la #Confédération_paysanne refuse ce compromis construit au détriment de l’#écologie.

    Pourtant, des pratiques et des modèles alternatifs existent, réduisant significativement les émissions de gaz à effet de serre et préservant la biodiversité ; ils sont déjà mis en œuvre par des agriculteur·ices qui prouvent chaque jour que d’autres voies sont possibles. Mais ces alternatives ont besoin d’une réorientation des #politiques_publiques (qui contribuent aujourd’hui pour 80 % au #revenu_agricole). Des propositions cohérentes de politiques publiques répondant à des enjeux clés (#rémunération digne des agriculteur·ices non soumis aux trusts’de la grande distribution, souveraineté alimentaire, considérations climatiques et protection de la biodiversité) existent, comme les propositions relevant de l’#agroécologie, qu’elles émanent du Haut Conseil pour le Climat, de la fédération associative Pour une autre PAC, de l’IDDRI, ou encore de la prospective INRAE de 2023 : baisse de l’#élevage_industriel et du cheptel notamment bovin avec soutien à l’#élevage_extensif à l’herbe, généralisation des pratiques agro-écologiques et biologiques basées sur la valorisation de la biodiversité (cultures associées, #agro-foresterie, restauration des #haies favorisant la maîtrise des bio-agresseurs) et arrêt des #pesticides_chimiques_de_synthèse. Ces changements de pratiques doivent être accompagnés de mesures économiques et politiques permettant d’assurer le #revenu des agriculteur·ices, leur #accès_à_la_terre et leur #formation, en cohérence avec ce que proposent des syndicats, des associations ou des réseaux (Confédération paysanne, Atelier paysan, Terre de liens, Fédérations nationale et régionales d’Agriculture biologique, Réseau salariat, …).

    Nous savons donc que les politiques qui maintiennent le #modèle_agro-industriel sous perfusion ne font qu’empirer les choses et qu’une réorientation complète est nécessaire et possible pour la #survie, la #dignité, la #santé et l’#emploi des agriculteur·ices. Nombre d’enquêtes sociologiques indiquent qu’une bonne partie d’entre elles et eux le savent très bien, et que leur détresse témoigne aussi de ce #conflit_interne entre le modèle productiviste qui les emprisonne et la nécessité de préserver l’environnement.

    Une #convention_citoyenne

    Si le gouvernement convient que « les premières victimes du dérèglement climatique sont les agriculteurs », les mesures prises démontrent que la priorité gouvernementale est de sanctuariser le modèle agro-industriel. La remise en cause du plan Ecophyto, et la reprise en main de l’#Anses notamment, sont en totale contradiction avec l’urgence de s’attaquer à la dégradation environnementale couplée à celle des #conditions_de_vie et de travail des agriculteur·ices. Nous appelons les citoyen·nes et les agriculteur·rices à soutenir les changements de politique qui iraient réellement dans l’intérêt général, du climat, de la biodiversité. Nous rappelons que le sujet de l’agriculture et de l’#alimentation est d’une redoutable complexité, et qu’identifier les mesures les plus pertinentes devrait être réalisé collectivement et démocratiquement. Ces mesures devraient privilégier l’intérêt général et à long-terme, par exemple dans le cadre de conventions citoyennes dont les conclusions seraient réellement traduites dans la législation, a contrario a contrario de la précédente convention citoyenne pour le climat.

    https://www.nouvelobs.com/opinions/20240203.OBS84041/tribune-productivisme-et-destruction-de-l-environnement-fnsea-et-gouverne
    #tribune #scientifiques_en_rébellion #agriculture #souveraineté_alimentaire #industrie_agro-alimentaire