• Lego Star Wars: The Skywalker Saga has led to extensive crunch at development studio TT Games - Polygon
    https://www.polygon.com/features/22891555/lego-star-wars-the-skywalker-saga-has-led-to-extensive-crunch-at-tt-games

    late 2017, development studio TT Games began work on Lego Star Wars: The Skywalker Saga at a time when dozens inside the company were at odds with management. Citing frustration over tight development schedules, the company’s crunch culture, and outdated development tools, more than 20 current and former TT Games employees tell Polygon that calls for change over the years had largely been ignored.

    More TT Games Employees Speak Out After Skywalker Saga Report
    https://www.fanbyte.com/?p=124963

    In late January, roughly 30 current and former TT Games employees spoke anonymously to Polygon (and myself) about the culture of crunch and mismanagement at both its Knutsford and Wilmslow offices. The final report highlighted instances of premeditated crunch, mishandled projects, and allegations of sexual harassment that occurred under the company’s former management, in addition to complaints of micro-management under the new leadership that had arrived from Sony. Former employees claimed these factors were responsible for a large turnover of staff over the last few years, with at least forty people leaving the two studios since the beginning of 2021, though that number has since grown considerably.

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  • COLONIALISMO. In Libia la strategia italiana della “terra bruciata”

    Non appena l’impiego operativo dell’aereo come fattore preponderante di superiorità nei conflitti venne teorizzato da #Giulio_Douhet nel 1909, gli italiani divennero i primi a livello mondiale ad utilizzare questa arma bellica durante la Guerra italo-turca della #Campagna_di_Libia.

    ll 1º novembre 1911 il sottotenente #Giulio_Gavotti eseguì da un velivolo in volo il primo bombardamento aereo della storia, volando a bassa quota su un accampamento turco ad #Ain_Zara e lanciando tre bombe a mano.

    Pochi anni dopo entrarono in servizio nuovi aerei, tecnicamente più capaci di svolgere il ruolo offensivo al quale erano stati predisposti e le azioni assunsero l’aspetto di un’inarrestabile escalation militare.

    Tra il mese di aprile e l’agosto del 1917 furono eseguite contro le oasi di Zanzour e Zavia, un centinaio di azioni con il lancio di 1.270 chilogrammi di liquido incendiario e 3.600 chili di bombe.

    Dal 1924 al 1926 gli aerei ebbero l’ordine di alzarsi in volo per bombardare tutto ciò che si muoveva nelle oasi non controllate dalle truppe italiane.

    Dal novembre 1929 alle ultime azioni del maggio 1930, l’aviazione in Cirenaica eseguì, secondo fonti ufficiali, ben 1.605 ore di volo bellico lanciando 43.500 tonnellate di bombe e sparando diecimila colpi di mitragliatrice.

    La strategia aerea e la politica della terra bruciata, spinse migliaia di uomini, donne e bambini terrorizzati a lasciare la Libia, chi verso la Tunisia e l’Algeria, chi in direzione del Ciad o dell’Egitto e i bombardamenti diventarono sempre più violenti, scientifici e sperimentali.

    Cirenaica pacificata, uno dei libri con i quali il generale Graziani volle giustificare la sua azione repressiva e rispondere alle accuse di genocidio, c’è un breve capitolo sul bombardamento di Taizerbo, una delle roccaforti della resistenza anti italiana capeggiata dall’imam Omar el Mukhtar, avvenuto il 31 luglio 1930, sei mesi dopo l’esortazione di Pietro Badoglio all’uso dell’iprite: “Per rappresaglia, ed in considerazione che Taizerbo era diventata la vera base di partenza dei nuclei razziatori il comando di aviazione fu incaricato di riconoscere l’oasi e – se del caso – bombardarla. Dopo un tentativo effettuato il giorno 30 -non riuscito, per quanto gli aeroplani fossero già in vista di Taizerbo, a causa di irregolare funzionamento del motore di un apparecchio, la ricognizione venne eseguita il giorno successivo e brillantemente portata a termine. Quattro apparecchi Ro, al comando del ten.col. Lordi, partirono da Giacolo alle ore 4.30 rientrando alla base alle ore 10.00 dopo aver raggiunto l’obiettivo e constatato la presenza di molte persone nonché un agglomerato di tende. Fu effettuato il bombardamento con circa una tonnellata di esplosivo e vennero eseguite fotografie della zona. Un indigeno, facente parte di un nucleo di razziatori, catturato pochi giorni dopo il bombardamento, asserì che le perdite subite dalla popolazione erano state sensibili, e più grande ancora il panico”.

    Vincenzo Lioy, nel suo libro sul ruolo dell’aviazione in Libia (Gloria senza allori, Associazione Culturale Aeronautica), ha aggiunto un’agghiacciante rapporto firmato dal tenente colonnello dell’Aeronautica Roberto Lordi, comandante dell’aviazione della Cirenaica (rapporto che Graziani inviò al Ministero delle colonie il 17 agosto) nel quale si apprende che i quattro apparecchi Ro erano armati con 24 bombe da 21 chili ad iprite, 12 bombe da 12 chili e da 320 bombe da 2 chili, e che “(…) in una specie di vasta conca s’incontra il gruppo delle oasi di Taizerbo. Le palme, che non sono molto numerose, sono sparpagliate su una vasta zona cespugliosa. Dove le palme sono più fitte si trovano poche casette. In prossimità di queste, piccoli giardini verdi, che in tutta la zona sono abbastanza numerosi; il che fa supporre che le oasi siano abitate da numerosa gente. Fra i vari piccoli agglomerati di case vengono avvistate una decina di tende molto più grandi delle normali e in prossimità di queste numerose persone. Poco bestiame in tutta la conca. II bombardamento venne eseguito in fila indiana passando sull’oasi di Giululat e di el Uadi e poscia sulle tende, con risultato visibilmente efficace”.

    II primo dicembre dello stesso anno il tenente colonnello Lordi inviò a Roma copia delle notizie sugli effetti del bombardamento a gas effettuato quel 31 luglio sulle oasi di Taizerbo “ottenute da interrogatorio di un indigeno ribelle proveniente da Cufra e catturato giorni or sono”.

    È una testimonianza raccapricciante raccolta materialmente dal comandante della Tenenza dei carabinieri reali di el Agheila: “Come da incarico avuto dal signor comandante l’aviazione della Cirenaica, ieri ho interrogato il ribelle Mohammed abu Alì Zueia, di Cufra, circa gli effetti prodotti dal bombardamento a gas effettuato a Taizerbo. II predetto, proveniente da Cufra, arrivò a Taizerbo parecchi giorni dopo il bombardamento, seppe che quali conseguenze immediate vi sono quattro morti. Moltissimi infermi invece vide colpiti dai gas. Egli ne vide diversi che presentavano il loro corpo ricoperto di piaghe come provocate da forti bruciature. Riesce a specificare che in un primo tempo il corpo dei colpiti veniva ricoperto da vasti gonfiori, che dopo qualche giorno si rompevano con fuoruscita di liquido incolore. Rimaneva così la carne viva priva di pelle, piagata. Riferisce ancora che un indigeno subì la stessa sorte per aver toccato, parecchi giorni dopo il bombardamento, una bomba inesplosa, e rimasero così piagate non solo le sue mani, ma tutte le altre parti del corpo ove le mani infette si posavano”.

    L’uso dell’iprite, che doveva diventare un preciso sistema di massacro della popolazione civile in Etiopia qualche anno più tardi, fu certamente una scelta sia militare che politica così come i bombardamenti dovevano corrispondere a scelte di colonizzazione ben precise e sistematiche di quella che Gaetano Salvemini, quando ebbe inizio l’avventura coloniale italiana in Libia definì “Un’immensa voragine di sabbia”:

    Benito Mussolini volle che fosse il gerarca Italo Balbo ad occuparsene dopo averlo sollevato dall’incarico di Ministro dell’Aeronautica del Regno d’Italia e inviato in qualità di Governatore nel 1934.

    Balbo dichiarò che avrebbe seguito le gloriose orme dei suoi predecessori e avviò una campagna nazionale che voleva portare due milioni di emigranti sulla Quarta Sponda Italiana del Mediterraneo.

    Ne arrivarono soltanto 31mila, ma furono un numero sufficiente da trincerare dietro un muro militare, costruito nel 1931 in Cirenaica, per contrastare la resistenza delle tribù beduine degli indipendentisti libici.

    Quel muro, il muro italiano di Giarabub, è tuttora presente e in funzione come barriera anti-immigrazione: una doppia linea di recinzione metallica lunga 270 chilometri, larga quattro metri, alta tre, visibilmente malandata ma resa insuperabile da chilometri di matasse di filo spinato che si srotolano dalle regioni a ridosso del porto di Bardia, lungo le sterpaglie desolate della Marmarica, fino a perdersi nel Grande Mare di Sabbia del Deserto Libico.

    Questa grande opera venne commissionata alla Società Italiana Costruzioni e Lavori Pubblici di Roma, che la realizzò in sei mesi, dal 15 aprile al 5 settembre 1931, ad un costo complessivo di circa venti milioni di lire, impegnando nella costruzione 2.500 indigeni sorvegliati da 1.200 soldati e carabinieri, lungo un percorso totalmente privo di strade e di risorse idriche.

    Il reticolato di filo spinato è sostenuto da paletti di ferro con base in calcestruzzo, vigilato dai ruderi fatiscenti di tre ridotte e sei ridottini; lungo il suo percorso vennero costruiti tre campi d’aviazione, una linea telefonica, 270 milioni di paletti di ferro e ventimila quintali di cemento.

    Il compito di sorveglianza e controllo è sempre stato garantito dall’innesco di migliaia di mine antiuomo, ma per un certo periodo fu oggetto di ricognizioni aeree audacemente condotte, oltre che dai piloti dell’Aeronautica Militare, anche e direttamente dal loro capo supremo e Maresciallo dell’Aria Italo Balbo a bordo di veivoli derivati dai trimotori Savoia Marchetti da lui impiegati nelle transvolate atlantiche e che divennero caccia bombardieri siluranti chiamati Sparvieri.

    Nei sei anni che Balbo visse e volò in Libia, lo Sparviero abbatté tutti i record e tutti i primati di volo civile, velocità, trasporto, durata, distanza, poi il salto di qualità e da civile divenne aereo militare: nella versione S.79K, l’impiego operativo di questo modello avvenne con l’intervento italiano nella guerra civile spagnola e il 26 aprile 1937, tre S.M.79 dell’Aviazione Legionaria presero parte al bombardamento della cittadina basca di Guernica, un’incursione aerea compiuta in cooperazione con la Legione Condor nazista, che colpì nottetempo la popolazione civile inerme e ispirò il celeberrimo dipinto di denuncia di Pablo Picasso.

    Sette anni prima era alla guida di grandi imprese di voli transatlantici: il primo nel 1930 da Orbetello a Rio de Janeiro; il secondo tre anni dopo, da Orbetello a Chicago. Questa seconda crociera, organizzata per celebrare il decennale della Regia Aeronautica Militare Italiana nell’ambito dell’Esposizione Universale Century of Progress che si tenne a Chicago tra il 1933 e il 1934, lo aveva coperto di gloria.

    Il governatore dell’Illinois e il sindaco della città di Chicago riservarono ai trasvolatori un’accoglienza trionfale: a Balbo venne intitolata una strada, tutt’oggi esistente, e i Sioux presenti all’Esposizione lo nominarono capo indiano, con il nome di Capo Aquila Volante. Il volo di ritorno proseguì per New York, dove il presidente Roosevelt organizzò, in onore agli equipaggi della flotta di 25 idrotransvolanti italiani, una grande street parade.

    Gli esaltatori delle trasvolate atlantiche non mancano di citare ogni tipo di manifestazione organizzata a Chicago in onore del grande pilota, ma omettono sempre di citare lo striscione che pare recitasse “Balbo, don Minzoni ti saluta” e che commemorava l’onore da lui acquisito come pioniere dello squadrismo fascista.

    Là, in Italia, partendo dalle valli del delta padano, aveva visto portare a compimento grandi opere di bonifiche che strapparono alle acque nuove terre da coltivare e nuove forme di diritti sindacali da reprimere grazie all’”esaltazione della violenza come il metodo più rapido e definitivo per raggiungere il fine rivoluzionario” (Italo Balbo, Diario 1922, Mondadori).

    Sempre là, nella bassa provincia Ferrarese, aveva inaugurato la strategia criminale delle esecuzioni mirate come responsabile diretto, morale e politico dei due omicidi premeditati, da lui considerati ’bastonate di stile’, che significavano frattura del cranio, somministrate al sindacalista Natale Gaiba e al sacerdote don Giovanni Minzoni.

    Natale Gaiba venne assassinato per vendicare l’offesa, compiuta quando il sindacalista argentano era assessore del Comune di Argenta, di aver fatto sequestrare l’ammasso di grano del Molino Moretti, imboscato illegalmente per farne salire il prezzo, venisse strappato ai latifondisti agrari e restituito al popolo che lo aveva prodotto coltivando la terra, ridotto alla fame.

    Don Minzoni, parroco di Argenta, venne assassinato dai fascisti locali: Balbo non volle ammettere che fossero stati individuati e arrestati i colpevoli e intervenne in molti modi, anche con la costante presenza in aula, per condizionare lo svolgimento e il risultato sia delle indagini che del processo penale, garantendo l’impunità del crimine.

    Qui, in Libia, Italo Balbo non riuscì a trovare, nemmeno con la forza, l’acqua sufficiente da donare alla terra di quei pochi coloni veneti e della bassa ferrarese che, sotto l’enfasi propagandistica del regime, lo avevano raggiunto, si erano rimboccati le maniche e si erano illusi di rendere verde il deserto “liberato”.

    Fu sempre qui, in Libia, che italo Balbo, per tragica ironia della sorte o per fatale coincidenza, precipitò realmente in una voragine di sabbia e trovò la morte, colpito dal fuoco amico della artiglieria contraerea italiana nei cieli di Tobruk il 28 giugno 1940. Evidentemente mentre lui seguiva le orme dei grandi colonizzatori italiani, qualcos’altro stava seguendo le sue tracce, poiché la responsabilità storica di quanto avvenuto per sbaglio, come tragico errore e incidente di guerra, venne assunta in prima persona da un capo pezzo del 202 Reggimento di Artiglieria, che ammise di aver sparato raffiche di artiglieria contraerea all’indirizzo del trimotore Savoia Marchetti 79 pilotato dal suo comandante supremo nonché concittadino Italo Balbo, essendo significativamente pure lui, Claudio Marzola, 20enne, un ferrarese purosangue.

    I colpi letali partirono da una delle tre mitragliatrici da 20 mm in dotazione a un Incrociatore Corazzato della Marina Regia che permaneva in rada semiaffondato e a scopo difensivo antiaereo, varato con lo stesso nome del santo patrono della città di Ferrara: San Giorgio.

    https://pagineesteri.it/2021/05/27/africa/colonialismo-in-libia-la-strategia-italiana-della-terra-bruciata
    #colonialisme #Italie #terre_brûlée #colonisation #histoire_coloniale #Italie_coloniale #colonialisme_italien #aviation #Zanzour #Zavia #oasis #bombardement #Cirenaica #Graziani #Rodolfo_Graziani #Taizerbo #iprite #Pietro_Badoglio #Badoglio #Roberto_Lordi #Italo_Balbo #fascisme #Giarabub #Balbo #Legione_Condor #violence #Natale_Gaiba #Giovanni_Minzone #don_Minzoni #Claudio_Marzola

    Un mur construit à l’époque coloniale et encore debout aujourd’hui et utilisé comme barrière anti-migrants :

    Quel muro, il muro italiano di Giarabub, è tuttora presente e in funzione come barriera anti-immigrazione: una doppia linea di recinzione metallica lunga 270 chilometri, larga quattro metri, alta tre, visibilmente malandata ma resa insuperabile da chilometri di matasse di filo spinato che si srotolano dalle regioni a ridosso del porto di Bardia, lungo le sterpaglie desolate della Marmarica, fino a perdersi nel Grande Mare di Sabbia del Deserto Libico.
    Questa grande opera venne commissionata alla Società Italiana Costruzioni e Lavori Pubblici di Roma, che la realizzò in sei mesi, dal 15 aprile al 5 settembre 1931, ad un costo complessivo di circa venti milioni di lire, impegnando nella costruzione 2.500 indigeni sorvegliati da 1.200 soldati e carabinieri, lungo un percorso totalmente privo di strade e di risorse idriche.
    Il reticolato di filo spinato è sostenuto da paletti di ferro con base in calcestruzzo, vigilato dai ruderi fatiscenti di tre ridotte e sei ridottini; lungo il suo percorso vennero costruiti tre campi d’aviazione, una linea telefonica, 270 milioni di paletti di ferro e ventimila quintali di cemento.

    #murs #barrières_frontalières

    –-

    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    • #Balbo street à #Chicago —> une rue est encore dédiée à #Italo_Balbo :

      Nei sei anni che Balbo visse e volò in Libia, lo Sparviero abbatté tutti i record e tutti i primati di volo civile, velocità, trasporto, durata, distanza, poi il salto di qualità e da civile divenne aereo militare: nella versione S.79K, l’impiego operativo di questo modello avvenne con l’intervento italiano nella guerra civile spagnola e il 26 aprile 1937, tre S.M.79 dell’Aviazione Legionaria presero parte al bombardamento della cittadina basca di Guernica, un’incursione aerea compiuta in cooperazione con la Legione Condor nazista, che colpì nottetempo la popolazione civile inerme e ispirò il celeberrimo dipinto di denuncia di Pablo Picasso.

      Sette anni prima era alla guida di grandi imprese di voli transatlantici: il primo nel 1930 da Orbetello a Rio de Janeiro; il secondo tre anni dopo, da Orbetello a Chicago. Questa seconda crociera, organizzata per celebrare il decennale della Regia Aeronautica Militare Italiana nell’ambito dell’Esposizione Universale Century of Progress che si tenne a Chicago tra il 1933 e il 1934, lo aveva coperto di gloria.

      Il governatore dell’Illinois e il sindaco della città di Chicago riservarono ai trasvolatori un’accoglienza trionfale: a Balbo venne intitolata una strada, tutt’oggi esistente, e i Sioux presenti all’Esposizione lo nominarono capo indiano, con il nome di Capo Aquila Volante. Il volo di ritorno proseguì per New York, dove il presidente Roosevelt organizzò, in onore agli equipaggi della flotta di 25 idrotransvolanti italiani, una grande street parade.


      https://www.openstreetmap.org/search?query=balbo%20street%20chicago#map=17/41.87445/-87.62088

      #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale

      Et un #monument :
      Balbo Monument

      The Balbo Monument consists of a column that is approximately 2,000 years old dating from between 117 and 38 BC and a contemporary stone base. It was taken from an ancient port town outside of Rome by Benito Mussolini and given to the city of Chicago in 1933 to honor the trans-Atlantic flight led by Italo Balbo to the #Century_of_Progress_Worlds_Fair.


      https://en.wikipedia.org/wiki/Balbo_Monument

      #statue

      ping @cede

  • Wolfenstein 3D secrets revealed by John Romero in lengthy post-mortem chat | Ars Technica
    https://arstechnica.com/gaming/2022/03/achtung-john-romero-exposes-wolfenstein-3ds-history-in-gdc-post-mortem

    SAN FRANCISCO—While the game series Doom and Quake have been heavily chronicled in convention panels and books, the same can’t be said for id Software’s legendary precursor Wolfenstein 3D. One of its key figures, coder and level designer John Romero, appeared at this year’s Game Developers Conference to chronicle how this six-month, six-person project built the crucial bridge between the company’s Commander Keen-dominated past and FPS-revolution future.

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #culture #histoire #gdc #game_developers_conference #salon #conférence #témoignage #post_mortem #john_romero #jeu_vidéo_wolfenstein_3d #jeu_vidéo_doom #jeu_vidéo_quake #jeu_vidéo_commander_keen #id_software #année_1991 #année_1992 #années_1990 #adrian_carmack #jeu_vidéo_catacomb #jeu_vidéo_hovertank #apple_iie #année_1981 #jeu_vidéo_castle_wolfenstein #apogee #muse_software #kevin_cloud #silas_warner #année_1984 #années_1980 #john_carmack #roberta_williams #jeu_vidéo_king_s_quest #ken_williams #sierra #warren_schwader #développement_informatique #kevin_cloud #jeu_vidéo_fatal_fury #jeu_vidéo_street_fighter_ii #pc #super_nintendo #miday #jeu_vidéo_doom #jeu_vidéo_doom_64 #fps #first_person_shooter

  • Société du travail et gouffre énergétique, par Sandrine Aumercier
    http://www.palim-psao.fr/2022/03/societe-du-travail-et-gouffre-energetique-par-sandrine-aumercier.html

    Mais comment se fait-il qu’une société plus techniquement avancée que l’Europe au Moyen Âge, telle la Chine, n’ait pas initié de révolution industrielle ? Les historiens débattent depuis longtemps pour expliquer ce phénomène, mais rares sont ceux qui font remarquer que cette question ethnocentrique suppose de faire de l’histoire européenne la mesure de toutes les autres, qui sont alors interprétées comme déficitaires [4]. L´Europe est en fait le lieu d’apparition contingent d’une forme sociale sans précédent, ce qui ne veut pas dire qu’elle était inéluctable. Elle ne diffère pas des autres par sa moralité ou son immoralité (la majorité des autres sociétés étant également dominatrices, exploiteuses et inégalitaires), ni par une ingéniosité exceptionnelle (puisque bien des techniques que l’Europe croit avoir inventées sont en fait attestées ailleurs), mais par rapport aux buts collectifs qu’elle s’est donnés. La multiplication abstraite de l’argent devient le moteur de la vie sociale, chose impossible sans l’instauration du travail comme médiation universelle, agrégeant des quantités toujours plus importantes de forces productives en vue de créer de la valeur. Ce processus se déroule sur un marché de concurrence auquel plus personne ne peut échapper une fois que le capitalisme est développé ; chacun se trouve alors dans la position des coureurs athlétiques présentée au début : chacun est obligé de courir et de glorifier cette course, le plus souvent sans savoir pourquoi.

    #Sandrine_Aumercier #critique_de_la_valeur #wertkritik #énergie #capitalisme

    • C’est pourtant ce que propose la totalité du spectre politique et idéologique actuel : libéraux techno-optimistes, écologistes socio-démocrates, ou écosocialistes néo-léninistes convertis aux « énergies renouvelables ». Même si peu en conviennent, tous ont déjà indirectement adopté le fonds de commerce du transhumanisme libertarien, qui est la reprogrammation intégrale du monde physique dans l’espoir de maîtriser l’entropie de la civilisation dite thermo-industrielle. Or les impasses de cette civilisation sont insurmontables sans une « rupture ontologique » (#Robert_Kurz) avec ses catégories fondamentales.

      Il fallait vraiment un Robert Kurz pour nous appeler à une « rupture ontologique » avec le technocapitalisme :

      Dans l’utopie capitaliste une fois réalisée, le fait de faire valoir les émotions et nécessités humaines les plus élémentaires, ainsi que la raison pragmatique primaire, dans le rapport avec le monde sensible perceptible [sic !], furent aussi nommés : utopie . [...] Pour ne citer que quelques exemples : il est devenu [...] utopique également de « travailler » moins que les paysans du Moyen Age en utilisant des réseaux et robots microélectroniques qui réalisent la plus grande économie de travail de tous les temps.

      Extrait du livre de Robert Kurz, Lire Marx. Les textes les plus importants de Karl Marx pour le XXIe siècle, La Balustrade, 2002, pp. 363-371 (publié en Allemagne en 2000).

      http://www.palim-psao.fr/article-criteres-de-depassement-du-capitalisme-par-robert-kurz-69203406.h

      Kolossale #cuistrerie !!!

  • Le sentier de l’espoir

    « Comment oublier les anti-fascistes (y compris le futur Président de la République italienne Sandro Pertini) ou des Juifs comme #Robert_Baruch qui en #1939 dessine et envoie à sa communauté de Merano la carte ci-jointe (qui représente avec exactitude le chemin) dans la tentative d’offrir une issue aux lois raciales »


    http://www.ecodellariviera.it/le-sentier-de-lespoir

    #cartographie #contre-cartographie #Vintimille #frontière_sud-alpine #migrations #frontières #mobile_infrastructure_of_solidarity #solidarité #histoire #visualisation #croquis #Italie #France #col_de_la_mort #passo_della_morte

  • Antivax - Les marchands de doute

    Comment se propagent le refus de la vaccination contre le Covid-19 et les théories aussi fantaisistes que complotistes qui l’accompagnent ? Une incursion éclairante au coeur de la galaxie antivax, auprès de ses adeptes et de ses réseaux d’influence.

    Alors que se déroule la plus grande campagne de vaccination de l’histoire, la contestation enfle partout dans le monde. Suscitant espoir mais aussi crainte et colère, les injections anti-Covid fracturent l’opinion. Victime de ses succès, qui rendent le danger moins tangible, critiquée pour ses effets secondaires, la vaccination, qui engage de manière intime la confiance des citoyens dans les institutions, s’est toujours attiré des adversaires. Reste que le mouvement antivax, ultraminoritaire, mais très actif, prospère aussi sous l’influence de personnalités parfaitement intéressées à qui la pandémie actuelle offre un tremplin. Figure de proue du mouvement, Andrew Wakefield, un gastro-entérologue britannique radié en 2010, s’est fait connaître par une étude frauduleuse, publiée dans « The Lancet » en 1998, établissant un lien entre le vaccin ROR (rougeole, oreillons, rubéole) et l’autisme. Le scandale qui a suivi va paradoxalement lui donner des ailes. Il quitte l’Angleterre pour les États-Unis, où il monte un business en exploitant les peurs liées à la vaccination. Aujourd’hui, Wakefield, devenu prospère jet-setteur, et ses pairs, comme le producteur Del Bigtree, surfent sur l’épidémie de Covid-19 et sèment la désinformation en propageant des théories complotistes sur les réseaux sociaux afin de faire basculer les hésitants dans le camp de l’opposition vaccinale systématique.

    Propagande et récupération
    Cette enquête au cœur du mouvement antivax, tournée entre les États-Unis, le Royaume-Uni, la France et l’Allemagne, lève le voile sur le commerce lucratif de traitements alternatifs dangereux, des levées de fonds au profit de causes douteuses, une redoutable machine de propagande et des partis extrémistes en embuscade. Un aréopage de scientifiques, lanceurs d’alerte ou journalistes, parmi lesquels Fiona Godlee, la rédactrice en chef du "British Medical Journal "qui a révélé l’imposture de Wakefield, apporte un regard critique sur ce mouvement. Le film fait aussi entendre les doutes de ceux qui, sans être complotistes, rejettent les vaccins, les accusant de causer plus de dommages qu’ils ne permettent d’en éviter, avec, en contrepoint, le témoignage d’une jeune femme restée paraplégique après une rougeole contre laquelle elle n’avait pas été vaccinée. Sans exprimer de ressentiment vis-à-vis de ses parents, elle indique néanmoins que « c’est trop bête de laisser le hasard choisir quand il y a des solutions ».

    https://www.arte.tv/fr/videos/103025-000-A/antivax-les-marchands-de-doute

    signalé aussi par @odilon ici :
    https://seenthis.net/messages/940747

    #vaccinations #vaccins #vaccin #anti-vax #anti-vaxx #doutes #confiance #Andew_Wakefield #publications_scientifiques #édition_scientifique #business #manipulation #The_Lancet #Thoughtful_house #Jane_Johnson #Lisa_Selz #Strategic_Autism_Initiative #Mark_Geier #sentiments #émotions #autisme #Andew_Hall_Cutler #Mark_Grenon #Jenny_McCarthy #Robert_De_Niro #Vaxxed #Donald_Trump #Trump #rougeole #Ardèche #Evee #justiceforevee #multi-level_marketing #Elle_Macpherson #Ethan_Lindenburger #Facebook #réseaux_sociaux #complotisme #Querdenke #liberté #Louis_Fouché #Réinfocovid #Les_Patriotes #extrême_droite #Florian_Philippot

  • Pourquoi Robert Capa a oublié le deuxième soldat – L’image sociale
    https://imagesociale.fr/10247

    Vincent Lavoie ne s’attarde pas sur la figure du deuxième Falling Soldier, que l’interview de Capa omet malencontreusement de mentionner. Dans son numéro du 23 septembre 1936, Vu avait pourtant réuni les deux hommes sous le titre « Comment ils sont tombés ». Alors que le meilleur photographe de guerre aurait réussi l’exploit inouï de saisir à l’aveuglette, non pas une seule fois, mais deux fois successivement l’instant précis de la mort de deux soldats fauchés en plein combat, les publications et les récits ultérieurs vont systématiquement oublier ce second volet.

    Le biographe de Capa Richard Whelan, lui, avait bien compris le problème posé par la deuxième photographie. Comme il est très improbable de pouvoir saisir deux fois de suite, au même emplacement, selon le même angle de vue, un événement aussi rare que l’instant de la mort, il faudrait au moins réussir à expliquer ces coïncidences et ces invraisemblances. Whelan n’y parvient qu’au prix d’hypothèses ad hoc, comme la supposition, alors que le corps du premier soldat n’est pas visible dans la seconde image, que celui-ci aurait été situé hors champ.

    La solution de Capa aura été plus radicale. En oubliant systématiquement de mentionner ce second personnage, le photographe s’est affranchi d’une justification difficile. Il a aussi affaibli ce faisant la crédibilité de sa description des circonstances de la prise de vue, qui n’explique qu’un mort sur deux. Le problème se complique encore lorsqu’on aperçoit, parmi les autres images de la série réalisée ce jour-là, au moins deux autres photographies de ce qui semble être le cadavre du second soldat, effectuées au même endroit – au détail près que sa position est différente dans chaque cliché.

  • Une anti-avortement à la tête du Parlement européen ?
    https://www.liberation.fr/international/europe/une-anti-avortement-a-la-tete-du-parlement-europeen-20211213_XUCM73DCLBDV
    Entre embarras et déshonneur, le Parlement européen pourrait élire en janvier Roberta Metsola, eurodéputée maltaise farouchement hostile à l’avortement. Sauf si le groupe socialiste décide de s’y opposer.
    https://www.liberation.fr/resizer/96OKxDOiqcbYktUxklmncdiSTGo=/800x0/filters:format(jpg):quality(70):focal(1405x865:1415x875)/cloudfront-eu-central-1.images.arcpublishing.com/liberation/MKXMNNSJ55DYPHJPE7TASHRLHQ.jpg

    En 1979, le premier Parlement européen élu au suffrage universel élisait triomphalement à sa tête Simone Veil, l’ancienne ministre de la santé de Valéry Giscard d’Estaing, qui venait de légaliser l’avortement à l’issue d’une bataille incertaine dont elle a lourdement payé le prix. Plus de quarante ans ont passé et ce même Parlement s’apprête à élire comme présidente, en janvier 2022, la Maltaise Roberta Metsola, farouche opposante au droit à l’avortement. Un symbole, le président du Parlement n’ayant pas de grands pouvoirs, mais un symbole désastreux qui vient une nouvelle fois souligner que les droits des femmes ne sont nullement garantis et restent une variable d’adaptation des magouilles politiciennes. L’affaire est d’autant plus folle que la proportion de femmes députées est passée de 15 % en 1979 à 40,5 % aujourd’hui.

    Comment en est-on arrivé là ? Il faut faire un détour par les petits arrangements qui font les délices de la vie bruxelloise. En janvier, cela fera deux ans et demi que l’inexistant socialiste italien David Sassoli occupera le perchoir. Or, en vertu de l’accord de coalition conclu en juin 2019 entre les conservateurs du PPE, les socialistes et les libéraux de Renew (où siègent les élus de LREM), il doit alors céder sa place à un membre du Parti populaire européen. Tout le monde, à l’époque, pensait qu’elle reviendrait à l’A…

    #IVG #backlash

  • Group of Activision Blizzard shareholders joins call for CEO Bobby Kotick’s resignation - The Washington Post
    https://www.washingtonpost.com/video-games/2021/11/17/bobby-kotick-resignation-shareholders

    “In contrast to past company statements, CEO Bobby Kotick was aware of many incidents of sexual harassment, sexual assault and gender discrimination at Activision Blizzard, but failed either to ensure that the executives and managers responsible were terminated or to recognize and address the systematic nature of the company’s hostile workplace culture,” the shareholders, led by the Strategic Organizing Center (SOC) Investment Group wrote in a joint letter addressed to the company’s board of directors and shared with The Washington Post.

    Jason Schreier sur Twitter :
    https://twitter.com/jasonschreier/status/1460991941332582405

    I’m seeing a lot of big reactions to this story, but some important context:
    – This group, SOC, owns 4.8 million shares, or just 0.6% of Activision Blizzard
    – SOC has been criticizing Kotick for a long time. This isn’t a turnaround or shift in view from them

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #activision_blizzard #actionnariat #bobby_kotick #harcèlement_sexuel #ressources_humaines #démission #brian_kelly #robert_morgado #procès #justice #scandale

  • Streit um eine Straße: Robert Rössle – Held der Medizin oder Naziverbrecher?
    https://www.berliner-zeitung.de/politik-gesellschaft/streit-um-eine-strasse-robert-roessle-held-der-medizin-oder-naziver

    15.20.2021 von Anja Reich und Wiebke Hollersen - Ute Linz sagt, sie sei zufällig auf Robert Rössle gestoßen. Sie las seinen Namen auf Briefen von Kollegen aus Berlin. Linz ist Mikrobiologin. Ihr Forschungszentrum in Jülich bei Aachen bekam oft Post aus der Robert-Rössle-Straße in Berlin. Sie wurde neugierig, wollte wissen, wer der Mann war.

    Es sei so was wie ihr Hobby, sagt sie, sich zu fragen, warum eine Schule oder eine Straße einen bestimmten Namen trägt. Und es erschrecke sie oft, wie wenig Leute es wissen. „Wenn ich tagein, tagaus da rumlaufe, muss ich mich doch mal fragen, wer war das eigentlich.“

    Ute Linz war nie durch die Straße gelaufen, als sie zum ersten Mal nach dem Namen Robert Rössle suchte. Mehr als zehn Jahre sei das jetzt her, sagt sie. Rössle war Mediziner, las sie auf Wikipedia, ein Pathologe. Er hatte im Kaiserreich geforscht. Und unter den Nationalsozialisten. Ute Linz fand schnell einen anderen Namen in der Biografie von Rössle, der sie stutzig werden ließ: Karl Brandt. Auch er war Arzt. Und wie sie wusste ein Naziverbrecher, der bei den Nürnberger Ärzteprozessen zum Tode verurteilt und 1948 hingerichtet worden ist, wegen seiner Beteiligung an Krankenmorden und Menschenversuchen. Robert Rössle, so hieß es, sei Mitglied in einer Kommission von Brandt gewesen.

    Das kann doch eigentlich nicht sein, dass nach so jemandem in Berlin eine Straße benannt ist, dachte Ute Linz.
    Aussagen zur Eugenik in Rössles Büchern

    Sie sitzt am Esstisch ihres Hauses in Marzahn-Hellersdorf, das man eher in Steglitz oder am Wannsee vermuten würde. Bauhaus, 1931, viele Originaldetails. Seit acht Jahren lebt Ute Linz im Berliner Osten. Ihr Mann, der in diesem Jahr gestorben ist, und sie haben das Haus gefunden, aufwendig restauriert, es steht unter Denkmalschutz. Vor ihr in der großen Küche steht ihr Laptop, auf dem sie Tausende Seiten Sektionsprotokolle, Akten und Briefe gespeichert hat, die sie in den letzten Jahren zusammengetragen hat. Ihre Unterlagen zum Fall Robert Rössle.

    Das ist es inzwischen. Ein Fall. Ute Linz fordert, dass die Robert-Rössle-Straße umbenannt wird. Sie hat damit eine Debatte ausgelöst, die seit fünf Jahren den Bezirk Pankow beschäftigt. Es gab Kommissionen, Anhörungen, Stellungnahmen. Nun soll endlich eine Entscheidung fallen – bis Ende des Jahres, heißt es im Bezirk.

    Straßenumbenennungen sind ein emotionales, hochumstrittenes Thema in Berlin. Und diesmal geht es nicht um Kolonialismus, nicht um die DDR, sondern um den Nationalsozialismus, die dunkelste Zeit der deutschen Geschichte. Aber die Wahrheit zu finden, 76 Jahre nach Ende der Diktatur, ist kompliziert. In einer Zeit, in der nur noch wenige Zeitzeugen leben, 100-jährige KZ-Aufseher vor Gericht gestellt werden, ihre längst verstorbenen Befehlshaber oft ohne Strafe davongekommen sind und immer wieder Forderungen laut werden, einen Schlussstrich zu ziehen, dieses Kapitel zu schließen. Vergangen, verarbeitet, vorbei?

    Noch in Jülich ließ sich Ute Linz über die Fernleihe der Institutsbibliothek alte Arbeiten von Robert Rössle kommen, um nachzulesen, was er geschrieben hat. Sie fand Aussagen zur Eugenik, zur sogenannten Rassenhygiene, einer Lehre, auf die sich die Nazis später berufen hatten, die sie beunruhigten. Sie dachte wieder: Das geht doch eigentlich nicht, recherchierte, trug Material zusammen, machte ihre Erkenntnisse bekannt, warb für ihr Anliegen, die Umbenennung. Für sie wurde der Fall immer klarer.
    Die schönste Straße in Buch

    Aber ist er das wirklich? Inzwischen haben sich auch andere Menschen intensiv mit den Schriften und dem Wirken von Rössle und seiner Rolle im Nationalsozialismus befasst, darunter der ehemalige DDR-Bürgerrechtler und Molekularbiologe Jens Reich oder der FU-Medizinhistoriker Udo Schagen. Sie sind Mitglieder der Historischen Kommission am Campus Buch und zu anderen Einschätzungen gelangt. Bei den Nachforschungen ist etwa eine Freundschaft mit Rössles ehemaligem jüdischen Schüler Arnold Strauß ans Licht geraten. Strauß musste vor den Nazis fliehen, blieb aber Rössle bis zu dessen Tod 1956 eng verbunden. Die Tochter von Strauß verfolgt die Umbenennungsdebatte aus den USA mit großem Erstaunen.

    Die Robert-Rössle-Straße liegt in Buch, sie ist 600 Meter lang, zur Hälfte Straße, zur Hälfte Fußweg. Sie beginnt an der Karower Chaussee, an der Landesgrenze zwischen Berlin und Brandenburg, und endet an einem Torbogen, dem Eingang zum Campus Buch, auf dem auch das Max-Delbrück-Centrum liegt. Im Tor ist ein Café untergebracht, man kann auch draußen sitzen, in der Herbstsonne Kaffee trinken. Die Robert-Rössle-Straße sei für sie die schönste Straße in Buch, sagt Renate Jordan, eine Anwohnerin, die wir auf der Straße treffen. Weil am Ende der Straße der Campus liegt. Abends sind die neuen Gebäude beleuchtet, tagsüber sieht man junge Forscherinnen und Forscher aus aller Welt auf das Gelände strömen.

    Die Straße hat nur 22 Hausnummern, aber Tausende Menschen wohnen oder arbeiten hier. Den Namen Robert Rössle trägt sie seit 1974. Schon vorher hatte die DDR ein Klinikum in Buch nach dem Pathologen benannt. Renate Jordan lebt seit den 1970er-Jahren in der Robert-Rössle-Straße, sie hat auf dem Campusgelände als Krankenschwester gearbeitet.

    Wer war dieser Rössle? Ein Mediziner, Pathologe, viel mehr wusste Renate Jordan nicht über ihn, sagt sie. Auf einem Schild über dem Straßennamen steht: „Pathologe und Publizist, zuletzt an der Humboldt-Universität zu Berlin tätig“.

    In Buch sei „eine gewisse Unruhe“ aufgekommen, als sich herumsprach, dass über den Namen der Rössle-Straße debattiert wird, dass eine historische Kommission Nachforschungen anstellte. Das sagt Volker Wenda vom Bucher Bürgerverein. In Buch sei seit Jahrzehnten keine Straße umbenannt worden, auch nach der Wende nicht.

    Im Dezember 2019 fand in Buch eine Bürgerversammlung statt, bei der die historische Kommission vom Campus Buch und Ute Linz ihre unterschiedlichen Einschätzungen vortrugen. Der Bürgerverein positionierte sich: gegen die Umbenennung. Es sei gut, dass man sich mit Rössles Rolle im Nationalsozialismus befasst habe, sagt Volker Wenda. Aber die Erkenntnisse rechtfertigten es nicht, den Namen aus dem Straßenbild zu streichen. „Es ist ein Eingriff in diese Gemeinschaft, der von außen kommt und unbegründet ist.“
    Karriere in fünf deutschen Systemen

    Robert Rössle war ein Mediziner, der in fünf deutschen Systemen geschätzt und geachtet wurde. Er kam 1876 in Augsburg zur Welt. Seine Karriere begann im Kaiserreich, er habilitierte sich 1904 in Kiel, ging nach München, Jena. Sein Aufstieg fiel in die Zeit der Weimarer Republik. Er wurde Ordinarius in Basel, forschte zu Allergien, Leberzirrhosen, Entzündungsvorgängen im Körper.

    1929 folgte der Ruf an die Charité, das wichtigste deutsche Universitätskrankenhaus. Höher konnte ein Mediziner seiner Zeit nicht aufsteigen. Rössle war 53 Jahre alt und hatte alles erreicht. Den Lehrstuhl für Pathologie und den Posten als Direktor des Pathologischen Instituts in Berlin. Das Institut der Legende Rudolf Virchow.

    Rössle blieb unter den Nationalsozialisten auf seinem Posten und hielt ihn auch darüber hinaus, bis 1948. Danach arbeitete er noch vier Jahre am Wenckebach-Krankenhaus in West-Berlin. Er wurde nicht nur im Osten, sondern auch im Westen verehrt, hat mitten im Kalten Krieg sowohl den Nationalpreis der DDR als auch das Verdienstkreuz 1. Klasse der Bundesrepublik Deutschland erhalten. Der Medizinhistoriker Udo Schagen von der Freien Universität bezeichnet ihn als einen großen deutschen Pathologen und Forscher.

    Ein Held der Vergangenheit, dessen dunkle Seite übersehen, gar verschwiegen wurde? Einer von viel zu vielen, deren Beteiligung am verbrecherischen System der Nationalsozialisten erst viel zu spät aufgearbeitet wird?

    Es sind oft Bürgerinnen und Bürger, die Recherchen anstoßen, die niemand vor ihnen unternehmen wollte. Die genau hinschauen, fragen: Was hat diese Person eigentlich damals gesagt, gedacht, getan?
    Ein Familiengeheimnis wird entdeckt

    Mitunter gibt es einen persönlichen Bezug, ein Familiengeheimnis, das den Anlass dafür gibt, in jene Zeit einzutauchen, über die die Eltern oder Großeltern nicht reden wollten. So war es auch bei Ute Linz. Kurz bevor sie mit der Rössle-Recherche begann, fand sie heraus, dass ihre Großmutter von den Nationalsozialisten ermordet worden war. 70 Jahre nach dem Tod der Oma erfuhr sie das erst. Von ihrem Großvater, der zur gleichen Zeit verschollen ist, weiß Linz bis heute nicht, wie er gestorben ist. Ihre Eltern haben unter Hitler bei der Deutschen Reichsbahn in Warschau gearbeitet. Sie waren für die Lebensmittelversorgung von Zwangsarbeiterinnen zuständig. Auch darüber wurde wenig gesprochen.

    Das Schweigen in der Familie, das kennt auch Jens Reich, dessen Vater an der Ostfront Sanitätsarzt war, erzählt er uns im Interview. Und sogar Margaret Travers, die Tochter des jüdischen Rössle-Schülers Arnold Strauß, die wir in Massachusetts anrufen. Ihr Vater hat die Nazis gehasst, aber nie darüber gesprochen, dass er ihretwegen ins Exil in die USA fliehen musste, sagt sie. Lange Zeit wusste sie nicht einmal, dass er Jude war, dass sich seine Eltern in Den Haag das Leben genommen haben, um der drohenden Deportation zu entgehen.

    Ute Linz’ Suche nach den Spuren von Robert Rössle, so scheint es, löst eine ganze Lawine an neuen Nachforschungen, neuen Erkenntnissen aus, nur mit der Umbenennung der Straße in Berlin-Buch geht es nicht voran.

    An ihrem Küchentisch in Kaulsdorf erzählt uns Ute Linz von Archivbesuchen und Diskussionsveranstaltungen, von den Mails, die sie an die Bezirksverordneten in Pankow gesendet hat. Manchmal vergeblich, niemand lud sich ihr Material herunter, las in den Unterlagen nach. Enttäuscht und erschüttert sei sie, sagt Linz, bezeichnet ihre Kollegen vom Max-Delbrück-Centrum als „rückwärtsgewandt“, wirft dem Bezirk vor, die Entscheidung herausgezögert zu haben. Mindestens in diesem Jahr, dem Wahljahr.

    Buch gehört zum Wahlkreis Pankow 1, in dem die AfD bei der Abgeordnetenhauswahl vor fünf Jahren noch stärkste Partei geworden war und das Direktmandat geholt hatte, mit 22,4 Prozent. Die Befürchtung, die AfD könne die Diskussion um Rössle für sich nutzen, war der Grund, warum der Bezirk die Entscheidung erst nach der Wahl treffen wollte. Diesmal verlor die Partei 8,6 Prozentpunkte und kam nur noch auf Platz drei, das Direktmandat holte der Kandidat der CDU.

    Ist es auch ein Ost-West-Konflikt?

    Der Widerstand kommt eher von einer Seite, mit der Ute Linz nicht gerechnet hat. Sie sagt, Jens Reich, der Bürgerrechtler, habe einmal zu ihrem Mann gesagt: „Was Sie machen, ist Rache an der DDR.“

    Der Fall Rössle – ist das auch ein Ost-West-Konflikt?

    Es geht, das begreifen wir bei unseren Gesprächen, um die Vergangenheit eines Mediziners im Nationalsozialismus, um die Frage, wie viel Widerstand man in einer Diktatur leisten kann und muss, aber es geht auch um einen Namen, der in der DDR für ein wichtiges Klinikum stand. Die Robert-Rössle-Klinik in Buch war das modernste Krebsforschungszentrum der Welt, bedeutende Wissenschaftler arbeiteten hier, viele verloren nach der Wende ihre Arbeit. Die Klinik trägt diesen Namen schon seit Jahren nicht mehr. Nun soll er auch noch auf dem Straßenschild verschwinden.

    In den kommenden Wochen werden wir in einer Serie in der Berliner Zeitung in ausführlichen Interviews und weiteren Texten alle Seiten des Falls Robert Rössle ergründen. In der zweiten Folge am 19. Oktober: Eine Frau geht einem schrecklichen Verdacht nach.

    #Berlin #Buch #histoire #nazis #médecins #Robert-Rössle-Straße

  • « Le complotisme est toujours la traduction d’un malaise réel » - CQFD, mensuel de critique et d’expérimentation sociales
    https://cqfd-journal.org/Le-complotisme-est-toujours-la

    Cet interview mérite un seen dédié plutôt.

    Membre des collectifs d’écriture italiens d’extrême gauche Luther Blissett Project puis Wu Ming, Roberto Bui vient de sortir en Italie un livre intitulé La Q di Qomplotto (« Q comme Qomplot »). Il y revient sur l’imaginaire complotiste développé par le mouvement QAnon, qui a bousculé l’actualité américaine et mondiale et participé à l’assaut du Capitole en janvier dernier, replaçant ce moment délirant dans un champ historique et politique élargi.

    #QAnon #Luther_Blissett #Wu_Ming #Italie #littérature #Roberto_Bui #complotisme #interview #Histoire

  • #Virginia Removes Robert E. Lee Statue From State Capital

    The Confederate memorial was erected in 1890, the first of six monuments that became symbols of white power along the main boulevard in #Richmond.

    One of the nation’s largest Confederate monuments — a soaring statue of Robert E. Lee, the South’s Civil War general — was hoisted off its pedestal in downtown Richmond, Va., on Wednesday, bringing to an end the era of Confederate statues in the city that is best known for them.

    At 8:54 a.m., a man in an orange jacket waved his arms, and the 21-foot statue rose into the air and glided, slowly, to a flatbed truck below. The sun had just come out and illuminated the towering, graffiti-scrawled granite pedestal as a small crowd let out a cheer.

    “As a native of Richmond, I want to say that the head of the snake has been removed,” said Gary Flowers, a Black radio show host and civil rights activist at the scene.

    It was an emotional and deeply symbolic moment for a city that was once the capital of the Confederacy. The Lee statue was erected in 1890, the first of six Confederate monuments — symbols of white power — to dot Monument Avenue, a grassy boulevard that was a proud feature of the city’s architecture and a coveted address. On Wednesday, it became the last of them to be removed, opening up the story of this city to all of its residents to write.

    “This city belongs to all of us, not just some of us,” said David Bailey, who is Black and whose nonprofit organization, Arrabon, helps churches with racial reconciliation work. “Now we can try to figure out what’s next. We are creating a new legacy.”

    The country has periodically wrestled over monuments to its Confederate past, including in 2017, after a far-right rally in Charlottesville, Va., touched off efforts to tear them down — and to put them up. Richmond, too, removed some after the murder of George Floyd last year, in a sudden operation that took many by surprise. But the statue of General Lee endured, mostly because of its complicated legal status. That was clarified last week by the Supreme Court of Virginia. On Monday, Gov. Ralph Northam, who had called for its removal last year, announced he would finally do it.

    The battle over Civil War memory has been with Americans since the war itself. At its root, it is a power struggle over who has the right to decide how history is remembered. It is painful because it involves the most traumatic event the nation has experienced, and one that is still, to some extent, unprocessed, largely because the South came up with its own version of the war — that it was a noble fight for states’ rights, not slavery.

    The Lee monument, a bronze sculpture made by a French sculptor, was erected to make those points. When it was unveiled, on May 29, 1890, the crowd that turned out was the largest gathering in Richmond since the inauguration of Jefferson Davis as president of the Confederacy in 1862, with around 150,000 participants, according to the Virginia Department of Historic Resources.

    The statues on Monument Avenue were at the heart of Richmond’s identity, and the fact that they came down seemed to surprise almost everybody.

    “I would have thought somebody would blow up Richmond first before anyone would have let that happen,” Mr. Bailey said. “It’s a modern-day miracle.”

    But Richmond has changed. And as it became more diverse, demographically and politically, more of its residents began to question the memorials. Many people interviewed in this once conservative city said that they might not have agreed in past years, but that now the removal of the statues felt right.

    “I’ve evolved,” said Irv Cantor, a moderate Democrat in Richmond, who is white and whose house is on Monument Avenue. “I was naïvely thinking that we could keep these statues and just add new ones to show the true history, and everything would be fine.”

    But he said the past few years of momentous events involving race, from the election of the first Black president, to the violence in Charlottesville in 2017, to the killing of Mr. Floyd last summer and the protests that followed, showed him that the monuments were fundamentally in conflict with fairness in America.

    “Now I understand the resentment that folks have toward these monuments,” said Mr. Cantor, who is 68. “I don’t think they can exist anymore.”

    Now they are nearly all gone, and the city is littered with a series of empty pedestals, a kind of symbol of America’s unfinished business of race that is particularly characteristic of Richmond. (One smaller Confederate monument remains, of General A.P. Hill, in northern Richmond, far from Monument Avenue. The city has enacted a plan to remove it, but it has taken time because his remains are inside.)

    “We’ve begun to peel back the scabs,” said the Rev. Sylvester Turner, pastor at Pilgrim Baptist Church in the Richmond neighborhood of Eastview, who has worked on racial reconciliation in the city for 30 years. “When you do that, you experience a lot of pain and a lot of pushback, and I think we are in that place.”

    Richmond’s statue story is not typical. W. Fitzhugh Brundage, a historian at the University of North Carolina at Chapel Hill, said that while several Democratic-controlled cities in the South have removed Confederate statues, a vast majority have remained standing. In his state of North Carolina, there were about 220 memorials on public lands in 2017. Today, about 190 are still standing.

    Progress on race in America tends to be followed by backsliding — and backlash — and many Black people interviewed in Richmond said they were bracing for that. Darryl Husband, senior pastor of Mt. Olivet Church in Richmond, works with conservative white churches and does not trust that they really want the change they say they do.

    Mr. Husband was unsentimental about the Lee statue coming down, more interested in real change that would improve the lives of Black people.

    “My first feelings obviously had to do with, ‘OK, what’s next?’” he said. “The symbol is down, but how do we deal with the rest of the symptoms that symbol represented?”

    In Richmond, as in many other places, the argument over race now centers on whether American institutions have racism baked in.

    Maggie Johnston, 62, a waitress who is white, might have rejected that notion earlier in life. She grew up in a Republican family whose firm belief was that hard work always brought success. But time in prison — and a wrenching reckoning with her own mistakes — opened her eyes.

    Ms. Johnston, who watched the monument come down on Wednesday while walking her dog Peanut, said her friends say, “I’m a hard-working person and I don’t have any privilege.” She tells them that privilege is not about money. “Privilege is about thinking the world works for everybody else the way it works for you.”

    Mr. Husband argued that the current thinking from conservatives on race was about who has the right to define America: “It says don’t mess with our power. Our power is in our ability to create the narrative of history.”

    Corey Widmer, pastor at Third Church, a mostly white, largely conservative church in Richmond, said he had wrestled with resistance to the current moment. He has worked hard to help his congregants accept how much the country has moved on race. They have read books, held Zoom sessions and debated what was happening. Some congregants changed. Others left the church.

    “There’s so much fear and so much political polarization,” said Mr. Widmer, who is white. He said every pastor in Richmond who is trying to help white Christians see Black Americans’ perspective and “reckon with our own responsibility has really been grieved by the conflict and pain that it has caused.”

    He added: “And yet this is how we change. Face it head on. Work through it. Love each other. Try to stay at the table. And just keep working. I don’t know what else to do.”

    On Wednesday morning, with the pedestal now empty, and General Lee on his way to a state warehouse, Mr. Flowers, the radio show host, was happy. He said he planned to celebrate by telling pictures of his dead relatives that “the humiliation and agony and pain you suffered has been partly lifted.”

    https://www.nytimes.com/2021/09/08/us/robert-e-lee-statue-virginia.html

    #Robert_Lee #guerre_civile #USA #Etats-Unis #statue #toponymie #toponymie_politique #histoire

    ping @cede

  • Jayne Mansfield, anatomie d’un sex-symbol
    https://www.franceculture.fr/emissions/le-reveil-culturel/jayne-mansfield-anatomie-dun-sex-symbol

    « Sweet Jayne Mansfield » : hommage à l’une des plus célèbres blondes d’Hollywood, prisonnière de son image de ravissante idiote.
    Tewfik Hakem s’entretient avec le journaliste Jean-Pierre Dionnet - qui en signe la préface - et le dessinateur #Roberto_Baldazzini, pour Sweet Jayne Mansfield, de Jean-Michel Dupont et Roberto Baldazzini, un album paru aux éditions Glénat.

    https://www.franceinter.fr/emissions/popopop/popopop-14-juin-2021
    https://seenthis.net/messages/610996


    #Jayne_Mansfield #bandes_dessinées

  • “En mer, pas de taxis” : le SOS de la Méditerranée avec Roberto Saviano et Sophie Beau
    https://www.franceinter.fr/emissions/l-heure-bleue/l-heure-bleue-26-mai-2021

    Interview de l’écrivain et journaliste Roberto Saviano à propos de la question des migrants et de leur sauvetage en Méditerranée. Avec en particulier la question de l’intérêt des partis à poursuivre (et durcir !) des politiques ayant un coût humain aussi effroyable...

    #Roberto_Saviano #Libye #migrations #Méditerranée

  • Parution prochaine le 11 juin : Robert Kurz, Raison sanglante. Essais pour une critique émancipatrice de la modernité capitaliste et des Lumières bourgeoises (Editions Crise & Critique)

    http://www.palim-psao.fr/2021/05/parution-prochaine-le-11-juin-robert-kurz-raison-sanglante.essais-pour-un

    Depuis le 11 septembre 2001, c’est avec une arrogance jamais atteinte jusqu’ici que les idéologues de l’économie de marché et de la démocratie invoquent leur enracinement dans la grande philosophie des Lumières. Oubliée la « dialectique de la raison » d’Adorno et Horkheimer, oubliée la critique de l’eurocentrisme : il n’est pas jusqu’à certaines fractions de la gauche qui ne s’accrochent à une prétendue promesse de bonheur bourgeoise, alors même que la mondialisation du capital ravage la planète.

    Robert Kurz qui s’est fait connaître pour ses analyses critiques du capitalisme et de son histoire (La Substance du capital, L’Effondrement de la modernisation), s’attaque ici aux « valeurs occidentales » à contre-courant du mainstream intellectuel dominant et au-delà de la critique passée des Lumières. Dans ces essais théoriques polémiques et fondateurs, on voit s’ébaucher une nouvelle critique radicale de la forme-sujet moderne (déterminée de manière masculine) et ce non pas pour rendre hommage à un romantisme réactionnaire mais afin de montrer que les Lumières et les contre-Lumières bourgeoises ne sont que les deux côtés de la même médaille. L’objectif visé est une « antimodernité émancipatrice » qui refuserait les fausses alternatives se situant toutes sur le terrain du système patriarcal producteur de marchandises.

  • Préface d’Anselm Jappe et Johannes Vogele pour L’Effondrement de la modernisation de Robert Kurz

    http://www.palim-psao.fr/2021/04/preface-d-anselm-jappe-et-johannes-vogele-pour-l-effondrement-de-la-moder

    Robert Kurz [...] ne livrait pas seulement une explication marxiste de la faillite inévitable du « socialisme réel » bien différente des analyses courantes proposées à gauche, mais affirmait aussi crânement que la fin de l’URSS n’était qu’une étape de l’écroulement mondial de la société marchande, dont les pays « socialistes » ne constituaient qu’une branche mineure.

    La révolution russe de 1917, indépendamment de la volonté de ses chefs, n’avait pas – et ne pouvait pas avoir, selon Kurz – comme horizon le « communisme », mais une « modernisation de rattrapage », c’est-à-dire une version accélérée de l’installation des formes sociales de bases du capitalisme, notamment en réagençant les vieilles structures sociales prémodernes pour y imposer la socialisation des individus par le travail

    • L’« Effondrement de la modernisation » ‒ 30 ans après
      https://lundi.am/L-Effondrement-de-la-modernisation-30-ans-apres

      À l’occasion de la traduction de L’effondrement de la modernisation. De l’écroulement du socialisme de caserne à la crise de la mondialisation, de Robert Kurz (aux éditions Crise et Critique), nous publions ici un entretien avec ce dernier datant d’octobre 2004 pour le magazine Reportagem de São Paulo. Il revient sur l’émergence du courant désormais appelé « critique de la valeur », qui débute avec la publication en allemand de ce même livre en 1991. Théoriquement, il s’agissait de se dégager du marxisme traditionnel, tout en revenant à Marx, pour refuser en bloc toute la logique de la valeur et du travail. Il indique ensuite l’apport essentiel de la critique de la dissociation, apporté par Roswitha Scholtz (« La valeur, c’est le mâle », 1996), qui insiste sur le tout structurellement scindé formé par la valeur, la marchandise et le travail abstrait (qui prétendent à la totalité) d’un côté et le travail reproductif souvent « déclassé » et attribué aux femmes de l’autre (et que la totalité ne parvient jamais à subsumer totalement). Enfin, il explique les tensions au sein du groupe Krisis qui se scinde au début des années 2000 avec la formation de la revue Exit ! et termine par des considérations sur la crise mondiale de la modernisation à laquelle n’échapperont pas, selon lui, les pays alors en pleine croissance comme la Chine de l’époque.

    • @tranbert : certes ; mais peut-être qu’un quart de siècle est encore une période trop courte ? Ou alors, c’est l’#effondrisme qui, par son impatience à voir la « catastrophe » advenir, a tendance à se contenter de vues à court terme ?
      Comment appelle-t-on déjà ce comportement biaisé qui consiste à se réjouir d’une catastrophe en train de se produire ?

    • La critique de la valeur n’annonce pas un effondrement à venir, mais constate une décomposition en cours (dont l’URSS représentait justement une étape). Il n’est pas très pertinent d’attendre la « chute » du capitalisme, que tout le monde se représente par ailleurs triomphant, car il s’agit déjà d’un mort-vivant, mais ce pourrissement n’a rien d’émancipateur en soi.

    • Ni rien de réjouissant : les élites dominantes feront tout pour s’accrocher à leurs prérogatives et leurs brutalités n’iront qu’en augmentant en fréquence et en intensité.
      J’observe avec une grande attention ce qui se passe au Mexique : ce pays connait depuis un quart de siècle une violence économique et politique de grande intensité et la brutalité inouïe des rapports de domination imposés par les cartels illustre bien le genre de pourrissement auquel il faut s’attendre.

    • @ktche @sombre Je crois que comme avec la collapsologie, la WerttKritik fait une confusion entre la dynamique du système capitaliste et ce que ce système inflige aux humains et à la nature. On assiste pas à « l’écroulement mondial de la société marchande » ni au « pourrissement du capitalisme » qui au contraire fonctionnent très bien.
      Ce qui s’écroule, ce sont les conditions de la vie.
      Ce qui pourrit, c’est la société du genre humain.
      Et la production de marchandises prospère sur cette destruction et sur cette dépossession.
      Le capitalisme ne « crée » pas de la valeur, il détruit et corrompt tout ce qui permettait de se passer de ses ersatz empoissonnés et mortifères. Et c’est cela qu’il importe de dénoncer et de combattre.

    • Ça fait des années que tu répètes la même critique @tranbert :)
      « ce courant annonce la fin du capitalisme qui va se faire tout seul mais ça n’arrive jamais » … mais ce n’est jamais ce que ça dit, ça n’annonce rien de bien, ça explique que le capitalisme à force d’augmentation de la productivité (et donc encore plus depuis la robotisation + informatisation) détruit son noyau : la création de valeur.

      Mais ça peut très bien prendre très longtemps car c’est une compétition toujours mondiale donc il reste toujours quelques pays qui concentrent ce qui reste de valeur. Nous on vit justement en France, dans un de ces derniers centres occidentaux, mais non non, la production de marchandises ne prospère pas du tout quand on regarde le monde entier. Et même dans ces derniers centres, tout cela ne tient quasi que par l’expansion monstrueuse de la finance : pas du tout parce que la production prospère.

      + surtout ça n’indique absolument aucune émancipation particulière du tout ! Par défaut c’est même plutôt le contraire et que la wertkritik le dit pourtant assez explicitement (y compris dès ce premier livre) : si les mouvements d’émancipation et d’autonomie ne deviennent pas plus importants, alors par défaut cette décomposition du capitalisme aboutit plutôt à la barbarie, pas du tout à l’émancipation du genre humain… (ce que montre bien aussi La société autophage, plus particulièrement)

      Cette préface ne masque pas non plus l’évolution graduelle, en 91, il y avait aussi encore des scories de marxisme traditionnel dans ce livre, une idée transhistorique du travail, un progressisme, etc. Qui ont disparu de ce courant au fil des années, des auto-critiques, des approfondissements.

      En conséquence de quoi il n’y a rien à « attendre » magiquement (personne n’a jamais dit ça dans ce courant), il faut bien participer à construire d’autres manières de penser et de vivre (au pluriel), non basées sur la création de valeur.

      Enfin bon, plutôt que des piques régulières de mécompréhension sur les internets au fil des années, ça serait vraiment plus utile de mettre à plat les choses en discutant vraiment en face à face lors d’une rencontre avec les participant⋅es francophones (comme Renaud Garcia qui était à la rencontre l’année dernière il me semble). Quitte à ne pas être d’accord, mais au moins en dissipant les incompréhensions et quiproquos qui peuvent monter en épingle quand il n’y a que de l’écrit.
      Mais bon je dis ça… je dis rien :)

    • Ce qui s’écroule, ce sont les conditions de la vie.
      Ce qui pourrit, c’est la société du genre humain.

      Tout à fait. A condition de préciser que le « genre humain » dont il est question n’est pas une donnée transhistorique. Car c’est bien parce que le capitalisme (c’est-à-dire la forme de vie fétiche sur laquelle nous nous appuyons pour produire et reproduire la société depuis peu, comparé à la diversité et à l’histoire des formes de vie qui la précède), est lui-même en cours de décomposition, que les catégories qui le fondent et nous semblent évidentes et « naturelles » se décomposent avec lui, à commencer par la plus centrale : le travail (qui, du coup, ne fait pas partie des « conditions de la vie », mais bien de la dynamique du capital lui-même).

      Le capitalisme ne « fonctionne » pas bien. A bien des égards, il n’a jamais « bien fonctionné » puisque c’est une dynamique folle qui sape les conditions-même de sa propre reproduction, induisant par là les nuisances constatées tout au long de son histoire, et pas seulement dans ses phases les plus récentes. Dénoncer les nuisances et oublier (ou se méprendre sur) ses ressorts est une demi-mesure, du genre de celles qu’ont adoptées jusqu’à l’absurdité ceux qui voulaient rattraper la modernité plutôt que de repartir sur d’autres bases.

      Vouloir fixer la modernité à un moment particulier de son histoire, tenter de rattraper son retard pour ceux qui ne sont pas partis dans la course en tête de peloton, ou prolonger coute que coute cette trajectoire irrationnelle pour ceux qui en sont les ultimes et relatifs bénéficiaires, sont autant de façon de « croire » dans la viabilité d’un fétiche délétère.

      Dans sa phase en cours, ce n’est pas parce que le capitalisme nous écrase qu’il triomphe, mais c’est parce qu’il se décompose (et qu’on continue de l’imaginer éternel ou maitrisable) qu’il nous écrase.

  • In der Schweiz wird eine riesige Batterie aus Beton gebaut - Magazin - 1E9
    https://1e9.community/t/in-der-schweiz-wird-eine-riesige-batterie-aus-beton-gebaut/3384

    Au Tessin, dispositif de stockage gravitaire d’énergie par empilement de blocs de béton. Fonctionnellement équivalent au STEP (station de turbinage et de pompage d’eau) sauf que ce sont des blocs de béton qu’on empile et qu’on dépile, le complément idéal (?) aux énergies intermittentes.

    Reste à convaincre les populations qu’à côté du champ d’éoliennes on va monter des tours de blocs de béton de 80 mètres de haut…

    #yapuka

    via @cdb_77

    Jan. ’20
    Im schweizerischen Tessin wird derzeit eine gigantische Batterie gebaut. Rund 120 Meter soll sie in den Himmel ragen – und jede Menge Energie speichern. Dabei kommt diese Batterie ganz ohne Lithium oder Säuren aus. Denn der Erfinder der Mega-Batterie setzt auf ein so einfaches wie uraltes Konzept.

    Sie tut sich schwer, aber sie geht voran, die Energiewende. Bereits jetzt werden 35 Prozent des Stromverbrauchs in Deutschland durch erneuerbaren Energien gedeckt. Aber diese Energiequellen haben ein Problem. Zumindest Wind- und Sonnenkraft gibt es nur, wenn der Wind weht oder die Sonne scheint. Und wenn zu viel Energie fließt, geht die gerne mal sinnlos verloren, wenn es an Verbrauchern mangelt. Denn bislang fehlen vielfach Möglichkeiten, um überschüssige Energie sofort, langfristig, schnell abrufbar und auch günstig zu speichern. Wasserpumpspeicherwerke brauchen viel Platz, virtuelle Kraftwerke aus Heimspeichern wie von Sonnen aus dem Allgäu stehen noch am Anfang und Batteriekaskaden wie die Powerpacks von Tesla sind teuer.

    Der Schweizer Ingenieur Andrea Pedretti aus Lugano schlägt daher noch eine andere Lösung vor – eine ziemlich einfache, die er mit seinem Start-up Energy Vault verwirklichen will. Er will überschüssige Energie in Betonklötzen speichern. Denn seine Batterie soll aus einem Kran mit sechs Armen bestehen. Und eben zahlreichen Betonblöcken. Gibt es eine Überproduktion von elektrischem Strom, wird der Kran genutzt, um die aus Bauschutt gepressten 35-Tonnen-Blöcke aufeinander zu stapeln. Dadurch wird der Strom in potentielle Energie umgewandelt – also jene Art von Energie, die ein Objekt durch Masse und Höhe gewinnt. Es ist das gleiche Prinzip, das bei Wasser- und Pumpspeicherkraftwerken genutzt wird.

    Je höher ein Betonblock sitzt, umso mehr Energie speichert er – auf physikalisch natürliche Weise. Hunderte davon sollen sich in einer Turm-artigen Struktur aufeinanderstapeln lassen. Wird die Energie wieder benötigt, greift der Kran die Betonblöcke und lässt sie zur Erde zurückfahren, wo sie als Mauer um den Turm herum aufgestapelt werden. Dabei wird die Energie über Rollen und einen Generator wieder in elektrischen Strom umgewandelt – und das mit einer Effizienz von 85 Prozent. Im Gegensatz zu anderen Speichermöglichkeiten soll der Turm nahezu überall installierbar sein. Er funktioniert in Wüsten- wie auch Eis- und Tropenregionen. Dazu ließe sich das Konzept anpassen. Statt Betonklötzen könnte der Kran ebenso Steinquader oder ausgemusterte Schiffscontainer aufnehmen und aufeinandersetzen. Eben das, was in der entsprechenden Region einfach herstellbar und verfügbar ist.

    • Test positivi e ospiti illustri: la grande torre continua a stupire
      https://www.cdt.ch/ticino/bellinzona/test-positivi-e-ospiti-illustri-la-grande-torre-continua-a-stupire-HE4053081


      Test positivi e ospiti illustri: la grande torre continua a stupire
      Una fotografia scattata lo scorso luglio, quando la torre è entrata in funzione.
      © CdT/Zocchetti

      INNOVAZIONE Castione, la gru per lo stoccaggio di energia realizzata da una start-up ticinese suscita interesse non solo da parte dei potenziali clienti, ma anche di visitatori importanti - Il prototipo risponde in modo soddisfacente alla fase sperimentale: «Confermate le nostre aspettative» - LE FOTO

      Dapprima il presidente della Direzione generale della Banca nazionale svizzera Thomas J. Jordan. Ed ora l’ambasciatrice della Gran Bretagna nel nostro Paese ed in Liechtenstein Jane Caroline Owen. L’imponente torre energetica realizzata dalla start-up luganese Energy Vault nella zona industriale di Castione non smette di suscitare interesse. I due illustri ospiti l’hanno visitata negli scorsi mesi il primo e la scorsa settimana la seconda, rimanendo entrambi affascinati dall’idea innovativa sviluppata dal team guidato dal CEO Robert Piconi e dal capotecnico Andrea Pedretti.

      Per l’azienda ticinese non è che la conferma di quanto va dicendo dal novembre 2019, quando i suoi vertici presentarono la loro «creatura» durante una serata pubblica raccogliendo consensi anche da parte della popolazione...

      bon, au moment de la photo, y a même pas de quoi recharger un smartphone ;-)

    • Nouvelles de mars 2020, donc d’il y a un an...

      La #tour de #Arbedo est un prototype avec fonction démonstrative, dit le journal La Regione (traduction deepl) :

      "si tout se passe bien, si le projet garantit effectivement ce que les simulations informatiques annoncent aujourd’hui, il sera ensuite démantelé et destiné à un groupe indien engagé dans le développement de systèmes de production d’énergie propre dans l’un des coins les plus pollués de la planète. Pendant des mois à Castione devraient donc venir - si le coronavirus le permet, étant donné le frein sur les vols - des ingénieurs du monde entier intéressés à radiographier l’invention développée par l’équipe coordonnée par l’administrateur délégué #Robert_Piconi et le technicien en chef #Andrea_Pedretti, ingénieur tessinois qui a des connaissances approfondies dans le domaine des énergies renouvelables mais qui est aussi de retour de la faillite de la société #Airlight, jusqu’en 2016 présente sur la Riviera avec trois sociétés et qui n’a pas réussi à activer au Maroc le système photovoltaïque révolutionnaire développé à Biasca également grâce à des fonds publics. En outre, à Castione, selon les intentions, il est prévu d’installer la « salle de contrôle », c’est-à-dire le siège où Energy Vault pourrait gérer à distance les différentes installations vendues en « se déplaçant » sur quatre grands fuseaux horaires. Beaucoup dépendra du succès commercial et de la capacité réelle de la centrale à produire suffisamment d’#électricité au moment où les grands consommateurs, en premier lieu les mégapoles assoiffées d’#énergie_renouvelable pour remplacer le charbon et le nucléaire, en auront besoin."

      Luce verde alla maxi torre energetica di Castione

      Il Municipio ha rilasciato oggi la licenza edilizia sulla base del preavviso cantonale positivo. Ritirata l’opposizione delle Ffs.


      Stando alla tabella di marcia avrebbe dovuto essere funzionante già da alcune settimane, invece la licenza edilizia che dà il via libera alla sua installazione è arrivata oggi. A rilasciarla, durante la seduta odierna, il Municipio di Arbedo-Castione sulla base di due attesi documenti: il preavviso positivo espresso dal Dipartimento del territorio e il recente ritiro dell’opposizione inoltrata dalle Ffs contro la domanda di costruzione. Luce verde dunque alla maxi torre energetica che la Energy Vault, start-up di Biasca, inizierà a elevare prossimamente fino a un massimo di 60 metri dal suolo con l’intento di avviare la fase test di produzione di energia nel corso della primavera e per la durata massima di un paio d’anni. Gli ideatori e promotori, ascoltate le richieste delle Ferrovie, le hanno assecondate spostando di qualche metro una parte dell’installazione di cantiere, così da non intralciare eventuali future esigenze di spazio per la posa di condotte e cavi elettrici necessari alla nuova Officina di manutenzione dei treni prevista nelle vicinanze.

      Ingegneri da tutto il mondo (Coronavirus permettendo)

      Il prototipo della Energy Vault a Castione a avrà una funzione dimostrativa: se tutto filerà liscio, se il progetto garantirà concretamente quanto dicono ora le simulazioni al computer, sarà poi smontato e destinato a un gruppo indiano impegnato nello sviluppo di sistemi di produzione di energia pulita in uno degli angoli più inquinati del pianeta. Per mesi a Castione dovrebbero dunque giungere - Coronavirus permettendo, considerato il freno ai voli - ingegneri da tutto il mondo interessati a radiografare l’invenzione messa a punto dal team coordinato dal Ceo Robert Piconi e dal capotecnico Andrea Pedretti, ingegnere ticinese che vanta un’ampia conoscenza nel campo delle energie rinnovabili ma che è anche reduce dal fallimento della ditta Airlight, fino al 2016 presente in Riviera con tre società e che non è riuscita ad attivare in Marocco il rivoluzionario impianto fotovoltaico sviluppato a Biasca anche grazie a finanziamenti pubblici. Peraltro proprio a Castione, stando alle intenzioni, si prevede di installare la cosiddetta ‘control room’, ossia la sede nella quale Energy Vault potrebbe gestire in remoto i vari impianti venduti ‘muovendosi’ su quattro grandi fusi orari. Il condizionale è d’obbligo e molto dipenderà dal successo commerciale e dalla reale capacità dell’impianto di produrre corrente elettrica a sufficienza e nel momento in cui essa viene richiesta dai grandi consumatori, in primis le megalopoli assetate di energia rinnovabile in sostituzione di carbone e nucleare.

      Dal Ticino all’India

      La torre dotata in cima di sei gru alzerà e abbasserà un centinaio di blocchi da 35 tonnellate l’uno per generare corrente elettrica in discesa. Il prototipo castionese tuttavia non produrrà corrente ma servirà a testare il cervello (software) e il processo di produzione e spostamento dei blocchi (hardware). Saranno pure testate la linea di produzione dei blocchi costituiti da cemento povero e terra, come pure la strumentazione tecnica prodotta in Italia che è stata già acquistata dall’azienda indiana Tata Power che la ritirerà una volta ultimata la fase test di Castione.
      Il guadagno? Alzare di notte e abbassare di giorno

      Il principio di produzione energetica è lo stesso dei bacini idroelettrici ad accumulazione, dove cioè l’acqua viene ripompata in quota di notte consumando corrente elettrica a basso costo e turbinata di giorno producendo corrente venduta a prezzi più elevati di quella notturna. La torre consuma corrente elettrica alzando i mattoni e ne produce, abbassandoli, nel momento di grande richiesta, quando la corrente messa in rete ha un costo maggiore. Stando agli sviluppatori di #Energy_Vault l’utilizzo di motori elettrici e componenti meccaniche di ultima generazione assicurano un’efficienza molto elevata, calcolata fra il 78 e l’80%. In soldoni, se si consuma un kWh in salita se ne produce 0,8 in discesa, che venduto al prezzo previsto nelle ore di maggior consumo genera il guadagno destinato a rendere il progetto una soluzione sostenibile sul piano finanziario e su quello ambientale.

      https://www.laregione.ch/cantone/bellinzonese/1424508/corrente-castione-torre-luce-produzione

      #énergie #stockage_d'énergie #Inde #Maroc #Tessin #Suisse

  • #Robert_Boyer : « Le #capitalisme sort considérablement renforcé par cette #pandémie »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/10/02/robert-boyer-le-capitalisme-sort-considerablement-renforce-par-cette-pandemi

    https://robertboyer.org

    La « congélation » de l’#économie a accéléré le déversement de valeur entre des industries en déclin et une économie de plates-formes en pleine croissance – pour faire image, le passage de l’ingénieur de l’aéronautique au livreur d’Amazon. Or cette économie offre une très faible valeur ajoutée, un médiocre niveau de qualification à la majorité de ceux qui y travaillent, et génère de très faibles gains de productivité. J’ai longtemps pensé que ces caractéristiques allaient déboucher sur une crise structurelle du capitalisme, mais je reconnais aujourd’hui que je me suis trompé.

    [...]

    La contingence des événements devrait d’ailleurs inciter économistes et politistes à se méfier des prédictions issues des modèles théoriques auxquels la réalité historique devrait avoir le bon goût de se plier… car c’est rarement le cas. Cinquante ans de pratique de la théorie de la régulation m’ont appris qu’il faut toujours réinjecter dans l’analyse le surgissement des nouvelles combinaisons institutionnelles et politiques que crée de façon contingente la marche de l’histoire. Comme le disait Keynes [1883-1946] : « Les économistes sont présentement au volant de notre société, alors qu’ils devraient être sur la banquette arrière.

    [...]
    Je prendrais un seul exemple, pas tout à fait au hasard : l’économie de la santé. Pour les macroéconomistes, le système de santé représente un coût qui pèse sur la « richesse nationale », et il faut donc le réduire – et les politiques les ont suivis sur cette voie. Depuis vingt ans, les ministres de l’économie ont l’œil rivé sur le « spread », l’écart de taux entre les emprunts d’Etat des différents pays. Leur objectif est que l’économie nationale attire suffisamment le capital pour que celui-ci vienne s’investir ici plutôt qu’ailleurs. Ce n’est pas idiot en soi, mais la conséquence qui en a été tirée a été de limiter la dépense publique de santé, d’éducation, d’équipement…

    [...]

    Je voyage beaucoup au Japon, dont l’absence de croissance depuis plus de vingt ans, malgré la répétition des « plans de relance », est considérée par les macro-économistes comme une anomalie. Et si, au contraire, le Japon explorait un modèle économique pour le XXIe siècle, où les dividendes de l’innovation technologique ne sont pas mis au service de la croissance, mais du bien-être d’une population vieillissante ? Car après tout, quels sont les besoins essentiels pour les pays développés : l’accès de tous les enfants à une éducation de qualité, la vie en bonne santé pour tous les autres, y compris les plus âgés, et enfin la culture, car c’est la condition de la vie en société – nous ne sommes pas seulement des êtres biologiques qui doivent uniquement se nourrir, se vêtir et se loger. Il nous faut donc être capables de créer un modèle de production de l’humanité par l’humain. C’est ce que j’appelle dans le livre une économie « #anthropogénétique ».

    [...]

    La crise du Covid-19, en nous faisant prendre conscience de la fragilité de la vie humaine, pourrait changer les priorités que nous nous donnons : pourquoi accumuler du capital ? Pourquoi consommer de plus en plus d’objets à renouveler sans cesse ? A quoi sert un « progrès technique » qui épuise les ressources de la planète ? Comme le proposait Keynes dans sa Lettre à nos petits-enfants (1930), pourquoi une société où, la pauvreté ayant été vaincue, une vie en bonne santé ouverte sur la culture et la formation des talents ne serait-elle pas attirante et réalisable ? Puisque nous commençons à peine à prendre conscience que « les dépenses de production de l’humain » sont devenues la part majeure des économies développées ; le Covid-19 a donné pour priorité à l’Etat la protection du vivant et l’a contraint à investir pour cela, engageant de fait une « biopolitique », d’abord contrainte mais demain choisie.

    Mais il faudrait une coalition politique puis des institutions nouvelles pour faire de ce constat un projet. Il est malheureusement possible que d’autres coalitions – au service d’une société de surveillance, incarnée dans un capitalisme de plate-forme ou dans des capitalismes d’Etat souverains – l’emportent. L’histoire le dira.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/03/13/pourquoi-un-an-apres-des-pays-asiatiques-enregistrent-un-rebond-de-leur-econ

  • #Ku_Klux_Klan - Une #histoire américaine. Naissance d’un empire invisible (1/2)

    L’histoire méconnue du plus ancien groupe terroriste et raciste des États-Unis.

    Le Ku Klux Klan, société secrète née en 1865, a traversé les décennies et a toujours su renaître de ses cendres. Son histoire a défrayé la chronique. 150 ans de haine, de racisme et d’horreur. 150 ans d’exclusion, de violence et de fureur.

    Pour retracer en détail les quatre vies successives du Ku Klux Klan, David Korn-Brzoza a rassemblé un impressionnant fonds d’archives, alimenté en partie par celles du mouvement lui-même, et rencontré une dizaine d’interlocuteurs : un membre repenti de l’organisation, des vétérans de la lutte pour les droits civiques, le juge pugnace qui, quatorze ans après l’attentat de Birmingham, a poursuivi et condamné ses auteurs, ainsi que différents chercheurs et analystes. En montrant ainsi combien le mouvement et ses crimes incarnent une histoire et des valeurs collectives, il jette une lumière crue sur cette part d’ombre que l’Amérique blanche peine encore à reconnaître.

    https://boutique.arte.tv/detail/ku-klux-klan-une-histoire-americaine

    #film #documentaire #film_documentaire
    #USA #Etats-Unis #KKK #plantation #esclavage #afro-américains #citoyenneté #Pulaski #société_secrète #violence #White_League #meurtres #lynchages #coups_de_fouet #terrorisme #intimidation #soumission #Nathan_Bedford_Forrest #politicide #assassinats #droits_civiques #Ku-Klux_Bill #loi_martiale #ségrégation #domination_raciale #milices_armées #ordre_social #The_birth_of_a_nation (#Griffith) #William_Joseph_Simmons #Woodrow_Wilson #business #Hiram_Wesley_Evans #Harry_Truman #Truman #Immigration_bill (1924) #The_Fiery_Cross #The_Search_Light #mouvement_social #David_Stephenson #Madge_Oberholtzer #Edward_Young_Clark #Bund #racisme #Stone_Mountain #Samuel_Green #suprématie_blanche #cérémonie_de_naturalisation #superman #Stetson_Kennedy #organisation_subversive #Afro-descendants

  • Villes et pays continuent d’être rebaptisés en Afrique afin d’effacer le lien colonial

    En #Afrique_du_Sud, #Port_Elizabeth s’appellera désormais #Gqeberha. Les changements de nom de lieux sont étroitement liés à la #décolonisation ou aux fluctuations de régime politique.

    L’Afrique n’est pas une exception. De tout temps, les changements de toponymie ont été des marqueurs de l’histoire, souvent pour la gloire des vainqueurs, avec la volonté de tourner la page d’un passé fréquemment honni. L’exemple de l’Afrique du Sud, qui vient d’entériner le remplacement du nom de la ville de Port Elizabeth, illustre la volonté d’effacer le passé colonial du pays. Celle-ci portait en effet le nom de l’épouse du gouverneur du Cap, Sir Rufane Donkin, « fondateur » de la ville en 1820, à l’arrivée de quelques 4 000 migrants britanniques.

    Les initiateurs de ce changement de toponymie le revendiquent. Rebaptiser la ville est une manière d’inscrire le peuple noir dans l’histoire du pays et de rendre leur dignité aux communautés noires. Port Elizabeth s’appelle désormais Gqeberha qui est le nom, en langue Xhosa, de la rivière qui traverse la ville, la #Baakens_River. Mais c’est aussi et surtout le nom d’un de ses plus vieux Townships.

    #Uitenhage devient #Kariega

    La ville voisine d’Uitenhage est elle aussi rebaptisée Kariega. Les tenants de ce changement ne voulaient plus de référence au fondateur de la ville, #Jacob_Glen_Cuyler. « Nous ne pouvons pas honorer cet homme qui a soumis notre peuple aux violations des droits de la personne les plus atroces », explique Christian Martin, l’un des porteurs du projet.

    https://www.youtube.com/watch?v=TJLmPSdNh-k&feature=emb_logo

    Jusqu’à présent, rebaptiser les villes en Afrique du Sud s’était fait de façon indirecte, notamment en donnant un nom à des métropoles urbaines qui en étaient jusqu’ici dépourvues. Ainsi, Port Elizabeth est-elle la ville centre de la Métropole de #Nelson_Mandela_Bay, qui rassemble plus d’un million d’habitants.

    Si Pretoria, la capitale de l’Afrique du Sud, a conservé son nom, la conurbation de près de trois millions d’habitants et treize municipalités créée en 2000 s’appelle #Tshwane. Quant à #Durban, elle appartient à la métropole d’#eThekwini.

    Un changement tardif

    Ces changements de nom se font tardivement en Afrique du Sud, contrairement au reste du continent, parce que quoiqu’indépendante depuis 1910, elle est restée contrôlée par les Blancs descendants des colonisateurs. Il faudra attendre la fin de l’apartheid en 1991 et l’élection de Nelson Mandela à la tête du pays en 1994 pour que la population indigène se réapproprie son territoire.

    Pour les mêmes raisons, la #Rhodésie_du_Sud ne deviendra le #Zimbabwe qu’en 1980, quinze ans après l’indépendance, lorsque le pouvoir blanc des anciens colons cédera la place à #Robert_Mugabe.
    Quant au #Swaziland, il ne deviendra #eSwatini qu’en 2018, lorsque son fantasque monarque, #Mswati_III, décidera d’effacer la relation coloniale renommant « le #pays_des_Swatis » dans sa propre langue.

    Quand la politique rebat les cartes

    Une période postcoloniale très agitée explique aussi les changements de nom à répétition de certains Etats.

    Ainsi, à l’indépendance en 1960, #Léopoldville capitale du Congo est devenue #Kinshasa, faisant disparaître ainsi le nom du roi belge à la politique coloniale particulièrement décriée. En 1965, le maréchal #Mobutu lance la politique de « #zaïrisation » du pays. En clair, il s’agit d’effacer toutes traces de la colonisation et de revenir à une authenticité africaine des #patronymes et toponymes.

    Un #Zaïre éphémère

    Le mouvement est surtout une vaste opération de nationalisation des richesses, détenues alors par des individus ou des compagnies étrangères. Le pays est alors renommé République du Zaïre, ce qui a au moins le mérite de le distinguer de la #République_du_Congo (#Brazzaville), même si le nom est portugais !

    Mais l’appellation Zaïre était elle-même trop attachée à la personnalité de Mobutu. Et quand le dictateur tombe en 1997, le nouveau maître Laurent-Désiré Kabila s’empresse de rebaptiser le pays en République démocratique du Congo. Là encore, il s’agit de signifier que les temps ont changé.

    Effacer de mauvais souvenirs

    Parfois le sort s’acharne, témoin la ville de #Chlef en #Algérie. Par deux fois, en 1954 puis en 1980, elle connaît un séisme destructeur. En 1954, elle s’appelle encore #Orléansville. Ce nom lui a été donné par le colonisateur français en 1845 à la gloire de son #roi_Louis-Philippe, chef de la maison d’Orléans.

    En 1980, l’indépendance de l’Algérie est passée par là, la ville a repris son nom historique d’#El_Asnam. Le 10 octobre 1980, elle est une nouvelle fois rayée de la carte ou presque par un terrible #tremblement_de_terre (70% de destruction). Suite à la catastrophe, la ville est reconstruite et rebaptisée une nouvelle fois. Elle devient Chlef, gommant ainsi les références à un passé dramatique...

    https://www.francetvinfo.fr/monde/afrique/societe-africaine/villes-et-pays-continuent-d-etre-rebaptises-en-afrique-afin-d-effacer-l

    #colonisation #colonialisme #noms_de_villes #toponymie #toponymie_politique #Afrique

  • Scientists on the run: »They said that I was spreading propaganda and homosexuality at the department«

    Freedom of research is under pressure in several countries, and it is forcing academics to flee. And the problem is moving closer to Denmark, according to two employees at the University of Copenhagen who help international academics who are in difficulties.

    One Friday morning the phone rings from a hidden number. The voice on the other end says that this article must not disclose his or her gender, address, or home country. The fear of being tracked down is just too great. The requirements are from a researcher who has had to leave their home country after conducting research that was not acceptable to the »authoritarian government,« as the person calls it.

    »It’s easy to be labelled an enemy of the state if you are critical of the government, either by voicing something on social media or by sharing new discoveries within your academic field. In my home country, a lot of researchers are in prison and can easily be executed. And many people have lost their jobs,« says the voice on the phone.

    I don’t really know who I talked to. The phone call from this person, was set up by the network Scholars at Risk, which helps persecuted researchers with temporary appointments at universities in the West, including the University of Copenhagen.

    »These are people who have been courageous. They have put their lives and their families at stake,« says Vivian Tos Lindgaard, who is head of section at the International Staff Mobility office at the University of Copenhagen. She, with senior consultant Søren Høfler, is running the Danish section of the Scholars at Risk network. A network that since the 1990s has helped researchers continue their academic work after they have been forced to flee their home countries. The network has also helped the anonymous researcher I had on the phone.
    Prevents PhD students ending up doing unskilled work

    Denmark has been a member of the network since 2016, but due to a lack of financial support, it has so far only been possible to have the network established at the University of Copenhagen.

    The Danish section of Scholars at Risk has helped a few researchers who are on the run at the University of Copenhagen. Their research work is maintained, and their identities are protected for their one year of employment with the option of an extension for another year. It is an important opportunity for the persecuted researchers to continue their career:

    »Scholars at Risk helps prevent these people going down to the Sandholm [Danish, ed. ] refugee camp and applying for asylum there, and ending up as employees of the Føtex supermarket with a PhD degree. This is often the case for refugees with an academic background. They will end up stuck in a refugee camp for several years, waiting, and they will be broken down and lose their connection to the field and their skills in the academic world. This programme retains the researchers’ skills and their networks. They move on,« says Vivian Tos Lindgaard, who herself has had previous experience from the Danish Immigration Service as a head of the Sandholm camp, where she processed asylum applications.

    This means that the skills are not lost behind the checkout till of a supermarket, and the Scholars at Risk network can hopefully also stand up against the claim that »refugees are only a burden«, as Vivian Tos Lindgaard puts it.

    »It is important that we show that this is not always the case. In fact, some people can be a huge resource. It is as if you never hear these stories. We only hear about those who can’t figure things out and who are on welfare,« she says.

    »This is also what’s wrong with our integration and refugee system. In Denmark you get refugee status – which is already very difficult to achieve nowadays – and then what? The municipality then pushes them through programmes with no eye to their research skills and any link to workplaces that employ highly educated foreigners,« says Vivian Tos Lindgaard.
    Censorship coming closer

    Many of the threatened researchers come from countries like Turkey, Iran and Thailand, according to Vivian Tos Lindgaard and Søren Høfler. Even though these countries may seem far away from Denmark, the censorship in research is closer than you might think:

    »The number of researchers who sign up for this network is increasing. The censorship that is circling around Europe is getting closer and closer to the Danish border,« says Søren Høfler.

    We are not far from a daily life similar to our own, before we come across the censoring of research. Even in the US, it seems. Climate change and Donald Trump’s personal opinions about it can be mentioned as an example, according to Søren Høfler:

    What we see in the [Netflix series, ed] The Handmaid’s Tale is, in many places, just daily life. Our colleagues in the US constantly tell us that less and less funding for research is forthcoming that is not consistent with Trump’s opinions. This is a crazy form of censorship.«
    Name and picture in a newspaper with propaganda headlines

    A few days after my first phone call, another persecuted researcher calls via Zoom. This time round I have an image of the person in question. And they – the person prefers to be referred to with the pronouns they/them – allows me to reveal their home country, Turkey, and their research area, which is social psychology with a focus on mental health, heteronormativity and sexism in the LGBT+ environment.

    The person helped sign The Peace Petition, a petition from 2016 to stop the dispute between Kurds and Turks in south-east Turkey, a conflict where the government was accused of contributing to massacres.

    As an advocate of queer rights and as a signatory of a protest document, the researcher from Turkey experienced problems during their PhD:

    »My supervisor disavowed me because I had been involved in the petition. I got through it, but it was really tough,« the person says.

    Taking part in the petition not only had consequences during the programme, but also on the job market afterwards:

    »At one point, I got a job offer at another university, but when they found out that I had been involved in the petition, they withdrew the offer. They simply did not dare run the risk as they were afraid it might look like the university supported terrorism. I could not get a normal life up and running, in any way,« the person says.

    »The populist local newspapers started to print my name and picture. An investigation of me was started because I had run a workshop on the psychology programme about how to support queer students, just so that the instructors could master the basic terminology. They said I was spreading propaganda and homosexuality at the department,« the person says and laughs.

    »It sounds like something from an action movie. It’s crazy, but that’s what happened.
    Stress at work and concerns about the future

    The person chose to leave their home country after Scholars at Risk had organised a job in Belgium, then Denmark and now Norway.

    »The hardest thing about this system is that you get help, but only for one year at a time. Then you need to figure out what is going to happen afterwards. This is very frustrating. You can’t help but worry about what’s going to happen to you.«

    Even though life is unstable, it does not change the fact that academic articles need to be produced, so you can be considered as the next hire. The researcher’s work starts at eight o’clock in the morning and ends at eight or nine in the evening – every day.

    »I know that my time is limited and that I am assessed by how productive I have been during my stay,« the person says.

    The person’s waking hours are either spent at work or at activist events with LGBT+ groups among ethnic minorities – but daily life is difficult:

    »Three years ago, I thought I could make a fresh start when I was offered my first one-year job through Scholars at Risk. I only thought this would last a year. Now my thoughts about the future are always associated with anxiety. My stay has just been extended by one year, but what will happen after that? It stresses me out, and I’m tired of jumping from country to country.«

    Life in a new country demanding, even if there are networks like Scholars at Risk:

    »I feel more free to do my research. But when you come to a university as a persecuted researcher, it’s difficult to get to know people. After all, I’m only here for a year, and I often feel quite excluded. It’s hard to collaborate, because people don’t know me and I may not think I’m qualified enough. I didn’t really feel included at the University of Copenhagen, neither did I in Brussels. You are not seen as a colleague, but as a temporary guest.«
    Attacks on freedom of research are weeds in the garden of Europe

    Robert Quinn is a human rights lawyer, and he founded Scholars at Risk. We meet on Zoom, while it is still morning in his home New York City.

    »The world now seems to see, why this work matters more now. Ten years ago, we took it for granted that everyone agreed on what the truth was. Now, people are attacking the concept of truth, that there is a truth and really just manufacturing what they claim, when it clearly isn’t from true a scholar’s point of view. I think the roots of the tree are under attack and it’s our job as a network to help explain that to the public and to defend those.«

    Robert Quinn can understand why there is the fear that censorship of research is taking hold in countries that are oriented towards the West:

    »There has always been this tension between ideas and power.«

    Quinn will not, however, go so far as to call president Trump a direct threat to the freedom of research:

    »We have a leader and a leading party that are collaborating in an erosion of truth. That’s a problem, but it isn’t a direct attack on universities.«

    According to Robert Quinn, a democratic country like Denmark is not at high risk of research censorship. Denmark is, however, geographically, diplomatically and financially linked to countries that do not follow the same rulebook:

    »If you have a beautiful garden and some weeds appear, you should take care of them, right? It would be alarmist to say, that because there are a few weeds, the garden is about to be destroyed. But it’s not alarmist to realize, that if you don’t take care of them, they will eventually take over the whole garden,« he says.
    We must become better at the difficult conversations

    We all need to help maintain academic integrity, according to Robert Quinn.

    »I think it’s really good that you, politely, but firmly insist on these difficult conversations and talk about the mechanisms and discourses at the university. We have to ritualize the practices of academic freedom, so that the whole community knows why it matters, and what it is.«

    What can you do yourself as a teacher or a student?

    »We are all small actors, but big solutions come from small actors working together. I think it’s important to have conversations about the mechanisms of discourse on campus. We have to ritualize the practices of academic freedom, so that the whole community knows why it matters, and what it is. So, when someone is being shouted down, is being disinvited, when someone is fired, that’s a violation of those principles. If we ritualize those, we develop a vocabulary together and some trust, so when something does happen, we can talk about it,« says Robert Quinn.
    Has a life, but the family is not there

    After the interview with the persecuted researcher who wishes to remain anonymous has lasted an hour, I have still not got a reply to many of my questions. More of the time has passed negotiating anonymity than with the person’s own experience of freedom of research and persecution in the hands of the rulers of their home country. But I’ve learned that the anonymous researcher’s daily life resembles that of many others: Work, TV series, sports with friends and a new car. And yet: What is missing is the family that they have not seen for four years:

    »My family is still in my home country. We often talk over Skype. I think about them a lot. They are happy that things are going well for me here in Europe. I love my country, and I will try to go back as soon as possible. I don’t know when I’ll see them again. I expect that it will take at least three years before I can return home, but it all depends on how things go in my home country.«

    The person thanks me for my patience in listening, and the hidden number hangs up.

    https://uniavisen.dk/en/scientists-on-the-run-they-said-that-i-was-spreading-propaganda-and-homose

    #scholars_at_risk #liberté_d'expression #liberté_académique #université #Robert_Quinn #productivité #migrerrance #censure

  • L’histoire d’un bluesman peut-elle donner naissance à une œuvre littéraire ?

    Robert Johnson, guitariste et vocaliste, est l’une des grandes légendes du blues. Un guitariste hors pair, un chanteur à la voix expressive, mélancolique souvent, joyeuse, heureuse de s’entendre en vie.

    note sur : Jonathan Gaudet : La ballade de Robert Johnson

    https://entreleslignesentrelesmots.blog/2021/01/23/lhistoire-dun-bluesman-peut-elle-donner-naissance-a-une

    #biographie #blues

  • Deep Blues - Robert Palmer. Editions Allia - #Livre
    https://www.editions-allia.com/fr/livre/891/deep-blues

    “Les esclaves qu’on mettait au travail dans les champs du Sud provenaient de toutes les régions d’Afrique où sévissait la traite négrière. Que ce soit en chantonnant pour eux-mêmes, en criant des hollers d’un bout à l’autre du champ, ou en chantant collec­tivement pendant les heures de travail ou de culte, ils construisirent un langage musical hybride où se retrouvait la quintessence d’innombrables traditions vocales africaines­­­­.”

    #Robert_Palmer est né en 1945 et a grandi dans l’Arkansas. Très jeune il fait preuve d’un vif intérêt pour la musique populaire, aussi bien comme musicien, qu’en collaborant à différentes revues. Contributeur de Rolling Stone, il devient ensuite le premier rédacteur du New York Times à consacrer exclusivement sa plume au rock. Il enseigne par la suite l’ethnomusicologie à l’université du Mississippi, et produira des albums pour le label #Fat_Possum_Records. Il meurt en 1997.

    https://seenthis.net/messages/734920
    https://www.editions-allia.com/files/pdf_803_file.pdf

    Paul Wine Jones Kitty Kat Mule (1995)
    https://paulwinejones.bandcamp.com/track/kitty-kat


    #Blues