• La renaissance de l’humain est la seule croissance qui nous agrée

    Raoul Vaneigem

    https://lavoiedujaguar.net/La-renaissance-de-l-humain-est-la-seule-croissance-qui-nous-agree

    Les coups de boutoir que la liberté porte à l’hydre capitaliste, qui l’étouffe, font fluctuer sans cesse l’épicentre des perturbations sismiques. Les territoires mondialement ponctionnés par le système du profit sont en butte à un déferlement des mouvements insurrectionnels. La conscience est mise en demeure de courir sus à des vagues successives d’événements, de réagir à des bouleversements constants, paradoxalement prévisibles et inopinés.

    Deux réalités se combattent et se heurtent violemment. L’une est la réalité du mensonge. Bénéficiant du progrès des technologies, elle s’emploie à manipuler l’opinion publique en faveur des pouvoirs constitués. L’autre est la réalité de ce qui est vécu quotidiennement par les populations.

    D’un côté, des mots vides travaillent au jargon des affaires, ils démontrent l’importance des chiffres, des sondages, des statistiques ; ils manigancent de faux débats dont la prolifération masque les vrais problèmes : les revendications existentielles et sociales. Leurs fenêtres médiatiques déversent chaque jour la banalité de magouilles et de conflits d’intérêts qui ne nous touchent que par leurs retombées négatives. (...)

    #conscience #réalités #mensonge #dévastation #violence #La_Boétie #vie_quotidienne #souveraineté #capitalisme #explosion #Mirbeau #autonomie #auto-organisation #autodéfense #offensive #insurrections #écologistes #utopie #Gilets_jaunes #Chili #zapatistes #Rojava #Catalogne #Iran

    • Pour information, dans le mail qui accompagnait ce texte.

      A toutes et à tous,

      Je prépare l’édition d’un petit livre intitulé Textes et entretiens sur l’insurrection de la vie quotidienne, qui doit paraître aux éditions Grevis, en avril 2020. J’ai ajouté à ces interventions, qui vont de novembre 2018 à août 2019, des remarques susceptibles de contribuer aux débats et aux luttes en cours en France et dans le monde.

      La date tardive de parution du livre m’a suggéré de diffuser dès maintenant sur les réseaux sociaux ces propos sur la renaissance de l’humain. Leur lecture peut être utile avant la comédie étatique des élections municipales françaises, et en raison des flux et des reflux insurrectionnels où la moindre initiative d’individus et de collectivités, animés par la redécouverte de la vie et du sens humain, revêt une importance croissante.

      Libre à vous d’en faire (ou non) l’usage qui vous plaira.
      #raoul_vaneigem #vaneigem

  • Kurdistan syrien. « Nous n’avons aucune confiance dans les acteurs sur le terrain »
    https://orientxxi.info/magazine/kurdistan-syrien-nous-n-avons-aucune-confiance-envers-les-acteurs-sur-le
    source : @orientxxi

    Autour de la défaite du Rojava
    http://cqfd-journal.org/Autour-de-la-defaite-du-Rojava
    source : @cqfd

    Depuis le retrait des forces américaines le 9 octobre, la Turquie est à l’offensive dans le Nord-Est de la Syrie. Ce lâchage de Trump a poussé les combattants kurdes à accepter le retour des troupes du régime d’Assad, face à l’armée turque et ses supplétifs qui menacent, selon les mots du président turc, d’ » écraser [leurs] têtes ». Le 22 octobre, Erdogan et Poutine, véritable maître du jeu syrien, se sont accordés sur le désarmement des combattants kurdes. Ce qui semble sonner le glas de l’expérience fédéraliste du #Rojava.

    http://cqfd-journal.org/Ils-nous-bombardent-au-napalm

  • Le rêve des Kurdes : Rojava | ARTE
    https://www.arte.tv/fr/videos/093089-000-A/le-reve-des-kurdes-rojava

    Documentaire de Michael Enger, 2019.

    Que va-t-il désormais se passer dans le nord de la Syrie ? Tous les protagonistes du conflit ont leurs propres stratégies pour la région – les Américains, le régime d’Assad, la Russie, l’Iran et la Turquie. Mais qu’en est-t-il des aspirations des Kurdes ?

    #kurdistan #rojava #syrie #turquie

  • Entretien avec Eugenia, secrétaire du Comité du Croissant-Rouge Kurde de Suisse [Heyva sor a Kurdistanê Swêsre : http://heyvasor.ch/fr/accueil/]. 20.10.2019.

    Situation et actions du #Croissant-Rouge. Comprendre la tragédie là-bas et comment se solidariser depuis ici :

    Aide d’urgence. Quelques conseils et suggestions par Eugenia :
    _Parler, expliquer, sensibiliser, alerter et interpeller quant à la situation du Rojava.
    _Faire suivre ce lien au plus grand nombre
    _Si l’on peut et à sa mesure, procéder à un don et/ou devenir membre du Croissant-Rouge Kurde en Suisse


    http://libradio.org/?p=7190
    L’audio :
    http://libradio.org/wp-content/uploads/2019/10/CRK_Master.mp3

    #Kurdistan #Kurdes #conflit #Kurdistan_syriens #Turquie #guerre #audio #Rojava

  • « 7 giorni con i curdi » : il mio diario dal campo profughi di #Makhmour

    Una settimana nell’Iraq settentrionale per toccare con mano un modello di democrazia partecipata messo in piedi da 13mila profughi. Che sperano in un futuro diverso.

    Questi non sono appunti di viaggio, ma di un’esperienza in un campo profughi che in questi mesi è diventato un campo di prigionia. Il campo di Makhmour è sorto nel 1998, su un terreno arido assegnato dall’Iraq all’ONU per ospitare i profughi di un viaggio infinito attraverso sette esodi, dopo l’incendio dei villaggi curdi sulle alture del Botan nel 1994 da parte della Turchia.

    Niente di nuovo sotto il sole, con Erdogan.

    Quei profughi hanno trasformato quel fazzoletto di terra senza un filo d’erba in un’esperienza di vita comune che è diventata un modello di democrazia partecipata del confederalismo democratico, l’idea di un nuovo socialismo elaborata da Apo Ocalan nelle prigioni turche, attorno al pensiero del giovane Marx e di Murray Bookchin.

    Il campo di Makhmour non è un laboratorio, è una storia intensa di vita.

    Da vent’anni questi tredicimila profughi stanno provando a realizzare un sogno, dopo aver pagato un prezzo molto, troppo elevato, in termini di vite umane. Nel campo vi sono tremilacinquecento bambini e il 70% della popolazione ha meno di 32 anni. La loro determinazione a vivere una vita migliore e condivisa ha superato finora tutti gli ostacoli. Anche l’assalto da parte dell’ISIS, respinto in pochi giorni con la riconquista del campo. Il loro campo.

    Da alcuni mesi sono sottoposti a un’altra dura prova. Il governo regionale del Kurdistan iracheno ha imposto, su istigazione del regime turco, un embargo sempre più restrittivo nei loro confronti. Nessuno può più uscire, né per lavoro né per altri motivi.

    Siamo stati con loro alcuni giorni, in un gruppo di compagni e compagne dell’Associazione Verso il Kurdistan, condividendo la loro situazione: dalla scarsità di cibo, che si basa ormai solo sull’autoproduzione, alla difficoltà di muoversi al di fuori del perimetro delimitato e dimenticato anche dall’ONU, sotto la cui tutela il campo dovrebbe ancora trovarsi.

    Le scritte dell’UNHCR sono sempre più sbiadite. In compenso, le scritte e gli stampi sui muri del volto e dello sguardo di Apo Ocalan sono diffusi ovunque.

    Anche nella Casa del Popolo in cui siamo stati ospiti, dormendo per terra e condividendo lo scarso cibo preparato con cura dagli uomini e dalle donne che ci ospitavano.

    Ma per noi ovviamente questo non è nulla, vista la breve temporaneità della nostra presenza. Per loro è tutto.

    In questi anni hanno provato a trasformare il campo nella loro scelta di vita, passando dalle tende alla costruzione di piccole unità in mattoni grigi, quasi tutte con un piccolo orto strappato al deserto. E, in ogni quartiere, con l’orto e il frutteto comune.

    Ci sono le scuole fino alle superiori, con un un indirizzo tecnico e uno umanistico, suddivise in due turni per l’alto numero degli alunni. Fino a tre mesi fa, terminate le superiori, potevano andare all’università a Erbil, il capoluogo del Kurdistan iracheno.

    Al mattino li vedi andare a scuola, a partire dalle elementari, con la camicia bianca sempre pulita e i pantaloni neri. E uno zaino, quando c’è, con pochi libri essenziali. Ragazzi e ragazze insieme: non è per niente scontato, in Medio Oriente.

    Durante le lezioni non si sente volare una mosca: non per disciplina, ma per attenzione. Non vanno a scuola, per decisione dell’assemblea del popolo, per più di quattro ore al giorno, proprio per evitare che il livello di attenzione scenda fino a sparire. Dovrebbe essere una cosa logica ovunque, ma sappiamo bene che non è così, dove si pensa che l’unico obiettivo sia accumulare nozioni. Le altre ore della giornata sono impegnate in diverse attività di gruppo: dalla cultura al teatro, dalla musica allo sport, autoorganizzate o seguite, in base all’età, da giovani adulti che hanno studiato e che non possono vedere riconosciuto il loro titolo. Perché sono persone senza alcun documento, da quando sono state cacciate dalla loro terra.

    Tenacemente, soprattutto le donne svolgono queste attività, lavorando alla formazione continua per ogni età, dai bambini agli anziani.

    Difficile è capire, se non si tocca con mano, il livello di protagonismo delle donne nell’Accademia, nella Fondazione, nell’Assemblea del popolo, nella municipalità e nelle altre associazioni.

    Si sono liberate dai matrimoni combinati e hanno eliminato il fenomeno delle spose bambine: non ci si può sposare prima dei 18 anni.

    Tutto viene deciso assemblearmente, tutto viene diviso equamente.

    Uno slancio di vitalità comune, in un dramma che dura da vent’anni e in un sogno di futuro che richiede anche di essere difeso, quando necessario, con le armi.

    I giovani armati vegliano sul campo dalle montagne.

    Questo esperimento di democrazia partecipata negli ultimi anni è stato adottato in Rojava, la parte di Siria abitata prevalentemente dal popolo curdo e liberata con il contributo determinante delle donne: un’esperienza da seguire e da aiutare a rimanere in vita, soprattutto in questo momento in cui la Turchia vuole distruggerla.

    Lì abitano tre milioni di persone, le etnie e le religioni sono diverse. Eppure il modello del confederalismo democratico sta funzionando: per questo rappresenta un esempio pericoloso di lotta al capitalismo per i regimi autoritari ma anche per le cosiddette democrazie senza contenuto.

    Nel caos e nel cuore del Medio Oriente è fiorito di nuovo un sogno di socialismo. Attuale, praticato e condiviso.

    Dobbiamo aiutarlo tutti non solo a sopravvivere e a resistere all’invasione da parte della Turchia, ma a radicarsi come forma di partecipazione attiva ai beni comuni dell’uguaglianza e dell’ecologia sociale e ambientale.

    L’obiettivo della missione era l’acquisto a Erbil e la consegna di un’ambulanza per il campo. Non è stato facile, vista la situazione di prigionia in cui vivono gli abitanti, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Il giorno dopo la nostra partenza è stato impedito dal governo regionale l’ingresso a un gruppo di tedeschi, con alcuni parlamentari, che doveva sostituirci.

    Di seguito trovate gli appunti sugli incontri, dal mio punto di vista, più significativi.

    Mercoledì 2 ottobre: il protagonismo delle donne

    Al mattino partecipiamo all’incontro delle madri al Sacrario dei caduti. Sala piena, chiamata a convalidare i risultati dell’assemblea di sabato scorso. Interviene Feliz, una giovane donna copresidente dell’assemblea del popolo, che ci sta accompagnando negli incontri in questi giorni. Il suo è un intervento forte, da leader politico. Questa ragazza è sempre in movimento, instancabile. Attorno, sulle pareti, spiccano le fotografie di almeno millecinquecento uomini e donne, spesso giovani, morti nelle varie lotte di difesa del campo. Millecinquecento su dodicimila abitanti: praticamente non esiste una famiglia che non sia stata coinvolta nella difesa drammatica dei valori comuni. Anche da qui si capisce l’identità forte dei sentimenti condivisi di una comunità.

    Le donne elette per rappresentare l’Associazione si impegnano a rispettarne i principi, tra cui difendere i valori della memoria e non portare avanti interessi personali o familiari.

    Sempre in mattinata, andiamo alla sede della Fondazione delle donne. Gestiscono cinque asili, una sartoria e l’atelier di pittura. La loro sede è stata rimessa a nuovo dopo la distruzione avvenuta nei giorni di occupazione dell’ISIS. Sulla parte bianca, spicca una frase di Apo Ocalan: “Con le nostre speranze e il nostro impegno, coltiviamo i nostri sogni”. L’impegno principale della Fondazione è per il lavoro e la dignità di donne e bambini. Nei loro laboratori sono impegnate sessanta persone. Seguono poi duecento giovani, bambini e ragazzi, dai sei ai diciassette anni, al di fuori dell’orario scolastico, che si autoorganizzano autonomamente: decidono insieme giochi, regole, organizzano teatri e feste.

    La Fondazione è gestita collettivamente, da un coordinamento, che si trova una volta alla settimana; una volta all’anno l’assemblea generale fa il punto sui risultati, i problemi, le prospettive.

    Vengono seguite anche le famiglie con problemi e si affrontano anche le situazioni di violenza domestica, ricomponibili anche con il loro intervento. Per le situazioni più drammatiche e complesse si porta il problema all’assemblea delle donne, che decide in merito. Ma il loro lavoro sul riconoscimento, il rispetto e il protagonismo delle donne avviene con tutti, anche con gli uomini, e si svolge ovunque, anche con l’educativa di strada.

    La promotrice della Fondazione, Sentin Garzan, è morta combattendo in Rojava. A mezzogiorno siamo ospiti di un pranzo preparato da chi lavora al presidio ospedaliero.

    Nel tardo pomeriggio, in un clima dolce e ventilato con vista sulla pianura e la cittadina di Makhmour, incontriamo l’Accademia delle donne. Tutto, o quasi, al campo di Makhmour, parla al femminile. Bambini e bambine giocano insieme. Le ragazze e le donne giovani non portano nessun velo, se non, a volte, durante le ore più calde della giornata. Ma è un fatto di clima, non di costume o di storia o di costrizione. Le donne più anziane portano semplici foulards.

    All’Accademia le ragazze molto giovani, in particolare psicologhe, sociologhe, insegnanti. Ma soprattutto militanti.

    Per comprendere una storia così intensa, bisogna partire dalle origini del campo, costituito, dopo sette peregrinazioni imposte a partire dal 1995, nel 1998 da rifugiati politici della stessa regione montuosa del Kurdistan in Turchia, il Botan.

    Dopo, si sono aggiunti altri rifugiati. La loro è la storia intensa dell’esodo, con i suoi passaggi drammatici. Ma anche con l’orgoglio dell’autoorganizzazione.

    Le donne dell’Accademia ci parlano del lungo e faticoso percorso svolto dall’inizio dell’esodo fino a oggi. Una delle figure di riferimento più importanti rimane Yiyan Sîvas, una ragazza volontaria uccisa nel 1995 nel campo di Atrux, uno dei passaggi verso Makhmour.

    Era molto attiva nella lotta per i diritti civili e sociali. Soprattutto delle donne. E nella difesa della natura: anticipava i tempi.

    Yiyan Sîvas è stata uccisa, colpita al cuore in una manifestazione contro un embargo simile a quello attuale. Il vestito che indossava, con il buco del proiettile e la macchia di sangue rappreso, è custodito gelosamente nella sede dell’Accademia, aperta nel 2003.

    All’Accademia si occupano di formazione: dall’alfabetizzazione delle persone anziane che non sanno leggere e scrivere, all’aiuto nei confronti di chi incontra difficoltà a scuola, lavorando direttamente nei quartieri.

    Ma il loro scopo principale è la formazione attraverso i corsi di gineologia (jin in curdo significa donna), sulla storia e i diritti di genere; e sulla geografia, che parla da sola delle loro origini. Si confrontano con le differenze, per far scaturire il cambiamento. Che consiste in decisioni concrete, prese dall’assemblea del popolo, come l’abolizione dei matrimoni combinati, il rifiuto del pagamento per gli stessi, il divieto del matrimonio prima dei diciotto anni.

    Per una vita libera, l’autodifesa delle donne è dal maschio, ma anche dallo Stato. Sono passaggi epocali nel cuore del Medio Oriente.

    «Se c’è il problema della fame», dice una di loro, «cerchi il pane. Il pane, per le donne in Medio Oriente, si chiama educazione, protagonismo, formazione. Che è politica, culturale, ideologica. Con tutti, donne e uomini».

    L’Accademia forma, l’Assemblea decide: è un organismo politico. Che si muove secondo i principi del confederalismo democratico, il modello di partecipazione ideato da Apo Ocalan, con riferimento al giovane Marx da una parte e a Murray Bookchin, da “L’Ecologia della Libertà”, a “Democrazia diretta” e a “Per una società ecologica. Tesi sul municipalismo libertario”.

    Ma il confederalismo democratico conosce una storia millenaria. Appartiene alla tradizione presumerica, che si caratterizzava come società aperta: con la costruzione sociale sumerica è iniziata invece la struttura piramidale, con la relativa suddivisione in caste.

    Si parla di Mesopotamia, non di momenti raggrinziti in tempi senza storia.
    Giovedì 3 ottobre: il confederalismo democratico

    Questa mattina incontriamo i rappresentanti dell’Assemblea del popolo. Ci sono la copresidente, Feliz, e alcuni consiglieri. Verso la fine della riunione arriva anche l’altro copresidente, reduce dal suo lavoro di pastore. Di capre e, adesso, anche di popolo.

    Feliz spiega i nove punti cardine del confederalismo democratico:

    La cultura. Si può dire che nel campo di Makhmour da mattina fino a notte si respira cultura in tutte le sue espressioni e a tutte le età;
    La stampa, per diffondere le idee, i progetti e le iniziative che il campo esprime;
    La salute: da qui l’importanza del presidio ospedaliero e dell’attività di informazione e prevenzione;
    La formazione, considerata fondamentale per condividere principi, valori e stili di vita comuni;
    La sicurezza della popolazione: la sicurezza collettiva garantisce quella individuale, non viceversa;
    I comitati sociali ed economici per un’economia comune e anticapitalista;
    La giustizia sociale;
    La municipalità, quindi il Comune, con sindaca, cosindaco o viceversa, con il compito di rendere esecutivi i progetti decisi dall’Assemblea; e, insieme, alla municipalità, l’ecologia sociale, considerata come un carattere essenziale della municipalità.
    L’ecologia sociale va oltre l’ecologia ambientale: è condizione essenziale per il benessere collettivo;
    La politica.

    Ognuno di questi punti viene declinato nelle cinque zone del campo, ognuna composta da quattro quartieri. Il confederalismo democratico parte da lì, dai comitati di quartiere, che si riuniscono una volta alla settimana e ogni due mesi scrivono un rapporto su problemi e proposte, scegliendo alcune persone come portavoce per l’Assemblea del popolo.

    L’Assemblea del popolo è composta dalla presidente, dal copresidente e da 131 consiglieri. Presidente e copresidente sono presenti tutti i giorni, a tempo pieno.

    Le cariche durano due anni, rinnovabili per un mandato. La municipalità viene eletta dal popolo. Non sempre è facile arrivare alle decisioni, perché tutto deve essere condiviso.

    L’incontro non è formale: si discute infatti di come utilizzare il luogo individuato per l’ospedale, a partire dall’ampliamento del poliambulatorio. Si tratta di coprire la struttura e, allo stesso tempo, di decidere come utilizzare gli spazi, visto che sono troppo grandi per un ospedale di comunità. Viene esclusa l’ipotesi della scuola per la dimensione dei locali; vengono prese in considerazione altre ipotesi, come la nuova sede per le attività dell’Associazione che si prende cura dei bambini down, che ha elaborato un proprio progetto, e il laboratorio di fisioterapia. Ma il primo passo, concreto, è l’avvio dei lavori per la copertura della struttura.

    Il confederalismo democratico ritiene che le comunità, per poter coinvolgere tutti, debbano avere una dimensione ottimale di diecimila persone. Il campo è abitato da tredicimila persone e il modello, con le sue fatiche, funziona.

    Il modello in questi anni è stato adottato in Rojava, dove vi sono oltre tre milioni di persone di etnie diverse e lì il banco di prova è decisivo. Se la Turchia non riuscirà a distruggerlo.

    Ma chi lo ha proposto e lo vive non solo ci crede, lo pratica con la grande convinzione che sia il modo per cambiare dalla base la struttura sociale del Medio Oriente.

    Venerdì 4 ottobre: Incontro con “M”

    Incontriamo una rappresentante che ci parla delle donne che hanno combattuto a Kobane. Nel suo racconto, nell’analisi della situazione e nella valutazione delle prospettive, alterna passaggi piani a momenti di forte impatto emotivo.

    Si parla del protagonismo delle donne nella liberazione del Rojava. «La guerra non è mai una bella cosa», racconta, «ma la nostra è stata, è una guerra per l’umanità. Per la difesa della dignità umana. Le donne sono partite in poche: quattro o cinque di nazionalità diverse, ma unite dall’idea che fosse necessario armarsi, addestrarsi e combattere l’oppressione e il fondamentalismo per affermare la possibilità di una vita migliore. Per le donne, ma anche per gli uomini». Per tutti.

    «A Kobane la popolazione aveva bisogno di essere difesa dall’attacco dell’ISIS: da un problema di sicurezza è scaturita una rivoluzione vera. Una rivoluzione che non è solo curda, o araba, ma è una rivoluzione popolare, che sta costruendo un nuovo modello di democrazia partecipata».

    In Medio Oriente, cuore della Terza Guerra Mondiale scatenata dai conflitti interni e orchestrata dalle potenze mondiali.

    «Quando ci si crede, si può arrivare a risultati impensabili. Non importava essere in poche. All’inizio non è stato facile, nel rapporto con le altre donne: per la prima volta si trovavano davanti alla scelta della lotta armata in prima persona, dal punto di vista femminile. Poi hanno compreso, quando hanno visto le loro figlie venire con noi, crescere nella consapevolezza e nella determinazione per organizzare la resistenza popolare. L’organizzazione popolare è diventata determinante, non solo a Kobane, ma in tutto il Rojava.

    Le donne, quando vogliono raggiungere un obiettivo, sono molto determinate. E sono molto più creative degli uomini.

    Così hanno trasformato una guerra di difesa in una possibilità di cambiamento rivoluzionario, in cui tutti possono partecipare alla costruzione di un destino comune, provando a superare anche le divisioni imposte nei secoli dalle diverse religioni». Nel caos del Medio Oriente, dove in questo momento l’Iraq è di nuovo in fiamme.

    «Oggi il nemico per noi rimane l’ISIS: l’YPG (la nostra formazione guerrigliera maschile) e l’YPJ (la nostra formazione guerrigliera femminile) lo hanno sconfitto, ma rimangono sacche sparse dell’ISIS e cellule dormienti all’interno dei territori liberati. Il nemico però è soprattutto la Turchia, la cui strategia sullo scacchiere del Medio Oriente, dove tutte le potenze mondiali vogliono dare scacco al re, è l’occupazione della striscia di terra che corre sotto il confine con la Siria e che collega storicamente l’Occidente e l’Oriente.

    Questo territorio è il Rojava: per questo il regime di Erdogan vuole distruggerci. Sostiene, come ad Afrin, di volersi presentare con il ramoscello d’ulivo: in realtà, ad Afrin ha portato forme di repressione sempre più aspre, nuove forme di violenza etnica, una nuova diffusione dei sequestri di persona. Per arrivare al suo obiettivo, la Turchia sta costruendo un altro ISIS, come ha fatto con l’originale. Solo una parte delle tre milioni di persone presenti in Turchia è costituita da profughi: sono quelli che il regime vuole cacciare e spinge a viaggi disperati e rischiosi verso l’Europa. Gli altri sono integralisti, diretti o potenziali, che il regime di Erdogan intende tenere, avviandoli a scuole di formazione religiosa e militare, fino a quando li manderà di nuovo in giro a seminare il terrore.

    La Turchia utilizza i miliardi di dollari forniti dall’Europa per ricostituire un nuovo ISIS da utilizzare nello scenario della Terza Guerra mondiale». La vecchia strategia di destabilizzare per stabilizzare con il terrore.

    «La Turchia utilizza la Russia, la Russia la Turchia, la Turchia gli Europei. L’Europa, aiutando la Turchia, sta diffondendo dei nuovi veicoli di infezione.

    La vittima designata è il popolo curdo, ma il popolo curdo ha la testa dura.

    La minaccia principale incombe sul territorio libero del Rojava, dove è in corso un esperimento concreto di confederalismo democratico, con la partecipazione di tutte le etnie. Lo stiamo facendo con un forte impegno e una grande fatica, ma questa è la via per portare una vita migliore in una regione devastata dai conflitti etnici e religiosi, interni e scatenati dall’esterno».

    Particolarmente importante, in questa situazione, è la condizione della donna. «Quando le condizioni della donna migliorano, migliora la situazione per tutti, perché vincono i principi e l’ideologia della vita contro i nazionalismi e le strumentalizzazioni del capitalismo internazionale.

    Prima tutti dicevano di volerci dare una mano. Ma la memoria di molti è troppo corta. Le organizzazioni umanitarie ufficiali si schierano sempre con gli Stati, non con i movimenti di liberazione.

    Il nostro obiettivo è mantenere il Rojava libero di fronte alla minaccia dell’occupazione. Dobbiamo sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale attorno a questa nuova speranza per il Medio Oriente e costruire un ponte tra il Kurdistan e l’Europa.

    Il potere della società è come un fiume che, scorrendo, cresce in maniera sempre più ampia. Noi vogliamo resistere per creare una vita migliore.

    Voi, delle associazioni non legate al potere degli Stati, potete aiutarci contribuendo a diffondere le nostre idee, la nostra esperienza, la nostra storia».

    Sabato 5 ottobre: incontro con i giovani che difendono il campo

    Nel tardo pomeriggio incontriamo la Guardia Armata del Campo. Ci raccontano che dopo il bombardamento con i droni dell’aprile scorso, non ci sono state altre incursioni da parte dei turchi. La tensione però rimane alta anche perché nelle vicinanze ci sono ancora gruppi sparsi dell’Isis. Facciamo qualche domanda a proposito della loro vita. Ci dicono che chi si dedica alla causa curda può arruolarsi dai 18 anni in poi, anche per sempre. Se si vuol lasciare un impegno così pieno si può farlo senza problemi, anche se i casi sono rari.

    Li vediamo al tramonto. Appartengono alla formazione che ha liberato Makhmour e soprattutto Kirkuk, dove i peshmerga, l’organizzazione armata del governo regionale del Kurdistan iracheno, si trovavano in difficoltà e stavano per essere sopraffatti dall’avanzata dell’ISIS.

    A Makhmour hanno liberato sia il campo che la città, sede del più grande deposito di grano dell’Iraq. Poi sono tornati sulle montagne.

    Con noi parla con grande convinzione uno dei ragazzi, il portavoce: gli altri condividono con gesti misurati le sue parole. Nessuno di loro ha più di venticinque anni, ma tutti e tre ne dimostrano meno.

    Il ragazzo dice che la loro scelta è stata spontanea, e che li guida l’idea della difesa del popolo dall’oppressione degli Stati: non solo quelli che incombono sul popolo curdo (Turchia, Siria, Iraq, Iran), ma sul popolo in generale. In questi giorni stanno dalla parte delle proteste popolari contro il governo che sono in atto a Bagdad: la loro lotta è contro il capitalismo e durerà fino all’affermazione del socialismo che, nella loro visione, oggi si esprime attraverso il confederalismo democratico.

    L’atmosfera è coinvolgente. Sotto, nella pianura, le prime luci si diffondono sul campo. Sopra, sulla montagna, loro proteggono e tutelano la serenità di bambini, donne e uomini.

    I bambini del campo sono tanti e cantano insieme con un’allegria contagiosa, a ripetere giochi antichi e sempre attuali: insieme, bambini e bambine.

    Loro si alzano alle quattro, poi dedicano il mattino alla formazione politica e all’addestramento fisico per chiudere la giornata con l’addestramento militare. Militanti a tempo pieno.

    Sono convinti che o il futuro del mondo è il socialismo come forma di democrazia diretta e partecipata, o sarà solo morte e distruzione, come da troppi anni è in Medio Oriente, in mano alle oligarchie di potere manovrate dagli interessi del capitalismo internazionale.

    Alla domanda se non li ferisce il fatto che la propaganda turca e di altri Paesi occidentali li chiama terroristi, la loro risposta è: «A noi interessa quello che pensa il popolo, non quello che dicono questi signori».

    Nella quotidianità questi ragazzi non conoscono giorni di riposo o di vacanza, hanno sporadici rapporti con le famiglie per motivi di sicurezza, non sono sposati.

    Proprio adesso, nel momento dell’incontro, dalla pianura salgono le musiche popolari di un matrimonio, alla cui festa vanno tutti quelli che vogliono partecipare, con le danze tradizionali e i costumi rivisitati in chiave attuale.

    Ieri, a un altro matrimonio, ci siamo stati anche noi. Si respirava un’aria autentica, come erano queste feste anche in Occidente prima di diventare un’espressione inautentica di lusso ostentato e volgare.

    I giovani guerriglieri intendono continuare fino a quando momenti come questo, di partecipazione popolare, saranno la regola di pace e non l’eccezione in un clima di guerra.

    Nelle parole e nei gesti sono sobri e austeri, quasi oltre la loro età.

    Dopo un’ora si alzano dalle rocce su cui ci siamo trovati e, dopo averci salutato con un abbraccio intenso, si avviano verso la montagna, veloci e leggeri.

    Non esibiscono le armi; appartengono loro come uno strumento di difesa e di protezione. Come il bastone del pastore, che vigila sul suo gregge.

    Non sono ombre, ma appaiono solari nel tramonto che scende lentamente verso la Siria.
    Domenica 6 ottobre: l’uscita dal campo

    Oggi tocchiamo con mano che cosa vuol dire l’embargo per il campo di Makhmour imposto dal governo regionale del Kurdistan iracheno, in accordo con la Turchia. Il popolo del campo da tre mesi non può uscire, né per lavoro, né per altri motivi. Il rappresentante delle relazioni esterne ha chiesto il permesso per poterci accompagnare fino a Erbil, ma il permesso è stato negato. Potranno accompagnarci solo fino al primo check point, dove ci aspettano dei tassisti della città di Makhmour. Da lì in avanti è una sequenza di controlli: sbrigativi quelli ai due posti di controllo iracheni, sempre più lunghi e insistenti ai tre posti di controllo del governo regionale.

    Tra il campo e l’esterno è stata posta una serie di barriere a ostacoli.

    Ci vogliono oltre due ore per arrivare ad Erbil, dove arriviamo in un normale albergo dopo dieci notti sul pavimento della casa del popolo. Non mi piace per nulla questo passaggio: ho già nostalgia di quei giorni, con il poco cibo curato con grande attenzione, e di quelle notti in sette per stanza, su dei tappeti stesi a terra.

    Lucia e altri compagni del gruppo vanno a chiudere la pratica di acquisto dell’autoambulanza. Finalmente, dopo giorni estenuanti per la difficoltà di comunicare con l’esterno dal campo. La pratica viene risolta subito e inaspettatamente, anche con l’aiuto di alcuni compagni dell’HDP, il partito di sinistra nel Kurdistan iracheno. L’ambulanza, nuovissima, viene portata dallo stesso concessionario, una persona sensibile alla questione curda, al campo (lui, essendo un cittadino di Erbil, può muoversi), dove un video registra l’ingresso al presidio ospedaliero. Missione compiuta.

    Con gli altri del gruppo andiamo a fare un giro in città, verso la cittadella. Ma Erbil mi ricorda troppo il nostro mondo, tra l’inquinamento dei pozzi petroliferi alla periferia, le centinaia di autocisterne in fila per il rifornimento, un traffico caotico. Unica differenza con le città occidentali, il suk mischiato alle firme della moda che hanno infettato le città di tutti i continenti. Torno in albergo e guardo lo scorrere delle code dalle vetrate: ho bisogno ancora di una barriera per affrontare questo mondo. Se è ancora un mondo.
    Lunedì 7 ottobre: la differenza

    Saliamo in gruppo alla cittadella di Erbil, patrimonio mondiale dell’Unesco. La più antica cittadella fortificata del mondo, costruita su undici strati successivi. Incontriamo il direttore del sito, che ci accoglie come dei vecchi amici e ci porta a visitare i luoghi ancora chiusi al pubblico per i lavori di scavo.

    Parla fluentemente tedesco e inglese, ha abitato in Germania; poi, in piena guerra, nel 2002 è stato chiamato a ricoprire il ruolo di sindaco della città.

    Lo ha fatto fino al 2016. Erbil ha più di un milione di abitanti, il Kurdistan iracheno non supera i quattro milioni di abitanti. Eppure negli anni scorsi sono stati accolti oltre due milioni di profughi fuggiti di fronte all’avanzata dell’ISIS. E loro li hanno ospitati senza alcun problema. E chi ha voluto rimanere, è rimasto. Mi viene in mente che da noi, noi?, si parla indecentemente di invasione di fronte a poche migliaia di migranti che rischiano la vita attraversando il mare. C’è chi guarda avanti, e forse ha un futuro; e c’ è chi non sa guardare da nessuna parte, e non ha passato, presente e futuro.

    Nella notte tra il 7 e l’8 ottobre si parte. Verso la notte dell’Occidente.

    https://valori.it/curdi-diario-viaggio-campo-profughi
    #camp_de_réfugiés #camps_de_réfugiés #Kurdes #Irak #réfugiés_kurdes #asile #migrations #réfugiés #Öcalan #Apo_Ocalan #Ocalan #Confédéralisme_démocratique #utopie #rêve #jardins_partagés #agriculture #éducation #écoles #jardins_potagers #formation_continue #femmes #démocratie_participative #égalité #écologie_sociale #Assemblée_du_peuple #Rojava #Kurdistan_irakien

  • Entretien téléphonique avec #Lougar, depuis la #Commune_Internationaliste à #Derik, nord-est du #Rojava. Organisation, position, activités, projet et aspirations de la #Commune_libre et considération sur l’agression turque, ses enjeux et la résistance qui a cours.

    http://libradio.org/wp-content/uploads/2019/10/CommInternationaliste_Master.mp3

    #Syrie #Kurdistan #guerre #conflit #Kurdes #Turquie

  • Info-#Rojava 18.10.2019 Complément

    Le « #Kurds_Freedom_Convoy » résiste autour de #Serekanyie. Malgré la proclamation du cessez-le-feu au moins 30 personnes ont été tuées à Serakanyie par l’#aviation et des #drones turques. Le convoi humanitaire de civils qui depuis hier se dirigeait vers la ville pour rompre le #siège et demander l’ouverture d’un couloir humanitaire à été à nouveau attaqué. Au même moment d’autres personnes sont venues grossir la ceinture humaine qui encercle les assiégeants turco-djihadistes. 80 voitures et 400 civils. Le Kurds Freedom Convoy a rejoint à pied le village de #Mishrafa près de Serakanyie. Le village a été rasé au sol. Il y a de nombreux corps de civils tués. Sont également signalé des civils blessés dans d’autres villages avoisinants assiégées par les turques. L’on dénombre 8 tués à #Bab-al-Xer. C’est littéralement du #nettoyage_ethnique qui a cours !
    Quelques images du convoi humanitaires près de Serakanyie. En particulier le village de Mishrafa rasé par les troupes turco-djihadistes.


    http://libradio.org/wp-content/uploads/2019/10/K_Info18102019_Compl%C3%A9ment.pdf
    #convoi #guerre #évacuation #convoi_humanitaire #Kurdistan #Syrie #Kurdes #Turquie #attaque #décès #morts

  • Le projet CARTE est la deuxième production propre à l’archive de la Mémoire Créative de la #révolution_syrienne. La #géographie ici n’est pas le but mais c’est le voyage proposé pour traverser vers “la mémoire de l’évènement et de l’homme”

    C’est un outil puissant et complexe lié à notre moteur de recherche substantiel et performant. le projet #CARTE relie notre #archive constitué de milliers de documents avec leurs emplacements géographiques dans toute la Syrie – environ 200 points entre les provinces, les villes, les banlieues, les quartiers, les rues, etc. et aussi avec les dates, les catégories, les mots-clés ou les auteurs. Il permet au lecteur de tracer les zones dans lesquelles les mouvements révolutionnaires pacifiques ont commencé, en plus de leurs expansions, leurs formes et leurs transformations dans chaque région, sur la base des initiatives et des activités de chaque région.

    C’est un voyage virtuel en #Syrie, au cours duquel les lecteurs peuvent facilement voyager et découvrir les syriens, leurs paroles, leurs rêves et leurs espoirs mais aussi leurs souffrances et leurs tragédies, et surtout la réalité à travers leurs écrits et productions.

    Ce projet a été lancé en Juin 2018
    https://creativememory.org/fr/map


    source : https://orientxxi.info/lu-vu-entendu/chroniques-de-la-revolte-syrienne,3081

  • #Havrin_Khalaf, un #crime_de_guerre doublé d’un #féminicide
    http://www.kedistan.net/wp-content/uploads/2019/10/Havrin-Khalaf-Rojava.jpg

    Havrin Khalaf (#Xelef) avait 35 ans. Elle était kurde. Son engagement auprès des femmes dans le nord de la Syrie, au #Rojava était constant.

    Des mercenaires islamistes ont profité de l’invasion turque pour l’assassiner dans des conditions particulièrement atroces et dégradantes. Il s’agit d’un des nombreux crimes de guerre qui accompagnent l’attaque des forces turques et ses supplétifs djihadistes, doublé d’un féminicide avéré.

    Hommage soit rendu à cette femme, qui, avec beaucoup d’autres, oeuvrait dans cette partie du Moyen-Orient pour la cause des femmes, de la démocratie et de la paix.

    Havrin Khalaf luttait auprès des femmes musulmanes au Rojava. Elle y défendait un modèle d’égalité hommes-femmes. Dans cette région où les tribus restent un modèle d’organisation sociale respecté par les peuples arabes présents, elle avait fait avancer auprès des femmes une résistance au patriarcat, que beaucoup avait éprouvée davantage encore, alors que Daech ces dernières années développait son idéologie meurtrière.

    C’était aussi une militante politique, co-présidente avec un homme arabe, du parti “Avenir de la Syrie” et membre de la direction du Conseil démocratique syrien, formé en 2014, après la reconquête de Kobanê où les combattantes s’illustrèrent de façon éclatante pour repousser les djihadistes. Elle fut donc de celles qui oeuvrèrent, après la proclamation d’une direction fédérale kurde, arabe et assyrienne au Rojava, en 2016, au Nord de la Syrie, pour que les femmes occupent à part entière, de façon paritaire, toutes les responsabilités dans la construction du processus démocratique ouvert.

    Elle luttait pour le pluralisme, l’alliance entre Kurdes, Arabes,,Turkmènes, qu’ils soient musulmans, chrétiens et yézidis. Pour elle, le combat, était le même contre le régime de Bachar El-Assad et contre l’Etat Islamique. Celui contre le patriarcat en constituait aussi le ciment.

    En assassinant de façon ignoble Havrin Khalaf, en s’acharnant sur son corps, c’est à la fois la femme et les idées qui l’animaient que les djhiadistes ont voulu tuer. Personne ne croira au hasard dans ce crime de guerre, perpétré dès l’annonce de l’invasion turque et du retrait américain.

    Les assassins ont pensé que ce crime passerait inaperçu, dans le chaos créé par l’offensive turque, les dizaines de milliers de déplacés (160 000 aujourd’hui selon l’ONU), les bombardements. Et, en effet, c’est seulement après l’hommage qui lui a été rendu, pour l’accompagner en terre, que les informations sont devenues plus précises et que certains médias internationaux s’y sont intéressés. A notre grand étonnement, et nous nous en sommes interrogés, même les réseaux kurdes à l’international, bien sûr submergés par la gravité des attaques, n’avaient pas donné à ce meurtre sa véritable importance, et la force symbolique qu’il recèle.

    Dans la même journée en effet, d’autres crimes de guerre étaient commis, sur les mêmes axes, et souvent filmés par leurs auteurs, supplétifs syriens de l’armée turque, (“Ahrar al-Sharqieah”), en avant poste de l’attaque. Ces vidéos circulent et sont autant de preuves des atrocités commises et de celles à venir, tant elles se confondent depuis cinq ans sur ce terrain de guerre. D’ailleurs, un des auteurs présents sur ces vidéos a été identifié comme étant un islamiste recyclé par les forces turques, dans la soit disant armée nationale syrienne… Et c’est d’ailleurs pour cela que le torchon turc islamo-nationaliste Yeni Safak écrivait dimanche 13 : “À la suite d’une opération réussie, la secrétaire générale du Parti du Futur de la Syrie, liée au parti politique terroriste PYD, a été mise hors d’état de nuire”.

    Nous tenions à rendre hommage à une combattante civile de la paix, une inlassable activiste de la cause des femmes, et une diplomate connue de beaucoup de dirigeants européens.

    http://www.kedistan.net/2019/10/15/havrin-khalaf-un-crime-de-guerre-double-dun-feminicide
    #assassinat #meurtre

  • Donald J. Trump sur Twitter :
    https://twitter.com/realdonaldtrump/status/1183822488192671745

    After defeating 100% of the ISIS Caliphate, I largely moved our troops out of Syria. Let Syria and Assad protect the Kurds and fight Turkey for their own land. I said to my Generals, why should we be fighting for Syria....

    https://twitter.com/realDonaldTrump/status/1183822494031065088

    ....and Assad to protect the land of our enemy? Anyone who wants to assist Syria in protecting the Kurds is good with me, whether it is Russia, China, or Napoleon Bonaparte. I hope they all do great, we are 7,000 miles away!

  • Déclaration internationale de solidarité avec le Rojava

    https://lavoiedujaguar.net/Declaration-internationale-de-solidarite-avec-le-Rojava

    Face au retrait des troupes états-uniennes en Syrie, décidé par les présidents Donald Trump (États-Unis) et Recep Tayyip Erdoğan (Turquie), et à l’invasion militaire contre le Rojava et les peuples libres de ce territoire que permet ce retrait, nous considérons urgent et nécessaire d’exprimer ce qui suit :

    1. La Commune du Rojava est au Moyen-Orient le premier projet politique, anticapitaliste fondé sur le confédéralisme démocratique, qui promeut une approche alternative de l’organisation sociale à partir de l’autonomie non étatiste, l’autodétermination, la démocratie directe et la lutte contre le patriarcat. L’autonomie du Rojava est l’utopie d’un monde possible, où l’interculturalité, la relation entre genres différente et juste, et le respect de la Terre mère se construisent de jour en jour. Le Rojava est la preuve que nous ne devons pas nous résigner face aux atrocités de notre époque. (...)

    #Rojava #Syrie #Turquie #Kurdes #solidarité_internationale

  • Turkey is planning genocide and crimes against humanity in Northeastern Syria

    Genocide Warning: January 17, 2018, renewed October 8, 2019

    Kurds, Christians, and Yezidis in Northeast Syria are at grave risk of genocide by the armies of Turkey and Syria. The genocide will be supported by Russia and Iran. Turkey and Iran have sizable Kurdish minority populations, which they consider threats to ethnic and national unity. 100,000 Christians live in the area Turkey will invade. Turkey and its predecessor, the Ottoman Empire, have a century old history of genocide against Christians.

    Turkish President Recep Tayyip Erdoğan has announced his intention to create a “twenty-mile buffer zone” in northeastern Syria, an area now controlled by the Kurdish and Arab Syrian Democratic Forces. He has conducted a diplomatic offensive to get promises of non-interference from Russia, Iran, and the US for his invasion of Syria. Turkey has already stationed tens of thousands of troops, tanks, and heavy artillery along the Syrian border. When President Trump announced that US troops would withdraw from Syria in 2018, he did so after a call from Erdoğan. That announcement was met by a bipartisan Senate resolution against US abandonment of America’s Kurdish allies in northeastern Syria. 1000 US troops remain there. After another call with Erdoğan in October 2019, President Trump has again announced a US pull-out from northeast Syria. Both Republican and Democratic leaders remain opposed to US withdrawal.

    Turkey began its invasion of Syrian Kurdish territory on January 20, 2018 when the Turkish Army launched cross-border military operations into Afrin in northwestern Syria with the code name “Operation Olive Branch,” The mission aimed to oust Syrian Kurdish People’s Protection Units (or YPG) from the district of Afrin.

    Turkey considers the YPG to be an extension of the Kurdish Workers’ Party (PKK), which has been waging an insurgency within Turkey since 1984 to achieve Kurdish human rights and regional autonomy. The YPG denies being an extension of the PKK and has been allied with the United States and other countries in the fight against the Islamic State/Da’esh since 2014.

    The Turkish Armed Forces conducted their invasion of Afrin with no concern for the laws of war, dropping bombs and shelling towns indiscriminately. Hundreds of civilians around Afrin, including Christians, Yazidis, and other religious minorities displaced by the Syrian war and by Da’esh, were killed. Turkish forces intentionally targeted civilians, a war crime, and forcibly displaced most of Afrin’s population, a crime against humanity.

    The Turkish government has characterized the YPG as a “terrorist organization,” casting its invasion of Syria as an anti-terror operation. It has also referred to its aggression against Syria as “jihad,” echoing language used by ISIS. The term “terrorist” is used in Turkey as a term to dehumanize Erdoğan opponents and legitimize the suppression of human rights and freedoms. This Turkish narrative is used as a “self-defense justification” for genocidal massacres of Kurds.

    Turkey has become a police state. Since the attempted coup of 2015, the Turkish government has dismissed over 100,000 civil servants and jailed thousands of teachers, professors, journalists, politicians, and civil society leaders. for being suspected supporters of “the coup.” Many of these detainees have been charged with terrorism.; The term “terrorist” has been used to justify torture and murder of Erdoğan opponents.

    The Afrin operation is similar to “anti-terror” operations conducted in Kurdish towns in Southeast Turkey for many years. In towns like Cizre, Turkish troops displaced the population, imposed harsh curfews, cut off water and electricity supplies, killed thousands of civilians, destroyed churches and mosques, pillaged homes, and bombed towns into rubble. In Cizre — as in Afrin — the bodies of killed female fighters were mutilated, videotaped, and shared widely on social media by Turkish soldiers.

    The Turkish military and the other forces under its leadership, including Al Qaeda and Da’esh fighters, declared total control of Afrin on March 25, 2018. They have pursued a policy of “demographic change” in Afrin by settling villages with Turkmen and Arab families originally from outside of the area. Reports from occupied Afrin tell of dozens of girls and young women being kidnapped by Turkish and jihadi forces and subjected to systematic rape.

    Turkey has declared its intention to “resettle” millions of Syrian Arab refugees now in Turkey into Kurdish northeastern Syria. This forced displacement and refoulement of refugees is a crime against humanity and a violation of UN refugee conventions. It would “resettle” Syrian Arab refugees in a region that was not their former home. Turkey’s goal is to forcibly displace a million Kurds on Turkey’s southern border and replace them with Syrian Arabs, just as the Turks have done in Afrin. Turkey intends this demographic change to destroy Kurdish autonomy in “Rojava” a self-governing Kurdish region of northeastern Syria.

    Erdoğan has vowed to continue the Turkish invasion further east to Manbij and Kobane in Syria as well as to the Sinjar and Nineveh regions of Iraq, ostensibly to destroy the PKK, but actually to drive Kurds out of all Syrian border areas with Turkey. Turkey’s aggression into neighboring states threatens the long-term security of all Kurdish, Christian, and Yezidi populations in the region. Turkey’s intention is genocide.

    https://www.genocidewatch.com/single-post/2019/10/08/Genocide-Watch-Turkey-is-planning-genocide-and-crimes-against-humanit
    #génocide #guerre #Turquie #Kurdistan #Rojava

  • Kurdes de Syrie : le crépuscule du Rojava
    https://www.franceculture.fr/geopolitique/kurdes-de-syrie-le-crepuscule-du-rojava

    Savoirs
    Kurdes de Syrie : le crépuscule du Rojava
    10/10/2019 (mis à jour à 16:21)
    Par Eric Biegala

    L’armée turque est entrée au nord-est de la Syrie, le Président Erdogan profitant du retrait américain ordonné par Donald Trump. Cette offensive devrait entraîner la disparition d’un régime politique original établi par les Kurdes, construit sur les bases d’une utopie libertaire : le communalisme.

  • Intervention turque en Syrie
    La révolution politique du Rojava menacée de toute part

    Stéphane Ortega

    https://lavoiedujaguar.net/Intervention-turque-en-Syrie-La-revolution-politique-du-Rojava-menac

    Pour la troisième fois en trois ans, l’armée turque pénètre dans le nord de la Syrie, menaçant l’auto-organisation démocratique, féministe et multiethnique créée par les Kurdes au Rojava.

    Pour les forces kurdes du nord de la Syrie, il y a d’abord les ennemis acharnés. Ce qu’il reste de Daech bien sûr, mais aussi la Turquie associée aux milices djihadistes qu’elle soutient et pilote. Et puis, il y a tous les autres : vrais adversaires ou faux amis. De la coalition internationale à la Russie, en passant par l’Iran ou le régime syrien, ils sont nombreux à jouer leur propre partition qui passe pour beaucoup par la fin de la tentative révolutionnaire au Rojava, nom de la région autoadministrée par les Kurdes au nord de la Syrie.

    Profitant du déplacement des troupes de Bashar al-Assad de leur région vers Alep à l’été 2012, les Kurdes ont entamé un processus d’autogouvernement dans les cantons d’Afrine, Kobané et Djézireh. Le Parti pour l’unité démocratique (PYD), proche du PKK, et les milices de protection du peuple (YPG/YPJ) supplantent les partis concurrents pour devenir la force dominante. Ils s’appuient sur l’auto-organisation des communes, pensées comme une alternative à la création d’un État-nation (...)

    #Syrie #Rojava #Turquie #Kurdistan #autogouvernement #Erdogan #djihadistes #offensive #résistance #Russie #USA #Europe

  • Invasion par la Turquie

    Carte de l’offensive mise à jour régulièrement
    https://syria.liveuamap.com

    The Annihilation of Rojava
    https://www.jacobinmag.com/2019/10/rojava-syria-erdogan-turkey-united-states-military

    A US withdrawal from Syria that cleared the way for the destruction of the Kurds’ radical democratic experiment would not serve the cause of peace — and it would not be a blow to US imperialism.

    New education system was central to the Kurds’ Rojava Revolution in northern Syria – now it’s under attack
    http://theconversation.com/new-education-system-was-central-to-the-kurds-rojava-revolution-in-

    #Kurdes #Rojava #revolution_Rojava

  • #Nantes, 12 octobre 2019 : #RiseUp4Rojava ! Mobilisation pour défendre le #Rojava contre l’agression militaire de #Erdogan.
    https://www.flickr.com/photos/valkphotos/48887230151

    Flickr

    ValK. a posté une photo :

    Appels à soutien et solidarité internationale : https://nantes.indymedia.org/events/46876
    +++
    Déclaration de la Commune internationaliste du Rojava : https://nantes.indymedia.org/articles/46906
    Campagne internationale #RiseUp4Rojava, textes et actions : https://riseup4rojava.org/fr/acceuil
    Suivi direct de la guerre contre le Kurdistan et le nord de la Syrie : https://syria.liveuamap.com
    Voir aussi sur Seenthis : https://seenthis.net/recherche?recherche=kurd&follow=all&order=date ou le fil infos de Maxime Reynié : https://twitter.com/Maxime_Reynie/status/1182976167822970880
    +++
    📷 : (cc-by-nc-sa) ValK. 👀 : https://frama.link/valk 👛 : https://liberapay.com/ValK

  • ZinTV : Les combattantes du Rojava ne se reconnaissent pas dans le film de Caroline Fourest
    https://www.zintv.org/Les-combattantes-du-Rojava-ne-se-reconnaissent-pas-dans-le-film-Soeur-d-arme-

    Malgré l’actualité brûlante au Rojava ces derniers jours, il nous fallait mettre au clair les utilisations médiatiques du Rojava par les médias occidentaux, en particulier avec la sortie de Sœurs d’armes cette semaine.

    Le film de Caroline Fourest et Patrice Franceschi sort aujourd’hui au cinéma. La réalisatrice, dont c’est le premier film, traite par la fiction du génocide des Yézidis commis par Daech en 2014. Il n’est pas difficile de reconnaître que le scénario souligne bien le rôle des femmes dans cette guerre et illustre efficacement la barbarie des djihadistes. Ce sont bien là ses deux seules qualités.

    
Caroline Fourest présente les forces kurdes comme une entité unique, aux contours politiques flous. Peshmergas et combattants du PKK sont présentés comme luttant côte à côte contre les djihadistes. Pourtant, ce sont bien les combattants du YPG et du PKK qui ont ouvert un corridor humanitaire permettant de sauver les Yézidis, alors que les Peshmergas s’enfuyaient face à l’avancée des djihadistes. Fourest, ayant réalisé son film au Kurdistan irakien, a choisi de faire plaisir à ses hôtes, quitte à travestir la réalité historique dans son film. De discrètes allusions, que seuls les fins connaisseurs de la cause kurde peuvent comprendre, viennent nuancer cette grossière tentative de réécriture de l’Histoire. La fiction n’est pas un passe-droit permettant de s’affranchir de la réalité d’un conflit en cours.
 Les scènes de combat, qui font la fierté de la réalisatrice et de son consultant militaire Patrice Franceschi, n’ont absolument aucune crédibilité. Elles sont médiocrement inspirées d’une vision hollywoodienne de la guerre (le budget en moins) à laquelle même un enfant ne pourrait croire. La réalisatrice et son actrice Camélia Jordana, ont répété sur le plateau de Quotidien cette semaine combien elles s’étaient « éclatées » à faire un film de guerre. La guerre n’est pas un divertissement. La montrer sous son vrai visage, même dans une fiction, a toujours une fonction éducative.

    Cette guerre, nous l’avons faite et nous ne nous sommes pas « éclatés ». Les deux héroïnes du film sont des volontaires françaises rejoignant les rangs des kurdes, pourtant Caroline Fourest n’a pas interrogé un seul d’entre nous. La réalisatrice n’est manifestement pas intéressée par la réalité de notre expérience. Ce qui lui tient à cœur c’est de défendre sa propre vision de cette lutte pour lui faire dire ce qui sert son propre combat politique et sa propre vision du féminisme, quitte à gravement caricaturer la cause qu’elle prétend défendre. Pour preuve, des combattantes kurdes sont représentées en train de consommer de l’alcool, ou de flirter avec leurs homologues masculins. La consommation d’alcool ou les rapports intimes sont deux tabous absolus au sein YPG-J.

    L’organisation met un point d’honneur à être irréprochable sur ces points, afin de garantir sa moralité aux yeux des sociétés kurdes et arabes extrêmement conservatrices. Dans son film, Caroline Fourest fait dire à une combattante kurde embrassant un camarade : « On ne s’est pas battu contre les soldats de Daech pour vivre comme eux ». Comme nous venons de l’expliquer, cette tirade n’illustre en rien la mentalité des combattantes kurdes, bien au contraire. En tentant de faire rentrer ces combattantes dans le moule de son féminisme occidental et institutionnel, Caroline Fourest commet une faute grave, qui va compromettre la réputation du YPJ à l’étranger, notamment dans le monde arabe où son film est diffusé.
 Nous appelons d’une façon générale une méfiance face aux représentants autoproclamés du Rojava et garder un esprit critique sur la vision impérialiste que peut avoir l’Occident à l’égard d’une révolution du Moyen-Orient.

    Pour les raisons que nous venons d’énoncer, le CCFR prend clairement position contre ce film, qui ne représente ni les combattantes et combattants français du YPG-J, ni la cause kurde qu’il prétend pourtant défendre, et appelons à ne pas aller le voir.

    #Kurdistan #guerre #Daesh #féminisme #occidentalisme

    • Les Kurdes de Syrie ont commencé à payer le prix de la trahison de l’Occident. Une pluie de bombes s’est abattue mercredi après-midi sur les villes frontière, précédant de peu une offensive terrestre de l’armée turque et de ses alliés islamistes de Syrie. Le macabre décompte des victimes peut débuter. On imagine l’effroi qui a saisi les habitants du #Rojava déjà durement éprouvés par plusieurs années de guerre contre les djihadistes.

      Le tweet dominical de Donald Trump avait annoncé la trahison ultime des Etats-Unis. Mais l’offensive turque répond à une logique plus profonde. A force de voir l’Union européenne lui manger dans la main, à force de jouer sans trop de heurts la balance géopolitique entre Moscou et Washington au gré de l’opportunisme des deux grandes puissances, Recep Tayyip Erdogan a des raisons de se sentir intouchable. Lorsqu’en 2015 et 2016, il faisait massacrer sa propre population dans les villes kurdes de Cizre, Nusaybin, Silopi ou Sur, le silence était de plomb.

      L’offensive débutée hier, le sultan l’annonce de longue date, sans provoquer de réaction ferme des Européens. La girouette Trump a bon dos : en matière d’allégeance à Ankara, les Européens sont autrement plus constants.

      Il faudra pourtant stopper Erdogan. Laisser le #Kurdistan_syrien tomber aux mains des milices islamistes et de l’armée turque reviendrait à cautionner un crime impardonnable. A abandonner des centaines de milliers de civils, dont de très nombreux réfugiés, et des milliers de combattants de la liberté à leurs bourreaux. Ce serait également la certitude d’une guerre de longue durée entre la Turquie et sa propre minorité kurde, environ un cinquième de sa population.

      Plusieurs pays européens ont réclamé une réunion du Conseil de sécurité de l’ONU. Le signe d’un sursaut ? L’espoir d’un cessez-le-feu rapide ? Ou des jérémiades d’arrière-garde, qui cesseront dès que la Turquie aura atteint ses objectifs ?

      Comme souvent, la superpuissance étasunienne détient les cartes maîtresses. Et Donald Trump n’en est pas à son premier virage intempestif. S’il a donné son feu vert à Erdogan, le républicain se retrouve coincé entre les interventionnistes et les isolationnistes de son propre parti. Hier, le premier camp s’indignait bruyamment. Exerçant une pression redoutable pour un président déjà affaibli par le dossier ukrainien.

      Il faudra qu’elle pèse aussi sur les dirigeants européens. La solidarité avec le Rojava doit devenir une priorité du mouvement social et des consciences.

      https://lecourrier.ch/2019/10/09/il-faut-stopper-erdogan

    • Rojava : une guerre de classe !

      L’invasion du Nord de la Syrie par l’armée turque marque non seulement le retour à la pratique des guerres coloniales mais c’est aussi et surtout une riposte létale du capitalisme à toute initiative d’émancipation sociale et d’autonomie des peuples asservis...


      ... et on est tous bien obligés de constater que la soi-disant « construction européenne » reste immobile et impuissante devant des événements qui laissent malheureusement pressentir une catastrophe humanitaire.

      Comme si nous étions replongés à la veille de la deuxième guerre mondiale, avec le « Mourir pour Dantzig ? » de Marcel Déat publié à la une de « l’Oeuvre » le 4 mai 1939, qui n’était que la réaction d’un pacifisme dévoyé au « lâche soulagement » des « accords de Munich » donnant les mains libres à Hitler pour s’emparer du minerai de fer tchécoslovaque...

      Aujourd’hui où le sultan-dictateur Erdogan profite du dérangement mental du maître américain pour déclencher une guerre impérialiste, il ne s’agit pas de « mourir pour le Rojava » mais de sauver les Kurdes d’un massacre annoncé et programmé de longue date par le capitalisme ottoman qui redoute la contagion politique et sociale diffusée par le municipalisme libertaire du Rojava dont les idées, reprises par le PKK, seraient susceptibles de se répandre en Turquie même !

      Le rouleau-compresseur de l’armée turque est donc l’instrument d’une guerre de classe.

      Alors est-il possible de tolérer que la Turquie soit encore membre de l’OTAN ?

      Par ailleurs, cette offensive ne va-t-elle pas profiter aux hordes barbares de l’ex califat DAESH pour se regrouper afin de poursuivre le djihad ?

      En 1871, l’armée prussienne qui assiégeait Paris, avait autorisé le passage de plusieurs divisions versaillaises pour qu’elles prennent les Fédérés à revers. Et ensuite, elle avait assisté, impassible, aux massacres de la Semaine Sanglante !

      Allons nous, aujourd’hui, rester indifférents à cette opération génocidaire ?

      Un crime contre l’humanité.

      https://blogs.mediapart.fr/vingtras/blog/111019/rojava-une-guerre-de-classe-0

  • Syria-Turkey briefing: The fallout of an invasion for civilians

    Humanitarians are warning that a Turkish invasion in northeast Syria could force hundreds of thousands of people to flee their homes, as confusion reigns over its possible timing, scope, and consequences.

    Panos Moumtzis, the UN’s regional humanitarian coordinator for Syria, told reporters in Geneva on Monday that any military operation must guard against causing further displacement. “We are hoping for the best but preparing for the worst,” he said, noting that an estimated 1.7 million people live in the country’s northeast.

    Some residents close to the Syria-Turkey border are already leaving, one aid worker familiar with the situation on the ground told The New Humanitarian. Most are staying with relatives in nearby villages for the time-being, said the aid worker, who asked to remain anonymous in order to continue their work.

    The number of people who have left their homes so far remains relatively small, the aid worker said, but added: “If there is an incursion, people will leave.”

    The International Rescue Committee said “a military offensive could immediately displace at least 300,000 people”, but analysts TNH spoke to cautioned that the actual number would depend on Turkey’s plans, which remain a major unknown.

    As the diplomatic and security communities struggle to get a handle on what’s next, the same goes for humanitarians in northeastern Syria – and the communities they are trying to serve.

    Here’s what we know, and what we don’t:
    What just happened?

    Late on Sunday night, the White House said that following a phone call with Turkish President Recep Tayyip Erdogan, “Turkey will soon be moving forward with its long-planned operation into Northern Syria,” adding that US soldiers would not be part of the move, and “will no longer be in the immediate area”.

    The Syrian Democratic Forces (SDF) – the Syrian-Kurdish-led militia that until now had been supported by the United States and played a major role in wresting territory back from the so-called Islamic State (IS) group in Syria – vowed to stand its ground in the northeast.

    An SDF spokesperson tweeted that the group “will not hesitate to turn any unprovoked attack by Turkey into an all-out war on the entire border to DEFEND ourselves and our people”.

    Leading Republicans in the US Congress criticised President Donald Trump’s decision, saying it represents an abandonment of Kurdish allies in Syria, and the Pentagon appeared both caught off-guard and opposed to a Turkish incursion.

    Since then, Trump has tweeted extensively on the subject, threatening to “totally destroy and obliterate the economy of Turkey” if the country does anything he considers to be “off limits”.

    On the ground, US troops have moved out of two key observation posts on the Turkey-Syria border, in relatively small numbers: estimates range from 50 to 150 of the total who would have been shifted, out of around 1,000 US soldiers in the country.
    What is Turkey doing?

    Erdogan has long had his sights on a “safe zone” inside Syria, which he has said could eventually become home to as many as three million Syrian refugees, currently in Turkey.

    Turkish Interior Minister Süleyman Soylu said in August that only 17 percent of Turkey’s estimated 3.6 million Syrian refugees come from the northeast of the country, which is administered by the SDF and its political wing.

    Turkish and US forces began joint patrols of a small stretch of the border early last month. While Turkey began calling the area a “safe zone”, the United States referred to it as a “security mechanism”. The terms of the deal were either never made public or not hammered out.

    In addition to any desire to resettle refugees, which might only be a secondary motive, Turkey wants control of northeast Syria to rein in the power of the SDF, which it considers to be a terrorist organisation.

    One of the SDF’s main constituent parts are People’s Defense Units – known by their Kurdish acronym YPG.

    The YPG are an offshoot of the Kurdistan Workers’ Party, or PKK – a Turkey-based Kurdish separatist organisation that has conducted an insurgency against the Turkish government for decades, leading to a bloody crackdown.

    While rebels fight for the northwest, and Russian-backed Syrian government forces control most of the rest of Syria, the SDF currently rules over almost all of Hassakeh province, most of Raqqa and Deir Ezzor provinces, and a small part of Aleppo province.
    How many civilians are at risk?

    There has not been a census in Syria for years, and numbers shift quickly as people flee different pockets of conflict. This makes estimating the number of civilians in northeast Syria very difficult.

    The IRC said in its statement it is “deeply concerned about the lives and livelihoods of the two million civilians in northeast Syria”; Moumtzis mentioned 1.7 million people; and Save the Children said “there are 1.65 million people in need of humanitarian assistance in this area, including more than 650,000 displaced by war”.

    Of those who have had to leave their homes in Raqqa, Deir Ezzor, and Hassakeh, only 100,000 are living in camps, according to figures from the International Committee of the Red Cross. Others rent houses or apartments, and some live in unfinished buildings or tents.

    “While many commentators are rightly focusing on the security implications of this policy reversal, the humanitarian implications will be equally enormous,” said Jeremy Konyndyk, senior policy fellow at the Center for Global Development, and a former high-ranking Obama administration aid official.

    “All across Northern Syria, hundreds of thousands of displaced and conflict-affected people who survived the horrors of the… [IS] era will now face the risk of new violence between Turkish and SDF forces.”
    Who will be first in the firing line?

    It’s unlikely all of northeast Syria would be impacted by a Turkish invasion right away, given that so far the United States has only moved its troops away from two border posts, at Tel Abyad (Kurdish name: Gire Spi), and roughly 100 kilometres to the east, at Ras al-Ayn (Kurdish name: Serê Kaniyê).

    Depending on how far into Syria one is counting, aid workers estimate there are between 52,000 to 68,000 people in this 100-kilometre strip, including the towns of Tel Abyad and Ras al-Ayn themselves. The aid worker in northeast Syria told TNH that if there is an offensive, these people are more likely, at least initially, to stay with family or friends in nearby villages than to end up in camps.

    The aid worker added that while humanitarian operations from more than 70 NGOs are ongoing across the northeast, including in places like Tel Abyad, some locals are avoiding the town itself and, in general, people are “extremely worried”.
    What will happen to al-Hol camp?

    The fate of the rest of northeast Syria’s population may also be at risk.

    Trump tweeted on Monday that the Kurds “must, with Europe and others, watch over the captured ISIS fighters and families”.

    The SDF currently administers al-Hol, a tense camp of more than 68,000 people – mostly women and children – deep in Hassakeh province, where the World Health Organisation recently said people are living “in harsh and deplorable conditions, with limited access to quality basic services, sub-optimal environment and concerns of insecurity.”

    Many of the residents of al-Hol stayed with IS through its last days in Syria, and the camp holds both these supporters and people who fled the group earlier on.

    Last week, Médecins Sans Frontières said security forces shot at women protesting in a part of the camp known as “the annex”, which holds around 10,000 who are not Syrian or Iraqi.

    The SDF also holds more than 10,000 IS detainees in other prisons, and the possible release of these people – plus those at al-Hol – may become a useful bargaining chip for the Kurdish-led group.

    On Monday, an SDF commander said guarding the prisoners had become a “second priority” in the wake of a possible Turkish offensive.

    “All their families are located in the border area,” General Mazloum Kobani Abdi told NBC News of the SDF fighters who had been guarding the prisoners. “So they are forced to defend their families.”

    https://www.thenewhumanitarian.org/news/2019/10/08/syria-turkey-briefing-fallout-invasion-civilians
    #Syrie #Turquie #guerre #conflit #civiles #invasion #al-Hol #Kurdistan #Kurdes #camps #camps_de_réfugiés
    ping @isskein

    • Il faut stopper Erdogan

      Les Kurdes de Syrie ont commencé à payer le prix de la trahison de l’Occident. Une pluie de bombes s’est abattue mercredi après-midi sur les villes frontière, précédant de peu une offensive terrestre de l’armée turque et de ses alliés islamistes de Syrie. Le macabre décompte des victimes peut débuter. On imagine l’effroi qui a saisi les habitants du #Rojava déjà durement éprouvés par plusieurs années de guerre contre les djihadistes.

      Le tweet dominical de Donald Trump avait annoncé la trahison ultime des Etats-Unis. Mais l’offensive turque répond à une logique plus profonde. A force de voir l’Union européenne lui manger dans la main, à force de jouer sans trop de heurts la balance géopolitique entre Moscou et Washington au gré de l’opportunisme des deux grandes puissances, Recep Tayyip Erdogan a des raisons de se sentir intouchable. Lorsqu’en 2015 et 2016, il faisait massacrer sa propre population dans les villes kurdes de Cizre, Nusaybin, Silopi ou Sur, le silence était de plomb.

      L’offensive débutée hier, le sultan l’annonce de longue date, sans provoquer de réaction ferme des Européens. La girouette Trump a bon dos : en matière d’allégeance à Ankara, les Européens sont autrement plus constants.

      Il faudra pourtant stopper Erdogan. Laisser le #Kurdistan_syrien tomber aux mains des milices islamistes et de l’armée turque reviendrait à cautionner un crime impardonnable. A abandonner des centaines de milliers de civils, dont de très nombreux réfugiés, et des milliers de combattants de la liberté à leurs bourreaux. Ce serait également la certitude d’une guerre de longue durée entre la Turquie et sa propre minorité kurde, environ un cinquième de sa population.

      Plusieurs pays européens ont réclamé une réunion du Conseil de sécurité de l’ONU. Le signe d’un sursaut ? L’espoir d’un cessez-le-feu rapide ? Ou des jérémiades d’arrière-garde, qui cesseront dès que la Turquie aura atteint ses objectifs ?

      Comme souvent, la superpuissance étasunienne détient les cartes maîtresses. Et Donald Trump n’en est pas à son premier virage intempestif. S’il a donné son feu vert à Erdogan, le républicain se retrouve coincé entre les interventionnistes et les isolationnistes de son propre parti. Hier, le premier camp s’indignait bruyamment. Exerçant une pression redoutable pour un président déjà affaibli par le dossier ukrainien.

      Il faudra qu’elle pèse aussi sur les dirigeants européens. La solidarité avec le Rojava doit devenir une priorité du mouvement social et des consciences.

      https://lecourrier.ch/2019/10/09/il-faut-stopper-erdogan

    • #Al-Hol detainees attack guards and start fires as Turkish assault begins

      Camp holding thousands of Islamic State suspects thrown into ’chaos’, says Kurdish official

      The Turkish assault on northeast Syria has prompted Islamic State group-affiliated women and youth in al-Hol’s camp to attack guards and start fires, a Kurdish official told Middle East Eye.

      Kurdish-held northeastern Syria has been on high alert since the United States announced on Sunday it would leave the area in anticipation of a Turkish offensive.

      Over the three days since the US announcement, chaos has broken out in the teeming al-Hol camp, Mahmoud Kro, an official that oversees internment camps in the Kurdish-run autonomous area, told MEE.

      Some 60,000 people suspected of being affiliated or linked to the Islamic State (IS) group, the majority women and children, are being held in the camp.

      “There are attacks on guards and camp management, in addition to burning tents and preparing explosive devices,” Kro told MEE from Qamishli.

      The status of al-Hol’s detainees has been a major concern since Turkey began making more threats to invade northeast Syria this year.

      In the phone call between Recep Tayyip Erdogan and Donald Trump on Sunday that precipitated the United States’ pullout, the US president pressed his Turkish counterpart on the fate of foreign IS suspects in Kurdish custody, MEE revealed.
      ‘Targeting our existence as Kurds’

      Turkey launched its assault on northeastern Syria on Wednesday alongside its Syrian rebel allies, aiming, it says, to push the Kurdish YPG militia at least 32km from the border.

      Ankara views the YPG as an extension of the outlawed PKK militant group.

      However, the YPG is a leading component of the Syrian Democratic Forces (SDF) militia, which has been Washington’s principal partner on the ground in the fight against IS.

      SDF fighters guard al-Hol, but Kro said the Turkish attack would draw them away to join the battle.

      “Any war in the region will force the present forces guarding the camp to go defend the border,” he said. “This will increase the chance of chaos in the camp.”

      Kro said that the administration in al-Hol has not made any preparations for a war with Turkey because the SDF’s priority is protecting northeast Syria and Kurds.

      “In terms of preparations, our first priority is protecting our region and existence,” he said. “The Turks are targeting our existence as Kurds to the first degree.”

      Some officials from the Syrian Democratic Council (SDC), the political wing of the SDF, agree with Kro’s assessment that the detainees in al-Hol could get out.

      “If fighting breaks out between the SDF and Turkey, security at prisons will relax and prisoners could escape,” Bassam Ishak, the co-chair of the SDC in the US, told MEE ahead of the offensive.

      Meanwhile, SDC spokesman Amjad Osman said, as other Syrian Kurdish officials have, that a Turkish attack on northeast Syria would negatively affect the continuing war on IS in the country.

      “We are committed to fighting terrorism,” he told MEE. “But now our priority is to, first of all, confront the Turkish threats. And this will have a negative effect on our battle against Daesh,” using the Arabic acronym for IS.

      However, Turkey has bristled at the suggestion that the camps and fight against IS will be endangered by Ankara’s offensive.

      “This blackmail reveals the true face of the YPG and demonstrates how it has no intent of fighting against IS,” a Turkish official told MEE.

      Some residents of northeast Syria are already starting to flee. Many fear yet another war in the country that is still dealing with the conflict between government and rebel forces, and lingering IS attacks.

      Osman stopped short of saying the SDF would pack up and leave al-Hol. However, it will be hard for the group to keep holding the Syrian, Iraqi and international detainees during such a war, he said.

      “We are trying as much as possible to continue protecting the camps,” Osman said. “But any attempt to drag us into a military battle with Turkey will have a dangerous impact.”

      https://www.middleeasteye.net/news/al-hol-detainees-attack-guards-and-start-fires-turkish-assault-begins
      #ISIS #Etat_islamique #EI

  • [video] « Revenants du #Rojava ». Après André Hébert, c’est au tour de Qandil Azad d’atomiser le communiqué de presse de la #DGSI transmis par Matthieu Suc et Jacques Massey via Mediapart. Et le moins qu’on puisse dire c’est qu’il n’y a eut visiblement AUCUNE enquête !
    https://vimeo.com/358423018

    Il ajoute des sources et deux autres réponses parues sur @lundimatin :

    Réponse de André Hebert :
    https://lundi.am/Andre-Hebert-ancien-volontaire-du-Rojava-repond-a-Mediapart

    Réponse de Corrine Morel Darleux :
    https://lundi.am/Mediapart-et-le-Rojava-la-DGSI-en-embuscade

    Qui est Henry Krasucki :
    https://fr.m.wikipedia.org/wiki/Henri_Krasucki

    Mort de Gabar légionnaire :
    https://rojinfo.com/gabar-legionnaire

    Cérémonie d’hommage à Kendal Breizh :
    https://20minutes.fr/monde/2235479-20180311-bretagne-hommage-rendu-kendal-breizh-combattant-breton-tu

    Ravachol mytho et balance :
    https://kurdistan-au-feminin.fr/2019/03/29/ravachol-mediatisation-de-la-mediocrite-et-tribune-pour-une-bar

    Pour rappel, l’article de @mediapart : https://seenthis.net/messages/799620

    #renseignements #guerre #Daesh #terrorisme #mythe #ennemi_interieur

    • Qandil Azad vient de transmettre la triste information suivante :

      Jamie Janson s’est suicidé mercredi dernier.
      Membre des YPG, il avait participé à plusieurs opérations en Syrie, contre Daesh ainsi que contre l’État turc, à Afrin.
      Il n’est pas impossible que les poursuites contre lui (comme contre d’autres volontaires) des autorités britanniques et l’absence de fait de soutien psycho-social aient pu conduire à un tel geste.
      Il s’agit du 6eme volontaire international des YPG qui ait mis fin à ses jours.
      (Texte du camarade Stéphane Barth)

      #suicide #veterants

    • « Revenants » du Rojava : Mediapart face aux critiques

      L’enquête de Mediapart sur "les revenants du Rojava qui inquiètent les services de renseignement" a suscité un tollé sur le site Lundi matin, où plusieurs militants pointent "une enquête biaisée" relayant sans distance les vues de la DGSI. Mediapart, qui reconnaît une erreur, a modifié son article. Un des coauteurs de l’enquête nous répond.

      "Ces revenants du Rojava qui inquiètent les services de renseignement". C’est le titre d’une enquête de Mediapart qui a fait s’étrangler une partie de la gauche libertaire ces derniers jours. Publiée le 1er septembre, l’enquête s’intéresse aux quelques militants français partis combattre Daech aux côtés des Kurdes dans l’enclave autonome du Rojava.

      En février 2018, nous consacrions une émission à cette expérimentation politique complexe, qui s’élabore sur ce territoire kurde du nord de la Syrie.
      Un territoire où les combattants des milices kurdes YPG (les Unités de défense du peuple) ont été rejoints par une foule hétéroclite d’Occidentaux venus prendre les armes contre l’Etat islamique, dont certains voient dans le Rojava, son organisation autonome et sa constitution (droit des minorités, égalité des sexes), le moteur d’une révolution sociale. Mais l’angle choisi par Mediapart est tout autre.

      Les journalistes Jacques Massey, spécialisé dans les questions de sécurité, et Matthieu Suc, qui suit les affaires de terrorisme pour Mediapart, ont entrepris de raconter la façon dont les services de renseignement perçoivent le retour en France de ces quelques militants français : comme "une menace". L’enquête fait la part belle aux déclarations de la DGSI (Direction générale de la sécurité intérieure, fusion des RG et de la DST) et aux confidences d’agents des services qui agitent le spectre du risque de "passage à l’acte" que constituerait le retour en France de ces "militants d’ultragauche", ayant suivi "une formation militaire au Rojava".
      En introduction de son enquête, Mediapart résume : "Certains d’entre eux voudraient passer à l’acte en France. Les services ont la conviction que l’homme ayant tiré sur un hélicoptère de la gendarmerie lors de l’évacuation de NotreDame-des-Landes était un vétéran du Rojava."

      Lundi matin : "la dgsi en embuscade"
      Depuis sa parution, l’article de Mediapart n’en finit plus de susciter un tollé. En deux jours, le site de gauche radicale Lundi Matin a publié pas moins de trois contenus pour dénoncer une "enquête biaisée" relayant sans distance la voix de la DGSI.
      Lundi 4 septembre, Lundi Matin publie "Mediapart et le Rojava, la DGSI en embuscade ?", une tribune signée de Corinne Morel Darleux, conseillère régionale de Rhône-Alpes (ex-France insoumise et ex-secrétaire nationale du Parti de Gauche). Elle éreinte l’enquête du site d’information, qui selon elle "livre un dossier à charge, clé en main" avec "tout l’attirail de l’« ultra-gauche » fantasmée par la DGSI".
      Dans les heures qui suivent, Lundi matin enchaîne avec un article signé de la rédaction, expliquant : "Si Mediapart est connu pour la rigueur, la qualité et la précision de ses enquêtes, celle de Matthieu Suc et Jacques Massey, rubriquée dans la section « terrorisme » du site, nous est apparue pour le moins légère si ce n’est même salement biaisée." A l’appui de ces propos, le site, qui s’est entretenu avec des ex-volontaires du Rojava, apporte des éléments de contre-enquête factuels qui vont être étayés dans les heures qui suivent par la publication d’une troisième article : une tribune d’André Hébert, ancien volontaire du Rojava, le seul nommément cité dans l’article de Mediapart, et qui pointe lui aussi une "narration anxiogène" et un "article insultant, plein d’insinuations et de rumeurs" qui selon lui "a tout l’air d’une commande de la DGSI aux journalistes de Mediapart." Suite à cette salve d’articles, interpellé sur Twitter, le journaliste Mathieu Suc a reconnu une "erreur matérielle" (voir ci-dessous) et procédé à une mise à jour de l’article. Nous passons en revue les principaux points de discorde et les réponses que nous a apportées Matthieu Suc. des services qui soufflent le chaud et le froid.
      Avec cet article, Mediapart a donc choisi de s’intéresser aux suspicions du renseignement à l’égard de ces militants. Soit. Le site nous en prévient assez tôt dans l’article : "Ces derniers mois, les services de renseignement se sont inquiétés à plusieurs reprises de « la menace » représentée selon eux par ces « activistes d’ultragauche », qu’ils soient militants marxistes ou anciens zadistes, de retour du Rojava." Mediapart rapporte en effet que les services surveillent ces militants très en amont "si d’aventure certains revenants du Rojava passaient à l’acte." Le profil de ces militants poserait "un important problème sécuritaire". En cause, " la formation militaire qu’ils y ont acquise", écrit Mediapart, qui précise : "Dans le lot, certains ont même suivi une formation aux explosifs." Ces militants partis combattre Daech aux côtés des unités de combat kurdes, arabes et yézidies menaceraient donc la France ? A l’appui, Mediapart cite "un haut gradé" qui souffle le chaud et le froid : ces militants "se constituent en cellules que l’on pourrait qualifier de préterroristes", affirme-t-il, tout en ajoutant aussitôt : "Et c’est tout. Même si cela reste une préoccupation, la violence exprimée par ces militants ne s’est pas pour l’heure matérialisée." C’est-à-dire ? La DGSI, citée par Mediapart, est tout aussi peu claire : "Les membres de l’ultragauche n’ont pas encore franchi la ligne ténue qui les sépare du terrorisme". Soulagement ? Pas si vite. Car, si l’on en croit "un haut gradé d’un service de renseignement" dont Mediapart rapporte là encore les propos : "La menace que certains d’entre eux peuvent faire peser sur les institutions françaises, sur les forces de l’ordre, est une préoccupation générale et constante."

      Mediapart : "Notre erreur est incontestable"

      Mais quid de la dite "menace" ? Très tôt dans l’article, les journalistes de “Mediapart” l’accréditent, en avançant que la justice partagerait elle aussi cette suspicion. Ainsi Mediapart écrit : "Ce « savoir-faire » est suspecté de pouvoir servir « dans le cadre d’actions violentes de l’ultragauche révolutionnaire », selon les termes d’une décision de justice rendue en décembre 2016, qui privait un militant de son passeport et l’empêchait de repartir sur zone." Seulement voilà, il n’y pas eu de décision de justice contre les combattants français. C’est même l’inverse. Ce que Mediapart a pris ici pour une décision de justice est en réalité un arrêté du ministère de l’Intérieur. Qu’est-ce que ça change ? "Le problème, ici, c’est que l’arrêté a été contesté mais surtout annulé, par une décision de justice cette fois-ci", rappelle Lundi Matin, qui produit l’arrêté ainsi que la véritable décision du tribunal administratif de Paris. Lequel estimait, le 31 mars 2017, que les "éléments ne suffisent pas à démontrer que les convictions et engagements politiques de M. XXX sont susceptibles de le conduire à porter atteinte à la sécurité publique lors de son retour sur le territoire français." En d’autres termes, loin d’établir sa dangerosité, la justice a au contraire donné raison au militant, ordonné que son passeport lui soit restitué et condamné l’Etat à lui verser la somme de 1000 euros. "Bref, une toute autre histoire que celle racontée par la DGSI, Matthieu Suc et Jacques Massey", raille Lundi matin.
      Interpellé sur Twitter, Matthieu Suc parle d’une "erreur matérielle". Dans la foulée, sur Mediapart, le passage en question est corrigé et une mise à jour renvoie désormais à l’article de Lundi matin. "Notre erreur est incontestable. D’autant que la condamnation du ministère de l’Intérieur par le tribunal administratif est assez sévère", reconnaît d’emblée Matthieu Suc auprès d’Arrêt sur images, en expliquant, au sujet des documents sortis par Lundi matin, qu’il aurait été "ravi de les mettre dans l’enquête".
      Le plaignant, lui, n’a pas tardé à se manifester après la parution de l’enquête. Le militant "blanchi" par la justice, "c’est moi" explique ainsi l’ex-volontaire du Rojava, André Hébert, dans la tribune parue le 4 septembre sur Lundi matin. Il a rencontré un des deux journalistes. Hébert explique qu’il lui avait pourtant proposé d’avoir accès à ce jugement, ce que le journaliste a refusé. "Oui, on aurait dû prendre connaissance de ce document à ce moment-là", reconnaît Suc auprès d’Arrêt sur images, sans apporter plus d’explications. Si pour Hébert le contresens manifeste de Mediapart sur la décision de justice est "l’erreur la plus grossière" de l’enquête, ce n’est pas le seul point qui a fait tiquer les militants. un ancien du rojava attaque un hélico de la gendarmerie ?
      Toujours à l’affût de "la menace" que représenteraient les anciens du Rojava, et juste après avoir expliqué à tort que la justice la considérerait comme fondée, les auteurs écrivent : "Cette crainte qu’inspirent les militants d’ultragauche de retour du front syrien se serait matérialisée le 9 avril 2018". Tout du moins, "à en croire les services de renseignement", précise l’article. Et Mediapart de rappeler que ce jour là, à Notre-Dame-des Landes, "un hélicoptère de la section aérienne de la gendarmerie nationale essuie plusieurs tirs de fusée éclairante". Quel rapport avec les volontaires du Rojava ? "Sans pouvoir l’établir judiciairement, les services de renseignement ont la conviction d’avoir identifié l’auteur de cette attaque, un zadiste vétéran du Rojava."
      Dans sa tribune publiée sur Lundi matin, Corinne Morel Darleux écrit :"Nul besoin au demeurant d’être un « vétéran du Rojava » pour manier une fusée éclairante, une rapide recherche indique qu’elles sont vendues sur Internet pour les « soirées illuminées, fêtes nationales, départ en retraite, événements, fiançailles, mariage, baptême »."
      De son côté, Lundi matin considère que "si la mise en scène peut prêter à rire, les accusations n’en sont pas moins graves et sans autre fondement qu’une « conviction » que les services de renseignement reconnaissent être incapables d’établir judiciairement." Pour sa part, Matthieu Suc nous répond : "Je conçois que notre enquête puisse susciter de l’émotion et de la contestation. Mais si vous regardez bien, toutes les informations qui proviennent des services de renseignements, on les a mises dans la bouche des services de renseignement."

      Un "haut gradé croit savoir..."

      Ce que reprochent surtout Lundi matin, Morel Darleux et Hébert à Mediapart, c’est de relayer sans distance les convictions réelles ou supposées des services. Notamment au sujet des liens supposés entre les combattants du Rojava et des faits survenus en France. "Moins sanglante, la perspective d’une convergence des luttes avec la mouvance anarchiste, qui s’adonne depuis l’été 2017 à une activité incendiaire, inquiète", écrivent les journalistes, au sujet de "mystérieux incendiaires qui multiplient les actions de sabotage et de dégradation, en solidarité avec des anarchistes actuellement incarcérés en France et en Italie."

      Mediapart égrène la liste des forfaits : gendarmeries attaquées en 2017 à Limoges, Grenoble et Meylan, incendies de la radio France Bleu Isère et d’un relais radio à Grenoble en janvier 2019, de véhicules de la mairie à Paris en mars et d’un véhicule de l’armée lors du mouvement des Gilets jaunes à Saint-Nazaire. Quel rapport avec le Rojava et ses combattants français ? "Le choix de s’en prendre aux symboles de l’État et à ses forces de l’ordre épouse les objectifs de certains revenants du Rojava", écrit Mediapart qui à l’appui cite un "haut gradé" qui "croit savoir" que les volontaires de retour en France "sont en contact avec d’autres franges de l’ultragauche, dont les incendiaires qui sont des militants aguerris, déployant de solides techniques de clandestinité." Dans son article, Lundi matin tacle : "En tout cas, ce haut gradé n’a visiblement pas jugé utile de partager ses informations avec ses collègues enquêteurs, qui n’ont jusqu’à présent inquiété personne pour ces incendies."

      "Ce n’est pas du tout une commande des services"

      Plus généralement, Lundi matin estime au sujet de l’enquête que "l’action des services, ici, est d’ordre psychologique et éditorial : profiler une menace, convaincre qu’elle est bien réelle, imposer un imaginaire, des éléments de langage et une grille de lecture." Et d’ajouter : "La cible première, ce ne sont pas les volontaires qui reviennent du Rojava mais bien Mediapart et ses abonnés." Matthieu Suc récuse l’accusation de téléguidage, rappelant qu’il a publié plusieurs enquêtes à charge contre les renseignements. Suc l’assure : "Pour cette enquête, on a vu une dizaine de personnes, parmi eux certains qu’on pourrait qualifier de serviteurs de l’Etat à des degrés divers, mais aussi des gens qui sont de l’autre côté de la barrière." Il ajoute : "Au delà de ça, le plus important pour moi, c’est cette fameuse vidéo-communiqué où un petit nombre de militants appelle à frapper la France. " Dans cette vidéo diffusée en français, en avril 2018, par l’Antifascist Forces in Afrin (AFFA), titrée "Contre Macron et son monde", on entend : "Nous avons combattu l’État islamique et l’État turc. Nous combattrons l’État français avec la même détermination. […] Ouvrons de nouveaux fronts et détruisons nos cibles." Dans sa tribune, André Hébert parle simplement de "vidéos faites sur le coup de l’émotion, qui n’engagent que leurs auteurs." Même... Mediapart, dans ce même article, rappelle que face "au tollé suscité au sein même de la mouvance, la proclamation est vite effacée" et que "l’auteur s’en mord encore les doigts."

      "revenants"

      Certains termes, également, font réagir. Notamment celui de "revenants" pour qualifier ces combattants de retour, terme utilisé pour désigner les vétérans du djihad. "On n’y a pas vu une charge particulière. Pour moi, c’était presque plus doux que combattant. Il n’y avait pas une volonté de dramatiser", estime Suc.
      Corinne Morel Darleux dénonce elle aussi dans sa tribune la tonalité anxiogène de l’article ("cette Une, entre radicalisation et film de zombie", "cette photo hérissé de kalachnikovs" qui accompagne l’article). "On frémit", ironise-t-elle en rappelant, comme le précise au fil de son article Mediapart, que ces internationalistes français sont loin d’être légion, "une douzaine" rentrés en France, "moins de dix" encore sur place. Elle regrette que Mediapart ne se penche pas davantage "sur les tenants et aboutissants" des combats que ces militants ont rejoint.
      De fait, dans cet article, Mediapart ne s’étend guère sur les motivations des militants partis au Rojava. On saura juste qu’à l’origine il s’agit de "jeunes révolutionnaires émus par les images de Kobané assiégé par les troupes de l’État islamique." Quant au sens de leur engagement ? Mediapart cite brièvement André Hébert, "convaincu d’avoir contribué à éradiquer Daech, lutté pour un monde meilleur et soutenu la révolution du Rojava." Auprès d’Arrêt sur images, Suc confie : "Dans l’enquête, le passage concernant André Hébert devait permettre de contre-balancer la parole des services. Manifestement, on ne l’a pas fait assez."
      Après la série d’articles publiées par Lundi matin, Mediapart a ajouté dans le corps de l’article une brève mention à l’émotion suscitée par son enquête, avec un lien vers la tribune d’Hébert.

      https://www.arretsurimages.net/articles/revenants-du-rojava-mediapart-face-aux-critiques