• Citoyens de #Rome
    https://laviedesidees.fr/Nicolas-Tran-La-plebe

    Mégalopole d’un million d’habitants, la capitale de l’Empire abritait une « plèbe » diversifiée dont le rôle politique était important. Ses émotions avaient pour lieux les fêtes de quartier, les théâtres et le Grand Cirque. À propos de : Nicolas Tran, La plèbe. Une #Histoire populaire de Rome (du Ier siècle av. J.-C. à la fin du IIe siècle apr. J.-C.), Passés composés

    #peuple #Antiquité #métropole #Double_Une
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202401_romains.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20240215_romains.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20240215_romains.docx

  • #Roma_coloniale

    Sul colonialismo italiano pesa il torto di una rimozione storica, culturale e politica, ancora inspiegabile: un buco nel registro delle morti del Novecento, pagine bianche nei manuali di storia nazionale.
    Il Colonialismo spiega, più di quel che si è portati a credere, il pregiudizio razzista che ancora oggi pervade le piaghe più nascoste della società italiana; un razzismo ordinario, che può esplodere, a certe condizioni, in episodi terribili, oppure continuare a covare sotto la cenere.

    Roma è una città distratta. Le tracce coloniali, incomprese, sono ovunque: viali, piazze, obelischi, cinema, statue, targhe, tutti omaggi dedicati all’impero. Si incontrano a Villa Borghese, al Circo Massimo, alla Stazione Termini, a San Giovanni, al Foro Italico, a Garbatella, a Casalbertone. E in un intero quartiere: quello Africano.
    Forse è venuto il momento di discuterne, di ricercarle e assegnare loro un significato storico più doloroso e più giusto, senza continuare a sperare nell’oblio.

    https://lecommariedizioni.it/prodotto/roma-coloniale
    #Rome #colonialisme #Italie #Italie_coloniale #colonialisme_italien #livre #traces #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #noms_de_rue #liste #inventaire

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

  • Ors, la multinazionale della detenzione amministrativa sbarca in Italia

    Con alle spalle denunce di malagestione, la multinazionale arriva in Italia nel 2018 vincendo i primi appalti da società inattiva. Al suo interno, ex politici e imprenditori contribuiscono al suo ruolo come leader nel settore dell’accoglienza. Oggi gestisce il Cpr di Roma, dopo la chiusura di quello di Torino.

    Appena insediatosi come amministratore delegato del gruppo Ors – Organisation for Refugees Services – nel 2017, Jürg Rötheli si trova a dover gestire una situazione complessa. La multinazionale, leader in Europa nei settori dell’accoglienza e della detenzione amministrativa, ha una presenza consolidata in Svizzera, il Paese natio, ma la perdita di alcuni appalti e una riduzione sostanziale del numero di richiedenti asilo in Svizzera, portano il Ceo a dover ridefinire la strategia del gruppo. Rötheli assume così le vesti di innovatore e avvia un processo strategico per ristrutturare la società e lanciarla verso nuovi mercati, guardando in modo particolare al Mediterraneo e l’Italia.

    «L’assegnazione di appalti a fornitori di servizi privati consente di sgravare notevolmente le strutture statali. L’Italia rappresenta un primo importante passo per la nostra espansione nel Mediterraneo», scrive il gruppo elvetico. Il motto della multinazionale è, come specifica nel proprio sito, «neutrali, flessibili, affidabili». In un’intervista Jürg Rötheli afferma: «Grazie agli standard e ai processi che abbiamo integrato nel nostro sistema di gestione della qualità, possiamo costruire e aprire strutture praticamente durante la notte» (https://www.sqs.ch/de/blog/unser-kollektives-know-how-staendig-und-ueberall-verfuegbar-machen).

    Ors lavora in questo settore da oltre 30 anni e, oltre ad aver gestito centri di accoglienza in un regime quasi di monopolio in Svizzera, ha filiali in Austria, Germania, Spagna e Grecia. Negli anni ‘90 la Svizzera conferisce ai privati l’onere di gestire l’accoglienza e Ors, già attiva dal 1977 con altre denominazioni, si fa trovare pronta. Entra nel settore con Ors Service AG, società creata nel 1992 a Zurigo. Rötheli, prima di prendere la guida di Ors, era stato Ceo della società pubblicitaria elvetica Clear Channel Svizzera, e membro della direzione della principale società di telecomunicazioni del Paese, il Gruppo Swisscom.

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    L’inchiesta in breve

    - Ors è una multinazionale svizzera nata nel 1977 a Zurigo. Dalla fornitura di servizi a pubblico e privato è poi entrata nel mondo dell’accoglienza, espandendosi anche in Germania, Austria e più di recente in Italia e Spagna
    - Dopo diverse denunce di malagestione in centri di accoglienza in Svizzera e Austria, e il calo dei richiedenti asilo nel Paese natio, decide di espandersi nel Mediterraneo e aprire una filiale in Italia nel 2018, Ors Italia srl
    – La società però inizia la sua attività solo nel gennaio 2020, riuscendo comunque ad aggiudicarsi il Cpr di Macomer e il centro di prima accoglienza Casa Malala, pur essendo inattiva, ma il Tar del Friuli Venezia-Giulia revoca l’assegnazione del centro nei pressi di Trieste proprio per il suo stato di inattività
    - Ors è l’unica, tra le società che gestiscono i Cpr in Italia, a essere rappresentata in Parlamento da una società di lobbying, la Telos Analisi e Strategie
    – All’inizio del 2022 Ors Italia inizia la gestione dei Cpr di Roma, che continua ancora oggi, e Torino, chiuso dopo le proteste dei detenuti a febbraio per le condizioni di trattenimento
    - A fine 2022 è stata acquisita dal colosso britannico Serco e può vantare la collaborazione di un comitato consultivo composto da ex politici e imprenditori, come Ruth Metzler, attuale presidente della Fondazione della Guardia svizzera pontificia.

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    I centri gestiti dalla multinazionale, e dalle diverse filiali, sono stati nel tempo oggetto di inchieste e di accuse di mala gestione. Un rapporto di Amnesty International ha denunciato nel 2015 le condizioni inumane in cui le persone migranti erano costrette a vivere nel centro di #Traiskirchen, in Austria (https://www.amnesty.at/media/1928/research-traiskirchen.pdf). La struttura, «progettata per 1.800 persone, era arrivata a ospitarne 4.600». In questo modo Ors, secondo l’Ong, puntava a «un taglio dei costi e alla massimizzazione del profitto con “risparmi” su visite sanitarie, corsi di formazione, cibo e qualità degli alloggi». Un’inchiesta giornalistica del 2018 ha raccontato come Ors avesse ottenuto dal Governo austriaco un finanziamento di circa 250 milioni di euro, in netto rialzo rispetto al passato (https://www.addendum.org/asyl/ors).

    Anche in Svizzera è stato messo in dubbio il corretto operato della multinazionale, che è stata accusata, nel 2016, di non disporre di alimenti per bambini a sufficienza e di attuare punizioni collettive e vessazioni alle persone accolte nel centro federale d’asilo di Aesch (Basilea), allestito in una sorta di bunker, e poi chiuso, alla fine del 2016 (https://www.bazonline.ch/wie-asylsuchende-schikaniert-werden-921469837455).

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    L’assetto societario

    La storia societaria di Ors è molto ramificata. Nel 1977 a Zurigo nasce la casa madre Ors Service SA, con l’obiettivo di offrire servizi generici a pubblico e privato. Cambia nome definitivamente nel 1992 in Ors Service AG, un anno dopo aver preso in carico il primo appalto nel centro di registrazione per richiedenti asilo di Kreuzlingen. Nel 1999 viene creata la OX Holding AG (oggi Ors Group AG) che agisce come società fiduciaria, gestendo beni, titoli e obbligazioni della casa madre. Il 26 giugno 2009 la casa madre viene venduta a un fondo di private equity di Zurigo, la Invision AG, che ha la funzione di finanziare progetti in settori come l’informatica, le telecomunicazioni e i servizi sanitari.

    Nel 2013, viene creato il fondo di private equity OXZ Holding AG che acquista delle azioni della fiduciaria Ors Group AG. In questo modo, la società elvetica consolida lo svolgimento di operazioni speculative per attrarre capitali. Nello stesso momento è la Equistone Partners, una delle più grandi società di investimento di Londra, a finanziare la Ors Group AG, di fatto togliendo la società dalle mani della svizzera Invision. Equistone ha l’obiettivo di acquisire aziende o asset di imprese non quotate attraverso una serie di fondi di private equity a loro volta partecipati da investitori istituzionali come gli americani California State Teachers’ Retirement System e il Maryland State Retirement and Pension System e l’agenzia governativa di previdenza sociale dell’Arabia Saudita. Sarà la società londinese a portare Ors nel mercato tedesco e italiano.

    Oggi, le tre società più grandi del gruppo, Ors Group AG, Ors Service AG e la OXZ Holding AG hanno tutte lo stesso indirizzo a Zurigo, e condividono anche i vertici. Nel settembre del 2022, Equistone ha venduto le sue quote a Serco Group Plc per 44 milioni di franchi svizzeri. Soprannominata “the biggest company you’ve never heard of”, la più grande compagnia di cui avete mai sentito parlare, Serco è un gruppo britannico che fornisce servizi di outsourcing al settore pubblico in tutto il mondo. Ora che è proprietaria del gruppo Ors, la multinazionale inglese si è detta pronta a fornire i suoi servizi anche al nostro Paese.

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    L’espansione nel Mediterraneo

    Per espandersi verso nuovi mercati, Rötheli nomina un gruppo di personalità di alto profilo strategico, tra cui ex politici ed ex membri dei consigli di amministrazione del settore finanziario privato, riunite in un comitato consultivo che avrebbe il compito di raccomandare «soluzioni per la messa in atto della strategia e l’ulteriore sviluppo delle decisioni», si legge nella relazione 2021 (https://www.yumpu.com/it/document/read/66997937/ors-relazione-annuale-2021). A guidare il comitato è Ruth Mezler Arnold, avvocata, esponente per lungo tempo del Partito Popolare Democratico ed ex ministra della Giustizia in Svizzera, nonché dal 2018 presidente della Fondazione della guardia svizzera pontificia del Vaticano.

    La multinazionale approda in Italia il 25 luglio 2018, iscrivendosi al registro delle imprese con il nome di Ors Italia srl, totalmente controllata dalla casa madre. Il momento è favorevole. Il 1 giugno 2018 entra in carica il governo “Giallo-Verde” con Matteo Salvini ministro dell’Interno.

    Il segretario della Lega da anni pone al centro della sua politica il tema migratorio, in nome della chiusura dei confini e della sicurezza. Simbolo della sua azione da ministro, i decreti sicurezza, con cui ha permesso il taglio dei fondi all’accoglienza, l’abolizione della protezione umanitaria e il potenziamento del sistema dei rimpatri. I decreti hanno, ancora una volta, favorito il sistema emergenziale dei Centri di accoglienza straordinaria a scapito del modello virtuoso di accoglienza diffusa, che dovrebbe costituire il sistema principale. La riduzione dei fondi per l’accoglienza «va evidentemente a penalizzare i centri più piccoli e a incentivare quelli medi e soprattutto grandi, per i quali sono possibili economie di scala», si legge nel rapporto del 2019 Centri d’Italia di ActionAid. Una politica che ha creato un terreno fertile per grandi centri di accoglienza gestiti da grandi società che, risparmiando sui servizi offerti, operano con l’obiettivo di fare profitto, creando paradossalmente maggiore insicurezza.

    Il Ceo Rötheli si trova anche ai vertici di Ors Italia srl. Allo stesso modo, un’altra figura con una lunga esperienza nella multinazionale ricopre più di una carica: Maurizio Reppucci, membro del consiglio di amministrazione del gruppo e amministratore delegato della filiale italiana. Reppucci da Managing director di una sussidiaria di Ors, ABS Betreuungsservice AG, per cinque anni si è occupato di rifugiati, programmi di impiego e assistenza. La gestione di Abs è stata però criticata dal quotidiano svizzero Obersee Nachrichten, che ha denunciato le condizioni critiche di alcuni centri. Consigliere del ramo italiano è invece il cugino di Maurizio, Antonio Reppucci, ex sindaco di un paese nella zona di Avellino e in passato assessore ai lavori pubblici, oltre ad essere stato per un periodo consulente del Parlamento italiano.

    L’attività economica di Ors Italia inizierà a gennaio 2020 ma già nel periodo di inattività riesce a vincere importanti appalti: il Centro di permanenza per i rimpatri di Macomer, in Sardegna, e un centro di prima accoglienza in Friuli Venezia Giulia, Casa Malala. Si aggiudicherà poi il centro di accoglienza di Monastir e i Cpr di Roma e Torino. Per essere sicura di imporsi politicamente nel contesto italiano, la nuova srl si serve di una società di lobbying, e della sua agenda di contatti e relazioni: Telos Analisi e Strategie, studio professionale che si occupa di rappresentare gli interessi dei propri assistiti in Parlamento e si posiziona tra le prime 10 società nel campo del lobbismo italiano.

    Nell’accordo firmato nel 2020, la multinazionale elvetica delega alla lobby l’organizzazione di meeting con rappresentanti istituzionali. Lo scopo principale, secondo la relazione annuale di Telos (https://rappresentantidiinteressi.camera.it/sito/legal_32/scheda-persona-giuridica.html), sarebbe quello di «innalzare il livello di consapevolezza dei parlamentari sulle difficoltà nella gestione del Centro di accoglienza straordinaria (Cas) di Monastir e del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Macomer […]», nonché per sollecitare nel 2021 risposte sull’emergenza Covid nei centri. Su questi temi si sarebbero svolte due videochiamate con due deputati: Marco Di Maio, di Italia Viva, e Andrea Vallascas, all’epoca nel Movimento 5 Stelle, lo stesso che l’anno precedente aveva presentato un’interrogazione al ministero dell’Interno per chiedere conto delle violazioni all’interno del Cpr sardo. Ors è l’unica tra le cooperative e società multinazionali che hanno gestito o gestiscono un Cpr ad avere consulenti come Telos a rappresentare i loro interessi alla Camera dei Deputati.

    In pochi anni la società si aggiudica importanti appalti

    La multinazionale sembra mettere in campo diverse strategie per assicurarsi il maggior numero di appalti in Italia. In una gara indetta dalla Prefettura di Trieste ha dichiarato, infatti, di fronte alle perplessità di un’offerta estremamente bassa, che «l’assestamento nel mercato italiano riveste una maggiore importanza rispetto a un maggiore utile di impresa», dicendo di fatto di essere disposta ad andare in perdita o rinunciare all’utile pur di assicurarsi il mercato italiano, producendo una distorsione della concorrenza. L’appalto in questione era per la gestione di Casa Malala, un centro di prima accoglienza al confine con la Slovenia, fino a quel momento gestito dal Consorzio Italiano di Solidarietà (Ics) e Caritas, organizzazioni no profit presenti sul territorio da oltre vent’anni.

    Ors Italia il 15 settembre 2020 si aggiudica il centro con un ribasso del 14%. Ics, nel ricorso presentato al Tar del Friuli, ha però evidenziato che al momento del bando, nell’agosto 2019, Ors risultava inattiva, elemento che dovrebbe escludere una società dalla gara pubblica.

    Nella sua offerta, la casa madre svizzera aveva assicurato la «disponibilità piena e incondizionata a sopperire alle mancanze di capacità tecnica e professionale di Ors Italia», tramite la filiale austriaca, senza però indicare quali mezzi e risorse sarebbero state coperte. Dal ricorso emerge poi come sia stato possibile proporre un ribasso del 14%: da un lato, Ors ha inquadrato tutto il personale, compresi gli operatori diurni e notturni, in un contratto collettivo riservato alle «posizioni di lavoro relative all’esecuzione di attività semplici ed elementari di tipo manuale», non prendendo neanche in considerazione le ore potenziali di ferie, malattia e permessi. Dall’altro, nell’offerta della multinazionale i costi per colazione, pranzo, cena, compresi i costi del personale, ammontano a 4,88 euro pro die pro capite. Ics invece per la somministrazione del pranzo e della cena spende 9-10 euro. Il Tar ha accolto il ricorso, stabilendo che «lo stato di inattività di un’impresa è preclusivo alla possibilità di concorrere a una gara per l’aggiudicazione di un pubblico appalto» e affidando la gestione alle due no profit.

    Il primo appalto ottenuto in Italia da Ors, con un ribasso del 3%, è invece il Cpr sardo di Macomer, che ha gestito per un anno da gennaio 2020 al 2021. Inizialmente la multinazionale era arrivata solo seconda alla gara, è però riuscita a vincerla dopo l’intervento della Cabina di regia del ministero dell’Interno. Le varie richieste di Ors alla Prefettura di Nuoro di annullare la gara «per presunte irregolarità nella valutazione dell’offerta presentata dalla ditta» non avevano infatti ottenuto risposta affermativa, fino a che la decisione non è stata demandata al ministero. La Prefettura ha alla fine stipulato il contratto con Ors, per «l’urgenza di attivare il servizio», avvalendosi però della facoltà di risolverlo perché l’informazione antimafia – necessaria per il sistema di prevenzione dell’infiltrazione criminale – era ancora in «fase di istruttoria/verifica», come ha evidenziato anche il deputato Erasmo Palazzotto in un’interrogazione all’allora Ministra dell’interno Luciana Lamorgese. Le verifiche si sono poi concluse in assenza di interdittive antimafia il 28 ottobre 2020, tre mesi prima della scadenza dell’appalto.
    Le condizioni di trattenimento nei Cpr

    L’arrivo di Ors nel Cpr di Macomer è segnato fin da subito da un rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma (https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/resources/cms/documents/b7b0081e622c62151026ac0c1d88b62c.pdf), che effettua una visita al Cpr nell’aprile del 2020, riscontrando un numero inadeguato di lavoratori. Subito dopo, la Prefettura di Nuoro annuncia un incremento dei servizi sanitari nel centro. Solo due mesi dopo, sono gli stessi detenuti a protestare per la qualità dei servizi e la violazione dei diritti fondamentali.

    La rivolta è «scatenata il 18.06.2020 da un gruppo di migranti saliti sul tetto della struttura di Macomer per protestare contro le condizioni di vita all’interno della struttura. Il culmine della ribellione si è verificato quando un uomo si è cucito le labbra ed è stato trasferito in infermeria», scrivono le consigliere regionali Maria Laura Orrù e Laura Caddeo in un’interrogazione dopo una visita nel luglio 2020 (https://www.consregsardegna.it/xvilegislatura/interrogazioni/614). Le consigliere segnalano poi un uso diffuso dei sedativi, confermato anche da un’avvocata che prestava assistenza legale ad alcuni trattenuti, e che ha denunciato il trattenimento di persone affette da gravi forme di diabete. Per finire, l’interrogazione ricorda la violazione del diritto alla difesa, sia perché le comunicazioni sulle nomine dei difensori sarebbero arrivate solo pochi minuti prima delle udienze di convalida, sia per l’assenza di mediatori linguistici durante i colloqui.

    L’esperienza di Ors in Sardegna finisce con l’arrivo del nuovo gestore Ekene a gennaio 2022, ma nello stesso periodo inizia quella a Roma, nel Cpr di Ponte Galeria. A fine novembre era morto Wissem Ben Abdel Latif, un ragazzo tunisino di 26 anni rimasto legato per tre giorni in un corridoio del reparto psichiatrico dell’Ospedale San Camillo. Era stato trasferito lì dopo alcuni giorni passati nella struttura detentiva di Roma, diretta da Vincenzo Lattuca che è stato confermato da Ors quando è subentrata nella gestione del centro. Anche nella capitale si lamenta l’insufficienza di operatori, spesso assunti da agenzie interinali, che in alcuni casi si sarebbero licenziati per le condizioni di lavoro estenuanti. A testimoniare problemi molto simili a quelli riscontrati a Macomer, ci sono l’ex Garante delle persone private della libertà personale di Roma Gabriella Stramaccioni, la senatrice Ilaria Cucchi e il deputato Aboubakar Soumahoro. Ors, raggiunta via mail, sui dipendenti ha risposto: «La decisione di accettare o meno un lavoro è a discrezione dell’individuo».

    Di nuovo, ci sarebbero stati trattenimenti di persone non adatte alla vita in comunità ristrette, come il caso di un ragazzo che ha ingoiato un pezzo di vetro durante una visita della garante a ottobre 2022, poi dimesso dal Cpr. O la detenzione, denunciata da Soumahoro, di tre ragazzi minorenni, che secondo la normativa non potrebbero essere reclusi nei centri. Lo stesso Lattuca, direttore del centro, avrebbe confermato al deputato che al momento della visita il 65% delle persone trattenute aveva problemi di tossicodipendenza.

    Ma ciò che rende Ponte Galeria un unicum nella detenzione amministrativa italiana è la sezione femminile. A fine marzo 2023, Cucchi ha denunciato la presenza di cinque donne, nonostante il capitolato d’appalto non menzioni la presenza femminile tra la popolazione detenuta e, di conseguenza, neanche la presenza di personale femminile, necessario per «assicurare l’equilibrio di genere e tenere conto delle esigenze di carattere culturale e religioso», come si specificava nel precedente appalto.
    Le proteste di Torino

    A febbraio 2022 Ors assume la gestione del Cpr di Torino, raccogliendo l’eredità lasciata dalla multinazionale francese Gepsa, segnata dalle morti di Hossain Faisal e Moussa Balde. La multinazionale elvetica tenta un cambio di rotta rispetto alla precedente gestione ma emergono da subito criticità. Il medico convenzionato di Ors segnala, durante una visita della Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild), a giugno 2022, la presenza di detenuti sottoposti a terapia con metadone, casi di autolesionismo (che a marzo 2022 erano arrivati a quota 10-12 al giorno), abuso di psicofarmaci e tranquillanti. A luglio dello stesso anno, ci è stato permesso di entrare a visitare la struttura, scortati da 11 militari. Durante la nostra permanenza, diversi trattenuti hanno denunciato disagi psicologici: «Hanno sbagliato a chiamarlo centro, questo è il braccio della morte», ha detto uno di loro.

    Passa ancora qualche mese quando, il 4 febbraio di quest’anno, scoppiano le rivolte dei trattenuti. Secondo il blog No Cpr Torino (https://nocprtorino.noblogs.org/articoli), che ha raccolto testimonianze dall’interno, la protesta è partita dalle condizioni di detenzione: «Il cibo è avariato e contiene psicofarmaci, le celle sono fredde, non c’è acqua calda e le sezioni sono piene di spazzatura», si legge. Durante la nostra visita, un trattenuto si è rivolto al funzionario della Prefettura segnalando che lo shampoo e la carta igienica non venivano forniti da due settimane. La visita non ci ha fornito elementi per confermare o smentire le altre violazioni, ma è necessario evidenziare che il nostro ingresso era annunciato da diverse settimane e l’ente gestore era a conoscenza del nostro arrivo.
    Il racconto di No Cpr Torino continua: tre persone sarebbero state portate in ospedale dopo aver subito un pestaggio da parte delle forze dell’ordine. Uno di loro ha raccontato: «Ti colpiscono alla testa. Questo è un luogo pericoloso, qui non picchiano bene. Magari in carcere ti picchiano ma alle gambe. Qui, no. Non arrivano a picchiarti i singoli ma una squadra intera». Le proteste tornano a riaccendersi il 20 febbraio, questa volta per un’epidemia di scabbia secondo quanto riportato da No Cpr Torino, seguite da uno sciopero della fame di circa 20 reclusi.

    https://www.youtube.com/watch?v=qbHsMTNG6_0&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    A inizio marzo il centro viene chiuso perché inagibile. La Commissione Legalità e diritti delle persone private della libertà personale, in seduta congiunta con la Commissione speciale per il contrasto dei fenomeni di intolleranza e razzismo del Comune di Torino, convocano per un’audizione Ors, con l’obiettivo di riferire su quanto si è verificato nel centro, ma l’ente gestore comunica che non avrebbe partecipato. Durante la seduta, il presidente della Commissione Legalità, Luca Pidello, si reputa «non soddisfatto» della relazione e, dopo la notizia sui lavori di ristrutturazione della struttura, scrive:

    «La domanda è […] se abbia senso continuare ad investire in una struttura di questo tipo […] o se magari queste risorse non possano essere impiegate in altro genere di politiche che possano portare ad un livello di integrazione maggiore».

    Dieci giorni dopo, la relazione arriva al Consiglio comunale di Torino. Nella seduta viene approvato un ordine del giorno che auspica la definitiva chiusura del Cpr e impegna il Sindaco e la giunta a farsi portavoci dell’istanza al Governo nazionale (www.comune.torino.it/cittagora/altre-notizie/sala-rossa-non-riapra-il-cpr-le-risorse-per-le-politiche-migratorie.html). Ad oggi, ancora nessuna istanza è stata presentata al Governo da parte dell’amministrazione torinese.

    L’attività di Ors all’estero

    Un anno dopo l’approdo in Italia, nel 2019 il gruppo apre una filiale in Spagna, Ors España Servicios Sociales. Sul sito della multinazionale, il motivo dell’apertura ai Paesi del sud del Mediterraneo è giustificato dal costante aumento dei flussi migratori che apre a sua volta nuove opportunità di mercato. Sempre nel 2019, in un post su Linkedin, Jürg Rötheli pubblicava una foto con l’attuale ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani e annunciava così l’apertura di una rappresentanza di Ors a Bruxelles.

    Ora che la società svizzera è stata venduta al gruppo Serco, anche Jürg Rötheli è entrato a far parte del colosso britannico: è stato nominato direttore operativo della sezione immigrazione. Si prospetta quindi una nuova fase per Ors, forte del sostegno di una multinazionale come Serco.

    Stando ai dati del 2022, Ors gestisce in tutti i Paesi in cui opera 120 strutture, di cui 95 solo in Svizzera, con un fatturato di oltre 173 milioni di franchi, pari a più di 180 milioni di euro. L’arrivo di Rötheli alla guida della società non ha frenato però le accuse di mala gestione. Nel 2018 alcune associazioni svizzere hanno svolto inchieste e successivamente denunciato Ors per le condizioni di vita all’interno delle strutture gestite a Friburgo. I testimoni raccontano di difficoltà o totale mancanza di accesso alle cure, violenze verbali e talvolta fisiche, molestie sessuali e acqua fredda nelle docce in pieno inverno. Nel centro federale di Basilea è stato denunciato l’uso sistematico delle celle di isolamento e di pestaggi nei confronti dei richiedenti asilo. A Boudry, si racconta invece di un «sistema punitivo»: i testimoni parlano di un costante uso dello spray al peperoncino, placcaggi a terra e insulti omofobi.

    Con l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, quasi sei milioni di persone hanno chiesto asilo in Europa e gli appalti di Ors sono aumentati di un terzo: nel 2021 erano 80, con 1.400 dipendenti, 900 in meno dell’anno successivo.

    Come ricorda Rötheli nella relazione annuale del 2022, la Svizzera ha accolto 85.000 rifugiati ucraini e 30.000 richiedenti asilo legati alla migrazione regolare fino al marzo 2023. La maggior parte di loro, specifica il Ceo della società, è stata seguita da Ors. Per questo la perdita di molti appalti in Austria e di 19 centri in Svizzera non sembra preoccupare il gruppo elvetico. Rötheli, all’indomani dell’acquisizione da parte di Serco, ha commentato: «La partnership con Serco ci apre nuove prospettive. Allo stesso tempo, garantiamo continuità ai nostri clienti in tutti i Paesi in cui operiamo e in tutti i settori di attività» (https://it.ors-group.org/press-release-serco-it).

    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-roma-torino-multinazionale-ors
    #CPR #rétention #détention_administrative #Rome #asile #migrations #réfugiés #ORS #privatisation #Jürg_Rötheli #Italie

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    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

  • Migranti, i sindaci delle grandi città contro il governo: «Scelte sbagliate che ledono i diritti: non si cancelli la protezione speciale»

    I sindaci delle maggiori città italiane (di centrosinistra) di nuovo contro il governo Meloni. Oggetto della discussione, ma anche (e soprattutto) di preoccupazione: la gestione dell’immigrazione, in particolare, il sistema di accoglienza e la cancellazione della protezione speciale per i migranti. «Come sindaci, come amministratori, come cittadini che quotidianamente si impegnano nei territori per cercare di garantire le migliori risposte alle criticità che le nostre Comunità esplicitano, siamo molto preoccupati per le proposte in discussione relative alle modifiche all’unico sistema di accoglienza migranti effettivamente pubblico, strutturato, non emergenziale che abbiamo in Italia», si legge in un documento congiunto sul decreto Cutro che porta le firme dei sindaci di #Roma, #Roberto_Gualtieri, di #Milano #Beppe_Sala, di #Napoli #Gaetano_Manfredi, di #Torino #Stefano_Lorusso, di #Bologna, #Matteo_Lepore e di #Firenze, #Dario_Nardella. «La preoccupazione delle città – si legge nel documento – è massima a fronte di emendamenti proposti da alcuni partiti al DL 591 dopo le tante evidenze a cui il nostro ordinamento ha dovuto porre rimedio in questi anni». Secondo il fronte dei sindaci dem, l’esecutivo non deve «ragionare in ottima emergenziale: è sbagliato immaginare l’esclusione dei richiedenti asilo dal Sai, precludendo loro qualunque percorso di integrazione e una reale possibilità di inclusione ed emancipazione nelle nostre comunità».

    «No alla cancellazione della #protezione_speciale»

    Sala, Gualtieri, Manfredi, Lo Russo, Lepore e Nardella non condividono la cancellazione della protezione speciale, confermata anche ieri, sabato 15 aprile, dalla stessa premier Meloni durante il suo viaggio in Etiopia. Per i sindaci delle maggiori città si tratta, infatti, di «una misura presente in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale, mentre circa il 50% dei migranti presenta vulnerabilità ed è in parte significativa costituito da nuclei familiari. Queste scelte, qualora adottate, non potrebbero che procurare infatti una costante lesione dei diritti individuali e innumerevoli difficoltà che le nostre comunità hanno già dovuto affrontare negli anni scorsi, a fronte di un importante aumento di cittadini stranieri condannati appunto all’invisibilità», si legge nel documento congiunto. Tutto questo – scrivono i primi cittadini – «mentre il sistema dei Cas, mai uscito da un assetto emergenziale, è saturo e purtroppo inadeguato ad accogliere già oggi chi proviene dai flussi della rotta mediterranea come da quella balcanica. Insufficiente, sia per numeri sia per le modalità d’accoglienza sia per i servizi di accompagnamento, protezione ed inclusione, assenti. E in questo quadro occorre ripensare anche il sistema di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati cui occorre applicare logiche distributive che evitino la concentrazione nelle sole grandi città», prosegue il documento dei sindaci.

    «Le nostre città sono infatti impegnate già oggi, spesso con sforzi oltre i propri limiti e frequentemente oltre le proprie funzioni e competenze, a porre rimedio con risorse proprie alle manchevolezze di un sistema nazionale adeguato. La soppressione della possibilità di costruire un unico sistema di accoglienza pubblico, trasparente e professionale (come il Sai), garantendo percorsi dignitosi e tutelanti anche per le persone richiedenti protezione internazionale, non può comportare la nascita di nuovi grandi centri di accoglienza o detenzione nei nostri territori. La storia degli ultimi vent’anni di accoglienza in Italia dimostra chiaramente come modelli emergenziali, con standard qualitativi minimi e volti al mero “vitto e alloggio” abbiano procurato ferite enormi nelle nostre comunità e non abbiano garantito diritti esigibili alla popolazione rifugiata. E soprattutto abbiano fallito processi di inclusione efficaci e duraturi», prosegue il documento.

    Le proposte

    Dopo questa lunga premessa, i sindaci dem hanno poi avanzato delle proposte sul tema. «1. Sia rinforzata l’unitarietà del Sistema di Accoglienza italiano, valorizzando l’esperienza virtuosa del Sai, ovvero supportando attivamente la rete dei Comuni che quotidianamente affrontano in prima persona le sfide che i movimenti migratori in ingresso sottopongono ai nostri servizi, ai nostri territori e alle nostre comunità. Con un solo obiettivo: garantire percorsi di effettiva inclusione e tutela compatibili con i territori, evitando grandi centri di accoglienza, senza servizi e senza tutele, per tutti», scrivono. «2. Il Sai rimanga accessibile a richiedenti protezione e rifugiati». I primi cittadini chiedono poi che i Cas, ovvero i centri di accoglienza straordinari, vengano trasformati «in hub di prima accoglienza, dedicati alle procedure di identificazione e di screening sanitario per poi procedere a trasferimenti rapidi nel sistema di seconda accoglienza ed inclusione, appunto il Sai».

    Al punto 4, i sei amministratori chiedono inoltre che «vengano ripristinati i criteri di riparto che il Piano nazionale di accoglienza aveva indicato. In assenza di azioni positive mirate o, peggio, con azioni sbagliate, le ricadute saranno infatti l’irregolarità diffusa o lunghi percorsi di ricorsi giudiziari che paralizzeranno le vite di molte persone inabilitandole e rendendole facili prede del lavoro nero, che invece non manca». Infine, «ci auspichiamo – continuano – che ancora una volta l’Italia non si contraddistingua per una regressione relativa al sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati: da troppi anni questo tema necessita di una riforma importante e strutturale, che miri ad un equilibrio nazionale del sistema di accoglienza imprescindibile dal coinvolgimento dei Comuni e dagli obiettivi di inclusione, protezione e con una diffusione omogenea a livello nazionale. Siamo convinti, insieme ad altre voci autorevoli, che dopo circa vent’anni e anche alla luce di alcuni temi di strutturale cambiamento demografico e sociale non si debba continuare a parlare di emergenza e che proprio in questo momento occorra la lungimiranza di aprire una discussione per scegliere una via legale all’immigrazione e alla regolarizzazione degli immigrati già presenti in Italia, anche attraverso il ricorso allo ius scholae, premessa a comunità solidali, capaci di proporre percorsi di vera emancipazione e autonomia alle persone nel pieno interesse del nostro Paese», concludono i sindaci.

    https://www.open.online/2023/04/16/immigrazione-sindaci-grandi-citta-vs-governo-meloni

    #Italie #villes-refuge #decreto_Cutro #villes #Naples #Turin #Milan #Rome #Florence #Bologne #résistance #protection_spéciale

  • Petite sélection de documentaires à voir sur Arte.fr (note partagée — j’y précise les deadlines) #curious_about

    Le monde de Marcel Proust
    https://www.arte.tv/fr/videos/096300-000-A/le-monde-de-marcel-proust jusqu’au 16/01/2023 #Marcel_Proust #littérature

    L’incroyable périple de Magellan (4 épisodes)
    https://www.arte.tv/fr/videos/RC-023013/l-incroyable-periple-de-magellan https://www.arte.tv/fr/videos/093644-001-A/l-incroyable-periple-de-magellan-1-4 jusqu’au 17/01/2023 #Magellan

    Qui a tué l’Empire romain ?
    https://www.arte.tv/fr/videos/098123-000-A/qui-a-tue-l-empire-romain jusqu’au 24/01/2023 #Rome_antique #histoire

    Histoire de la #domestication. 1, Des origines au Moyen Âge ; 2, De l’âge industriel à nos jours https://www.arte.tv/fr/videos/093643-001-A/histoire-de-la-domestication-1-2 jusqu’au 29/12/2022 #élevage

    #Toutankhamon, le trésor redécouvert
    https://www.arte.tv/fr/videos/079391-000-A/toutankhamon-le-tresor-redecouvert jusqu’au 03/01/2023

    Faire l’histoire. L’épopée homérique, ou la popculture antique
    https://www.arte.tv/fr/videos/108505-009-A/faire-l-histoire jusqu’au 27/10/2026 #Homère #

    L’origine du #christianisme (10 épisodes). Jésus après Jésus
    https://www.arte.tv/fr/videos/029758-001-A/l-origine-du-christianisme-1-10 jusqu’au 3/12/2022

    Léon #Trotsky - Un homme à abattre (vu. Je conseille)
    https://www.arte.tv/fr/videos/101948-000-A/leon-trotsky-un-homme-a-abattre jusqu’au 30/12/2025 #stalinisme

    "J’irai cracher sur vos tombes" - Rage, sexe et jazz
    https://www.arte.tv/fr/videos/106281-000-A/j-irai-cracher-sur-vos-tombes-rage-sexe-et-jazz jusqu’au 14/01/2023 #Boris_Vian

    "Ulysse" de #James_Joyce. Le roman d’un siècle
    https://www.arte.tv/fr/videos/103013-000-A/ulysse-de-james-joyce jusqu’au 19/12/2022

    – (derniers jours !) Petite fille (vu. Magnifique)
    https://www.arte.tv/fr/videos/083141-000-A/petite-fille (il reste 2 jours !) #genre #identité_sexuelle

    • La stèle éthiopienne de Rome. Objet d’un conflit de mémoires

      En mars 1937, un an après la conquête de l’Éthiopie par l’Italie, les forces d’occupation fascistes décidaient de prendre comme trophée de guerre une des stèles géantes d’Axoum, le plus haut lieu de l’Éthiopie antique. Ce monument haut de 24 mètres fut installé à Rome, parmi les obélisques témoignant de la grandeur de l’Empire romain, avec laquelle le régime de Mussolini voulait renouer. Après-guerre, le traité de paix signé par l’Italie prévoyait au chapitre des réparations de guerre que les pièces du patrimoine éthiopien qui avaient été pillées fussent rendues. Jusqu’à aujourd’hui la stèle a fait l’objet d’un contentieux entre les deux pays. Le processus de restitution n’a véritablement pris forme que depuis quelques années, sous la pression d’intellectuels ayant donné un puissant écho médiatique à cette revendication dans le sentiment national éthiopien. Après quelques tergiversations, la stèle éthiopienne de Rome a récemment été démontée, et attend encore que les problèmes de transport soient résolus avant de pouvoir retrouver son site d’origine. Pour examiner ce cas de restitution et discuter des limites de son extrapolation dans la jurisprudence sur les biens culturels illégalement acquis, cet article s’applique à situer ce monument dans une histoire longue des usages politiques du patrimoine archéologique et des références à l’Antiquité qui structurent fortement les mémoires nationales, tant en Italie qu’en Éthiopie.

      https://journals.openedition.org/etudesafricaines/4648
      #stèle_d'Axoum #stele_di_Axum

      signalé par @olivier_aubert —> j’ajoute à ce fil de discussion plutôt qu’à la métaliste (je vais donc effacer de la métaliste, Olivier, pour une question d’organisation des informations)

  • FANTASMI URBANI - I cinema abbandonati di Roma

    «Fantasmi Urbani» (Silvano Curcio, Silvia Sbordoni - Macine, Christian Ciampoli - Macine, 2013, 25’), presentato per la prima volta al Festival Internazionale del Film di Roma nel novembre 2013, è un docufilm basato sulle video-inchieste sui cinema abbandonati di Roma realizzate dagli studenti del primo anno del Corso di laurea in «Gestione del Processo Edilizio» della Facoltà di Architettura della Sapienza (Corso di «EGI Facility Management» - Prof. Silvano Curcio).

    I numerosi cinema abbandonati di Roma sono veri e propri «fantasmi urbani» e rappresentano un esempio tra i più evidenti di un progressivo - ma negli ultimi anni sempre più esteso - fenomeno urbano di perdita/degrado dei presìdi socio-culturali per la collettività (peraltro spesso anche testimonianze di valore storico e architettonico), accompagnato sovente da operazioni speculative finanziarie e immobiliari.

    Il tema dei cinema abbandonati è oggi al centro di un articolato dibattito a livello urbano e numerosi sono gli articoli di denuncia del fenomeno e di sensibilizzazione al problema da parte dei mass media, così come gli appelli e le iniziative da parte di comitati e reti di cittadini e di associazioni civiche e culturali (petizioni, blog, dibattiti, mostre, occupazioni, ecc.).

    Ecco dunque che 120 «studenti-ghostbusters» sono stati coinvolti in un progetto condiviso di censimento per la conoscenza del fenomeno urbano dei cinema abbandonati e, organizzati in 13 gruppi di lavoro autogestiti, hanno diretto il proprio studio su 13 cinema «fantasma» di Roma, ubicati sia al centro che alla periferia della città.

    E sono così partiti alla caccia delle loro tracce di natura storica, edilizia, architettonica, urbanistica, ecc., invadendo il web, le biblioteche, gli archivi pubblici e privati e, soprattutto, i luoghi di Roma in cui questi cinema giacciono abbandonati: ed è proprio qui che gli studenti hanno raccolto in presa diretta i «ricordi» e le «testimonianze» dei cittadini, vera e propria memoria storica e documentativa dei cinema abbandonati di Roma.

    Il docufilm «Fantasmi Urbani», realizzato grazie alla collaborazione tra Sapienza Università di Roma e Macine (progetto artistico sui cinema chiusi di Roma), è una rielaborazione del lavoro di base degli studenti e ne rappresenta un «distillato» conclusivo: un contributo collettivo finale al censimento conoscitivo dei cinema abbandonati di Roma che viene messo a disposizione della cittadinanza e delle istituzioni e delle persone «interessate», ai fini della conoscenza e della sensibilizzazione su un problema di stretta attualità che tocca la vita sociale, culturale ed urbanistica della città.

    Un punto di arrivo, dunque, ma anche un punto di partenza per altre iniziative che possano stimolare un dibattito in cui associare alla conoscenza anche la progettualità: per contribuire, in definitiva, alla conoscenza delle risorse sociali e culturali rappresentate dai cinema abbandonati, ma anche alla formulazione di proposte concrete su come trasformare questi «fantasmi urbani» in beni comuni ri-utilizzabili a servizio della collettività.

    http://cineabbandonati.blogspot.com

    Pour voir le film:
    https://www.dailymotion.com/video/x269pyn


    #villes-fantôme #ghost-city #géographie_du_vide #villes #urban_matter #Rome #cinéma #abandon #cinémas_abandonnés #Italie #fantômes #fantômes_urbains #film #film_documentaire #fermeture

    #TRUST #master_TRUST

  • La radicalisation à #Rome
    https://laviedesidees.fr/La-radicalisation-a-Rome.html

    La dégradation de notre société présente de nombreuses analogies avec la crise de la République romaine. À partir du IIe siècle avant notre ère, violence, refus de réforme, intolérance engagèrent un processus de radicalisation, comme si les Romains ne parvenaient plus à faire société.

    #Histoire #Antiquité #empire

  • Postcolonial Italy – Mapping Colonial Heritage
    https://postcolonialitaly.com

    Even though the period of Italian colonial rule is long gone, its material traces hide almost everywhere. Explore cities, their streets, squares, monuments, and find out more about their forgotten connections to colonial history.

    BOLZANO IMPERIALE https://postcolonialitaly.com/bolzano-imperiale

    CAGLIARI IMPERIALE https://postcolonialitaly.com/cagliari-imperiale

    FIRENZE IMPERIALE https://postcolonialitaly.com/firenze-imperiale

    ROMA IMPERIALE https://postcolonialitaly.com/roma-imperiale

    TORINO IMPERIALE https://postcolonialitaly.com/torino-imperiale

    TRIESTE IMPERIALE

    VENEZIA IMPERIALE
    Postcolonial Italy

    Mapping Colonial Heritage
    Contact

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    #postcolonial #Florence #Turin #Venise #Rome #Cagliari #colonial #visite_guidee #balade_décoloniale #Italie

  • Postcolonial Italy. Mapping Colonial Heritage

    Even though the period of Italian colonial rule is long gone, its material traces hide almost everywhere. Explore cities, their streets, squares, monuments, and find out more about their forgotten connections to colonial history.

    https://postcolonialitaly.com

    Exemple, Turin :

    #Cagliari #Bolzano #Florence #Firenze #Roma #Rome #Turin #Torino #Trieste #Venise #Venezia #cartographie #héritage #colonialisme #colonialisme_italien #Italie_coloniale #traces #villes #cartographie_participative
    #TRUST #Master_TRUST

    ping @cede @postcolonial

    –---

    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien :
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  • Tentative d’épuisement d’un lieu planétaire : Un événement perecquien sur Twitter le 3 mars 2022

    http://liminaire.fr/liminaire/article/tentative-d-epuisement-d-un-lieu-planetaire

    Le 3 mars prochain marquera les 40 ans de la mort de Georges Perec. À cette occasion, célébrons son esprit encore vivace, le temps d’une performance collective éphémère, inspirée de son œuvre.

    Jeudi 3 mars 2022, de 12h30 à 13h30 heure de Paris, participez à la « Tentative d’épuisement d’un lieu planétaire ». [1]

    Mode d’emploi : chacun(e) se poste dans un lieu de son choix et décrit, à la manière « infraordinaire », ce qu’il voit et perçoit, le banal, le quotidien, et le poste en série sur Twitter. Chacun des tweets est accompagné systématiquement d’un hashtag donnant le nom de la ville où il/elle se trouve (#Kinshasa #Malakoff #Paris #Bruxelles #Poitiers #Tours #Marseille #Montevidéo #NewYork #Montréal #Rome #Madrid #Tokyo...), et du hashtag de l’événement #Perec40. (...) #Perec, #Écriture, #Histoire, #Langage, #Livre, #Lecture, #Récit, #Poésie, #Hommage, #Performance, #Twitter (...)

  • #Bruxelles : Manifestations contre les mesures soit disant sanitaires 23 Janvier 2022
    A Bruxelles, le cortège réunissait ce dimanche plusieurs milliers de personnes, des Belges mais aussi des manifestants venus d’autres pays qui entendent défendre la liberté, la démocratie et les droits de l’homme.

    https://www.youtube.com/watch?v=7oYBZUqRuXA

    https://www.youtube.com/watch?v=Ff1U35i_vl4

    Moins calme à Bruxelles
    https://www.youtube.com/watch?v=QxyPvxoQwnQ

    La manifestation contre les mesures sanitaires, dont les organisateurs appellent avant tout à l’ouverture d’un débat sur les contraintes nécessaires pour lutter contre l’épidémie de coronavirus, se tenait ce dimanche dans les rues du centre de Bruxelles et a rassemblé 50.000 participants, selon la police de Bruxelles-Capitale Ixelles. Les manifestants venaient des quatre coins du pays, mais aussi d’autres pays européens. Des discours ont été prononcés au parc du Cinquantenaire, progressivement pris d’assaut par des émeutiers qui s’en sont notamment pris à des bâtiments voisins, à des véhicules et aux forces de l’ordre. Après que le parc du Cinquantenaire ait été évacué par la police, les émeutiers se sont retranchés dans l’avenue de Tervuren. Il s’agit de la cinquième manifestation contre les mesures sanitaires en deux mois à Bruxelles. C’est aussi la cinquième fois que des émeutes éclatent.

    Le cortège s’est rendu au cœur du quartier européen, dans le parc du Cinquantenaire, où des discours ont été donnés sous les arcades par plusieurs orateurs belges et internationaux connus. Ils appellent à un débat de société concernant les mesures sanitaires visant à contrer la pandémie de coronavirus. Au travers de cette manifestation, les organisateurs disent défendre « la démocratie, les droits de l’Homme et le respect de la Constitution ». Europeans United for Freedom estime sur son site internet que la propagation du Covid-19, la saturation des hôpitaux qui en résulte et le décès de personnes à la santé fragile ne justifient pas de déroger aux libertés fondamentales garanties par la démocratie.
    « C’est incroyable, l’affluence. Mais j’ai un double sentiment à ce sujet. D’un côté, je suis heureux de voir tant de personnes réunies. D’un autre côté, je suis malheureux parce que ces personnes (...) sont ici parce qu’elles ne sont pas entendues. Il y a un gros problème démocratique », déclarait notamment Tom Meert, président de Europeans United.
    Policiers belges obligés de se réfugier dans le métro.

    https://twitter.com/ClementLanot/status/1485273712639332358

    Anti-vaccine protesters march against Covid-19 mandates in #Washington, DC | AFP
    https://www.youtube.com/watch?v=uG91WTWxn4I

    #crise_sanitaire #confinement #France #néo-libéralisme #ordo-libéralisme #injustice #violences_policières #pass_sanitaire (soir disant sanitaire)

  • Al #Parco_Grandi inaugurata la stele in memoria di #Nicole_Lelli, vittima di femminicidio

    Alla giovane uccisa dal marito a soli 23 anni è stata intitolato un monumento. I famigliari lo dedicano anche a tutte le donne vittime del femminicidio
    Al parco Achille Grandi al Collatino è stata inaugurata una stele. E’ dedicata a Nicole Lelli ed a tutte le vittime del femminicidio. Alla vigilia della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il monumento acquisisce un significato particolare.

    Una battaglia culturale

    «Dopo che abbiamo elaborato il lutto – ha spiegato il papà di Nicole – ci siamo impegnati sul fronte culturale. Stiamo combattendo una battaglia per sensibilizzare i giovani sul rispetto di genere. E questo ’monumentino’ – per realizzare il quale è stato necessario ottenere molti permessi – si inserisce in questa battaglia» .
    L’omicidio di Nicole

    Nicole è stata uccisa a soli ventitre anni dall’uomo che aveva amato. Yoandris Medina Nunez, col quale si era sposata a Cuba, non aveva accettato la fine del loro rapporto. Per questo l’ha aspettata fuori un locale di Testaccio. L’ha invitata a salire sulla propria auto e poi le ha sparato. Per questo, tra le proteste ancora oggi reiterate dalla famiglia, non è stato condannato all’ergastolo, ma a vent’anni di reclusione.

    Una libertà pagata a caro prezzo

    «Siamo orgogliosi di aver donato a Roma questo monumento – ha dichiarato il papà di Nicole, durante l’inaugurazione, anche a nome del fratello della ragazza – e vorrei ricordare che le vittime dei femminicidi – per come sono state trattate – sono come le nuove streghe. Non vengono messe al rogo ma sono state assassinate perchè hanno rinvedicato la propria libertà di decidere se amare o meno un uomo. Per questo sono state uccise».

    La lettera della mamma

    Durante la cerimonia cui, insieme a tanti famigliari, hanno preso parte anche le istituzioni municipali, sono state lette le parole che la mamma ha dedicato a Nicole. Si è trattato di un momento particolarmente intenso. «Ti ho qui sempre e ovunque dove ci sia il colore del sole. Nei stessi sogni che facevamo insieme prima che diventassi mare, cielo e terra. Prima che diventassi oltre». Per questo «perchè nessuno dimentichi tutte le donne uccise» è stato realizzato questo monumento che «vivrà in eterno». Alla vigilia della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, dal Collatino arriva un messaggio chiaro. Grazie alle istituzioni ma soprattutto ai famigliari di una ragazza che, a soli 23 anni, ha smesso di vivere.

    https://www.romatoday.it/zone/pigneto/collatino/stele-nicole-lelli-parco-grandi-collatino-.html

    #Collatino #Rome #Italie
    #mémoire #monument #toponymie #toponymie_féministe #féminicide

  • Via cardinal Massaia, Rome

    «’Via cardinal Massaia, nel quartiere Littorio... quello che voi somali vi ostinate a chiamare Warta Nabbada.’
    Via cardinal Massaia... nessuno chiamava la loro via così. Tutti sapevano che lì era la via di Hagi Safar, degli indovini e dei cantastorie. Era lì che si cullavano le stelle e si intravedevano mondi nelle pupille dei neonati.
    Gli italiani gli avevano appiccicato il nomedi uno sconosciuto cardinale. Anche a Mogadiscio c’era una via cardinal Massaia, ad Hamarweyne, in pieno mercato per giunta. E anche a Mogadiscio quel nome era un sopruso.»

    in : #Igiaba_Scego, Adua, Giunti, 2015, p.70
    https://www.giunti.it/catalogo/adua-9788809792340

    Rue dédiée à #Guglielmo_Massaia

    Guglielmo Massaia, au siècle #Lorenzo_Antonio_Massaia (9 juin 1809 - 6 août 1889) est un missionnaire catholique et religieux capucin italien qui fut vicaire apostolique de Harar en Abyssinie, et créé cardinal par le pape Léon XIII. Il est reconnu vénérable par l’Église catholique qui a engagé la procédure pour sa béatification.

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Guglielmo_Massaia
    #toponymie #toponymie_politique #Italie #colonialisme #Italie_coloniale #colonialisme_italien #Warta_Nabbada
    #livre #citation #Warta_Nabada
    #Mogadiscio #Somalie #Rome

  • Un #harem a Roma

    Addentrarsi tra gli oggetti di un museo smembrato significa muoversi tra polvere e tracce, trovando pezzi, frammenti, schegge che si fanno calce, stoffa, ceramica, gesso, tele e pigmenti. Non sono materiali inerti: sospirano, sussurrano, gemono e graffiano storie. Partire da un oggetto vuol dire perdersi, ritrovarsi, andare verso il centro dal margine e poi farvi ritorno.
    Ho trovato uno spazio pieno di corpi in cui inciampo con la punta dei piedi, che sfioro con le dita, che inseguo mano a mano che la storia si srotola tra la polvere e le omissioni; è un lungo lavoro in fieri, iniziato quando ho avuto accesso ai materiali dell’ex #Museo_Coloniale di Roma, curando parte dell’inventariazione degli oggetti arrivati dopo la dismissione dell’#Istituto_Italiano_per_l’Africa_e_l’Oriente (#IsIAO), presso il Museo preistorico etnografico Luigi Pigorini. Nei magazzini del museo mi sono ritrovata tra le mani i primi pezzi di corpi, ovvero alcuni calchi facciali della missione antropologica in #Fezzan, condotta da #Lidio_Cipriani, negli anni Trenta. «L’impatto visivo ed emotivo scatenato dalla vista di questi oggetti ha contribuito all’idea di ‘disvelamento della memoria’ del fenomeno coloniale italiano e di un museo scomparso che non si vuole venga “ritrovato”» (Fiorletta, 2019). Addentrarsi nella storia e tra i materiali del Museo Coloniale ha significato narrare una parte di storia del colonialismo italiano, intraprendere un lavoro di restituzione dell’immaginario che ha contribuito a plasmare una mentalità, definire un ordine del discorso (Foucault, 2004), le cui categorie sopravvivono ancora oggi. Una strana storia ricolma di silenzi, di assenze pressanti.
    La ricerca condotta sui calchi e sul Museo Coloniale ha portato ad allargare le maglie di una rete fitta, complessa ma soprattutto infeltrita dall’essere stata nascosta per lungo tempo, i nodi che la tengono insieme vedono l’intersecarsi di classe, “razza” e genere, come le principali categorie di riferimento attorno cui ruotano le identità coloniali. Interrogare i calchi apparentemente muti mi ha portato sulle tracce della costruzione della bianchezza degli italiani, sulla quale si innesta l’identità nazionale e la divisione in classi tra madrepatria e colonie. La costruzione del genere e i rapporti tra i generi, altro elemento fondante del colonialismo italiano, definiscono una subalternità femminile varia, complessa e apparentemente contraddittoria, in continuo movimento, simbolicamente densa. Ma di quali donne parliamo? Chi sono le donne nelle colonie?
    Nello spazio di lavoro messo su in questi anni, reale, figurato-metaforico, scorgo le prime donne in alcuni calchi del Fezzan, riconosco i tatuaggi tipici delle popolazioni beduine[1]; escono dalle scatole ricoperte di cellophane statuine che ritraggono donne nere che portano brocche d’acqua, madri con bambini (Manfren, 2019).
    Sento un respiro, percepisco un accenno, sono certa di poter seguire le tracce.
    Mi accingo a scrivere da quello che è ancora un cantiere.

    (...)

    https://www.roots-routes.org/un-harem-a-roma-di-serena-fiorletta

    #Rome #Italie #colonialisme #Italie_coloniale #musée #musée_colonial #histoire #genre #femmes #Serena_Fiorletta

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    • Unsettling Genealogies

      Unsettling Genealogies is an umbrella term under which I am developing a series of critical incursions in the history of Italian cultural institutions to expose their colonial and fascist roots, highlighting the way such legacies are sanitised, obfuscated or unacknowledged. These interventions take a wide range of forms, responding to the different contexts in which I work and involving networks that I regularly collaborate with, in order to allow for discussion and dissemination. Unsettling Genealogies stems out of the propositions outlined in a statement that I wrote in late 2019 for the journal From the European South (postcolonialitalia): (Re)entering the Archive: critical reflections on archives and whiteness

      The first project is focused on the planned re-exhibition of the former Colonial Museum in Rome, within the ethnographic museum #Museo_delle_Civiltà. Thus far, it consists of two outputs. Firstly, a short article published on the Journal of Visual Culture and Harun Farocki Institut platform in June 2020, which responded to the online press conference held by the museum, in which the re-opening was announced. Secondly, a presentation that I gave at the conference Everything Passes Except the Past held at Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Turin, on 17 October 2020 and organised by the Goethe Institut Brussels (project curated by Jana J. Haeckel).

      https://vimeo.com/487868816?embedded=true&source=vimeo_logo&owner=3319920


      https://www.alessandraferrini.info/unsettling-genealogies
      #musée #museo_coloniale #Rome #Roma

  • Juvénal SATIRE 15
    http://ugo.bratelli.free.fr/Juvenal/Sat15.htm

    Deux peuples voisins, celui d’Ombos et celui de Tentyra, entretiennent l’un contre l’autre une vieille hostilité, une haine immortelle ; c’est comme une incurable blessure qui les brûle. Cette grande fureur a pour cause l’opposition des dieux, chacun des deux peuples étant jaloux des siens et exécrant ceux de l’adversaire.

    Les habitants de Tentyra célébraient une fête ; les notables et les chefs d’Ombos crurent bon de saisir l’occasion : il fallait troubler un jour de liesse, surprendre l’ennemi dans le plaisir des festins, alors que près des temples et dans les carrefours sont dressés tables et lits, et que les gens passent là jours et nuits, parfois jusqu’à la durée d’une semaine.

    L’Égypte est sauvage ; mais pour la débauche, autant que j’ai pu m’en rendre compte, elle n’a rien à envier à Canope la voluptueuse.

    On pensait battre aisément des gens ivres à qui le vin avait donné langue pâteuse et marche titubante : une flûte nègre les faisait danser, tous respirant les dieux savent quels parfums, avec des couronnes à tous les fronts.

    De l’autre côté, une haine d’hommes à jeun. Les premières injures éclatent entre les têtes échauffées ; c’est le signal du combat et, dans une poussée de mêmes cris, les deux partis s’agrippent ; en fait d’armes, les poings. Bientôt, peu de mâchoires sans blessure, à peine un ou deux nez intacts. Ce n’étaient plus que visages mutilés, faces et joues déchirées, os à nu, mains pleines du sang des yeux.

    Or les barbares s’imaginent jouer, ils croient livrer une bataille d’enfants, puisqu’ils ne marchent pas encore sur des cadavres. A quoi sert de se mettre à plusieurs milliers pour combattre, si tous les combattants restent en vie ?

    Aussi l’acharnement redouble-t-il ; on ramasse des pierres ; on les brandit, on les lance ; voilà les armes de la sédition. Ce ne sont pas des pierres comme on en vit aux mains de Turnus, d’Ajax, ou du fils de Tydée lorsqu’il blessa Enée à la cuisse, mais des pierres comme en peuvent projeter des bras moins vigoureux que les leurs, des bras de notre temps. La race déjà dégénérait à l’époque d’Homère ; la terre d’aujourd’hui nourrit des hommes aussi chétifs que méchants ; qu’un dieu jette sur eux les yeux, il rit de dégoût.

    72-92. Trêve de digression, il faut reprendre notre récit. Un des deux partis, ayant reçu du renfort, ose tirer l’épée et commencer une lutte à coups de flèches. Alors c’est la fuite de l’ennemi et les Ombites se lancent à la poursuite des gens de Tentyra, la ville voisine des palmiers.

    Un fuyard, sous le coup de la terreur, veut précipiter sa course et tombe, il est pris. Alors les Ombites le coupent en multiples morceaux, afin qu’un seul mort suffise à tous ; la foule des vainqueurs le dévorent tout entier, non sans ronger les os, ne prenant même pas la peine de le mettre à la casserole ou de le faire rôtir : allumer du feu aurait pris trop de temps, on se serait impatienté, et l’on fut enchanté de manger le cadavre cru.

    Réjouissons-nous que le feu n’ait pas été profané, ce feu que Prométhée arracha à la voûte supérieure du ciel pour le donner à la terre ; je félicite cet élément, et tu lui rends grâces, j’en suis sûr, Volusius.

    Au reste, celui qui a eu le coeur de mordre une fois dans un cadavre ne trouve plus rien de meilleur que la chair humaine ; il faut bien qu’il en soit ainsi, et ne me demande pas si lors de cette abomination, le premier qui goûta au mort trouva cela bon : car le dernier qui vînt, trouvant tout le corps dévoré, passa ses doigts sur le sol pour avoir un peu de sang à sucer.

    Juvenalian satire
    https://en.wikipedia.org/wiki/Juvenalian_satire#Juvenalian
    https://en.wikipedia.org/wiki/Satires_of_Juvenal

    https://de.wikipedia.org/wiki/Juvenal#Themen_der_Saturae

    Themen der Saturae

    Sat. 1: Juvenals Programm: Entrüstung treibt ihn, die Missstände unter seinen Zeitgenossen beim Namen zu nennen.
    Sat. 2: Beschreibung sexueller Ausschweifungen
    Sat. 3: Beschreibung des sündigen Großstadtlebens
    Sat. 4: Parodie einer Kabinettssitzung unter Domitian (die Komposition dieser Satire ist umstritten; möglicherweise sind hier zwei verschiedene Entwürfe zusammengefügt worden)
    Sat. 5: Kritik am Umgang mit Klienten
    Sat. 6: Kritik an der Ehe und den Frauen (auch hier ist die Textlage unklar, die Komposition scheint ungewöhnlich wirr)
    Sat. 7: Anprangerung der Geringschätzung der Intellektuellen und geistiger Berufe
    Sat. 8 und 9: Beschäftigung mit Geburtsadel und ähnlichen Gebieten; in 9 auch wiederum Beschreibung sexueller Ausschweifungen
    Sat. 10: Eine Kritik an Gebeten und Wünschen, denen verkehrte Urteile über das Wünschenswerte zugrunde liegen; die Satire gipfelt in einem Aufruf zu einem ruhigen und vernunftgemäßen Leben.
    Sat. 11: Kritik an der Völlerei
    Sat. 12: Anprangerung von Erbschleicherei
    Sat. 13: Trostworte an einen Freund zum Thema „Geldverlust“
    Sat. 14: Abhandlung über Kindererziehung und Kritik an Habsucht
    Sat. 15: Beschreibung eines ägyptischen Falles von Kannibalismus
    Sat. 16 (unvollständig): Kritik an Soldatenhochmut gegenüber Zivilisten

    http://ugo.bratelli.free.fr/Juvenal/DetailsJuvenalSatires.htm
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Juv%C3%A9nal

    #antiquité #anthropophagie #Égypte #Rome #satire

  • Emmanuel Macron, le roi de l’intérim Didier Rykner vendredi 2 avril 2021
    https://www.latribunedelart.com/emmanuel-macron-le-roi-de-l-interim

    L’idée de mettre en place une procédure transparente et collégiale pour la nomination des présidents des établissements publics est un vieux serpent de mer qui plonge plus souvent qu’il ne refait surface. Jamais peut-être ces nominations n’avaient été plus opaques, et plus différentes selon les circonstances, que ce n’est le cas en ce début d’année. Non seulement la transparence n’est pas au rendez-vous, mais la volonté même de nommer, pourtant une des principales prérogatives du président de la République, semble disparaître, comme si les intérêts politiques contraires paralysaient les décisions d’un chef d’État velléitaire. On comprend mal la situations actuelle, qui n’est d’ailleurs pas nouvelle depuis l’élection d’Emmanuel Macron.

    Des nominations non préparées
    Lorsqu’un président d’établissement public est nommé, la date de son renouvellement, ou de son départ de son poste est pourtant inscrite dans la loi du 1er septembre 2010 et dans les statuts de l’établissement. Pour la plupart de ces établissements, le premier mandat est de cinq ans, renouvelable deux fois par mandat de trois ans [1]. Nulle surprise donc, pour personne. Dans n’importe quel pays démocratique bien organisé, la nomination du successeur serait préparée en amont, afin que la nomination soit faite au minimum quelques jours avant la fin du mandat. En France non, et cela va même de mal en pis.

    Emmanuel Macron ne prévoit rien, ne prépare rien, et doit donc faire face à des vacances de postes qui se multiplient, tout en se donnant des contraintes absurdes et en voulant imposer ses poulains. Tout cela est complètement paradoxal. On se rappelle de la direction de la Villa Médicis (ill. 2), qui était restée avec un directeur par intérim pendant dix-huit mois. Le plus haut niveau de l’État semble s’être transformé en agence Manpower, une agence qui n’aurait d’ailleurs même pas besoin de trouver des intérimaires puisque la plupart du temps ces intérims sont tenus par les sortants qui espèrent parfois pouvoir rempiler ou prolonger, ou par les administrateurs en place. Comment peut-on gérer ainsi de grands établissements culturels ?

    Des nominations difficiles à suivre


    3. Catherine Pégard, Présidente par intérim de l’Établissement public du château, du musée et du domaine national de Versailles
    Nous parlions d’opacité : qui sait que Catherine Pégard n’est à l’heure où nous écrivons plus qu’une intérimaire ? Elle devait partir, selon les règles de la fonction publique (qui s’appliquent également à elle bien qu’elle soit contractuelle), le 5 mars en raison de son âge. Comme nous l’avons déjà écrit, son successeur quasi désigné, et ami d’Emmanuel Macron, est Jean d’Haussonville qui paraît-il n’est pas candidat (voir notre article). D’après nos informations, il aurait pourtant déposé un projet ! On ne sait exactement pourquoi il était à la fois impossible de nommer un successeur avant le 5 mars, ni pourquoi aucune ouverture de poste n’a eu lieu, ni pourquoi encore cette nomination déjà quasi annoncée de Jean d’Haussonville, qui semble hélas très probable, n’est pas encore faite (ce qui en soi est tout de même une bonne nouvelle). Pendant ce temps Catherine Pégard brasse peut-être autant d’énergie que ce dernier pour obtenir une prolongation et mettre fin à son intérim, ceci étant possible pour deux ans comme nous le montrons plus loin. On est en plein psychodrame, l’intérêt de Versailles passant complètement au second plan et la nomination d’un président qui serait légitime à ce poste paraissant totalement utopique. Car ni Jean d’Haussonville, diplomate, ni Catherine Pégard, journaliste politique et plume de Nicolas Sarkozy n’ont la moindre compétence à faire valoir pour un tel poste.

    Au Centre Pompidou, les choses sont à la fois proches et différentes. Proches car Serge Lasvignes, qui n’a pas davantage que les deux personnes cités plus haut la moindre compétence avérée pour s’occuper d’une institution culturelle, exerce son propre intérim depuis le 3 octobre ! Différentes car les jeux ne semblent pas encore faits, et qu’ici, une vacance de poste a été ouverte et un appel à candidature publié dans Télérama et d’autres journaux… Il faut dire que les candidats ne se bousculent pas forcément : qui a envie de prendre la présidence d’un établissement qui va fermer pendant de longues années, pour un projet dont les connaisseurs savent qu’il est d’ores et déjà sous-financé, et pour rouvrir un musée qui ne disposera pas d’un mètre carré supplémentaire de surface d’exposition ?

    Quelle peut être la légitimité d’un président intérimaire ? Dans la pratique, il devrait gérer les affaires courantes. Tel que la loi l’a prévu, il n’en est rien. Celui-ci, qui n’est théoriquement plus là que pour quelques semaines ou quelques mois (à moins qu’il ne soit renouvelé), peut engager l’établissement à beaucoup plus long terme. Nous avons cité deux exemples, mais ceux-ci se multiplient. Avant de partir pour la direction générale des Patrimoines et de l’Architecture, Jean-François Hébert a exercé plusieurs mois d’intérim à Fontainebleau ! Cela ne concerne d’ailleurs pas seulement le ministère de la Culture : Bruno Maquart, président d’Universcience qui réunit le Palais de la Découverte et La Villette est resté intérimaire de lui-même entre juin et décembre 2020, avant d’être renommé à ce poste (ce qui d’ailleurs semble devoir entraîner de facto l’allongement des onze ans maximum s’il devait à nouveau être nommé une troisième fois). Il y a un an la direction générale de la fonction publique a été vacante pendant plusieurs mois. Au ministère des Affaires Étrangères, l’Institut Français est depuis 2020 présidé par intérim par Erol Ok, son directeur général délégué ! Tout cela témoigne d’un amateurisme et d’une impréparation coupable, dont le responsable doit être recherché au plus haut niveau de l’État.

    Il s’agit d’ailleurs d’un phénomène relativement nouveau car si les nominations politiques ou de personnes pas à leur place (voir par exemple cet article du Monde en 2007) sont fréquentes depuis quelques années (il est bien loin le temps où les directeurs du Louvre s’appelaient Michel Laclotte ou Pierre Rosenberg, des personnalités incontestables), la multiplication des intérims longs ne l’était pas. Ce phénomène nouveau et dommageable a été rendu possible par l’article 10 de la « loi n° 2005-842 du 26 juillet 2005 pour la confiance et la modernisation de l’économie » (cela ne s’invente pas) qui est venu ajouter la possibilité d’un intérim pour les présidents d’établissements public. Cet intérim peut dépasser la limite d’âge, n’est pas borné dans le temps, et ne cantonne pas les actions possibles de l’intérimaire à l’expédition des affaires courantes. Cela laisse donc la porte ouverte à toutes les dérives alors que ce type d’intérim devrait seulement avoir pour objectif d’attendre l’arrivée d’un successeur désigné.

    Une situation chaotique
    Quant au prolongement (jusqu’à deux ans) au-delà de la limite du mandat, il est rendu possible par la loi n° 2011-606 du 31 mai 2011 relative au maintien en fonctions au-delà de la limite d’âge de fonctionnaires nommés dans des emplois à la décision du Gouvernement. Ce prolongement est fait « à titre exceptionnel » et doit être fait « dans l’intérêt du service » ce qui ne veut évidemment rien dire. Si l’on rajoute à la possibilité d’un intérim étendu et à la prolongation de deux ans d’autres possibilités comme le décret qui a permis au président de la Philharmonie de Paris de rester en poste jusqu’à près de 70 ans, et dont le renouvellement du mandat est même envisagé, on comprendra que tout cela relève davantage d’une république bananière que d’une démocratie. Aux nominations faites entre deux portes par copinage, et au nouveau casse-tête de la parité qui implique que pour certains postes on ne recherche plus la personne idoine, mais la femme idoine, ce qui revient à faire une discrimination sur le sexe pour un emploi (une pratique théoriquement illégale dans notre pays), s’ajoutent donc de nouveaux avatars qui n’ont certes pas été inventés par Emmanuel Macron, mais dont il est un de ceux qui en fait l’usage le plus étendu, notamment dans le domaine de l’intérim.

    Tout ceci a des conséquences nombreuses et désastreuses pour les musées : à la nomination de personnalités incompétentes mais bien en cour à la présidence des établissements publics (un classique désormais) se rajoute donc l’incertitude sur leur gouvernance par la multiplication des intérims et la prolongation indue de certaines personnes à ces postes, qui peut être bénéfique si la personne est compétente, mais qui prolonge les problèmes lorsqu’elle ne l’est pas. Sans compter que cela contribue à bloquer une génération qui pourrait aspirer à ces postes mais qui doit attendre que leurs prédécesseurs prennent une retraite bien méritée.

    Une procédure claire, anticipée, une décision collégiale sur des projets et qui retiendrait le meilleur parmi des candidates compétents : voilà comment devraient se faire les nominations. Au lieu de cela, on a comme toujours le fait du prince. Et d’un prince indécis, qui plus est.

    [1] Ce n’est pas partout pareil, néanmoins : ainsi, le président de la Philharmonie est nommé pour cinq ans, renouvelable une fois pour cinq ans.

    #intérim #intérimaire #précarité #cdd #prince #emmanuel_macron #cour #parité #discrimination #transparence #établissements_publics #république_bananière #Patrimoine #Musée #France #Rome #Villa_Médicis #Versailles

  • La guérilla odonymique gagne une bataille : une nouvelle station du métro romain sera dédiée à #Giorgio_Marincola, partisan italo-somalien, et non à un lieu d’oppression coloniale

    J’ai souvent entendu l’expression, courante dans le dialecte lombard que je parle, « Che ambaradan ! ». Cela peut se traduire par « Mais quel ambaradam ! ». On le dit en s’étonnant face à une pièce en désordre ou pour parler de quelque chose qui a suscité beaucoup de vicissitudes et complications. Je n’ai jamais interrogé cette expression et je ne me suis jamais posée la question de son origine. C’est en cherchant des informations sur l’écrivaine italo-somalienne Igiaba Scego dont je suis en train de lire le livre La linea del colore (La ligne de la couleur) que je découvre l’imprégnation coloniale de cette expression. Dans une interview, Scego exhorte les lecteurs et lectrices à « découvrir les symboles de l’histoire coloniale à Rome afin de combler un trou de mémoire ». C’est en lisant cet interview, qui se construit autour d’un événement odonymique, que je comprends la signification profonde de cette expression devenue courante et si banale.

    En effet, le 24 juin 2020, une pétition en ligne est lancée sur change.org. Elle demande à ce que la future station du métro romain en construction ne soit pas nommée, comme prévu initialement, « Amba Aradam » du fait de la présence de la « via dell’Amba Aradam » dans les alentours de la station, mais d’après Giorgio Marincola. En effet, dit le bref texte de la pétition, « il serait mieux d’intituler la nouvelle station du métro C d’après lui, plutôt qu’avec le nom Amba Aradam, qui rappelle un des épisodes les plus atroces de l’occupation italienne en Éthiopie. ». Giorgio Marincola, comme le rappelle la pétition, est fils d’une mère somalienne et d’un soldat italien ; il a été partisan et a combattu de Rome au Nord de l’Italie jusqu’aux derniers jours de la Libération. Il a reçu la médaille d’or de la valeur militaire et, en 1946, l’Université La Sapienza de Rome lui a décerné le diplôme honoris causa en médecine.

    La pétition lancée en juin 2020 connaît un vif succès et récolte 1982 signatures. Elle a été débattue et approuvée (27 votes en sa faveur, 3 contraires et 4 abstentions) sous forme de motion du Conseil communal du 4 août 2020. Le texte soumis au vote met en avant l’adhésion à la pétition en ligne et juge nécessaire « un changement de paradigme qui puisse restituer la juste importance et la juste valeur aux événements historiques et à leurs protagonistes ». Elle souligne en outre que l’administration communale est déjà en train de modifier des noms de rue pour les « dédier aux victimes ».

    Quelques semaines auparavant, la rue Amba Aradam avait déjà changé de nom, même si de manière éphémère. En effet, dans la foulée des manifestations liées au mouvement Black Lives Matter, un groupe d’activistes avaient renommé la rue en la dédiant à George Floyd et Bilal Ben Messaud.

    Dans la rue, une banderole signée par le collectif anti-raciste disait : « Qu’aucune station n’ait le nom de l’oppression ». Etait ajouté sur la banderole : « dédier une station à la bataille de l’Amba Arabam signifie commémorer les fusillades, les pendaisons, les rafles, les massacres avec des armes chimiques perpétrés par le régime pendant la campagne de colonisation de l’Éthiopie, une occupation brutale qui entraîna la mort de centaines de milliers d’Ethiopiens dont un grand nombre de civils sans défense, de femmes, d’enfants et de personnes âgées ».

    Un micro-trottoir publié sur le site du journal Il Fatto quotidiano montre, comme le dit Scego, le « vide de mémoire ». Presque personne, en effet, ne connaît les événements qui ont donné lieu au nom de la rue. Une fois le voile d’ignorance levé, les hommes et femmes interviewé·es sont, dans leur majorité, d’accord sur la décision de renommer la station de métro. Celleux qui s’y opposent rappellent le besoin de ne pas oublier l’histoire en effaçant le nom. Une poignée se montre indifférente : les rues servent à s’orienter, le nom qu’elles portent importe peu. Pourtant, en cet été 2020, ce sont les groupes militants demandant le changement et effacement des symboles coloniaux qui ont remporté le bras de fer odonymique : La station de métro sera dédiée à Giorgio Marincola. Ainsi en a décidé l’autorité communale. Partisan tué par des soldats allemands en Val de Fiemme le 4 mai 1945, il était né en Somalie italienne en 1923 d’un soldat italien, Giuseppe Marincola, et de Askhiro Hassan, femme d’origine abgal – sous-groupe des Somalis.

    Dédier une station de métro à Marincola fait partie d’un processus que Mariana Califano attribue aux « administrations les plus ‘éclairées’ ». Celles qui, comme elle le rappelle, « ont pris conscience de la capacité des odonymes à refléter l’âme d’un pays et de sa communauté et sont intervenues pour renommer des rues dédiées jadis à des personnages et des lieux du fascisme et du colonialisme ». Elle ajoute comment « c’est précisément dans le contexte de ce qui a été oublié et refoulé qu’une bataille politique importante se joue, dans laquelle les odonymes ne représentent qu’un des nombreux indicateurs de l’état des choses, c’est-à-dire de l’affirmation et de la consolidation d’une image édulcorée du fascisme et de ses crimes, de l’idée-même des ‘italiani brava gente’ ». La bataille d’Amba Aradam montre le visage obscur du colonialisme, il balaye le mythe d’un colonialisme italien qui aurait été plus « doux » (« Italiens, braves gens ») que les autres. Ne pas l’oublier est un devoir, honorer le massacre en lui dédiant une station de métro en gestation un choix dangereux, heureusement corrigé par l’administration communale. Reste à savoir que faire de la rue qui, elle, continue à se nommer « dell’Amba Aradam ».

    https://neotopo.hypotheses.org/3251

    Ma petite contribution au blog @neotoponymie (#shameless_autopromo), voir aussi le fil de discussion sur seenthis (à partir duquel j’ai écrit le texte, d’ailleurs, merci @seenthis !) :
    https://seenthis.net/messages/871345

    #toponymie #toponymie_politique #Italie #colonialisme #Rome #partisans #métro #station_de_métro #colonialisme_italien #passé_colonial #mémoire #guerre_d'Ethiopie #Ethiopie #massacre #Badoglio

  • Roma, la fermata della metro C #Amba_Aradam cambia nome: approvata l’intitolazione al partigiano #Marincola. Il vox tra i cittadini

    E’ stata approvata questo pomeriggio la mozione che impegna l’amministrazione capitolina ad intitolare la futura fermata della Metro C Amba Aradam al partigiano italo-somalo #Giorgio_Marincola. Mentre nell’Aula Giulio Cesare l’assemblea capitolina votava la mozione, appoggiata dalla sindaca Virginia Raggi, per cambiare quel nome simbolo del colonialismo italiano e di una delle peggiori stragi compiute dal regime fascista in Africa, i residenti che abitano nel quartiere vicino l’omonima via Amba Aradam, nell’area di San Giovanni, si dividono sull’iniziativa.


    C’è chi difende l’iniziativa del Campidoglio. Chi vuole conservare il vecchio nome scelto per la stazione metro C di Roma, ‘Amba Aradam‘, affinché “anche gli errori e le atrocità non vengano dimenticate”. Ma anche chi rivendica che “la storia non si debba cambiare”, quasi ‘nostalgico’ del periodo coloniale di matrice fascista.

    Lì, dove è in costruzione una nuova fermata della metropolitana (che dovrebbe essere ultimata entro il 2024, ndr) erano state le azioni dimostrative degli attivisti di #Black_Lives_Matter, seguite da appelli della società civile, a porre il problema di quella controversa toponomastica. Chiedendo di sostituire quel nome e di rendere invece omaggio al partigiano Marincola. Figlio di un soldato italiano e di una donna somala, da giovanissimo scelse di combattere per la Resistenza, contro l’occupazione nazifascista, ucciso dalle SS in Val di Fiemme il 4 maggio 1945.

    “Una scelta giusta, omaggiare un partigiano di colore può essere un atto di grande valore simbolico”, c’è chi spiega. Altri concordano: “Perché no?”. Una proposta che ha anche permesso di conoscere una storia spesso dimenticata: “Non lo conoscevo, ho letto sui giornali. Ma ora sono convinto che sia giusto dedicargli questo riconoscimento”, spiega una ragazza.

    Altri invece sono contrari: “Deve restare il nome ‘Amba Aradam’, si è sempre chiamata così anche la via”. Eppure, tra i sostenitori del vecchio nome (ma non solo), quasi nessuno conosce la storia della strage fascista che si consumò nel massiccio montuoso a nord di Addis Abeba, lungo il Tigre, quando, nel 1936, le truppe del maresciallo Badoglio e l’aviazione italiana massacrarono 20mila etiopi, compresi civili, donne e bambini, usando gas vietati già allora dalle convenzioni internazionali, come l’iprite. Altre centinaia persero la vita tre anni più tardi, all’interno di una profonda grotta dell’area, con le truppe fasciste che fecero uso di gas e lanciafiamme contro la resistenza etiope, per poi murare vivi gli ultimi sopravvissuti.

    Una storia che quasi nessuno conosce, anche chi difende il nome ‘Amba Aradam’. Certo, chi concorda con la nuova intitolazione è convinto che, al di là dei simboli, siano necessarie altre azioni concrete sul tema immigrazione, compreso il diritto alla cittadinanza per chi nasce, cresce e studia in Italia: “Ius soli e Ius culturae? Sono favorevole”, spiegano diversi residenti. Ma non solo: “Serve anche ripartire dalle scuole e dalla formazione per debellare il razzismo”.

    https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/04/roma-la-fermata-della-metro-c-di-via-amba-aradam-sara-intitolata-al-partigiano-marincola-il-vox-tra-i-residenti-sulliniziativa-del-campidoglio/5889280
    #toponymie #toponymie_politique #Italie #colonialisme #Rome #partisans #métro #station_de_métro #colonialisme_italien #passé_colonial #mémoire #guerre_d'Ethiopie #Ethiopie #massacre #Badoglio

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    ping @isskein @albertocampiphoto

    • Prossima fermata: Giorgio Marincola

      Sulla scia di Black Lives Matter, un piccolo movimento d’opinione ha proposto di rinominare una stazione della metro C in costruzione. Sarà intitolata al partigiano nero che morì combattendo i nazisti in val di Fiemme.

      La zona intorno a via dell’Amba Aradam a Roma, alle spalle della basilica di San Giovanni in Laterano, è da tempo sottosopra per la presenza di un grande cantiere. Sono i lavori della linea C della metropolitana: uno dei tanti miti romani che si spera possa un giorno, chissà, diventare realtà. Se tutto andrà bene, nel 2024 la città avrà una fermata della nuova metro chiamata per l’appunto «Amba Aradam».

      Anzi, non più. Martedì 4 agosto l’Assemblea capitolina ha approvato – con l’appoggio della sindaca Virginia Raggi – una mozione che vincola l’Amministrazione cittadina a cambiare quel nome. Niente Amba Aradam: la stazione si chiamerà «Giorgio Marincola». Alla grande maggioranza degli italiani nessuno di questi due nomi – di luogo il primo, di persona il secondo – dice alcunché. Il primo è da tempo dimenticato dai più; il secondo nemmeno l’hanno mai sentito. Eppure la decisione di sostituire l’uno con l’altro, maturata nelle settimane recenti sulla scia del movimento Black Lives Matter e delle sue ripercussioni in Italia, è una svolta importante, di rilevante significato politico. Certifica l’opposta curva che la reputazione, l’eco dei due nomi percorre nella coscienza dei contemporanei.

      L’Amba Aradam, gruppo montuoso della regione del Tigrè, fu teatro a metà febbraio 1936 di una battaglia nel corso dell’aggressione fascista all’Etiopia. All’epoca venne celebrata in Italia come una grande vittoria, tacendo che era stata ottenuta con l’uso massiccio e indiscriminato di gas asfissianti proibiti dalla Convenzione di Ginevra. Ventimila morti tra combattenti e civili inermi abissini: una strage, un crimine di guerra per il quale nessuno è mai stato processato. Il Negus, costretto all’esilio, denunciò l’accaduto dalla tribuna della Società delle Nazioni, attirando sull’Italia l’obbrobrio delle democrazie. Oggi gli italiani in massima parte non sanno o non vogliono sapere. Restano i nomi di strade e piazze in varie località del Paese e un’espressione, «ambaradàn», di cui s’è scordata l’origine e che sta a significare una gran confusione.

      All’epoca della battaglia Giorgio Marincola aveva 12 anni e mezzo e frequentava la scuola media a Roma. La sua esistenza, sia prima che dopo, non ebbe nulla dell’apparente banalità che sembrano indicare queste scarne notizie. E merita di essere raccontata, perché troppo pochi ancora la conoscono.

      Giorgio era nato in Somalia nel settembre del ’33. Suo padre Giuseppe era un maresciallo maggiore della Regia Fanteria; sua madre, Askhiro Hassan, era somala; la sua pelle era color caffellatte. Prendere una concubina del posto, per gli italiani che a vario titolo si trovavano nella colonia somala era, all’epoca, comportamento diffuso. Per niente diffusa, viceversa, la scelta di riconoscere i figli nati da quelle unioni: ma Giuseppe Marincola volle comportarsi così, e li portò con sé in Italia. Giorgio, negli anni dell’infanzia, fu affidato a una coppia di zii che vivevano in Calabria e non avevano figli. La sorellina Isabella, di due anni più giovane, crebbe invece presso il padre e la moglie italiana che Giuseppe aveva nel frattempo sposato. Questa precoce separazione segnò le vite dei bambini: il maschio fu avvolto dall’affetto degli zii come fosse figlio loro; Isabella fu respinta dalla cattiveria e dai maltrattamenti di una matrigna che non l’amava. (La sua storia è narrata nel bel libro di Wu Ming 2 e Antar Mohamed Timira, pubblicato da Einaudi nel 2012, dal quale sono tratte la maggior parte delle informazioni qui riferite).

      Adolescente, Giorgio Marincola fu riunito alla sua famiglia a Roma. Negli anni del liceo, iscritto all’Umberto I, ebbe come insegnante di Storia e Filosofia Pilo Albertelli, al quale quello stesso istituto scolastico è oggi dedicato. Il professor Albertelli, partigiano, eroe della Resistenza, medaglia d’oro al valor militare, fu arrestato il primo marzo del ’44 mentre faceva lezione, torturato, infine trucidato tra i martiri dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. A quel punto Giorgio, che nel frattempo aveva terminato le superiori e si era iscritto a Medicina, ne aveva già seguito l’esempio unendosi ai gruppi partigiani legati a Giustizia e Libertà attivi a Roma e nel Lazio.

      Nel giugno del ’44 i tedeschi lasciarono Roma e i compagni d’avventura di Giorgio, deposte le armi, si apprestarono a tornare all’università. Lui volle invece continuare a combattere: raggiunse la Puglia, dove ricevette una sommaria formazione da parte delle forze speciali alleate, e qualche settimana dopo fu paracadutato sul Biellese. Si unì alle formazioni partigiane di GL in Piemonte, finché non fu catturato. I fascisti repubblichini usavano costringere i prigionieri a lanciare appelli dalla loro emittente Radio Baita, affinché convincessero i compagni a deporre le armi. Messo davanti al microfono, Marincola pronunciò invece parole che andrebbero riportate su ogni manuale scolastico di storia: «Sento la patria come una cultura e un sentimento di libertà, non come un colore qualsiasi sulla carta geografica… La patria non è identificabile con dittature simili a quella fascista. Patria significa libertà e giustizia per i popoli del mondo. Per questo combatto gli oppressori…».

      Così il giovane eroe fu consegnato ai tedeschi, che lo deportarono nel campo di transito di Gries, alle porte di Bolzano. Lì lo raggiunse la Liberazione, all’indomani del 25 aprile 1945. La guerra in Italia era finita ma ancora una volta Giorgio si mise a disposizione dei comandi militari di Giustizia e Libertà. Insieme ad altri cinque o sei ragazzi, fu incaricato di presidiare un bivio in località Stramentizzo in Val di Fiemme, poco a nord di Trento, sulla strada della ritirata delle colonne tedesche le quali, in base agli accordi di resa, avevano avuto concesso libero transito verso il loro Paese. Per evitare incidenti, la piccola unità partigiana aveva ricevuto ordine di non portare le armi: si trattava insomma soltanto di dirigere il traffico.

      Alle prime ore di una bella mattina di maggio, il giorno 5, una colonna di SS si presentò all’incrocio, preceduta da bandiere bianche. I soldati scesero dai camion e fecero fuoco. Poi procedettero verso il paese di Stramentizzo, seminando morte tra le case: fu l’ultima strage nazista in territorio italiano. L’episodio è stato variamente raccontato: sta di fatto che così finì la giovane vita di Giorgio Marincola, a 22 anni non ancora compiuti. Quando i comandi di GL ricevettero le prime confuse notizie dell’accaduto, furono informati che tra i morti c’era un ufficiale di collegamento americano: nessuno immaginava che un uomo dalla pelle nera potesse essere italiano.

      Da molti decenni Stramentizzo non esiste più: alla metà degli anni Cinquanta finì sul fondo del lago artificiale creato dalla diga costruita sul corso del torrente Avisio. A Marincola fu conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria; nel ’46 l’Università di Roma gli attribuì la laurea in Medicina honoris causa. Poi il suo nome finì nel dimenticatoio: una via a Biella, nelle cui vicinanze aveva combattuto; un’aula della scuola italiana a Mogadiscio, in Somalia, in seguito demolita. Nient’altro. Finché, piano piano, con una lotta sorda e ostinata per salvarne la memoria, si è tornati a parlare di lui: un libro, Razza partigiana, di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio; l’aula di Scienze del liceo Albertelli di Roma, dove oggi ai ragazzi viene raccontata la sua storia. E, nel prossimo futuro, una stazione delle metropolitana, affinché i romani ricordino.

      https://www.azione.ch/attualita/dettaglio/articolo/prossima-fermata-giorgio-marincola.html

    • Metro C, nuova stazione Amba Aradam-Ipponio sarà intitolata a partigiano Giorgio Marincola

      Approvata in Campidoglio una mozione per intitolare la futura fermata della metro C Amba Aradam/Ipponio al partigiano antifascista Giorgio Marincola. Figlio di un sottufficiale italiano e di una donna somala, vissuto a Roma nel quartiere di Casalbertone, scelse di contribuire alla liberazione d’Italia nel periodo della Resistenza. Morì in Val di Fiemme nel maggio 1945.

      L’iniziativa per l’intitolazione era stata lanciata, nelle scorse settimane, con una petizione su change.org che ha raccolto numerose adesioni.

      https://www.comune.roma.it/web/it/notizia/metro-c-nuova-stazione-amba-aradam-ipponio-sara-intitolata-a-partigiano-

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      Le texte de la motion:
      Mozione n.68 del 4agosto 2020
      https://www.carteinregola.it/wp-content/uploads/2016/09/moz68-20-intitolazione-stazione-metro-marincola.pdf

    • La pétition sur change.org:
      Fanpage - "Perché intitolare al partigiano meticcio Marincola la stazione della metro C Amba Aradam

      «Giorgio Marincola, figlio di una madre somala e di un soldato italiano, è stato un partigiano che ha combattuto da Roma al Nord Italia fino agli ultimi giorni della Liberazione. Sarebbe meglio intitolare la nuova stazione della metro C a lui, piuttosto che con il nome Amba Aradam, che ricorda uno degli episodi più atroci dell’occupazione italiana in Etiopia. La proposta, rilanciata anche da Roberto Saviano, ora è diventata una petizione online rivolta alla sindaca Virginia Raggi.»

      https://www.change.org/p/virginia-raggi-intitoliamo-la-stazione-della-metro-c-di-via-dell-amba-aradam-a-giorgio-marincola/u/27093501

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      Perché intitolare al partigiano meticcio Giorgio Marincola la stazione della metro C di Amba Aradam

      Giorgio Marincola, figlio di una madre somala e di un soldato italiano, è stato un partigiano che ha combattuto da Roma al Nord Italia fino agli ultimi giorni della Liberazione. Sarebbe meglio intitolare la nuova stazione della metro C a lui, piuttosto che con il nome Amba Aradam, che ricorda uno degli episodi più atroci dell’occupazione italiana in Etiopia. La proposta, rilanciata anche da Roberto Saviano, ora è diventata una petizione online rivolta alla sindaca Virginia Raggi.

      Nella notte tra giovedì e venerdì un’azione da parte di un gruppo di attivisti antirazzisti ha portate anche nella capitale la mobilitazione che, partita dagli Stati Uniti e allargatasi all’Europa e non solo, mette in discussione i simboli del passato coloniale e schiavista, siano essi statue, targhe, intitolazioni di vie e piazze. A Milano a finire (di nuovo) nel mirino è stata la statua dedicata al giornalista Indro Montanelli. A Roma, con l’hashtag Black Lives Matter, a essere presa di mira è stata la statua del generale #Antonio_Baldissera, protagonista degli orrori dell’avventura coloniale fascista, il cui busto al Pincio è stato coperto di vernice. Contemporaneamente largo dell’Amba Aradam e via dell’Amba Aradam venivano reintitolati a #George_Floyd e a #Bilal_Ben_Messaud. «#Nessuna_stazione_abbia_il_nome_dell'oppressione», con questo cartello gli attivisti hanno posto il problema del nome della stazione della Metro C di prossima apertura, che richiama uno degli episodi più sanguinosi e brutali della repressione della resistenza etiope all’occupazione italiana.

      Una questione, quella del nome della nuova stazione, che ha visto un’apertura da parte dell’assessore ai Trasporti di Roma Capitale Pietro Calabrese. “Ci stavamo già pensando, anche perché, al di là di tutto, la stazione non è su viale dell’Amba Aradam”, ha dichiarato al Fatto Quotidiano. Intanto in rete ha cominciato a circolare una proposta: perché non intitolarla al partigiano Giorgio Marincola? Figlio di un soldato italiano e di una donna somala, il padre Giuseppe Marincola era stato caporale maggiore e, decise di riconoscere i due figli avuti dall’unione con Askhiro Hassan.

      Una proposta che è stata rilanciata da Roberto Saviano e che è diventata ora una petizione su Change.org indirizzata alla sindaca Virginia Raggi, lanciata dal giornalista Massimiliano Coccia: «La fermata della Metro C di Roma che sorge a ridosso di Porta Metronia in via dell’Amba Aradam sia intitolata a Giorgio Marincola, partigiano nero, nato in Somalia e ucciso dai nazisti in Val di Fiemme. Giorgio liberò Roma e scelse di liberare l’Italia. Una storia spesso dimenticata dalla storiografia attuale ma che racconta una pagina generosa della nostra Resistenza». Sarebbe questa una scelta simbolica certo, ma di grande impatto, per affrontare la questione del colonialismo italiano e cominciare a fare i conti con il mito degli «italiani brava gente» che, appunto altro non è che un mito. Giorgio Marincola non è stato solo una partigiano, ma la vicenda della sua famiglia già dagli anni ’20 del secolo pone la questione dell’esistenza di una black Italy misconosciuta e negata.
      La storia di Giorgio e Isabella Marincola è la storia di un’Italia meticcia

      Giorgio Marincola arriva in Italia poco dopo la sua nascita e si iscrisse nel 1941 alla facoltà di Medicina cominciando ad avvicinarsi al Partito d’Azione con cui poi decise di partecipare alla Resistenza, prima a Roma poi nel Nord Italia. Catturato dalle SS fu tradotto dopo percosse e torture in carcere a Torino e poi a Bolzano. Qui fu liberato dagli Alleati ma invece di portarsi in Svizzera con un convoglio della Croce Rossa, decise di proseguire la Resistenza in Val di Fiemme e qui sarà ucciso il 4 maggio 1945 a un posto di blocco dai soldati tedeschi ormai in rotta. Alla sua storia è stato dedicato un libro «Razza Partigiana», che è anche un sito internet, scritto da Carlo Costa e Lorenzo Teodonio ed edito da Iacobelli. Anche la storia della sorella di Giorgio, Isabella Marincola, è entrata in un libro scritto dal figlio Antar Mohamed e dallo scrittore Wu Ming 2, è intitolato «Timira. Romanzo Meticcio» (Einaudi) e indaga attraverso il caleidoscopio biografico di Isabella e di Antar la storia coloniale italiana e il suo presente di rimozione, una storia che attraversa tutto il Novecento e l’inizio del nuovo secolo attraverso la vicenda a tratti incredibile di una «italiana nera».

      https://roma.fanpage.it/perche-intitolare-al-partigiano-meticcio-giorgio-marincola-la-stazione-

    • Il blitz: via Amba Aradam intitolata a George Floyd e Bilal Ben Messaud

      Raid antirazzista nella notte in via dell’Amba Aradam in zona San Giovanni a Roma. Cartelli della toponomastica modificati con fogli con su scritto il nome di George Floyd e Bilal Ben Messaud ed esposto uno striscione con su scritto «Nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione» firmato Black Lives Matter. Sul posto la polizia. Inoltre, sempre durante la notte, il busto di Antonio Baldissera, generale a capo delle truppe italiane in Eritrea, è stata imbrattata con vernice rossa. I raid antirazzisti sono stati messi a segno dal gruppo Restiamo umani. «Smantelleremo i simboli del colonialismo nella Capitale», annunciano su Facebook dando «il sostegno ai manifestanti che a partire da Minneapolis hanno riempito le piazze di decine di città del mondo» e rifiutando «ogni contestualizzazione storica». I componenti del gruppo Restiamo umani dunque prendono come bersaglio «le strade che richiamano stragi vergognose compiute dai soldati italiani in Etiopia, come via dell’Amba Aradam» o i «monumenti che conferiscono invece gloria eterna a uomini colpevoli delle peggiori atrocità verso il genere umano: tra gli “illustri” della storia italiana al Pincio c’è un busto di Antonio Baldissera, generale a capo delle truppe italiane in Eritrea e successivamente governatore della colonia italiana di Eritrea alla fine del XIX secolo, quasi che il passato coloniale italiano fosse un lustro invece che un crimine che come tale va ricordato».

      https://video.corriere.it/blitz-via-amba-aradam-intitolata-george-floyd-bilal-ben-messaud/bd76d308-b20b-11ea-b99d-35d9ea91923c

    • Fantasmi coloniali

      Nella notte di giovedì 18 giugno, la Rete Restiamo Umani di Roma ha compiuto un’azione di #guerriglia_odonomastica in alcuni luoghi della città che celebrano gli orrori del colonialismo italiano in Africa. In particolare sono stati colpiti la via e il largo «dell’Amba Aradam», insieme alla futura stazione «Amba Aradam/Ipponio» sulla linea C della metropolitana.

      Le targhe stradali sono state modificate per diventare «via George Floyd e Bilal Ben Messaud», mentre lungo le barriere che delimitano il cantiere della nuova fermata sotterranea sono comparsi grandi manifesti con scritto: «Nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione».

      Il gesto degli attivisti romani intende denunciare la rimozione, il silenzio e la censura sui crimini del colonialismo, poiché questi contribuiscono a rafforzare e legittimare il razzismo di oggi. Amba Aradam è infatti il nome di un’altura dell’Etiopia dove l’esercito italiano, guidato da Pietro Badoglio, sconfisse i soldati di Hailé Selassié, sparando anche 1.367 proietti caricati ad arsine, un gas infiammabile e altamente tossico, in aperta violazione del Protocollo di Ginevra del 1925, contro l’impiego in guerra di armi chimiche.

      Nei giorni successivi, l’aviazione italiana bombardò le truppe nemiche in fuga. Nella sua relazione al Ministero delle Colonie, Badoglio scrisse che: «in complesso 196 aerei sono stati impiegati per il lancio di 60 tonnellate di yprite (sic) sui passaggi obbligati e sugli itinerari percorsi dalle colonne».

      La strada si chiama così dal 21 aprile 1936, quando venne inaugurata da Mussolini in persona. Il suo nome precedente era «Via della Ferratella», forse per via di una grata, nel punto in cui il canale della Marana passava sotto Porta Metronia. Per non cancellare quell’odonimo, venne ribattezzata «via della Ferratella in Laterano» una strada subito adiacente.

      Negli ultimi anni, molte azioni di guerriglia odonomastica si sono ripetute nelle città italiane, dimostrando che i simboli del passato parlano al presente anche quando li si vorrebbe anestetizzare e seppellire nell’indifferenza. L’intervento di giovedì scorso ha avuto grande risonanza non perché sia il primo di questo genere, ma in quanto si collega esplicitamente alle proteste per l’assassinio di George Floyd, al movimento Black Lives Matter e al proliferare di attacchi contro statue e targhe odiose in tutto il mondo.

      Tanta attenzione ha prodotto, come primo risultato, la proposta di intitolare la nuova stazione della metro Ipponio/Amba Aradam al partigiano italo-somalo Giorgio Marincola, con tanto di petizione on-line alla sindaca Raggi. Quest’idea ci rende ovviamente felici, perché da oltre dieci anni ci sforziamo di far conoscere la storia di Giorgio e di sua sorella Isabella, con libri, spettacoli, ricerche, interventi nelle scuole e progetti a più mani.

      Ci sembra anche molto significativo che un luogo sotterraneo porti il nome di Giorgio Marincola, dal momento che la sua resistenza fu ancor più clandestina di quella dei suoi compagni, visto il colore molto riconoscibile della sua pelle, specie quando agiva in città, nelle file del Partito d’Azione. E d’altra parte, la miglior memoria della Resistenza è quella che si esprime dal basso, underground, senza bisogno di grandi monumenti, riflettori e alzabandiera: una memoria tuttora scomoda, conflittuale, che fatica a vedere la luce del sole.

      Ben venga quindi la stazione “Giorgio Marincola” della Metro C, ma ci permettiamo di suggerire che quell’intitolazione sia vincolata a un’altra proposta. Non vorremmo infatti che il nome di Giorgio facesse dimenticare quell’altro nome, Amba Aradam. Non vorremmo che intitolare la stazione a un “bravo nero italiano” finisse per mettere tra parentesi la vera questione, quella da cui nasce la protesta della Rete Restiamo Umani, ovvero la presenza di fantasmi coloniali nelle nostre città: una presenza incontestata, edulcorata e in certi casi addirittura omaggiata. Non vorremmo che uscendo dalla stazione Giorgio Marincola si continuasse a percorrere, come se niente fosse, via dell’Amba Aradam. Sarebbe davvero un controsenso.

      Roberto Saviano, appoggiando l’idea della “stazione Giorgio Marincola” ha scritto: «la politica sia coraggiosa, almeno una volta». Ma che coraggio ci vuole per intitolare una fermata della metro a un italiano morto per combattere il nazifascismo? Davvero siamo arrivati a questo punto? Siamo d’accordo con Saviano, c’è bisogno di gesti coraggiosi, non di gesti spacciati per coraggiosi che ci esimano dall’avere coraggio.

      Sappiamo che cambiare ufficialmente il nome a via dell’Amba Aradam sarebbe molto difficile, anche se l’esempio di Berlino dimostra che quando davvero si vuole, certe difficoltà si superano: nella capitale tedesca, tre strade intitolate a protagonisti del colonialismo in Africa sono state dedicate a combattenti della resistenza anti-coloniale contro i tedeschi.

      Ci piacerebbe allora che la stazione “Giorgio Marincola” venisse inaugurata insieme a un intervento “esplicativo” su via dell’Amba Aradam, come si è fatto a Bolzano con il bassorilievo della Casa Littoria e con il Monumento alla Vittoria. Si potrebbero affiggere alle targhe stradali altri cartelli, che illustrino cosa successe in quel luogo e in quale contesto di aggressione; si potrebbe aggiungere una piccola chiosa, sul cartello stesso, sotto il nome della via: «luogo di crimini del colonialismo italiano», o qualunque altro contributo che risvegli i fantasmi, che li renda ben visibili, che non ci lasci tranquilli e pacificati, convinti che l’ambaradan sia solo un ammasso di idee confuse.

      https://comune-info.net/che-il-colonialismo-non-riposi-in-pace
      #guerilla_toponymique #Via_della_Ferratella #fascisme #via_della_Ferratella_in_Laterano #Indro_Montanelli #Partito_d’Azione #Francesco_Azzi #Azzi #Magliocco

    • Siamo molto content* che l’amministrazione capitolina abbia scelto di dedicare a Giorgio Marincola la stazione inizialmente nominata «Amba Aradam», e siamo content* che il processo che ha portato a questa scelta sia iniziato grazie alla nostra azione del 18 giugno scorso. Crediamo però che questo sia solo un primo passo. La via e il largo di fronte alla stazione, dedicati all’ignobile eccidio compiuto dal nostro esercito colonizzatore in Etiopia devono al più presto seguire la stessa strada e cambiare nome. Il percorso per decolonizzare la toponomastica razzista e colonialista ancora presente nella nostra città ha avuto solo un inizio e deve necessariamente continuare. Lo dobbiamo a chi è morto per le atrocità compiute dall’esercito tricolore, lo dobbiamo a chi è discriminato per razzismo oggi, lo dobbiamo a chi muore in mare per l’ignavia del nostro governo. Ricordiamo che il governo Conte e la sua maggioranza hanno vergognosamente confermato gli accordi con le milizie libiche responsabili di atroci violazioni a diritti umani della popolazione migrante africana. In forme diverse e più mediate, ma la violenza coloniale e razzista del nostro paese continua tutt’oggi e non smetteremo di lottare perché abbia fine.

      https://www.facebook.com/ReteRestiamoUmani

    • Why a Somali-born fighter is being honoured in Rome

      Rome’s city council voted earlier this month to name a future metro station in the Italian capital in honour of Giorgio Marincola, an Italian-Somali who was a member of the Italian resistance.

      He was killed at the age of 21 by withdrawing Nazi troops who opened fire at a checkpoint on 4 May 1945, two days after Germany had officially surrendered in Italy at the end of World War Two.

      The station, which is currently under construction, was going to be called Amba Aradam-Ipponio - a reference to an Italian campaign in Ethiopia in 1936 when fascist forces brutally unleashed chemical weapons and committed war crimes at the infamous Battle of Amba Aradam.

      The name change came after a campaign was launched in June, in the wake of Black Lives Matter protests around the world following the killing of African American George Floyd by US police.

      Started by journalist Massimiliano Coccia, he was supported by Black Lives Matter activists, other journalists and Italian-Somali writer Igiabo Scego and Marincola’s nephew, the author Antar Marincola.
      The ’black partisan’

      Activists first placed a banner at the metro site stating that no station should be named after “oppression” and pushed for Marincola’s short, but remarkable life to be remembered.

      He is known as the “partigiano neroor” or “black partisan” and was an active member of the resistance.

      In 1953 he was posthumously awarded Italy’s highest military honour, the Medaglia d’Oro al Valor Militare, in recognition of his efforts and the ultimate sacrifice he made.

      Marincola was born in 1923 in Mahaday, a town on the Shebelle River, north of Mogadishu, in what was then known as Italian Somaliland.

      His mother, Ashkiro Hassan, was Somali and his father an Italian military officer called Giuseppe Marincola.

      At the time few Italian colonists acknowledged children born of their unions with Somali women.

      But Giuseppe Marincola bucked the trend and later brought his son and daughter, Isabella, to Italy to be raised by his family.

      Isabella went on to become an actress, notably appearing in Riso Amaro (Bitter Rice), released in 1949.

      Giorgio Marincola too was gifted, excelling at school in Rome and went on to enrol as a medical student.

      During his studies he came to be inspired by anti-fascist ideology. He decided to enlist in the resistance in 1943 - at a time his country of birth was still under Italian rule.

      He proved a brave fighter, was parachuted into enemy territory and was wounded. At one time he was captured by the SS, who wanted him to speak against the partisans on their radio station. On air he reportedly defied them, saying: “Homeland means freedom and justice for the peoples of the world. This is why I fight the oppressors.”

      The broadcast was interrupted - and sounds of a beating could be heard.

      ’Collective amnesia’

      But anti-racism activists want far more than just the renaming of a metro stop after Marincola - they want to shine the spotlight on Italy’s colonial history.

      They want the authorities in Rome to go further and begin a process of decolonising the city.

      This happened unilaterally in Milan when, amid the Black Lives Matter protests, the statue of controversial journalist Indro Montanelli, who defended colonialism and admitted to marrying a 12-year-old Eritrean girl during his army service in the 1930s, was defaced.

      Yet to bring about true change there needs to be an awareness about the past.

      The trouble at the moment is what seems to be a collective amnesia in Italy over its colonial history.

      In the years I have spent reporting from the country I am always struck at how little most Italians seem to know about their colonial history, whether I’m in Rome, Palermo or Venice.

      The extent of Italy’s involvement in Eritrea, Somalia, Libya and Albania to Benito Mussolini’s fascist occupation of Ethiopia in the 1930s is not acknowledged.
      Somali bolognese

      Last month, Somalia celebrated its 60th anniversary of independence.

      Reshaped by 30 years of conflict, memories of colonial times have all been lost - except in the kitchen where a staple of Somali cuisine is “suugo suqaar”- a sauce eaten with “baasto” or pasta.

      But for this Somali bolognese, we use cubed beef, goat or lamb with our version of the classic Italian soffritto - sautéed carrots, onion and peppers - to which we add heady spices.

      I love to cook these dishes and last summer while I was in Palermo did so for Italian friends, serving it with shigni, a spicy hot sauce, and bananas.

      It was a strange pairing for Italians, though my friends tucked in with gusto - with only the odd raised eyebrow.

      And Somalis have also left their own imprint in Italy - not just through the Marincola siblings - but in the literature, film and sports.

      Cristina Ali Farah is a well-known novelist, Amin Nour is an actor and director, Zahra Bani represented Italy as a javelin thrower and Omar Degan is a respected architect.

      And today Somalis constitute both some of Italy’s oldest and newest migrants.

      In spring 2015 I spent a warm afternoon meandering throughout the backstreets near Rome’s Termini station meeting Somalis who had been in Italy for decades and Somalis who had arrived on dinghies from Libya.

      Those new to Italy called the older community “mezze-lira” - meaning “half lira” to denote their dual Somali-Italian identities.

      In turn they are called “Titanics” by established Somalis, a reference to the hard times most migrants have faced in making the perilous journey across the Mediterranean to reach Europe, and the lives they will face in Italy with the political rise of anti-migration parties.

      The naming of a station after Marincola is an important move for all of them - and a timely reminder for all Italians of the long ties between Italy and Somalia.

      https://www.bbc.com/news/world-africa-53837708

    • «La Casati era una delle varie imprese satelliti di una società, molto più grande, che da decenni dominava lo sviluppo urbanistico di Roma in serena continuità con il fascismo. Era già stata protagonista dello sviluppo della Città Eterna quando essa era diventata capitale dell’Italia unita, e aveva costruito interi quartieri in quella che un tempo era campagna. A molto delle nuove strade tracciate a inizio secolo e poi durante il Ventennio erano stati dati nomi coloniali - Viale Libia, via Eritrea, Via Dire Daua - che finita la guerra nessuno, nonostante la fine congiunta di fascismo e possedimenti d’oltremare, pensò di sostituire. Nemmeno quelli, come viale Amba Aradam, intitolati a carneficine».

      (pp.240-241)

      «In seguito certi soldati, quando furono tornati in Italia, presero a usare il nome di quel luogo come sinonimo dell’indescrivibile orrore. Come però succede da sampre i reduci di ogni guerra, non li capì nessuno. Chi non c’era stato non poteva immaginare il tappeto di carne che significavano quelle due parole: Amba Aradam. Anche perché il Duce le dichiarò il nome di una vittoria, qualcosa a cui intitolare piazze e strade. Gli italiani, come massaie che lavano imbarazzanti macchie dalle lenzuola prima di stenderle, ne eliminarono ogni retrogusto di orrore e le unirono in una sola dal suono buffo.
      ’Non fare questo ambaradam’ presero a dire le madri ai loro piccoli capricciosi’»

      (pp.354-355)

      in : #livre « #Sangue_giusto » de #Francesca_Melandri


      http://bur.rizzolilibri.it/libri/sangue-giusto-

  • #Roma_negata. Percorsi postcoloniali nella città
    Un viaggio attraverso la città per recuperare dall’oblio un passato coloniale disconosciuto.

    Libia, Somalia, Eritrea, Etiopia: quali sono le tracce dell’avventura coloniale italiana a Roma? Roma negata è un viaggio attraverso la città per recuperare dall’oblio un passato coloniale disconosciuto e dare voce a chi proviene da quell’Africa che l’Italia ha prima invaso e poi dimenticato. Igiaba Scego racconta i luoghi simbolo di quel passato coloniale; Rino Bianchi li fotografa, assieme agli eredi di quella storia. Il risultato è una costruzione narrativa e visiva di un’Italia decolonizzata, multiculturale, inclusiva, dove ogni cittadino possa essere finalmente se stesso. Negli anni trenta del secolo scorso Asmara, Mogadiscio, Macallè, Tripoli, Adua erano nomi familiari agli italiani. La propaganda per l’impero voluta da Benito Mussolini era stata battente e ossessiva. Dai giochi dell’oca ai quaderni scolastici, per non parlare delle parate, tutto profumava di colonie. Di quella storia ora si sa poco o niente, anche se in Italia è forte la presenza di chi proviene da quelle terre d’Africa colonizzate: ci sono eritrei, libici, somali, etiopi. Il libro riprende la materia dell’oblio coloniale e la tematizza attraverso alcuni luoghi di Roma che portano le tracce di quel passato dimenticato. I monumenti infatti, più di altre cose, ci parlano di questa storia, dove le ombre sono più delle luci. Prende vita così un’analisi emozionale dei luoghi voluti a celebrazione del colonialismo italiano, attraverso un testo narrativo e delle fotografie. In ogni foto insieme al monumento viene ritratta anche una persona appartenente a quell’Africa che fu colonia dell’Italia. Scego e Bianchi costruiscono così un percorso di riappropriazione della storia da parte di chi è stato subalterno. «Volevamo partire dal Corno D’Africa, dall’umiliazione di quel colonialismo crudele e straccione, perché di fatto era in quel passato che si annidava la xenofobia del presente (…) Da Roma negata emerge quel Corno d’Africa che oggi sta morendo nel Mediterraneo, disconosciuto da tutti e soprattutto da chi un tempo l’aveva sfruttato».

    https://www.ediesseonline.it/prodotto/roma-negata

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    Citations :

    «Ma non tutte le memorie, lo stavo scoprendo con il tempo, avevano lo stesso trattamento.
    C’erano memorie di serie B e serie C. Memorie che nessuno voleva ricordare, perché troppo scomode, troppo vere.»

    (pp.16-17)

    «Ahi, il colonialismo italiano ferita mai risanata, ferita mai ricucita, memoria obliata»

    (p.18)

    «Ora la stele sta ad Axum, insieme alle sue sorelle etiopi. Ma a Piazza di Porta Capena cos’è rimasto di quel passaggio?
    Solo vuoto, solo silenzio, assenza, oblio, smemoratezza in salsa italica».

    (p.18)

    «E anche dimenticare la storia che lega Africa e Italia è un’infamia. Perché dimenticandola si dimentica di essere stati infami, razzisti, colonialisti. Italiani brava gente, ti dicono i più autoassolvendosi, e si continua beatamente a rifare gli stessi errori. Ieri i colonizzati, oggi i migranti, vittime di un sistema che si autogenera e autoassolve. Ecco perché sono ossessionata dai luoghi. E’ da lì che dobbiamo ricominciare un percorso diverso, un’Italia diversa.»

    (p.25)

    Sur le Cinema Impero :

    «Il colonialismo italiano era davanti ai loro occhi tutti i giorni con i suoi massacri, i suoi stupri, la sopraffazione dei corpi e delle menti. Era lì con la sua storia di lacrime e di sangue sparso. Era lì a testimoniare quel legame tra Africa e Italia. Un legame violento, cattivo, sporco e non certo piacevole. Anche nel nome quel cinema era violento. L’impero era quello che Benito Mussolini sognava per aver prestigio davanti alle altre potenze europee e soprattutto davanti a quell’Adolf Hitler che lo preoccupava tanto. L’imprero era quello del Mare Nostrum dove le faccette nere sarebbero state costrette a partorire balilla per la nazione tricolore. L’impero era quello che era riapparso ’sui colli fatali di Roma’. Un impero che Benito Mussolini nel discorso del 9 maggio 1936 aveva dichiarato
    ’Impero fascista, perché porta i segni indistruttibili della volontà e della potenza del Littorio romano, perché questa è la meta verso la quale durante quattordici anni furono sollecitate le energie prorompenti e disciplinate delle giovani, gagliarde generazioni italiane’.
    Era la violenza delle squadracce, ma anche gli sventramenti indiscriminati del tessuto urbano delle città africane.
    L’Africa colonizzata dagli italiani si rempì così di archi di trionfo, busti pavoneggianti, palazzi improbabili. In Somalia per esempio De Vecchis, uno dei quadrumviri della marcia su Roma, aveva voluto costruire una cattedrale che fosse l’esatta copia di quella di Cefalù con le sue due torri altissime. Una volta costruita alcuni somali notarono l’altezza sproporzionata delle torri rispetto ai palazzi nei dintorni e cominciarono a definire la costruzione ’la doppia erezione’. E poi come dimenticare il faro di Capo Guardafui trasformato in un fascio littorio? Asmara (ma in generale l’Eritrea) fu quella che però subì più trasformazioni di tutti. Infatti fu chiamata da più parti la piccola Roma. Tra il 1935 e il 1941 gli architetti italiani si sbizzarrirono in questa città creando uno stile assai stravagante che mischiava modernismo, futurismo e un teutonico stile littorio.»

    (pp.32-33)

    Poésie de Ulisse Barbieri (anarchico poeta direttore del giornale « Combattiamo »), Dopo il disastro :

    «No, non è patriottismo, no, per DIO!
    Al massacro mandar nuovi soldati,
    Né tener lì... quei che si son mandati
    Perché dei vostri error paghino il Fio!
    Ma non capire... o branco di cretini...
    Che i patriotti... sono gli Abissini?»

    (p.56)

    «Il Risorgimento, se vogliamo dare anche questa lettura, fu la lotta di liberazione degli italiani dal dominio straniero, dal dominio coloniale. Una liberazione portata avanti da un’élite che si era legata ad uno strano potere monarchico, quello dei Savoia, ma pur sempre una liberazione. Ecco perché il colonialismo italiano è tra quelli europei uno dei più assurdi. Gli italiani, che avevano sperimentato sulla propria pelle il giogo straniero, ora volevano sottoporre lo stesso trattamento brutale a popolazioni che mai si erano sognate di mettersi contro l’Italia. Ma l’Italia voleva il suo posto al sole. Questa espressione sarà usata nel secolo successivo da Benito Mussolini per la guerra d’Etiopia, ma disegna bene le mire espansionistiche italiane anche durante questi primi passi come nazione neocoloniale. L’Italia, questa giovincella, viveva di fatto un complesso di inferiorità verso l’altra Europa, quella ricca, che conquistava e dominava. Si sentiva da meno di Gran Bretagna e Francia. Si sentiva sola e piccolina. Per questo l’Africa si stava affacciando nei pensieri di questa Italietta provinciale e ancora non del tutto formata. L’Italia voleva contare. Voleva un potere negoziale all’interno del continente europeo. E pensò bene (anzi male, malissimo!) di ottenerlo a spese dell’Africa.»

    (pp.56-57)

    «Venne infatti collocato davanti al monumento ai caduti un leone in bronzo proveniente direttamente da Addis Abeba. Non era un leone qualsiasi, bensì il celeberrimo #Leone_di_Giuda, simbolo che suggellava il patto dell’Etiopia con Dio. Sigillo, quindi, della tribù di Giuda, dal quale discendevano molti profeti e Cristo stesso.»

    (p.61)

    #Piazza_dei_cinquecento

    «E chi lo immaginava che proprio questa piazza babilonia fosse legata alal storia del colonialismo italiano? Infatti i cinquecento citati nel nome della piazza sono i cinquecento caduti di Dogali. Non so bene quando l’ho scoperto. Forse l’ho sempre saputo. E forse anche per questo, per un caso fortuito della vita, è diventata la piazza dei somali, degli eritrei, degli etiopi e anche di tutti gli altri migranti. Una piazza postcoloniale suo malgrado, quasi per caso. Perché è qui che la storia degli italiani in Africa orientale è stata cancellata. Nessuno (tranne pochi) sa chi sono stati i cinquecento o che cosa è successo a Dogali».

    (p.68)

    «Quello che successe in quei vent’anni scerellati non era solo il frutto di Benito Mussolini e dei suoi sgherri, ma di una partecipazione allargata del popolo italiano.
    Ed è forse questo il punto su cui non si è mai lavorato in Italia. In Germania per esempio non solo ci fu il processo di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti, ma anche un lavoro incessante e certosino sulla memoria. Nel nostro paese si preferì invece voltare pagina senza capire, interiorizzare, percorrere la memoria delle atrocità vissute e/o perpetrate. In Italia la memoria è divisa o dimenticata. Mai studiata, mai analizzata, mai rivissuta, mai ripensata. Soprattutto la storia in Italia non è mai stata decolonizzata. Il colonialismo fu inghiottito da questo oblio e quelli che furono dei punti di riferimento simbolici del fascismo furono lasciati andare alla deriva come fossero delle zattere fantasma in un fiume di non detto.»

    (p.87)

    –—
    Obelisco di Axum, sur la Piazza Capena :

    «#Piazza_di_Porta_Capena fu teatro di alcune manifestazioni, e alcune riguardarono proprio le proteste per la restituzione dell’obelisco all’Etiopia. Ma in generale si può dire che il monumento era di fatto dimenticato. Stava lì, i romani lo sapevano, ma non ci facevano più tanto caso.
    Era lì, sola, immobile, eretta, dimenticata...
    Era lì lontana da casa...
    Era lì spogliata di ogni significato.
    Era giusto uno spartitraffico. Più imponente e raffinato di altri... certo, ma non tanto dissimile dai tanti alberi spennacchiati che svolgevano la stessa funzione in giro per la città.
    Nessuno per anni si occupò della stele. Qualcuno di tanto in tanto vagheggiava una ipotetica restituzione. Ma tutto era lento, tutto sembrava quasi impossibile.»

    (p.90)
    –-> 2005 :

    «Poi i soldi si trovarono e la stele ritornò a casa tra canti e balli popolari»

    (p.95)
    Et une fois restitué...

    «Ma il vuoto, mi chiedo, non si poteva colmare?
    Improvvisamente Piazza di Porta Capena divenne invisibile. Lo era già prima con la stele. Ma almeno con lei presente capitava che qualche romano la guardasse distrattamente e si interrogasse altrettanto distrattamente. Ma senza la stele il luogo è rimasto un non detto. Tutta la storia, tutto il dolore, tutte le nefandezze sparite con un colpo di spugna.»

    (p.96)

    «Quello che mi colpisce di questa polemica, di chi era contrario a una nuova stele e chi era a favore di un monumento nel sito del fu obelisco di Axum, è la totale assenza del dibattito del colonialismo italiano.
    Nessuno, da Fuksas a La Rocca, nominò mai i crimini di guerra che l’Italia fascista aveva compiuto contro l’Africa. Nessuno sottolineò il fatto che quella stele era un bottino di guerra. Nessuno percepì quel vuoto nella piazza come un vuoto di memoria. Anche un urbanista serio e sensibile come Italo Insolera disse non a caso che di obelischi era piena la città.
    Ora un monumento è stato messo. Ne ho parlato all’inizio del nostro viaggio. Un monumento per ricordare le vittime dell’11 settembre. Due colonne anonime di cui i romani ignorano il significato.»

    (pp.97-98)

    «La memoria non è negare quello che è stato, ma rielaborare quella vita passata, contestualizzarla e soprattutto non dimenticarla.»

    (p.101)

    «E poi la democrazia non si insegna, non si esporta, non si crea dal nulla. La democrazia è un moto spontaneo dell’anima. Ognuno ha il suo modo, i suoi tempi, le sue sfumature.»

    (p.103)

    Sur l’inscription sur le #Ponte_Principe_Amedeo_di_Savoia :

    «Comandante superiore delle forze armate dell’Africa Orientale Italiana durante unidici mesi di asperrima lotta isolato alla Madre Patria circondato dal nemico soverchiante per mezzo per forze confermava la già sperimentata capacità di condottiero sagace ed eroico. Aviatore arditissimo instancabile animatore delle proprie truppe le guidava ovunque per terra sul mare nel cielo in vittoriose offensive in tenaci difese impegnando rilevanti forze avversarie. Assediato nel ristretto ridotto dell’#Amba_Alagi alla testa di una schiera di prodi resisteva oltre il limite delle umane possibilità in un titanico sforzo che si imponeva all’ammirazione dello stesso nemico. Fedele continuatore delle tradizioni guerriere della stirpe sabauda puro simbolo delle romane virtù dell’Italia Imperiale Fascista. Africa Orientale Italiana 10 Giugno 1940, XVIII 18 maggio 1941. Motivazione della Medaglia d’Oro al valor militare conferita per la difesa dell’Impero.»

    «Ad Asmara gli abitanti del villaggio di Beit Mekae, che occupavano la collina più alta della città, furono cacciati via per creare il campo cintato, ovvero il primo nucleo della città coloniale, una zona interdetta agli eritrei. Una zona solo per bianchi. Quanti conoscono l’apartheid italiano? Quanti se ne vergognano?»

    (p.107)

    «Girando per Roma questo si percepisce molto bene purtroppo. I luoghi del colonialismo in città vengono lasciati nel vouto (Axum), nell’incuria (Dogali), nell’incomprensione (quartiere africano). Si cancella quello che è troppo scomodo. E’ scomodo per l’Italia ammettere di essere stata razzista. E’ scomodo ammettere che il razzismo di oggi ha forti radici in quello di ieri. E’ scomodo ammettere che si è ultimi anche nel prendersi le proprie responsabilità.»

    (p.107)

    «Etiopia e Eritrea avevano imbracciato le armi per una contesa sorta sul confine di Badme. Il confine era stato tracciato in modo incerto nel 1902 tra l’Italia (allora paese colonizzatore dell’Eritrea) e il regno d’Etiopia. E dopo più di un secolo Etiopia ed Eritrea si combattevano per quel mal nato confine coloniale»

    (p.112)

    «L’Europa è colpevole tutta per lo sfacelo di morte e dolore che sta riversando in uno dei mari più belli del mondo.»

    (p.124)

    «Per la maggior parte degli italiani, e dei media, erano semplicemente disperati, i soliti miserabili morti di fame (quasi un’icona, come il bambino del Biafra macilento e schelettrico), in fuga da guerra, dittatura e carestia. Una sorta di stereotipo universale, quello del disperato senza passato, senza presente e con un futuro impossibile da rivendicare.»

    (p.124)

    «Occupare uno spazio è un grido di esistenza.»

    (p.125)

    «La crisi è quando non sai che strada percorrere e soprattutto che strada hai percorso.»

    (p.125)

    «E come si fa a smettere di essere complici?
    In Somalia tutti i nomadi sanno che il miglior antidoto all’ignoranza, a quella jahilia che ci vuole muti e sordi, è il racconto. Io, che per metà vengo da questa antica stirpe di nomadi e cantastorie, so quanto valore può avere una parola messa al posto giusto. La storia va raccontata. Mille e mile volte. Va raccontata dal punto di vista di chi ha subito, di chi è stato calpestato, di chi ha sofferto la fame e la sete. La visione dei vinti, dei sopravvissuti, di chi ha combattuto per la sua libertà. Solo raccontando, solo mettendo in fila fatti, sensazioni, emozioni possiamo davvero farcela. Solo così le narrazioni tossiche che ci avvelenano la vita ci possono abbandonare. Il concetto di narrazione tossica viene dal collettivo Wu Ming:
    ’Per diventare ’narrazione tossica’, una storia deve essere raccontata sempre dallo stesso punto di vista, nello stesso modo e con le stesse parole, omettendo sempre gli stessi dettagli, rimuovendo gli stessi elementi di contesto e complessità.
    E’ sempre narrazione tossica la storia che gli oppressori raccontano agli oppressi per giustificare l’oppressione, che gli sfruttatori raccontano agli sfruttati per giustificare lo sfruttamento, che i ricchi raccontano ai poveri per giustificare la ricchezza.’»

    (p.128)

    –-> sur la #narration_toxique (#narrazione_tossica) :
    https://www.wumingfoundation.com/giap/2013/07/storie-notav-un-anno-e-mezzo-nella-vita-di-marco-bruno

    «La madre patria era nulla senza le sue colonie, per questo amava mostrarle succubi. Si era inventata il fardello dell’uomo bianco, la civilizzazione, la missione di Dio, solo per poter sfruttare il prossimo senza sensi di colpa.»

    (p.130)

    –-

    Sur la gestion des #funérailles et de l’#enterrement des victimes du #naufrage du #3_octobre_2013 :
    https://seenthis.net/messages/971940

    #mémoire #livre #colonialisme_italien #colonisation #Italie #Rome #traces #paysage #géographie_urbaine #post-colonialisme #toponymie #monuments #mémoire #Igiaba_Scego #passé_colonial #photographie #oubli_colonial #histoire #Asmara #Erythrée #architecture #urbanisme #stele_di_dogali #Dogali #Tedali #Adua #massacre #ras_Alula #Saati #maggiore_Boretti #Ras_Alula #Tommaso_De_Cristoforis #Vito_Longo #Luigi_Gattoni #Luigi_Tofanelli #basci-buzuk #Ulisse_Barbieri #Taitù #regina_Taitù #Pietro_Badoglio #Rodolfo_Graziani #italiani_brava_gente #oubli #ponte_Amedeo_d'Aosta #Principe_Amedeo #mémoire #démocratie #troupes_coloniales #dubat #meharisti #Badme #frontières #frontières_coloniales #zaptiè #retour_de_mémoire #Affile #Ercole_Viri

    –—

    ajouté à la métaliste sur la #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    ping @cede @albertocampiphoto @olivier_aubert

    • Citation tirée du livre «#La_frontiera» de #Alessandro_Leogrande:

      «Si è acceso qualcoa dentro di me quando ho scoperto che alcuni dei campi di concentramento eretti negli ultimi anni da Isaias Afewerki per reprimere gli oppositori sorgono negli stessi luoghi dove erano disposti i vecchi campi di concentramento del colonialismo italiano.
      In particolare nelle isole di #Dahlak, cinquanta chilometri al largo di Massaua, dove le galere italiane sono state prima riutilizzate dagli occupanti etiopici e in seguito dallo stesso regime militare del Fronte.
      Il penitenziario di #Nocra, una delle isole dell’arcipelago, fu attivo dal 1887 (proprio l’anno dell’eccidio di Dogali) al 1941, come ricorda Angelo Del Boca in Italiani, brava gente? Vi furono rinchiusi prigionieri comuni, ascari da punire, detenuti politici, oppositori e, dopo l’inizio della campagna d’Etiopia nel 1935, ufficiali e funzionari dell’impero di Hailé Selassié, perfino preti e monaci. (...) L’idea di fare di Nocra e delle isole limitrofe una gabbia infernale si è tramandata nel tempo, da regime a regime»

      (p.85-86)

      –---

      Sul Campo di concentramento di Nocra

      Il campo di Nocra o carcere di Nocra fu il più grande campo di prigionia italiano nella Colonia eritrea e dal 1936 il più grande dell’Africa Orientale Italiana. Venne aperto nel 1887 e chiuso nel 1941 dagli inglesi. Era situato nell’isola di Nocra, parte dell’Arcipelago di Dahlak, a 55 chilometri al largo di Massaua. Dal 1890 al 1941 fece parte del Commissariato della Dancalia. Arrivò a detenere tra un minimo di 500 prigionieri e un massimo di 1.800[1].


      https://it.wikipedia.org/wiki/Campo_di_concentramento_di_Nocra

      #camp_de_concentration #Tancredi_Saletta #Oreste_Baratieri

    • #Igiaba_Scego: “Scopriamo i simboli della storia coloniale a Roma per riempire un vuoto di memoria”

      Igiaba Scego, scrittrice italo somala autrice di libri come ‘Roma negata’ e ‘La linea del colore’, racconta e spiega i simboli del colonialismo presenti nella capitale. Spesso sconosciuti, ignorati, o lasciati nel degrado, narrano una storia che l’Italia ha rimosso: quella delle guerre coloniali che ebbero luogo anche prima del fascismo, e che oggi rappresentano il ‘vuoto di memoria’ del nostro paese. Un dibattito che si è accesso a Roma dopo la decisione di intitolare la stazione della metro C al partigiano italo-somalo #Giorgio_Marincola e non chiamarla più #Amba_Aradam.

      A Roma da qualche settimana si parla dei simboli e dei nomi del rimosso coloniale italiano, grazie alla proposta di intitolare la stazione della metro C su via dell’Amba Aradam a Giorgio Marincola, partigiano italo-somalo morto durante la Resistenza. Una proposta diventata realtà con il voto del consiglio comunale che ha deciso che Roma non appellerà una stazione della metropolitana ‘Amba Aradam’, l’altipiano montuoso dove l’esercito italiano massacrò 20.000 uomini e donne con bombardamenti a tappeto e l’utilizzo di armi chimiche. Di questo e altro abbiamo parlato con la scrittrice Igiaba Scego.

      Quali sono i simboli coloniali a Roma che andrebbero spiegati e sui quali bisognerebbe accendere l’attenzione?

      Non sono molti ma sono collocati in punti simbolici. A Roma, tra piazza della Repubblica e la stazione Termini c’è la Stele di Dogali, a riprova che il colonialismo non è stato solo fascista ma anche ottocentesco. L’obelisco è egiziano ma ha un basamento ottocentesco dedicato alla battaglia avvenuta nel 1887 a Dogali, in Eritrea, dove una colonna italiana venne intercettata e massacrata. Da lì anche il nome di piazza dei 500 davanti la stazione Termini. Di questa battaglia ne ho parlato in due libri, ‘Roma negata’ e ‘La linea del colore’. E nella piazza dove c’è la Stele, s’incontra il colonialismo con le migrazioni di oggi. Questo monumento, che nessuno conosce, è tra l’altro lasciato nel degrado. C’è poi il ponte Duca d’Aosta nei pressi del Vaticano, o il Cinema Impero a Tor Pignattara, che oggi si chiama Spazio Impero. Oltre al fatto di inserire il termine ‘impero’ nel nome, la struttura è quasi uguale a un cinema che è stato realizzato ad Asmara in Eritrea. Ma la cosa che colpisce di più sono i vuoti. Negli anni ’30, venne portata da Mussolini come bottino di guerra dall’Etiopia la Stele di Axum. Questa fu posizionata a piazza di Porta Capena, dove inizia anche il libro ‘Roma negata’. Dopo la guerra, non è stata restituita subito. Nel 1960, Abebe Bikila (campione olimpionico etiope) ha vinto i Giochi di Roma correndo a piedi nudi. Ho sempre pensato che il motivo della sua vittoria non fu solo la sua capacità fisica e la sua caparbietà, ma anche il dover essere costretto a passare per ben due volte davanti la Stele sottratta al suo popolo. Sono convinta che gli abbia dato lo sprint per vincere. La Stele fu poi restituita all’Etiopia negli anni Duemila, tra mille polemiche. Il problema è che ora in quella piazza non c’è nulla, solo due colonnine che rappresentano le Torri Gemelli e di cui nessuno sa nulla. Sarebbe stato giusto ergere sì un monumento per ricordare l’11 settembre, ma soprattutto uno per ricordare le vittime del colonialismo italiano e chi ha resistito ai colonizzatori. Un monumento riparatore per avvicinare i popoli vista la storia scomoda. Quella piazza rappresenta il vuoto di memoria, è come se qualcuno avesse fotografato il rimosso coloniale".

      Quali potrebbero essere i passi da compiere per far emergere il rimosso coloniale?

      Inserirlo nei programmi scolastici e nei libri di testo. Negli ultimi anni è emersa una certa sensibilità e tanti libri sono entrati a scuola grazie agli insegnanti. Sarebbe bello però avere anche nei programmi non solo la storia del colonialismo, ma anche il punto di vista del sud globale. Mi piacerebbe che la storia italiana fosse studiata globalmente, e far emergere le connessioni dell’Italia con l’Europa, l’Africa, l’America Latina e l’Asia. Non penso solo al colonialismo, ma anche alla storia delle migrazioni italiane. Alle superiori andrebbe studiata soprattutto la storia del ‘900. L’altro giorno è scoppiata quella bomba terribile a Beirut: quanti studenti e studentesse sanno della guerra civile in Libano? Sempre nella direzione di far emergere il rimosso coloniale, sarà istituito un museo che si chiamerà ‘Museo italo – africano Ilaria Alpi’. Ma la cosa che servirebbe tantissimo è un film o una serie tv. Presto sarà tratto un film da ‘The Shadow King’, libro di Maaza Mengiste, una scrittrice etiope – americana, che parla delle donne etiopi che resistono all’invasione fascista degli anni ’30. Un libro bellissimo e importante, come è importante che la storia del colonialismo italiano sia raccontata da un prodotto culturale potenzialmente globale. Ma perché un film sul colonialismo italiano lo deve fare Hollywood e non Cinecittà? Perché c’è ancora questa cappa? Non penso a un film nostalgico, ma a una storia che racconti la verità, la violenza. Serve sia lo studio alto sia il livello popolare. Altrimenti il rischio è che diventi solo un argomento per studiosi. È bello che escano libri all’estero, ma dobbiamo fare un lavoro anche qui.

      Quali sono le figure, magari anche femminili, che dovrebbero essere valorizzate e raccontate?

      Metterei in scena la collettività. Un’idea è fare un murales. Nel Medioevo le cattedrali erano piene di affreschi, e attraverso le immagini è stata insegnata la storia della chiesa. Userei la stessa tecnica, mostrando le immagini della resistenza anche delle donne etiope e somali. Servirebbe poi creare qualcosa che racconti anche le violenze subite nel quotidiano, perché non ci sono solo le bombe e i gas, ma anche i rapporti di potere. Mio padre ha vissuto il colonialismo e mi raccontava che prima dell’apartheid in Sudafrica c’era l’apartheid nelle città colonizzate, dove c’erano posti che non potevano essere frequentati dagli autoctoni. Racconterei queste storie sui muri delle nostre città e nelle periferie. È importante ricordare ciò che è stato fatto anche lì.

      https://www.fanpage.it/roma/igiaba-scego-scopriamo-i-simboli-della-storia-coloniale-a-roma-per-riempire-
      #histoire_coloniale #mémoire #symboles

      –---

      –-> sur la nouvelle toponymie de la station de métro:
      https://seenthis.net/messages/871345

    • Citations tirées du livre « #La_frontiera » de #Alessandro_Leogrande :

      «Dopo aver letto Roma negata, il libro di Igiaba Scego sui monumenti, le targhe, le lapidi e i palazzi della capitale che ricordano il colonialismo, sono andato a vedere l’#oblisco_di_Dogali. (...) Il libro è un viaggio nelle pieghe di Roma alla ricerca delle tracce del passato coloniale.
      (...)
      Il paradosso è che la rimozione del passato coloniale riguarda esattamente quelle aree che a un certo punto hanno cominciato a rovesciare i propri figli verso l’Occidente. Sono le nostre ex colonie uno dei principali ventri aperti dell’Africa contemporanea. I luoghi di partenza di molti viaggi della speranza sono stati un tempo cantati ed esaltati come suolo italiano, sulle cui zolle far sorgere l’alba di un nuovo impero»

      (pp.80-81)

      «In realtà il mausoleo [l’obelisco di Dogali], realizzato già nel giugno 1887 dall’architetto #Francesco_Azzurri, fu inizialmente collocato nella vicina piazza dei Cinquecento, l’enorme capolinea degli autobus che sorge davanti alla stazione Termini e si chiama così in onore dei caduti di #Dogali. Ma poi, nei primi anni del regime fascista, fu spostato qualche centinaio di metri in direzione nord-ovest, verso piazza della Repubblica. Ed è lì che è rimasto»

      (pp.82-82)

      https://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/la-frontiera

  • PORTFOLIOS En Italie, la coopérative des migrants

    Non loin de Rome, en #Italie, des immigrés d’Afrique subsaharienne ont créé en 2012 leur propre coopérative afin de subvenir à leurs besoins. Ils étaient #migrants sans papiers, exploités dans des coopératives agricoles, notamment près de Rosarno où en 2010 éclata une révolte de ces ouvriers après l’agression raciste contre l’un d’eux. Aujourd’hui, la #coopérative #Barikama produit des yaourts et légumes bio. La vente permet à chaque coopérateur de recevoir un salaire.

    https://www.mediapart.fr/studio/portfolios/en-italie-la-cooperative-des-migrants

    #autoproduction #centre_social #Rome