#route_des_balkans

  • #Route_des_Balkans : les migrants noyés dans la Drina

    Des dizaines de migrants en route vers l’Union européenne meurent noyés chaque année dans les eaux froides de la #rivière #Drina entre la #Serbie et la #Bosnie et sont enterrés anonymement dans les cimetières voisins, où des activistes bénévoles tentent de leur donner une sépulture digne et de retrouver leurs proches sans nouvelles.

    https://www.arte.tv/fr/videos/119298-000-A/route-des-balkans-les-migrants-noyes-dans-la-drina
    #Bosnie-Herzégovine #cimetière #mourir_aux_frontières #vidéo #reportage #morts_aux_frontières #Balkans #noyade #migrations #réfugiés #frontières #cimetière #Nihad_Suljic #Vidak_Simic #Bijeljina #anonymat #identification #autopsie #ADN #DNA

  • Slovenia, carceri sovraffollate di passeur della Rotta Balcanica. Sono quasi la metà

    Gli arresti compiuti nei confronti dei trafficanti di esseri umani, colloquialmente noti come passeur, sta generando un sovraffollamento delle carceri della Slovenia. La Rotta Balcanica e in generale l’immigrazione clandestina si ripercuote pertanto anche sul sistema carcerario sloveno; un problema noto a Trieste e in Friuli Venezia Giulia dove la mancanza di spazi e di condizioni adeguate per i detenuti costituiscono una problematica sollevata più volte dalle istituzioni attive nell’ambito.
    Le centinaia di arresti compiuti negli ultimi anni hanno portato a una saturazione delle carceri della Slovenia. Vi sono 1808 persone detenute in totale; in particolare “tutte le sezioni maschili sono sovraffollate” ha comunicato l’amministrazione slovena alla STA – Slovenian Press Agency.
    La situazione maggiormente grave è, qual è naturale, a Lubiana dove l’occupazione sfonda il 200%; a Maribor è del 171%, a Celje del 165%; il carcere di maggiori dimensioni in Slovenia, a Dob, ha un’occupazione pari al 128%.
    Sugli odierni 1808 carcerati, 850 figurano come cittadini stranieri implicati nella tratta di esseri umani.

    Vi è attualmente un nuovo carcere in via di costruzione a Dobrunje, a est di Lubiana, il cui completamento è previsto entro il 2025. Tuttavia, anche se venisse inaugurato in questi giorni, non risolverebbe il sovraffollamento odierno. In mancanza di alternative, similmente a quanto avviene in Italia, ci si limita a spostare i condannati di carcere in carcere; si sta inoltre valutando se ridurre o meno la durata della pena. Non migliora la situazione la carenza di personale addetto al sistema penitenziario; appena 550 addetti per gestire quasi duemila detenuti. Parte del personale penitenziario è inoltre prossimo alla pensione.
    Man mano che la Rotta Balcanica, col giungere della primavera -estate 2024, ritornerà a essere attiva il problema si ripresenterà tanto in Slovenia, quanto in Friuli Venezia Giulia, dove le difficoltà di gestione delle carceri costituiscono un argomento ricorrente.

    https://www.triesteallnews.it/2024/03/slovenia-carceri-sovraffollate-di-passeur-della-rotta-balcanica-sono-
    #Slovénie #criminalisation_de_la_migration #trafiquants #passeurs #asile #migrations #réfugiés #emprisonnement #prisons #frontière_sud-alpine #Balkans #route_des_Balkans

  • N.N. – No Name, No Nation, Not Necessary, No Noise
    https://www.meltingpot.org/2024/03/n-n-no-name-no-nation-not-necessary-no-noise

    di Diego Saccora, Lungo la rotta balcanica APS e Andrea Rizza Goldstein, Arci Bolzano-Bozen É a partire dalla fine del 2017 che il flusso delle persone in movimento per le rotte dei Balcani ha cominciato a interessare in maniera sempre più consistente la Bosnia-Erzegovina. Se all’inizio del 2018 la via di accesso principale passava dal Montenegro e prima ancora dalla Grecia e dall’Albania, già qualche segnale di quella che sarebbe poi diventata la via più utilizzata dal 2019 lo si registrava lungo le rive del fiume Drina, al confine tra Serbia e Bosnia-Erzegovina. Uno degli indicatori di questi attraversamenti, (...)

    #Notizie #Confini_e_frontiere #Redazione

  • Migration : à la frontière bosno-croate, le rêve européen brisé par les #violences_policières

    A la frontière bosno-croate, porte d’entrée vers l’Union européenne, les violences des garde-frontières croates sur les personnes tentant de traverser se multiplient et s’intensifient. Des violences physiques qui marquent les corps et les esprits des migrants qui les subissent et qui transforment le rêve européen de ces hommes, femmes et enfants en cauchemar continu dans l’attente d’une vie meilleure à l’ouest. Notre collègue Ugo Santkin, journaliste au pôle international $s’est rendu sur place, sur cette frontière bosno-croate qui cristallise la politique migratoire sécuritaire de l’Union européenne. Il revient avec nous sur la situation et sur les témoignages qu’il a recueillis.

    https://www.lesoir.be/571804/article/2024-03-01/migration-la-frontiere-bosno-croate-le-reve-europeen-brise-par-les-violences

    Pour écouter le podcast :
    https://podcasts.lesoir.be/main/pub/podcast/539480

    #migrations #frontières #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #Croatie #violence #réfugiés #Balkans #route_des_Balkans #gardes-frontières #podcast #audio

  • Rotta balcanica: i sogni spezzati nella Drina
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Rotta-balcanica-i-sogni-spezzati-nella-Drina-229948

    Nelle acque del fiume Drina, in Bosnia Erzegovina, decine di migranti sono morti nel tentativo di avvicinarsi al sogno di una vita migliore in quell’Europa che li respinge. Volontari del Soccorso alpino di Bijeljina e attivisti sono impegnati nel difficile recupero dei corpi

    • Rotta balcanica : i sogni spezzati nella Drina

      Nelle acque del fiume Drina, in Bosnia Erzegovina, decine di migranti sono morti nel tentativo di avvicinarsi al sogno di una vita migliore in quell’Europa che li respinge. Volontari del Soccorso alpino di Bijeljina e attivisti sono impegnati nel difficile recupero dei corpi.

      “Finora non mi è mai capitato di sognare uno dei corpi ritrovati, non ho mai avuto incubi. Proprio mai. Credo sia una questione di approccio. Soltanto chi non ha la coscienza pulita fa incubi”, afferma Nenad Jovanović, 37 anni, membro della squadra del Soccorso alpino di Bijeljina.

      Negli ultimi sei anni, Jovanović ha partecipato alle operazioni di recupero di oltre cinquanta corpi di migranti nell’area che si estende dal villaggio di Branjevo alla foce del fiume Drina [nella Bosnia orientale], tutti di età inferiore ai quarant’anni, annegati nel tentativo di entrare in Bosnia Erzegovina dalla Serbia, per poi proseguire il loro viaggio verso altri paesi europei, in cerca di un posto sicuro per sé e per i propri familiari.

      “Ogni volta che scoppia un nuovo conflitto in Medio Oriente, in Afghanistan, Iraq o altrove, assistiamo ad un aumento degli arrivi di migranti in cerca di salvezza nei paesi dell’Unione europea. Purtroppo, per alcuni di loro la Drina si rivela un ostacolo insormontabile. Il loro è un destino doloroso che può capitare a chiunque”, spiega Nenad Jovanović.

      Durante le operazioni di recupero dei corpi, Jovanović più volte è stato costretto a gettarsi nel fiume in piena, rischiando la propria vita.

      “Recentemente abbiamo recuperato il corpo di un uomo proveniente dall’Afghanistan. Era in acqua da circa un anno. I pescatori che per primi lo avevano notato non erano nemmeno sicuri che si trattasse di un corpo umano. Potete immaginare lo stato in cui si trovava”, afferma Jovanović.

      Un suo collega, Miroslav Vujanović, si sofferma sull’aspetto umano del lavoro del soccorritore. “A prescindere dallo stato di decomposizione, cerchiamo in tutti in modi possibili di recuperare il corpo nelle condizioni in cui lo troviamo. Nulla deve essere perso, nemmeno i vestiti. Perché siamo tutti esseri umani. Nel momento del recupero di un corpo magari non pensi alla sua identità, cerchi di fare il tuo lavoro in modo professionale e basta. Poi però quando torni a casa e vedi tua moglie e i figli, inizi a chiederti chi fosse quell’uomo e se anche lui avesse una famiglia. È del tutto normale riflettere su queste cose. Sono però pensieri intimi, che tendiamo a tenere dentro”.

      I volontari del Soccorso alpino di Bijeljina hanno partecipato anche alle operazioni di ricerca e assistenza alle popolazioni colpite dal terremoto nella regione di Banovina (in Croazia) nel 2020 e alle vittime del terremoto che l’anno scorso ha devastato la Turchia. In tutte queste operazioni sono stati costretti ad utilizzare le attrezzature prese in prestito o noleggiate, perché le autorità locali non rispettano gli accordi di cooperazione stipulati con altri paesi. Del resto, la Bosnia Erzegovina è il paese delle assurdità. Lo confermano anche i nostri interlocutori, aggiungendo che a volte si sentono incompresi anche dai loro familiari.

      “Mia moglie spesso si chiede come io possa fare questo lavoro. Oppure invito ospiti a casa per la celebrazione del santo della famiglia, e proprio quando stiamo per tagliare il pane tradizionale, mi chiama la polizia dicendo di aver trovato un cadavere nella Drina. Quindi, mi scuso con gli ospiti, chiedo loro di rimanere e vado a fare il mio lavoro. Non è un lavoro facile, ma per me la più grande soddisfazione è sapere che quel corpo recuperato sarà sepolto degnamente e che la famiglia della vittima, straziata dalla sofferenza, finalmente troverà pace”, spiega Nenad Jovanović.

      Recentemente, Jovanović, insieme ai suoi colleghi Miroslav Vujanović e Safet Omerbegić, ha partecipato ad una cerimonia di commemorazione in memoria dei migranti scomparsi e morti ai confini d’Europa. In quell’occasione sono state inaugurate le lapidi delle tombe dei sedici migranti sepolti nel nuovo cimitero di Bijeljina, situato nel quartiere di Hase. Trattandosi di corpi non identificati, ciascuna delle lastre in marmo nero reca incise, a caratteri dorati, la sigla N.N e l’anno della morte.

      Nel cimitero è stato piantato anche un filare di alberi in memoria delle vittime e sono state collocate due targhe commemorative con la scritta: “Non dimenticheremo mai voi e i vostri sogni spezzati nella Drina”. L’iniziativa è stata realizzata grazie al sostegno dell’associazione austriaca «SOS Balkanroute» e di Nihad Suljić, attivista di Tuzla, che da anni fornisce assistenza concreta ai rifugiati e partecipa alle procedure di identificazione e sepoltura dei morti.

      “Per noi è un grande onore e privilegio sostenere simili progetti. Si tratta di un’iniziativa pionieristica che può fungere da modello per l’intera regione. Per quanto possa sembrare paradossale, siamo contenti che queste persone, a differenza di tante altre, abbiano almeno una tomba. Abbiamo voluto che le loro tombe fossero dignitose e che non venissero lasciate al degrado, come accaduto recentemente a Zvornik”, sottolinea Petar Rosandić dell’associazione SOS Balkanroute.

      Rosandić spiega che la sistemazione delle tombe dei migranti nei cimiteri di Bijeljina e Zvornik è frutto di un’iniziativa di cooperazione transfrontaliera a cui hanno partecipato anche le comunità religiose di Vienna. Queste comunità, che durante la Seconda guerra mondiale erano impegnate nel salvataggio degli ebrei, oggi partecipano a diversi progetti a sostegno dei migranti lungo le frontiere esterne dell’UE.

      “Sulle lastre c’è scritto che si tratta di persone non identificate, ma noi sappiano che in ogni tomba giace il corpo di un giovane uomo i cui sogni si sono spezzati nella Drina. Ognuno di loro aveva una famiglia, un passato, i propri desideri e le proprie aspirazioni. Il loro unico peccato, secondo gli standard europei, era quello di avere un passaporto sbagliato, quindi sono stati costretti a intraprendere strade pericolose per raggiungere i luoghi dove speravano di trovare serenità e un futuro migliore”, afferma l’attivista Nihad Suljić.

      Suljić poi spiega che nel prossimo periodo i ricercatori e gli attivisti si impegneranno al massimo per instaurare una collaborazione con diverse istituzioni e organizzazioni. L’obiettivo è quello di identificare le persone sepolte in modo da restituire loro un’identità e permettere alle loro famiglie di avviare un processo di lutto.

      “Questi monumenti neri sono le colonne della vergogna dell’Unione europea – commenta Suljić - non è stata la Drina a uccidere queste persone, bensì la politica delle frontiere chiuse. Se avessero avuto un altro modo per raggiungere un posto sicuro dove costruire una vita migliore, sicuramente non sarebbero andati in cerca di pace attraversando mari, fiumi e fili spinati. Le loro tombe testimonieranno per sempre la vergogna e il regime criminale dell’UE”.

      Suljić ha invitato i cittadini dell’UE che hanno partecipato alla cerimonia di commemorazione a Bijeljina a chiamare i governi dei loro paesi ad assumersi la propria responsabilità.

      “Non abbiamo bisogno di donazioni né di corone di fiori. Vi invito però a inviare un messaggio ai vostri governi, a tutti i responsabili dell’attuazione di queste politiche, per spiegare loro le conseguenze delle frontiere chiuse, frontiere che uccidono gli esseri umani, ma anche i valori europei”.

      Dalla chiusura del corridoio sicuro lungo la rotta balcanica [nel 2015], nell’area di Bijeljina, Zvornik e Bratunac sono stati ritrovati circa sessanta corpi di migranti annegati nel fiume Drina. Stando ai dati raccolti da un gruppo di attivisti e ricercatori, nel periodo compreso tra gennaio 2014 e dicembre 2023 lungo il tratto della rotta balcanica che include sei paesi (Macedonia del Nord, Kosovo, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia) hanno perso la vita 346 persone in movimento. Trattandosi di dati reperiti da fonti pubbliche, i ricercatori sottolineano che il numero effettivo di vittime con ogni probabilità è molto più alto. In molti casi, la tragica sorte dei migranti è direttamente legata ai respingimenti effettuati dalle autorità locali e dai membri dell’agenzia Frontex.

      “La morte alle frontiere è ormai parte integrante di un regime di controllo che alcuni autori definiscono un crimine in tempo di pace, una forma di violenza amministrativa e istituzionale finalizzata a mantenere in vita un determinato ordine sociale. Molte persone morte ai confini restano invisibili, come sono invisibili anche le persone scomparse. I decessi e le sparizioni spesso non vengono denunciati, e alcuni corpi non vengono mai ritrovati”, spiega Marijana Hameršak, ricercatrice dell’Istituto di etnologia e studi sul folklore di Zagabria, responsabile di un progetto sui meccanismi di gestione dei flussi migratori alle periferie dell’UE.

      In assenza di un database regionale e di iniziative di cooperazione transfrontaliera, sono i volontari e gli attivisti a portare avanti le azioni di ricerca di persone scomparse e i tentativi di identificazione dei corpi. Al termine della cerimonia di commemorazione, a Bijeljina si è tenuta una conferenza per discutere di questo tema.

      “Molte famiglie non sanno a chi rivolgersi, non hanno mai ricevuto indicazioni chiare. Finora le istituzioni non hanno mai voluto impegnarsi su questo fronte. Spero che a breve ognuno si assuma la propria responsabilità e faccia il proprio lavoro, perché non è normale che noi, attivisti e volontari, portiamo avanti questo processo”, denuncia Nihad Suljić.

      A dare un contributo fondamentale è anche Vidak Simić, patologo ed esperto forense di Bijeljina. Dal 2016 Simić ha eseguito l’autopsia e prelevato un campione di DNA di circa quaranta corpi di migranti, per la maggior parte rinvenuti nel fiume Drina.

      “Questa vicenda mi opprime, non mi sento bene perché non riesco a portare a termine il mio lavoro. Credo profondamente nel giuramento di Ippocrate e lo rispetto. Le leggi e altre norme mi obbligano a conservare i campioni per sei mesi, ho deciso però di conservarli per tutto il tempo necessario, in attesa che il sistema venga cambiato. La mia idea è di raccogliere tutti questi campioni, creare profili genetici individuali, pubblicarli su un sito appositamente creato in modo da aiutare le famiglie – in Afghanistan, Pakistan, Algeria, Marocco e in altri paesi – che cercano i loro cari scomparsi.

      Lo auspicano anche il padre, la madre, la sorella e i fratelli di Aziz Alimi, vent’anni, proveniente dall’Afghanistan, che nel settembre dello scorso anno, nel tentativo di raggiungere la Bosnia Erzegovina dalla Serbia, aveva deciso di attraversare la Drina a nuoto con altri tre ragazzi. Poco dopo la sua scomparsa, nello stesso luogo da dove Aziz per l’ultima volta aveva contattato uno dei suoi fratelli, è stato ritrovato un corpo.

      Dal momento che non è stato possibile identificare il corpo per via del pessimo stato in cui si trovava, i familiari di Aziz, che nel frattempo hanno trovato rifugio in Iran, hanno inviato un campione del suo DNA in Bosnia Erzegovina. Ripongono fiducia nelle istituzioni e nei cittadini bosniaco-erzegovesi per garantire ad Aziz almeno una sepoltura dignitosa.

      Ai presenti alla conferenza di Bijeljina si è rivolta anche la sorella di Aziz, Zahra Alimi, intervenuta con un videomessaggio. “Non abbiamo parenti in Europa che possano aiutarci e davvero non sappiamo cosa fare. Per favore aiutateci, nostro padre è affetto da un tumore e nostra madre ha sofferto molto dopo aver appreso la triste notizia [della scomparsa di Aziz]. Possiamo contare solo su di voi”.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Rotta-balcanica-i-sogni-spezzati-nella-Drina-229948
      #route_des_Balkans #Balkans #rivière #Bosnie-Hezégovine #migrations #réfugiés #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #Bijeljina #Branjevo #Nenad_Jovanović #Nenad_Jovanovic #Serbie #frontières #commémoration #mémoire #cimetière #tombes #SOS_Balkanroute #Nihad_Suljić #Nihad_Suljic #dignité #monument #responsabilité

  • En Serbie, rendre invisibles les exilés

    La Serbie est le dernier pays non-membre de l’Union européenne de la route des Balkans. Traversée depuis des siècles, elle l’est aujourd’hui encore par de nombreux étrangers venus de Syrie, d’Afghanistan, de Turquie, même du Maroc… Car la Serbie reste le dernier rempart de la forteresse Europe. Ce petit pays de presque 7 millions d’habitants, entouré de huit frontières dont quatre avec l’Union européenne, applique une politique migratoire orchestrée par celle-ci.

    En effet, la Serbie demande son adhésion depuis plus de dix ans.

    Depuis le mois de décembre, après un contexte politique tendu, ce pays de transit tente de rendre invisibles les exilés, déjà soumis aux passeurs et aux lois en matière d’asile et d’immigration. En plein cœur de l’hiver, reportage entre Belgrade et la frontière croate de l’Europe.

    https://www.rfi.fr/fr/podcasts/grand-reportage/20240219-en-serbie-rendre-invisibles-les-exil%C3%A9s

    #emprisonnement #Serbie #asile #migrations #réfugiés #Belgrade #route_des_Balkans #Balkans #squat #opération_policière #peur #sécurité #insécurité #Sid #Šid #frontières #Croatie #transit #invisibilisation #Frontex #passeurs #frontières_extérieures #externalisation #visas #camps #solidarité #camps_de_réfugiés #refoulements #push-backs #migration_circulaire #game #the_game
    #audio #podcast

  • Bosnia and Herzegovina opened Negotiations on the Cooperation Agreement with FRONTEX

    By starting the negotiations on the Agreement with the European Border and Coast Guard Agency (FRONTEX), Bosnia and Herzegovina and the Ministry of Security of Bosnia and Herzegovina fulfilled another of their obligations on the European road today.

    Along with the representatives of the BiH team for negotiations on the cooperation agreement with FRONTEX, the meeting that officially started this process was attended by the Minister of Security of Bosnia and Herzegovina Nenad Nešić and the Deputy Director General for Internal Affairs at the European Commission Oliver Onidi.

    After the establishment of operational cooperation with EUROPOL, this agreement is the next important step for BiH in the integration into the common European security area, the Ministry of Security of BiH announced.

    “Today we will start a process that will not mean cooperation with a single European institution for Bosnia and Herzegovina, but a confirmation that we are part of common and collective European security. I want to emphasize that our activities are aimed at eliminating threats and risks, primarily from organized crime that threatens development and economic stability of BiH, and increasing security for the citizens of BiH. FRONTEX will add a new dimension in this regard, strengthening our borders and their impermeability to security threats and organized crime in this dynamic time of migration as a serious source of all kinds of risks,” said Nešić.

    He emphasized that FRONTEX is a confirmation that BiH is a complicated country only when it needs an excuse not to do something, and that it is very functional and possible within its constitutional framework and the framework of the Dayton Agreement when they want to move things forward.

    Nešić wished the negotiating teams to effectively bring this work to an end, so that BiH would cease to be the only country in the Western Balkans that does not cooperate with FRONTEX.

    The Deputy General Director for Internal Affairs at the European Commission, Oliver Onidi, reminded that last year BiH made a big step by establishing full operational cooperation with EUROPOL, and that negotiations on cooperation with FRONTEX are also ahead of us.

    He emphasized that in a situation where there is an exceptional pressure of illegal migration, police cooperation and joint action in guarding and controlling borders is extremely important.

    https://sarajevotimes.com/bosnia-and-herzegovina-opened-negotiations-on-the-cooperation-agreeme

    #Bosnie #Bosnie-Hezégovine #asile #migrations #réfugiés #Frontex #accord #EUROPOL #Balkans #route_des_Balkans #frontières #contrôles_frontaliers

  • À #Trieste, les migrants oubliés de la route des Balkans

    C’est une frontière que les migrants qui empruntent la #route_des_Balkans occidentaux attendent souvent comme un soulagement, celle entre l’#Italie et la #Slovénie, dans l’extrême nord-est du pays. Pourtant, la situation qui les attend n’est souvent pas à la hauteur de leurs espérances. Trieste est la grande ville la plus proche de la frontière italo-slovène. De janvier à octobre 2023, plus de 12 000 migrants y sont passés. Qu’ils soient de passage pour quelques jours ou qu’ils demandent l’asile en Italie, des centaines de migrants se retrouvent à la rue en plein hiver. Les associations qui leur viennent en aide demandent à l’État d’intervenir.

    https://www.rfi.fr/fr/podcasts/grand-reportage/20240213-%C3%A0-trieste-les-migrants-oubli%C3%A9s-de-la-route-des-balkans
    #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #SDF #sans-abrisme

  • Bosnian refugee camp #Lipa: Dispute over “Austrian Guantanamo”

    20 governments participate in the Vienna #ICMPD and finance or receive its activities. The ÖVP-affiliated organisation handles migration control for the EU.

    Every year, the EU spends hundreds of millions of euros to manage and counter migration in third countries. Every year, the EU spends hundreds of millions of euros to manage and fight migration to third countries. Most of the money comes from three different funds and goes to the countries themselves or to EU members who award contracts to companies or institutes for implementing the measures. The International Organisation for Migration (#IOM) also receives such EU funding for migration control.

    One of the private organisations contracted to deliver EU measures is the #International_Centre_for_Migration_Policy_Development (ICMPD), founded in 1993 and based in Vienna. It is headed by the conservative Austrian ex-vice chancellor and former Austrian People’s Party (ÖVP) leader Michael Spindelegger. The 20 members include states such as Turkey, Serbia or Bosnia-Herzegovina and, since 2020, also Germany. Many of the ICMPD’s measures are funded from Austria, a parliamentary question by the Greens revealed.

    Now the centre is to draft proposals for “EU migration partnerships”, in which third countries receive benefits if they take back deportees from EU states. With a similar aim, the ICMPD is implementing a “regional return mechanism for the Western Balkans”. The states are supported in carrying out deportations themselves. The German government has funded this initiative with €3.2 million in 2020 and calls it “migration management”.

    On behalf of the Ministry of the Interior, the ICMPD is also involved in the construction of a “Temporary Detention Centre” in the newly built Bosnian refugee camp Lipa and received €500,000 from the EU Commission for this purpose. This is documented in an EU document published on Friday by the German organisation Frag den Staat as part of a research on the ICMPD. The camp is run by the IOM, and Germany is supporting its construction through the German Federal Agency for Technical Relief (THW) with €1 million for a canteen.

    The purpose of the camp in Lipa had been unequivocally explained by Oliver Várhelyi, the Commissioner for Enlargement and European Neighbourhood Policy, who comes from Hungary. “We need to keep our detention facilities in Lipa and the region under control, meaning that the fake asylum-seekers must be detained until they return to their countries of origin. Again, we will replicate this project in other countries of the region”, said the EU Commissioner.

    “A high fence, cameras at every step, windows with prison bars and almost no daylight in the cells,” is how the organisation SOS-Balkanroute, which is active in Austria, described everyday life there and titled it in a press release “This is what the Austrian Guantanamo in Bosnia looks like”.

    The ICMPD feels attacked by this. The organisation was “of course not involved in the construction of detention cells or similar”, a spokesperson initially claimed in response to an enquiry by the APA agency. However, ICMPD head Spindelegger rowed back shortly afterwards and explained in the programme “Zeit im Bild” that his organisation was responsible for the construction of a “secured area for a maximum of twelve persons”. According to Bosnia’s Foreign Minister Elmedin Konakovic, this was a “room for the short-term internment of migrants”.

    Despite its denial, the ICMPD is now taking action against SOS Balkanroute and its founder Petar Rosandić and has filed a lawsuit for “credit damage” at the Vienna Commercial Court because of the designation “Austrian Guantanamo”. “Our only concern is to stop the continued false allegations,” an ICMPD spokesperson explained, including that the organisation was pushing the suffering of people.

    This is an attempt at political intimidation, “the kind of which we are used to seeing in Hungary, Russia or Serbia”, said Rosandić, the NGO’s founder, commenting on the complaint. The Green member of the National Council Ewa Ernst-Dziedzic feels reminded of “conditions under Orban in Hungary” and expects “the necessary consequences” from other ICMPD signatory states. Germany does not want to hear about this. The Foreign Office and the Federal Ministry of the Interior in Berlin let a deadline of several days set by “nd” for comment pass without response.

    https://digit.site36.net/2023/05/22/bosnian-refugee-camp-lipa-dispute-over-austrian-guantanamo

    #OIM #asile #migrations #réfugiés #camps #encampement #Bosnie #Balkans #route_des_Balkans #Bosnie-Herzégovine #camps_de_réfugiés

  • À la frontière italo-slovène, les migrants oubliés de la route balkanique

    L’extrême nord-est de l’Italie est la porte d’entrée dans le pays des migrants qui ont traversé l’Europe par la route des Balkans. Des centaines d’entre eux se retrouvent à survivre dans la rue. Les associations dénoncent un abandon de l’État.

    La Piazza della Libertà s’illumine des halos jaunes des réverbères. À mesure que les heures s’égrènent dans la nuit, de petits groupes d’hommes s’installent près des bancs verts. Ils sont presque tous afghans ou pakistanais, emmitouflés avec les moyens du bord, contraints de vivre à la rue depuis quelques jours pour les plus chanceux, quelques mois pour les autres. Juste en face, c’est la gare et ses promesses de poursuivre la route à bord d’un wagon chaud plutôt qu’à pied.

    S’y croisent ceux qui sont montés à bord à Ljubljana ou à Zagreb, les capitales slovène et croate, direction Trieste, et ceux qui poursuivent leur voyage vers l’Europe du Nord, avec Milan ou Venise comme étapes suivantes.

    Ce soir-là, une quinzaine d’Afghans arrivent tout juste de la frontière slovène, à moins de dix kilomètres du centre-ville de Trieste. Ils sont venus à pied. L’un d’eux, visiblement heureux d’être arrivé, demande à son ami de le prendre en photo, pouces vers le haut, dans l’air gelé des températures à peine positives. Demain ou après-demain, promet-il, il continuera sa route. En attendant, les autres lui indiquent le Silos, un ensemble de grands entrepôts de l’époque austro-hongroise s’étendant derrière la gare et devenus le refuge insalubre et précaire d’environ quatre cents migrants.

    Aziz Akhman est l’un d’eux. Ce Pakistanais de 32 ans a fui les attentats aux voitures piégées, l’insécurité et les rackets qui gangrènent sa région d’origine, à la frontière avec l’Afghanistan. Quand son magasin a été incendié, il est parti. « J’ai mis quatre mois à arriver en Italie, explique-t-il. J’ai déposé une demande d’asile. » Chaque nuit, seule une fine toile de tente le sépare de la nuit glacée qui enveloppe le Silos. Les heures de sommeil sont rares, grignotées par le froid de l’hiver.

    « La vie ici est un désastre », commente Hanif, un Afghan de 25 ans qui passe, lui aussi, ses nuits au Silos. Son rêve, c’est Montbéliard (Doubs), en France. « Tous mes amis et certains membres de ma famille vivent là-bas. J’y ai passé six mois avant d’être renvoyé en Croatie », raconte le jeune homme, qui avait donné ses empreintes dans le pays et y a donc été expulsé en vertu des accords de Dublin. À peine renvoyé en Croatie, vingt jours plus tôt, il a refait le chemin en sens inverse pour revenir en France. Trieste est juste une étape.

    « Ici convergent aussi bien ceux qui sont en transit que ceux qui restent », explique Gian Andrea Franchi. Ce retraité a créé l’association Linea d’Ombra avec sa femme Lorena Fornasir à l’hiver 2019. « On s’est rendu compte que de nombreuses personnes gravitaient autour de la gare et qu’une bonne partie dormait dans les ruines du vieux port autrichien, se remémore-t-il en pointant la direction du Silos. Ils ne recevaient aucune aide et vivaient dans des conditions très difficiles. » Depuis, l’association distribue des vêtements, des couvertures, des tentes, offre des repas et prodigue des soins médicaux.

    Sur l’un des bancs, Lorena Fornasir a déployé une couverture de survie dont les reflets dorés scintillent dans la pénombre. « Quand ces hommes arrivent, ils ont souvent les pieds dans un tel état qu’on dirait qu’ils reviennent des tranchées », explique cette psychothérapeute à la retraite qui panse, soigne, écoute chaque soir ceux qui en ont besoin.

    « Ceux qui dorment au Silos sont tous tombés malades à cause des conditions dans lesquelles ils vivent, c’est une horreur là-bas : ils ont attrapé des bronchites, des pneumonies, des problèmes intestinaux, et beaucoup ont d’énormes abcès dus aux piqûres d’insectes et aux morsures de rats qui s’infectent », poursuit Lorena Fornasir, avant d’aller chercher dans sa voiture quelques poulets rôtis pour les derniers arrivés de la frontière slovène, affamés et engourdis par le froid. Les soirs d’été, lorsque le temps permet de traverser les bois plus facilement, ce sont parfois près de cinq cents personnes qui se retrouvent sur celle que le couple de retraités a rebaptisée « La Place du Monde ».
    Une crise de l’accueil

    Dans les bureaux de l’ICS, Consortium italien de solidarité, Gianfranco Schiavone a ces chiffres parfaitement en tête et ne décolère pas. Derrière l’écran de son ordinateur, il remonte le fil de ses courriels. Devant lui s’ouvre une longue liste de noms. « On a environ 420 demandeurs d’asile qui attendent une place d’hébergement ! », commente le président de l’ICS, fin connaisseur des questions migratoires dans la région. « Depuis un an et demi, ces personnes sont abandonnées à la rue et ce n’est pas à cause de leur nombre, particulièrement élevé… Au contraire, les arrivées sont modestes », explique-t-il en pointant les chiffres publiés dans le rapport « Vies abandonnées ».

    En moyenne, environ quarante-cinq migrants arrivent chaque jour à Trieste. Le chiffre est plutôt stable et pourrait décroître dans les semaines à venir. La neige a souvent ralenti les départs en amont, le long des passages boisés et plus sauvages de la route balkanique.

    Selon les estimations de l’ICS, entre 65 et 75 % des migrants qui arrivent à Trieste repartent. Le quart restant dépose une demande d’asile. Selon les règles en vigueur en Italie, les demandeurs d’asile sont hébergés dans des centres de premier accueil, le temps que les commissions territoriales examinent leur demande. L’ICS gère deux de ces centres, installés à quelques centaines de mètres de la frontière slovène. Les migrants devraient y rester quelques jours puis être redispatchés dans d’autres régions au sein de centres de plus long accueil.

    Faute de redistribution rapide, les centres d’accueil temporaire sont pleins et les nouveaux arrivants se retrouvent à la rue, dépendant uniquement du système d’hébergement d’urgence, déjà sursollicité par les SDF de la ville. À Trieste même, les près de 1 200 places d’hébergement à long terme disponibles pour les demandeurs d’asile sont toutes occupées.

    « On ne se retrouve pas avec quatre cents personnes arrivées en une journée qui ont mis en difficulté le système d’accueil, regrette Gianfranco Schiavone, mais avec de petits groupes volontairement laissés à la rue dont l’accumulation, jour après jour, a fini par donner ce résultat. » Il livre l’analyse suivante : « Ces conditions de vie poussent ces personnes vers la sortie. Le premier objectif est de réduire au maximum le nombre de demandeurs d’asile que l’État doit prendre en charge. Le deuxième, plus politique, est de créer une situation de tension dans l’opinion publique, de donner l’image de centaines de migrants à la rue et d’entretenir l’idée que les migrants sont vraiment trop nombreux et que l’Italie a été abandonnée par l’Europe. »

    Interrogée, la préfecture n’a pas souhaité répondre à nos sollicitations, renvoyant vers le ministère de l’intérieur. Le cabinet du maire, lui, renvoie aux prises de position déjà exprimées dans la presse locale. La position de l’édile de la ville est sans appel : il ne fera rien.
    L’accord Albanie-Italie suspendu

    Récemment, un important dispositif policier a été déployé dans la région. Le 18 octobre, après l’attentat contre des supporteurs suédois à Bruxelles, le gouvernement de Giorgia Meloni a décidé de fermer sa frontière avec la Slovénie. Le traité de Schengen a été provisoirement suspendu pour prévenir d’éventuelles « infiltrations terroristes » via la route balkanique.

    « C’est nécessaire, en raison de l’aggravation de la situation au Moyen-Orient, l’augmentation des flux migratoires le long de la route balkanique et surtout pour des questions de sécurité nationale », a justifié la cheffe du gouvernement. 350 agents ont été déployés dans le Frioul-Vénétie Julienne, le long des 230 kilomètres de la frontière italo-slovène. Initialement prévus pour dix jours, les contrôles aux frontières ont déjà été prolongés deux fois et sont actuellement en vigueur jusqu’au 18 janvier 2024.

    Avec ce tour de vis sur sa frontière orientale, l’Italie tente de maintenir une promesse qu’elle ne parvient pas à tenir sur son front méditerranéen : verrouiller le pays. Car après l’échec de sa stratégie migratoire à Lampedusa en septembre, Giorgia Meloni a redistribué ses cartes vers les Balkans. À la mi-novembre, la cheffe du gouvernement s’est rendue en visite officielle à Zagreb pour discuter, notamment, du dossier migratoire. Mais son dernier coup de poker, c’est l’annonce d’un accord avec l’Albanie pour y délocaliser deux centres d’accueil pour demandeurs d’asile.

    L’idée est d’y emmener jusqu’à 3 000 personnes, immédiatement après leur sauvetage en mer par des navires italiens. Sur place, la police albanaise n’interviendra que pour la sécurité à l’extérieur du centre. Le reste de la gestion reste entièrement de compétence italienne. La mise en service de ces deux structures a été annoncée au printemps. Le dossier semblait clos. À la mi-décembre, la Cour constitutionnelle albanaise a finalement décidé de suspendre la ratification de l’accord. Deux recours ont été déposés au Parlement pour s’assurer que cet accord ne viole pas les conventions internationales dont est signataire l’Albanie. Les discussions devraient reprendre à la mi-janvier.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/080124/la-frontiere-italo-slovene-les-migrants-oublies-de-la-route-balkanique
    #Slovénie #Italie #frontières #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #route_des_Balkans #Balkans #Trieste #sans-abrisme #SDF #hébergement #réfugiés_pakistanais #réfugiés_afghans #Silos #Linea_d’Ombra #solidarité #ICS

  • Trieste capolinea: diventare adulti lungo la rotta balcanica
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Trieste-capolinea-diventare-adulti-lungo-la-rotta-balcanica-229074

    Trieste, città di frontiera, è l’ultima fermata della rotta balcanica. Nel 2023 i dati hanno registrato un incremento degli arrivi dei minori non accompagnati. Cosa vuol dire crescere lungo la rotta balcanica? Cosa succede una volta arrivati a Trieste? Un’analisi

  • Repackaging Imperialism. The EU – IOM border regime in the Balkans

    In November 2023, European Commission President #Ursula_von_der_Leyen concluded a Balkan tour, emphasizing EU enlargement’s priority for peace and prosperity. However, scrutiny intensified over EU practices, especially in the Balkans, where border policies, implemented by the International Organization for Migration (IOM), reflect an imperialist approach. This report exposes the consequences – restricted migration, erosion of international norms, and deadly conditions along migrant routes. The EU’s ’carrot and stick’ strategy in the Balkans raises concerns about perpetual pre-accession status and accountability for human rights abuses.

    https://www.tni.org/en/publication/repackaging-imperialism

    #migrations #asile #réfugiés #IOM #OIM #impérialisme #frontières #rapport #tni #paix #prospérité #droits_humains #militarisation_des_frontières #route_des_Balkans #humanitarisme #sécurisation #sécurité #violence #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #hotspot #renvois #retours_volontaires #joint_coordination_plateform #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #décès

  • Rohingya child challenges Croatia and Slovenia over violent pushbacks. Unaccompanied minor files complaints at UN Child Rights Committee

    A Rohingya child refugee faced repeated beatings by Croatian border officers, had his belongings burnt and his shoes confiscated before numerous forced expulsions, including a “chain” pushback from Slovenia. U.F. submitted complaints against Croatia and Slovenia at the UN Child Rights Committee for multiple violations of the Convention on the Rights of the Child (CRC). These are the first complaints of their kind against these two states.

    Case

    U.F. was 8 years old when he fled a military attack on his village and became separated from his family. After many years searching for protection, he spent over a year in Bosnia and Herzegovina (BiH) from 2020 to 2021 having to survive without state support or medical care, sleeping rough in forests and squatting in abandoned buildings. During this time, he was pushed back five times from Croatia to BiH and subjected to consistent, choreographed violence. In Slovenia he was subjected to a “chain” pushback, by which he was forcibly returned first to Croatia by Slovenian authorities and then onwards by Croatian authorities to BiH in a coordinated operation.

    National, EU, and international law oblige Croatia and Slovenia to act in a child’s best interests and prioritize the identification of their age during their handling by border officers. The applicant’s complaints argue violations of the CRC, in relation to his expulsions and ill-treatment, and states’ failure to assess his age or apply any of the relevant safeguards under articles 3, 8, 20(1), and 37 CRC. U.F. corroborated his accounts with a range of digital evidence. The complaints were filed against Croatia and Slovenia with the support of ECCHR and Blindspots. The litigation forms part of the Advancing Child Rights Strategic Litigation project (ACRiSL). ACRiSL comes under the auspices of the Global Campus of Human Rights – Right Livelihood cooperation.

    Context

    In Croatia, pushbacks form part of a designed and systematic state policy, which has been fully documented by human rights institutions, NGOs and the media. Slovenia’s pushbacks have been implemented since 2018 through a readmission agreement which authorizes hasty expulsions with complete disregard for a person’s protection needs, a child’s identity or their best interests. In 2020 and 2021 alone, 13.700 people were pushed back from Slovenia in this manner.

    The applicant is represented by ECCHR partner lawyer, Carsten Gericke. These complaints are the latest in a series of legal steps to address systematic human rights violation at the EU’s external borders.

    https://www.youtube.com/watch?time_continue=72&v=HJlmNZdblSc&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fww


    https://www.ecchr.eu/en/case/pushbacks-un-child-rights-croatia-slovenia

    #vidéo #migrations #asile #réfugiés #Croatie #Balkans #route_des_Balkans #frontières #violence #MNA #mineurs_non_accompagnés #violence #vidéo #film_d'animation #frontière_sud-alpine #push-backs #refoulements #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #pattern #vol #Myanmar #enfants #enfance #réfugiés_rohingya #enfermement #refoulements_en_chaîne #the_game #frontière_sud-alpine

  •  »Vor Mauern und hinter Gittern« 

    Kinderrechte werden an den Außengrenzen der Europäischen Union mit Füßen getreten


    Kinder und Jugendliche werden an den Außengrenzen der EU gewaltsam zurückgeschoben (»Pushbacks«) und nach Ankunft in der EU inhaftiert – eine systematisch angewandte Praxis in mehreren Außengrenzstaaten der EU. Anlässlich des Treffens der EU-Innenminister*innen nächste Woche zeigt terre des hommes mit dem aktuellen Bericht »Vor Mauern und hinter Gittern« am Beispiel von Ungarn, Griechenland, Bulgarien und Polen die kinderrechtswidrigen Praktiken genauer auf. Der Bericht bezieht sich vor allem auf die Erfahrungen und Hinweise zivilgesellschaftlicher Projektpartnerorganisationen und verweist auch auf die Mitverantwortung der EU, deren Institutionen das Verhalten der Mitgliedsstaaten billigen und stützen.

    »Migrationshaft bei Kindern und Jugendlichen ist trotz ihrer Unvereinbarkeit mit der UN-Kinderrechtskonvention Realität in drei der vier untersuchten Mitgliedstaaten« sagt Teresa Wilmes, Programmreferentin für Deutschland und Europa bei terre des hommes. »In Ungarn, dem vierten untersuchten Mitgliedsstaat, wurde die Inhaftierung von geflüchteten Minderjährigen nur deswegen beendet, weil Pushbacks den Zugang zu einem Asylverfahren bereits nahezu vollständig verhindern.«

    Die Folgen für Betroffene sind gravierend: Infolge einer Inhaftierung leiden Kinder und Jugendliche häufig an Depressionen, posttraumatischen Belastungsstörungen und Angstzu­ständen. Auch die Erfahrung von Gewalt gegen sie selbst oder Verwandte und Freunde ist für Kinder und Jugendliche traumatisierend und begleitet sie oft ein Leben lang.

    Rückendeckung erhalten die Mitgliedsstaaten dabei von der EU und ihren Institutionen: »Die Europäische Union, allen voran die EU-Kommission, macht sich für die Verletzung von Kinderrechten an den europäischen Außengrenzen mitverantwortlich. Zahlreiche Beispiele dafür finden sich im Bericht: vom europäischen Pilotprojekt zum Grenzschutz in Bulgarien über die EU-Finanzierung haftähnlicher Einrichtungen auf Griechenland bis hin zur Rolle der EU-Agentur FRONTEX,« erklärt Sophia Eckert, rechtspolitische Referentin bei terre des hommes. »Unser Bericht zeigt, dass die europäische Gemeinschaft maßgebliche Einflussmöglichkeiten darauf hat, ob der Schutz, das Wohl und die Rechte geflüchteter Kinder und Jugendlicher in der EU gelten oder einer ausgeklügelten Abschottungspolitik der EU-Mitgliedsstaaten zum Opfer fallen sollen.«

    Mit Blick auf das Treffen der europäischen Innenminister*innen in der kommenden Woche fordert terre des hommes eine Kehrtwende der Reform des Gemeinsamen Europäischen Asylsystems. Dazu Sophia Eckert: »Dass die geplanten Reformvorschläge die im Bericht beschrieben Problemlagen beenden werden, ist illusorisch. Vielmehr ist zu befürchten, dass die Reform die Missstände an den europäischen Außengrenzen weiter verschärft, indem sie den Rechtsverletzungen einen europäischen Rahmen gibt. Wir fordern daher die Entscheidungsträger*innen in der EU auf, diese unsäglichen Reformpläne zu stoppen. Von einem menschenwürdigen europäischen Asylsystem erwarten wir den Zugang zu Asyl statt rechtswidriger Abschiebung, Kindeswohl statt Lagerhaft und faire Asylverfahren statt beschleunigter Grenzverfahren.«

    Pour télécharger le rapport :
    https://www.tdh.de/fileadmin/user_upload/inhalte/04_Was_wir_tun/Themen/Weitere_Themen/Fluechtlingskinder/tdh_Bericht_Kinderrechtsverletzungen-an-EU-Aussengrenzen.pdf

    https://www.tdh.de/was-wir-tun/arbeitsfelder/fluechtlingskinder/meldungen/vor-mauern-und-hinter-gittern-kinderrechte-an-den-eu-aussengrenzen

    #enfants #enfance #frontières #migrations #asile #réfugiés #rapport #terre_des_hommes #enfermement #push-backs #refoulements #Hongrie #Grèce #Bulgarie #Pologne #Balkans #route_des_Balkans #droit_d'asile #traumatisme #santé #santé_mentale

  • #Interpol makes first border arrest using Biometric Hub to ID suspect

    Global database of faces and fingerprints proves its worth.

    European police have for the first time made an arrest after remotely checking Interpol’s trove of biometric data to identify a suspected smuggler.

    The fugitive migrant, we’re told, gave a fake name and phony identification documents at a police check in Sarajevo, Bosnia and Herzegovina, while traveling toward Western Europe. And he probably would have got away with it, too, if it weren’t for you meddling kids Interpol’s Biometric Hub – a recently activated tool that uses French identity and biometrics vendor Idemia’s technology to match people’s biometric data against the multinational policing org’s global fingerprint and facial recognition databases.

    “When the smuggler’s photo was run through the Biometric Hub, it immediately flagged that he was wanted in another European country,” Interpol declared. “He was arrested and is currently awaiting extradition.”

    Interpol introduced the Biometric Hub – aka BioHub – in October, and it is now available to law enforcement in all 196 member countries.

    Neither Interpol nor Idemia immediately responded to The Register’s questions about how the technology and remote access works.

    But Cyril Gout, Interpol’s director of operational support and analysis, offered a canned quote: “The Biometric Hub helps law enforcement officers know right away whether the person in front of them poses a security risk.”

    That suggests Interpol member states’ constabularies can send biometric data to BioHub from the field and receive real-time info about suspects’ identities.

    The multinational policing org has said that Hub’s “biometric core” combines Interpol’s existing fingerprint and facial recognition databases, which both use Idemia tech, with a matching system also based on Idemia’s biometric technology.

    Interpol and Idemia have worked together for years. In 1999, he police organization chose Idemia to develop its fingerprint database, called the Automated Fingerprint Identification System (AFIS). And then in 2016, Interpol inked another contract with Idemia to use the French firm’s facial recognition capabilities for the Interpol Face Recognition System (IFRS).

    According to Idemia, the latest version of its Multibiometric Identification System, MBIS 5, uses “new generation algorithms which provide a higher matching accuracy rate with a shorter response time and a more user-friendly interface.”

    In its first phase, Interpol will use MBIS 5 to identify persons of interest (POIs) for police investigations.

    A second phase, which will take two years to become fully operational, will extend the biometric checks to border control points. During this phase the system will be able to perform up to one million forensic searches per day – including fingerprints, palm prints, and portraits.

    Interpol expects the combined fingerprints and facial recognition system will speed future biometric searches. Instead of running a check against separate biometric databases, BioHub allows police officers to submit data to both through one interface, and it only requires human review if the “quality of the captured biometric data is such that the match falls below a designated threshold.”

    To address data governance concerns, Interpol claims BioHub complies with its data protection framework. Additionally, scans of faces and hands uploaded to the Hub are not added to Interpol’s criminal databases or made visible to other users. Any data that does not result in a match is deleted following the search, we’re told.

    While The Register hasn’t heard of any specific data privacy and security concerns related to BioHub, we’re sure it’s only a matter of time before it’s misused.

    America’s Transportation Security Agency (TSA) over the summer also said it intends to expand its facial recognition program, which also uses Idemia’s tech, to screen air travel passengers to 430 US airports. The TSA wants that capability in place within ten years.

    The TSA announcement was swiftly met with opposition from privacy and civil rights organizations, along with some US senators who took issue [PDF] with the tech.

    https://www.theregister.com/2023/12/01/interpol_biohub_arrest

    #frontières #contrôles_frontaliers #technologie #empreintes_digitales #biométrie #Interpol #migrations #asile #réfugiés #Biometric_Hub #Balkans #route_des_Balkans #Bosnie-Herzégovine #Idemia #reconnaissance_faciale #passeurs #BioHub #extradition #sécurité #risque #interopérabilité #base_de_données #Automated_Fingerprint_Identification_System (#AFIS) #Interpol_Face_Recognition_System (#IFRS) #Multibiometric_Identification_System #MBIS_5 #algorithmes #persons_of_interest (#POIs) #portraits #Transportation_Security_Agency (#TSA)

  • Europe’s Nameless Dead

    As more people try to reach Western Europe through the Balkans, taking increasingly dangerous routes to evade border police, many are dying without a trace

    When hundreds of thousands of refugees crossed through the Balkans in 2015, border controls were limited and there were few fences or walls. The route was largely open.

    After several years of lull, the number of people making this journey recently increased again. Last year saw the highest number of crossings since 2015, predominantly due to ongoing conflicts in Afghanistan and hostile treatment of refugees in Turkey.

    But the Balkan route has changed in the last eight years. With the help of funding from both the EU and the UK, countries in the Balkans have erected fences and built walls. When border police catch people seeking asylum, they often force them back over the border.

    Subsequently, those making the journey often take longer and more dangerous routes in order to evade the police – and the consequences can be deadly; people are freezing to death in forests, drowning in rivers or dying from sheer exhaustion.

    There is no official data on the number of dead and missing migrants in the Balkans. Efforts that have been made to collect data – for example the IOM’s Missing Migrants Project – are based mostly on media reports and are likely to be significantly underestimated.

    With RFE/RL, Der Spiegel, ARD, the i newspaper, Solomon and academics from Aston, Liverpool and Nottingham Universities, we sought to measure the scale of migrant deaths at the borders of a commonly trodden route spanning Bulgaria, Serbia and Bosnia. Crucially, we sought to find out what subsequently happens to the bodies of these people and what their families go through trying to find them.

    We found that the hostility people face at the borders of Europe in life continues into death. State authorities make little to no effort to identify dead migrants or inform their families, while individual doctors, NGO workers and activists do what they can to fill in the gaps. Unidentified bodies end up piled in morgues or buried without a trace.
    METHODS

    It was clear from the outset that it would be impossible to get comprehensive numbers on migrant deaths, given some bodies will never be found, particularly when people have drowned in rivers or died deep in forests.

    In Bulgaria, Serbia and Bosnia, we requested data from police departments, prosecutors’ offices, courts and morgues on how many unidentified bodies they had recorded in recent years. While some provided information, most failed to respond or declined to disclose the data.

    But through this process we managed to obtain data on the number of bodies known or presumed to be migrants received by six morgues near the borders along the Bulgaria-Serbia-Bosnia route. We found 155 such cases across the six facilities since the start of 2022 – the majority (92) dying this year alone.

    By speaking with forensic pathologists in Bulgaria, Serbia and Bosnia, we found that in each of the three countries, the legal protocol is that an autopsy must be performed on all unidentified bodies – but what happens next is less clear. Information on the deceased is fragmented and held across different institutions, with no unified system which proactively seeks to connect them with families looking for them.

    Through interviews with more than a dozen people whose family members had gone missing or died along the route, we learnt that they are left with no idea where to look or who to ask. We found WhatsApp groups and Facebook pages connecting networks of concerned families, desperately sharing photos and information about their lost loved ones. Some NGOs in Bulgaria and Serbia said they are contacted about such cases every day.

    In some cases when families approached Burgas morgue in south-eastern Bulgaria – where we recorded the highest number of migrant bodies – they were told by staff that they could only check the bodies if they paid them cash bribes. This was confirmed by multiple testimonies and NGOs operating in the area.
    STORYLINES

    RFE/RL followed the case of one Syrian father’s search for his son. Husam Adin Bibars, a refugee in Denmark, travelled to Bulgaria after his son, Majd Addin Bibars, went missing there while trying to reach Western Europe.

    After a day and a half of asking different institutions, Bibars was directed to a local police station near the Turkish border – where he was shown a photo of Majd’s lifeless body. He was told he had died of thirst, exhaustion and cold – and that he had been buried four days after his body was found.

    In an interview with ARD, the prosecutor in Yambol, a Bulgarian city close to the Turkish border, near where Majd was buried, said his body was buried after four days in keeping with their procedure of carrying out burials of unidentified migrants “fast” to free up space in the morgue.

    Some 900 kilometres away in Bosnia, iNews spoke to Dr Vidak Simić, a forensic pathologist responsible for performing autopsies on bodies found in the Drina River, which runs along the Serbian border. He said that in 2023 alone, he had examined 28 bodies presumed to be migrants, compared with five last year. The vast majority remain unidentified and are now buried in graves marked ‘NN’ – an abbreviation for a Latin term for a person with no name.

    The doctor is now working with local activist Nihad Suljić to try to help families find their missing loved ones, by checking his autopsy files to see if any unidentified bodies match the description of missing people. But he says a proper system needs to be put in place for this. “[Families] enter a painstaking process, through embassies, burial organisations, to obtain a bone sample, so that they can compare it with one of their family members,” he says.

    https://www.lighthousereports.com/investigation/europes-nameless-dead

    #mourir_aux_frontières #frontières #morts_aux_frontières #migrations #asile #réfugiés #décès #morts #Balkans #route_des_Balkans #visualisation #cartographie

    ping @reka

    • Sie erfrieren in Wäldern, ertrinken in Flüssen

      Europas namenlose Tote: Viele Flüchtende, die auf der Balkanroute sterben, werden nie identifiziert. Angehörige suchen verzweifelt nach Gewissheit – manche müssen sich den Zugang zu Leichenhallen erkaufen. Der SPIEGEL-Report.

      (#paywall)

      https://www.spiegel.de/ausland/vermisste-fluechtlinge-auf-der-balkanroute-europas-namenlose-tote-a-5d0b55a7

    • Namenloser Tod in Bulgarien

      An der türkisch-bulgarischen Grenze endet der Versuch von Migranten, in die EU zu kommen, oft in tödlicher Erschöpfung. Die Behörden begraben die Leichen schnell - ohne Identifizierung. Für die Angehörigen ist das ein weiteres Trauma.

      Das Porträt hängt zwischen den Fenstern im ansonsten schmucklosen Wohnzimmer. Wenn Hussam Adin Bibars es von der Wand nimmt, um es zu zeigen, wirkt es, als würde er eine Bürde tragen.

      Der gut aussehende junge Mann mit den blauen Augen und dem akkurat gestutzten, schwarzen Bart auf dem Foto ist sein Sohn. Das letzte Lebenszeichen von ihm kam im Herbst. Majid hatte sich auf den Weg gemacht, um zu seiner Familie zu ziehen. Sein Vater war bereits im Jahr 2015 aus Syrien geflohen und lebt heute in Dänemark.

      Um seinen Plan in die Tat umzusetzen, musste Majid über die berüchtigte Balkanroute, die in den vergangenen Jahren immer gefährlicher geworden ist. Die Außengrenzen werden strenger bewacht, Geflüchtete und ihre Schleuser wählen längere und gefährlichere Routen, um ein Aufeinandertreffen mit der Polizei zu vermeiden.

      Verloren im „Dreieck des Todes“

      Der Weg führt an der türkisch-bulgarischen Grenze durch dichte, endlose Wälder. „Dreieck des Todes“ nennen sie das Gebiet hier, weil dort besonders viele tote Körper gefunden wurden. Immer wieder verirren sich Flüchtlinge, sterben an Dehydrierung und Erschöpfung.

      Oft sind es Mitarbeiter von NGOs wie Diana Dimova, die die Toten finden. Vergangenes Jahr hätten sie zehn bis zwölf Notrufe erreicht, erzählt sie, dieses Jahr habe sie schon nicht mehr zählen können, es seien aber auf jeden Fall mehr als 70 gewesen.

      Nach Recherchen des ARD-Studios Wien in Kooperation mit Lighthouse Reports, dem Spiegel, RFE/RL, Solomon und inews starben allein in den vergangenen zwei Jahren mindestens 93 Menschen auf ihrem Weg durch Bulgarien.

      Dem Rechercheteam liegen zahlreiche Videos und Fotos Geflüchteter vor. Sie stehen neben ihren sterbenden Weggefährten, betten sie auf Jacken, versuchen sie zuzudecken und müssen sie schließlich auf dem Waldboden zurücklassen, der starre Blick eingefangen auf einem wackeligen Handyvideo.

      Wer zu schwach ist, wird zurückgelassen

      Hussam Adin Bibars erfährt, dass auch Majid nicht genug zu trinken hat. Er wird immer schwächer, berichtet von Bauchkrämpfen und kann nicht mehr weiterlaufen. Sein Vater macht sich Sorgen, versucht, mit dem Schleuser in Kontakt zu kommen.

      Der Schmuggler sagte, dass sich der Gesundheitszustand von Majid verschlechtert habe. Sie hätten ihn im Wald zurückgelassen. Ich habe versucht, ihm zu erklären, dass Majid ein Mensch ist und man ihn in so einem Zustand nicht einfach im Wald zurücklassen kann. Ich habe den Schmuggler gebeten, Majid an die nächstmögliche Behörde zu übergeben.

      Verzweifelte Suche in Bulgarien

      Als der Kontakt abbricht, macht Hussam sich auf eigene Faust auf die Suche. Er reist nach Bulgarien, klappert Krankenhäuser ab, schließlich auch Leichenhallen.

      In der Gerichtsmedizin in Yambol, einer Stadt im Südosten des Landes, findet er eine erste Spur, die ihn zu seinem Sohn führen könnte. Ein Körper, der zu seiner Beschreibung passt, sei dort gewesen, erzählt man ihm.

      Auf der Polizeistation zeigt man ihm schließlich Fotos, man habe den Leichnam auf einem Feld gefunden.

      Was bleibt: eine Grabnummer

      Hussam will seinen Sohn sehen und identifizieren, doch der Leichnam ist bereits weg. Die Polizei hat nur noch die Nummer eines Grabes für ihn. Für den Vater ist diese Nachricht kaum zu ertragen:

      Ich wünschte, ich hätte wenigstens die Chance, Majid ein letztes Mal zu sehen, aber bis heute bin ich mir über seinen Tod absolut unsicher. Ich habe zwar Fotos von ihm gesehen und sein Telefon erhalten, aber ich habe ihn nicht mit eigenen Augen gesehen, so dass mein Verstand immer noch nicht glauben kann, dass die Person in diesem Grab mein Sohn ist.

      Die Begründung der Staatsanwaltschaft

      Bevor der Körper überhaupt identifiziert werden konnte, hatte der Staatsanwalt ihn bereits zur Beerdigung freigegeben. Nach nur vier Tagen. Milen Bozidarov, einer der zuständigen Staatsanwälte für die Region verweist im Interview mit der ARD auf hygienische Gründe.

      Die Leichenhallen seien voll, jeder sei zur Eile angehalten. Wenn man davon ausgehen könne, die tote Person sei ein Migrant und die Angehörigen weit weg, dann gebe es keine sinnvollen Gründe, den Körper weiterhin aufzubewahren.

      Doch Majids Vater wollte seinen Sohn finden, die weite Anreise aus Dänemark hinderte ihn nicht an der Suche. 22 Tage nach seinem Tod war er in Bulgarien vor Ort. Da war es jedoch längst zu spät.

      Das einzige, was er noch besuchen konnte, war ein Erdhaufen auf einem Friedhof inmitten anderer namenloser Gräber.

      „Man will keine Aufmerksamkeit“

      Scharfe Kritik an dieser Praxis des schnellen Begrabens kommt von Anwalt Dragomir Oshavkov aus Burgas. Eigentlich dürfe es keinen Unterschied machen, ob der Tote ein Bulgare oder ein Migrant sei.

      Die Behörden hätten bei Migranten jedoch kein Interesse daran, die wahre Todesursache und die Identität herauszufinden, erzählt er. Man wolle den Prozess einfach schnell und möglichst bequem abschließen.

      Ein Verhalten, das für die EU unwürdig ist. So sieht es Erik Marquardt, der für die Grünen im Europaparlament sitzt und die Migrationspolitik der letzten Jahre genau verfolgt.

      Wenn man nach wenigen Tagen, ohne die Todesursache genau zu ermitteln, Menschen einfach verscharrt und sich nicht um die Angehörigen kümmert, dann will man offenbar nicht, dass die Aufmerksamkeit auf diese Fälle kommt.

      Marquardt bringt die Einführung einer EU-Datenbank ins Spiel und eine Verpflichtung der Mitgliedstaaten, bei der Auffindung von Verwandten mitzuwirken.

      Ein Kind ohne Vater

      Für viele Menschen ist der Weg über die Balkanroute inzwischen tödlich - und endet in einem namenlosen Grab. Auch für Majid.

      Wenige Tage nach seinem Tod kommt Majids Tochter zur Welt. Hussam, der Großvater, zeigt ein Video, auf dem die Kleine unter einer weiß-blauen Samtmütze hervor blinzelt. Sie wird bei ihrer Mutter aufwachsen.

      Wo und wie ihr Vater genau gestorben ist, wird sie niemals erfahren.

      https://www.tagesschau.de/multimedia/audio/audio-177358.html

      https://www.tagesschau.de/ausland/europa/bulgarien-migranten-todesfaelle-100.html

      #Bulgarie #Turquie

    • "Ничии тела". Как стотици хора загинаха в бягството си през България

      През България минава път, който не е на картата и е все по-смъртоносен. По него вървят мигрантите, тръгнали за Западна Европа. Някои умират по пътя. После близките им ги търсят сред хаос и корупция. Разследване на Свободна Европа, Lighthouse Reports, The I Newspaper, Solomon, Der Spiegel и ARD.

      “Това е синът ми!”, възкликва със стегнат в гърлото глас 53-годишният сириец от Алепо Хусам Ал-Дийн Бибарс. Дежурният полицай в Елхово му показва снимка на очевидно мъртъв млад мъж със сиво-черни дрехи. На снимката той лежи в пръстта в землището на село Мелница, Ямболска област.

      Само ден по-рано бащата е пристигнал в България от Дания, където живее, с надеждата да открие безследно изчезналия си син Мажд, на 27 години. Екипът ни съпровожда бащата в това търсене.

      Още 22 дни по-рано Мажд е преминал нелегално българо-турската граница с група, водена от трафиканти. Платил е 7000 евро на каналджиите, за да достигне до заветната дестинация - Германия, където мечтае да се установи с жена си и малката си дъщеря.

      Хусам е чул сина си за последен път ден преди началото на фаталното пътуване. “Как си татко, добре ли си със здравето?” - пита Мажд.
      Хусам и снимката

      “На първата снимка не беше той. На втората обаче беше. Когато го видях, се сринах на земята”, каза бащата. От полицията му обясняват, че синът му е починал от преумора и че по тялото му няма следи от насилие.

      Първоначалната мисъл на Хусам Бибарс е да вземе тялото на Мажд и да го погребе у дома, в Сирия или в Турция, при семейството му. Тази надежда бързо бива попарена. Разбираме, че младият мъж вече е погребан служебно в безименен гроб в Елхово с постановление на окръжен прокурор от Ямбол. Документът е издаден едва 4 дни след като тракторист случайно е намерил тялото му и звъни в полицията.

      “Слушаме, че Европа е земя на свобода, демокрация и човешки права. Но къде са човешките права в това да не мога да видя сина си преди да бъде погребан? Видях единствено гроба му, снимките и телефона му. Това е всичко, което имам от него”, казва бащата.
      Един от стотици загинали

      Мажд Бибарс е един от стотиците бежанци от Близкия изток, изгубили живота си в последните години, докато минават по т.нар. Балкански маршрут в опит да намерят закрила в Европа.

      По данни на европейската гранична агенция Frontex, през 2022 г. броят на опитите за преминаване на европейските граници достига до пиковите равнища от 2016 г., като почти половината от тях, или 145 000 души, са минали именно през Югоизточна Европа.

      Обикновено смъртта по европейските граници се свързва с трагичните корабокрушения по бреговете на Средиземно море. Но различни доклади, като проекта Missing Migrants на Международната организация по миграция показват, че сухопътният маршрут през Балканите става все по-опасен.

      В продължение на повече от седем месеца екип от журналисти на Lighthouse reports, Der Spiegel, ARD, Свободна Европа и Inews проследи и документира десетки случаи на мигранти, безследно изчезнали или изгубили живота си в опит да преминат през три държави от т.нар. Балкански маршрут - България, Сърбия и Босна и Херцеговина.

      За семействата им процесът по издирване се оказва истински кошмар. Ако се окаже, че мигрантът е загинал, те трябва да идентифицират и евентуално да репатрират тялото му, или да го погребат в България.

      Само че на национално и на международно ниво няма нито единен, нито адекватен отговор на техните въпроси. Независимо от разрастващия се мащаб на проблема, роднините на загинали и изчезнали мигранти се сблъскват с липса на информация, незаинтересованост и тромави административни процедури. А ако действието се развива в България - и с корупция в бургаската морга, където се озовава най-големият брой от телата за загиналите.
      “Лавинообразен” ръст на изчезналите и загиналите

      “Често се случва да получа обаждане в полунощ от човек (...), който, на развален английски директно ме пита: Можете ли да намерите брат ми?”, разказва Калинка Янкова от Службата за възстановяване на семейни връзки към Българския червен кръст.

      “Най-много ни мотивира това да намираме хората живи. Но напоследък рядко имаме този късмет”, допълва тя.

      Янкова и екипът й разполагат с 631 сигнала за предполагаемо загинали през тази година и още стотици молби за издирване на изчезнали мигранти, подадени от роднините им. Към момента имат установени около 20 смъртни случая, в които са съдействали на семействата за идентифициране на починалите им близки. Сред тях има и деца.

      “Всичко започна през септември миналата година и оттогава случаите нараснаха лавинообразно”, казва Янкова.

      Думите й се потвърждават и от данните на правозащитната организация Фондация “Достъп до права”, или ФАР, която само за месеците септември и октомври 2023 г. е получила на своя спешен телефон 70 сигнала за изчезнали на територията на страната мигранти. За трима от тях по-късно разбират, че са починали в горите около град Средец.

      “В около 95 процента от случаите това са роднини, които се свързват с нас, посочвайки България, като държава, в която те за последен път са се чули с лицето”, казаха от ФАР.

      В останалите около 5 процента лично трафикантите подават сигнали за бедстващи хора, но това се случва часове след като човекът е бил изоставен, за да се избегне рискът от това служители на гранична полиция да задържат групата или да я върнат в Турция - практика, за която ви разказахме в последните ни разследвания. Основните места, където се намират лицата, са в горите около Средец и планината “Странджа” - район, печално известен още от времето на комунистическите гранични войски като“триъгълника на смъртта”.

      Но реално черната статистика е доста по-голяма. Само за периода 2022-2023 г. в моргата към УМБАЛ Бургас, която е и най-натоварената заради близостта си до турската граница, са съхранявани общо 54 тела на мигранти. 31 от тях са намерени от началото на тази година. Проверките ни в граничните райони до Турция и Сърбия установиха поне 93 смъртни случаи с мигранти на територията на страната за последните две години.

      Екипът ни документира други 62 случая от Сърбия и Босна и Херцеговина за същия период, с което трагичните инциденти по тази част от Балканския маршрут, установени само в рамките на това разследване, достигнаха 155.

      В местните медии темата е сведена до сензационни заглавия от типа на “Моргата в Бургас се препълни” или “Странджа е осеяна с трупове”. Ние решихме да проследим историите зад числата, причините за големия брой трагични инциденти и начините, по които институциите се справят с тях.
      В търсене на изчезналите роднини

      Мохамад Мудасир Арианпур е гордостта на семейството си. Служи в афганистанската армия, докато талибаните не вземат отново властта през 2021 г. Това прави живота му у дома невъзможен.

      На 21 септември 2022 г. Мохамад прекосява турско-българската граница с група от 26 други мигранти, водени от двама трафиканти. На 25 септември младият мъж губи сили и не може да продължи пътя през горите на Странджа. Негови приятели виждат, че се намират близо до село и му оставят две бутилки с вода с надеждата, че скоро ще бъде намерен и предаден на българските власти.

      Оттогава никой няма връзка с него.

      В следващите месеци негови роднини, живеещи в Западна Европа, посещават България няколко пъти, обикалят полицейски управления, бежански центрове, болници и морги, но опитите им да го открият не се увенчават с успех.

      Отчаяното търсене ги среща и с други семейства, сполетени от същата съдба. Сестра му Фатме Арианпур решава да създаде Whatsapp група, в която всички си помагат и обменят информация.

      “Намерихме се в различни групи във Фейсбук и разбрахме, че сме толкова много хора в една и съща ситуация”, разказва Фатме. “Надявам се, че като говорим за тези неща, ще успеем да променим нещо. Независимо дали са живи или мъртви, хората имат права”, допълва тя.

      Именно в създадената от нея група, както и в други подобни срещнахме основния герой на историята ни - Хусам Бибарс, както и други семейства, с които разговаряхме.

      Поне четирима от интервюираните ни казаха, че при посещенията си в моргата в УМБАЛ Бургас са плащали на служители на лечебното заведение, за да видят дали близките им не са сред съхраняваните там тела.

      Сумите, за които чухме, варираха между 50 лева и 200 евро на посещение.

      “В крайна сметка всички просто искат пари”, обобщи опита си Али, афганистански бежанец. Той прекарва месеци в България, опитвайки се да погребе 16-годишния си брат, като общо разходите му възлизат на над 8000 евро.
      50 лева

      Оплакванията от корупционни практики с тела на мигранти в моргата в Бургас не са нищо ново за работещите в правозащитния сектор.

      “Получавали сме информация и сигнали, че от семейства, открили мъртъв човек там, са били искани големи суми за потвърждение, че тялото е там, и за освобождаването му. Оплакват се, че са им били искани пари на всяка стъпка от процеса”, казва Георги Войнов, адвокат в бежанско-мигрантската служба на Българския хелзинкски комитет.

      За Калинка Янкова от БЧК новината за подобни форми на изнудване идва от близки на загинал афганистанец, които й споделят, че са платили над 100 евро, за да видят тялото на своя близък.

      “Бях извън себе си от възмущение.(...) Когато споделих с един колега, той ми каза: добре дошла в клуба”, добавя тя.

      Аудиофайл, с който екипът ни разполага, е и първото категорично потвърждение на тези твърдения. В него ясно се чува как служител на моргата в Бургас иска общо 100 лева от семейство, търсещо свой близък, заради това, че му е показал тела на починали мигранти в камерата.

      “Две по 50. Двама човека сме. Още едно 50”, инструктира той роднините, преди да ги насочи към процедура по разпознаване чрез ДНК.

      От УМБАЛ Бургас обясниха, че в лечебното заведение не е постъпвал нито един сигнал или жалба за подобни практики и обясниха, че идентификацията на телата се извършва само и единствено в присъствието на разследващ полицай и съдебен лекар.

      “Огромна част от телата са в състояние на напреднало разложение и е невъзможно да бъдат разпознати без ДНК експертиза, дори и да бъдат показани”, уточниха от болницата.

      “Апелираме подобни сигнали и оплаквания, да бъдат адресирани по официалния ред към нас и към разследващите органи. Ако се установи, че има подобни практики, служителите ще понесат съответната отговорност”, посочи още управлението на МБАЛ Бургас.
      “Ничии тела”

      В българския НПК процедурите по идентифициране на случайно намерени тела са едни и същи, независимо дали казусът засяга български или чужд гражданин. В подобни случаи прокуратурата започва досъдебно производство, което има две цели: да идентифицира лицето и да установи причината за смъртта. На жертвите се взема ДНК, което се съхранява, ако евентуално в бъдеще се появят близки, които искат да извършат разпознаване.

      Съвпадението на ДНК е задължително за освобождаване на тела от моргите или за евентуална ексхумация, което отнема около 3 месеца и допълнително усложнява процеса по репатриране на починалите. Към момента Хусам Бибарс вече над месец очаква резултатите от ДНК тест, за да може да получи важни документи за семейството на починалия си син.

      В случай, че самоличността на лицето не може да бъде установена и няма данни за насилствено причинена смърт, наблюдаващият прокурор може да издаде постановление за извършване на служебно погребение, което е в правомощията на съответната община.

      Чрез запитвания по Закона за достъп до обществена информация разбрахме, че през последните 4 години общините Бургас, Средец и Ямбол са извършили общо 14 служебни погребения, като основната част - 10, са били в Бургас.

      Тези данни се отнасят за всички неидентифицирани тела, но посещения на гробищните паркове ни дават основание да смятаме, че в болшинството от случаите става дума за мигранти. За сравнение, от най-голямата община в страната, столичната, в същия период не е извършено нито едно служебно погребение, разпоредено от прокурор.

      Остава отворен и въпросът защо от моргата в Бургас редовно идват оплаквания, че е препълнена с тела на неидентифицирани мигранти, някои от които престояват там с години, а случаи като този на Мажд Бибарс биват приключени за четири дни, повдигайки сериозни съмнения, че изобщо са били правени опити тялото да бъде идентифицирано.

      В отговор на наше запитване от Главната прокуратура ни увериха, че на централно ниво няма решение за по-бързо освобождаване на тела и това “не е възможно, тъй като наблюдаващите прокурори следва стриктно да спазват нормите на НПК”.

      “Ако близките не пожелаят да получат тялото и изрично заявят това, тогава се пристъпва към служебно погребение. Същото се налага да се извърши и когато не бъде установена самоличността на починалия – при обективно положени изчерпателни усилия за това или при случаи, когато се изясни, че починалият няма близки и роднини”, посочват прокурорите. Те подчертават, че при случаите с български граждани се действа по същия начин.

      Но Милен Божидаров, който е прокурор в Ямболската районна прокуратура, признава, че стремежът в неговия район е случаите да се приключват бързо.

      “Това е въпрос на организация на процеса, всички ние целим бързина”, заяви той.

      По думите на прокурора, при “обичайни обстоятелства” роднините на загинали се търсят и обикновено се установяват още в деня на смъртта.

      Но очевидно случаите с телата на мигранти не попадат в обичайната хипотеза.

      “Когато ние имаме неидентифициран труп, за който няма обяснение [за самоличността], освен, че е [ясно, че е] бежанец, и се предполага, че роднините му са някъде по света и не са се свързали с нас в този, предходния или по-предходния ден, няма обективни причини, които да налагат съхранението на този труп”, обясни той.

      “Представете си, че този баща не се беше появил - ние така или иначе нямаше да стигнем до някакъв резултат и трупът не може да стои безкрайно в камера в някое от здравните заведения”, допълни прокурорът.

      Но според адвокат Драгомир Ошавков, който работи с фондация ФАР в Бургас, в огромния процент от случаите с мигранти органите на досъдебното производство и прокуратурата просто нямат интерес от това да вършат подробни изследвания и да установяват реално причините за смъртта и самоличността.

      “Те бързат да приключат по най-бързия и удобен за тях начин това досъдебно производство”, категочен е той.

      “Това са едни ничии хора, ничии тела. Мигранти, които не представляват голям обществен интерес. Те не са желани в България, не са желани вероятно и в Западна Европа. Вероятно затова те са считани по-скоро като тежест за системата, вместо като случаи, които трябва да бъдат разрешени”, смята юристът.

      https://www.svobodnaevropa.bg/a/migranti-zaginali-bejanci/32708468.html

    • Νεκροί πρόσφυγες στα Βαλκάνια : « Λάδωσε » για να βρεις τον άνθρωπό σου

      Στη βαλκανική οδό πεθαίνουν περισσότεροι αιτούντες άσυλο ακόμα και από το 2015. Ενώ οι συγγενείς καλούνται να αντιμετωπίσουν την κρατική αδιαφορία για την ταυτοποίηση των ανθρώπων τους, αναγκάζονται και να πληρώσουν εκατοντάδες ευρώ απλώς για να τους αναζητήσουν.

      Ήλπιζε πως θα έβρισκε τον γιο του σε κάποιον προσφυγικό καταυλισμό. Και αφού είχε περάσει τρεις εβδομάδες αναζητώντας τον, είχε προετοιμαστεί για το ενδεχόμενο να τον εντοπίσει σε κάποιο νοσοκομείο.

      Αλλά δεν περίμενε να τον βρει στο νεκροταφείο.

      Όταν ο αστυνομικός με το βουλγαρικό εθνόσημο του έδειξε τη φωτογραφία του γιου του, να κείτεται δίχως ζωή στο γρασίδι, έχασε τη γη κάτω απ’ τα πόδια του. « Εύχομαι τουλάχιστον να είχα τη δυνατότητα να δω τον Μαχίντ μια τελευταία φορά. Το μυαλό μου ακόμη και σήμερα δεν μπορεί να πιστέψει πως ο άνθρωπος σε αυτόν τον τάφο είναι ο γιος μου », λέει ο Χουσάμ Αντίν Μπίμπαρς.

      Ο 56χρονος Σύριος πρόσφυγας, πατέρας πέντε ακόμη παιδιών, είχε συμπληρώσει 22 ημέρες αναζητώντας από απόσταση τον γιο του, όταν αποφάσισε να ξοδέψει τα λιγοστά του χρήματα για να ταξιδέψει από τη Δανία στη Βουλγαρία και να ψάξει για εκείνον — αλλά ήταν πια αργά.

      Στη Βουλγαρία, έμαθε πως το σώμα του 27χρονου Μαχίντ είχε ταφεί μέσα σε μόλις τέσσερις ημέρες από τον εντοπισμό του. Ο Μαχίντ είχε ταφεί ως αγνώστων στοιχείων, τίποτα δεν ενημέρωνε πως κάτω από εκείνον τον σωρό με χώμα που αργότερα επισκέφθηκε βρισκόταν ο γιος του.

      « Ακούμε πως η Ευρώπη είναι η γη της ελευθερίας, της δημοκρατίας, και των ανθρωπίνων δικαιωμάτων », λέει νηφάλια ο Χουσάμ Αντίν Μπίμπαρς. « Που είναι τα ανθρώπινα δικαιώματα, εάν δεν έχω τη δυνατότητα να δω τον γιο μου πριν την ταφή του ; ».

      Νεκροί δίχως ταυτότητα

      Ο Μαχίντ είχε περάσει από την Τουρκία στη Βουλγαρία με ένα γκρουπ περίπου 20 ακόμη ατόμων, ελπίζοντας να συναντήσει και πάλι τους γονείς και τα αδέρφια του στην Ευρώπη. Αφού έφτανε εκείνος, η έγκυος γυναίκα του και η κόρη τους, Χάνα, θα μπορούσαν να ακολουθήσουν.

      Προς τα τέλη Σεπτεμβρίου, σταμάτησε να απαντάει σε κλήσεις και μηνύματα. Ο διακινητής είπε στον Μπίμπαρς ότι ο Μαχίντ είχε αρρωστήσει και είχε χρειαστεί να τον αφήσουν πίσω. Οι Αρχές είπαν ότι ο γιος του πέθανε από τη δείψα, την εξάντληση, και το κρύο.

      Τα τελευταία χρόνια, με κοινοτικά χρήματα και αυξημένη συμμετοχή του ευρωπαϊκού οργανισμού συνοριοφυλακής Frontex, οι βαλκανικές χώρες εντείνουν ολοένα τους συνοριακούς ελέγχους, αναπτύσσοντας φράχτες, drones, και μηχανισμούς επιτήρησης. Αλλά αυτό δεν αποτρέπει τους αιτούντες άσυλο — τους οδηγεί σε μεγαλύτερες και περισσότερο επικίνδυνες διόδους για να αποφύγουν τις Αρχές.

      Μια έρευνα του Solomon σε συνεργασία με την ερευνητική ομάδα Lighthouse Reports, το γερμανικό περιοδικό Der Spiegel, τη γερμανική δημόσια τηλεόραση ARD, τη βρετανική εφημίδα i, το Radio Free Europe / Radio Liberty, και ακαδημαϊκούς από τα πανεπιστήμια Aston, Liverpool, και Nottingham, αποτυπώνει πως η εχθρότητα που αντιμετωπίζουν στα σύνορα της Ευρώπης οι άνθρωποι σε κίνηση όσο ζουν συνεχίζεται και στο θάνατο.

      Διαπιστώσαμε πως, από τις αρχές του 2022 έως σήμερα, τα άψυχα σώματα 155 ανθρώπων που πιθανολογείται ότι ήταν αιτούντες άσυλο κατέληξαν σε νεκροτομεία κοντά στα σύνορα κατά μήκος μιας διαδρομής που εκτείνεται ανάμεσα στη Βουλγαρία, τη Σερβία, και τη Βοσνία.

      Από την εξέταση των στοιχείων, για το 2023 προκύπτει ήδη μια αύξηση των θανάτων κατά 46% σε σύγκριση με ολόκληρο το 2022.

      Στα Βαλκάνια, οι αιτούντες άσυλο καλούνται να αντιμετωπίσουν τις δύσκολες καιρικές συνθήκες, αλλά και τις επαναπροωθήσεις, την αυξημένη βιαιότητα συνοριοφυλάκων και διακινητών, την καταλήστευση από συνοριακές δυνάμεις — έως και την κράτησή τους σε μυστικές « φυλακές ».

      Οι οικογένειες των ανθρώπων που πεθαίνουν, ή καθίστανται αγνοούμενοι στην περιοχή, αναζητούν τους δικούς τους σε νεκροτομεία, νοσοκομεία, και ειδικά γκρουπ σε Facebook και WhatsApp. Καλούνται να ανταπεξέλθουν σε μια εξίσου ψυχοφθόρα προσπάθεια, και να αντιμετωπίσουν την αδιαφορία των Αρχών.

      Στη Βουλγαρία, όπως τεκμηριώνει η παρούσα έρευνα, συχνά χρειάζεται και να « λαδώσουν » στην ελπίδα να μάθουν περισσότερα για τους δικούς τους.
      Τα 10 βασικά ευρήματα της έρευνας :

      1. Ο αριθμός όσων ταξίδεψαν παράτυπα μέσω Βαλκανίων για τη δυτική Ευρώπη το 2022 έφτασε στο ανώτατο σημείο από το 2015, με την Frontex να καταγράφει 144.118 παράτυπες διελεύσεις συνόρων.

      2. Ο αντίστοιχος αριθμός για το 2023 είναι μικρότερος (79.609 έως τον Σεπτέμβριο), αλλά παραμένει πολλαπλάσιος σε σχέση με το 2019 (15.127) και το 2018 (5.844).

      3. Η βαλκανική οδός είναι πιο επικίνδυνη από ποτέ : ελλείψει ενός κεντρικού σχετικού συστήματος καταγραφής, η πλατφόρμα Missing Migrants του Διεθνούς Οργανισμού Μετανάστευσης (ΔΟΜ) υποδεικνύει ότι το 2022 έχασαν τη ζωή τους ή κατέστησαν αγνοούμενοι περισσότεροι άνθρωποι ακόμη και από το 2015.

      4. Σύμφωνα με στοιχεία που συγκεντρώσαμε, τουλάχιστον 155 αταυτοποίητα πτώματα κατέληξαν σε έξι νεκροτομεία ενός τμήματος της βαλκανικής οδού, που περιλαμβάνει Βουλγαρία, Σερβία, και Βοσνία. Η πλειοψηφία των πτωμάτων (92) εντοπίστηκαν φέτος.

      5. Για το 2023, ο αριθμός εμφανίζει ήδη αύξηση κατά 46% σε σχέση με το 2022, και εκτοξεύεται σε ορισμένα νεκροτομεία.

      6. Κάποια νεκροτομεία της Βουλγαρίας (Μπουργκάς, Γιάμπολ) δυσκολεύονται να βρουν χώρο για τα σώματα των προσφύγων. Άλλα στη Σερβία (Λόζνιτσα) δεν διαθέτουν καθόλου χώρο.

      7. Η έλλειψη χώρου οδηγεί στην ταφή αταυτοποίητων σωμάτων εντός ημερών, σε τάφους αγνώστων στοιχείων. Αυτό σημαίνει πως καθίσταται πρακτικά αδύνατο για τις οικογένειες να μπορέσουν να ταυτοποιήσουν τους δικούς τους.

      8. Στη Βουλγαρία, οικογένειες μας είπαν πως αναγκάστηκαν να « λαδώσουν » εργαζομένους σε νοσοκομεία και νεκροτομεία, αλλά και συνοριοφύλακες, αναζητώντας τους ανθρώπους τους. Πηγές στο πεδίο επιβεβαιώνουν την πρακτική, η οποία καταγράφεται και σε ηχητικό αρχείο στην κατοχή μας.

      9. Στη Βοσνία, 28 άνθρωποι που εκτιμάται πως ήταν αιτούντες άσυλο έχουν ήδη χάσει τη ζωή τους στον ποταμό Ντρίνα φέτος, σε σύγκριση με μόλις πέντε το 2022 και τρεις το 2021.

      10. Γραφειοκρατία και έλλειψη κρατικού ενδιαφέροντος καταγράφεται πως δυσχεραίνουν τις προσπάθειες ταυτοποίησης νεκρών αιτούντων άσυλο.

      Νεκρός αλλά δεν ξέρει γιατί

      Τι κάνεις όταν ο μικρός σου αδερφός σου αγνοείται, και το δικό σου καθεστώς απαγορεύει να βρεθείς στο πεδίο για να τον αναζητήσεις ;

      Ο 29χρονος Ασματουλά Σεντίκι βρισκόταν στη δομή φιλοξενίας στο Γουόρινγκτον του Ηνωμένου Βασιλείου, όπου έχει αιτηθεί άσυλο, όταν συνταξιδιώτες του αδερφού του τον ενημέρωσαν πως ο 22χρονος Ραχματουλά πιθανόν να ήταν νεκρός.

      Λόγω του καθεστώτους του ως αιτούντα άσυλο, το Home Office δεν επέτρεψε στον Ασματουλά να επιστρέψει στη Βουλγαρία, την οποία είχε διασχίσει και ο ίδιος κατά το δικό του ταξίδι, για να αναζητήσει τον αδερφό του.

      Όταν ένας φίλος κατέστη δυνατό να πάει για λογαριασμό του, η βουλγαρική αστυνομία αρνήθηκε να δώσει οποιαδήποτε πληροφορία. Και το προσωπικό του νεκροτομείου ζήτησε 300 ευρώ για τον αφήσει να δει ορισμένα πτώματα, είπε ο Σεντίκι στα πλαίσια της παρούσας έρευνας.

      « Σε μια τέτοια κατάσταση, ο άνθρωπος πρέπει να βοηθάει τον άνθρωπο », πρόσθεσε. « Ξέρουν μόνο τα χρήματα. Δεν τους ενδιαφέρει η ανθρώπινη ζωή ».

      Κατάφερε να δανειστεί το ποσό που του ζήτησαν. Τον Ιούλιο του 2022, 55 ημέρες μετά την εξαφάνισή του αδερφού του, το νοσοκομείο του Μπουργκάς επιβεβαίωσε ότι ένα από τα σώματα στο νεκροτομείο ανήκε σε κείνον. Με ακόμη 3.000 ευρώ που δανείστηκε, μπόρεσε να επαναπατρίσει τον αδελφό του στους γονείς τους στο Αφγανιστάν.

      Αλλά έως και σήμερα, τον Ασματουλά κατατρώει μια σκέψη : δεν γνωρίζει πώς, δεν τον έχει ενημερώσει κανείς γιατί, πέθανε ο αδερφός του.

      Οι βουλγαρικές Αρχές δεν του έχουν δώσει τα αποτελέσματα της νεκροψίας, επειδή δεν έχει βίζα για να ταξιδέψει εκεί, λέει. « Είμαι σίγουρος ότι, όταν η αστυνομία τον βρήκε στο δάσος, θα τράβηξε κάποιες φωτογραφίες. Θέλω να δω πώς έμοιαζε τότε το σώμα του ».
      « Ούτε μια καταγγελία »

      Στα πλαίσια της παρούσας έρευνας των Solomon, Lighthouse Reports, RFE/RL, inews, ARD, και Der Spiegel, αρκετοί συγγενείς μας είπαν πως είχαν επίσης αναγκαστεί να « λαδώσουν » εργαζομένους στο νεκροτομείο του Μπουργκάς, προκειμένου να μπορέσουν να διαπιστώσουν εάν ανάμεσα στα νεκρά σώματα στους ψύκτες βρίσκονταν οι δικοί τους.

      Όταν ρωτήσαμε τη διοίκηση του νοσοκομείου εάν τέτοιου είδους πρακτικές ήταν σε γνώση της, η επικεφαλής του τμήματος ιατροδικαστικής του νοσοκομείου Μπουργκάς, Γκαλίνα Μίλεβα, είπε πως δεν έχει λάβει « ούτε μία αναφορά ή καταγγελία για κάποια τέτοια περίπτωση ».

      « Η ταυτοποίηση των πτωμάτων πραγματοποιείται αποκλειστικά και μόνο παρουσία αστυνομικού που διεξάγει την έρευνα και ιατροδικαστή », υποστήριξε. Απαντώντας σε σχετική ερώτηση, συμπλήρωσε πως δεν υπάρχει καμία νομική πρόβλεψη, με βάση την οποία εργαζόμενοι στο νεκροτομείο θα μπορούσαν να ζητήσουν χρήματα από τους συγγενείς γι’ αυτή τη διαδικασία.

      « Απευθύνουμε έκκληση αυτές οι καταγγελίες να απευθύνονται μέσω της επίσημης οδού σε εμάς και στις ανακριτικές αρχές. Εάν διαπιστωθεί η ύπαρξη τέτοιων πρακτικών, οι εργαζόμενοι θα λογοδοτήσουν », είπε.
      « Ζητούνται χρήματα σε κάθε βήμα της διαδικασίας »

      Άλλος συγγενής, η οικογένεια του οποίου στα τέλη του 2022 χρειάστηκε επίσης να μεταβεί στη Βουλγαρία για να αναζητήσει μέλος της, μας είπε πως αφού έδωσαν δίχως επιτυχία 300 ευρώ σε κάποιον στο νεκροτομείο για να τους επιτραπεί να κοιτάξουν τα νεκρά σώματα, χρειάστηκε να πληρώσουν και συνοριοφύλακες.

      Ήταν ο μόνος τρόπος να τους πάρουν στα σοβαρά, εξήγησε.

      Όταν ζήτησαν από τους συνοριοφύλακες να τους δείξουν φωτογραφίες ανθρώπων σε κίνηση που είχαν εντοπιστεί νεκροί, εκείνοι τους είπαν πως δεν είχαν χρόνο — όταν δέχθηκαν να τους δώσουν 20 ευρώ για κάθε φωτογραφία που θα τους έδειχναν, ο χρόνος βρέθηκε.

      Ο Γκεόργκι Βόινοφ, δικηγόρος του προγράμματος για πρόσφυγες και μετανάστες της Βουλγαρικής Επιτροπής του Ελσίνκι, επιβεβαίωσε πως οικογένειες θανόντων έχουν απευθυνθεί στην οργάνωση για περιπτώσεις στις οποίες νοσοκομεία ζήτησαν μεγάλα ποσά για να επιβεβαιώσουν πως τα σώματα των δικών τους βρίσκονταν εκεί.

      « Καταγγέλλουν ότι τους ζητούνται χρήματα σε κάθε βήμα της διαδικασίας », είπε.

      Πηγές από διεθνείς οργανισμούς, μεταξύ αυτών και από τον Ερυθρό Σταυρό Βουλγαρίας, επιβεβαίωσαν πως είχαν συναφή εμπειρία από συγγενείς τους οποίους είχαν υποστηρίξει, και οι οποίοι είχαν επίσης αναγκαστεί να καταβάλουν χρήματα σε νεκροτομεία και νοσοκομεία.

      « Καταλαβαίνουμε ότι αυτοί οι άνθρωποι είναι πολύ καταβεβλημένοι και πρέπει να πληρώνονται επιπλέον για όλη αυτή την επιπλέον δουλειά που κάνουν », σχολίασε στέλεχος του Ερυθρού Σταυρού Βουλγαρίας που μίλησε στην έρευνα υπό τον όρο ανωνυμίας.

      « Αλλά ας συμβαίνει αυτό με νόμιμο τρόπο ».

      * Στην έρευνα, που πραγματοποιήθηκε σε συντονισμό του Lighthouse Reports, συμμετείχαν οι Σταύρος Μαλιχούδης, Jack Sapoch, May Bulman, Maria Cheresheva, Steffen Ludke, Ivana Milanovic Djukic, Nicole Voegele, Jelena Obradović-Wochnik, Thom Davies, Arshad Isakjee, Doraid al Hafid, Anna Tillack, Oliver Soos, Klaas van Dijken, Aleksandar Milanovic, Camelia Ivanova, Pat Rubio Bertran.

      https://wearesolomon.com/el/mag/thematikh/metanasteush/dead-refugees-balkans

      #Loznica

    • Surge in refugee deaths in Balkans region where UK provides border force training

      InvestigationAlmost 100 people presumed to be migrants have died along one section of the route this year - a 46 per cent increase on the whole of 2022

      When he saw the photograph of his dead son, Hussam Adin Bibars collapsed to the floor. After three weeks of searching, he had found him – and his worst fears had been realised.

      The image, handed to him by a Bulgarian police officer, showed 27-year-old Majd Addin Bibars lying pale and lifeless on a patch of grass. “I fell down when I saw it,” Mr Bibars, 53, recalls. “I recognised him immediately … It was my son.”

      The Syrian father of five, who has refugee status and lives in Denmark, wanted to see Majd’s body for himself – but was told it had already been buried in an unmarked grave in a cemetery several miles away, four days after it was found.

      Majd had been travelling through Bulgaria from Turkey in the hope of reaching Germany, where he would be closer to his parents and hoped to later bring his pregnant wife and young daughter, Hanaa, to join him.

      He had been with a group of around 20 others embarking on the same, dangerous journey – but he stopped responding to texts and calls at the end of September. The smuggler leading the group informed Mr Bibars that Majd had fallen sick and the group had left him, the grieving father says.

      After 22 days searching for Majd from afar, Mr Bibars decided to spend the little money he had to travel to Bulgaria.

      After speaking to a staff member at a hospital near the Turkish border – with the help of a translator – he was directed to the local police station, where he was shown the photo of Majd’s lifeless body. He was told his son had died of thirst, exhaustion and cold – and that he had been buried.

      “We hear that Europe is the land of freedom, democracy and human rights – where are human rights if I can’t see my son before his funeral?” asks Mr Bibars. “All I saw was a grave, photos and his phone. That’s all I have of him.”

      Majd was one of many people who have died while travelling through the Balkans to reach Western Europe – and whose families are forced to undergo a painstaking process to find out what happened.

      Many making these fatal journeys had hoped to claim asylum in EU countries such as Germany and France, while others planned to try their luck on a small boat towards the UK, often due to existing family ties in the country. So far this year, Britain has received the fifth-highest number of asylum applications across Europe.

      There is no official data on the number of deaths, but an investigation by i, in collaboration with investigative bureau Lighthouse Reports, Der Spiegel, Solomon, ARD and RFE/RL Sofia, has found that the bodies of 92 people presumed to be migrants have been received across six morgues in border areas along one section of the route – spanning Bulgaria, Serbia and Bosnia – this year, a 46 per cent increase on the whole of 2022.

      Border security in these countries has been tightened in recent years, helped by funding from the EU and the UK. Britain has provided training and equipment to Bulgarian border police since 2020, and Rishi Sunak announced in October that his Government would form bilateral initiatives with Bulgaria and Serbia aimed at tackling organised crime linked to illegal migration.

      Migration experts have criticised these agreements, highlighting the risks attached to such cooperation given that border guards in these countries are known to have been involved in violations of international law, including pushbacks and other violence against people on the move.

      Use of violence by border police in the Balkans has increased, with officers in some areas – notably Bulgarian police operating near the Turkish border and Serbian police in northern Serbia – documented using violence against people trying to cross, and sometimes illegally forcing them back across borders.

      Instead of deterring people from making the journeys, it has led them to take longer and more dangerous routes to evade security forces – leading to more deaths.

      At the same time, the number of people being resettled under safe and legal routes in Europe has declined, with 79 per cent fewer relocated under UNHCR resettlement schemes in the UK last year than in 2019, and 17 per cent fewer across the EU.

      This investigation has found that many migrants have been buried in anonymous graves, sometimes within days – like Majd – due to lack of space in morgues, making it almost impossible for their families to locate them.

      Milen Bozhidarov, the prosecutor in Yambol, a Bulgarian city close to the Turkish border, said Majd’s funeral took place after four days in keeping with their procedure of carrying out burials of unidentified migrants “fast” to free up space in the morgue.

      “When we have unidentified body that was found in a place that gives us no other explanation except that the person is a migrant, and the suggestion is that the relatives are somewhere in the world and no one is getting in touch with us that day or on the next day, then there are no objective reasons why the body should be kept,” he added.

      Some family members have been forced to pay bribes to morgue staff to find out whether their loved ones’ bodies are held. i has heard testimony from several families saying they paid sums of cash ranging from €50 to €300 to staff at the morgue in Burgas, a Bulgarian city near the Turkish border, to see the bodies.

      The head of the Burgas morgue, Galina Mileva, said it had not received any complaints about such incidents and encouraged people to report such cases to the morgue’s management.

      The countries where these deaths occur, and Europe as a whole, are under growing pressure from politicians, NGOs and forensic experts to create a mechanism to help families searching for missing loved ones who have died on these journeys.

      Families face additional hurdles when they can’t travel due to their status or nationality. Asmatullah Sediqi, an Afghan asylum seeker in the UK, was prevented by UK Home Office rules from travelling to Bulgaria, where his 22-year-old brother Rahmatullah had gone missing presumed dead after crossing from Turkey.

      A friend went on his behalf, but Bulgarian police refused to provide any information, and morgue staff said he would need to pay them €300 to see any bodies, Mr Sediqi said.

      “They just know money. They don’t care about a human life,” he added.

      Mr Sediqi, 29, who lives in asylum accommodation in Warrington, borrowed money to pay the bribe. His friend established that one of the bodies in the morgue was Rahmatullah.

      By borrowing another €3,000 – putting him into heavy debt – Mr Sediqi paid a company to repatriate his brother’s body to his parents in Afghanistan. But he has had no information by the Bulgarian authorities on how Rahmatullah died.

      “They didn’t give us the results of the autopsy because I don’t have a visa to go there,” he says. “It’s very painful not knowing what happened to my brother.”

      Dr Vidak Simić, a pathologist in Bosnia who carries out autopsies on bodies found in the Drina River on the Serbian border, said the number of unidentified migrant bodies being brought to him for autopsy has surged in the past year.

      In 2023, he has examined the bodies of 28, compared with five last year and three in 2021. The vast majority remain unidentified and are buried in graves marked “NN” – an abbreviation for a Latin term for a person with no name.

      The doctor is working with a local activist to try to help families find missing loved ones, checking his autopsy files to see if any unidentified bodies match the description of missing people – but says a proper system is needed.

      “[Families] enter a painstaking process, through embassies, burial organisations, to obtain a bone sample, so that they can compare it with one of their family members,” he says. “Nobody is doing the work to connect families with those who have drowned.”

      EU human rights commissioner Dunja Mijatović described “inaction” among European countries to facilitate DNA matching and create a data collection procedure on migrant disappearances and deaths.

      Erik Marquardt, Green Party politician in the European Parliament, said the fact that countries such as Bulgaria are burying unidentified bodies within days suggested they “don’t want attention brought to these cases”.

      “We have to think about whether we can set up a database at an EU level that would oblige member states to clarify: who is this person’s child, who are the parents, how can they be reached? This is very important,” he added.

      Until then, the bodies of those who die escaping conflict will continue to pile up in morgues or be buried without a trace, leaving more families to endure an agonising process to find out they have died – or left in a perpetual state of uncertainty.

      A Home Office spokesperson said: “The UK and Bulgaria have a close law enforcement partnership. By working together we are able to bolster Bulgaria’s border security, tackle serious organised crime and immigration crime threats, and disrupt the business model of these criminal groups.

      “Individuals awaiting the outcome of their asylum claims in the UK are not permitted to travel abroad, but are provided with a range of support by the government.”

      https://inews.co.uk/news/world/surge-refugee-deaths-balkans-uk-training-border-forces-2785043

    • Almost 100 refugees died on their way through Bulgaria within the last two years

      According to a research by the ARD studio (https://www.tagesschau.de/ausland/europa/bulgarien-migranten-todesfaelle-100.html) in Vienna in cooperation with Lighthouse Reports (https://www.lighthousereports.com/investigation/europes-nameless-dead), Der Spiegel (https://www.spiegel.de/ausland/vermisste-fluechtlinge-auf-der-balkanroute-europas-namenlose-tote-a-5d0b55a7), RFE/RL (https://www.svobodnaevropa.bg/a/migranti-zaginali-bejanci/32708468.html), Solomon (https://wearesolomon.com/el/mag/thematikh/metanasteush/dead-refugees-balkans) and inews (https://inews.co.uk/news/world/surge-refugee-deaths-balkans-uk-training-border-forces-2785043) – which was published in the beginning of December 2023 – at least 93 people died on their way through Bulgaria in the last two years alone.

      The research team spoke with forensic pathologists in Bulgaria and people whose family members had gone missing or died on the route. The people on the run are usually dying because of exhaustion and cold on their route, which leads through mountains, bushes and the countryside. The last case was reported on the 27th of November 2023 by the Bulgarian authorities (https://orf.at/stories/3341237). Additionally there is a fence at the Bulgarian-Turkish border which was constructed already in 2013 and replaced and modified in the following years with a bigger one (https://bordermonitoring.eu/wp-content/uploads/2020/06/bm.eu-2020-bulgaria_web.pdf). Additionally to this numerous car accidents are happening regularly. Some of them are fatal (https://bulgaria.bordermonitoring.eu/2023/03/20/another-refugee-dies-on-the-streets-of-bulgaria).

      But not only the dangerous way is the problem for the people on the run, there is also the Bulgarian border police, which is accused of brutal Push-Backs. According to the Bulgarian Helsinki Committee only in 2022 almost 90.000 people where affected by #push-backs (https://ecre.org/2022-update-aida-country-report-on-bulgaria). Also young people with their families and unaccompanied minors are at risk to be push-backed, as the NGOs “Center for legal aid – Voice in Bulgaria“ and “Mission Wings“ found out, while conducting interviews in Turkey (https://www.tdh.de/fileadmin/user_upload/inhalte/04_Was_wir_tun/Themen/Weitere_Themen/Fluechtlingskinder/tdh_Bericht_Kinderrechtsverletzungen-an-EU-Aussengrenzen.pdf). For 2023 Interior Minister Kalin Stoyanov stated that that app 165,000 ‚illegal entry attempts‘ at the Bulgarian-Turkish were prevented (https://www.novinite.com/articles/222633/October+Sees+41+Decrease+in+Illegal+Migrants+in+Bulgaria).

      With regard to Bulgaria, the fundamental rights officer of the EU border protection authority Frontex became active in a total of seven internally reported cases regarding possible violations of fundamental rights, the authority said in response to a request from ORF (https://orf.at/stories/3341237). In the beginning of December 2023. All cases concern pushback allegations from Bulgaria to Turkey, a Frontex spokeswoman said. At least 232 Frontex officers were deployed in Bulgaria in 2023 (https://www.infomigrants.net/en/post/51259/exclusive-why-are-migrant-pushbacks-from-bulgaria-to-turkey-soaring).

      https://bulgaria.bordermonitoring.eu/2023/12/02/almost-100-people-died-on-their-way-through-bulgaria-withi

  • Prijelaz / #The_Passage — dedicated to our fallen comrades

    Od 14. do 21. svibnja 2021. godine u galeriji Živi Atelje DK u Zagrebu predstavljeno je spomen-platno Prijelaz / The Passage. Prijelaz / The Passage je zbirka memorijalnih portreta izrađenih od crvenog i crnog konca na botanički obojanoj tkanini koji su nastali u okviru umjetničkih istraživačkih radionica koje je osmislila i kurirala selma banich u suradnji s Marijanom Hameršak, a na kojima su sudjelovale umjetnice, znanstvenice, prevoditeljice i druge članice kolektiva Žene ženama i znanstveno-istraživačkog projekta ERIM.

    https://erim.ief.hr/en/publikacije/prijelaz-the-passage

    –-

    THE PASSAGE — dedicated to our fallen comrades

    #Selma_Banich and #Marijana_Hameršak in collaboration with Women to Women collective

    Živi Atelje DK, Zagreb, 2021

    https://selmabanich.org/index#/the-passage
    #portraits #art_et_politique #migrations #réfugiés #asile #décès #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #commémoration #mémoire #textile #Balkans #route_des_Balkans

  • Tra i respinti dalla Croazia. La violenza è ancora la prassi lungo le rotte balcaniche

    Ritorno sulla frontiera tra Bosnia ed Erzegovina e Unione europea, a quasi tre anni dall’incendio che distrusse il campo di #Lipa. Le persone incontrate denunciano i respingimenti illegali e le vessazioni delle polizie. Tra gennaio e ottobre 2023 i passaggi nei Balcani occidentali sono stati quasi 100mila. Il videoreportage

    È notte fonda ma la luna piena illumina tutta la valle del fiume Sava. Non è l’ideale per le persone che nell’ombra provano a passare da un confine all’altro, dal Nord della Bosnia ed Erzegovina alla Croazia. “A qualcuno la luna piena dà sicurezza -racconta un ragazzo che arriva dal Sudan- perché vedi bene la strada. Ad altri non piace, perché le guardie ti vedono lontano un miglio”.

    Bosanska Gradiška è uno degli snodi chiave per i migranti che dal Nord della Bosnia tentano di attraversare il fiume per entrare in Croazia, nell’Unione europea. In tanti sono morti nelle acque della Sava, affogati a poche bracciate dalla riva, ma i più giovani, soprattutto in estate, provano ancora a nuotare da una sponda all’altra, da un confine all’altro. I segni del passaggio sono evidenti, ci sono persino tracce di pneumatici e di trascinamento. Sembra la scia di una piccola imbarcazione. Nei villaggi lunga la Sava, da Gradiška in poi, alcuni residenti della zona “noleggiano” le loro barchette per accompagnare i migranti dall’altro lato, per 20 o 30 marchi.

    Si cammina in silenzio, tutto tace, la frontiera ufficiale, quella presidiata dalla polizia, è a pochissimi chilometri. “Ultimamente i migranti si vedono poco in giro -spiega un’attivista della zona- ma ci sono eccome. Adesso si nascondono di più ma si muovono e tanto”. I numeri confermano i “flussi” lungo le rotte negli ultimi mesi. Secondo i dati di Frontex, da gennaio a ottobre gli “attraversamenti” nei Balcani occidentali hanno superato quota 97.300, soprattutto afghani, siriani e turchi. I volontari della zona, però, registrano la presenza anche di persone provenienti dal Nord Africa e dall’Africa sub-sahariana.

    “Tanti arrivano direttamente in Serbia con l’aereo e poi cominciano il viaggio. Altri, invece, arrivano a piedi dalla Turchia o dalla Grecia”. Il cammino, in ogni caso, è faticoso e pericoloso. Il rischio è quello di morire di freddo in inverno o di essere picchiati, di perdere anche quel poco che si ha, di rimanere bloccati per mesi. Cosa che sta accadendo di nuovo, nell’autunno del 2023, lontano dai riflettori un tempo più accesi.

    “Mi hanno spaccato uno zigomo -racconta un ventenne iraniano incontrato nei boschi bosniaci a fine ottobre- è successo l’altra sera. Adesso aspetto qualche giorno prima di ritentare. La polizia croata è la peggiore”. “I miei amici un mese fa sono passati senza problemi”, aggiunge un altro ragazzo, che non dice di dov’è. “E invece a noi ci fanno sputare sangue, letteralmente”. Qualcosa è successo. Fino a qualche settimana fa le autorità croate lasciavano “passare” con più facilità, e per i migranti era diventato relativamente semplice arrivare fino Zagabria o a Fiume, per poi proseguire verso la Slovenia. Poi, però, la protesta dei residenti di alcune cittadine sul confine hanno spinto il governo croato a cambiare ancora una volta politica. Riprendendo così i respingimenti violenti. I metodi brutali della polizia croata sono noti da tempo. I racconti raccolti in questi giorni in Bosnia ed Erzegovina confermano invece che tutte le pratiche più disumane utilizzate in questi anni sono tornare prepotentemente “di moda”.

    https://www.youtube.com/watch?v=IRgHN1sh8ZQ&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Faltreconomia.it%2F&

    I respingimenti della polizia croata hanno avuto un immediato contraccolpo sulle presenze al campo di Lipa, a 25 chilometri da Bihać. Siamo arrivati al campo di mattina con un permesso per entrare e svolgere una visita guidata della struttura. L’unico dato di cui siamo certi è il numero delle presenze. A novembre ci sono all’incirca 1.500 persone, accampate insieme nonostante le condizioni non siano delle migliori. I ragazzi sono spesso costretti a spendere i propri soldi per comprare all’esterno sapone e dentifricio, perché raramente sono a disposizione. “Compriamo anche qualcosa da mangiare -racconta Adam, dalla Siria- perché spesso abbiamo fame, ma è anche l’occasione per fare una pausa e per uscire dal recinto”. Ci spostiamo al negozietto che è stato allestito proprio di fronte all’ingresso del campo. Prendiamo un the mentre i ragazzi si avvicinano numerosi. Due euro per un bicchierino. I prezzi sono alti. Un solo rotolo di carta igienica costa quasi un euro. “Lo compriamo perché non c’è mai nei bagni”, spiega un ragazzo con il sacchetto in mano. Le guardie del campo intanto ci osservano, non gradiscono molto che si parli con i loro “ospiti”, e allora ci spostiamo verso il bosco.

    Mentre siamo nella jungle, poco fuori Lipa, incontriamo tre ragazzi siriani che tornano verso il campo dopo essere stati respinti. Hanno l’aria stanca e affranta, anche perché a due di loro la polizia ha sequestrato e spaccato il telefono. Si fermano qualche minuto a raccontare ma poi proseguono, perché hanno bisogno di riposare, bere un po’ d’acqua, riordinare le idee. Nel pomeriggio raggiungiamo il campo Borići, dedicato alle famiglie e ai minori non accompagnati, dove ci sono poco più di 800 persone. Un numero non elevatissimo ma comunque superiore a quello della media degli ultimi mesi. Tra loro ci sono molte persone in arrivo dall’Africa sub-sahariana ma anche diverse famiglie dal Bangladesh. “A volte restano a lungo -spiega uno dei coordinatori del centro, dove abbiamo il permesso di entrare-. E infatti ai bambini facciamo anche da scuola. È un modo per insegnargli la lingua, per trascorrere del tempo sereno e magari fargli ritrovare il sorriso”. L’atmosfera qui è migliore e anche l’accoglienza è meno militaresca, più informale. Finché c’è la luce del sole il clima resta sereno, ma appena fa buio il fermento aumenta.

    Ogni sera i migranti cercano di attraversare il confine arrivando il più vicino possibile con i taxi o con gli autobus e sperano di non incontrare la polizia croata. Di recente, però, succede quasi sempre. Lo raccontano a più riprese le tantissime persone incontrate in questi giorni d’autunno. Grecia, Turchia, Bulgaria, Serbia. Tra i ragazzi che hanno il desiderio di far sapere cosa gli è successo c’è Mohammed, dal Marocco, che ha provato ad attraversare il confine croato sette volte e ha subito maltrattamenti feroci dalla polizia di Zagabria. Poi c’è Samir, 18 anni, dall’Afghanistan, in fuga dai Talebani. E poi c’è Alì, dal Ghana, che ha perso i documenti e non è riuscito a rientrare in Italia dal suo Paese. Tre storie racchiuse in questo video, anche se ci vorrebbero ore e ore di testimonianze. Ore e ore di immagini e denunce, perché quel che accade sotto i nostri occhi fa vergognare.

    https://altreconomia.it/tra-i-respinti-dalla-croazia-la-violenza-e-ancora-la-prassi-lungo-le-ro
    #Balkans #route_des_balkans #asile #migrations #réfugiés #frontières #refoulements #push-backs #Croatie #Bosnie-Herzégovine #Bosanska_Gradiška #Sava #rivière_Sava #rivière #violence #violences_policières #Bihać #Borići

  • Rotta balcanica, Piantedosi lancia le brigate antimigranti

    A margine del trilaterale a Trieste il 2 novembre scorso, il ministro snocciola i numeri dei respingimenti dopo la sospensione di Schengen. E annuncia: quando i controlli alle frontiere finiranno, il governo vuole istituire “brigate miste” (di polizia). Dove? Con chi? E con quale mandato?

    Nell’edizione del 20 ottobre dell’Unità avevo esaminato la misura di ripristino dei controlli alle frontiere interne deciso dall’Italia al confine italo-sloveno mettendo in rilievo come tale decisione fosse in contrasto con quanto disposto dal Codice Schengen. Su questo il Codice prevede la possibilità di un temporaneo ripristino dei controlli alle frontiere interne solo come extrema ratio in caso di minaccia all’ordine pubblico e che “la migrazione e l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini di paesi terzi non dovrebbero in sé essere considerate una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza interna” (Codice Schengen, considerando 26). Ben presto le dichiarazioni del Governo italiano hanno reso evidente come dietro questo ripristino, inutile e quanto mai problematico per la vita sociale ed economica del Friuli Venezia Giulia, ci sia una sola finalità ovvero quella di ostacolare l’ingresso nell’Unione Europea, ad iniziare dal confine esterno tra la Croazia e la Bosnia, a coloro che sono in cerca di protezione e che, per il diritto dell’Unione, hanno invece diritto, alle frontiere e nel territorio degli Stati dell’Unione, di chiedere asilo (Direttiva 2013/32/UE art. 3) e gli Stati hanno il dovere assoluto di non respingerli.

    Le affermazioni rese dal ministro Piantedosi nella conferenza stampa tenutasi a Trieste il 2 novembre 2023, a conclusione dell’incontro trilaterale con gli omologhi sloveno e croato, sono state tanto esplicite quanto sconcertanti. Il ministro ha reso noto che nei primi dieci giorni di vigenza dei controlli alla frontiera sono stati effettuati 220 respingimenti. Non sono state fornite ulteriori informazioni, né il ministro, come ha fatto invece in passato, ha rivendicato la possibilità che vengano respinti o riammessi informalmente anche coloro che al confine italiano chiedono asilo. Sulla radicale illegittimità delle riammissioni informali attuate dall’Italia verso la Slovenia nei confronti di richiedenti asilo si era già espresso con estrema chiarezza il Tribunale ordinario di Roma con due distinte ordinanze, nel gennaio 2021 e nel maggio 2023. Non sappiamo se i dati forniti da Piantedosi riguardino cittadini stranieri che sono stati illegittimamente respinti dopo che è stato loro impedito di chiedere asilo in Italia e se, come impone la normativa a tutti coloro che sono fermati venga “assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale” (T.U. Immigrazione art. 10.3).

    Infine non sappiamo se nei confronti degli stranieri respinti sia stato emesso un provvedimento amministrativo scritto e motivato in fatto e in diritto, notificato al soggetto interessato e impugnabile innanzi all’autorità giudiziaria, o se di tali provvedimenti non c’è traccia. Neppure sappiamo se tali respingimenti sono stati realmente tali o se si è trattato di operazioni di impedimento all’ingresso in Italia attuati in territorio sloveno con la collaborazione della polizia italiana. Sono questioni dirimenti sulle quali il ministro dovrà fornire al più presto le necessarie informazioni. Lo stesso Piantedosi ha altresì annunciato che, non appena i controlli alle frontiere cesseranno (al momento sono prorogati fino al 20 novembre), è intenzione del Governo prevedere l’istituzione di “brigate miste” (di polizia) da “rendere stabili nel tempo”. Il termine utilizzato – brigate – è già piuttosto militaresco, ma, soprattutto, tali brigate miste come sarebbero composte, con quale mandato e con quali garanzie opererebbero al di fuori del territorio italiano? Anche sul confine sloveno-croato e su quello croato-bosniaco?

    Un’espressione in particolare, tra quelle usate da Piantedosi, risulta inquietante: il ministro ha affermato che le operazioni di respingimento finora attuate vanno considerate solo come i “primi segnali di una filiera della deterrenza da proseguire con i colleghi”. Il termine deterrenza è sempre associato a una funzione intimidatrice (nel diritto penale ci si è sempre interrogati se la minaccia della sanzione funga o meno da deterrenza). Nel linguaggio politico la deterrenza è rivolta verso un nemico ovvero verso colui che rappresenta un grave pericolo e nei cui confronti, all’occorrenza, si può usare violenza. A chi è diretta la funzione di deterrenza cui si riferisce Piantedosi? Agli stranieri che sono in fuga dai loro paesi affinché non lo facciano? A chi intende chiedere asilo affinché comprenda con metodi convincenti che ciò è inutile? Le parole usate dal ministro sono gravi perché le normative internazionali ed europee e il diritto interno dispongono che l’operato della polizia di frontiera non sia finalizzato ad attuare alcuna deterrenza bensì sia esclusivamente rivolto all’esecuzione di legittimi compiti di controllo dell’attraversamento dei confini; le guardie di frontiera sono tenute infatti ad operare nello stretto ambito delle funzioni attribuite loro dalla legge, e nei confronti di chi viene controllato “devono essere garantiti i diritti fondamentali sanciti nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo e nella Carta sui diritti fondamentali dell’Unione europea. I controlli di frontiera devono rispettare pienamente i divieti di infliggere trattamenti inumani o degradanti e di agire in maniera discriminatoria” (Manuale per le guardie di frontiera a cura della Commissione Europea 6.11.2006 punto 1.2).

    Inoltre “a tutti i cittadini di paese terzo che lo desiderano deve essere data la possibilità di chiedere asilo/protezione internazionale alla frontiera (anche nelle zone di transito aeroportuali e portuali). A tal fine, le autorità di frontiera devono informare i richiedenti, in una lingua che possa essere da loro sufficientemente compresa, delle procedure da seguire” (Manuale punto 10.2). La rotta balcanica e i confini tra i diversi Stati, da sempre, ma in particolare dal 2018, sono segnati da inenarrabili violenze, illegalità e soprusi condotti dalle polizie dei diversi Stati coinvolti (a volte si tratta di uomini in divisa, altre volte mascherati, ma comunque operanti sempre all’interno di un preciso mandato). I rapporti su queste violenze sono scioccanti e sono così numerosi da riempire un’intera biblioteca; si tratta di violenze ed illegalità avvenute sia ai confini interni dell’Unione Europea che ai confini esterni della stessa. Una situazione che rappresenta, insieme alle violenze attuate sul confine polacco-bielorusso, una delle pagine più oscure dell’Europa. Uno dei luoghi caratterizzati da maggiori violenze è il confine della Croazia con la Bosnia dove i respingimenti arbitrari, uniti ad efferate violenze non sono mai cessati. Secondo il rapporto Trattati come animali – Respingimenti di persone in cerca di protezione dalla Croazia in Bosnia Erzegovina, edito nel maggio 2023 a cura di Human Rights Watch (H.C.R.) una delle più autorevoli organizzazioni di tutela dei diritti umani a livello internazionale, i respingimenti illegittimi e le violenze, anche efferate, da parte della polizia croata, solo nel 2022, hanno riguardato quasi 30.000 persone, e sono proseguiti nel 2023.

    Il Rapporto evidenzia che “Le forze di polizia conducono spesso i respingimenti in modo violento, rendendosi responsabili di lesioni fisiche e umiliazioni deliberate”. Inoltre “secondo la maggior parte delle testimonianze raccolte da HRW, i poliziotti croati indossano le uniformi, guidano mezzi della polizia e si identificano come agenti per non lasciare alcun dubbio sull’ufficialità del loro ruolo”. Si tratta dunque di una pratica di esplicita deterrenza condotta verso persone inermi che stanno esclusivamente tentando di esercitare il loro diritto a chiedere asilo. “Molti bambini hanno dovuto assistere mentre i loro padri, fratelli maggiori o parenti venivano picchiati, o manganellati o presi a spintoni”, prosegue il Rapporto. La Slovenia non sfugge alla censura operata dalla citata organizzazione internazionale giacché il Rapporto osserva come “in base all’accordo di riammissione tra Slovenia e Croazia, la polizia slovena invia sommariamente i migranti irregolari che sono entrati nel paese passando dalla Croazia, indipendentemente dal fatto che abbiano chiesto asilo in Slovenia. A loro volta le autorità croate generalmente si affrettano a trasferirli in Bosnia o Serbia”.

    Al drammatico Rapporto di H.R.W. si aggiungono i dati diffusi dal Centro per la Pace di Zagabria che da anni svolge un attento lavoro di monitoraggio della situazione del rispetto della legalità in Croazia, secondo cui nel solo mese di luglio 2023 sono stati respinti illegalmente dalla Croazia alla Bosnia 673 persone, tra cui 43 bambini. 369 di essi erano afgani, con tutta evidenza rifugiati. Il 95% delle persone respinte ha subito trattamenti inumani e degradanti tassativamente proibiti dall’art. 3 della CEDU (Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo) mentre l’81% ha subito il furto dei propri averi e la distruzione delle proprie cose. E’ in questi cupi contesti che il ministro Piantedosi vorrebbe organizzare le “brigate”? Vuole forse trascinare la polizia italiana in inaccettabili contesti di violenza di cui essere spettatore inerme oppure complice? Confida nella collaborazione della piccola Slovenia, paese cuscinetto, nel realizzare una più respingimenti a catena? Un monitoraggio su quanto rischia di accadere al nostro tormentato confine orientale, da parte di enti di tutela ed organizzazioni internazionali, nonché da parte del Parlamento, è divenuto indispensabile ed urgente.

    https://www.unita.it/2023/11/07/rotta-balcanica-piantedosi-lancia-le-brigate-antimigranti
    #Balkans #route_des_Balkans #asile #migrations #réfugiés #Piantedosi #brigades_mixtes #contrôles_frontaliers #refoulements #push-backs #Slovénie #frontière_sud-alpine #contrôles_systématiques_aux_frontières #chiffres #statistiques #patrouilles_mixtes #dissuasion

    –-

    ajouté au fil de discussion sur la réintroduction des contrôles systématiques à la frontière entre Italie et Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/1021994

    et à la métaliste sur les patrouilles mixtes :
    https://seenthis.net/messages/910352

  • Confine Serbia-Ungheria: aumenta la militarizzazione e la violenza della polizia

    Una sparatoria (probabilmente tra “trafficanti”) diviene il pretesto per un’ulteriore stretta repressiva

    La zona di confine tra la Serbia e l’Ungheria è da molti anni un luogo di sosta forzata e di transito delle persone migranti. E’ qui, tra la cittadina ungherese di #Röszke e quella serba di #Horgos, che nell’autunno del 2015 venne costruita da Orban la prima barriera “anti-rifugiati” che divenne in poco tempo uno dei simboli della politica dell’Unione europea, replicata poi in molteplici forme.

    Questo territorio al nord della Serbia rimane oggi uno dei punti più caldi delle rotte balcaniche settentrionali, essendo – al pari del confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia – uno snodo fondamentale per l’accesso all’Europa e quindi per le politiche di controllo e respingimento. Diversi report e costanti attività di monitoraggio hanno descritto nel dettaglio la violenza e la brutalità della polizia nei confronti di persone in movimento sia sul lato serbo che su quello ungherese.

    Nel rapporto trimestrale del 2023 riferito ai mesi di luglio, agosto e settembre 1, la Ong #KlikAktiv di Belgrado ha indicato le tendenze in atto. Il report è frutto di osservazioni durante le visite agli insediamenti informali ai confini esterni dell’UE con la Serbia e della raccolta di testimonianze e foto delle condizioni di vita, e fornisce anche informazioni sul contesto, compreso il quadro giuridico e le scelte politiche relative alla gestione della migrazione. In particolare, l’organizzazione punta l’attenzione sui respingimenti da e verso la Serbia, sulla violenza della polizia serba e sulla morte delle persone lungo il percorso. Una parte è dedicata anche alle sparatorie avvenute in quei mesi nell’area settentrionale del Paese e delle reti di passatori (smugglers) sospettate di esserne all’origine. Sono illustrati anche alcuni dati: la maggior parte delle persone incontrate dall’Ong proveniva da Siria e Afghanistan (94%); il punto di “ingresso” più comune in Serbia è dalla Bulgaria (con il 40% che a settembre è entrato solo attraverso la Macedonia settentrionale), mentre i tragitti più utilizzati per uscire dal Paese sono quelli verso la Bosnia-Erzegovina e l’Ungheria, con quest’ultima che ha anche il primato dei respingimenti. Klikaktiv ha, infine, continuato a rilevare un numero significativo di minori non accompagnati negli insediamenti informali presenti nella zona di confine, perfino ragazzini di età inferiore ai 14 anni provenienti soprattutto dalla Siria.

    Un episodio emblematico è quello raccontato da No Name Kitchen, che opera a Subotica supportando centinaia di persone che vivono fuori dai campi ufficiali negli edifici abbandonati.
    L’Ong tramite la pagina facebook ha denunciato un violento pushback nei confronti di quattro ragazzi marocchini. Racconta di aver incontrato il gruppo fuori dal campo di #Subotica la notte del 25 ottobre, dopo essere stati informati della gravità delle condizioni fisiche di uno dei giovani: «La polizia lo ha colpito molto violentemente causandogli una ferita aperta sulla fronte e una grave commozione cerebrale. Anche gli altri tre amici indossavano bende in testa. M. e i tre amici sono stati arrestati e brutalmente attaccati da tre poliziotti ungheresi, dopo aver attraversato il villaggio serbo di #Martonoš».

    «L’estrema violenza usata in questa repressione ci lascia senza parole – scrivono le attiviste -. Il gruppo ha segnalato di essere stato picchiato in mezzo alla foresta alle 23 da due poliziotti maschi. Usavano soprattutto manganelli per infliggere ferite. Mentre il gruppo stava soffrendo terribilmente, il terzo poliziotto ha iniziato a filmare la scena».

    No Name Kitchen spiega che il ragazzo per la quantità di botte ricevute in testa ha perso conoscenza ed è stato trasportato in un ospedale nella città ungherese di Szeged dove è stato rapidamente curato e rilasciato senza ulteriori visite mediche nonostante i sintomi indichino un potenziale trauma cerebrale. Insieme al gruppo di amici è stato illegalmente rispedito in Serbia senza che nessuno si preoccupasse delle sue condizioni di salute.

    Il pretesto “perfetto”

    E’ in questo contesto, nel quale la mobilità umana viene pesantemente repressa, che un nuovo scontro tra gruppi di migranti, probabilmente smugglers, ha portato alla morte di tre persone e al ferimento di un’altra. Le uniche notizie sono legate ad un comunicato diramato dal ministero dell’interno serbo, dove si legge che la polizia ha poi fatto irruzione in alcuni edifici abbandonati nell’area di Horgos, sequestrando armi e munizioni, trovando inoltre 79 persone di varie nazionalità che sono state trasferite nei campi di ricezione. L’operazione – che ha coinvolto le unità anti-terrorismo, la gendermerie e gli elicotteri della polizia – ha portato all’arresto di quattro cittadini afghani e due turchi sospettati di possesso illegale di armi ed esplosivi.

    La sparatoria e le morti sono diventate così il nuovo pretesto per portare un’ulteriore stretta e militarizzazione nell’intera zona di confine. Il presidente serbo Vucic ha infatti dichiarato che potrebbe far intervenire l’esercito per risolvere la situazione se le forze di polizia non si dimostreranno all’altezza, avvertendo così il suo stesso Ministro degli Interni Gasic: “[…] non è la prima volta che parlo con il Ministro degli Interni. O farete le cose che dovete fare, o direte che non siete in grado di farle. Mettetevi in guardia, farò intervenire l’esercito e faremo piazza pulita, li arresteremo e li metteremo dietro le sbarre”, ha detto intervenendo in televisione. Dopo la sparatoria è stato stipulato un accordo di cooperazione tra lo stesso Gasic e il Ministro degli Interni ungherese Pinter, in un incontro al valico di frontiera di Reska, dove hanno discusso della lotta “all’immigrazione irregolare” e dell’utilizzo di ufficiali ungheresi a supporto dei colleghi serbi. “Per combattere la criminalità organizzata e la migrazione irregolare, è stato proposto di istituire un gruppo di lavoro congiunto tra i membri dei ministeri degli Interni di Serbia e Ungheria”, riporta il comunicato congiunto 2.

    Le autorità hanno inoltre comunicato a tutte le organizzazioni umanitarie che sono attive nei campi profughi dislocati nella zona che temporaneamente non potranno lavorare al loro interno. Alcuni testimoni affermano che i successivi controlli di polizia hanno portato a fermi e diversi episodi di violenza.

    https://www.youtube.com/watch?v=l43XWHlj8uw&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.meltingpot.org%

    «Negli ultimi mesi le operazioni poliziesche sono diventate dei veri e propri “rastrellamenti” nelle strade, nelle stazioni e nei negozi della regione di Subotica e Sombor.»

    Gli ultimi aggiornamenti di No Name Kitchen sono del 2 novembre, quando le attiviste hanno visitato il campo ufficiale a Subotica e lo hanno trovato completamente vuoto. Il campo solitamente ospita più di 300 persone tra uomini, donne, ragazzi e famiglie, e la polizia l’ha sgomberato il 31 ottobre deportando con la forza le persone. «Ci è stato detto che durante lo sgombero ci sono stati pestaggi e violenza. Non sappiamo dove siano state portate queste persone, ma sembra che la chiusura di tutti i campi serbi faccia parte dell’ultima azione promossa dallo Stato per reprimere l’immigrazione irregolare al confine tra Serbia e Ungheria».

    «Recentemente – osserva l’organizzazione – è stato pubblicato un video che mostra le forze militari e di polizia che rastrellano ostelli e insediamenti informali alla ricerca di bande di smuggler e persone migranti. La clip di 7 minuti è accompagnata da musica che ricorda un videogioco di guerra. Le forze militari armate con il volto coperto vengono filmate mentre arrestano e sfrattano le persone dagli edifici».

    La caccia ai migranti è diventata la norma, di fatto impedendo la circolazione delle persone migranti anche all’interno del territorio serbo, attraverso una politica di deportazioni dal nord al sud, verso i campi al confine con la Macedonia e il Kosovo, rallentando il viaggio delle persone e alimentando così il circuito economico connesso al movimento dei migranti, che coinvolge – tra gli altri – gli apparati dello stato stessi e i network di smuggling. Dall’altra parte, le guerre intestine tra le organizzazioni di smuggling forniscono il pretesto perfetto per la repressione governativa, che però si abbatte in modo generalizzato sulle persone migranti senza scalfire le organizzazioni criminali che si propone di colpire. Dopo diverse inchieste giornalistiche firmate da Balkan Insight negli ultimi mesi, la credibilità delle autorità serbe è a pezzi agli occhi dell’opinione pubblica, perché è stata dimostrata più volte la complicità tra gli apparati di polizia e le bande di smuggler, svelando un sistema dove economicamente tutti ci guadagnano, sulla pelle delle persone migranti 3.

    https://www.meltingpot.org/2023/11/confine-serbia-ungheria-aumenta-la-militarizzazione-e-la-violenza-della-
    #Serbie #Hongrie #militarisation_des_frontières #frontières #migrations #asile #réfugiés #Balkans #route_des_Balkans #violence

    • The Third Quarterly Report in 2023

      The report covers trends observed in the field during our team’s visits to the informal settlements at the EU’s external borders with Serbia during July, August and September 2023, including testimonies and quotes of refugees, as well as the photos of the living conditions. The report also provides information on the context, including important legal framework and political trends regarding migration management in the country. We particularly shed light on push backs to and from Serbia, violence by the Serbian police and deaths of refugees on the route. We also wrote about recent shootings in the northern area of the country and smuggling networks suspected to be behind them.

      Some of the key trends identified in the reporting period were:

      - Majority of all Klikaktiv’s beneficiaries were from: Syria and Afghanistan (94% combined). Most common entry point: Bulgaria (with 40% who entered through North Macedonia in September) Most common attempted exit points: to Hungary and to Bosnia and Herzegovina.

      – Push backs from the EU Member States have continued in the reporting period - majority of which happened from Hungary to Serbia. Push backs by the Serbian police were reported by people on the move on the border with Bulgaria in joint operation with Austrian police, and on the border with North Macedonia together with German police.

      - Klikaktiv continued to note a significant number of unaccompanied boys in informal settlements in the border area, particularly those younger than 14 years old, mostly from Syria.

      - Although in smaller numbers compared to refugees from Syria and Afghanistan, we continued to meet Turkish citizens who came to Serbia legally and tried to continue to the EU irregularly.

      These trends are further elaborated on in the report, as well as other information and cases from the field.

      You can download the full report here: https://drive.google.com/file/d/1nQiQvm4atW8ltpjTFTTBGeMseJvzsEO_/view

      https://klikaktiv.org
      #rapport #push-backs #refoulements

  • Bulgaria : lottare per vivere, lottare per morire

    Di morti insepolti, notti insonni e domande che non avranno risposta

    “ГРАНИЦИТЕ УБИВАТ”, ovvero “I confini uccidono”. Questa scritta campeggia su delle vecchie cisterne arrugginite lungo la statale 79, la strada che collega Elhovo a Burgas, seguendo il confine bulgaro-turco fino al Mar Nero. L’abbiamo fatta noi del Collettivo Rotte Balcaniche (https://www.facebook.com/profile.php?id=100078755275162), rossa come il sangue che abbiamo visto scorrere in queste colline. Volevamo imprimere nello spazio fisico un ricordo di chi proprio tra questi boschi ha vissuto i suoi ultimi istanti, lasciare un segno perché la memoria avesse una dimensione materiale. Dall’altra parte, volevamo lanciare un monito, per parlare a chi continua a transitare su questa strada ignorandone la puzza di morte e a chi ne è direttamente responsabile, per dire “noi sappiamo e non dimenticheremo”. Ne è uscita una semplice scritta che forse in pochi noteranno. Racchiude le lacrime che accompagnano i ricordi e un urlo che monta dentro, l’amore e la rabbia.

    Dall’anno passato il confine bulgaro-turco è tornato ad essere la prima porta terrestre d’Europa. I dati diffusi dalla Polizia di frontiera bulgara contano infatti oltre 158 mila tentativi di ingresso illegale nel territorio impediti nei primi nove mesi del 2023, a fronte dei 115 mila nel corrispondente periodo del 2022, anno in cui le medesime statistiche erano già più che triplicate 1. Il movimento delle persone cambia a seconda delle politiche di confine, come un flusso d’acqua alla ricerca di un varco, così la totale militarizzazione del confine di terra greco-turco, che si snoda lungo il fiume Evros, ha spostato le rotte migratorie verso la più porosa frontiera bulgara. Dall’altro lato, la sempre più aggressiva politica di deportazioni di Erdogan – che ha già ricollocato con la forza 600 mila rifugiatə sirianə nel nord-ovest del paese, sotto il controllo turco, e promette di raggiungere presto la soglia del milione – costringe gli oltre tre milioni di sirianə che vivono in Turchia a muoversi verso luoghi più sicuri.

    Abbiamo iniziato a conoscere la violenza della polizia bulgara più di un anno fa, non nelle inchieste giornalistiche ma nei racconti delle persone migranti che incontravamo in Serbia, mentre ci occupavamo di distribuire cibo e docce calde a chi veniva picchiatə e respintə dalle guardie di frontiera ungheresi. Siamo un gruppo di persone solidali che dal 2018 ha cominciato a viaggiare lungo le rotte balcaniche per supportare attivamente lə migrantə in cammino, e da allora non ci siamo più fermatə. Anche se nel tempo siamo cresciutə, rimaniamo un collettivo autorganizzato senza nessun riconoscimento formale. Proprio per questo, abbiamo deciso di muoverci verso i contesti caratterizzati da maggior repressione, laddove i soggetti più istituzionali faticano a trovare agibilità e le pratiche di solidarietà assumono un valore conflittuale e politico. Uno dei nostri obiettivi è quello di essere l’anti-confine, costruendo vie sicure attraverso le frontiere, ferrovie sotterranee. Tuttavia, non avremmo mai pensato di diventare un “rescue team”, un equipaggio di terra, ovvero di occuparci di ricerca e soccorso delle persone disperse – vive e morte – nelle foreste della Bulgaria.

    La prima operazione di salvataggio in cui ci siamo imbattutə risale alle notte tra il 19 e il 20 luglio. Stavo per andare a dormire, verso l’una, quando sento insistentemente suonare il telefono del Collettivo – telefono attraverso cui gestiamo le richieste di aiuto delle persone che vivono nei campi rifugiati della regione meridionale della Bulgaria 2. Era M., un signore siriano residente nel campo di Harmanli, che avevo conosciuto pochi giorni prima. «C’è una donna incinta sulla strada 79, serve un’ambulanza». Con lei, le sue due bambine di tre e sei anni. Chiamiamo il 112, numero unico per le emergenze, dopo averla messa al corrente che probabilmente prima dell’ambulanza sarebbe arrivata la polizia, e non potevamo sapere cosa sarebbe successo. Dopo aver capito che il centralino ci stava mentendo, insinuando che le squadre di soccorso erano uscite senza aver trovato nessuno alle coordinate che avevamo segnalato, decidiamo di muoverci in prima persona. Da allora, si sono alternate settimane più e meno intense di uscite e ricerche. Abbiamo un database che raccoglie la quarantina di casi di cui ci siamo in diversi modi occupatə da fine luglio e metà ottobre: nomi, storie e foto che nessunə vorrebbe vedere. In questi mesi tre mesi si è sviluppata anche una rete di associazioni con cui collaboriamo nella gestione delle emergenze, che comprende in particolare #CRG (#Consolidated_Rescue_Group: https://www.facebook.com/C.R.G.2022), gruppo di volontariə sirianə che fa un incredibile lavoro di raccolta di segnalazioni di “distress” e “missing people” ai confini d’Europa, nonché di relazione con lə familiari.

    Ricostruire questo tipo di situazioni è sempre complicato: le informazioni sono frammentate, la cronologia degli eventi incerta, l’intervento delle autorità poco prevedibile. Spesso ci troviamo ad unire tessere di un puzzle che non combacia. Sono le persone migranti stesse a lanciare l’SOS, oppure, se non hanno un telefono o è scarico, le “guide” 3 che le accompagnano nel viaggio. Le richieste riportano i dati anagrafici, le coordinate, lo stato di salute della persona. Le famiglie contattano poi organizzazioni solidali come CRG, che tra lə migrantə sirianə è un riferimento fidato. L’unica cosa che noi possiamo fare – ma che nessun altro fa – è “metterci il corpo”, frapporci tra la polizia e le persone migranti. Il fatto che ci siano delle persone bianche ed europee nel luogo dell’emergenza obbliga i soccorsi ad arrivare, e scoraggia la polizia dal respingere e torturare. Infatti, è la gerarchia dei corpi che determina quanto una persona è “salvabile”, e le vite migranti valgono meno di zero. Nella notte del 5 agosto, mentre andavamo a recuperare il cadavere di H., siamo fermatə da un furgone scuro, senza insegne della polizia. È una pattuglia del corpo speciale dell’esercito che si occupa di cattura e respingimento. Gli diciamo la verità: stiamo andando a cercare un ragazzo morto nel bosco, abbiamo già avvisato il 112. Uno dei soldati vuole delle prove, gli mostriamo allora la foto scattata dai compagni di viaggio. Vedendo il cadavere, si mette a ridere, “it’s funny”, dice.

    Ogni strada è un vicolo cieco che conduce alla border police, che non ha nessun interesse a salvare le vite ma solo ad incriminare chi le salva. Dobbiamo chiamare subito il 112, accettando il rischio che la polizia possa arrivare prima di noi e respingere le persone in Turchia, lasciandole nude e ferite nel bosco di frontiera, per poi essere costrette a riprovare quel viaggio mortale o imprigionate e deportate in Siria? Oppure non chiamare il 112, perdendo così quel briciolo di possibilità che veramente un’ambulanza possa, prima o poi, arrivare e potenzialmente salvare una vita? Il momento dell’intervento mette ogni volta di fronte a domande impossibili, che rivelano l’asimmetria di potere tra noi e le autorità, di cui non riusciamo a prevedere le mosse. Alcuni cambiamenti, però, li abbiamo osservati con continuità anche nel comportamento della polizia. Se inizialmente le nostre azioni sono riuscite più volte ad evitare l’omissione di soccorso, salvando persone che altrimenti sarebbero state semplicemente lasciate morire, nell’ultimo mese le nostre ricerche sono andate quasi sempre a vuoto. Questo perché la polizia arriva alle coordinate prima di noi, anche quando non avvisiamo, o ci intercetta lungo la strada impedendoci di continuare. Probabilmente non sono fatalità ma stanno controllando i nostri movimenti, per provare a toglierci questo spazio di azione che ci illudevamo di aver conquistato.

    Tuttavia, sappiamo che i casi che abbiamo intercettato sono solo una parte del totale. Le segnalazioni che arrivano attraverso CRG riguardano quasi esclusivamente persone di origini siriane, mentre raramente abbiamo ricevuto richieste di altre nazionalità, che sappiamo però essere presenti. Inoltre, la dottoressa Mileva, capo di dipartimento dell’obitorio di Burgas, racconta che quasi ogni giorno arriva un cadavere, “la maggior parte sono pieni di vermi, alcuni sono stati mangiati da animali selvatici”. Non sanno più dove metterli, le celle frigorifere sono piene di corpi non identificati ma le famiglie non hanno la possibilità di venire in Bulgaria per avviare le pratiche di riconoscimento, rimpatrio e sepoltura. Infatti, è impossibile ottenere un visto per venire in Europa, nemmeno per riconoscere un figlio – e non ci si può muovere nemmeno da altri paesi europei se si è richiedenti asilo. In alternativa, servono i soldi per la delega ad unə avvocatə e per effettuare il test del DNA attraverso l’ambasciata. Le procedure burocratiche non conoscono pietà. Le politiche di confine agiscono tanto sul corpo vivo quanto su quello morto, quindi sulla possibilità di vivere il lutto, di avere semplicemente la certezza di aver perso una sorella, una madre, un fratello. Solo per sapere se piangere. Anche la morte è una conquista sociale.

    «Sono una sorella inquieta da 11 mesi. Non dormo più la notte e passo delle giornate tranquille solo grazie ai sedativi e alle pillole per la depressione. Ovunque abbia chiesto aiuto, sono rimasta senza risposte. Vi chiedo, se è possibile, di prendermi per mano, se c’è bisogno di denaro, sono pronta a indebitarmi per trovare mio fratello e salvare la mia vecchia madre da questa lenta morte». Così ci scrive S., dalla Svezia. Suo fratello aveva 30 anni, era scappato dall’Afghanistan dopo il ritorno dei Talebani, perché lavorava per l’esercito americano. Aveva lasciato la Turchia per dirigersi verso la Bulgaria il 21 settembre 2022, ma il 25 non era più stato in grado di continuare il cammino a causa dei dolori alle gambe. In un video, gli smuggler che guidavano il viaggio spiegano che lo avrebbero lasciato in un determinato punto, nei pressi della strada 79, e che dopo aver riposato si sarebbe dovuto consegnare alla polizia. Da allora di lui si sono perse le tracce. Non è stato ritrovato nella foresta, né nei campi rifugiati, né tra i corpi dell’obitorio. È come se fosse stato inghiottito dalla frontiera. S. ci invia i nomi, le foto e le date di scomparsa di altre 14 persone, quasi tutte afghane, scomparse l’anno scorso. Lei è in contatto con tutte le famiglie. Neanche noi abbiamo risposte: più la segnalazione è datata più è difficile poter fare qualcosa. Sappiamo che la cosa più probabile è che i corpi siano marciti nel sottobosco, ma cosa dire allə familiari che ancora conservano un’irrazionale speranza? Ormai si cammina sulle ossa di chi era venuto prima, e lì era rimasto.

    –—

    1. РЕЗУЛТАТИ ОТ ДЕЙНОСТТА НА МВР ПРЕЗ 2022 г., Противодействие на миграционния натиск и граничен контрол (Risultati delle attività del Ministero dell’Interno nel 2022, Contrasto alla pressione migratoria e controllo delle frontiere), p. 14.
    2. Per quanto riguarda lə richiedenti asilo, il sistema di “accoglienza” bulgaro è gestito dall’agenzia governativa SAR, e si articola nei campi ROC (Registration and reception center) di Voenna Rampa (Sofia), Ovcha Kupel (Sofia), Vrajdebna (Sofia), Banya (Nova Zagora) e Harmanli, oltre al transit centre di Pastrogor (situato nel comune di Svilengrad), dove si effettuano proceduredi asilo accelerate. […] I centri di detenzione sono due: Busmantsi e Lyubimets. Per approfondire, è disponibile il report scritto dal Collettivo.
    3. Anche così sono chiamati gli smuggler che conducono le persone nel viaggio a piedi.

    https://www.meltingpot.org/2023/10/bulgaria-lottare-per-vivere-lottare-per-morire

    #Bulgarie #Turquie #asile #migrations #réfugiés #frontières #décès #mourir_aux_frontières #street-art #art_de_rue #route_des_Balkans #Balkans #mémoire #morts_aux_frontières #murs #barrières_frontalières #Elhovo #Burgas #Evros #Grèce #routes_migratoires #militarisation_des_frontières #violence #violences_policières #solidarité #anti-frontières #voies_sures #route_79 #collettivo_rotte_balcaniche #hiréarchie_des_corps #racisme #Mileva_Galya #Galya_Mileva

    • Bulgaria, lasciar morire è uccidere

      Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino: la cronaca di un’omissione di soccorso sulla frontiera bulgaro-turca


      I fatti si riferiscono alla notte tra il 19 e il 20 luglio 2023. Per tutelare le persone coinvolte, diffondiamo questo report dopo alcune settimane. Dopo questo primo intervento, come Collettivo Rotte Balcaniche continuiamo ad affrontare emergenze simili, agendo in prima persona nella ricerca e soccorso delle persone bloccate nei boschi lungo la frontiera bulgaro-turca.

      01.00 di notte, suona il telefono del Collettivo. “We got a pregnant woman on Route 79“, a contattarci è un residente nel campo di Harmanli, amico del marito della donna e da noi conosciuto qualche settimana prima. E’ assistito da un’interprete, anch’esso residente nel campo. Teme di essere accusato di smuggling, chiede se possiamo essere noi a chiamare un’ambulanza. La route 79 è una delle strade più pattugliate dalla border police, in quanto passaggio quasi obbligato per chi ha attraversato il confine turco e si muove verso Sofia. Con l’aiuto dell’interprete chiamiamo la donna: è all’ottavo mese di gravidanza e, con le due figlie piccole, sono sole nella jungle. Stremate, sono state lasciate vicino alla strada dal gruppo con cui stavano camminando, in attesa di soccorsi. Ci dà la sua localizzazione: 42.12.31.6N 27.00.20.9E. Le spieghiamo che il numero dell’ambulanza è lo stesso della polizia: c’è il rischio che venga respinta illegalmente in Turchia. Lei lo sa e ci chiede di farlo ugualmente.

      Ore 02.00, prima chiamata al 112. La registriamo, come tutte le successive. Non ci viene posta nessuna domanda sulle condizioni della donna o delle bambine, ma siamo tenuti 11 minuti al telefono per spiegare come siamo venuti in contatto con la donna, come ha attraversato il confine e da dove viene, chi siamo, cosa facciamo in Bulgaria. Sospettano un caso di trafficking e dobbiamo comunicare loro il numero dell’”intermediario” tra noi e lei. Ci sentiamo sotto interrogatorio. “In a couple of minutes our units are gonna be there to search the woman“, sono le 02.06. Ci rendiamo conto di non aver parlato con dei soccorritori, ma con dei poliziotti.

      Ore 03.21, è passata un’ora e tutto tace: richiamiamo il 112. Chiediamo se hanno chiamato la donna, ci rispondono: “we tried contacting but we can’t reach the phone number“. La donna ci dice che in realtà non l’hanno mai chiamata. Comunichiamo di nuovo la sua localizzazione: 42.12.37.6N 27.00.21.5E. Aggiungiamo che è molto vicino alla strada, ci rispondono: “not exactly, it’s more like inside of the woods“, “it’s exactly like near the border, and it’s inside of a wood region, it’s a forest, not a street“. Per fugare ogni dubbio, chiediamo: “do you confirm that the coordinates are near to route 79?“. Ci tengono in attesa, rispondono: “they are near a main road. Can’t exactly specify if it’s 79“. Diciamo che la donna è svenuta. “Can she dial us? Can she call so we can get a bit more information?“. Non capiamo di che ulteriori informazioni abbiano bisogno, siamo increduli: “She’s not conscious so I don’t think she’ll be able to make the call“. Suggeriscono allora che l’interprete si metta in contatto diretto con loro. Sospettiamo che vogliano tagliarci fuori. Sono passati 18 minuti, la chiamata è stata una farsa. Se prima temevamo le conseguenze dell’arrivo della polizia, ora abbiamo paura che non arrivi nessuno. Decidiamo di metterci in strada, ci aspetta 1h e 40 di viaggio.

      Ore 04.42, terza chiamata. Ci chiedono di nuovo tutte le informazioni, ancora una volta comunichiamo le coordinate gps. Diciamo che stiamo andando in loco ed incalziamo: “Are there any news on the research?“. “I can’t tell this“. Attraverso l’interprete rimaniamo in costante contatto con la donna. Conferma che non è arrivata alcuna searching unit. La farsa sta diventando una tragedia.

      Ore 06.18, quarta chiamata. Siamo sul posto e la strada è deserta. Vogliamo essere irreprensibili ed informarli che siamo arrivati. Ripetiamo per l’ennesima volta che chiamiamo per una donna incinta in gravi condizioni. Il dialogo è allucinante, ricominciano con le domande: “which month?“, “which baby is this? First? Second?“, “how old does she look like?“, “how do you know she’s there? she called you or what?“. Gli comunichiamo che stiamo per iniziare a cercarla, ci rispondono: “we are looking for her also“. Interveniamo: “Well, where are you because there is no one here, we are on the spot and there is no one“. Si giustificano: “you have new information because obviously she is not at the one coordinates you gave“, “the police went three times to the coordinates and they didn’t find the woman, the coordinates are wrong“. Ancora una volta, capiamo che stanno mentendo.

      Faremo una quinta chiamata alle 06.43, quando l’avremo già trovata. Ci richiederanno le coordinate e ci diranno di aspettarli lungo la strada.

      La nostra ricerca dura pochi minuti. La donna ci invia di nuovo la posizione: 42.12.36.3N 27.00.43.3E. Risulta essere a 500 metri dalle coordinate precedenti, ma ancor più vicina alla strada. Gridiamo “hello” e ci facciamo guidare dalle voci: la troviamo letteralmente a due metri dalla strada, su un leggero pendio, accasciata sotto un albero e le bambine al suo fianco. Vengono dalla Siria, le bambine hanno 4 e 7 anni. Lei è troppo debole per alzarsi. Abbiamo per loro sono dell’acqua e del pane. C’è lì anche un ragazzo, probabilmente minorenne, che le ha trovate ed è rimasto ad aiutarle. Lo avvertiamo che arriverà la polizia. Non vuole essere respinto in Turchia, riparte solo e senza zaino. Noi ci guardiamo attorno: la “foresta” si rivela essere una piccola striscia alberata di qualche metro, che separa la strada dai campi agricoli.

      Dopo poco passa una ronda della border police, si fermano e ci avvicinano con la mano sulla pistola. Non erano stati avvertiti: ci aggrediscono con mille domande senza interessarsi alla donna ed alle bambine. Ci prendono i telefoni, ci cancellano le foto fatte all’arrivo delle volanti. Decidiamo di chiamare un’avvocata locale nostra conoscente: lei ci risponde che nei boschi è normale che i soccorsi tardino e ci suggerisce di andarcene per lasciar lavorare la polizia. Nel frattempo arrivano anche la gendarmerie e la local police.

      Manca solo l’unica cosa necessaria e richiesta: l’ambulanza, che non arriverà mai.

      Ore 07.45, la polizia ci scorta nel paese più vicino – Sredets – dove ci ha assicurato esserci un ospedale. Cercano di dividere la donna e le bambine in auto diverse. Chiediamo di portarle noi tutte assieme in macchina. A Sredets, tuttavia, siamo condotti nella centrale della border police. Troviamo decine di guardie di frontiera vestite mimetiche, armate di mitraglie, che escono a turno su mezzi militari, due agenti olandesi di Frontex, un poliziotto bulgaro con la maglia del fascio littorio dei raduni di Predappio. Siamo relegati nel fondo di un corridoio, in piedi, circondati da cinque poliziotti. Il più giovane urla e ci dice che saremo trattenuti “perché stai facendo passare migranti clandestini“. Chiediamo acqua ed un bagno per la donna e le bambine, inizialmente ce li negano. Rimaniamo in attesa, ora ci dicono che non possono andare in ospedale in quanto senza documenti, sono in stato di arresto.

      Ore 09.00, arriva finalmente un medico: parla solamente in bulgaro, visita la donna in corridoio senza alcuna privacy, chiedendole di scoprire la pancia davanti ai 5 poliziotti. Chiamiamo ancora una volta l’avvocata, vogliamo chiedere che la donna sia portata in un ambulatorio e che abbia un interprete. Rimaniamo inascoltati. Dopo a malapena 5 minuti il medico conclude la sua visita, consigliando solamente di bere molta acqua.

      Ore 09.35, ci riportano i nostri documenti e ci invitano ad andarcene. E’ l’ultima volta che vediamo la donna e le bambine. Il telefono le viene sequestrato. Non viene loro permesso di fare la richiesta di asilo e vengono portate nel pre-removal detention centre di Lyubimets. Prima di condurci all’uscita, si presenta un tale ispettore Palov che ci chiede di firmare tre carte. Avrebbero giustificato le ore passate in centrale come conversazione avuta con l’ispettore, previa convocazione ufficiale. Rifiutiamo.

      Sulla via del ritorno ripercorriamo la Route 79, è estremamente pattugliata dalla polizia. Pensiamo alle tante persone che ogni notte muoiono senza nemmeno poter chiedere aiuto, oltre alle poche che lo chiedono invano. Lungo le frontiere di terra come di mare, l’omissione di soccorso è una precisa strategia delle autorità.

      L’indomani incontriamo l’amico del marito della donna. Sa che non potrà più fare qualcosa di simile: sarebbe accusato di smuggling e perderebbe ogni possibilità di ricostruirsi una vita in Europa. Invece noi, attivisti indipendenti, possiamo e dobbiamo continuare: abbiamo molto meno da perdere. Ci è chiara l’urgenza di agire in prima persona e disobbedire a chi uccide lasciando morire.

      Dopo 20 giorni dall’accaduto riusciamo ad incontrare la donna con le bambine, che sono state finalmente trasferite al campo aperto di Harmanli. Sono state trattenute quindi nel centro di detenzione di Lyubimets per ben 19 giorni. La donna ci riferisce che, durante la loro permanenza, non è mai stata portata in ospedale per eseguire accertamenti, necessari soprattutto per quanto riguarda la gravidanza; è stata solamente visitata dal medico del centro, una visita molto superficiale e frettolosa, molto simile a quella ricevuta alla stazione di polizia di Sredets. Ci dà inoltre il suo consenso alla pubblicazione di questo report.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/bulgaria-lasciar-morire-e-uccidere

      #laisser_mourir

    • Bulgaria, per tutti i morti di frontiera

      Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino: un racconto di come i confini d’Europa uccidono nel silenzio e nell’indifferenza


      Da fine giugno il Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino è ripartito per un nuovo progetto di solidarietà attiva e monitoraggio verso la frontiera più esterna dell’Unione Europea, al confine tra Bulgaria e Turchia.
      Pubblichiamo il secondo report delle “operazioni di ricerca e soccorso” che il Collettivo sta portando avanti, in cui si racconta del ritrovamento del corpo senza vita di H., un uomo siriano che aveva deciso di sfidare la fortezza Europa. Come lui moltə altrə tentano il viaggio ogni giorno, e muoiono nelle foreste senza che nessuno lo sappia. Al Collettivo è sembrato importante diffondere questa storia perchè parla anche di tutte le altre storie che non potranno essere raccontate, affinché non rimangano seppellite nel silenzio dei confini.

      Ore 12, circa, al numero del collettivo viene segnalata la presenza del corpo di un ragazzo siriano di trent’anni, H., morto durante un tentativo di game in prossimità della route 79. Abbiamo il contatto di un fratello, che comunica con noi attraverso un cugino che fa da interprete. Chiedono aiuto nel gestire il recupero, il riconoscimento e il rimpatrio del corpo; ci mandano le coordinate e capiamo che il corpo si trova in mezzo ad un bosco ma vicino ad un sentiero: probabilmente i suoi compagni di viaggio lo hanno lasciato lì così che fosse facilmente raggiungibile. Nelle ore successive capiamo insieme come muoverci.

      Ore 15, un’associazione del territorio con cui collaboriamo chiama una prima volta il 112, il numero unico per le emergenze. Ci dice che il caso è stato preso in carico e che le autorità hanno iniziato le ricerche. Alla luce di altri episodi simili, decidiamo di non fidarci e iniziamo a pensare che potrebbe essere necessario metterci in viaggio.

      Ore 16.46, chiamiamo anche noi il 112, per mettere pressione ed assicurarci che effettivamente ci sia una squadra di ricerca in loco: decidiamo di dire all’operatore che c’è una persona in condizioni critiche persa nei boschi e diamo le coordinate precise. Come risposta ci chiede il nome e, prima ancora di informazioni sul suo stato di salute, la sua nazionalità. E’ zona di frontiera: probabilmente, la risposta a questa domanda è fondamentale per capire che priorità dare alla chiamata e chi allertare. Quando diciamo che è siriano, arriva in automatico la domanda: “How did he cross the border? Legally or illegally?“. Diciamo che non lo sappiamo, ribadiamo che H. ha bisogno di soccorso immediato, potrebbe essere morto. L’operatore accetta la nostra segnalazione e ci dice che polizia e assistenza medica sono state allertate. Chiediamo di poter avere aggiornamenti, ma non possono richiamarci. Richiameremo noi.

      Ore 17.54, richiamiamo. L’operatrice ci chiede se il gruppo di emergenza è arrivato in loco, probabilmente pensando che noi siamo insieme ad H. La informiamo che in realtà siamo a un’ora e mezzo di distanza, ma che ci possiamo muovere se necessario. Ci dice che la border police “was there” e che “everything will be okay if you called us“, ma non ha informazioni sulle sorti di H. Le chiediamo, sempre memori delle false informazioni degli altri casi, come può essere sicura che una pattuglia si sia recata in loco; solo a questo punto chiama la border police. “It was my mistake“, ci dice riprendendo la chiamata: gli agenti non lo hanno trovato, “but they are looking for him“. Alle nostre orecchie suona come una conferma del fatto che nessuna pattuglia sia uscita a cercarlo. L’operatrice chiude la chiamata con un: “If you can, go to this place, [to] this GPS coordinates, because they couldn’t find this person yet. If you have any information call us again“. Forti di questo via libera e incazzatə di dover supplire alle mancanze della polizia ci mettiamo in viaggio.

      Ore 18.30, partiamo, chiamando il 112 a intervalli regolari lungo la strada: emerge grande indifferenza, che diventa a tratti strafottenza rispetto alla nostra insistenza: “So what do you want now? We don’t give information, we have the signal, police is informed“. Diciamo che siamo per strada: “Okay“.

      Ore 20.24, parcheggiamo la macchina lungo una strada sterrata in mezzo al bosco. Iniziamo a camminare verso le coordinate mentre il sole dietro di noi inizia a tramontare. Richiamiamo il 112, informando del fatto che non vediamo pattuglie della polizia in giro, nonostante tutte le fantomatiche ricerche già partite. Ci viene risposto che la polizia è stata alle coordinate che noi abbiamo dato e non ha trovato nessuno; gli avvenimenti delle ore successive dimostreranno che questa informazione è falsa.

      “I talked with Border Police, today they have been in this place searching for this guy, they haven’t find anybody, so“

      “So? […] What are they going to do?“

      “What do you want from us [seccato]? They haven’t found anyone […]“

      “They can keep searching.”

      “[aggressivo] They haven’t found anybody on this place. What do you want from us? […] On this location there is no one. […] You give the location and there is no one on this location“.

      Ore 21.30, arriviamo alle coordinate attraverso un bosco segnato da zaini e bottiglie vuote che suggeriscono il passaggio di persone in game. Il corpo di H. è lì, non un metro più avanti, non uno più indietro. I suoi compagni di viaggio, nonostante la situazione di bisogno che la rotta impone, hanno avuto l’accortezza di lasciargli a fianco il suo zaino, il suo telefono e qualche farmaco. E’ evidente come nessuna pattuglia della polizia sia stata sul posto, probabilmente nessuna è neanche mai uscita dalla centrale. Ci siamo mosse insieme a una catena di bugie. Richiamiamo il 112 e l’operatrice allerta la border police. Questa volta, visto il tempo in cui rimaniamo in chiamata in attesa, parrebbe veramente.

      Ore 21.52, nessuno in vista. Richiamiamo insistendo per sapere dove sia l’unità di emergenza, dato che temiamo ancora una volta l’assoluto disinteresse di chi di dovere. Ci viene risposto: “Police crew is on another case, when they finish the case they will come to you. […] There is too many case for police, they have only few car“. Vista la quantità di posti di blocco e di automobili della polizia che abbiamo incrociato lungo la route 79 e i racconti dei suoi interventi continui, capillari e violenti in “protezione” dei confini orientali dell’UE, non ci pare proprio che la polizia non possegga mezzi. Evidentemente, di nuovo, è una questione di priorità dei casi e dei fini di questi: ci si muove per controllare e respingere, non per soccorrere. Insistiamo, ci chiedono informazioni su di noi e sulla macchina:

      “How many people are you?“

      “Three people“

      “Only women?”

      “Yes…”

      “Have patience and stay there, they will come“.

      Abbiamo la forte percezione che il fatto di essere solo ragazze velocizzerà l’intervento e che di certo nessuno si muoverà per H.: il pull factor per l’intervento della polizia siamo diventate noi, le fanciulle italiane in mezzo al bosco da salvare. Esplicitiamo tra di noi la necessità di mettere in chiaro, all’eventuale arrivo della polizia, che la priorità per noi è il recupero del corpo di H. Sentiamo anche lə compagnə che sono rimastə a casa: davanti all’ennesimo aggiornamento di stallo, in tre decidono di partire da Harmanli e di raggiungerci alle coordinate; per loro si prospetta un’ora e mezzo in furgone: lungo la strada, verranno fermati tre volte a posti di blocco, essendo i furgoni uno dei mezzi preferiti dagli smuggler per muovere le persone migranti verso Sofia.

      Ore 22, continuiamo con le chiamate di pressione al 112. E’ una donna a rispondere: la sua voce suona a tratti preoccupata. Anche nella violenza della situazione, registriamo come la socializzazione di genere sia determinante rispetto alla postura di cura. Si connette con la border police: “Police is coming to you in 5…2 minutes“, ci dice in un tentativo di rassicurarci. Purtroppo, sappiamo bene che le pratiche della polizia sono lontane da quelle di cura e non ci illudiamo: l’attesa continuerà. Come previsto, un’ora dopo non è ancora arrivato nessuno. All’ennesima chiamata, il centralinista ci chiede informazioni sulla morfologia del territorio intorno a noi. Questa richiesta conferma quello che ormai già sapevamo: la polizia, lì, non è mai arrivata.

      Ore 23.45, delle luci illuminano il campo in cui siamo sedute ormai da ore vicine al corpo di H. E’ una macchina della polizia di frontiera, con sopra una pattuglia mista di normal police e border police. Nessuna traccia di ambulanza, personale medico o polizia scientifica. Ci chiedono di mostrargli il corpo. Lo illuminano distrattamente, fanno qualche chiamata alla centrale e tornano a noi: ci chiedono come siamo venute a sapere del caso e perchè siamo lì. Gli ribadiamo che è stata un’operatrice del 112 a suggerici ciò: la cosa ci permette di giustificare la nostra presenza in zona di confine, a fianco ad un corpo senza vita ed evitare le accuse di smuggling.

      Ore 23.57, ci propongono di riaccompagnarci alla nostra macchina, neanche 10 minuti dopo essere arrivati. Noi chiediamo cosa ne sarà del corpo di H. e un agente ci risponde che arriverà un’unità di emergenza apposita. Esplicitiamo la nostra volontà di aspettarne l’arrivo, vogliamo tentare di ottenere il maggior numero di informazioni da comunicare alla famiglia e siamo preoccupate che, se noi lasciamo il campo, anche la pattuglia abbandonerà il corpo. Straniti, e forse impreparati alla nostra presenza e insistenza, provano a convincerci ad andare, illustrando una serie farsesca di pericoli che vanno dal fatto che sia zona di frontiera interdetta alla presenza di pericolosi migranti e calabroni giganti. Di base, recepiamo che non hanno una motivazioni valida per impedirci di rimanere.

      Quando il gruppo di Harmanli arriva vicino a noi, la polizia li sente arrivare prima di vederli e pensa che siano un gruppo di migranti; a questo stimolo, risponde con la prontezza che non ha mai dimostrato rispetto alle nostre sollecitazioni. Scatta verso di loro con la mano a pistola e manganello e le torce puntate verso il bosco. Li trova, ma il loro colore della pelle è nello spettro della legittimità. Va tutto bene, possono arrivare da noi. Della pattuglia di sei poliziotti, tre vanno via in macchina, tre si fermano effettivamente per la notte; ci chiediamo se sarebbe andata allo stesso modo se noi con i nostri occhi bianchi ed europei non fossimo stati presenti. Lo stallo continua, sostanzialmente, fino a mattina: la situazione è surreale, con noi sdraiati a pochi metri dalla polizia e dal corpo di H. L’immagine che ne esce parla di negligenza delle istituzioni, della gerarchia di vite che il confine crea e dell’abbandono sistematico dei corpi che vi si muovono intorno, se non per un loro possibile respingimento.

      Ore 8 di mattina, l’indifferenza continua anche quando arriva la scientifica, che si muove sbrigativa e sommaria intorno al corpo di H., vestendo jeans e scattando qualche fotografia simbolica. Il tutto non dura più di 30 minuti, alla fine dei quali il corpo parte nella macchina della border police, senza comunicazione alcuna sulla sua direzione e sulle sue sorti. Dopo la solita strategia di insistenza, riusciamo ad apprendere che verrà portato all’obitorio di Burgas, ma non hanno nulla da dirci su quello che avverrà dopo: l’ipotesi di un rimpatrio della salma o di un possibile funerale pare non sfiorare nemmeno i loro pensieri. Scopriremo solo in seguito, durante una c​hiamata con la famiglia, che H., nella migliore delle ipotesi, verrà seppellito in Bulgaria, solo grazie alla presenza sul territorio bulgaro di un parente di sangue, da poco deportato dalla Germania secondo le direttive di Dublino, che ha potuto riconoscere ufficialmente il corpo. Si rende palese, ancora una volta, l’indifferenza delle autorità nei confronti di H., un corpo ritenuto illegittimo che non merita nemmeno una sepoltura. La morte è normalizzata in questi spazi di confine e l’indifferenza sistemica diventa un’arma, al pari della violenza sui corpi e dei respingimenti, per definire chi ha diritto a una vita degna, o semplicemente a una vita.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/bulgaria-per-tutti-i-morti-di-frontiera

  • À la frontière serbo-hongroise, les exilés entre deux feux

    C’est le « game » : franchir la #clôture anti-migrants que la Hongrie a érigée à la frontière serbe en 2015, puis espérer échapper à la violence des patrouilles hongroises. Environ un millier d’exilés attendent leur tour à #Subotica, dans des squats ou dans la forêt, en jouant au chat et à la souris avec la police serbe. Reportage.

    « J’ai déjà tenté dix fois de passer en Hongrie, ça n’a pas marché », confie Arman. « Mais je n’abandonne pas ! » Assis sur un vieux tapis poussiéreux, sous une tonnelle bricolée avec du bois et une grande bâche bleue de récupération, le jeune Afghan d’une vingtaine d’années, qui espère rejoindre le Royaume-Uni, décortique des pistaches en écoutant de la musique sur une petite enceinte portable avec deux de ses amis. C’est là qu’ils ont trouvé un refuge temporaire, entre les lignes de chemin de fer et un vieux bâtiment abandonné de la gare de Subotica, au nord de la Serbie, à la frontière avec la Hongrie. Pour le moment, en cette fin de matinée chaude et ensoleillée, Arman et ses deux compagnons de route patientent. Mais le soir venu, c’est sûr, ils tenteront une fois de plus le « game ».

    Le « game », c’est-à-dire quitter la ville de Subotica, atteindre la forêt qui jouxte la frontière, puis tenter de franchir le « mur anti-migrants », formule du Premier ministre hongrois, Viktor Orbán : il s’agit d’une double barrière de plus de trois mètres de haut, dont l’une est surmontée de barbelés Concertina, longue de 175 kilomètres, dotée de caméras et de détecteurs de mouvements, et surveillée par de multiples patrouilles de la police hongroise. Quelque 800 millions d’euros ont été nécessaires pour ériger ce dispositif construit à la fin de l’été 2015, alors que des milliers d’exilés cherchaient à se réfugier en Europe, fuyant la guerre en Syrie ou la violence et la pauvreté dans leur pays.

    Franchir le « mur » ne garantit cependant pas de pouvoir continuer la route vers l’Union européenne. « Quand les policiers hongrois nous attrapent, avant de nous renvoyer en Serbie, ils confisquent ou détruisent nos téléphones », témoigne Arman. « Ils se montrent souvent violents, particulièrement quand ils découvrent que nous sommes afghans. » Des pratiques de refoulements (ou « pushback ») qui ont valu à la Hongrie une condamnation de la Cour de justice de l’Union européenne (CJUE) en décembre 2020, mais qui n’étonnent plus Maria Marga, chargée des programmes de Collective Aid, une organisation qui soutient les exilés à Subotica. Présente depuis 2019, l’équipe sur place recueille très régulièrement des témoignages d’exilés refoulés par la police hongroise, souvent violemment, « et ce en dépit des lois internationales et du principe de non-refoulement », souligne la responsable associative.

    En attendant de passer la frontière, la plupart des exilés survivent dans des campements informels faits de tentes et d’abris de fortune dans des « jungles » au cœur de la forêt. Le Centre de réception, ouvert en 2015 par les autorités à l’entrée sud de la ville, qui héberge actuellement plus de 400 personnes pour une capacité de 220 places, reste sous-doté pour accueillir les exilés présents à la frontière, estimés à un millier. Rencontré à proximité du camp, Naïm, un adolescent de quatorze ans, semble un peu perdu. « Je suis là depuis trois jours, il n’y a pas de place dans le camp, alors je dors ici », indique Naïm en désignant la terre battue qui jouxte le centre. L’adolescent a quitté il y a six mois Deir Ez Zor, dans l’est de la Syrie, puis a transité par la Turquie, la Bulgarie avant d’atteindre le nord de la Serbie. Malgré ses quatorze ans, il passera la nuit dehors.

    Naïm n’est pas le seul à dormir à l’extérieur du camp. D’autres exilés squattent où ils peuvent en ville ou bien s’abritent dans la forêt située à une dizaine de kilomètres au nord de Subotica. Selon Maria Marga, « les expulsions de campements et de squats menées par la police serbe ont été constantes ces trois derniers mois ». Dans un récent rapport, le réseau d’associations Border Violence Monitoring Network (dont Collective Aid est membre) a recensé 27 opérations d’expulsions menées au cours du seul mois de juillet 2023, dont certaines ont été émaillées de violences de la part des forces de l’ordre, de destructions de tentes et de vols d’affaires appartenant à des exilés. « Ces expulsions accentuent la précarité des exilés, qui se retrouvent isolés et éprouvent des difficultés à se procurer nourriture et eau », déplore Maria Marga.
    Frontex en renfort

    Début août, les autorités serbes ont mobilisé plus de 800 policiers et gendarmes pour une vaste opération destinée à démanteler des réseaux de passeurs : treize personnes ont été arrêtées et des armes ont été saisies. Maria Marga souligne que la communication des autorités serbes n’évoque pas « les 300 personnes exilées qui ont aussi été arrêtées avant d’être envoyées par bus dans des camps, dont celui de Preševo, à 500 kilomètres, tout au sud de la Serbie ». L’objectif de ce type d’opérations, selon elle : éloigner ces personnes de la frontière avec la Hongrie. « Ces expulsions visent simplement à plonger les exilés dans un climat d’hostilité et d’insécurité », conclut la responsable associative.

    L’agence Frontex a recensé 145 600 franchissements irréguliers de frontières en 2022 dans la région des Balkans occidentaux, en augmentation de 136% par rapport à 2021, selon les données collectées par ses services. Pour les autorités européennes, la « route des Balkans » empruntées par de nombreux exilés venus du Proche et du Moyen-Orient est présentée comme une priorité. En octobre dernier, la Commission européenne a ainsi acté le renforcement du rôle de Frontex en Serbie, en Bosnie-Herzégovine, au Monténégro et en Albanie, et débloqué 39,2 millions d’euros destinés à « sécuriser » les frontières de ces pays via l’achat de systèmes de surveillance mobiles, de drones ou d’appareils biométriques.

    Une préoccupation déjà visible sur le terrain, comme en témoigne Maria Marga, qui constate « la présence depuis le début de l’année de policiers italiens, allemands ou néerlandais, tous avec leurs uniformes nationaux, mais portant un brassard Frontex ». Ce nouveau déploiement de l’agence, accusée par ailleurs d’avoir couvert les refoulements pratiqués par les garde-côtes grecs, inquiète la responsable associative. « À ce stade, les nouvelles missions des agents de Frontex sont peu claires : sont-ils ici pour soutenir les actions de la police serbe et patrouiller aux frontières ? Ou pour collecter des données ? »

    Alors que la nuit tombe sur Subotica, Arman et ses deux amis se mettent en route vers la Hongrie. Ce soir peut-être, le « game » le rapprochera un peu plus du Royaume-Uni, ou l’ancrera un peu plus longtemps en Serbie.

    https://www.courrierdesbalkans.fr/Exiles-a-la-frontiere-serbo-hongroise
    #Serbie #Hongrie #frontières #asile #migrations #réfugiés #game #the_game #route_des_Balkans #Balkans #murs #barrière_frontalière #forêt #campements #militarisation_des_frontières #Frontex

  • PODCAST- FRONTIERA SOLIDALE #MEDU

    Medici per i Diritti Umani presenta Frontiera solidale: un podcast di tre puntate per raccontare, attraverso le voci dei testimoni diretti, il fenomeno epocale delle migrazioni, assumendo come osservatorio una frontiera nel cuore dell’Europa, quella tra l’Italia e la Francia, nell’Alta Val di Susa.

    https://mediciperidirittiumani.org/podcast-frontiera-solidale-medu
    #podcast #audio #Alpes #frontière_sud-alpine #montagne #Italie #migrations #asile #réfugiés #frontières #Val_de_Suse

  • La drammatica condizione dei migranti in arrivo a Trieste: “500 persone abbandonate in strada”

    I trasferimenti dei richiedenti asilo in arrivo nella città dalla rotta balcanica sono fermi, mentre gli arrivi aumentano (quasi 8mila tra gennaio e luglio). Crescono i casi di famiglie e i minori soli costretti a dormire all’addiaccio. Le istituzioni restano immobili, negando servizi di bassa soglia. La rete solidale cittadina fa il punto della situazione

    La situazione dei migranti a Trieste, principale punto di passaggio delle rotte balcaniche nel nostro Paese, è sempre più drammatica: a fine agosto sono quasi 500 i richiedenti asilo costretti a vivere all’addiaccio, mentre i trasferimenti si sono completamente azzerati. Lo evidenzia il nuovo rapporto stilato dalla rete solidale cittadina, network di realtà che operano nel capoluogo giuliano nel campo dell’accoglienza e dell’assistenza alle persone in transito e che comprende la Comunità di San Martino al Campo, il Consorzio italiano di solidarietà (Ics), la Diaconia valdese (Csd), Donk humanitarian medicine, International rescue committee Italia e l’associazione Linea d’Ombra.

    Il documento fa seguito al report “Vite abbandonate”, predisposto all’inizio dell’estate, che rendeva noti i dati raccolti dagli attivisti e dagli operatori nel corso del 2022. La necessità di un aggiornamento deriva dal grave inasprimento della situazione, ormai di estrema emergenza, dovuta alla carenza dei servizi a fronte di un’elevata richiesta di aiuto. Il numero di migranti a Trieste è in aumento -sono 7.890 gli arrivi dall’inizio di gennaio alla fine di luglio, contro i 3.191 dello stesso periodo dello scorso anno- con una presenza sempre maggiore di nuclei familiari, donne sole o con bambini e minori non accompagnati. Questi ultimi sono saliti dell’11% rispetto al 2022, con un’età in calo.

    Alcuni dei ragazzi incontrati dalle realtà autrici del report sono sotto i 14 anni e in alcuni casi ne hanno anche 10 o 11. Nel solo mese di luglio sono arrivate nel capoluogo giuliano 2.277 persone, il 20% delle quali non era ancora maggiorenne; solo in questo periodo sono giunte 55 famiglie, molte delle quali di provenienza curda.

    A questa impennata di presenze non è corrisposto affatto un incremento dei servizi di bassa soglia. Anzi, l’amministrazione comunale ha deciso di chiudere, a inizio luglio, il progetto “Emergenza freddo”, che garantiva una sessantina di posti letto in più per le persone vulnerabili costrette a vivere per strada. Per l’accoglienza temporanea dei nuclei familiari e delle donne sole, un grande lavoro è stato fatto dall’hotel Alabarda, struttura di proprietà del Comune gestita dalla Caritas; oggi, tuttavia, l’albergo si trova in una situazione di tale saturazione -dovuta anche all’aumento di minori stranieri non accompagnati- che risulta difficile trovare posto per nuove persone. “L’altro giorno c’era una famiglia curda con quattro bambini, di cui la più grande aveva sei anni e il più piccolo tre mesi -ha raccontato nella conferenza stampa del 24 agosto Gian Andrea Franchi di Linea d’Ombra-. Sono andato alla parrocchia più vicina, che risponde al sontuoso nome di ‘Santissimo cuore immacolato di Maria’, ho suonato, abbiamo parlato un po’ e mi hanno detto di andare alla Caritas, che però era chiusa. Alla fine un amico ha dato ospitalità a suo rischio a questo nucleo familiare”.

    Il rapporto evidenzia, così come il precedente, la mancanza strutturale di servizi di bassa soglia e “suggerisce” al Comune di Trieste di prendere atto della realtà in cui è inserito e del periodo storico che stiamo attraversando. La città, infatti, essendo il punto di ingresso su suolo italiano delle rotte balcaniche, dovrebbe prepararsi agli arrivi di persone migranti e intervenire aumentando l’assistenza e i posti letto disponibili. L’incremento nel numero di ingressi dipende in larghissima parte dalle condizioni di vita nei Paesi di partenza ed è quindi pressoché inevitabile. La maggiore responsabilità della situazione drammatica che si è delineata nel capoluogo giuliano, tuttavia, va ricercata nell’azzeramento totale dei trasferimenti verso altre Regioni; il rapporto mette infatti in evidenza lo strettissimo rapporto tra la quantità di spostamenti organizzati e il numero di richiedenti asilo segnalati senza accoglienza. Se a gennaio c’erano 132 trasferimenti e 313 persone rimaste in strada, ad agosto, con zero trasferimenti, i migranti costretti a vivere all’addiaccio sono 494. Di questi, almeno 74 sono in attesa di un posto nel sistema di accoglienza da più di tre mesi.

    “Nel momento in cui il ministero fa un programma, i richiedenti asilo devono essere considerati tutti uguali e devono essere tutti ricollocati -ha aggiunto Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) e tra le anime della rete RiVolti ai Balcani-. Ci dovrebbe essere una quota da ripartire per area di ingresso. A Trieste se prima questa quota era bassa e avevamo persone in strada, adesso siamo a zero. Questo territorio è completamente abbandonato, lo Stato è sparito. Per questa situazione catastrofica ci sono delle responsabilità su cui la magistratura dovrà indagare”. Come messo in luce dall’associazione Donk humanitarian medicine, chi vive in situazioni critiche di abbandono ha più probabilità di sviluppare patologie.

    Le persone che si ammalano, tuttavia, dopo esser state visitate dal pronto soccorso, tornano sulla strada, spesso a dormire nel silos accanto alla stazione, in un ambiente estremamente malsano e precario e certamente non adatto a un periodo di convalescenza o alla cura di una malattia. Gli operatori segnalano, inoltre, che da giugno si sono verificati alcuni episodi di violenza, dovuti all’arrivo di un gruppo di individui che parrebbe lavorare in rapporto con i passeur. La situazione di stallo che caratterizza la città è ormai nota anche alle persone in arrivo: rispetto all’anno scorso è aumentato il numero di coloro che dichiarano di non volersi fermare in zona per chiedere asilo (dal 59 al 72%). La maggior parte degli ingressi (77,1%) sono di cittadini provenienti dall’Afghanistan, che spesso preferiscono continuare il proprio viaggio. Chi invece tende a fare maggiori domande di asilo nell’area sono i cittadini pakistani, che rappresentano il 51,3% dei richiedenti asilo in attesa di accoglienza a Trieste. Lasciati lì.

    https://altreconomia.it/la-drammatica-condizione-dei-migranti-in-arrivo-a-trieste-500-persone-a

    #Trieste #asile #migrations #réfugiés #frontières #frontière_sud-alpine #Italie #Slovénie #SDF #sans-abris #hébergement #route_des_Balkans #Balkans #statistiques #chiffres #accueil #vulnérabilité

    • Aggiornamento sulla situazione dei migranti in arrivo dalla rotta balcanica – gennaio/luglio 2023

      Nella mattina di oggi, nell’ufficio di ICS, è stato presentato l’aggiornamento del report “Vite abbandonate”, comprendente i dati da gennaio a luglio 2023. È possibile scaricarlo cliccando qui: https://www.icsufficiorifugiati.org/wp-content/uploads/2023/08/PRESENTAZIONE-DATI-GIU-LUG-23-2.pdf. Di seguito potete leggere invece l’analisi dei dati contenuti nel report.

      Arrivi e vulnerabilità

      Durante le attività di monitoraggio svolte nell’area di Piazza Libertà e del Centro Diurno, mediatori e operatori hanno incontrato dall’inizio di gennaio alla fine di luglio 7890 persone provenienti dalla Rotta Balcanica. Un confronto con i dati pubblicati nel Report 2022 “Vite abbandonate”, indica che il totale nello stesso periodo considerato era stato di 3191. Una media di arrivi nel 2023 di 37 al giorno contro i 15 dell’anno precedente. Il 91,8% di essi è di sesso maschile, circa 4% femminile (sole, sole con figli o in famiglia) e il 4% bambini. I nuclei famigliari sono stati 120. Il 16% delle persone che attraversano la Rotta Balcanica che coinvolge Trieste è composta da Minori Stranieri Non Accompagnati, categoria di altissima vulnerabilità, in forte aumento rispetto l’anno precedente (11%). Riguardo la provenienza, è evidente un aumento della componente afghana (il 73% in questi mesi del 2023, nel 2022 erano il 54%), rispetto a un calo delle nazionalità pakistana (11% contro il 25% del 2022), bengalese (3,5 % contro 6%), stabili le percentuali nepalese (il 2%, tra loro un alto tasso di donne sole) e kurda turca (il 4%, nella loro totalità significano nuclei famigliari in transito verso altre destinazioni). La destinazione dichiarata continua ad essere l’estero. Le attività della rete confermano questo dato, incontrando persone che passano pochissime ore a Trieste prima di riprendere il viaggio verso altri paesi europei. Rispetto all’anno precedente infatti vi è un aumento netto delle persone che preferiscono questa opzione, ad oggi il 72% (nel 2022 erano il 59%). Va posta attenzione ai risultati del monitoraggio del mese di luglio: sono arrivate solo in questo periodo 2277 persone, il numero delle famiglie incontrate sono state 55 (su un totale 2023 di 120) e i Minori Stranieri Non Accompagnati addirittura il 21,5% del totale del mese. 270 persone (11,8% del mese) hanno dichiarato di voler fare domanda di asilo a Trieste, che sono andate ad aumentare le fila di chi già era sul territorio nei due mesi precedenti in attesa di entrare in accoglienza. È un dato importante, perché il mese di luglio ha significato la chiusura del progetto Emergenza Freddo del Comune, riducendo significativamente i posti in accoglienza a rotazione nei dormitori di bassa soglia della Comunità di San Martino e Caritas, fondamentali per venire incontro alle situazioni di emergenza e vulnerabilità che spesso le organizzazioni si trovano a dover affrontare quotidianamente, costringendo alla strada moltissime persone in stato di necessità. Una delle strutture più efficaci per intervenire in ottica di riduzione del danno come l’Hotel Alabarda che accoglie donne sole e famiglie, nelle ultime settimane si è trovata senza disponibilità di posti letto, generando un’emergenza che ancora perdura e rendendo impossibile l’accoglienza di questi casi fragili.

      Stato dei trasferimenti e delle accoglienze

      Il rallentamento delle procedure di trasferimento e ricollocazione dei richiedenti asilo in altre regioni italiane a cui abbiamo assistito nel 2022 è continuato anche nei primi mesi del 2023, con eccezione dei mesi di febbraio e marzo, ed è andato peggiorando fino ad arrivare ad un blocco pressoché totale nei mesi estivi – quelli in cui è prevedibile avere un incremento degli arrivi di richiedenti asilo.

      Dopo il mese di marzo che aveva notevolmente abbassato il numero di persone in strada e ridotto i tempi medi di attesa per l’ingresso nelle strutture di prima accoglienza, siamo dunque tornati in una situazione di forte emergenza, chiaramente creata artificialmente. Ciò si verifica non tanto per l’aumento dei flussi di arrivo, che hanno visto solo un piccolo incremento rispetto ai mesi precedenti, quanto invece all’ennesima paralisi nei trasferimenti. A ciò si è aggiunta la decisione della Prefettura di ridurre la capienza di uno dei centri di prima accoglienza, l’Ostello scout di Prosecco (con la conseguente chiusura di un’intera camerata), passata a 75 richiedenti asilo rispetto ai precedenti 95, che ha quindi costretto a limitare le accoglienze successive alle partenze.

      Nonostante la situazione di emergenza fosse totalmente prevedibile, nel corso del 2023 non è stato dato avvio ai lavori presso l’Ostello per la creazione di una nuova fognatura con l’installazione di moduli abitativi ma neppure vi sono state collocate in via provvisoria delle tende con relativi servizi igienici chimici. Tale scelta avrebbe potuto assicurare il raggiungimento di almeno 200 posti complessivi nella struttura, alleggerendo parzialmente la gravissima situazione di abbandono in strada dei richiedenti asilo.

      Di fronte al numero sempre più elevato di richiedenti asilo che si trovano in strada e al blocco dei trasferimenti nessuna misura di emergenza è stata adottata dalla Prefettura – Ufficio territoriale del Governo per mitigare la situazione. Tale quadro di generale inerzia ha colpito anche le situazioni più vulnerabili tra i richiedenti, quali persone traumatizzate, persone con patologie mediche evidenti, persone appena dimesse dalle strutture ospedaliere locali: tutte indistintamente sono state abbandonate in strada senza curarsi delle loro condizioni.

      L’esplosione nel 2022 del fenomeno delle persone richiedenti asilo abbandonate in strada, ha raggiunto nei mesi estivi del 2023 dei numeri ancora eccezionalmente elevati: al 22 agosto sono più di 494 richiedenti asilo che sono costretti a vivere per strada, con una permanenza all’addiaccio che arriva a più di 3 mesi per almeno 74 persone, prima di poter accedere al sistema di prima accoglienza previsto dalla legge.

      Di fronte a questo scenario, tristemente non inusuale, le organizzazioni della società civile impegnate a Trieste continuano in forma volontaria a dare supporto alle centinaia di persone abbandonate a loro stesse, a monitorare in maniera indipendente gli sviluppi, a rendere la Prefettura edotta della situazione in cui versano i richiedenti asilo privi di accoglienza, comunicando in maniera più circostanziata possibile il loro numero, i tempi di attesa e le situazioni più vulnerabili. Questo lavoro è stato svolto anche per mezzo di 10 segnalazioni formali inviate alla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Trieste dal Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS) tra gennaio e agosto 2023 via PEC; segnalazioni rimaste, purtroppo, senza risposta. Nel periodo menzionato sono state censite 1202 persone richiedenti asilo in stato di indigenza che non hanno avuto accesso tempestivo alle misure di accoglienza, in violazione di quanto previsto dalle normative vigenti (sono invece 2.068 le persone riportate nelle segnalazioni formali: con l’incremento dei tempi di attesa, infatti, molte persone sono state segnalate anche più volte prima di ricevere adeguate misure di accoglienza). L’ultima segnalazione, quella che meglio dipinge la situazione ormai fuori controllo, è quella del 22 agosto 2023. Alla Prefettura sono state fatte pervenire le generalità delle 494 persone fuori accoglienza, di cui 74 da maggio 2023, che avevano quindi raggiunto i 3 mesi di attesa.

      Raccomandazioni

      Come già evidenziato nel rapporto “Vite Abbandonate” è inderogabile ed urgente mettere in atto da parte delle pubbliche autorità le seguenti iniziative urgenti al fine di contenere una situazione che ha assunto il profilo di una vera emergenza umanitaria:

      1) La Prefettura di Trieste e il Ministero dell’Interno, nell’ambito delle rispettive competenze, devono immediatamente riprendere l’attuazione di un piano di sistematici trasferimenti dei richiedenti asilo dalle aree di confine tramite l’assegnazione di quote adeguate. La situazione di evidente difficoltà conseguente al netto incremento degli arrivi nel Mediterraneo può in parte giustificare il fatto che la quota assegnata a Trieste e al resto del FVG non sia del tutto adeguata ma in nessun caso si può giustificare la totale assenza di quote, come invece sta avvenendo da giugno 2023.

      Un’attenzione specifica va riservata alle situazioni maggiormente vulnerabili (famiglie con minori, donne sole, malati, persone vittime di traumi) alle quali in ogni caso va garantita una temporanea accoglienza in ogni caso, se necessario in mancanza di posti, attraverso la collocazione in strutture alberghiere.

      2) Il Comune di Trieste deve assumere piena conspaevolezza del fatto che la città, per la sua collocazione geografica quale terminale della rotta balcanica, si trova ad affrontare problematiche di intervento di “bassa soglia” più simili a quelle di un’area metropolitana che non a quelle di una città di media dimensione. In tale ottica è necessario implementare un Piano di intervento umanitario che sia attivo anche al di fuori del periodo invernale e che consenta di assicurare posti di accoglienza notturna presso il sistema dei dormitori a bassa soglia con alta turnazione per una capienza complessiva di almeno 100 posti letto giornalieri da destinare a tutte le persone in transito e ai richiedenti asilo nelle more del loro tempestivo passaggio al sistema di accoglienza loro dedicato previsto dalle normative vigenti. Tale Piano deve prevedere altresì un reale sostegno alle attività del Centro Diurno di via Udine quale luogo cruciale della prima assistenza umanitaria. Si sottolinea nuovamente come gli interventi di assistenza oggi realizzati presso il Centro Diurno di via Udine sono quasi interamente a carico delle associazioni di volontariato per ciò che riguarda i costi degli interventi e quello relativo al personale che gestisce la struttura, nonché la mediazione linguistica. Si tratta di una situazione insostenibile nel lungo periodo; qualora infatti, per mancanza di risorse, l’attività attuale presso il Centro Diurno dovesse cessare, la situazione umanitaria a Trieste diventerebbe immediatamente drammatica e di ciò le istituzioni devono essere consapevoli.

      3) La ASUGI (Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina) dovrebbe far fronte in maniera più attenta ai numerosi bisogni di cure mediche delle persone migranti, anche prive di documenti, superando il mero rinvio al pronto soccorso nei soli casi di estrema urgenza e provvedendo a un rifornimento costante e sistematico di medicinali nonché alla messa a disposizione di in servizio di mediazione culturale presso il Centro Diurno.

      https://www.icsufficiorifugiati.org/aggiornamento-sulla-situazione-dei-migranti-in-arrivo-dalla-rot
      #rapport #ICS #2023

    • Trieste. Invisibili sotto gli occhi di tutti (I parte)

      Pioggia torrenziale e vento a 120 km orari. Un trasferimento di 60 ragazzi

      Quello che, ormai da troppo tempo, sta succedendo nella città di Trieste, è gravissimo. Centinaia di persone in transito e richiedenti asilo nel più totale e vergognoso abbandono delle istituzioni. Una situazione che non ci stancheremo mai di denunciare.

      Questo è la testimonianza di Chiara Lauvergnac, un’attivista triestina, che pubblicheremo in più parti. Nel primo articolo si parla delle forti piogge di fine agosto.

      Il caldo torrido degli ultimi giorni si è sciolto sotto un temporale che pareva un uragano. La mattina del 28 agosto tutta la parte bassa della città, quella più vicina al mare, si è allagata. Lo scirocco ha raggiunto i 120 chilometri all’ora, cosa che non si era mai vista, facendo volare gli arredi dei caffè eleganti di Piazza Unità, mentre i cassonetti delle immondizie navigavano, trascinati dall’acqua.

      Anche il Silos, che è aperto alla pioggia e a tutti i venti, si è allagato. Gli effetti personali di ogni persona che è costretta a viverci si sono completamente inzuppati; tutti i vestiti, anche quelli che avevano addosso, coperte, documenti, tutto. Parecchie tende sono state sradicate dal vento, alcune danneggiate irreparabilmente, qualche baracca è stata scoperchiata. I generi alimentari, soprattutto farina e zucchero, sono andati perduti. Poi ha continuato a piovere per tutta la giornata, un susseguirsi di temporali con piogge torrenziali 1.

      Marianna Buttignoni, volontaria da 3 anni e membro del direttivo di Linea D’Ombra, spiega, «Immaginate un edificio diroccato, senza luce, acqua, infissi. Immaginate la mitica bora di Trieste, e ora pensate all’inverno. È tempo di aprire gli occhi sulla realtà e vedere che serve aprire un dormitorio. Noi possiamo portare le tende, le coperte, qualche indumento asciutto, ma manca un intervento di civiltà: la grande Trieste lascia i suoi ospiti nel fango e senza un cesso, per poi dire “si adeguino ai nostri costumi”. Guardate le foto: non pensate che per qualunque altra popolazione sarebbe già intervenuta la protezione civile?»

      In questo tempo infernale sono arrivati molti ragazzi dalla rotta balcanica, anche loro bagnati fino all’osso. La sera è arrivato un grosso gruppo di afghani (112 secondo i volontari) tra cui molti minori: c’è un ragazzino di 10 o 11 anni al massimo e un altro di 14 circa, altri più grandi, tra i 15 e i 17 anni. Tutti hanno i piedi a pezzi.

      Quando l’acqua entra nelle scarpe i piedi si macerano, la pelle assorbe l’acqua, si gonfia e diventa bianca, molle e piena di grinze, poi comincia a rompersi per la frizione prodotta dal camminare. Tre volontarie di Linea d’Ombra hanno curato i piedi feriti fino a dopo la mezzanotte, riparate alle meno peggio sotto la tettoia della stazione perché la piazza era sferzata dalla pioggia, il sottopassaggio pedonale allagato.

      La polizia ha costretto tutti ad uscire dalla stazione: «È solo per chi ha il biglietto, è il regolamento». Altri volontari sono arrivati con thé caldo cibo, vestiti asciutti, si è distribuito uno stock di vestiti troppo grandi, quelli di misura medio/piccola erano finiti, come erano finite tende e coperte. C’erano solamente coperte d’emergenza isotermiche, le cosiddette metalline, teli di plastica sottile color oro. Ne vanno pacchi interi. Si attende un carico di coperte vere che arriverà tra qualche giorno, ma non bastano mai. Anche se è ancora estate, con la pioggia e la temperatura che scende al di sotto dei 16 gradi il freddo è tagliente.

      Serata difficile. Diciamo arrivederci sotto la pioggia battente a un gruppo di ragazzi che il giorno successivo, il 29, verranno trasferiti. Sono venuti in tanti da Campo Sacro, una località vicina, dove dopo tre mesi o più nel Silos erano stati sistemati in una struttura d’accoglienza temporanea, dormendo 25 per camerone. Sono ritornati per salutarci. Certo, noi tutti vorremmo che ci fossero più trasferimenti e che questa situazione di abbandono delle persone lasciate in strada finisse, ma non possiamo sapere se e quando. non crediamo affatto che la situazione si risolverà.

      Per me questo è stato il trasferimento più doloroso. Vedendo i ragazzi ogni giorno, per mesi, finisce che ci si affeziona, con alcuni si instaurano vere amicizie. La partenza è una lacerazione, è lo strapparsi delle relazioni che si sono create. Noi siamo tristi, anche loro lo sono, alcuni ragazzi hanno pianto. Verranno tutti portati in Sardegna, un’isola troppo lontana. Non sappiamo come verranno sistemati, magari in qualche orribile mega CAS come quello di Monastir vicino a Cagliari, dove centinaia di persone sono ammassate in casermoni isolati, il cibo è scadente, non c’è adeguata assistenza medica, e non c’è niente da fare, non ci sono lezioni di italiano, né supporto legale, né supporto di alcun genere.

      Questo trasferimento è il primo dal 13 luglio, e riguarda solamente 60 persone. I richiedenti asilo fuori struttura a Trieste sono ormai più di 550.

      «Non servono interventi spot. Va attuato un piano ordinario di redistribuzione settimanale dei richiedenti asilo da Trieste verso il resto del territorio nazionale, nel rispetto delle leggi vigenti, con una quota di almeno 100 trasferimenti a settimana». Questo è il sunto del comunicato stampa diffuso da ICS (Consorzio italiano di solidarietà).

      Gli arrivi continuano a ritmo serrato, solo il giorno delle forti piogge, il 28 agosto, come dicevamo, sono arrivate 112 persone. La maggior parte di loro proseguono verso la Francia, la Germania o il Belgio, ma quasi il 30% presentano la domanda d’asilo e restano qui. Gli edifici fatiscenti del Silos hanno già molti nuovi abitanti che non conosciamo ancora. I ragazzi continuano ad arrivare in piena notte, fradici, con occhi enormi per la stanchezza e sguardi cupi di tristezza e di paura. Non sanno dove sono arrivati, né come riusciranno a cavarsela. Per loro è un tale sollievo trovare qualcuno che si prende cura di loro, lo sguardo cambia, riprendono coraggio, ricominciano a sorridere. Il miracolo della solidarietà.

      La mattina dopo vado al Silos per distribuire bustine di thé, zucchero e biscotti. Voglio vedere come stanno, con questo freddo e questa pioggia si ammalano. Stanno benino e stanno asciugando la loro roba e le loro coperte, è venuto un po’ di sole che purtroppo non durerà, è prevista ancora pioggia. Ci sono anche alcuni degli afghani arrivati ieri, compresi i due minori più piccoli: si sono appena svegliati, hanno dormito malgrado la pioggia, senza tenda, per terra su coperte bagnate abbandonate da altri passati prima di loro.

      Dopo un incontro tra Linea d’Ombra e il vescovo di Trieste, 22 persone verranno ospitate da una parrocchia, scelte tra le più vulnerabili. Gli altri, centinaia, rimangono in strada, attendendo una soluzione.

      In queste ore arriva la notizia di un altro trasferimento previsto per martedì prossimo, il 3 settembre. La destinazione è sempre la Sardegna.

      https://www.meltingpot.org/2023/09/trieste-invisibili-sotto-gli-occhi-di-tutti-i-parte

  • Abirsabir. La sfida al regime delle frontiere

    Nagi Cheikh Ahmed, giornalista mauritano emigrato in Italia dal 2016, e Gustavo Alfredo García Figueroa, sociologo venezuelano emigrato in Italia dal 2018, in quanto soggetti migranti e razzializzati, hanno viaggiato lungo la frontiera alpina tra l’Italia e la Francia per condurre una ricerca collaborativa tra l’Università degli Studi di Padova e Radio Melting Pot chiamata “nuovi immaginari politici e solidarietà antirazzista” (1).

    La ricerca evidenzia sia i processi di razzializzazione delle persone in transito su questo confine, e sia le esperienze di solidarietà che nascono tra i soggetti razzializzati e con le altre persone con background migratorio che operano sulla frontiera. Lo scopo è quello di rendere visibile il loro protagonismo che contrasta la violenza strutturale delle frontiere e delle politiche migratorie dell’UE con pratiche di solidarietà, resistenza e sfida in questo spazio complesso, poroso, senz’altro ostile con le persone del sud globale.

    Un podcast in cui gli autori parlano della politica migratoria dell’Unione europea basata sul razzismo strutturale, l’esternalizzazione dei confini e il loro controllo, ma allo stesso tempo andando oltre a tutto ciò; in cui si raccontano le esperienze di solidarietà e resistenza di giovani nordafricani che provano, anche al prezzo di mettere a rischio la vita, a sfidare l’esistenza dei confini.

    (1) La collaborazione di ricerca nasce all’interno del progetto di interesse nazionale PRIN-MOBS che indaga la produzione di nuovi immaginari politici attraverso le pratiche della solidarietà antirazzista con i migranti. La Responsabile Scientifica dell’unità locale è la prof.ssa Annalisa Frisina, Associata di Sociologia presso il Dip. FISPPA dell’Università di Padova

    https://www.meltingpot.org/2023/06/abirsabir-la-sfida-al-regime-delle-frontiere/#

    #Abirsabir (à partir de la min 2’38) :

    «Parola in arabo che esprime l’idea di una persona che viaggia con l’intenzione di non residere in un luogo fisso ma di attraversare un altro paese transitando in un paese o diversi paesi in cui non ha nessun legame concreto. E per fare questo viaggio praticamente non ha nulla addosso, niente da portare, niente da usare per il suo percorso. Abisabir, il #passante, si caratterizza per essere una persona leggera, con poco carico, veloce, silenzioso, che cammina molto e dorme poco.»

    –-> ajouté à la métaliste sur les #mots de la migration :
    https://seenthis.net/messages/414225
    #vocabulaire #terminologie #passant

    #podcast #audio #frontières #migrations #réfugiés #asile #frontière_sud-alpine #France #Italie #racialisation #solidarité #violence_structurelle #résistance #Hautes-Alpes #Val_de_Suse #obstacles #rêve #parcours_migratoire #itinéraire_migratoire #danger #route_des_Balkans #Balkans #espoir #maraudeurs #maraudes

    • L’informazione di Blackout. La voce di chi passa il confine alpino tra Italia e Francia

      Una ricerca collaborativa tra l’Università degli Studi di Padova e Radio Melting Pot ha portato #Nagi_Cheikh_Ahmed, giornalista mauritano in Italia dal 2016, e Gustavo Alfredo Garcìa Figueroa, sociologo venezuelano emigrato in Italia nel 2018, ad attraversare la frontiera posta sullo spartiaque alpino tra Italia e Francia per raccogliere le testimonianze di chi è costretto a passare illegamente questo confine.

      “La ricerca evidenzia sia i processi di razzializzazione delle persone in transito su questo confine, e sia le esperienze di solidarietà che nascono tra i soggetti razzializzati e con le altre persone con background migratorio che operano sulla frontiera. Lo scopo è quello di rendere visibile il loro protagonismo che contrasta la violenza strutturale delle frontiere e delle politiche migratorie dell’UE con pratiche di solidarietà, resistenza e sfida in questo spazio complesso, poroso, senz’altro ostile con le persone del sud globale.”

      Questa è la descrizione che si può trovare sul sito di Melting Pot Europa, dove è stato pubblicato il primo frutto della ricerca: il podcast Abir Sabir. La sfida al regime delle frontiere.

      Ne abbiamo parlato con uno degli autori, Nagi Cheikh Ahmed.

      https://radioblackout.org/2023/07/la-voce-di-chi-passa-il-confine-alpino-tra-italia-e-francia