• Au Sénégal, des familles face au mur de l’impunité policière
    https://afriquexxi.info/Au-Senegal-des-familles-face-au-mur-de-l-impunite-policiere

    Deux ans après la répression des manifestations de mars 2021, les proches des victimes dénoncent l’immobilisme de la justice. Au moins 12 personnes sont tombées sous les balles des forces de sécurité lors de ces journées d’émeutes. Mais les enquêtes sont au point mort dans un pays où les mécanismes de l’impunité policière sont anciens.

    #Sénégal #Droits_humains #Répression #Impunité

  • Nessuno vuole mettere limiti all’attività dell’Agenzia Frontex

    Le istituzioni dell’Ue, ossessionate dal controllo delle frontiere, sembrano ignorare i problemi strutturali denunciati anche dall’Ufficio europeo antifrode. E lavorano per dispiegare le “divise blu” pure nei Paesi “chiave” oltre confine

    “Questa causa fa parte di un mosaico di una più ampia campagna contro Frontex: ogni attacco verso di noi è un attacco all’Unione europea”. Con questi toni gli avvocati dell’Agenzia che sorveglia le frontiere europee si sono difesi di fronte alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Il 9 marzo, per la prima volta in oltre 19 anni di attività (ci sono altri due casi pendenti, presentati dalla Ong Front-Lex), le “divise blu” si sono trovate di fronte a un giudice grazie alla tenacia dell’avvocata olandese Lisa-Marie Komp.

    Non è successo, invece, per le scioccanti rivelazioni del rapporto dell’Ufficio europeo antifrode (Olaf) che ha ricostruito nel dettaglio come l’Agenzia abbia insabbiato centinaia di respingimenti violenti: quell’indagine è “semplicemente” costata la leadership all’allora direttore Fabrice Leggeri, nell’aprile 2022, ma niente di più. “Tutto è rimasto nel campo delle opinioni e nessuno è andato a fondo sui problemi strutturali -spiega Laura Salzano, dottoranda in Diritto europeo dell’immigrazione presso l’Università di Barcellona-. C’erano tutti gli estremi per portare l’Agenzia di fronte alla Corte di giustizia e invece nulla è stato fatto nonostante sia un’istituzione pubblica con un budget esplosivo che lavora con i più vulnerabili”. Non solo l’impunità ma anche la cieca fiducia ribadita più volte da diverse istituzioni europee. Il 28 giugno 2022 il Consiglio europeo, a soli due mesi dalle dimissioni di Leggeri, dà il via libera all’apertura dei negoziati per portare gli agenti di Frontex in Senegal con la proposta di garantire un’immunità totale nel Paese per le loro azioni.

    A ottobre, invece, a pochi giorni dalla divulgazione del rapporto Olaf -tenuto segreto per oltre quattro mesi- la Commissione europea chiarisce che l’Agenzia “si è già assunta piena responsabilità di quanto successo”. Ancora, a febbraio 2023 il Consiglio europeo le assicura nuovamente “pieno supporto”. Un dato preoccupante soprattutto con riferimento all’espansione di Frontex che mira a diventare un attore sempre più presente nei Paesi chiave per la gestione del fenomeno migratorio, a migliaia di chilometri di distanza dal suo quartier generale di Varsavia.

    “I suoi problemi sono strutturali ma le istituzioni europee fanno finta di niente: se già è difficile controllare gli agenti sui ‘nostri’ confini, figuriamoci in Paesi al di fuori dell’Ue”, spiega Yasha Maccanico, membro del centro di ricerca indipendente Statewatch.

    A fine febbraio 2023 l’Agenzia ha festeggiato la conclusione di un progetto che prevede la consegna di attrezzature ai membri dell’Africa-Frontex intelligence community (Afic), finanziata dalla Commissione, che ha permesso dal 2010 in avanti l’apertura di “Cellule di analisi del rischio” (Rac) gestite da analisti locali formati dall’Agenzia con l’obiettivo di “raccogliere e analizzare informazioni strategiche su crimini transfrontalieri” oltre che a “sostenere le autorità nella gestione dei confini”. A partire dal 2021 una potenziata infrastruttura garantisce “comunicazioni sicure e istantanee” tra le Rac e gli agenti nella sede di Varsavia. Questo è il “primo livello” di collaborazione tra Frontex e le autorità di Paesi terzi che oggi vede, come detto, “cellule” attive in Nigeria, Gambia, Niger, Ghana, Senegal, Costa d’Avorio, Togo e Mauritania oltre a una ventina di Stati coinvolti nelle attività di formazione degli analisti, pronti ad attivare le Rac in futuro. “Lo scambio di dati sui flussi è pericoloso perché l’obiettivo delle politiche europee non è proteggere i diritti delle persone, ma fermarle nei Paesi più poveri”, continua Maccanico.

    Un gradino al di sopra delle collaborazioni più informali, come nell’Afic, ci sono i cosiddetti working arrangement (accordi di cooperazione) che permettono di collaborare con le autorità di un Paese in modo ufficiale. “Non serve il via libera del Parlamento europeo e di fatto non c’è nessun controllo né prima della sottoscrizione né ex post -riprende Salzano-. Se ci fosse uno scambio di dati e informazioni dovrebbe esserci il via libera del Garante per la protezione dei dati personali, ma a oggi, questo parere, è stato richiesto solo nel caso del Niger”. A marzo 2023 sono invece 18 i Paesi che hanno siglato accordi simili: da Stati Uniti e Canada, passando per Capo Verde fino alla Federazione Russa. “Sappiamo che i contatti con Mosca dovrebbero essere quotidiani. Dall’inizio del conflitto ho chiesto più volte all’Agenzia se queste comunicazioni sono state interrotte: nessuno mi ha mai risposto”, sottolinea Salzano.

    Obiettivo ultimo dell’Agenzia è riuscire a dispiegare agenti e mezzi anche nei Paesi terzi: una delle novità del regolamento del 2019 rispetto al precedente (2016) è proprio la possibilità di lanciare operazioni non solo nei “Paesi vicini” ma in tutto il mondo. Per farlo sono necessari gli status agreement, accordi internazionali che impegnano formalmente anche le istituzioni europee. Sono cinque quelli attivi (Serbia, Albania, Montenegro e Macedonia del Nord, Moldova) ma sono in via di sottoscrizione quelli con Senegal e Mauritania per limitare le partenze (poco più di 15mila nel 2022) verso le isole Canarie, mille chilometri più a Nord: accordi per ora “fermi”, secondo quanto ricostruito dalla parlamentare europea olandese Tineke Strik che a fine febbraio ha visitato i due Stati, ma che danno conto della linea che si vuole seguire. Un quadro noto, i cui dettagli però spesso restano nascosti.

    È quanto emerge dal report “Accesso negato”, pubblicato da Statewatch a metà marzo 2023, che ricostruisce altri due casi di scarsa trasparenza negli accordi, Niger e Marocco, due Paesi chiave nella strategia europea di esternalizzazione delle frontiere. “Con la ‘scusa’ della tutela della riservatezza nelle relazioni internazionali e mettendo la questione migratoria sotto il cappello dell’antiterrorismo l’accesso ai dettagli degli accordi non è consentito”, spiega Maccanico, uno dei curatori dello studio. Non si conoscono, per esempio, i compiti specifici degli agenti, per cui si propone addirittura l’immunità totale. “In alcuni accordi, come in Macedonia del Nord, si è poi ‘ripiegato’ su un’immunità connessa solo ai compiti che rientrano nel mandato dell’Agenzia -osserva Salzano-. Ma il problema non cambia: dove finisce la sua responsabilità e dove inizia quella del Paese membro?”. Una zona grigia funzionale a Frontex, anche quando opera sul territorio europeo.

    Lo sa bene l’avvocata tedesca Lisa-Marie Komp che, come detto, ha portato l’Agenzia di fronte alla Corte di giustizia dell’Ue. Il caso, su cui il giudice si pronuncerà nei prossimi mesi, riguarda il rimpatrio nel 2016 di una famiglia siriana con quattro bambini piccoli che, pochi giorni dopo aver presentato richiesta d’asilo in Grecia, è stata caricata su un aereo e riportata in Turchia: quel volo è stato gestito da Frontex, in collaborazione con le autorità greche. “L’Agenzia cerca di scaricare le responsabilità su di loro ma il suo mandato stabilisce chiaramente che è tenuta a monitorare il rispetto dei diritti fondamentali durante queste operazioni -spiega-. Serve chiarire che tutti devono rispettare la legge, compresa l’Agenzia le cui azioni hanno un grande impatto sulla vita di molte persone”.

    Le illegittimità nell’attività dei rimpatri sono note da tempo e il caso della famiglia siriana non è isolato. “Quando c’è una forte discrepanza nelle decisioni sulle domande d’asilo tra i diversi Paesi europei, l’attività di semplice ‘coordinamento’ e preparazione delle attività di rimpatrio può tradursi nella violazione del principio di non respingimento”, spiega Mariana Gkliati, docente di Migrazione e Asilo all’università olandese di Tilburg. Nonostante questi problemi e un sistema d’asilo sempre più fragile, negli ultimi anni i poteri e le risorse a disposizione per l’Agenzia sui rimpatri sono esplosi: nel 2022 questa specifica voce di bilancio prevedeva quasi 79 milioni di euro (+690% rispetto ai dieci milioni del 2012).

    E la crescita sembra destinata a non fermarsi. Frontex nel 2023 stima di poter rimpatriare 800 persone in Iraq, 316 in Pakistan, 200 in Gambia, 75 in Afghanistan, 57 in Siria, 60 in Russia e 36 in Ucraina come si legge in un bando pubblicato a inizio febbraio 2023 che ha come obiettivo la ricerca di partner in questi Paesi (e in altri, in totale 43) per garantire assistenza di breve e medio periodo (12 mesi) alle persone rimpatriate. Un’altra gara pubblica dà conto della centralità dell’Agenzia nella “strategia dei rimpatri” europea: 120 milioni di euro nel novembre 2022 per l’acquisto di “servizi di viaggio relativi ai rimpatri mediante voli di linea”. Migliaia di biglietti e un nuovo sistema informatico per gestire al meglio le prenotazioni, con un’enorme mole di dati personali delle persone “irregolari” che arriveranno nelle “mani” di Frontex. Mani affidabili, secondo la Commissione europea.

    Ma il 7 ottobre 2022 il Parlamento, nel “bocciare” nuovamente Frontex rispetto al via libera sul bilancio 2020, dava conto del “rammarico per l’assenza di procedimenti disciplinari” nei confronti di Leggeri e della “preoccupazione” per la mancata attivazione dell’articolo 46 (che prevede il ritiro degli agenti quando siano sistematiche le violazioni dei diritti umani) con riferimento alla Grecia, in cui l’Agenzia opera con 518 agenti, 11 navi e 30 mezzi. “I respingimenti e la violenza sui confini continuano sia alle frontiere terrestri sia a quelle marittime così come non si è interrotto il sostegno alle autorità greche”, spiega la ricercatrice indipendente Lena Karamanidou. La “scusa” ufficiale è che la presenza di agenti migliori la situazione ma non è così. “Al confine terrestre di Evros, la violenza è stata documentata per tutto il tempo in cui Frontex è stata presente, fin dal 2010. È difficile immaginare come possa farlo in futuro vista la sistematicità delle violenze su questo confine”. Su quella frontiera si giocherà anche la presunta nuova reputazione dell’Agenzia guidata dal primo marzo dall’olandese Hans Leijtens: un tentativo di “ripulire” l’immagine che è già in corso.

    Frontex nei confronti delle persone in fuga dal conflitto in Ucraina ha tenuto fin dall’inizio un altro registro: i “migranti irregolari” sono diventati “persone che scappano da zone di conflitto”; l’obiettivo di “combattere l’immigrazione irregolare” si è trasformato nella gestione “efficace dell’attraversamento dei confini”. “Gli ultimi mesi hanno mostrato il potenziale di Frontex di evolversi in un attore affidabile della gestione delle frontiere che opera con efficienza, trasparenza e pieno rispetto dei diritti umani”, sottolinea Gkliati nello studio “Frontex assisting in the ukrainian displacement. A welcoming committee at racialised passage?”, pubblicato nel marzo 2023. Una conferma ulteriore, per Salzano, dei limiti strutturali dell’Agenzia: “La legge va rispettata indipendentemente dalla cornice in cui operi: la tutela dei diritti umani prescinde dagli umori della politica”.

    https://altreconomia.it/nessuno-vuole-mettere-limiti-allattivita-dellagenzia-frontex

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    • I rischi della presenza di Frontex in Africa: tanto potere, poca responsabilità

      L’eurodeputata #Tineke_Strik è stata in Senegal e Mauritania a fine febbraio 2023: in un’intervista ad Altreconomia ricostruisce lo stato dell’arte degli accordi che l’Ue vorrebbe concludere con i due Paesi ritenuti “chiave” nel contrasto ai flussi migratori. Denunciando la necessità di una riforma strutturale dell’Agenzia.

      A un anno di distanza dalle dimissioni del suo ex direttore Fabrice Leggeri, le istituzioni europee non vogliono mettere limiti all’attività di Frontex. Come abbiamo ricostruito sul numero di aprile di Altreconomia, infatti, l’Agenzia -che dal primo marzo 2023 è guidata da Hans Leijtens- continua a svolgere un ruolo centrale nelle politiche migratorie dell’Unione europea nonostante le pesanti rivelazioni dell’Ufficio europeo antifrode (Olaf), che ha ricostruito nel dettaglio il malfunzionamento nelle operazioni delle divise blu lungo i confini europei.

      Ma non solo. Un aspetto particolarmente preoccupante sono le operazioni al di fuori dei Paesi dell’Unione, che rientrano sempre di più tra le priorità di Frontex in un’ottica di esternalizzazione delle frontiere per “fermare” preventivamente i flussi di persone dirette verso l’Europa. Non a caso, a luglio 2022, nonostante i contenuti del rapporto Olaf chiuso solo pochi mesi prima, la Commissione europea ha dato il via libera ai negoziati con Senegal e Mauritania per stringere un cosiddetto working arrangement e permettere così agli “agenti europei” di operare nei due Paesi africani (segnaliamo anche la recente ricerca pubblicata dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione sul tema).

      Per monitorare lo stato dell’arte di questi accordi l’eurodeputata Tineke Strik, tra le poche a opporsi e a denunciare senza sconti gli effetti delle politiche migratorie europee e il ruolo di Frontex, a fine febbraio 2023 ha svolto una missione di monitoraggio nei due Paesi. Già professoressa di Diritto della cittadinanza e delle migrazioni dell’Università di Radboud di Nimega, in Olanda, è stata eletta al Parlamento europeo nel 2019 nelle fila di GroenLinks (Sinistra verde). L’abbiamo intervistata.

      Onorevole Strik, secondo quanto ricostruito dalla vostra visita (ha partecipato alla missione anche Cornelia Erns, di LeftEu, ndr), a che punto sono i negoziati con il Senegal?
      TS La nostra impressione è che le autorità senegalesi non siano così desiderose di concludere un accordo di status con l’Unione europea sulla presenza di Frontex nel Paese. L’approccio di Bruxelles nei confronti della migrazione come sappiamo è molto incentrato su sicurezza e gestione delle frontiere; i senegalesi, invece, sono più interessati a un intervento sostenibile e incentrato sullo sviluppo, che offra soluzioni e affronti le cause profonde che spingono le persone a partire. Sono molti i cittadini del Senegal emigrano verso l’Europa: idealmente, il governo vuole che rimangano nel Paese, ma capisce meglio di quanto non lo facciano le istituzioni Ue che si può intervenire sulla migrazione solo affrontando le cause alla radice e migliorando la situazione nel contesto di partenza. Allo stesso tempo, le navi europee continuano a pescare lungo le coste del Paese (minacciando la pesca artigianale, ndr), le aziende europee evadono le tasse e il latte sovvenzionato dall’Ue viene scaricato sul mercato senegalese, causando disoccupazione e impedendo lo sviluppo dell’economia locale. Sono soprattutto gli accordi di pesca ad aver alimentato le partenze dal Senegal, dal momento che le comunità di pescatori sono state private della loro principale fonte di reddito. Serve domandarsi se l’Unione sia veramente interessata allo sviluppo e ad affrontare le cause profonde della migrazione. E lo stesso discorso può essere fatto su molti dei Paesi d’origine delle persone che cercano poi protezione in Europa.

      Dakar vede di buon occhio l’intervento dell’Unione europea? Quale tipo di operazioni andrebbero a svolgere gli agenti di Frontex nel Paese?
      TS Abbiamo avuto la sensazione che l’Ue non ascoltasse le richieste delle autorità senegalesi -ad esempio in materia di rilascio di visti d’ingresso- e ci hanno espresso preoccupazioni relative ai diritti fondamentali in merito a qualsiasi potenziale cooperazione con Frontex, data la reputazione dell’Agenzia. È difficile dire che tipo di supporto sia previsto, ma nei negoziati l’Unione sta puntando sia alle frontiere terrestri sia a quelle marittime.

      Che cosa sta avvenendo in Mauritania?
      TS Sebbene questo Paese sembri disposto a concludere un accordo sullo status di Frontex -soprattutto nell’ottica di ottenere un maggiore riconoscimento da parte dell’Europa-, preferisce comunque mantenere l’autonomia nella gestione delle proprie frontiere e quindi non prevede una presenza permanente dei funzionari dell’Agenzia nel Paese. Considerano l’accordo sullo status più come un quadro giuridico, per consentire la presenza di Frontex in caso di aumento della pressione migratoria. Inoltre, come il Senegal, ritengono che l’Europa debba ascoltare e accogliere le loro richieste, che riguardano principalmente i visti e altre aree di cooperazione. Anche in questo caso, Bruxelles chiede il mandato più ampio possibile per gli agenti in divisa blu durante i negoziati per “mantenere aperte le opzioni [più ampie]”, come dicono loro stessi. Ma credo sia chiaro che il loro obiettivo è quello di operare sia alle frontiere marittime sia a quelle terrestri.
      Questo a livello “istituzionale”. Qual è invece la posizione della società civile?
      TS In entrambi i Paesi è molto critica. In parte a causa della cattiva reputazione di Frontex in relazione ai diritti umani, ma anche a causa dell’esperienza che i cittadini senegalesi e mauritani hanno già sperimentato con la Guardia civil spagnola, presente nei due Stati, che ritengono stia intaccando la sovranità per quanto riguarda la gestione delle frontiere. È previsto che il mandato di Frontex sia addirittura esecutivo, a differenza di quello della Guardia civil, che può impegnarsi solo in pattugliamenti congiunti in cui le autorità nazionali sono al comando. Quindi la sovranità di entrambi i Paesi sarebbe ulteriormente minata.

      Perché a suo avviso sarebbe problematica la presenza di agenti di Frontex nei due Paesi?
      TS L’immunità che l’Unione europea vorrebbe per i propri operativi dispiegati in Africa non è solo connessa allo svolgimento delle loro funzioni ma si estende al di fuori di esse, a questo si aggiunge la possibilità di essere armati. Penso sia problematico il rispetto dei diritti fondamentali dei naufraghi intercettati in mare, poiché è difficile ottenere l’accesso all’asilo sia in Senegal sia in Mauritania. In questo Paese, ad esempio, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) impiega molto tempo per determinare il loro bisogno di protezione: fanno eccezione i maliani, che riescono a ottenerla in “appena” due anni. E durante l’attesa queste persone non hanno quasi diritti.

      Ma se ottengono la protezione è comunque molto difficile registrarsi presso l’amministrazione, cosa necessaria per avere accesso al mercato del lavoro, alle scuole o all’assistenza sanitaria. E le conseguenze che ne derivano sono le continue retate, i fermi e le deportazioni alla frontiera, per impedire alle persone di partire. A causa delle attuali intercettazioni in mare, le rotte migratorie si stanno spostando sulla terra ferma e puntano verso l’Algeria: l’attraversamento del deserto può essere mortale. Il problema principale è che Frontex deve rispettare il diritto dell’Unione europea anche se opera in un Paese terzo in cui si applicano norme giuridiche diverse, ma l’Agenzia andrà a operare sotto il comando delle guardie di frontiera di un Paese che non è vincolato dalle “regole” europee. Come può Frontex garantire di non essere coinvolta in operazioni che violano le norme fondamentali del diritto comunitario, se determinate azioni non sono illegali in quel Paese? Sulla carta è possibile presentare un reclamo a Frontex, ma poi nella pratica questo strumento in quali termini sarebbe accessibile ed efficace?

      Un anno dopo le dimissioni dell’ex direttore Leggeri ritiene che Frontex si sia pienamente assunta la responsabilità di quanto accaduto? Può davvero, secondo lei, diventare un attore affidabile per l’Ue?
      TS Prima devono accadere molte cose. Non abbiamo ancora visto una riforma fondamentale: c’è ancora un forte bisogno di maggiore trasparenza, di un atteggiamento più fermo nei confronti degli Stati membri ospitanti e di un uso conseguente dell’articolo 46 che prevede la sospensione delle operazioni in caso di violazioni dei diritti umani (abbiamo già raccontato il ruolo dell’Agenzia nei respingimenti tra Grecia e Turchia, ndr). Questi problemi saranno ovviamente esacerbati nella cooperazione con i Paesi terzi, perché la responsabilità sarà ancora più difficile da raggiungere.

      https://altreconomia.it/i-rischi-della-presenza-di-frontex-in-africa-tanto-potere-poca-responsa

    • «Un laboratorio di esternalizzazione tra frontiere di terra e di mare». La missione di ASGI in Senegal e Mauritania

      Lo scorso 29 marzo è stato pubblicato il rapporto «Un laboratorio di esternalizzazione tra frontiere di terra e di mare» (https://www.asgi.it/notizie/rapporto-asgi-della-senegal-mauritania), frutto del sopralluogo giuridico effettuato tra il 7 e il 13 maggio 2022 da una delegazione di ASGI composta da Alice Fill, Lorenzo Figoni, Matteo Astuti, Diletta Agresta, Adelaide Massimi (avvocate e avvocati, operatori e operatrici legali, ricercatori e ricercatrici).

      Il sopralluogo aveva l’obiettivo di analizzare lo sviluppo delle politiche di esternalizzazione del controllo della mobilità e di blocco delle frontiere implementate dall’Unione Europea in Mauritania e in Senegal – due paesi a cui, come la Turchia o gli stati balcanici più orientali, gli stati membri hanno delegato la gestione dei flussi migratori concordando politiche sempre più ostacolanti per lo spostamento delle persone.

      Nel corso del sopralluogo sono stati intervistati, tra Mauritania e Senegal, più di 40 interlocutori afferenti a istituzioni, società civile, popolazione migrante e organizzazioni, tra cui OIM, UNHCR, delegazioni dell’UE. Intercettare questi soggetti ha consentito ad ASGI di andare oltre le informazioni vincolate all’ufficialità delle dichiarazioni pubbliche e di approfondire le pratiche illegittime portate avanti su questi territori.

      Il report parte dalle già assodate intenzioni di collaborazione tra l’Unione Europea e le autorità senegalesi e mauritane – una collaborazione che in entrambi i paesi sembra connotata nel senso del controllo e della sorveglianza; per quanto riguarda il Senegal, si fa menzione del ben noto status agreement, proposto nel febbraio 2022 a Dakar dalla Commissaria europea agli affari interni Ylva Johansson, con il quale si intende estendere il controllo di Frontex in Senegal.

      L’obiettivo di tale accordo era il controllo della cosiddetta rotta delle Canarie, che tra il 2018 e il 2022 è stata sempre più battuta. Sebbene la proposta abbia generato accese discussioni nella società civile senegalese, preoccupata all’idea di cedere parte della sovranità del paese sul controllo delle frontiere esterne, con tale accordo, elaborato con un disegno molto simile a quello che regola le modalità di intervento di Frontex nei Balcani, si legittimerebbe ufficialmente l’attività di controllo dell’agenzia UE in paesi terzi, e in particolare fuori dal continente europeo.

      Per quanto riguarda la Mauritania, si menziona l’Action Plan pubblicato da Frontex il 7 giugno 2022, con il quale si prospetta una possibilità di collaborare operativamente sul territorio mauritano, in particolare per lo sviluppo di governance in materia migratoria.

      Senegal

      Sin dai primi anni Duemila, il dialogo tra istituzioni europee e senegalesi è stato focalizzato sulle politiche di riammissione dei cittadini senegalesi presenti in UE in maniera irregolare e dei cosiddetti ritorni volontari, le politiche di gestione delle frontiere senegalesi e il controllo della costa, la promozione di una legislazione anti-trafficking e anti-smuggling. Tutto questo si è intensificato quando, a partire dal 2018, la rotta delle Canarie è tornata a essere una rotta molto percorsa. L’operatività delle agenzie europee in Senegal per la gestione delle migrazioni si declina principalmente nei seguenti obiettivi:

      1. Monitoraggio delle frontiere terrestri e marittime. Il memorandum firmato nel 2006 da Senegal e Spagna ha sancito la collaborazione ufficiale tra le forze di polizia europee e quelle senegalesi in operazioni congiunte di pattugliamento; a questo si aggiunge, sempre nello stesso anno, una presenza sempre più intensiva di Frontex al largo delle coste senegalesi.

      2. Lotta alla tratta e al traffico. Su questo fronte dell’operatività congiunta tra forze senegalesi ed europee, la normativa di riferimento è la legge n. 06 del 10 maggio 2005, che offre delle direttive per il contrasto della tratta di persone e del traffico. Tale documento, non distinguendo mai fra “tratta” e “traffico”, di fatto criminalizza la migrazione irregolare tout court, dal momento che viene utilizzato in maniera estensiva (e arbitraria) come strumento di controllo e di repressione della mobilità – fu utilizzato, ad esempio, per accusare di traffico di esseri umani un padre che aveva imbarcato suo figlio su un mezzo che poi naufragato.

      Il sistema di asilo in Senegal

      Il Senegal aderisce alla Convenzione del 1951 sullo status de rifugiati e del relativo Protocollo del 1967; la valutazione delle domande di asilo fa capo alla Commissione Nazionale di Eleggibilità (CNE), che al deposito della richiesta di asilo emette un permesso di soggiorno della durata di 3 mesi, rinnovabile fino all’esito dell’audizione di fronte alla CNE; l’esito della CNE è ricorribile in primo grado presso la Commissione stessa e, nel caso di ulteriore rifiuto, presso il Presidente della Repubblica. Quando il richiedente asilo depone la propria domanda, subentra l’UNHCR, che nel paese è molto presente e finanzia ONG locali per fornire assistenza.

      Il 5 aprile 2022 l’Assemblea Nazionale senegalese ha approvato una nuova legge sullo status dei rifugiati e degli apolidi, una legge che, stando a diverse associazioni locali, sulla carta estenderebbe i diritti cui i rifugiati hanno accesso; tuttavia, le stesse associazioni temono che a tale miglioramento possa non seguire un’applicazione effettiva della normativa.
      Mauritania

      Data la collocazione geografica del paese, a ridosso dell’Atlantico e delle isole Canarie, in prossimità di paesi ad alto indice di emigrazione (Senegal, Mali, Marocco), la Mauritania rappresenta un territorio strategico per il monitoraggio dei flussi migratori diretti in Europa. Pertanto, analogamente a quanto avvenuto in Senegal, anche in Mauritania la Spagna ha proceduto a rafforzare la cooperazione in tema di politiche migratorie e di gestione del controllo delle frontiere e a incrementare la presenta e l’impegno di attori esterni – in primis di agenzie quali Frontex – per interventi di contenimento dei flussi e di riammissione di cittadini stranieri in Mauritania.

      Relativamente alla Mauritania, l’obiettivo principale delle istituzioni europee sembra essere la prevenzione dell’immigrazione lungo la rotta delle Canarie. La normativa di riferimento è l’Accordo di riammissione bilaterale firmato con la Spagna nel luglio 2003. Con tale accordo, la Spagna può chiedere alla Mauritania di riammettere sul proprio territorio cittadini mauritani e non solo, anche altri cittadini provenienti da paesi terzi che “si presume” siano transitati per la Mauritania prima di entrare irregolarmente in Spagna. Oltre a tali interventi, il report di ASGI menziona l’Operazione Hera di Frontex e vari interventi di cooperazione allo sviluppo promossi dalla Spagna “con finalità tutt’altro che umanitarie”, bensì di gestione della mobilità.

      In tale regione, nella fase degli sbarchi risulta molto dubbio il ruolo giocato da organizzazioni come OIM e UNHCR, poiché non è codificato; interlocutori diversi hanno fornito informazioni contrastanti sulla disponibilità di UNHCR a intervenire in supporto e su segnalazione delle ONG presenti al momento dello sbarco. In ogni caso, se effettivamente UNHCR fosse assente agli sbarchi, ciò determinerebbe una sostanziale impossibilità di accesso alle procedure di protezione internazionale da parte di qualsiasi potenziale richiedente asilo che venga intercettato in mare.

      Anche in questo territorio la costruzione della figura del “trafficante” diventa un dispositivo di criminalizzazione e repressione della mobilità sulla rotta atlantica, strumentale alla soddisfazione di richieste europee.
      La detenzione dei cittadini stranieri

      Tra Nouakchott e Nouadhibou vi sono tre centri di detenzione per persone migranti; uno di questi (il Centro di Detenzione di Nouadhibou 2 (anche detto “El Guantanamito”), venne realizzato grazie a dei fondi di un’agenzia di cooperazione spagnola. Sovraffollamento, precarietà igienico-sanitaria e impossibilità di accesso a cure e assistenza legale hanno caratterizzato tali centri. Quando El Guantanamito fu chiuso, i commissariati di polizia sono diventati i principali luoghi deputati alla detenzione dei cittadini stranieri; in tali centri, vengono detenute non solo le persone intercettate in prossimità delle coste mauritane, ma anche i cittadini stranieri riammessi dalla Spagna, e anche le persone presenti irregolarmente su territorio mauritano. Risulta delicato il tema dell’accesso a tali commissariati, dal momento che il sopralluogo ha rilevato che le ONG non hanno il permesso di entrarvi, mentre le organizzazioni internazionali sì – ciò nonostante, nessuna delle persone precedentemente sottoposte a detenzione con cui la delegazione ASGI ha avuto modo di interloquire ha dichiarato di aver riscontrato la presenza di organizzazioni all’interno di questi centri.

      La detenzione amministrativa risulta essere “un tassello essenziale della politica di contenimento dei flussi di cittadini stranieri in Mauritania”. Il passaggio successivo alla detenzione delle persone migranti è l’allontanamento, che si svolge in forma di veri e propri respingimenti sommari e informali, senza che i migranti siano messi nelle condizioni né di dichiarare la propria nazionalità né di conoscere la procedura di ritorno volontario.
      Il ruolo delle organizzazioni internazionali in Mauritania

      OIM riveste un ruolo centrale nel panorama delle politiche di esternalizzazione e di blocco dei cittadini stranieri in Mauritania, tramite il supporto delle autorità di pubblica sicurezza mauritane nello sviluppo di politiche di contenimento della libertà di movimento – strategie e interventi che suggeriscono una connotazione securitaria della presenza dell’associazione nel paese, a scapito di una umanitaria.

      Nonostante anche la Mauritania sia firmataria della Convenzione di Ginevra, non esiste a oggi una legge nazionale sul diritto di asilo nel paese. UNHCR testimonia come dal 2015 esiste un progetto di legge sull’asilo, ma che questo sia tuttora “in attesa di adozione”.

      Pertanto, le procedure di asilo in Mauritania sono gestite interamente da UNHCR. Tali procedure si differenziano a seconda della pericolosità delle regioni di provenienza delle persone migranti; in particolare, i migranti maliani provenienti dalle regioni considerate più pericolose vengono registrati come rifugiati prima facie, quanto non accade invece per i richiedenti asilo provenienti dalle aree urbane, per loro, l’iter dell’asilo è ben più lungo, e prevede una sorta di “pre-pre-registrazione” presso un ente partner di UNHCR, cui segue una pre-registrazione accordata da UNHCR previo appuntamento, e solo in seguito alla registrazione viene riconosciuto un certificato di richiesta di asilo, valido per sei mesi, in attesa di audizione per la determinazione dello status di rifugiato.

      Le tempistiche per il riconoscimento di protezione, poi, sono differenti a seconda del grado di vulnerabilità del richiedente e in taluni casi potevano condurre ad anni e anni di attesa. Alla complessità della procedura si aggiunge che non tutti i potenziali richiedenti asilo possono accedervi – ad esempio, chi proviene da alcuni stati, come la Sierra Leone, considerati “paesi sicuri” secondo una categorizzazione fornita dall’Unione Africana.
      Conclusioni

      In fase conclusiva, il report si sofferma sul ruolo fondamentale giocato dall’Unione Europea nel forzare le politiche senegalesi e mauritane nel senso della sicurezza e del contenimento, a scapito della tutela delle persone migranti nei loro diritti fondamentali. Le principali preoccupazioni evidenziate sono rappresentate dalla prospettiva della conclusione dello status agreement tra Frontex e i due paesi, perché tale ratifica ufficializzerebbe non solo la presenza, ma un ruolo legittimo e attivo di un’agenzia europea nel controllo di frontiere che si dispiegano ben oltre i confini territoriali comunitari, ben oltre le acque territoriali, spingendo le maglie del controllo dei flussi fin dentro le terre di quegli stati da cui le persone fuggono puntando all’Unione Europea. La delegazione, tuttavia, sottolinea che vi sono aree in cui la società civile senegalese e mauritana risulta particolarmente politicizzata, dunque in grado di esprimere insofferenza o aperta contrarietà nei confronti delle ingerenze europee nei loro paesi. Infine, da interviste, colloqui e incontri con diretti interessati e testimoni, il ruolo di organizzazioni internazionali come le citate OIM e UNHCR appare nella maggior parte dei casi “fluido o sfuggevole”; una prospettiva, questa, che sembra confermare l’ambivalenza delle grandi organizzazioni internazionali, soggetti messi innanzitutto al servizio degli interessi delle istituzioni europee.

      Il report si conclude auspicando una prosecuzione di studio e analisi al fine di continuare a monitorare gli sviluppi politici e legislativi che legano l’Unione Europea e questi territori nella gestione operativa delle migrazioni.

      https://www.meltingpot.org/2023/05/un-laboratorio-di-esternalizzazione-tra-frontiere-di-terra-e-di-mare

    • Pubblicato il rapporto #ASGI della missione in Senegal e Mauritania

      Il Senegal e la Mauritania sono paesi fondamentali lungo la rotta che conduce dall’Africa occidentale alle isole Canarie. Nel 2020, dopo alcuni anni in cui la rotta era stata meno utilizzata, vi è stato un incremento del 900% degli arrivi rispetto all’anno precedente. Il dato ha portato la Spagna e le istituzioni europee a concentrarsi nuovamente sui due paesi. La cosiddetta Rotta Atlantica, che a partire dal 2006 era stata teatro di sperimentazioni di pratiche di contenimento e selezione della mobilità e di delega dei controlli alle frontiere e del diritto di asilo, è tornata all’attenzione internazionale: da febbraio 2022 sono in corso negoziazioni per la firma di un accordo di status con Frontex per permettere il dispiegamento dei suoi agenti in Senegal e Mauritania.

      Al fine di indagare l’attuazione delle politiche di esternalizzazione e i loro effetti, dal 7 al 13 maggio 2022 un gruppo di socз ASGI – avvocatз, operatorз legali e ricercatorз – ha effettuato un sopralluogo giuridico a Nouakchott, Mauritania e a Dakar, Senegal.

      Il report restituisce il quadro ricostruito nel corso del sopralluogo, durante il quale è stato possibile intervistare oltre 45 interlocutori tra istituzioni, organizzazioni internazionali, ONG e persone migranti.

      https://www.asgi.it/notizie/rapporto-asgi-della-senegal-mauritania
      #rapport

    • Au Sénégal, les desseins de Frontex se heurtent aux résistances locales

      Tout semblait devoir aller très vite : début 2022, l’Union européenne propose de déployer sa force anti-migration Frontex sur les côtes sénégalaises, et le président Macky Sall y semble favorable. Mais c’était compter sans l’opposition de la société civile, qui refuse de voir le Sénégal ériger des murs à la place de l’Europe.

      Agents armés, navires, drones et systèmes de sécurité sophistiqués : Frontex, l’agence européenne de gardes-frontières et de gardes-côtes créée en 2004, a sorti le grand jeu pour dissuader les Africains de prendre la direction des îles Canaries – et donc de l’Europe –, l’une des routes migratoires les plus meurtrières au monde. Cet arsenal, auquel s’ajoutent des programmes de formation de la police aux frontières, est la pierre angulaire de la proposition faite début 2022 par le Conseil de l’Europe au Sénégal. Finalement, Dakar a refusé de la signer sous la pression de la société civile, même si les négociations ne sont pas closes. Dans un climat politique incandescent à l’approche de l’élection présidentielle de 2024, le président sénégalais, Macky Sall, soupçonné de vouloir briguer un troisième mandat, a préféré prendre son temps et a fini par revenir sur sa position initiale, qui semblait ouverte à cette collaboration. Dans le même temps, la Mauritanie voisine, elle, a entamé des négociations avec Bruxelles.

      L’histoire débute le 11 février 2022 : lors d’une conférence de presse à Dakar, la commissaire aux Affaires intérieures du Conseil de l’Europe, Ylva Johansson, officialise la proposition européenne de déployer Frontex sur les côtes sénégalaises. « C’est mon offre et j’espère que le gouvernement sénégalais sera intéressé par cette opportunité unique », indique-t-elle. En cas d’accord, elle annonce que l’agence européenne sera déployée dans le pays au plus tard au cours de l’été 2022. Dans les jours qui ont suivi l’annonce de Mme Johansson, plusieurs associations de la société civile sénégalaise ont organisé des manifestations et des sit-in à Dakar contre la signature de cet accord, jugé contraire aux intérêts nationaux et régionaux.

      Une frontière déplacée vers la côte sénégalaise

      « Il s’agit d’un #dispositif_policier très coûteux qui ne permet pas de résoudre les problèmes d’immigration tant en Afrique qu’en Europe. C’est pourquoi il est impopulaire en Afrique. Frontex participe, avec des moyens militaires, à l’édification de murs chez nous, en déplaçant la frontière européenne vers la côte sénégalaise. C’est inacceptable, dénonce Seydi Gassama, le directeur exécutif d’Amnesty International au Sénégal. L’UE exerce une forte pression sur les États africains. Une grande partie de l’aide européenne au développement est désormais conditionnée à la lutte contre la migration irrégulière. Les États africains doivent pouvoir jouer un rôle actif dans ce jeu, ils ne doivent pas accepter ce qu’on leur impose, c’est-à-dire des politiques contraires aux intérêts de leurs propres communautés. » Le défenseur des droits humains rappelle que les transferts de fonds des migrants pèsent très lourd dans l’économie du pays : selon les chiffres de la Banque mondiale, ils ont atteint 2,66 milliards de dollars (2,47 milliards d’euros) au Sénégal en 2021, soit 9,6 % du PIB (presque le double du total de l’aide internationale au développement allouée au pays, de l’ordre de 1,38 milliard de dollars en 2021). « Aujourd’hui, en visitant la plupart des villages sénégalais, que ce soit dans la région de Fouta, au Sénégal oriental ou en Haute-Casamance, il est clair que tout ce qui fonctionne – hôpitaux, dispensaires, routes, écoles – a été construit grâce aux envois de fonds des émigrés », souligne M. Gassama.

      « Quitter son lieu de naissance pour aller vivre dans un autre pays est un droit humain fondamental, consacré par l’article 13 de la Convention de Genève de 1951, poursuit-il. Les sociétés capitalistes comme celles de l’Union européenne ne peuvent pas dire aux pays africains : “Vous devez accepter la libre circulation des capitaux et des services, alors que nous n’acceptons pas la libre circulation des travailleurs”. » Selon lui, « l’Europe devrait garantir des routes migratoires régulières, quasi inexistantes aujourd’hui, et s’attaquer simultanément aux racines profondes de l’exclusion, de la pauvreté, de la crise démocratique et de l’instabilité dans les pays d’Afrique de l’Ouest afin d’offrir aux jeunes des perspectives alternatives à l’émigration et au recrutement dans les rangs des groupes djihadistes ».

      Depuis le siège du Forum social sénégalais (FSS), à Dakar, Mamadou Mignane Diouf abonde : « L’UE a un comportement inhumain, intellectuellement et diplomatiquement malhonnête. » Le coordinateur du FSS cite le cas récent de l’accueil réservé aux réfugiés ukrainiens ayant fui la guerre, qui contraste avec les naufrages incessants en Méditerranée et dans l’océan Atlantique, et avec la fermeture des ports italiens aux bateaux des ONG internationales engagées dans des opérations de recherche et de sauvetage des migrants. « Quel est ce monde dans lequel les droits de l’homme ne sont accordés qu’à certaines personnes en fonction de leur origine ?, se désole-t-il. À chaque réunion internationale sur la migration, nous répétons aux dirigeants européens que s’ils investissaient un tiers de ce qu’ils allouent à Frontex dans des politiques de développement local transparentes, les jeunes Africains ne seraient plus contraints de partir. » Le budget total alloué à Frontex, en constante augmentation depuis 2016, a dépassé les 754 millions d’euros en 2022, contre 535 millions l’année précédente.
      Une des routes migratoires les plus meurtrières

      Boubacar Seye, directeur de l’ONG Horizon sans Frontières, parle de son côté d’une « gestion catastrophique et inhumaine des frontières et des phénomènes migratoires ». Selon les estimations de l’ONG espagnole Caminando Fronteras, engagée dans la surveillance quotidienne de ce qu’elle appelle la « nécro-frontière ouest-euro-africaine », entre 2018 et 2022, 7 865 personnes originaires de 31 pays différents, dont 1 273 femmes et 383 enfants, auraient trouvé la mort en tentant de rejoindre les côtes espagnoles des Canaries à bord de pirogues en bois et de canots pneumatiques cabossés – soit une moyenne de 6 victimes chaque jour. Il s’agit de l’une des routes migratoires les plus dangereuses et les plus meurtrières au monde, avec le triste record, ces cinq dernières années, d’au moins 250 bateaux qui auraient coulé avec leurs passagers à bord. Le dernier naufrage connu a eu lieu le 2 octobre 2022. Selon le récit d’un jeune Ivoirien de 27 ans, seul survivant, le bateau a coulé après neuf jours de mer, emportant avec lui 33 vies.

      Selon les chiffres fournis par le ministère espagnol de l’Intérieur, environ 15 000 personnes sont arrivées aux îles Canaries en 2022 – un chiffre en baisse par rapport à 2021 (21 000) et 2020 (23 000). Et pour cause : la Guardia Civil espagnole a déployé des navires et des hélicoptères sur les côtes du Sénégal et de la Mauritanie, dans le cadre de l’opération « Hera » mise en place dès 2006 (l’année de la « crise des pirogues ») grâce à des accords de coopération militaire avec les deux pays africains, et en coordination avec Frontex.

      « Les frontières de l’Europe sont devenues des lieux de souffrance, des cimetières, au lieu d’être des entrelacs de communication et de partage, dénonce Boubacar Seye, qui a obtenu la nationalité espagnole. L’Europe se barricade derrière des frontières juridiques, politiques et physiques. Aujourd’hui, les frontières sont équipées de moyens de surveillance très avancés. Mais, malgré tout, les naufrages et les massacres d’innocents continuent. Il y a manifestement un problème. » Une question surtout le hante : « Combien d’argent a-t-on injecté dans la lutte contre la migration irrégulière en Afrique au fil des ans ? Il n’y a jamais eu d’évaluation. Demander publiquement un audit transparent, en tant que citoyen européen et chercheur, m’a coûté la prison. » L’activiste a été détenu pendant une vingtaine de jours en janvier 2021 au Sénégal pour avoir osé demander des comptes sur l’utilisation des fonds européens. De la fenêtre de son bureau, à Dakar, il regarde l’océan et s’alarme : « L’ère post-Covid et post-guerre en Ukraine va générer encore plus de tensions géopolitiques liées aux migrations. »
      Un outil policier contesté à gauche

      Bruxelles, novembre 2022. Nous rencontrons des professeurs, des experts des questions migratoires et des militants belges qui dénoncent l’approche néocoloniale des politiques migratoires de l’Union européenne (UE). Il est en revanche plus difficile d’échanger quelques mots avec les députés européens, occupés à courir d’une aile à l’autre du Parlement européen, où l’on n’entre que sur invitation. Quelques heures avant la fin de notre mission, nous parvenons toutefois à rencontrer Amandine Bach, conseillère politique sur les questions migratoires pour le groupe parlementaire de gauche The Left. « Nous sommes le seul parti qui s’oppose systématiquement à Frontex en tant qu’outil policier pour gérer et contenir les flux migratoires vers l’UE », affirme-t-elle.

      Mme Bach souligne la différence entre « statut agreement » (accord sur le statut) et « working arrangement » (arrangement de travail) : « Il ne s’agit pas d’une simple question juridique. Le premier, c’est-à-dire celui initialement proposé au Sénégal, est un accord formel qui permet à Frontex un déploiement pleinement opérationnel. Il est négocié par le Conseil de l’Europe, puis soumis au vote du Parlement européen, qui ne peut que le ratifier ou non, sans possibilité de proposer des amendements. Le second, en revanche, est plus symbolique qu’opérationnel et offre un cadre juridique plus simple. Il n’est pas discuté par le Parlement et n’implique pas le déploiement d’agents et de moyens, mais il réglemente la coopération et l’échange d’informations entre l’agence européenne et les États tiers. » Autre différence substantielle : seul l’accord sur le statut peut donner – en fonction de ce qui a été négocié entre les parties – une immunité partielle ou totale aux agents de Frontex sur le sol non européen. L’agence dispose actuellement de tels accords dans les Balkans, avec des déploiements en Serbie et en Albanie (d’autres accords seront bientôt opérationnels en Macédoine du Nord et peut-être en Bosnie, pays avec lequel des négociations sont en cours).

      Cornelia Ernst (du groupe parlementaire The Left), la rapporteuse de l’accord entre Frontex et le Sénégal nommée en décembre 2022, va droit au but : « Je suis sceptique, j’ai beaucoup de doutes sur ce type d’accord. La Commission européenne ne discute pas seulement avec le Sénégal, mais aussi avec la Mauritanie et d’autres pays africains. Le Sénégal est un pays de transit pour les réfugiés de toute l’Afrique de l’Ouest, et l’UE lui offre donc de l’argent dans l’espoir qu’il accepte d’arrêter les réfugiés. Nous pensons que cela met en danger la liberté de circulation et d’autres droits sociaux fondamentaux des personnes, ainsi que le développement des pays concernés, comme cela s’est déjà produit au Soudan. » Et d’ajouter : « J’ai entendu dire que le Sénégal n’est pas intéressé pour le moment par un “statut agreement”, mais n’est pas fermé à un “working arrangement” avec Frontex, contrairement à la Mauritanie, qui négocie un accord substantiel qui devrait prévoir un déploiement de Frontex. »

      Selon Mme Ernst, la stratégie de Frontex consiste à envoyer des agents, des armes, des véhicules, des drones, des bateaux et des équipements de surveillance sophistiqués, tels que des caméras thermiques, et à fournir une formation aux gardes-frontières locaux. C’est ainsi qu’ils entendent « protéger » l’Europe en empêchant les réfugiés de poursuivre leur voyage. La question est de savoir ce qu’il adviendra de ces réfugiés bloqués au Sénégal ou en Mauritanie en cas d’accord.
      Des rapports accablants

      Principal outil de dissuasion développé par l’UE en réponse à la « crise migratoire » de 2015-2016, Frontex a bénéficié en 2019 d’un renforcement substantiel de son mandat, avec le déploiement de 10 000 gardes-frontières prévu d’ici à 2027 (ils sont environ 1 500 aujourd’hui) et des pouvoirs accrus en matière de coopération avec les pays non européens, y compris ceux qui ne sont pas limitrophes de l’UE. Mais les résultats son maigres. Un rapport de la Cour des comptes européenne d’août 2021 souligne « l’inefficacité de Frontex dans la lutte contre l’immigration irrégulière et la criminalité transfrontalière ». Un autre rapport de l’Office européen de lutte antifraude (Olaf), publié en mars 2022, a quant à lui révélé des responsabilités directes et indirectes dans des « actes de mauvaise conduite » à l’encontre des exilés, allant du harcèlement aux violations des droits fondamentaux en Grèce, en passant par le refoulement illégal de migrants dans le cadre d’opérations de rapatriement en Hongrie.

      Ces rapports pointent du doigt les plus hautes sphères de Frontex, tout comme le Frontex Scrutiny Working Group (FSWG), une commission d’enquête créée en février 2021 par le Parlement européen dans le but de « contrôler en permanence tous les aspects du fonctionnement de Frontex, y compris le renforcement de son rôle et de ses ressources pour la gestion intégrée des frontières et l’application correcte du droit communautaire ». Ces révélations ont conduit, en mars 2021, à la décision du Parlement européen de suspendre temporairement l’extension du budget de Frontex et, en mai 2022, à la démission de Fabrice Leggeri, qui était à la tête de l’agence depuis 2015.
      Un tabou à Dakar

      « Actuellement aucun cadre juridique n’a été défini avec un État africain », affirme Frontex. Si dans un premier temps l’agence nous a indiqué que les discussions avec le Sénégal étaient en cours – « tant que les négociations sur l’accord de statut sont en cours, nous ne pouvons pas les commenter » (19 janvier 2023) –, elle a rétropédalé quelques jours plus tard en précisant que « si les négociations de la Commission européenne avec le Sénégal sur un accord de statut n’ont pas encore commencé, Frontex est au courant des négociations en cours entre la Commission européenne et la Mauritanie » (1er février 2023).

      Interrogé sur les négociations avec le Sénégal, la chargée de communication de Frontex, Paulina Bakula, nous a envoyé par courriel la réponse suivant : « Nous entretenons une relation de coopération étroite avec les autorités sénégalaises chargées de la gestion des frontières et de la lutte contre la criminalité transfrontalière, en particulier avec la Direction générale de la police nationale, mais aussi avec la gendarmerie, l’armée de l’air et la marine. » En effet, la coopération avec le Sénégal a été renforcée avec la mise en place d’un officier de liaison Frontex à Dakar en janvier 2020. « Compte tenu de la pression continue sur la route Canaries-océan Atlantique, poursuit Paulina Bakula, le Sénégal reste l’un des pays prioritaires pour la coopération opérationnelle de Frontex en Afrique de l’Ouest. Cependant, en l’absence d’un cadre juridique pour la coopération avec le Sénégal, l’agence a actuellement des possibilités très limitées de fournir un soutien opérationnel. »

      Interpellée sur la question des droits de l’homme en cas de déploiement opérationnel en Afrique de l’Ouest, Paulina Bakula écrit : « Si l’UE conclut de tels accords avec des partenaires africains à l’avenir, il incombera à Frontex de veiller à ce qu’ils soient mis en œuvre dans le plein respect des droits fondamentaux et que des garanties efficaces soient mises en place pendant les activités opérationnelles. »

      Malgré des demandes d’entretien répétées durant huit mois, formalisées à la fois par courriel et par courrier, aucune autorité sénégalaise n’a accepté de répondre à nos questions. « Le gouvernement est conscient de la sensibilité du sujet pour l’opinion publique nationale et régionale, c’est pourquoi il ne veut pas en parler. Et il ne le fera probablement pas avant les élections présidentielles de 2024 », confie, sous le couvert de l’anonymat, un homme politique sénégalais. Il constate que la question migratoire est devenue, ces dernières années, autant un ciment pour la société civile qu’un tabou pour la classe politique ouest-africaine.

      https://afriquexxi.info/Au-Senegal-les-desseins-de-Frontex-se-heurtent-aux-resistances-locales
      #conditionnalité #conditionnalité_de_l'aide_au_développement #remittances #résistance

    • What is Frontex doing in Senegal? Secret services also participate in their network of “#Risk_Analysis_Cells

      Frontex has been allowed to conclude stationing agreements with third countries since 2016. However, the government in Dakar does not currently want to allow EU border police into the country. Nevertheless, Frontex has been active there since 2006.

      When Frontex was founded in 2004, the EU states wrote into its border agency’s charter that it could only be deployed within the Union. With developments often described as the “refugee crisis,” that changed in the new 2016 regulation, which since then has allowed the EU Commission to negotiate agreements with third countries to send Frontex there. So far, four Balkan states have decided to let the EU migration defense agency into the country – Bosnia and Herzegovina could become the fifth candidate.

      Frontex also wanted to conclude a status agreement with Senegal based on this model (https://digit.site36.net/2022/02/11/status-agreement-with-senegal-frontex-wants-to-operate-in-africa-for-t). In February 2022, the EU Commissioner for Home Affairs, Ylva Johansson, announced that such a treaty would be ready for signing by the summer (https://www.france24.com/en/live-news/20220211-eu-seeks-to-deploy-border-agency-to-senegal). However, this did not happen: Despite high-level visits from the EU (https://digit.site36.net/2022/02/11/status-agreement-with-senegal-frontex-wants-to-operate-in-africa-for-t), the government in Dakar is apparently not even prepared to sign a so-called working agreement. It would allow authorities in the country to exchange personal data with Frontex.

      Senegal is surrounded by more than 2,600 kilometers of external border; like neighboring Mali, Gambia, Guinea and Guinea-Bissau, the government has joined the Economic Community of West African States (ECOWAS). Similar to the Schengen area, the agreement also regulates the free movement of people and goods in a total of 15 countries. Senegal is considered a safe country of origin by Germany and other EU member states like Luxembourg.

      Even without new agreements, Frontex has been active on migration from Senegal practically since its founding: the border agency’s first (and, with its end in 2019, longest) mission started in 2006 under the name “#Hera” between West Africa and the Canary Islands in the Atlantic (https://www.statewatch.org/media/documents/analyses/no-307-frontex-operation-hera.pdf). Border authorities from Mauritania were also involved. The background to this was the sharp increase in crossings from the countries at the time, which were said to have declined successfully under “Hera.” For this purpose, Frontex received permission from Dakar to enter territorial waters of Senegal with vessels dispatched from member states.

      Senegal has already been a member of the “#Africa-Frontex_Intelligence_Community” (#AFIC) since 2015. This “community”, which has been in existence since 2010, aims to improve Frontex’s risk analysis and involves various security agencies to this end. The aim is to combat cross-border crimes, which include smuggling as well as terrorism. Today, 30 African countries are members of AFIC. Frontex has opened an AFIC office in five of these countries, including Senegal since 2019 (https://frontex.europa.eu/media-centre/news/news-release/frontex-opens-risk-analysis-cell-in-senegal-6nkN3B). The tasks of the Frontex liaison officer stationed there include communicating with the authorities responsible for border management and assisting with deportations from EU member states.

      The personnel of the national “Risk Analysis Cells” are trained by Frontex. Their staff are to collect strategic data on crime and analyze their modus operandi, EU satellite surveillance is also used for this purpose (https://twitter.com/matthimon/status/855425552148295680). Personal data is not processed in the process. From the information gathered, Frontex produces, in addition to various dossiers, an annual situation report, which the agency calls an “#Pre-frontier_information_picture.”

      Officially, only national law enforcement agencies participate in the AFIC network, provided they have received a “mandate for border management” from their governments. In Senegal, these are the National Police and the Air and Border Police, in addition to the “Department for Combating Trafficking in Human Beings and Similar Practices.” According to the German government, the EU civil-military missions in Niger and Libya are also involved in AFIC’s work.

      Information is not exchanged with intelligence services “within the framework of AFIC activities by definition,” explains the EU Commission in its answer to a parliamentary question. However, the word “by definition” does not exclude the possibility that they are nevertheless involved and also contribute strategic information. In addition, in many countries, police authorities also take on intelligence activities – quite differently from how this is regulated in Germany, for example, in the separation requirement for these authorities. However, according to Frontex’s response to a FOIA request, intelligence agencies are also directly involved in AFIC: Morocco and Côte d’Ivoire send their domestic secret services to AFIC meetings, and a “#Center_for_Monitoring_and_Profiling” from Senegal also participates.

      Cooperation with Senegal is paying off for the EU: Since 2021, the total number of arrivals of refugees and migrants from Senegal via the so-called Atlantic route as well as the Western Mediterranean route has decreased significantly. The recognition rate for asylum seekers from the country is currently around ten percent in the EU.

      https://digit.site36.net/2023/08/27/what-is-frontex-doing-in-senegal-secret-services-also-participate-in-t
      #services_de_renseignement #données #services_secrets

  • Sénégal : Mettre fin à la répression, garantir le respect des droits humains et des libertés fondamentales - FIDH

    La FIDH et ses organisations membres au Sénégal, la RADDHO, l’ONDH et la LSDH, expriment leur vive préoccupation face à l’intensification de la répression contre des membres de l’opposition politique et des journalistes. Alors que se rapproche l’échéance de l’élection présidentielle prévue en février 2024, elles appellent les autorités nationales à garantir le respect des droits humains et des libertés fondamentales.

    #Sénégal #Répression #Élections #Droits_Humains

  • Senegal herders demand return of grazing grounds controlled by U.S. firm
    https://news.mongabay.com/2023/03/senegal-herders-demand-return-of-grazing-grounds-controlled-by-u-s-fi

    African Agriculture (AAGR), a U.S. company planning to grow alfalfa for livestock feed in Senegal, is set to launch an initial public offering on the Nasdaq exchange.
    But the land concession it holds used to be part of the Ndiaël nature reserve, a wetland that’s home to many threatened species and a key grazing ground for local herders.
    The land was declassified by presidential decrees without the consultation or agreement of the local population, who are considering suing AAGR in the U.S.
    Hydrologists warn the use of pesticides during the cultivation of alfalfa will contaminate the nearby Lake Guiers, which provides 65% of the capital Dakar’s drinking water.

    #Sénégal #colonialisme #accaparements

  • Les enjeux du féminisme au Sénégal

    Le texte ci-dessous, que nous avons l’honneur de publier, est l’intervention d’ouverture prononcée par la sociologue sénégalaise, Fatou Sow, le 28 janvier dernier à l’occasion du lancement du Réseau des féministes du Sénégal, qui a eu lieu au Musée de la Femme Henriette Bathily à Dakar. Comme le mentionne Madame Sow, l’Afrique est « le seul continent à disposer d’une convention de droits humains des femmes, promue, à l’échelle africaine, par l’Union africaine ». Ce réseau est une concrétisation au Sénégal de cette charte et une avancée importante dans le combat féministe au Sénégal et plus généralement en Afrique, notamment francophone. La rédaction

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/03/17/les-enjeux-du-feminisme-au-senegal

    #feminisme #senegal

  • Au Sénégal, dans l’enfer des chantiers de Diamniadio
    https://www.lemonde.fr/afrique/video/2023/02/23/au-senegal-dans-l-enfer-des-chantiers-de-diamniadio_6163064_3212.html

    Au Sénégal, dans l’enfer des chantiers de Diamniadio
    vidéo Le chantier de la ville nouvelle de Diamniadio, à une trentaine de kilomètres de Dakar, attire des ouvriers de toute l’Afrique de l’Ouest.
    Publié le 23 février 2023 à 18h00, mis à jour hier à 12h09
    En 2014, le président sénégalais Macky Sall a lancé les travaux du pôle urbain de Diamniadio, un chantier titanesque qui prévoit la construction de 40 000 logements, des stades, d’y installer quinze ministères, d’un parc industriel et de développer une « smart city », mais aussi de désengorger Dakar, la capitale du pays. Des ouvriers de la sous-région ont afflué pour s’y faire employer, mais nombreux décrivent des conditions de travail dégradantes et le non-respect de la législation du travail.

    #Covid-19#migrant#migration#senegal#afrique#economie#batiment#immigration#travail#postcovid

  • Si l’#Afrique contribue de façon marginale aux émissions de gaz à effet de serre, elle n’en sera pas moins dévastée…

    Entre 1960 et 2018, le #Maroc a ainsi subi une réduction de 20 % de ses précipitations. Le taux de remplissage des barrages est passé d’un peu plus de 60 % en 2018 à moins de 30 % l’an passé. « Si la population dispose de 600 mètres cubes d’eau par personne, à horizon 2050, le niveau pourrait être abaissé à 350 », craint-elle. […]

    « Les #ressources en #eau renouvelable superficielle et souterraine sont déjà en moyenne en dessous ou proches du seuil de pénurie absolue, fixé à 500 mètres cubes par personne », indique l’#Agence_française_de_développement (#AFD) dans son ouvrage « l’Economie africaine 2023 » paru récemment. […]

    A ce stress hydrique va s’ajouter l’augmentation des températures extrêmes. En Afrique de l’Ouest par exemple, le nombre de jours avec une température supérieure à 40,6 degrés pourrait plus que doubler pour passer d’environ 60 jours par an constatés entre 1985 et 2005 à une fourchette de 105 à 196 jours d’ici à la fin du siècle, avance l’AFD.

    Selon les scénarios climatiques en vigueur, une hausse de la #température terrestre de 4,3 degrés serait catastrophique pour l’ensemble des pays riverains du golfe de Guinée, où le nombre de jours de chaleur potentiellement mortelle pourrait s’établir entre 250 et 350 jours an. « Certaines régions risquent de devenir inhospitalières pour les populations humaines dans le courant du siècle pour les pays côtiers d’#Afrique_de_l'Ouest, du #Sénégal au Nigeria », relate l’AFD.
    A ces dégâts s’ajoutent les risques posés par la surélévation du niveau de la mer. Ce dernier a déjà augmenté de 20 centimètres. […]

    (Les Échos)

    #réchauffement_climatique #pénurie #précipitation

  • Un reportage et des témoignages qui permettent d’approcher la complexité des sentiments (et ressentiments) d’appartenance pour des tirailleurs, aujourd’hui centenaire, et le plus souvent recrutés de force au début des années 1940.

    « J’entends encore des voix me dire “viens m’aider” » : au Sénégal, rencontre avec des tirailleurs centenaires

    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/01/18/j-entends-encore-des-voix-me-dire-viens-m-aider-au-senegal-rencontre-avec-de

    « J’entends encore des voix me dire “viens m’aider” » : au Sénégal, rencontre avec des tirailleurs centenaires
    Par Mustapha Kessous, publié le 18 janvier 2023

    Ils se sont battus pour la France lors de la seconde guerre mondiale, en Algérie ou en Indochine. Pour ces vieux hommes, les combats restent une profonde blessure psychologique jamais prise en compte.

    Un homme peut encore pleurer à 102 ans. Le temps ne guérit pas les blessures. Keffieh rouge posé avec délicatesse sur la tête habillée d’une petite chéchia blanche, trois médailles – bien ternes – accrochées près du cœur, Abdourajhemane Camara dégage une mélancolie qui ne laisse pas indifférent. Le patriarche vit à la Cité Aliou Sow, au nord-est de Dakar, chez son fils. Dans l’immense salon carrelé, on sent chez Mohamed, 60 ans, une fierté infinie de prendre soin de son père. « C’est un guerrier, dans tous les sens du terme », lance-t-il.

    Abdourajhemane Camara est un ancien combattant : dix-sept ans de service dans l’armée française. Cette « carrière » militaire, il n’en a pas voulu. Mais, dit-il, le « ndogalou yalla » (le destin, en wolof) a choisi de l’envoyer se battre sous les feux de la seconde guerre mondiale (1939-1945), puis en Algérie (1954-1962). Selon l’Office national des anciens combattants (ONAC) du Sénégal, quelque 780 tirailleurs, tous vétérans de ces conflits ou de la guerre d’Indochine (1946-1954), vivent aujourd’hui au pays et touchent une pension de la France. L’institution pense qu’il y en a plus : certains ont choisi de ne jamais se manifester, préférant ne pas réclamer leur dû.

    (suite à consulter en ligne)

    #réparations #décolonisations #Sénégal #armée #WWII #tirailleurs

  • Tirailleurs sénégalais : la chair à canon venue des colonies
    https://journal.lutte-ouvriere.org/2023/01/11/tirailleurs-senegalais-la-chair-canon-venue-des-colonies_467

    La sortie du #film #Tirailleurs a servi de prétexte à divers politiciens allant de l’#extrême_droite aux macronistes pour déverser leurs injures contre ceux qui critiquent le passé colonial de la France.

    Ce corps militaire fut créé en 1857 pour aider l’armée française à imposer sa domination aux populations des colonies. Avec la montée vers la #Première_Guerre_mondiale, l’idée surgit d’utiliser ces soldats en dehors des #colonies. Le général Mangin, un officier colonial, justifia par sa rhétorique raciste la constitution d’une « #force_noire ». « Le noir naît soldat », écrivait-il pour justifier l’emploi de ces soldats qu’il décrivait comme des « primitifs pour lesquels la vie compte si peu ». À partir de 1915, de grandes opérations de recrutement de force eurent lieu dans les colonies d’Afrique de l’ouest. Contrairement à la légende, la population résista à cet enrôlement particulièrement violent, comme le montre le film. Des #révoltes éclatèrent même à #Madagascar en 1915, dans des villages de l’actuel Burkina et parmi les populations du Tchad et du nord du #Niger en 1916, dans les Aurès en 1917, ainsi qu’en #Indochine et en #Nouvelle-Calédonie.

    485 000 soldats enrôlés dans tout l’empire colonial furent envoyés au front. Ils tombèrent massivement à Verdun en 1916, lors de l’offensive du Chemin des Dames en 1917 et pour la prise de la ville de Reims en 1918. Sur les 134 000 #tirailleurs_sénégalais envoyés en Europe, plus de 20 % périrent, sur les champs de bataille et dans l’horreur des tranchées d’abord, et aussi du fait de toutes les maladies pulmonaires qui leur étaient inconnues jusque-là. Des dizaines de milliers d’hommes venant des colonies étaient aussi enrôlés dans les usines en France pour faire la richesse des marchands de canons. Pendant ce temps, les populations des colonies connaissaient les réquisitions et le travail forcé pour participer bien malgré elles à l’#effort_de_guerre.

    Lors de la Deuxième Guerre mondiale, de nouveau des troupes coloniales participèrent en masse aux combats pour que la France fasse partie des vainqueurs et garde son #empire_colonial. Mais les discours sur la liberté et la démocratie ne leur étaient pas adressés. Le 1er décembre 1944, plusieurs dizaines de tirailleurs sénégalais furent massacrés par des gendarmes français dans le camp de Thiaroye au #Sénégal. Après avoir été prisonniers de guerre, ils étaient rapatriés au pays et manifestaient pour obtenir la solde à laquelle ils avaient droit.

    Quant aux soldats venant d’Algérie, ils découvrirent, à leur retour, les massacres à Sétif et Guelma contre ceux qui avaient osé réclamer l’indépendance et la liberté pour eux-mêmes. La puissance coloniale française allait finir par payer sa politique. En armant ces soldats, elle fit de certains des combattants qui décidèrent de ne plus se laisser dominer. Beaucoup luttèrent ensuite contre la présence française dans leur pays.

    Jusqu’au bout, l’#armée_française utilisa des tirailleurs et autres soldats enrôlés dans les colonies pour combattre leurs frères d’oppression. En Indochine, en #Algérie, ils servirent à nouveau de #chair_à_canon. Comment s’étonner que les différents gouvernements n’aient jamais traité les soldats africains à égalité avec les soldats français ? Le personnel politique de cette vieille puissance coloniale est élevé dans le #racisme comme il est élevé dans la #haine_antiouvrière et antipauvres.

  • État, habitants et #ONG face aux #inondations à #Dakar
    https://metropolitiques.eu/Etat-habitants-et-ONG-face-aux-inondations-a-Dakar.html

    Dans la banlieue de Dakar, au #Sénégal, des initiatives d’habitants confrontés aux inondations permettent de nourrir les réflexions en cours autour de la « co-construction » des villes, entre acteurs publics, privés et citoyens. Durant les années 1990, un consensus a émergé au sein des milieux du développement autour de la nécessité de « faire participer les habitants », aux politiques urbaines notamment (Cornwall et Brock 2005), sans que cela soit toujours suivi d’une transformation effective de ces #Terrains

    / Sénégal, Dakar, inondations, #participation, #projet_urbain, #État, ONG

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_leclercq_etal.pdf

  • En Espagne, un vaste trafic de déchets vers l’Afrique de l’Ouest démantelé
    https://www.france24.com/fr/europe/20230103-en-espagne-un-vaste-trafic-de-d%C3%A9chets-vers-l-afrique-de-l-ou

    Les douanes et la Garde civile espagnoles ont « démantelé » une « #organisation_criminelle qui, durant les deux dernières années, avait réussi à envoyer depuis l’île (espagnole) de la Grande Canarie vers l’Afrique plus de 5 000 tonnes de #déchets_dangereux d’appareils électroniques, obtenant un bénéfice économique de plus d’un million et demi d’euros », a indiqué le ministère des Finances dans un communiqué.

    Ces déchets contiennent des substances et des gaz qui abîment la couche d’ozone et contribuent au réchauffement climatique, ajoute le communiqué. 

    Ils étaient envoyés par bateaux, « principalement » en Mauritanie, au Nigeria, au Ghana et au Sénégal.

    Les autorités ont arrêté 43 personnes « pour des délits présumés contre l’environnement, faux et usage de faux, et appartenance à une organisation criminelle ».

    Cette dernière « retirait les déchets de la filière légale » à l’aide d’une « supposée entreprise de gestion qui falsifiait des documents sur la provenance et la gestion », ont détaillé les autorités.

    Ces déchets étaient ensuite présentés comme des articles d’occasion pour être envoyés à ces pays africains.

  • In Senegal la pesca artigianale è minacciata dall’industria e dalla crisi climatica

    L’Onu ha dichiarato il 2022 come l’”Anno internazionale della pesca artigianale e dell’acquacoltura” ma nel Paese africano si sta facendo poco o nulla per tutelare le risorse ittiche. Sono sempre più scarse e la sicurezza alimentare di numerosi Stati del continente risulta compromessa. Reportage dal dipartimento di #Mbour

    El Hadji Diop ha quasi sessant’anni e da quando era giovane nella sua vita non ha fatto altro che pescare. Come lui, migliaia di altre persone vivono seguendo la vocazione della lunga costa senegalese: la pesca artigianale. Dal Nord al Sud del Senegal lo scenario è sempre lo stesso e, a qualsiasi ora del giorno, pescatori, carpentieri, falegnami, venditori e trasformatrici di pesce affollano il lungomare. Un tessuto sociale intero legato al mondo della pesca. In Senegal infatti il 17% della popolazione attiva vive direttamente o indirettamente dei prodotti del mare, settore trainante dell’economia nazionale. Stando al recente studio di Diénaba Beye Traore, “Les enjeux des zones de peche artisanale en Republique du Senegal”, solo nel 2020 le esportazioni di risorse ittiche hanno raggiunto i 262,14 miliardi di franchi Cfa (Comunità finanziaria africana), circa 399 milioni di euro, equivalenti a 291.087 tonnellate di pesce.

    Tuttavia dietro ai colori esuberanti delle piroghe e alla vitalità contagiosa delle spiagge senegalesi, si cela una realtà molto meno felice. Nonostante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite abbia decretato il quasi concluso 2022 “Anno internazionale della pesca e dell’acquacoltura artigianali”, un modo quindi per evidenziare il valore della pesca su piccola scala e dell’immenso patrimonio culturale che orbita attorno a questa attività, i mari del Senegal stanno vivendo una crisi senza precedenti per gli effetti sempre più impattanti del cambiamento climatico da un lato e per la presenza di numerosi, troppi, pescherecci industriali dall’altro.

    “Amoul de”, ovvero “non ce n’è”, racconta El Hadji nella lingua locale wolof riferendosi al pesce, talmente sfruttato che alcune specie ittiche stanno letteralmente sparendo. “Questo che vedi è il simbolo del franco Cfa”, spiega il pescatore -che incontriamo a Joal, località lungo la costa, circa 100 chilometri a Sud di Dakar, nel dipartimento di Mbour- prendendo dalla tasca una moneta da 100 franchi. “Il poisson-scie, ovvero il pesce sega, impresso sui soldi degli Stati dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale, non lo si trova più. L’ultima volta che l’ho visto risale a circa quindici anni fa”. Tra i ricordi legati al passato, El Hadji cita anche un clima molto più stabile e prevedibile rispetto a quello attuale: “In passato, quando era primavera inoltrata, pativamo il caldo ma oggi un giorno è caldo e uno no. Inoltre, le piogge sono diminuite e anche questo ha un impatto sugli ecosistemi marini. A volte l’acqua ha un gusto che non riconosco, è come se fosse più salata rispetto a un tempo”. Secondo l’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), si prevede che a fronte di un riscaldamento globale di 1,5 °C le temperature della superficie del mare aumenteranno di 0,5 °C – 1,3 °C intorno a tutto il continente africano, alterando così la capacità di adattamento degli organismi marini.

    Oltre al cambiamento climatico, c’è una seconda grande minaccia che sta contribuendo a impoverire i mari senegalesi. Abdou Karim Sall, referente dell’Ong senegalese Oceanium che si occupa di tutela degli ecosistemi marini, spiega -anch’egli a Joal- che la presenza di grandi pescherecci industriali è una delle cause, se non la prima, del depauperamento ittico in corso. “Il pesce sta diminuendo a vista d’occhio, è dai primi anni del 2000 che si sta facendo raro. Nelle acque che lambiscono i 700 chilometri di costa senegalese ci sono molti pescherecci industriali, alcuni rapporti parlano di circa 160 imbarcazioni, anche se saranno sicuramente di più. Il numero preciso non lo conosciamo. Immagina la pressione di tutte queste navi su un tratto di oceano così limitato”.

    In aggiunta al numero elevato di grandi navi, sono anche le relative modalità di lavoro a preoccupare Abdou Karim Sall: “Con le reti tirano a bordo tutto quello che trovano tenendosi le specie nobili, come il tonno, la cernia, la dorata, il pesce spada, o il marlin blu, e rigettando in mare il pesce che non ha mercato, quello cioè di piccola taglia, che occuperebbe spazio per niente”. Della veridicità di questa testimonianza è facile rendersene conto: le maree portano periodicamente a riva i pesci scartati dai pescherecci, che si arenano lungo i litorali diventando un bottino per falchi e avvoltoi. Anche le località più chic del Paese non sono esonerate dalla brutalità di questo massacro e i turisti in passeggiata sulle spiagge dorate di Cap Skirring devono zig-zagare tra le piccole carcasse in putrefazione. “L’oceano rischia di diventare un deserto liquido e i pescherecci industriali si permettono di sprecare il pesce in questo modo”, continua Abdou Karim Sall. “Quest’anno, per la prima volta in tutta la mia vita, ho visto una piroga in vendita, ed è normale. I nostri ragazzi conoscono il mare, se non possono più lavorare nel settore ittico cosa gli resta? Migrare, sanno come organizzare la traversata e raggiungere l’Europa”.

    M.A. Ndiaye, attivista qui a Mbour, dipartimento del Senegal dove si trova uno dei porti più importanti del Paese, dirige un programma radiofonico per sensibilizzare gli attori della pesca e la popolazione sull’importanza di tutelare le acque dell’Oceano Atlantico. “Con le mie trasmissioni denuncio chi pesca in modo illegale, che siano pescatori locali o stranieri. Ma spesso sono proprio i grandi pescherecci a infrangere la legge, catturando il pesce nelle zone per loro vietate e senza distinguere tra specie protette o no. Queste navi sono autorizzate a pescare solamente oltre le sei miglia dalla costa, ma durante la notte capita di vederle in acque dedicate alla pesca su piccola scala. È da anni che stiamo chiedendo di aver accesso alla lista dei pescherecci, per conoscerne i proprietari, la provenienza”. Continua l’attivista: “Spesso i pescatori mi contattano per segnalarmi la presenza di navi battenti bandiera cinese e questo è possibile solo grazie a un sistema corrotto. Non essendoci accordi di pesca in vigore con nessuno stato asiatico, ed essendo le licenze di pesca concesse solamente a società la cui proprietà è a maggioranza senegalese, sono fiorite numerose realtà prestanome dove un senegalese detiene il 51% della quota e lo straniero il rimanente 49%”.

    Peter K., skipper tedesco in transito a Dakar per fare rifornimento di viveri e carburante, racconta di essere in viaggio da più di un anno e ricorda che quando a fine 2021 gli era capitato di passare accanto alle isole dell’arcipelago di Capo Verde, era come navigare tra le strade di una grande città: “C’erano navi ovunque ed erano sicuramente pescherecci asiatici. Lo capivo dalla comunicazione radio”. Per la rarefazione del pesce, i pescatori artigianali sono costretti a spingersi sempre più al largo, pescando nelle stesse acque dove transitano anche le grandi navi che urtano le piroghe e spesso senza neanche accorgersene. In aggiunta, in seguito a tali incidenti, è praticamente impossibile per un pescatore senegalese essere risarcito dei danni subiti a causa dell’impossibilità di rintracciare l’imbarcazione colpevole.

    La vita di un pescatore artigianale, anche se apparentemente affascinante e intrisa d’avventura, è rischiosa e piena di pericoli: “Al giorno d’oggi per trovare dei banchi sufficientemente grandi, dobbiamo spingerci perfino in Guinea-Bissau”, racconta sempre El-Hadji. “A bordo della nostra piroga siamo circa una ventina di persone, carichiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno per fronteggiare due settimane di navigazione, carburante, acqua, cibo, carbone. Ma la notte è quasi impossibile dormire, dobbiamo fare i turni e assicurarci che qualcuno rimanga sveglio per avvistare le navi di grandi dimensioni”. Anche recentemente, nell’estate 2022, una nave cinese ha urtato una piroga senegalese, uccidendo ben tre persone. Sebbene l’Accordo delle Nazioni Unite sugli stock ittici (rettificato dal Senegal nel 1997) stabilisca la necessità di non danneggiare la pesca di sussistenza degli Stati in via di sviluppo, l’accesso alla pesca artigianale per le comunità autoctone non sembra essere particolarmente tutelato. Ne consegue che la rarefazione delle risorse ittiche sta mettendo alla prova la pesca locale, contribuendo all’aumento all’insicurezza alimentare non solo del Senegal, ma di tutti i paesi limitrofi che dipendono dal pesce proveniente dall’Atlantico.

    A inizio giugno 2022, in occasione della Giornata mondiale degli oceani, Greenpeace Africa ha accompagnato le comunità di pescatori di Joal in una marcia di sensibilizzazione, per protestare contro il rifiuto del governo di proteggere gli stock ittici del Paese. Abdoulaye Ndiaye, responsabile della campagna per gli oceani di Greenpeace Africa, spiega ad Altreconomia che il Senegal ha firmato degli accordi di pesca con l’Unione europea che consentono a 45 pescherecci europei di pescare almeno 10.000 tonnellate di tonno e 1.750 tonnellate di nasello all’anno: “Tuttavia, in seguito alla stipula di tali contratti, lo Stato ha messo un freno all’immatricolazione delle nuove piroghe, ostacolando così l’attività dei pescatori locali che denunciano di non essere mai inclusi nei processi decisionali e di trovarsi costretti ad affrontare una concorrenza ad armi impari per l’accesso ad uno stock ittico sempre più scarso”.

    Eppure gli strumenti per tutelare gli attori della pesca tradizionale e le risorse ittiche ci sarebbero. La vicina Mauritania, ad esempio, ha da poco lanciato il suo secondo rapporto sull’Iniziativa per la trasparenza della pesca (Fisheries transparency initiative, Fiti) e relativo agli anni 2019 e 2020, che dà accesso ai dati riguardanti gli accordi di pesca tra Paesi e gruppi privati stranieri, lo stato degli stock, l’elenco dei pescherecci di grandi dimensioni. “Queste informazioni sono indispensabili e i professionisti del settore della pesca artigianale insieme alle associazioni della società civile hanno ripetutamente domandato al Presidente della Repubblica del Senegal di aderire all’iniziativa Fiti. L’unico modo per andare verso una gestione sostenibile della pesca, è tramite una comunicazione trasparente che faccia luce sull’elenco dei pescherecci autorizzati, nonché sulle risorse ittiche ancora disponibili,” conclude il responsabile di Greenpeace.

    https://altreconomia.it/in-senegal-la-pesca-artigianale-e-minacciata-dallindustria-e-dalla-cris
    #Sénégal #pêche #pêche_artisanale #changement_climatique #pêche_industrielle #exportation #poisson-scie #climat #Chine #Chinafrique

    • Sénégal : Publication d’un rapport d’étude sur les enjeux des zones de pêche artisanale

      Mbour -Sénégal – 31 mars 2022- Dans le cadre de la célébration de l’Année Internationale de la Pêche et de l’Aquaculture Artisanales (IYAFA 2022) décrétée par l’Assemblée Générale des Nations Unies, la Confédération Africaine des Organisations professionnelles de Pêche Artisanale (CAOPA) a commandité une série d’études sur les enjeux des zones de pêche artisanale en Sierra Léone, au Ghana, au Madagascar, en Mauritanie, en Gambie, en République de Guinée et au Sénégal, avec l’appui de la Coalition pour des accords de pêche équitables (CAPE) et de la Société suédoise pour la conservation de la nature (SSNC).

      La présentation des résultats de l’étude du Sénégal a été faite le jeudi 31 mars 2022, à Mbour, situé 80 km au sud de Dakar.

      Le rapport a été rédigé par Madame Diénaba BEYE TRAORE, expert juriste consultant international. L’étude présente les différentes réglementations ayant un lien avec la pêche artisanale en Sierra Léone. Sur base de discussions ayant été menées avec les pêcheurs, les lacunes dont souffrent ces textes juridiques sont ensuite identifiées et des recommandations sont proposées. Les résultats sont relatés dans un document consignant les recommandations pour la sécurisation des zones de pêche artisanale au Sénégal.

      PAS DE ZONE EXCLUSIVEMENT RÉSERVÉE À LA PÊCHE ARTISANALE

      « En République du Sénégal, en dehors des Aires marines protégées (AMP), il n’y a pas de limitation à la pêche artisanale qui peut être pratiquée dans l’ensemble de la zone maritime du Sénégal. Pour les autres types d’opérations, les zones de pêche sont situées au-delà de 03 miles nautiques de la laisse de basse mer », lit-on dans le rapport qui souligne, toutefois, qu’il n’existe pas de zone exclusivement réservée à la pêche artisanale.

      Malgré l’importance du secteur de la pêche, dont dépend une grande partie de la population sénégalaise, des problèmes persistent, principalement liés aux conflits entre pêcheurs dans les différentes zones de pêche.

      Sur la base des discussions ayant été menées avec les pêcheurs, les lacunes dont souffrent ces textes juridiques sont ensuite identifiées et des recommandations sont proposées.

      Malgré l’importance du secteur de la pêche, dont dépend une grande partie de la population sénégalaise, des problèmes persistent, principalement liés aux conflits entre pêcheurs dans les différentes zones de pêche. Ces problèmes soulignent la nécessité d’une meilleure compréhension de la réglementation relative à la pêche artisanale dans ce pays.

      ENJEUX

      D’après le rapport, l’enjeu principal qui peut retarder, voire bloquer, l’accès à des zones de pêche artisanale est lié principalement à l’obtention du permis de pêche en vertu de l’article 68 du Code des Pêches Maritimes (CPM). Cette obtention est conditionnée à plusieurs exigences préalables :

      – Tout d’abord ce permis nécessite une autorisation préalable avant l’importation, la construction ou l’acquisition d’un nouveau navire ou engin de pêche ou sa transformation en navire de pêche, cette autorisation est donnée par une autorité administrative mais dans la pratique les embarcations sont construites, achetées ou reconverties en absence de cette autorisation pour plusieurs raisons : l’ignorance de la réglementation en vigueur, le caractère informel du sous-secteur de la pêche artisanale ou le manque d’expertise au sein de l’administration responsable des autorisations.

      Depuis sa création en 2010, la CAOPA a beaucoup œuvré pour la reconnaissance de la pêche artisanale.

      « Depuis plus de dix ans, nous, les hommes, les femmes, les jeunes de la pêche artisanale africaine, avons uni nos forces pour que notre secteur soit reconnu à sa juste valeur par nos États qui sont nos premiers partenaires. Petit à petit, notre travail a donné la confiance à nos communautés pour faire valoir leurs avantages, en termes social, économique, culturel et comme gestionnaires des écosystèmes côtiers par rapport à d’autres activités qui exploitent les océans et les littoraux, comme la pêche industrielle, l’exploitation pétrolière, le tourisme côtier, etc. »

       Aujourd’hui, la pêche artisanale est mieux reconnue au niveau international, à travers les Directives Volontaires pour une pêche artisanale durable de la FAO, et à travers les Objectifs de Développement durable agréés par les Nations Unies, qui demandent à tous les pays de « Garantir aux pêcheurs artisans l’accès aux ressources et aux marchés », a expliqué Gaoussou GUEYE, président de la CAOPA.

      https://caopa.org/senegal-publication-dun-rapport-detude-sur-les-enjeux-des-zones-de-peche-artisanale/31/03/2022/actu/4063

      Pour télécharger le rapport :
      https://caopa.org/wp-content/uploads/2022/03/Senegal_Study_Oct_2021_Layout_final.pdf

      #rapport

  • #Sénégal : pilleurs des mers

    Le Sénégal se trouve au coeur de l’une des zones de pêche les plus riches du monde. Pourtant, depuis quelques années, les poissons se font plus rares... Victimes de surexploitation par les bateaux usines venus de l’étranger, les pêcheurs artisanaux sont les témoins d’un désastre écologique. La tension monte entre les locaux et les chalutiers étrangers autour de l’or bleu en voie de disparition. 

    Ces derniers n’hésitent plus à empiéter illégalement dans les zones dédiées aux pêcheurs artisanaux causant des collisions et parfois la mort des pêcheurs.

    Il y a urgence à agir car la raréfaction du poisson se fait sentir au-delà des frontières du Sénégal. Certains Etats africains, tel le Libéria, acceptent désormais de coopérer avec des organisations de défense de l’environnement comme #Sea_Shepherd.

    Embarquant leurs officiers armés à bord du Sam Simon, un puissant navire de l’ONG, ils interceptent les pêcheurs industriels illégaux qui sont immédiatement arraisonnés et arrêtés. La côte ouest-africaine est devenue le théâtre d’une redoutable guerre pour la défense de ses #ressources_hialeutiques et la protection de ses pêcheurs.

    https://www.arte.tv/fr/videos/086543-000-A/senegal-pilleurs-des-mers

    #pêche #surpêche #industrie_de_la_pêche #extractivisme #désert_liquide #aire_marine_protégée (#AMP) #travail #femmes #Greenpeace #résistance #Mauritanie #Liberia #opération_Sola_Stella #pêche_intensive

  • A Genève, une sépulture théâtrale pour les victimes du colonialisme allemand

    Dans « #Vielleicht », l’acteur #Cédric_Djedje met en lumière le combat d’activistes berlinois pour que les rues du « #quartier_africain » de la capitale allemande changent de nom. Au Grütli, ce spectacle touche souvent juste, malgré des raccourcis discutables.

    Antigone est leur sœur. Comme l’héroïne de Sophocle, les comédiens afro-descendants Cédric Djedje et #Safi_Martin_Yé aspirent à rendre leur dignité aux morts, à ces dizaines de milliers de #Hereros et de #Namas exterminés en #Namibie par les Allemands entre 1904 et 1908. Un #génocide, reconnaissaient les autorités de Berlin au mois de mai 2021.

    Au Grütli à Genève, avant le Théâtre de Vidy et le Centre de culture ABC à La Chaux-de-Fonds, Cédric Djedje – à l’origine du spectacle – et Safi Martin Yé offrent une sépulture symbolique à ces oubliés de l’Histoire. L’artiste a découvert cette tragédie lors d’un séjour prolongé à Berlin. Il en est revenu avec Vielleicht, plongée personnelle dans l’enfer du #colonialisme. Ce spectacle est militant, c’est sa force et sa limite. Il met en lumière l’inqualifiable, dans l’espoir d’une #réparation. Il ne s’embarrasse pas toujours de subtilité formelle ni intellectuelle dans son épilogue.

    Qu’est-ce que Vielleicht ? Un rituel d’abord, une enquête ensuite, avec le concours de l’historienne #Noémi_Michel. Les deux à la fois en vérité. Un geste poétique et politique. Cédric Djedje et Safi Martin Yé ne vous attendent pas dans l’agora qui sert de lice à leur dialogue. Ils s’affairent déjà autour d’un monticule de terre. Ils y enfouissent des bocaux vides, habitacles des âmes errantes, qui sait ? Vous vous asseyez en arc de cercle, tout près d’eux. En face, une feuille d’arbre géante servira d’écran. Dans le ciel, des cerfs-volants badinent. Dans l’air, une musique répand sa prière lancinante.

    Le poids des noms

    C’est beau et triste à la fois. Ecoutez Cédric Djedje. Il raconte ces semaines à arpenter le quartier berlinois de Wedding, l’« #Afrikanisches_Viertel », son étonnement quand il constate que très peu d’Africains y habitent, sa surprise devant les noms des rues, « #Togostrasse », « #Senegalstrasse « . Que proclame cette nomenclature ? Les appétits de conquête de l’empire allemand à la fin du XIXe siècle. Que masque-t-elle surtout ? Les exactions d’entrepreneurs occidentaux, avidité prédatrice incarnée par l’explorateur et marchand #Adolf_Lüderitz qui fait main basse en 1883 sur #Angra_Pequena, baie de la côte namibienne.

    Cédric Djedje rencontre des activistes allemands d’origine africaine qui se battent pour que les rues changent de nom. Il les a interviewés et filmés. Ce sont ces personnalités qui s’expriment à l’écran. Quarante ans qu’elles œuvrent pour que #Cornelius_Fredericks notamment, chef nama qui a osé défier les troupes impériales entre 1904 et 1907, soit honoré. Vielleicht est la généalogie d’un crime et un appel à une réparation. C’est aussi pour l’artiste un retour sur soi, lui qui est d’origine ivoirienne. Dans une séquence filmée, il demande à sa mère pourquoi elle ne lui a pas parlé le #bété, la #langue de ses ancêtres.

    Si le propos est souvent captivant, les deux insertions théâtrales, heureusement brèves, n’apportent rien, tant elles sont maladroites et outrées – trois minutes pour résumer la fameuse conférence de Berlin qui, entre la fin de 1884 et le début de 1885, a vu les puissances européennes se partager l’Afrique. Le théâtre militant va droit au but, quitte à parfois bâcler la matière ou à asséner des parallèles qui méritent d’être interrogés.

    Le naturaliste genevois Carl Vogt, dont les thèses reposent sur une vision raciste de l’homme hélas courante à l’époque, est-il ainsi comparable aux colonialistes allemands de la fin du XIXe ? Invitée surprise, une activiste genevoise l’affirme à la fin de la pièce, exigeant avec d’autres que le boulevard Carl-Vogt soit débaptisé – le bâtiment universitaire qui portait son nom le sera bientôt, annonçait le rectorat fin septembre. On peut le comprendre, mais le cas Vogt, qui est toujours au cœur d’un débat vif, mériterait en soi une pièce documentée. Toutes les situations, toutes les histoires ne se ressemblent pas. L’amalgame est la tentation de la militance. Exit la nuance. C’est la limite du genre.

    https://www.letemps.ch/culture/geneve-une-sepulture-theatrale-victimes-colonialisme-allemand
    #toponymie #toponymie_politique #colonialisme #Allemagne #colonialisme_allemand #Allemagne_coloniale #art_et_politique #théâtre #Berlin #noms_de_rues

    ping @_kg_ @cede

    • Vielleicht

      Nous arpentons quotidiennement les rues de notre ville, nous y croisons des noms d’hommes (le plus souvent…) qui nous sont totalement inconnus. Qui étaient-ils au fond ? Qu’ont-ils fait de leur vivant pour mériter que leur mémoire soit honorée par un boulevard, une avenue, une place ?
      Cédric Djedje s’est penché sur ces questions en vivant plusieurs mois à Berlin dans le quartier de Wedding, quartier dit « africain » ou Afrikaniches Viertel qui doit son surnom avec vingt-cinq noms de rue se rapportant au passé colonial allemand, lui rendant par là hommage à l’endroit même où vivent, en somme, les descendants des peuples colonisés.
      En s’intéressant aux fantômes de la colonisation dans l’espace urbain contemporain, le comédien s’est interrogé sur comment on s’attache à un espace, comment l’histoire coloniale résonne avec cet attachement et comment dialoguent Histoire et vécu intime et quotidien.
      En imaginant une performance où se mêleront dimensions documentaire et fictionnelle, à la convergence de plusieurs disciplines et en faisant coexister et se frictionner les temporalités, la compagnie Absent.e pour le moment ambitionne de créer un spectacle qui questionne les concepts d’Histoire et de restitution : que veut dire « restituer » ? Est-ce possible ? Et comment ?
      Entre histoire dite « grande » et sentiments personnels vécus par le créateur — lui-même afro-descendant — lors de son enquête, Vielleicht fera peut-être écho chez les spectatrices à l’heure de traverser la place ou le carrefour si souvent empruntés au sortir de chez soi.

      https://grutli.ch/spectacle/vielleicht

  • Le Mandat

    Le jour où le facteur apporte à Ibrahima Dieng un mandat de 25 000 francs CFA de la part de son neveu, immigré à Paris, Ibrahima se montre généreux. Dans le quartier la nouvelle se répand et il aide sa famille et ses voisins, mais sans carte d’identité la poste refuse de lui remettre l’argent, ce qui est l’origine d’un long parcours du combattant dans les méandres de l’administration sénégalaise.

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Le_Mandat
    #remittances #migrations #Sénégal

  • #Visas pour la #France. Le business des frontières fermées

    Un vent de fronde souffle sur le continent. De nombreux Africains se plaignent de ne pas être remboursés lorsque leur demande de #visa pour la France est refusée, alors même que Paris a durci sa #politique_migratoire. Les #étudiants, dont les frais d’inscription à l’université ont été augmentés en 2019, sont particulièrement pénalisés.

    C’est un #business florissant pour la France, et très coûteux pour les Africains. Depuis plusieurs semaines, l’État français est accusé par plusieurs organisations civiles africaines de se faire de l’argent sur le dos des demandeurs de visa. En cette rentrée universitaire, les critiques sont particulièrement vives du côté des étudiants. Car c’est une règle : les frais dépensés (plusieurs centaines d’euros) ne sont jamais remboursés, même si la procédure n’aboutit pas.

    Le 17 août 2022, la Fédération marocaine des droits du consommateur s’est saisie du sujet. Son président, Bouazza Kherrati, a envoyé un courrier à Hélène Le Gal, ambassadrice de France dans le royaume chérifien. Dans sa lettre, il demande la restitution des « frais des visas non délivrés », invoquant un « service non fait ». Bouazza Kherrati a reçu une fin de non-recevoir de la part de la diplomate. Un mois plus tard, le 14 septembre, 115 organisations des deux rives de la Méditerranée ont signé l’appel intitulé : « La Politique des visas : discrimination et injustice ». Selon elles, entre 2021 et mars 2022, 23 % des demandes de visa en provenance des pays du Maghreb ont été refusées parce que ces États rechignent à rapatrier leurs ressortissants en situation irrégulière en France. Ces organisations dénoncent des procédures « extrêmement coûteuses et sans remboursement en cas de refus », ainsi que « des mesures discriminatoires insupportables ».

    Le chantage au visa dénoncé dans ce communiqué est assumé par le ministre français de l’Intérieur. Le 6 novembre 2020, lors de sa visite en Tunisie, Gérald Darmanin avait évoqué le sujet avec le président Kaïs Saïed. Le ministre français avait demandé au chef de l’État d’accepter le retour des Tunisiens expulsés de France sans quoi le nombre de visas accordés serait réduit. Le 28 septembre 2021, sur France Inter, Gabriel Attal, alors porte-parole du gouvernement, parlait d’une « décision drastique, inédite, mais nécessaire » pour justifier la baisse sévère du nombre de visas accordés aux Tunisiens (-30 %), aux Marocains (-50 %) et aux Algériens (-50 %).

    Plus de refus pour l’Afrique

    La situation n’est pas tout à fait inédite. Dans les pays africains, le taux de refus est particulièrement élevé depuis au moins 2015 et ce que l’on a appelé en Europe « la crise migratoire ». En 2019, année pré-Covid qui peut être considérée comme une année « normale » (la pandémie a par la suite fait chuter les voyages internationaux), sur 1 471 374 demandes de visa en provenance de 47 pays africains, 448 400 ont été refusées, soit un taux de 30,47 %. C’est presque deux fois plus que la moyenne de l’ensemble des consulats français dans le monde (16 %). Dans le détail, certains pays se distinguent. C’est le cas de l’Algérie (de 41,6 % de refus à 54,8 % selon les consulats), du Sénégal (42,7 % de refus), des Comores (42,3 %), de la Guinée-Conakry (52 %), du Nigeria (41,3 % de refus à Abuja et 52 % à Lagos), du Togo (34,9 %) ou encore du Maroc (32 %)1.

    En 2021, année post-Covid, le nombre de demandes a été beaucoup moins élevé (325 972), mais l’écart reste significatif entre la moyenne des refus au niveau mondial et celle qui concerne uniquement l’Afrique : 21 %, contre 27 %. C’est un fait : la politique migratoire de la France est plus sévère pour les ressortissants africains que pour les personnes venant des autres continents (en comparaison, le taux de refus pour des demandes de visa depuis la Chine était de 5,4 % en 2019).

    Ces derniers mois, des étudiants ont ainsi été écartés arbitrairement, « alors que certains avaient déjà commencé leur cycle universitaire en France », explique Olivier Deau, attaché parlementaire de Karim Ben Cheikh, député (Nupes) de la 9e circonscription des Français de l’étranger. L’élu, ancien consul général à Beyrouth, sera le rapporteur spécial de l’évaluation annuelle de l’action extérieure de l’État. Ce document produit chaque année par l’Assemblée nationale étudie l’activité du ministère des Affaires étrangères. La question des visas sera au cœur de son travail, car, précise Olivier Deau, « nous recevons chaque jour des dizaines de demandes d’intervention de Français dont le conjoint, ou un membre de la famille, n’a pu obtenir un visa ou tout simplement une réponse ».

    Un #trafic de visas à Dakar ?

    En septembre 2022, à Dakar, les délais d’attente pour obtenir un rendez-vous de dépôt de dossier auprès du prestataire privé #VFS_Global (qui gère le dépôt du dossier et l’enregistrement des données biométriques pour le compte du consulat français) dépassaient deux mois. Quant à ceux qui avaient enfin pu le déposer, ils n’avaient toujours pas obtenu de réponse plusieurs semaines après leur enregistrement. Afin de débloquer la situation, Moïse Sarr, le secrétaire d’État chargé des Sénégalais de l’étranger, a rencontré les 12 et 22 août Philippe Lalliot, l’ambassadeur de France, et Didier Larroque, le consul général à Dakar2. Les deux diplomates ont promis de renforcer les équipes et d’ouvrir 1 200 créneaux supplémentaires au niveau du prestataire.

    Contacté par Afrique XXI, George Cherian, le directeur adjoint de VFS Global en charge de la communication, explique ces difficultés par « l’ouverture des frontières internationales, l’assouplissement des restrictions de voyages, la reprise des vols internationaux, la vaccination généralisée et la réouverture des cours dans les universités étrangères ». Tout cela aurait selon lui « contribué à l’augmentation du trafic sortant du Sénégal cette année, notamment vers des destinations comme la France ». Ces explications, qui seraient à l’origine d’une augmentation de 250 % des demandes par rapport à 2021, sont également avancées par le ministère français de l’Europe et des Affaires étrangères, qui affirme « [s’efforcer] d’instruire ces demandes de visa dans le souci de favoriser les échanges entre [les] deux pays, notamment pour la mobilité étudiante ».

    Une argumentation peu convaincante. Cette explosion des demandes ne représente en réalité qu’un « rattrapage » (terme utilisé par le Quai d’Orsay dans ses réponses envoyées à Afrique XXI) par rapport à la situation observée avant la pandémie de Covid-19 : en 2019, la France avait enregistré 52 721 demandes ; en 2021, 12 584 demandes. Si l’on applique une augmentation de 250 % à ce dernier chiffre, le nombre de demandes serait d’un peu plus de 44 000 depuis le début de l’année 2022. Le consulat n’aurait donc pas anticipé un retour à la normale, pourtant prévisible, en ne fournissant pas assez de créneaux à VFS Global.

    Le problème est-il ailleurs ? Ainsi que l’a révélé la lettre d’information Africa Intelligence, une enquête administrative diligentée par le Quai d’Orsay au sujet du consulat français de Dakar a mis au jour un « trafic de visas » dont auraient pâti de nombreux demandeurs3.
    Une manne financière pour le Quai

    Centrafrique, Congo-Brazzaville, Sénégal… Les affaires de corruption dans les services consulaires français sont récurrentes. Déjà, en 2007, un rapport du Sénat établissait le constat suivant : « Pas un consulat visité n’a été épargné par des cas de corruption d’agents, en relation avec la demande de visas »4. C’est d’ailleurs l’un des arguments qui a été avancé par l’État français à la fin des années 2000 pour justifier le recours à des prestataires privés tels que le groupe indo-suisse VFS Global (basé à Dubaï). Ce système permettrait, selon les autorités, d’éviter les contacts directs entre les demandeurs et les fonctionnaires de la chancellerie et donc de limiter les possibilités de corruption.

    Une certitude : loin d’avoir mis fin à ce fléau, cette privatisation est une charge supplémentaire pour les demandeurs, et a permis au Quai d’Orsay d’augmenter ses recettes – l’activité « visa » étant la seule qui en rapporte à ce ministère - tout en lui permettant de réduire ses effectifs dans les consulats. Selon un rapport publié par le Sénat en 2018, « les recettes tirées de l’activité visas se sont élevées à 217,7 millions d’euros, en hausse de 3,5 % par rapport à 2016 (210,4 millions d’euros) ». Pour 2019, les prévisions étaient de 222,1 millions d’euros. Avec « France Visa », une plateforme informatique sur laquelle s’enregistrent les demandeurs, les services consulaires pourraient bientôt voir leur activité principale disparaître. À terme, tous les dossiers devraient être étudiés à Nantes, où se trouve le siège flambant neuf de cette structure créée en 2018.

    C’est une manne d’autant plus intéressante que même ceux qui n’obtiennent pas le fameux sésame l’abondent. Contacté, le Quai d’Orsay se réfugie derrière le « code Schengen » : « Le remboursement n’est pas prévu par la réglementation européenne et les frais sont fixés par le code communautaire des visas pour les visas de court séjour. » En tout cas, de nombreux étudiants africains admis dans une faculté française n’ont pu assister à la rentrée universitaire le 13 septembre. Certains ne comprennent pas le refus de leur visa malgré les sommes avancées et non remboursées. D’autres n’ont toujours pas eu de réponse. Aucun des étudiants contactés par Afrique XXI, et ayant une demande de visa en cours, n’ont souhaité s’exprimer. Tous craignent d’être reconnus et que leur dossier soit pénalisé.

    La plupart d’entre eux sont passés par Campus France, un service destiné à les accompagner dans le choix de l’université et dans la constitution de leur dossier. Le passage par cette institution, qui dépend de l’ambassade, est obligatoire dès lors qu’elle est disponible dans le pays de la demande. Ce service est facturé entre 60 000 et 75 000 FCFA (entre 91 et 114 euros) selon les pays. En contrepartie, le prix du visa a certes été divisé par deux (40 euros), mais cela n’exonère pas l’étudiant des frais facturés par l’entreprise intermédiaire.
    Le sentiment d’avoir été « arnaqué »

    À la politique migratoire française particulièrement sévère envers les ressortissants africains s’est ajoutée une autre décision qui a mécaniquement écarté des universités françaises de nombreux étudiants du continent : entre 2018 et 2019, les frais d’inscription pour un étranger sont passés de 243 euros pour une année de cycle « master », à 3 770 euros. À cette époque, le gouvernement français avait pourtant envoyé des signaux contraires en affirmant vouloir accueillir 500 000 étudiants étrangers, contre 300 000 auparavant. Selon Campus France, ils étaient 400 000 inscrits lors de la dernière rentrée universitaire, et il y avait parmi eux 150 000 Africains. Mais ce chiffre est un cumul comprenant les étudiants déjà inscrits les années précédentes et les nouveaux arrivants. En réalité, selon nos calculs, seuls 8 000 nouveaux étudiants africains ont obtenu leur visa pour venir étudier en France en 2022.

    Le Sénégalais Adama Seck a tenté sa chance en 2019. Il avait alors 27 ans. Admis à l’université de Bordeaux en première année de master, il s’était pourtant résolu à terminer son parcours à l’université Cheikh-Anta-Diop de Dakar. « Mon visa a été refusé au motif que mes documents étaient inexacts, raconte-t-il à Afrique XXI. J’aurais peut-être pu rectifier le tir si le consulat m’avait expliqué quels documents posaient problème. » Le flou entretenu par les réponses lapidaires fournies par le consulat est un reproche entendu couramment. Le manque de canaux de communication avec le consulat, pour un éventuel recours, en est un autre. Charles Malinas, ancien ambassadeur de France en Centrafrique, admet dans le livre qu’il vient de publier : « Le formulaire que doivent renseigner les demandeurs est à la fois intrusif et suffisamment ambigu pour qu’un refus puisse être opposé sans véritable motivation. Et les recours, possibles, sont en réalité pratiquement inaccessibles5. »

    Pour Adama Seck - qui est aujourd’hui enseignant dans son pays -, l’addition fut salée : au coût du #visa_Schengen (60 euros à l’époque, 80 euros aujourd’hui) se sont ajoutés ceux du prestataire (entre 20 et 30 euros), ainsi qu’une caution de trois mois versée pour une chambre en colocation à Bordeaux (plusieurs centaines d’euros). Il avait également dû fournir une attestation de virement mensuel non révocable de 630 euros (un document qui prouve que l’étudiant disposera des ressources nécessaires pour vivre en France). « C’est un oncle installé en France qui a payé la caution et qui s’est engagé à verser cette somme mensuellement », explique-t-il. Mais, trois ans après sa mésaventure, le sentiment d’avoir été « arnaqué par la France » ne l’a pas quitté. Sentiment aujourd’hui partagé par de nombreux étudiants bloqués dans leur pays.

    https://afriquexxi.info/Visas-pour-la-France-Le-business-des-frontieres-fermees
    #privatisation #migrations #Afrique #Sénégal #université

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  • Le Sénégal cherche à garder ses meilleurs bacheliers sur ses terres
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2022/09/19/le-senegal-cherche-a-garder-ses-meilleurs-bacheliers-sur-ses-terres_6142303_

    Le Sénégal cherche à garder ses meilleurs bacheliers sur ses terres
    Avec l’ouverture de deux classes préparatoires, le pays souhaite désormais conserver ses élèves les plus brillants et tenter de casser la dynamique de la fuite des cerveaux.
    Par Mustapha Kessous
    Publié le 19 septembre 2022 à 19h00
    Ils ne verront pas Paris, Lyon ou Valenciennes. Pas cette année. Le Sénégal a décidé de ne pas envoyer ses meilleurs bacheliers dans une classe préparatoire française lors de la prochaine rentrée étudiante. Ce pays d’Afrique de l’Ouest a fait le choix d’ouvrir pour la première fois, le 3 octobre, deux classes préparatoires scientifiques au sein de l’école polytechnique de Thiès, ville située à 70 kilomètres à l’est de Dakar, afin de former 50 élèves directement aux concours d’entrée des grandes écoles.
    « Ce n’est pas une spécificité de notre pays que d’avoir des prépas, c’est donc un véritable changement culturel, note Emile Bakhoum, chef du service de gestion des étudiants sénégalais à l’étranger, rattaché à l’ambassade du Sénégal à Paris. Notre pays gagnera à garder son élite sur ses terres. »
    C’est en 2016 que le Sénégal a signés des conventions avec six lycées français comme Louis-le-Grand et le réseau INSA (Institut national des sciences appliquées). Ces accords prévoient qu’une cinquantaine de jeunes élèves puissent intégrer, chaque année, ces prestigieux établissements – sans passer par Parcoursup – pour les préparer aux grandes écoles. Une fois les meilleurs éléments du pays sélectionnés par l’Etat sénégalais (sur des centaines de demandes), les élus bénéficient d’une aide enviée par tant d’étudiants : ils obtiennent la bourse d’excellence, dont la dotation mensuelle est de 650 euros afin qu’ils puissent se concentrer uniquement sur leurs études.
    C’est le double de la somme allouée à un boursier classique (373 euros à Paris, 297 euros en province), sept fois plus que le salaire minimum au Sénégal. Pour décrocher la « bourse des bourses », il faut une mention bien voire très bien au bac ou un prix au concours général, qui récompense chaque année les meilleurs élèves de première et de terminale. La décision de ne plus envoyer, dès la rentrée prochaine, de boursiers d’excellence en France met en sommeil les conventions « pour au moins un an et on verra pour la suite, explique Emile Bakhoum. Un étudiant, s’il le souhaite, peut toujours tenter d’intégrer une prépa en France, mais ça sera hors convention : il ne bénéficiera donc pas de la bourse d’excellence ».
    Pourquoi le Sénégal cherche-t-il désormais à conserver ses élèves les plus brillants ? « Si l’Etat a décidé de ne plus envoyer de boursiers d’excellence, c’est parce que les bacheliers sont jeunes, très jeunes, entre 17 et 19 ans. Et quand ils arrivent en France, il peut y avoir un problème d’adaptation, souligne le diplomate. Il y a une rupture trop brutale : ils passent de la chaleur familiale à un froid à tous les niveaux avec un risque d’isolement total. »
    Les découvertes d’une autre culture ou d’un nouveau système d’enseignement réputé intraitable et ultra-compétitif s’avèrent, pour certains, difficiles à gérer. « Parmi ces meilleurs élèves, il y en a qui échoue lamentablement à cause du dépaysement et de l’exigence que requièrent ces prépas », assure M. Bakhoum. Etudier dans de prestigieuses écoles françaises peut se faire ainsi au prix de dépression, de sacrifices et de burn-out. « On a eu énormément de remontées faisant état de ces difficultés », ajoute-t-il. Surtout depuis l’affaire Diary Sow, une étudiante, alors en deuxième année de classe préparatoire scientifique au lycée Louis-le-Grand, dans le Ve arrondissement de Paris, qui avait disparu le 4 janvier 2021 avant de réapparaître dix-sept jours plus tard à Dakar. Son absence avait fait couler des litres de larmes et d’encre entre les deux continents, mais cette fuite avait largement contribué à libérer la parole des boursiers d’excellence.Au Sénégal, cette affaire reste un traumatisme. « On ne peut pas nier que l’histoire de Diary Sow a joué dans la prise de décision, ajoute M. Bakhoum. Il est normal que le Sénégal, qui aujourd’hui se veut émergeant, puisse se doter d’outils pour former sa future élite. A Thiès, les élèves pourront bénéficier de la même qualité d’enseignement au Sénégal qu’en France. D’ailleurs, nous avons recruté deux néo-retraités de classes préparatoires françaises qui superviseront l’enseignement. Et en plus, les étudiants resteront non loin de leurs parents. »
    Ouvrir ces deux classes préparatoires a, également, un autre but : tenter de casser la dynamique de la fuite des cerveaux. « Chez nous, on pense que la réussite passe par l’étranger et qu’il faut impérativement partir après le bac », regrette Emile Bakhoum. « Nous prenons la crème de nos bacheliers, nous payons leur scolarité en France dans les meilleures écoles et, à la fin, la plupart des enfants ne reviennent pas au Sénégal. Ce flux migratoire est en défaveur de notre pays et de l’Afrique », constate le professeur Serigne Magueye Gueye. Ainsi, pour le directeur général du campus franco-sénégalais de Dakar, retenir au pays « la crème des bacheliers » permettra à ces jeunes de les protéger de situations de vulnérabilité, de gagner en maturité et de leur donner plus de temps pour forger leur projet de vie. « S’ils partent à l’étranger un peu plus âgé, ils seront plus enclins à revenir au pays, estime M. Gueye. Les plus belles réussites se construisent ici au Sénégal. »

    #Covid-19#migrant#migration#senegal#etudiant#elite#circulation#braindrain#etranger#retour#vulnerabilite#santementale

  • La revue dessinée, n°37

    Plus de patates donc plus de frites, plus de forages donc plus de bouteilles d’eau : plus, plus, toujours plus, quitte à assécher, transformer, surexploiter. À une époque où les ressources les plus essentielles se raréfient, notre numéro d’automne braque ses projecteurs sur cet appétit sans limite, souvent celui de multinationales déconnectées des besoins humains. En librairie le mercredi 7 septembre et en précommande dès maintenant.

    Sommaire :

    Prendre la mer


    Quand l’Europe pêche leurs poissons, les Sénégalais rêvent d’ailleurs.
    par Jeff Pourquié et Taina Tervonen

    Bad BZZZ


    Sélectionnée, transhumée, l’abeille est-elle vraiment l’égérie écolo tant vantée ?
    par Jérémy Capanna et Angela Bolis

    Un trop long silence


    En Algérie, l’armée française à violé. Une vérité qui éclate enfin.
    par Aurel et Florence Beaugé

    Frites à volonté


    Dans le Nord, la ruée vers les pommes de terre laisse les terres exsangues.
    par Émilie Plateau et Simon Henry

    Une ombre au tableau


    Précaires et déconsidérés, les profs contractuels souffrent.
    par Marion Chancerel, Manon Chapelain et Thomas Guichard

    Jusqu´à plus soif


    Dans les Vosges, près de Vittel, l’eau est un bien commun en péril.
    par Alex Puvilland, Alexander Abdelilah et Robert Schmidt

    Inconscience

    La rocambolesque découverte de la première porteuse saine de maladie, « Marie Typhoïde ».
    par Cécily de Villepoix et Fériel Naoura

    La revue des cinés

    Comédie mièvre ou pastiche réjouissant ? Réflexions sur Cry-Baby de #John_Waters.
    par Otto T.

    Face B

    L´icône punk #Siouxsie à passer sa vie à se transformer, et le son de #The_Banshees avec elle.
    par Nicolas Moog et Arnaud Le Gouëfflec

    https://boutique.4revues.fr/la-revue-dessinee-37

    #Sénégal #pêche #surpêche #pommes_frites #frites #pommes_de_terre #agriculture #terres #abeilles #Algérie #viols #eau #Vittel #eau_en_bouteilles #Vosges #Marie_Typhoïde #abeilles_sauvages

  • Des #pluies diluviennes touchent le Sénégal, le dérèglement climatique à l’œuvre
    https://www.rfi.fr/fr/afrique/20220906-des-pluies-diluviennes-touchent-le-s%C3%A9n%C3%A9gal-le-d%C3%A9r%C3%A8g

    La saison des pluies est particulièrement intense, cette année, au #Sénégal. Est-ce que c’est normal ? « Aujourd’hui, on est à plus de 200 % de la normale à Dakar », indique le docteur Ousmane Ndiaye, directeur de l’exploitation de la météorologie à l’Agence nationale de l’aviation civile et de la météo (ANACIM).

    « C’est exceptionnel en vitesse et en intensité de la pluie. […] »

    #inondations #climat

  • LES OTAGES. #Contre-histoire d’un #butin_colonial

    Derrière les objets issus des guerres coloniales que nous admirons dans les musées se trouve une histoire violente, il est temps de l’écouter.

    1890 : un colonel français entre dans #Ségou, ville d’Afrique de l’Ouest, et s’empare d’un trésor. Parmi les #objets du butin, des bijoux et un sabre. Alors que le #Sénégal réclame la #restitution du sabre depuis des décennies, symbole de sa mémoire collective, la #France peine à répondre, prise dans un carcan idéologique et juridique. Ironie du sort, les bijoux ont, eux, été perdus, oubliés ou volés.
    Partie sur les traces de ce trésor, T. Tervonen découvre une #histoire_coloniale violente dont les objets sont les témoins silencieux, une histoire dont nous resterons prisonniers tant qu’elle ne sera pas racontée.

    https://www.editions-marchialy.fr/livre/les-otages
    #objets #colonialisme #colonisation #livre #Taina_Tervonen #histoire

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  • Au Sénégal, les difficultés à obtenir un visa pour la France suscitent inquiétude et exaspération
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2022/08/31/au-senegal-les-difficultes-a-obtenir-un-visa-pour-la-france-suscitent-inquie

    Au Sénégal, les difficultés à obtenir un visa pour la France suscitent inquiétude et exaspération. Tourisme, mobilité étudiante, conjoints mariés à un ressortissant français : les délais de délivrance ont dépassé plusieurs mois. Le consulat plaide la surcharge.
    Par Théa Ollivier( Dakar, correspondance)
    Publié aujourd’hui à 13h00, mis à jour à 13h00
    Obtenir un visa pour la France est devenu un véritable chemin de croix au Sénégal. Aïda*, Française de 39 ans, n’avait jamais imaginé que la procédure serait si longue pour son époux, père de son enfant de 3 ans, avec qui elle est en couple depuis 2010 et mariée depuis un an. La demande de visa long séjour a été déposé au consulat de Dakar le 20 juin 2022, mais depuis, pas de nouvelle.« Je n’arrête pas d’envoyer des mails, mais on ne me répond même pas », se plaint la mère de famille, domiciliée en région parisienne, qui s’inquiète que son fils ne fasse sa première rentrée scolaire, jeudi 1er septembre, sans son papa. « Je ne sais pas s’ils se rendent compte de l’impact de leur retard. Des familles sont séparées », râle Aïda, qui multiplie les allers-retours entre la France et le Sénégal pour que son mari puisse voir son petit garçon.
    Des retards qu’a reconnus l’ambassade de France au Sénégal dans un communiqué publié sur les réseaux sociaux le 26 juillet. « Le consulat général fait face à une augmentation de plus de 250 % des demandes de visa court séjour par rapport à la situation pré-Covid. Nous comprenons que cela génère beaucoup d’impatience et de frustration, ce que nous regrettons », a justifié la diplomatie française, qui n’a pas donné suite aux sollicitations du Monde. « Nous mettons vraiment tout en œuvre pour réduire les délais de traitement et restituer les passeports au plus vite, dans un contexte tout à fait inédit de reprise de l’activité », assure-t-elle. La pression est particulièrement forte à Dakar avec les multiples demandes de visas d’études qui doivent être traitées pendant l’été, auxquelles s’ajoutent celles des nombreuses familles franco-sénégalaises.
    Pour Karim Ben Cheikh, député de la neuvième circonscription des Français de l’étranger (Nupes), « les personnels consulaires ne disposent pas des moyens pour bien réaliser leur travail ». Tout juste désigné rapporteur spécial du budget de l’action extérieure de l’Etat pour la commission des finances, il pointe la responsabilité d’une « politique de réduction de personnels dans les consulats, avec 30 % de postes supprimés depuis dix ans. » Lors d’une audition au Sénat le 28 juillet, le ministre délégué pour les Français de l’étranger, Olivier Becht, avait lui-même constaté que la France avait « désarmé [ses] services consulaires ces dernières années ».
    Le passeport d’Antoinette Fina Senghor, 29 ans, est resté bloqué deux mois et demi au consulat de France à Dakar. Au bout de cette longue attente, elle s’est vue opposer un refus pour « doutes raisonnables quant à votre volonté de quitter le territoire des Etats membres [de l’Union européenne] avant l’expiration du visa ». Une décision dont elle a été informée le 17 août, soit plus d’un mois après son départ prévu le 12 juillet pour Paris.
    La jeune femme voulait passer quelques semaines en France pour rencontrer la famille de son conjoint français, avec lequel elle vit à Dakar. « Pourtant, j’ai mis tous les documents qui prouvent qu’on est un véritable couple, que je participe aux charges de notre maison et que j’ai une source de revenus liée à une activité formelle », argumente Antoinette, qui tient son propre salon de coiffure dans le quartier Ouakam de Dakar. Ces longs délais concernent aussi les étudiants sénégalais, qui redoutent de perdre leur préinscription dans les universités françaises. Mamadou Diop*, 27 ans, étudiant à Saint-Louis, a été admis à un master d’études anglophones à Saint-Etienne. Dès qu’il l’a su, il s’est rendu à Dakar pour déposer son dossier le 3 août. Sans recevoir de réponse jusqu’à présent. « Si je ne suis pas à l’université le 1er septembre, je risque de perdre ma place », s’inquiète le jeune homme. Dans un groupe WhatsApp, 300 étudiants sénégalais dans l’attente d’un visa échangent régulièrement des nouvelles pour se soutenir, alors que certains ont déposé leur demande début juillet. « Une minorité seulement a reçu son visa, je me sens désespéré parce que cela peut déboucher sur un refus. Les étudiants devraient être prioritaires dans le traitement des dossiers », revendique le jeune homme. Le parlementaire français Karim Ben Cheikh plaide pour que « les présidents d’université soient sensibilisés (…) pour que les étudiants sénégalais ne perdent pas leur préinscription ». Selon lui, « c’est aussi l’image de la France qui est en jeu ». Le député, qui s’est déjà mobilisé début août pour demander la levée des réductions de visas dans les trois pays du Maghreb, assure qu’il se rendra à Dakar dans les prochaines semaines pour faire une évaluation de la situation.Pour le cas particulier des visas de conjoints, Karim Ben Cheikh propose par exemple que des « créneaux spécifiques leur soient dédiés sans frais pour l’usager ». De fait, précise-t-il, ces visas « nécessitent une instruction beaucoup plus courte, car ils sont fournis de droit. » Un petit espoir pour Aïda, qui espère toujours pouvoir habiter avec son mari en région parisienne avant la rentrée scolaire.

    #Covid-19#migrant#migration#senegal#france#politiquemigratoire#etudiant#visas#famille#courtsejour#circulation#postcovid

  • Le combat des #éleveurs du #Ndiaël pour récupérer « leurs terres »

    Dans le nord-ouest du Sénégal, une coalition de 37 villages proteste depuis dix ans contre l’attribution de 20 000 hectares à une entreprise agroalimentaire. Ce conflit foncier illustre un phénomène généralisé sur le continent africain : l’#accaparement_de_terres par des #multinationales.

    Tout a dû paraître parfait au ministre de l’élevage du Niger lorsqu’il a visité, le 1er juin 2022, les installations des Fermes de la Teranga, une entreprise implantée dans le nord-ouest du Sénégal, à une cinquantaine de kilomètres de Saint-Louis : immenses étendues de cultures verdoyantes, systèmes d’irrigation fonctionnels, grosses machines agricoles...

    Devant les caméras, Tidjani Idrissa Abdoulkadri s’est dit « très impressionné » par le travail de cette société, qui dit cultiver de la luzerne sur 300 hectares depuis 2021. Il a émis le souhait qu’un jour le fourrage qu’elle produit puisse nourrir le bétail nigérien.

    Mais le tableau qu’a vu le ministre est incomplet. Car à une quinzaine de kilomètres de là, au bout de pistes tracées dans la terre sableuse, Gorgui Sow fulmine. Installé sur une natte dans le salon de sa petite maison, ce septuagénaire pas du genre à se laisser faire raconte comment, depuis dix ans, il s’oppose à ce projet agro-industriel. Son combat, explique-t-il en pulaar, lui a valu de multiples intimidations et convocations à la gendarmerie. Mais pas question de renoncer : la survie de sa famille et du cheptel qui assure ses moyens d’existence en dépend.

    Tout est parti d’un décret signé en 2012 par le président Abdoulaye Wade, cinq jours avant le second tour d’une élection présidentielle à laquelle il était candidat, et confirmé après des tergiversations par son successeur, Macky Sall. Ce texte attribue pour cinquante ans renouvelables 20 000 hectares à Senhuile, une entreprise inconnue, créée par des investisseurs sénégalais et italiens au profil flou.

    La superficie en question couvre trois communes, Ronkh, Diama et Ngnith, mais la majeure partie se trouve à Ngnith, où elle englobe plusieurs dizaines de villages, dont celui de Gorgui Sow. Le décret prévoit aussi l’affectation de 6 500 hectares aux populations qui seraient déplacées par les plans de l’entreprise consistant à produire des graines de tournesol pour l’export.

    Toutes ces terres, proches du lac de Guiers, le plus grand lac du Sénégal, faisaient jusque-là partie de la réserve naturelle du Ndiaël, créée en 1965 et représentant 46 550 hectares. Les populations qui y vivaient pouvaient continuer à y faire pâturer leurs bêtes, soit des milliers de chèvres, ânes, chevaux, moutons, vaches. Elles pouvaient aussi y ramasser du bois mort, récolter des fruits sauvages, des plantes médicinales, de la gomme arabique, etc. Elles avaient en revanche l’interdiction d’y pratiquer l’agriculture.

    Gorgui Sow et ses voisins, tous éleveurs comme lui, ont donc été outrés d’apprendre en 2012 que non seulement leurs lieux de vie avaient été attribués à une entreprise, mais que cette dernière allait y développer à grande échelle une activité longtemps proscrite, le tout pour alimenter des marchés étrangers.

    À l’époque, ce type de transaction foncière était déjà devenu courant au Sénégal. Depuis, le mouvement s’est poursuivi et concerne toute l’Afrique, qui représente 60 % des terres arables de la planète : elle est le continent le plus ciblé par les accaparements fonciers à grande échelle et à des fins agricoles, selon la Land Matrix, une initiative internationale indépendante de suivi foncier.

    Comme les communautés locales ne disposent, en général, que d’un droit d’usage sur les terres qu’elles occupent et que le propriétaire, à savoir l’État, peut les récupérer à tout moment pour les attribuer à un projet déclaré « d’utilité publique », les effets sont similaires partout : elles perdent l’accès à leurs champs, sources d’eau, lieux de pâturage, etc. C’est ce qui est arrivé avec Senhuile.

    À ses débuts, l’entreprise, qui promettait de créer des milliers d’emplois, a défriché plusieurs milliers d’hectares (entre 5 000 et 7 000, selon l’ONG ActionAid), creusant des canaux d’irrigation depuis le lac de Guiers, installant des barbelés. Ce qui était une forêt est devenu une étendue sableuse dégarnie, un « vrai désert », disent les riverains. Mais Senhuile a dû s’arrêter : une partie de la population s’est soulevée, affrontant les gendarmes venus protéger ses installations. Elle n’a au bout du compte pratiquement rien cultivé.

    « Senhuile a détruit les ressources naturelles qui nous permettaient de vivre, explique aujourd’hui Gorgui Sow. Des enfants se sont noyés dans les canaux. Les barbelés qu’elle a installés ont tué nos vaches, la zone de pâturage a été considérablement réduite. » Lui et d’autres habitants ont constitué le Collectif de défense des terres du Ndiaël (Coden) pour demander la restitution de cet espace qu’ils considèrent comme le leur. Il rassemble 37 villages de la commune de Ngnith, ce qui représente environ 10 000 personnes. Tous sont des éleveurs semi-nomades.
    De Senhuile aux Fermes de la Teranga

    Au fil des ans, le Coden que préside Gorgui Sow a noué des alliances au Sénégal et à l’étranger et a bénéficié d’une large couverture médiatique. Il a rencontré diverses autorités à Dakar et dans la région, manifesté, envoyé des lettres de protestation, obtenu des promesses de partage plus équitable des terres. Mais rien ne s’est concrétisé.

    En 2018, il y a eu un changement : Frank Timis, un homme d’affaires roumain, a pris le contrôle de Senhuile, à travers une autre entreprise, African Agriculture Inc. (AAGR), enregistrée en 2018 aux îles Caïmans. C’est à cette occasion que Senhuile a été rebaptisée Fermes de la Teranga, un mot wolof signifiant « hospitalité ». Le nom de Frank Timis est bien connu au Sénégal : il a été notamment cité, avec celui d’un frère de Macky Sall, dans un scandale concernant un contrat pétrolier.

    À la stupeur des éleveurs de Ngnith, AAGR a déposé en mars 2022 une demande d’introduction en Bourse auprès de la Securities and Exchange Commission (SEC), à Washington, afin de lever des fonds. Disant avoir des intérêts au Sénégal et au Niger, elle annonce vouloir intégrer le marché international de vente de crédits carbone, de biocarburants et surtout de luzerne qu’elle a l’intention de proposer aux éleveurs locaux et de la région « ainsi qu’à l’Arabie saoudite, aux Émirats arabes unis et à l’Europe », selon le document remis à la SEC.

    « Qui chez nous aura les moyens d’acheter ce fourrage ? Celui que l’entreprise vend actuellement est hors de prix ! », s’agace Bayal Sow, adjoint au maire de Ngnith et membre du Coden. Il craint l’existence d’objectifs inavoués dans cette affaire, comme de la spéculation foncière. À ses côtés, dans son bureau de la mairie de Ngnith, écrasée par la chaleur de cette fin de saison sèche, un autre adjoint au maire, Maguèye Thiam, acquiesce, écœuré.

    Puisque la zone de pâturage a diminué, troupeaux et bergers sont contraints de partir loin, hors du Ndiaël, pour chercher du fourrage et des espaces où paître, précise-t-il. Dans ces conditions, l’idée que les territoires où les cheptels avaient l’habitude de se nourrir soient transformés en champs de luzerne pour produire du fourrage qui sera très certainement vendu à l’étranger paraît inconcevable.

    Être employé par les Fermes de la Teranga est également impensable : « Nous sommes une population d’éleveurs à 90 %, sans formation, sans diplôme. Nous ne pourrions être que de simples ouvriers. Cela n’a aucun intérêt », observe Hassane Abdourahmane Sow, membre du Coden. « Comment peut-on justifier l’attribution d’autant de terres à une entreprise alors que les populations locales en manquent pour pratiquer elles-mêmes l’agriculture et que l’État parle d’autosuffisance alimentaire ? », demande un autre ressortissant de la région.

    De son côté, AAGR assure que tout se passe bien sur le terrain. Sur le plan social, détaille-t-elle dans un courriel, le processus de concertation avec toutes les parties impliquées a été respecté. Elle dit avoir embauché sur place 73 personnes « qui n’avaient auparavant aucun emploi ni moyen de subsistance ».
    Dissensions

    Comme preuves de ses bonnes relations avec les populations locales, AAGR fournit des copies de lettres émanant de deux collectifs, l’un « des villages impactés de la commune de Ngnith », l’autre « des villages impactés de la commune de Ronkh », lesquels remercient notamment les Fermes de la Teranga de leur avoir donné du sucre lors du ramadan 2021. Ces deux collectifs « qui ont des sièges sociaux et des représentants légaux » sont les « seuls qui peuvent parler au nom des populations de la zone », insiste AAGR. « Toute autre personne qui parlera au nom de ces populations est motivée par autre chose que l’intérêt de la population impactée par le projet », avertit-elle.

    La société, qui a parmi ses administrateurs un ancien ambassadeur américain au Niger, communique aussi deux missives datées du 15 et 16 juillet 2022, signées pour la première par le député-maire de Ngnith et pour la seconde par le coordonnateur du Collectif de villages impactés de Ngnith. Dans des termes similaires, chacun dit regretter les « sorties médiatiques » de « soi-disant individus de la localité pour réclamer le retour de leurs terres ». « Nous sommes derrière vous pour la réussite du projet », écrivent-ils.

    Les Fermes de la Teranga se prévalent en outre d’avoir mis à disposition des communautés locales 500 hectares de terres. « Mais ces hectares profitent essentiellement à des populations de Ronkh qui ne sont pas affectées par le projet », fait remarquer un ressortissant de Ngnith qui demande : « Est-ce à l’entreprise “d’offrir” 500 hectares aux communautés sur leurs terres ? »

    Non seulement ce projet agro-industriel a « un impact sur nos conditions de vie mais il nous a divisés », s’attriste Hassane Abdourahmane Sow : « Des membres de notre collectif l’ont quitté parce qu’ils ont eu peur ou ont été corrompus. Certains villages, moins affectés par la présence de l’entreprise, ont pris parti pour elle, tout comme des chefs religieux, ce qui a là aussi généré des tensions entre leurs fidèles et eux. »

    « Il faut s’asseoir autour d’une table et discuter, suggère Maguèye Thiam. Nous ne sommes pas opposés à l’idée que cette société puisse bénéficier d’une superficie dans la région. Mais il faut que sa taille soit raisonnable, car les populations n’ont que la terre pour vivre », observe-t-il, donnant l’exemple d’une autre firme étrangère implantée sur 400 hectares et avec laquelle la cohabitation est satisfaisante.

    Interrogé par messagerie privée à propos de ce conflit foncier, le porte-parole du gouvernement sénégalais n’a pas réagi. Les membres du Coden répètent, eux, qu’ils continueront leur lutte « jusqu’au retour de (leurs) terres » et projettent de nouvelles actions.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/260822/le-combat-des-eleveurs-du-ndiael-pour-recuperer-leurs-terres

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  • Le #Sénégal, une vitrine démocratique en danger
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/08/05/le-senegal-une-vitrine-democratique-en-danger_6137255_3232.html

    A Paris, l’éventualité Sonko fait frémir. La #Russie a tout intérêt à faire les yeux doux à un jeune tribun « anticolonialiste ». L’intérêt de l’Elysée est aujourd’hui de convaincre M. Sall de sortir par le haut en 2024 et d’ouvrir le jeu politique à des talents dont le Sénégal ne peut pas manquer. Dans le cas contraire, des protestations, où les intérêts français seront inévitablement visés, ne manqueront pas d’accompagner le maintien du sortant. Une arrivée au pouvoir d’Ousmane Sonko serait, elle, le signe d’un certain rejet populaire, préfigurant une rupture avec un pays central dans la relation de la #France à l’#Afrique.

  • #Sénégal : des nappes d’#algues à la surface de la mer suscitent l’inquiétude
    https://www.rfi.fr/fr/afrique/20220520-s%C3%A9n%C3%A9gal-des-nappes-d-algues-%C3%A0-la-surface-de-la-mer-susci

    Le phénomène serait lié à des facteurs climatiques, avec une remontée brutale des températures de la mer, et la fin des alizés, donc des vents de nord-est. Il va rapidement s’estomper, selon le chercheur, mais pourrait devenir récurrent, et perturber la chaîne alimentaire. Les Noctiluca scintillans consomment en effet les diatomées, à la base de la chaîne alimentaire pour les petits pélagiques et le Yaboy.

    […]

    Le Yaboy, autrement dit la sardinelle. Ce qui pourrait avoir, dans la durée, des conséquences économiques et sociales. Pour le scientifique, il n’y a pas de lien direct avec la maladie dite « des pêcheurs » apparue depuis 2020. Mais le phénomène nécessiterait des recherches approfondies.