• Via il Papa e Mattarella, a Trieste i migranti tornano a dormire all’addiaccio. E il prefetto scopre la Bora: “Moduli Onu inutili”

    Dopo anni di inerzia istituzionale e migliaia di richiedenti asilo all’addiaccio nonostante la legge imponga la loro accoglienza, lo scorso giungo era stata annunciata la soluzione. La 50a edizione delle Settimane sociali dei cattolici italiani si sarebbe tenuta a Trieste, dal 3 al 7 luglio, alla presenza del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, e di Papa Francesco, che aveva annunciato di voler incontrare i richiedenti accampati nel famigerato Silos, il fatiscente edificio accanto alla stazione cittadina, di proprietà della Coop, già magazzino portuale ai tempi dell’Impero austroungarico. Per evitare che il pontefice mostrasse al mondo il degrado che il Comune denunciava pur senza muovere un dito, il sindaco Roberto Dipiazza decise di firmare l’ordinanza di sgombero del Silos dove i migranti della rotta balcanica accampavano da anni tra fango, topi, freddo e immondizia. L’alternativa? L’ampliamento di una struttura esistente grazie ai moduli abitativi forniti dalle Nazioni Unite, da installare esternamente, e un “elevato turnover” con trasferimenti più assidui e costanti verso le altre regioni. La farsa – è già tempo di chiamarla così – è durata appena un mese. Già ad agosto, infatti, i trasferimenti sono tornati a diradarsi, mentre l’ampliamento dei posti tardava ad arrivare e, dopo l’iniziale trasferimento delle persone sgomberate dal Silos, i nuovi arrivati ricominciavano a finire sulla strada.

    Oggi, mercoledì 18 settembre, a Trieste ci sono 125 richiedenti asilo in mezzo alla strada, comprese famiglie con bambini piccolissimi. Per anni si sono accampati nel rudere del Silos, spesso restandoci per mesi. Il Comune lo ha sempre chiamato “degrado”, negando soluzioni che, a detta del sindaco, attirerebbero altri migranti. Il flusso in arrivo a Trieste dalla rotta balcanica è in calo, in linea con i numeri dell’anno scorso. Costante anche la volontà di due terzi dei migranti di voler proseguire, per lo più verso altri Paesi europei, lasciando la città già a poche ore dall’arrivo. Secondo il rapporto “Vite abbandonate”, i numeri non possono considerarsi quelli di un’emergenza, vista la media di 5 richieste d’asilo presentate al giorno in una città di 200 mila abitanti. Complice il rallentamento dei trasferimenti dei richiedenti verso altre regioni, nel 2023 si sono contate anche 500 persone lasciate contemporaneamente all’addiaccio. Ma l’imminente visita di Mattarella e del Papa sblocca la situazione. Lo scetticismo non manca, visto che i nuovi posti in località Campo Sacro sono ancora tutti da realizzare e dal cilindro non è uscito che un pugno di container targati Onu. Si lascia passare luglio e intanto la piazza antistante la stazione, quella piazza della Libertà ribattezzata Piazza del mondo dai volontari presenti quotidianamente, si riempie di attivisti e scout venuti da ogni parte d’Italia per incontrare i migranti, richiedenti o transitanti che fossero. Poi il repentino calo delle temperature e le piogge di settembre, un doloroso bagno di realtà: i posti non ci sono e i richiedenti in strada sono di nuovo tanti, ora al freddo. Il punto lo ha fatto la prefettura di Trieste lunedì scorso, convocando sindaco, volontari e associazioni cittadine. E svelando finalmente il mistero dei container dell’Onu, arrivati già ai primi di luglio e mai installati. La ragione? Un evento imponderabile: le raffiche di Bora. Tanto che qualcuno tra i presenti alla riunione si è chiesto se non sia più sciocco chi i moduli li ha inviati o chi se li è fatti mandare per poi accorgersi, a mesi di distanza, che erano inservibili perché potevano ribaltarsi. Flop a parte, di soluzioni per i richiedenti nemmeno l’ombra. Anzi, prefettura e comune si sono limitati a chiederne ad associazioni e volontari. “Non è forse questa la vostra missione?”, è stato detto loro chiedendo di trovare soluzioni indipendenti e autogestite. In altre parole, senza contributi pubblici. Quanto ai transitanti, gli stranieri intenzionati a proseguire il viaggio, la linea è quella dura di sempre: non esistono.

    Assente alla riunione nonostante le promesse, il sindaco Dipiazza è intanto ripartito con le accuse ai volontari che in piazza Libertà distribuiscono cibo, cure, coperte e sacchi a pelo a chi la Bora si prepara ad affrontarla in mezzo a una strada. Dipiazza è da sempre convinto che un pasto caldo e una coperta termica costituiscano un pull factor, cioè una calamita che spinge i migranti a mettersi in viaggio. Come se chi parte dalla Siria o dall’Afghanistan fosse mosso dalla prospettiva di un piatto di minestra offerto davanti alla stazione di Trieste. Così il primo cittadino si guarda bene dal fornire servizi igienici e chiude anche il sottopassaggio davanti alla stazione, unico riparo dalle intemperie. “La Regione Fvg ha elargito oltre un miliardo di contributi nell’ultimo assestamento di bilancio. Non un solo euro è andato per questo dramma che si svolge ogni giorno a Trieste. Invece di vergognarsi delle condizioni in cui queste persone sono costrette a vivere a Trieste – ha scritto il consigliere regionale di Open Sinistra Fvg Furio Honsell – si spendono soldi per sprangare sottopassaggi: restiamo umani”. Un appello che il meteo costringe a tradurre molto concretamente. L’associazione Linea d’Ombra, in piazza da anni per curare i piedi piagati dalla rotta balcanica e a volte le ferite inferte dalle polizie di confine, in queste ore chiede di contribuire con giubbotti e sacchi a pelo trasportabili. Sulla pagina Facebook di Lorena Fornasir, fondatrice dell’associazione, le immagini recenti assomigliano di nuovo a quelle degli anni passati. “Procedere, oltre che con i trasferimenti, con più posti a Campo Sacro, e facendo in modo che le associazioni non vadano più in quella piazza a portare loro di tutto e di più”, ha rilanciato il sindaco Dipiazza. Fornasir ribatte: “Indegne dichiarazioni di chi ha chiuso i due unici gabinetti, di chi abbandona in strada neonati, madri, famiglie transitanti, profughi già identificati che non riescono a entrare in accoglienza, profughi che la questura rimanda di giorno in giorno, di settimana in settimana. Questo è lo scandalo, la vergogna, l’indegnità. Abbiamo salvato delle vite. Curiamo i feriti, li ricopriamo a causa del freddo, li sfamiamo grazie a una rete di comunità, associazioni, persone solidali di tutta Italia. Trieste è stata la vetrina dello scandalo del Silos, continua ad esserlo per lo scandalo dell’abbandono in strada”.

    https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/09/19/via-il-papa-e-mattarella-a-trieste-i-migranti-tornano-a-dormire-alladdiaccio-e-il-prefetto-scopre-la-bora-moduli-onu-inutili/7698412

    #Trieste #Italie #SDF #sans-abrisme #sans-abri

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    Et un mot:
    #transitanti —> trasitants
    #mots #vocabulaire #terminologie

    –> ajouté à la métaliste sur les mots de la migration:
    https://seenthis.net/messages/414225

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    Si lascia passare luglio e intanto la piazza antistante la stazione, quella #piazza_della_Libertà ribattezzata #Piazza_del_mondo dai volontari presenti quotidianamente, si riempie di attivisti e scout venuti da ogni parte d’Italia per incontrare i migranti, richiedenti o transitanti che fossero.

    #toponymie_migrante

  • The Costs of Criminalizing the Homeless
    https://jacobin.com/2024/09/supreme-court-criminalizing-homelessness-families

    Children at a homeless encampment in San Diego, California, on Wednesday, July 31, 2024. (Carlos Moreno / Anadolu via Getty Images)

    Quand on rend responsables les pauvrrs de leur sort on ignore le fait qu’il s’agit d’un mal nécessaire et d’une conséquence immédiate du système capitaliste que subissent les pauvres. Le seul acte de solidarité utile au dela du présent serait de les convaincre de se joindre aux organisations anticapitalistes de leur classe.

    Quand on regarde les État Unis on découvre que la catastrophe sociale n’est pas seulement plus grave qu"en Europe de l’Ouest mais que ses victimes sont considérés comme par les nazis allemands. On les traite comme des sous-hommes atteints d’une maladie héréditaire.

    Voilà encore un indice qui s’ajoute au fait que la politique génocidaire nazie, pas celle contre les juifs mais contre les peuples slaves, a été conçue suivant l’exemple de la colonisation des amériques et de l’extermination de ses peuples autochtones.

    Ceci explique aussi pourquoi l’impérialisme états-unien a réussi ses projets de reconstruction des nations allemandes et japonaises. D’abord on partageait quelques idées fondamentales comme la supériorité de sa propre « race » puis les anciens ennemis temporaires devaient participer sur cette base idéologique au maintien de l’empire repris des britanniques et contribuer à son élargiissement. Cette exigence marque toujours la relation des USA avec ses partenaires.

    Aprës 1950 la pauvreté c’était pour les autres, pour les africains et les asiatiques sauf pour les japonais. Chez soi on narguait le peuple en lui promettant une vie prospère. La promesse n’a pas été respectée, même pendant cette époque révolue.

    Aujourd’hui on retourne au sources de l"exploitation sans merci et se prend le droit de laisser crever dans la rue les plus défavorisés. Parfois on ne leur laisse même pas ce droit.

    23.9.2024 by Richard Schweid - In June, the US Supreme Court voted 6-3 to allow states to ban homeless people from sleeping outside. This decision has put thousands of unhoused families in danger, exacerbating a crisis for which both political parties are to blame.

    A few years ago, I was staying at a motel in Arlington, Virginia, beside the Robert E. Lee highway, one of the principal roads leading into our nation’s capital. The motel had government approval to serve as a way station for homeless families, and to collect their rent from municipal authorities. Every night a local church sent around a van loaded with hot meals in Styrofoam cartons. The van parked in the motel’s parking lot and people came out from their rooms to collect supper for themselves and their children.

    On one side of the motel was a little slope of woods, running down to a small creek that flowed, a little further on, under a bridge across the highway. When that van parked, people materialized from out of those trees, climbing the slope in considerable numbers. A few were holding the hands of their children. Old and young, down on their luck, living by that creek as best they could. Most of them looked like they could really use that hot meal.

    I thought of them following the Trump Supreme Court’s recent 6-3 decision empowering municipalities to make sleeping outdoors, including in encampments, illegal. It provides a taste of what a Trump era’s social policy toward the unhoused would look like. Over the past fifty years, the number of families without stable housing on any given night has skyrocketed. People living in harsh conditions of extreme poverty have been a feature of our national landscape ever since the beginning of European colonization, but rarely have so many been shown such little care.

    In the early European colonies, families in extreme poverty were a fact of life. The New World was fraught with dangers: disease, accident, or death left some families unable to care for themselves. The community assisted these families one by one. As the nation’s population grew, so did the number of families requiring assistance, and public officials began to construct almshouses where the poor — children and adults — could be collectively housed. It was considerably cheaper to care for people in bulk and easier to weed out the undeserving.

    For most of the nineteenth century, those families that needed help had to accept congregate housing or none at all. Today, the choice is the same: almshouses or nothing. And in today’s almshouses — called shelters — it is not unusual to find children thrown together with mentally ill adults, just like in an eighteenth-century almshouse. Children have no choice but to sleep and wake in congregate shelter amid families not their own, and some of those families will include individuals who are truly mentally disturbed, or just plain weird. These children are at higher risk than their stably housed peers for poor health, bad grades, domestic abuse, and low self-esteem.

    On any given night, over one hundred thousand children experience homelessness with their families in the United States, according to the Department of Housing and Urban Development (HUD). “Homeless” once meant single men sleeping rough, but now it is just as likely to mean families in dire economic circumstances, who can’t afford a place to spend the night. Public shelters are often full or unsafe, leaving mothers and children who are living in extreme poverty with no other choices than to sleep in their cars, or motel rooms, or mattresses on floors, packed into small spaces with too many friends or family.

    City officials in many places, desperate to cleanse their streets of people experiencing homelessness in plain sight, made it illegal to bring them food. A multitude of cities and towns have “vehicle dwelling bans,” on their books, which make it illegal to live in your car. These laws are usually enforced in municipalities with limited shelter space for those experiencing homelessness, leaving people to fend for themselves, even those with families. In many places, people in this fix often wind up in encampments of tents and jackleg dwellings, temporary solutions that provide a sort of place to stay. In 2022, Tennessee made camping on public land a felony crime. But the court’s ruling in favor of a municipality’s right to prohibit camping on public land will further criminalize homelessness.

    What does it mean to us as a nation that somewhere in our home states, in every state, children among us are experiencing homelessness? It meant little to the first Trump administration. Budget cuts to HUD were constant and deep, with no protest from the department’s secretary, Ben Carson, a neurosurgeon with no prior experience in the field of housing. Secretary Carson often said he believes those with the will and desire can lift themselves and their families out of extreme poverty by hard work and that government subsidies discouraged a can-do attitude.

    Under a second Trump administration, this would serve as a rationale for cuts to federal funding for assistance to the unhoused. In the eighteenth-century, towns and municipalities could banish someone from their precincts, and often did so with extremely poor families so that they would not become public charges. The criminalization of homelessness allows blame to be placed solely on the shoulders of the person experiencing it, absolving the rest of us from having to provide others with basic shelter, even when those others are children.

    Family homelessness has steadily worsened under both political parties for the past quarter-century as income inequality increased, making it ever easier to fall into extreme poverty, unable to earn enough to both feed families and make mortgage or rent payments. Blame is bipartisan. Bill Clinton’s welfare reform in 1996 helped swell the rolls of the extremely poor. The 2008 recession generated a record number of families experiencing homelessness, but even in the Clinton and George W. Bush years of prosperity that preceded it, and the Barack Obama years of recovery that followed, the numbers of homeless families kept rising across the country. It is safe to posit that in a second Trump mandate, many children would live in extreme poverty and experience homelessness. These children will be affected physically and mentally in ways that may hamper them for their entire lives.

    Children who experience homelessness are likely to have higher levels of the stress hormone cortisol, which in turn can have lasting effects on both mental and physical health. Normally, this hormone is helpful, allowing individuals to respond quickly in an emergency, or when threatened, but when cortisol levels are chronically elevated it can cause permanent changes in the brain, according to experts in pediatric neurology. Many children experiencing homelessness may frequently feel unsafe and threatened, and the resulting levels of cortisol puts them at risk of having their minds and bodies permanently affected. These kids will have higher chances of failing in school, or spending time incarcerated. They are more likely to be victims of domestic abuse when children and to inflict it when they are adults.

    The best strategy for reducing the number of homeless children in our communities is rapidly rehousing families that fall into homelessness. We need to work with these families and get them into stable housing, both for their good and for our own. Studies have shown that a majority of families experiencing homelessness who are provided rent subsidies are likely to continue being able to pay the rent when the subsidies have run out, and will not experience homelessness again, according to a HUD report.

    To institute a policy of rapid rehousing, however, a community must be willing to provide rent subsidies for, say, a year, and to have a stock of decent housing with accessible rental prices. A community commitment is needed to assure that our children do not have to live in cars or motel rooms. By converting homelessness into a crime, communities can turn their collective backs on these people without feeling qualms.

    At the beginning of the twentieth century, hundreds of thousands of children as young as eight years old were putting in twelve hours a day doing hard jobs for little pay in mills and factories. Children had to work so their families could afford food and shelter. To us, only a little more than a century later, it appears coarse and brutal that parents could have sent their eight-year-olds out to work, no matter how desperate their financial situations. It is likely to seem equally coarse and brutal to Americans in the twenty-second century that we allowed millions of children to grow up with nowhere to call home.

    Richard Schweid is a journalist from Nashville who has lived many years in Barcelona. He has published a dozen books, including Invisible Nation: Homeless Families in America. His latest book is The Caring Class, which is about women in the Bronx working as home health aides for the elderly .

    #United_States #Law #Inequality #Supreme_Court #homelessness #Public_Housing #Housing_Crisis

    #USA #pauvreté #capitalisme #sdf #nazis #colonialisme

  • „Hausnummer Null“ von Lilith Kugler: Filmemacherin blickt in die Schattenseiten Berlins
    https://www.berliner-zeitung.de/mensch-metropole/hausnummer-null-von-lilith-kugler-filmemacherin-blickt-in-die-schat

    10.9.2024 von Cedric Rehman - Die Regisseurin lebt seit 2020 in Friedenau. Ihr prämierter Dokumentarfilm „Hausnummer Null“ gibt dem Berliner Drogenelend ein Gesicht.

    Was wünscht sich ein auf der Straße lebender Drogenabhängiger vom Leben? Wie definiert sich Glück auf einer Matratze, Feuerzeug und die Folie zum Rauchen von Heroin griffbereit? Die 1991 geborene Filmemacherin Lilith Kugler hat sich zweieinhalb Jahre Zeit genommen, um Antworten zu finden.

    Kuglers Beitrag „Hausnummer Null“ war in diesem Jahr auf dem Max-Ophüls-Festival in der Sparte Dokumentarfilm nominiert. Er räumte auf dem Filmkunstfest Mecklenburg-Vorpommern einen Preis für die beste Bildgestaltung ab. Dabei hätte der auf 95 Minuten Kinolänge erzählte Film auch scheitern können. Geschichten von Drogenabhängigen in Berlin scheinen auserzählt. Die Stadt nimmt das Elend in ihrem Unterleib hin. Nur Sozialverbände stellen angesichts von Mittelkürzungen die Frage, was dort noch ankommen soll. Für Berliner gehört verstörende Verwahrlosung in vielen Bezirken zum Alltag. Sie verschwindet im Filter.

    Die Filmemacherin studiert in Babelsberg

    Kugler zog im Corona-Jahr 2020 wegen ihres Masterstudiums der Dokumentarfilmregie an der Filmakademie Babelsberg von Stuttgart nach Berlin. Die Filmemacherin hatte 2019 auf dem renommierten Snowdance-Filmfestival mit dem Beitrag „La Maladie du Démon“ den Preis für die beste Dokumentation bekommen. Sie folgte mit der Kamera Menschen, die über den Rand der Gesellschaft gefallen sind. Epileptiker und psychisch Kranke gelten in der traditionellen Gesellschaft Burkina Fasos als von Dämonen besessen. Sie werden aus Dörfern verjagt. Kuglers Beitrag schildert den Kampf eines Pfarrers und eines Krankenpflegers gegen die unmenschliche Behandlung.

    Vielleicht fehlt der Filmemacherin der Filter, der vermeintlich unabänderliche Zustände einfach hinnimmt. Kugler schloss an ihrem neuen Wohnort in Friedenau Freundschaft mit einem obdachlosen Heroinabhängigen. Er campierte an der S-Bahn-Haltestelle. Kugler schildert in einem Interview, wie herausfordernd die Dreharbeiten bei Minusgraden waren.
    Gedreht wurde auch bei Minusgraden

    Ihre Finger gefroren an der Kamera, während der Heroinsüchtige Chris sich sein Nachtlager bereitete. Nach dem Dreh konnte sie in ihre warme Wohnung zurück, während Chris in der Kälte übernachtete. Das sei hart gewesen, sagt Kugler.

    Die Regisseurin erzählt in „Hausnummer Null“ die Lebensgeschichte von Chris. Ihr Film kommentiert ohne Fingerzeig aber auch die Gleichgültigkeit gegenüber dem Elend. Sie ist eine bewusste Entscheidung, zu der es durchaus Alternativen gibt: Nachbarn bilden im bürgerlichen Friedenau ein Netzwerk, um den Obdachlosen zu versorgen. Sie handeln und zeigen: Menschlichkeit ist möglich.

    #Berlin #Friedenau #SDF #cinéma #documentaire

  • Honte à vous @NatachaBouchart d’avoir ordonné le dépôt de ces pierres sur un lieu de #distribution_alimentaire des associations pour les personnes exilées. Empêcher l’aide humanitaire est une méthode indigne et scandaleuse !

    https://x.com/Marius_Rx/status/1830615018683216066
    #mobilier_urbain #urban_matter #villes #architecture_défensive #SDF #sans-abri #architecture_du_mépris #architecture_hostile #migrations #asile #réfugiés #anti-migrants #France #pierres

    –—
    Ajouté à la métaliste sur le mobilier anti-urbain :
    https://seenthis.net/messages/732278

    et plus précisément ici :
    https://seenthis.net/messages/769636

  • A Como c’è uno scontro sulla solidarietà: «Basta dare colazioni ai senzatetto»

    Il sindaco attacca i sacerdoti che aiutano i più poveri. Dura replica delle opposizioni che hanno ricordato che il primo a dare cibo agli indigenti fu don Roberto Malgesini.

    Una polemica inaspettata, divampata a margine del Consiglio comunale di Como nel quale si discuteva del Regolamento di Polizia locale per dotare alcuni agenti del taser, la pistola a impulsi elettrici. La consigliera di minoranza Patrizia Lissi (Pd), nel dibattito, ha portato in aula una riflessione condivisa con don Giusto Della Valle, parroco della comunità pastorale di Rebbio-Camerlata, da sempre impegnato nell’accoglienza di migranti e persone in difficoltà: «per rendere le città più sicure sarebbe utile intervenire sulle cause dell’insicurezza», a partire da povertà e marginalità. Da qui la replica del sindaco #Alessandro_Rapinese, che ha indicato in don Giusto l’esempio di un’accoglienza indiscriminata, che non si interroga su chi abbia i titoli per stare in Italia. A Como, ha osservato, «gli arresti da metà aprile a oggi» interessano persone che «nemmeno dovrebbero stare qui». E, tornando a don Giusto, il sindaco si è chiesto perché «distribuire le colazioni ai senza dimora», creando assembramenti che poi mettono in difficoltà i residenti. Immediata la reazione delle minoranze: accoglienza e colazioni sono due percorsi separati e la parrocchia di Rebbio è un rifugio per chi non ha dove andare. Senza dimenticare che le colazioni sono un servizio nato con don Roberto Malgesini, ucciso 4 anni fa proprio mentre stava per portare cibo ai senza dimora e al quale l’amministrazione Rapinese ha assegnato, alla memoria, la massima onorificenza cittadina, l’Abbondino d’Oro.

    All’indomani delle polemiche i primi a voler spegnere ogni focolaio sono proprio coloro che, quotidianamente, stanno accanto alle marginalità di Como. Il gruppo delle colazioni, che ha raccolto il testimone dalle mani di don Malgesini, è composto da una quarantina di persone. I punti di distribuzione, in città, sono due: uno in piazza San Rocco, dove abitava don Roberto, l’altro a Porta Torre. In ogni ritrovo convergono una quarantina di persone: senza dimora, italiani e stranieri, ma anche chi una casa ce l’ha e fatica ad arrivare a fine mese (le colazioni e la mensa solidale di Casa Nazareth diventano l’unico modo per poter mangiare). Riusciamo a raggiungere telefonicamente don Giusto: è con un gruppo di giovani disoccupati. Li ha accompagnati nei boschi alla periferia di Como dove stanno tagliando legna per conto di una piccola realtà del territorio. «Ho solo letto qualche titolo», confida. Nel frattempo, è arrivata un’ordinanza urgente dal Comune che intima alla società proprietaria di un’area dismessa a ridosso del cimitero, dove una volta c’era un supermercato, di rendere inaccessibile l’area, visto che, nelle ultime ore, lì sono state sgomberate una dozzina di persone (9 stranieri, 3 italiani). «Como ha bisogno di strutture di bassa soglia – è la riflessione di Marta Pezzati, dell’associazione “Como Accoglie” –. Per cinque sere alla settimana usciamo e incontriamo i senza dimora che sono in città (si calcola almeno 350 – ndr), distribuiamo cibo, beni di prima necessità, ma soprattutto relazioni».

    C’è la consapevolezza che il problema non è di immediata risoluzione. «Ci sono persone psicologicamente fragili o con dipendenze importanti – riconosce Pezzati – ma ci sono anche tanti giovani con ottime risorse. Incontriamo ragazzi con buoni contratti di lavoro che non hanno una casa, perché a Como è ormai difficile per chiunque affittare un appartamento, ancora di più se sei straniero». Nel frattempo, gli sgomberati del supermercato si sono spostati in piazza San Rocco e un sacerdote spiega: «noi continueremo ad aiutare le persone bisognose, perché la carità è il nostro primo compito».

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/como-scontro-colazioni

    #Côme #Italie #migrations #réfugiés #frontière_sud-alpine #solidarité #criminalisation_de_la_solidarité #SDF #sans-abri #urban_matter #villes #espace_public #anti-pauvres #nourriture #distribution_de_nourriture

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    malheureusement, ce n’est pas nouveau, voir 2018 et 2017:
    https://seenthis.net/messages/748276

  • France is Busing Homeless Immigrants Out of Paris Before the Olympics - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2024/07/11/world/europe/france-is-busing-homeless-immigrants-out-of-paris-before-the-olympics.html

    The French government has put thousands of homeless immigrants on buses and sent them out of Paris ahead of the Olympics. The immigrants said they were promised housing elsewhere, only to end up living on unfamiliar streets far from home or flagged for deportation.

    (pas trouvé de v.f. pour l’instant)

  • #JO 2024 : des migrants et sans domicile fixe "parisiens" envoyés en Belgique ? RTBF - Françoise Walravens

    Depuis quelques mois, beaucoup d’associations françaises dénoncent des expulsions forcées, des éloignements… Certains parlent même de "nettoyage social". L’État Français réfute cet "objectif zéro SDF à la rue".

    Et pourtant, à Bruxelles, plusieurs personnes travaillant sur le terrain ont constaté que de migrants et sans domicile fixe "parisiens" ont débarqué chez nous !


    Chassés de Paris par qui ? Et Comment sont-ils arrivés jusqu’à Bruxelles ?
    Elise Tordeur est responsable de l’asbl Bulle, une wasserette solidaire et mobile qui lave le linge des plus démunis.

    Toutes les semaines, elle parcoure Bruxelles et va à la rencontre des "sans chez soi" : _ »Nous avons constaté depuis quelque temps effectivement une hausse des personnes, de sans-abri qui viennent de Paris d’origine française ou même d’origine étrangère. Les profils varient. Cela se passe surtout autour de la gare du midi qui est une vraie plaque tournante." ¨

    Sa collègue Marine Anthoons précise : "Ce sont des Français, des migrants sans papiers ou des mineurs non accompagnés. Ils arrivent par vague. Cela fait déjà depuis un petit temps, depuis décembre ou janvier."

    Est-ce sur base volontaire ? "Je ne pense pas non", avoue Elise.

    Nous demandons si elle pense qu’ils sont obligés de partir ? "On les invite en tout cas à partir par tous les moyens possibles et imaginables", souligne Elise.

    "Un jour, on peut voir 5 ou 10 nouvelles personnes venues de Paris et puis, ne plus les voir pendant 3, 4 semaines vu que c’est une logique de survie à la rue", explique Elise.


    Jean-Luc distribue des repas chauds aux personnes en situation de précarité. Ce sont ses amis restaurateurs qui les cuisinent gratuitement et spécialement pour eux.

    Presque tous les jours, cet artiste sillonne Bruxelles avec son vélo-cargo et ils en croisent de plus en plus.

    Il y a peu, il est venu en aide à un groupe de migrants qui arrivaient de Paris : "Ils étaient une quinzaine. Ils avaient même une page A4 qui leur disait qu’ils pouvaient aller dans telle boulangerie, tel endroit. Plusieurs adresses où ils seraient bien reçus."

    On ne demande pas l’avis des SDF, dans le système ce sont des gens qui ne comptent pas…", ajoute Jean-Luc.

    Il précise aussi : "J’ai rencontré plusieurs petits groupes mais ils disparaissent très vite des rues de Bruxelles. Il y en a qui partent à Mons, d’autres à Liège ou encore à Namur. Certains même retournent à Paris parce que dans leur tête, c’est chez eux."

    Suite et source : https://www.rtbf.be/article/jo-2024-des-migrants-et-sans-domicile-fixe-parisiens-envoyes-en-belgique-113802

    #jo #jeux_olympiques #France #Paris #expulsion des #sdf #sans-abris #anne_hidalgo #ségrégation #guerre_aux_pauvres

  • Paris 2024 : le maire d’Orléans dénonce l’arrivée « en catimini » de centaines de sans-abri dans sa ville en provenance de Paris avant les JO
    https://www.francetvinfo.fr/les-jeux-olympiques/paris-2024-le-maire-d-orleans-denonce-l-arrivee-en-catimini-de-centaine

    Les nouveaux arrivants passent quelques semaines à l’hôtel, ensuite les #SDF ou les #migrants "s’évaporent dans la nature" selon le maire, "et ça n’est pas convenable, on ne peut pas se débarrasser des problèmes sur nous en disant que ’c’est difficile à Paris, débrouillez-vous’". Il estime que cela représente un total de 500 personnes depuis 2023. Serge Grouard explique cependant ne pas avoir de "certitude" sur un lien avec les Jeux olympiques de Paris. 

    "Nettoyage social"

    Les associations d’aide aux personnes précaires partagent le constat du maire. Depuis un an, plusieurs centaines de personnes ont bien été évacuées de #camps de migrants ou de #squats à Paris et redirigées vers 13 "sas d’accueil", en région, à la demande de l’État. "Depuis l’arrivée des #JO, on envoie systématiquement les personnes hors de d’Île-de-France, confirme Paul Alauzy, de Médecins du Monde, c’est juste un déplacement des #sans-abris et ils se retrouvent dans des petites villes, où il y a beaucoup moins de moyens, à la rue alors qu’ils n’ont pas de réseau." Et sans réseau d’entraide, sans solutions de logement pérenne, une partie de ces personnes préfèrent même retourner à #Paris.

    #Nettoyage_social

    • Paris 2024 : après une nouvelle évacuation d’un camp de sans-abris, les associations dénoncent un « nettoyage social » de la capitale pour les Jeux
      https://www.francetvinfo.fr/les-jeux-olympiques/le-revers-de-la-medaille/reportage-paris-2024-apres-une-nouvelle-evacuation-d-un-camp-de-sans-ab

      Mardi, les policiers ont délogé les occupants d’une trentaine de tentes dans le Ve arrondissement, leur proposant un départ pour Besançon. Des opérations habituelles, assure la préfecture, qui dément tout lien avec l’imminence des JO.

      Clément Parrot, France Télévisions, le 23/04/2024
      https://www.francetvinfo.fr/pictures/mU0JcWmfs7r9VSHoF_gAVVMIwkA/0x378:4032x2646/2656x1494/filters:format(avif):quality(50)/2024/04/23/img-7308-66277ed80ba2d269203851.jpg

      Les occupants d’une trentaine de tentes sont évacués par les forces de l’ordre, mardi 23 avril, dans le Ve arrondissement de Paris. (CLEMENT PARROT / FRANCEINFO)

      « Bonjour, c’est la #police. Il faut sortir monsieur. » Il est à peine 6 heures du matin, mardi 23 avril, quand une douzaine de policiers s’approchent d’une trentaine de tentes igloo disposées le long d’un mur aux abords du campus de Jussieu, rue des Fossés-Saint-Bernard, dans le 5e arrondissement de Paris. Sous la structure métallique du bâtiment universitaire, de jeunes #migrants venus du Mali, du Burkina Faso ou encore de Côte d’Ivoire sortent doucement de leur sommeil et de leurs abris de fortune. A quelques mètres, dans la pénombre, un bus attend, la porte ouverte. Les services de la préfecture proposent une solution de relogement à Besançon (Doubs), mais peu de migrants semblent intéressés par une aventure dans l’Est de la France.

      "On a des recours [juridiques] ici, pourquoi vous voulez nous envoyer à Besançon ?", répond avec anxiété un homme en émergeant de sa toile de tente, avant d’emporter ses affaires dans un baluchon de fortune. "Vous allez nous abandonner, on veut un vrai endroit", lance un autre. "Il n’y a plus de places à Paris", martèle une fonctionnaire des services de la préfecture. Mais à trois mois des Jeux olympiques de Paris, les associations venues sur place pour apporter une aide aux personnes à la rue dénoncent une nouvelle opération fragilisant les plus précaires, une semaine après l’évacuation du plus grand squat de France à Vitry-sur-Seine (Val-de-Marne).
      "On le sent bien, actuellement, le ’nettoyage social’, à coups de deux évacuations par semaine", insiste Aurélia Huot, de Barreau de Paris solidarité, une structure qui encourage le bénévolat des avocats parisiens. "Avant, les mises à l’abri pour les mineurs, c’était toujours en Ile-de-France, et pour les familles, il y avait aussi régulièrement des solutions ici. Mais là, depuis presque deux ans, ils ne proposent presque plus de solutions en Ile-de-France", constate également Luc Viger, de l’association Utopia 56.
      (...)

  • Je suis au pays avec ma mère

    C’est dans le cadre d’une psychothérapie qu’Irene de Santa Ana a rencontré Cédric ; Cédric, jeune requérant, sort de plusieurs mois d’#errance, dormant dans des parcs après avoir essuyé un premier refus à sa demande d’asile. Le statut de « débouté » prive Cédric de bien des droits accordés aux êtres humains, et le plonge dans d’épaisses limbes administratives, mais également existentielles. Au pays, plus rien ne l’attend ; en Suisse, l’espoir de pouvoir rester est plus que ténu. De cette psychothérapie, Irene de Santa Ana va faire un article, et c’est de cet article qu’Isabelle Pralong s’est emparée pour Je suis au pays avec ma mère. Isabelle Pralong s’est intéressée plus particulièrement aux rêves de Cédric, qu’elle met ainsi en image. Le texte de l’article, complètement repensé et réécrit par Irene de Santa Ana, vient ici introduire, commenter voire compléter les pages dessinées. Eminemment métaphorique, porteuse de sens, cette matière onirique rend compte à sa façon de l’état psychologique dans lequel doit évoluer et (sur)vivre Cédric, la complexité de son ressenti, de ses sentiments. Livre singulier dans une bibliographie singulière, Je suis au pays avec ma mère s’immisce dans des territoires politiques et sociaux sans une once de misérabilisme, et tente d’aborder autrement une question de société toujours irrésolue.

    https://atrabile.org/catalogue/livres/je-suis-au-pays-avec-ma-mere

    #Suisse #asile #déboutés #traumatisme #identité #disparition #clandestinité #peur #insoumission #désobéissance #clandestinisation #SDF #sans-abris
    #BD #bande_dessinée #livre

  • 415 senza fissa dimora morti nel 2023: il 68% sono persone straniere
    https://www.meltingpot.org/2024/02/415-senza-fissa-dimora-morti-nel-2023-il-68-sono-persone-straniere

    Morire di freddo. Quando la temperatura va sotto lo zero e come riparo hai un portico di marmo gelato, un cartone ed una coperta raccattata qua e là.Morire di caldo. Quando il calore ti affanna a tal punto da toglierti il respiro e non hai altro sollievo che sdraiarti per terra.Morire da soli, nonostante si è circondati da persone che camminano, in mezzo alla folla ma stretto dalla più feroce e stringente solitudine.Morire, senza pietà. Morire quando si poteva evitare di morire. Sono 415 le persone senza fissa dimora morte nel 2023, secondo il report annuale di fio.PSD , la

  • À #Trieste, les migrants oubliés de la route des Balkans

    C’est une frontière que les migrants qui empruntent la #route_des_Balkans occidentaux attendent souvent comme un soulagement, celle entre l’#Italie et la #Slovénie, dans l’extrême nord-est du pays. Pourtant, la situation qui les attend n’est souvent pas à la hauteur de leurs espérances. Trieste est la grande ville la plus proche de la frontière italo-slovène. De janvier à octobre 2023, plus de 12 000 migrants y sont passés. Qu’ils soient de passage pour quelques jours ou qu’ils demandent l’asile en Italie, des centaines de migrants se retrouvent à la rue en plein hiver. Les associations qui leur viennent en aide demandent à l’État d’intervenir.

    https://www.rfi.fr/fr/podcasts/grand-reportage/20240213-%C3%A0-trieste-les-migrants-oubli%C3%A9s-de-la-route-des-balkans
    #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #SDF #sans-abrisme

  • Paris 2024 : la Défenseure des droits s’"autosaisit" de la situation des étudiants et des sans-abri déplacés
    https://www.francetvinfo.fr/les-jeux-olympiques/paris-2024/paris-2024-la-defenseure-des-droits-s-autosaisit-de-la-situation-des-et

    Des situations qui présentent « un risque pour le respect des droits et des libertés ». En prévision des Jeux olympiques de Paris 2024, la Défenseure des droits Claire Hédon a annoncé s’être « autosaisie » de la question des logements étudiants réquisitionnés et de l’évacuation des sans-abri, lundi 29 janvier.

    « La façon dont les personnes sans domicile fixe sont renvoyées en dehors de Paris dans des centres d’hébergement, la façon dont des habitats sont détruits » alors qu’"il y a une obligation de relogement", tout cela pose la question de « l’invisibilisation des indésirables », a estimé Claire Hédon. Les autorités sont accusées depuis plusieurs mois par des associations de mener un « nettoyage social » de la région parisienne, pour faire place nette avant les Jeux olympiques et paralympiques, en vidant les rues franciliennes de ses populations les plus précaires : migrants en campements, foyers de travailleurs, sans-abri, travailleuses du sexe, personnes vivant en bidonville...

    Des accusations rejetées par la préfecture de la région d’Ile-de-France (Prif), qui a assuré en décembre que l’Etat ne s’était pas fixé d’"objectif zéro SDF" à la rue en prévision des JO. Elle a indiqué à l’inverse vouloir débloquer des « places supplémentaires » d’hébergement d’urgence pour laisser un « héritage social ».

    #JO #nettoyage_social

  • À la frontière italo-slovène, les migrants oubliés de la route balkanique

    L’extrême nord-est de l’Italie est la porte d’entrée dans le pays des migrants qui ont traversé l’Europe par la route des Balkans. Des centaines d’entre eux se retrouvent à survivre dans la rue. Les associations dénoncent un abandon de l’État.

    La Piazza della Libertà s’illumine des halos jaunes des réverbères. À mesure que les heures s’égrènent dans la nuit, de petits groupes d’hommes s’installent près des bancs verts. Ils sont presque tous afghans ou pakistanais, emmitouflés avec les moyens du bord, contraints de vivre à la rue depuis quelques jours pour les plus chanceux, quelques mois pour les autres. Juste en face, c’est la gare et ses promesses de poursuivre la route à bord d’un wagon chaud plutôt qu’à pied.

    S’y croisent ceux qui sont montés à bord à Ljubljana ou à Zagreb, les capitales slovène et croate, direction Trieste, et ceux qui poursuivent leur voyage vers l’Europe du Nord, avec Milan ou Venise comme étapes suivantes.

    Ce soir-là, une quinzaine d’Afghans arrivent tout juste de la frontière slovène, à moins de dix kilomètres du centre-ville de Trieste. Ils sont venus à pied. L’un d’eux, visiblement heureux d’être arrivé, demande à son ami de le prendre en photo, pouces vers le haut, dans l’air gelé des températures à peine positives. Demain ou après-demain, promet-il, il continuera sa route. En attendant, les autres lui indiquent le Silos, un ensemble de grands entrepôts de l’époque austro-hongroise s’étendant derrière la gare et devenus le refuge insalubre et précaire d’environ quatre cents migrants.

    Aziz Akhman est l’un d’eux. Ce Pakistanais de 32 ans a fui les attentats aux voitures piégées, l’insécurité et les rackets qui gangrènent sa région d’origine, à la frontière avec l’Afghanistan. Quand son magasin a été incendié, il est parti. « J’ai mis quatre mois à arriver en Italie, explique-t-il. J’ai déposé une demande d’asile. » Chaque nuit, seule une fine toile de tente le sépare de la nuit glacée qui enveloppe le Silos. Les heures de sommeil sont rares, grignotées par le froid de l’hiver.

    « La vie ici est un désastre », commente Hanif, un Afghan de 25 ans qui passe, lui aussi, ses nuits au Silos. Son rêve, c’est Montbéliard (Doubs), en France. « Tous mes amis et certains membres de ma famille vivent là-bas. J’y ai passé six mois avant d’être renvoyé en Croatie », raconte le jeune homme, qui avait donné ses empreintes dans le pays et y a donc été expulsé en vertu des accords de Dublin. À peine renvoyé en Croatie, vingt jours plus tôt, il a refait le chemin en sens inverse pour revenir en France. Trieste est juste une étape.

    « Ici convergent aussi bien ceux qui sont en transit que ceux qui restent », explique Gian Andrea Franchi. Ce retraité a créé l’association Linea d’Ombra avec sa femme Lorena Fornasir à l’hiver 2019. « On s’est rendu compte que de nombreuses personnes gravitaient autour de la gare et qu’une bonne partie dormait dans les ruines du vieux port autrichien, se remémore-t-il en pointant la direction du Silos. Ils ne recevaient aucune aide et vivaient dans des conditions très difficiles. » Depuis, l’association distribue des vêtements, des couvertures, des tentes, offre des repas et prodigue des soins médicaux.

    Sur l’un des bancs, Lorena Fornasir a déployé une couverture de survie dont les reflets dorés scintillent dans la pénombre. « Quand ces hommes arrivent, ils ont souvent les pieds dans un tel état qu’on dirait qu’ils reviennent des tranchées », explique cette psychothérapeute à la retraite qui panse, soigne, écoute chaque soir ceux qui en ont besoin.

    « Ceux qui dorment au Silos sont tous tombés malades à cause des conditions dans lesquelles ils vivent, c’est une horreur là-bas : ils ont attrapé des bronchites, des pneumonies, des problèmes intestinaux, et beaucoup ont d’énormes abcès dus aux piqûres d’insectes et aux morsures de rats qui s’infectent », poursuit Lorena Fornasir, avant d’aller chercher dans sa voiture quelques poulets rôtis pour les derniers arrivés de la frontière slovène, affamés et engourdis par le froid. Les soirs d’été, lorsque le temps permet de traverser les bois plus facilement, ce sont parfois près de cinq cents personnes qui se retrouvent sur celle que le couple de retraités a rebaptisée « La Place du Monde ».
    Une crise de l’accueil

    Dans les bureaux de l’ICS, Consortium italien de solidarité, Gianfranco Schiavone a ces chiffres parfaitement en tête et ne décolère pas. Derrière l’écran de son ordinateur, il remonte le fil de ses courriels. Devant lui s’ouvre une longue liste de noms. « On a environ 420 demandeurs d’asile qui attendent une place d’hébergement ! », commente le président de l’ICS, fin connaisseur des questions migratoires dans la région. « Depuis un an et demi, ces personnes sont abandonnées à la rue et ce n’est pas à cause de leur nombre, particulièrement élevé… Au contraire, les arrivées sont modestes », explique-t-il en pointant les chiffres publiés dans le rapport « Vies abandonnées ».

    En moyenne, environ quarante-cinq migrants arrivent chaque jour à Trieste. Le chiffre est plutôt stable et pourrait décroître dans les semaines à venir. La neige a souvent ralenti les départs en amont, le long des passages boisés et plus sauvages de la route balkanique.

    Selon les estimations de l’ICS, entre 65 et 75 % des migrants qui arrivent à Trieste repartent. Le quart restant dépose une demande d’asile. Selon les règles en vigueur en Italie, les demandeurs d’asile sont hébergés dans des centres de premier accueil, le temps que les commissions territoriales examinent leur demande. L’ICS gère deux de ces centres, installés à quelques centaines de mètres de la frontière slovène. Les migrants devraient y rester quelques jours puis être redispatchés dans d’autres régions au sein de centres de plus long accueil.

    Faute de redistribution rapide, les centres d’accueil temporaire sont pleins et les nouveaux arrivants se retrouvent à la rue, dépendant uniquement du système d’hébergement d’urgence, déjà sursollicité par les SDF de la ville. À Trieste même, les près de 1 200 places d’hébergement à long terme disponibles pour les demandeurs d’asile sont toutes occupées.

    « On ne se retrouve pas avec quatre cents personnes arrivées en une journée qui ont mis en difficulté le système d’accueil, regrette Gianfranco Schiavone, mais avec de petits groupes volontairement laissés à la rue dont l’accumulation, jour après jour, a fini par donner ce résultat. » Il livre l’analyse suivante : « Ces conditions de vie poussent ces personnes vers la sortie. Le premier objectif est de réduire au maximum le nombre de demandeurs d’asile que l’État doit prendre en charge. Le deuxième, plus politique, est de créer une situation de tension dans l’opinion publique, de donner l’image de centaines de migrants à la rue et d’entretenir l’idée que les migrants sont vraiment trop nombreux et que l’Italie a été abandonnée par l’Europe. »

    Interrogée, la préfecture n’a pas souhaité répondre à nos sollicitations, renvoyant vers le ministère de l’intérieur. Le cabinet du maire, lui, renvoie aux prises de position déjà exprimées dans la presse locale. La position de l’édile de la ville est sans appel : il ne fera rien.
    L’accord Albanie-Italie suspendu

    Récemment, un important dispositif policier a été déployé dans la région. Le 18 octobre, après l’attentat contre des supporteurs suédois à Bruxelles, le gouvernement de Giorgia Meloni a décidé de fermer sa frontière avec la Slovénie. Le traité de Schengen a été provisoirement suspendu pour prévenir d’éventuelles « infiltrations terroristes » via la route balkanique.

    « C’est nécessaire, en raison de l’aggravation de la situation au Moyen-Orient, l’augmentation des flux migratoires le long de la route balkanique et surtout pour des questions de sécurité nationale », a justifié la cheffe du gouvernement. 350 agents ont été déployés dans le Frioul-Vénétie Julienne, le long des 230 kilomètres de la frontière italo-slovène. Initialement prévus pour dix jours, les contrôles aux frontières ont déjà été prolongés deux fois et sont actuellement en vigueur jusqu’au 18 janvier 2024.

    Avec ce tour de vis sur sa frontière orientale, l’Italie tente de maintenir une promesse qu’elle ne parvient pas à tenir sur son front méditerranéen : verrouiller le pays. Car après l’échec de sa stratégie migratoire à Lampedusa en septembre, Giorgia Meloni a redistribué ses cartes vers les Balkans. À la mi-novembre, la cheffe du gouvernement s’est rendue en visite officielle à Zagreb pour discuter, notamment, du dossier migratoire. Mais son dernier coup de poker, c’est l’annonce d’un accord avec l’Albanie pour y délocaliser deux centres d’accueil pour demandeurs d’asile.

    L’idée est d’y emmener jusqu’à 3 000 personnes, immédiatement après leur sauvetage en mer par des navires italiens. Sur place, la police albanaise n’interviendra que pour la sécurité à l’extérieur du centre. Le reste de la gestion reste entièrement de compétence italienne. La mise en service de ces deux structures a été annoncée au printemps. Le dossier semblait clos. À la mi-décembre, la Cour constitutionnelle albanaise a finalement décidé de suspendre la ratification de l’accord. Deux recours ont été déposés au Parlement pour s’assurer que cet accord ne viole pas les conventions internationales dont est signataire l’Albanie. Les discussions devraient reprendre à la mi-janvier.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/080124/la-frontiere-italo-slovene-les-migrants-oublies-de-la-route-balkanique
    #Slovénie #Italie #frontières #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #route_des_Balkans #Balkans #Trieste #sans-abrisme #SDF #hébergement #réfugiés_pakistanais #réfugiés_afghans #Silos #Linea_d’Ombra #solidarité #ICS

  • Le #Logement_d'abord saisi par ses destinataires

    « Le Logement d’abord saisi par ses destinataires » est une recherche en sciences sociales engagée en 2019 par l’équipe de la Chaire PUBLICS des politiques sociales (laboratoire de sciences sociales Pacte, Université Grenoble Alpes) : https://cpublics.hypotheses.org. Elle a suivi, par des entretiens répétés, des personnes accompagnées dans le cadre de dispositifs et actions développées dans le cadre de la mise en œuvre accélérée du Logement d’abord sur les métropoles de Grenoble et Lyon. De manière originale, elle éclaire les expériences et donne à entendre les points de vue des destinataires de cette nouvelle orientation de l’action publique à destination des personnes sans domicile.

    Pour télécharger le rapport :
    https://cpublics.hypotheses.org/files/2023/05/Rapport_LDAdestinataires_VF.pdf

    https://ldadestinataires.sciencesconf.org
    #logement #rapport #recherche #Grenoble #Lyon #housing_first #accès_au_logement #sans-abris #sans-abrisme #logement_à_soi #habitat #bailleurs #meubles #accompagnement #appropriation #tranquillité #solitude #SDF #habitat_précaire #système_d'habitat_précaire #débrouille #abris_de_fortune

  • Les #expulsions ont des conséquences délétères sur la vie des #enfants

    L’Observatoire des expulsions des lieux de vie informels dénonce, dans son rapport annuel, des opérations qui compromettent la #scolarité des enfants et le #suivi_médical des #femmes_enceintes, à cause de l’#errance forcée qu’elles provoquent.

    Des femmes enceintes qui ne peuvent pas bénéficier d’un suivi médical continu, des enfants brutalement retirés de l’école, des mineur·es isolé·es démuni·es et traumatisé·es : les conséquences des expulsions des personnes occupant des lieux de vie informels sont multiples et délétères.

    C’est la conclusion du cinquième rapport annuel de l’Observatoire des expulsions de lieux de vie informels (#squats, #bidonvilles et #campements, #caravanes, #voitures ou camions) publié mardi 28 novembre. Il regroupe huit associations indépendantes, parmi lesquelles le Collectif national droits de l’homme Romeurope, la Fondation Abbé Pierre ou encore Médecins du monde.

    Elles ont recensé, entre le 1er novembre 2022 et le 31 octobre 2023, date du début de la trêve hivernale, 1 111 expulsions sur le territoire national, dont 729 pour le littoral nord (Calais, Pas-de-Calais, Dunkerque dans le Nord).

    Si les expulsions sur le littoral nord ont diminué de 58 %, elles ont augmenté de 24 % en un an sur le reste du territoire, outremer inclus, et concerné en moyenne 74 personnes chaque jour.

    85 % de ces expulsions sont dites « sèches », car elles n’ont donné lieu à aucune solution d’hébergement ou de relogement. 14 % ont donné lieu à des mises à l’abri pour au moins une partie des habitant·es. 1 % seulement ont donné lieu à un dispositif d’insertion, un hébergement stable ou un logement, pour au moins une partie des habitant·es, détaille l’Observatoire.

    L’organisme explique qu’il est difficile d’avoir des données précises sur les enfants mais compte cette année 5 531 enfants expulsés (contre 3 212 l’année précédente). Ce chiffre est très largement sous-estimé, a-t-il précisé lors de la conférence de presse de présentation du rapport.
    Le suivi compromis des grossesses

    Cette année, l’Observatoire s’est focalisé sur les conséquences concrètes des expulsions sur la vie des enfants et de leurs mères. Il rappelle que « la précarité, et en particulier l’absence de logement, est depuis longtemps identifiée par la littérature scientifique comme un facteur de risque lors de la grossesse ».

    Les chiffres sont éloquents. Une femme enceinte devrait avoir accès à sept consultations prénatales et à trois échographies au moins, rappelle Médecins du monde.

    Or, plus d’une femme enceinte sur trois rencontrées par les équipes des programmes fixes de Médecins du monde en France en 2022 présente un retard de suivi de grossesse, comme la quasi-totalité des femmes enceintes rencontrées par le programme de médiation en santé du Comité pour la santé des exilés (Comede) en Île-de-France. Un écart majeur avec la population générale, parmi laquelle moins de 5 % des personnes enceintes sont dans ce cas.

    Les associations soulignent que les suivis médicaux et de grossesse sont déjà erratiques d’ordinaire. Notamment parce que l’ouverture de droits à une couverture maladie exige une domiciliation administrative. Les démarches, surtout avec la barrière de la langue, peuvent être délicates. Certaines personnes peuvent aussi perdre des papiers dans la cohue des expulsions impromptues.

    Ces dernières insécurisent aussi les futures mères, qui cherchent « en premier lieu à répondre à des besoins de stricte survie », quitte à sacrifier leur santé.

    « Il y a des personnes qu’on va perdre de vue à la suite des expulsions. Elles vont se réinstaller beaucoup plus loin, dans une autre commune, à l’autre bout d’une métropole, a détaillé Antoine Bazin, coordinateur Médecins du monde à Toulouse, devant la presse. Et les suivis par les PMI [centres de Protection maternelle et infantile – ndlr] de secteur, par exemple, pour les femmes enceintes, les suivis par des médecins traitants si on peut en avoir, ou par des centres de santé, vont être rendus plus compliqués parce que les personnes vont être isolées. »

    Les expulsions compliquent aussi le suivi de pathologies. Dans son rapport, l’Observatoire rapporte comment une opération de dépistage de la tuberculose dans un bidonville du Val-d’Oise, au printemps 2023, après la découverte d’un cas sur le lieu de vie et quatre hospitalisations d’enfants, a été compromise par des expulsions successives.

    Même chose pour les campagnes de vaccination ou le repérage des cas de saturnisme, dus à une exposition au plomb pouvant affecter le développement psychomoteur des enfants.

    Par ailleurs, la vie quotidienne d’un enfant vivant dans un lieu de vie informel est aussi bouleversée par l’instabilité provoquée par les expulsions. La scolarité de ces enfants mais aussi leur équilibre mental et psychique sont ébranlés. En 2022, l’Unicef avait déjà alerté sur l’état de santé mentale dégradé des enfants sans domicile.

    Les expulsions sont de plus en plus violentes (voir l’opération « Wuambushu » à Mayotte), dénonce l’Observatoire. Antoine Bazin, de Médecins du monde, explique que les enfants sont les « acteurs passifs » de ces événements et vont vivre la violence intrinsèque au déroulement des opérations d’expulsions. En « vraies éponges », ils vont en conserver des souvenirs qui peuvent avoir des conséquences sur leur construction psychique.

    Julie Bremont, représentante du Comité de pilotage interassociatif MNA Nord-Littoral, confirme : « Les expulsions sont en elles-mêmes un moment très générateur d’anxiété et de peur pour les jeunes. Déjà, de par la violence du dispositif, avec des dizaines de camions de CRS et des policiers en uniforme. Ces opérations d’expulsion sont très souvent accompagnées de violences verbales et physiques. »
    Décrochages scolaires

    De son côté, Célia Mougel, coordinatrice de l’Observatoire des expulsions, souligne que 77 % des expulsions recensées (en dehors du Nord littoral) ont eu lieu pendant l’année scolaire, ce qui, évidemment, produit des décrochages, des déscolarisations, notamment quand on sait que pour réinscrire un enfant, il faut au moins six mois. Si les municipalités coopèrent, ce qui n’est pas toujours le cas.

    Contraindre ces familles à quitter leur lieu de vie et leur point d’ancrage entraîne des effets à long terme sur les enfants. Ils rencontrent alors des difficultés dans la continuité pédagogique, un sentiment d’exclusion ou encore des problèmes d’apprentissage.

    Le cas d’un collégien, Alex, raconté dans le rapport, le prouve. Le garçon aura vécu trois expulsions qui lui auront fait perdre une année scolaire entière. Aujourd’hui, à 12 ans, Alex et sa famille dorment sous un pont en Seine-Saint-Denis et il n’est plus scolarisé.

    Pour toutes ces raisons, l’Observatoire enjoint aux pouvoirs publics de suspendre les expulsions pendant l’année scolaire, pour éviter l’exclusion scolaire et le décrochage des enfants en cours d’année. Manuel Domergue, de la Fondation Abbé Pierre, considère qu’il faudrait aussi déployer davantage de médiateurs scolaires dans ces lieux de vie informels.

    Le reste du temps, les associations estiment qu’aucune expulsion ne devrait avoir lieu sans qu’un diagnostic social préliminaire (l’instruction du 25 janvier 2018 qui le recommandait n’est pas respectée), un accompagnement social global et des solutions de relogement dignes, adaptées et pérennes n’aient été mis en place. Cela pour permettre « une sortie des bidonvilles par le haut ».

    https://www.mediapart.fr/journal/france/281123/les-expulsions-ont-des-consequences-deleteres-sur-la-vie-des-enfants
    #enfance #mineurs #statistiques #chiffres #2022 #expulsions_sèches #santé_mentale #SDF #sans-abrisme #sans-abris #déscolarisation

  • Dans le #Pas-de-Calais, des « refus quasi systématiques » de #mise_à_l'abri des #mineurs isolés

    Depuis cet été, les associations au contact des mineurs non-accompagnés dans le Pas-de-Calais s’inquiètent de la multiplication des refus de mise à l’abri, faute de places disponibles. Les associations craignent de perdre la confiance des jeunes, et de les voir entrer dans des réseaux d’exploitation.

    Sous un pont du centre-ville de #Calais, D., un jeune Syrien de 13 ans, a dormi plusieurs nuits d’affilée avec son grand frère, F., âgé de 16 ans. « Nous les avons rencontrés, avec Utopia 56, et avons essuyé plusieurs refus de mise à l’abri de la part du département », raconte Jérémy Ribeiro, juriste auprès des mineurs non-accompagnés pour l’association ECPAT à Calais.

    « Après énormément d’insistance, les équipes mobiles du département sont arrivées, mais pour mettre à l’abri uniquement le plus jeune. Celui-ci ne voulait pas se séparer de son grand frère... », raconte le responsable associatif. Après plusieurs jours sans abri, les deux frères ont fini par traverser la Manche pour aller au Royaume-Uni.

    L’#errance des mineurs isolés dans le Pas-de-Calais s’aggrave de semaine en semaine, alertent aujourd’hui Médecins du Monde, Utopia56, Ecpat, le Secours Catholique et la Cimade. Dans une lettre commune diffusée jeudi 26 octobre, leurs équipes « constatent avec inquiétude depuis le mois de juillet 2023 une hausse importante des refus de prise en charge dans le dispositif d’accueil provisoire d’urgence ». En cause : le manque de places.

    Des #refus « quasi systématiques »

    Ces refus sont même devenus « quasi-systématiques » depuis le mois de septembre 2023, écrivent les associations. Le centre de Saint-Omer, géré par l’opérateur France Terre d’Asile sous la houlette du département, est le seul centre d’accueil provisoire d’urgence pour les mineurs non-accompagnés existant dans le département. Avec « trois ou quatre appartements également situés à Saint-Omer, nous comptons 70 places d’hébergement », détaille Serge Durand, directeur MIE pour France Terre d’Asile.

    S’ajoutent à cela quelques places d’#hébergement_d'urgence dans la commune de Liévin, également gérées par le département (mais pas par France Terre d’Asile). Sur tout le département, le nombre de places total pour les mineurs s’élève à 80. Mais tout le dispositif est aujourd’hui saturé.

    Entre le mois de septembre et le 20 octobre, la seule association ECPAT dénombre pas moins de 100 refus opposés à des enfants en demande de mise à l’abri. Sans compter ceux comptabilisés par les autres associations de terrain. En outre, un décompte associatif « n’est pas représentatif de l’ampleur du phénomène : nombre de refus sont actés sans que nous en ayons connaissance », précise encore le communiqué.
    « On perd le contact avec beaucoup d’entre eux »

    Un jeune rencontré récemment par Ecpat a essuyé durant huit jours d’affilée des refus de mise à l’abri. De quoi casser le lien établi avec les associations qui mènent un travail de dentelle pour orienter les jeunes vers une prise en charge et désamorcer leurs appréhensions. « Cela créé de la défiance. Les jeunes ne veulent plus nous parler, on perd le contact avec beaucoup d’entre eux », regrette Julie Brémond, chargée de coordination Protection de l’Enfance du Littoral pour plusieurs associations (ECPAT, Utopia, La Croix rouge, Safe Passage et la Plateforme de soutien aux migrants).

    Ecpat a par exemple perdu tout contact avec le jeune en question. Pour tous ces mineurs, « cela ne fait que renforcer l’idée que la France n’est pas une terre de protection », déplore la coordinatrice.

    En outre, « en étant dans un besoin matériel extrêmement fort, ils peuvent se retrouver dans un système d’exploitation sexuelle ou essayer de trouver de l’argent par d’autres moyens pour payer leur voyage [vers l’Angleterre] plus vite ou se reposer dans une chambre d’hôtel », explique-t-elle.

    « Chaque fois que les autorités refusent de mettre un enfant à l’abri, elles l’obligent à adopter des stratégies de survie qui le mettront en danger, augmentant les risques de violence, d’exploitation, de disparition », synthétise le communiqué inter-associatif.
    « Embouteillage à tous les niveaux »

    Dès qu’une association fait face à un refus, une « information préoccupante » ou un message d’alerte est transmis au département. Les associatifs y indiquent toujours « le nombre d’enfants en demande, l’endroit où ils ont été repérés, la raison donnée pour le refus de prise en charge », explique Julie Brémond.

    Sollicités à ce sujet, les services du conseil départemental du Pas-de-Calais réitèrent leur « position de principe » s’agissant des sujets touchant à la protection de l’enfance : pas de communication. Le département assure continuer de mener son travail avec « conviction et détermination » sur ces dossiers mais ne souhaite pas répondre par voie de presse aux alertes inter-associatives.

    Reste que des réunions sont organisées régulièrement entre les associations, le département et les services de l’État autour de ces enjeux. À cette occasion, les services du département ont fait part aux associations de leurs différentes problématiques. « Il y a une forme d’embouteillage à tous les niveaux », résume Jérémy Ribeiro.

    D’abord, le département fait face à « une hausse des arrivées dans la ville d’Arras de mineurs venus d’Afrique de l’Ouest pour se stabiliser sur le territoire français ». Ensuite, des lenteurs sont rencontrées par les jeunes majeurs qui doivent sortir des structures de l’Aide sociale à l’enfance (ASE) pour aller vers du logement classique ou des bailleurs sociaux.

    Par conséquent, « des jeunes arrivent dans l’accueil provisoire de Saint-Omer, y sont reconnus mineurs, mais il n’y a plus de place pour eux dans les structures de l’ASE », en particulier dans les maisons d’enfant à caractère social (MECS), censées les prendre en charge.
    Des arrivées de mineurs plus importantes depuis cet été

    Or, avec les mauvaises conditions météorologiques à l’approche de l’hiver, les demandes de mise à l’abri se multiplient. Autre facteur jouant sur la multiplication des demandes : « Les associations qui distribuent des tentes et vêtements n’ont plus les capacités de faire face. Le nombre de tentes est très limité », décrit Julie Brémond.

    « Il n’y a pas non plus assez d’accès à la nourriture. Tout le monde ne mange pas tous les jours, ou bien seulement une fois par jour. La situation est très compliquée, peut-être même plus tendue que d’autres années », s’alarme la coordinatrice.

    À ces conditions de survie difficiles s’ajoutent une hausse des arrivées de mineurs, constatée depuis le mois d’août. « On accompagne toujours énormément de mineurs soudanais, c’est une constante depuis que l’on est à Calais. Mais désormais, certains profils croisés par le passé commencent à revenir, notamment des mineurs afghans et syriens, dont certains sont très jeunes », décrit Jérémy Ribeiro.

    « Nous faisons face à des arrivées plus importantes depuis fin juillet, dans le Pas-de-Calais comme dans la région parisienne où nous intervenons », confirme Serge Durand de France Terre d’Asile. « C’est à nous de nous adapter à cette réalité alors que c’est le département qui a la main sur la création de places ».
    Des déménagements à venir pour les accueils d’urgence

    Au mois de septembre, lors d’une réunion avec les autorités, celles-ci « nous ont dit que ce problème de saturation allait se régler avec des places supplémentaires en MECS et deux nouvelles structures d’accueil provisoire d’urgence », indique Jérémy Ribeiro.

    Mais, selon nos informations, ces nouvelles structures ne seront pas synonymes de création de places supplémentaires. La première sera ouverte non loin de Saint-Omer, pour déménager le centre actuel vers un nouveau local. La seconde structure, elle, devrait ouvrir à Arras. À une centaine de kilomètres de Calais, loin du littoral où les jeunes exilés espèrent tenter le passage. Là encore, il s’agirait de déménagement, pour répartir les 80 places existantes et non pour en ouvrir de nouvelles. Les associations restent en attente de précisions sur les modalités et le calendrier de ces changements à venir.

    « On sait que le département travaille et l’on espère vraiment l’ouverture de places supplémentaires », conclut Julie Brémond. « Mais nous ne sommes pas sûrs que les annonces permettront de répondre aux besoins d’urgence, alors que nous alertons depuis longtemps sur les risques de saturation. »

    https://www.infomigrants.net/fr/post/52869/dans-le-pasdecalais-des-refus-quasi-systematiques-de-mise-a-labri-des-
    #migrerrance #migrations #asile #réfugiés #MNA #mineurs_non_accompagnés #France #hébergement #logement #SDF #sans-abris #sans-abrisme

    ping @karine4 @isskein

  • I confini non sono il luogo in cui accadono le violenze, sono il motivo per cui accadono le violenze
    https://www.meltingpot.org/2023/10/i-confini-non-sono-il-luogo-in-cui-accadono-le-violenze-sono-il-motivo-p

    Stazione di Sospel, Francia, ore 7.40. Nel paese della Val Roya passa il treno che collega Breil sur Roya a Nizza, all’interno poca gente. Appena il treno giunge alla stazione spuntano sette soldati e una dozzina di gendarmes. I militari circondano il treno, mitragliatrici in mano, mentre i poliziotti, a due a due, entrano nel treno, scrutano i passeggeri per rilevare soggettività razzializzate. Si fermano quando vedono due ragazzini, gli chiedono i documenti. I ragazzi glieli mostrano, vanno bene, i poliziotti scendono e il treno riparte. Stazione di Menton Garavan, Francia, ore 15.00. La situazione è identica, il treno (...)

  • En 2022, 624 SDF sont morts en France, un « drame sociétal scandaleux »
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/10/27/en-2022-624-sdf-sont-morts-un-drame-societal-scandaleux_6196795_3224.html

    Le nombre de sans domicile fixe en France a doublé en dix ans, avec plus de 330 000 personnes selon le dernier décompte de la Fondation Abbé Pierre en 2022. Les femmes, familles et mineurs sont de plus en plus nombreux à la rue.

    31/12/2017 les vœux du président au petit jésus

    « Je veux que nous puissions apporter un toit à toutes celles et ceux qui sont aujourd’hui sans-abri. Le gouvernement s’est beaucoup engagé dans cette direction ces derniers mois et a beaucoup amélioré les choses, mais il y a encore des situations qui ne sont pas acceptables, a déclaré Emmanuel #Macron à la télévision. Nous continuerons l’effort indispensable pour réussir (...) »

  • #Tiohtiá:ke [#Montréal]

    Elie Mestenapeo, un jeune Innu de la Côte-Nord, au #Québec, a tué son père alcoolique et violent dans une crise de rage.
    Il a fait 10 ans de prison.
    À sa sortie, rejeté par les siens, il prend la direction de Montréal où il rejoint rapidement une nouvelle communauté : celle des Autochtones #SDF, invisibles parmi les invisibles.
    Il y rencontre les jumelles innuk Mary et Tracy, Jimmy le Nakota qui distribue des repas chauds au square Cabot, au cœur de la ville, mais aussi Mafia Doc, un vieil itinérant plus ou moins médecin qui refuse de quitter sa tente alors que Montréal plonge dans le froid polaire…

    Dans ce roman plein d’humanité, Michel Jean nous raconte le #quotidien de ces êtres fracassés, fait d’#alcool et de #rixes, mais aussi de #solidarité, de #poésie et d’#espoir.

    https://www.seuil.com/ouvrage/tiohtia-ke-montreal-michel-jean/9782021538878
    #livre #peuples_autochtones #canada #invisibilité

  • Face à l’augmentation du nombre de sans-abri, nos villes ne peuvent plus pallier les insuffisances de l’Etat

    Dans une tribune à « Libération », les maires de #Paris, #Strasbourg, #Rennes, #Lyon, #Bordeaux et #Grenoble annoncent qu’ils attaquent l’Etat en justice pour le sous-dimensionnement de son action en faveur des personnes qui dorment dans la rue.

    Dès demain, 10 octobre, Journée internationale de la lutte contre le sans-abrisme, Strasbourg, Rennes, Bordeaux, Paris, Grenoble et Lyon, seront les premières villes à déposer des recours pour que l’Etat assume enfin ses obligations en matière de prise en charge des personnes contraintes de dormir à la rue.

    Le droit à un toit est inconditionnel et légalement protégé : « Toute personne sans abri en situation de détresse médicale, psychique ou sociale a accès, à tout moment, à un dispositif d’hébergement d’urgence (1). »

    Il y a un an, nous alertions le gouvernement sur la situation dans nos villes due à un système d’hébergement d’urgence à bout de souffle, sur la difficulté des collectivités et des acteurs de terrain à pallier le sous-dimensionnement des dispositifs étatiques (115, nuitées hôtelières, hébergement, etc.) et la présence croissante d’enfants à la rue. Après avoir saisi toutes les voies possibles de dialogue, par des échanges avec nos représentants locaux de l’Etat, des interpellations, des courriers, des tribunes et des questions parlementaires, nous avons décidé d’en appeler au droit.

    Un an s’est écoulé, et le constat est toujours plus dramatique : partout dans nos villes, la situation continue de s’aggraver. Le nombre de personnes sans solution d’hébergement explose. Des personnes – femmes, hommes et enfants – sont contraintes de vivre à la rue, sous une tente, dans des squats, des voitures, des campements de fortune ou parfois accueillies pour quelques nuits sur le canapé d’une connaissance.

    Condamnées à vivre dans des conditions indignes et dangereuses, à se déplacer sans cesse, leur santé tant physique que psychique se détériore inéluctablement. Nos services sociaux sont dans l’impossibilité de mettre en place un accompagnement continu indispensable. Et tous les jours, pour obtenir une simple nuitée hôtelière sans perspective, ces questions visant à hiérarchiser la misère : combien d’enfants de moins de 3 ans avez-vous ? de combien de mois êtes-vous enceinte ? Quel est le degré de gravité de votre maladie ? Quel est votre statut administratif ?
    Notre volonté de trouver des solutions opérationnelles

    Au quotidien, nous ouvrons des gymnases, parfois des écoles, mettons en place des centres d’accueil et d’information, déployons des solutions d’habitat intercalaire. Nous nous battons chaque jour pour la dignité de toutes celles et ceux qui vivent sur nos territoires. Mais nos actions ne peuvent se substituer ni pallier un système national défaillant, irrespectueux des droits humains fondamentaux. Les habitants et habitantes de nos villes nous interpellent autant que les associations crient au secours. Nous ne pouvons pas nous résoudre à ce constat d’impuissance, à cet état de fait.

    Nous avons conscience que l’Etat a considérablement augmenté l’enveloppe consacrée à l’hébergement au cours des dix dernières années. Preuve s’il en est que le cœur du problème n’est pas seulement financier : il est systémique. L’investissement n’a jamais été aussi élevé et malgré tout, les appels au 115 restés sans réponse battent des records.

    En intentant ces recours, nous affirmons avant tout notre volonté de trouver des solutions opérationnelles, efficaces, pérennes. Nous appelons l’Etat à refonder le système d’hébergement d’urgence, avec les collectivités et les associations.

    Un système renouvelé avec une gouvernance partagée, un système cohérent où chacun assume ses compétences, avec des moyens suffisants. Un système fondé sur la considération des personnes concernées, qui prend en compte les trajectoires individuelles et familiales, et qui vise l’émancipation de chacun. Un système réaliste qui tient compte non seulement des risques liés au froid mais désormais aussi de ceux liés aux canicules et aux effets des dérèglements climatiques.

    Nous voulons un système qui n’exclut pas une partie de la population mais facilite concrètement l’accès aux droits. Un système qui ne nous fasse plus honte mais qui soit, au contraire, à la hauteur de notre pays, celui des droits humains, et à la hauteur des grands défis de notre siècle.

    (1) Article L. 345-2-2 du code de l’Action sociale et des familles.

    https://www.liberation.fr/idees-et-debats/face-a-lexplosion-du-nombre-de-sans-abri-nos-villes-ne-peuvent-plus-palli
    #villes #résistance #recours #Etat #justice #hébergement #SDF #sans-abri #sans-abrisme

  • Des #pratiques_policières et préfectorales illégales et alarmantes en guise de réponse à la demande de places d’hébergement d’urgence.

    Briançon, le 2 octobre 2023 - La semaine dernière, la préfecture des Hautes-Alpes a annoncé l’arrivée, dès le jeudi 21 septembre, de 84 effectifs supplémentaires dédiés au renforcement des contrôles à la frontière franco-italienne. Depuis, des #interpellations se multiplient autour de la frontière, jusque dans la ville de #Briançon, et même au-delà, où la police traque les personnes exilées pour les chasser de l’espace public. Or, si la préfecture se targue de respecter la loi, il n’en est rien et ces pratiques policières et préfectorales sont illégales et dangereuses.

    Les pratiques en matière de contrôles des personnes exilées dans la ville de Briançon ont changé depuis jeudi dernier : chaque jour, plus d’une dizaine de personnes ont été retenues au poste de police, parfois une nuit entière, suite à des contrôles d’identité dans la ville même, fait plutôt rare jusqu’ici. Les exilé.e.s sont poursuivi.e.s au-delà même de Briançon, dans le train, les bus, et jusqu’à Paris, où vendredi matin (29 septembre) une armada de policiers les attendaient à la descente du train de nuit à la gare d’Austerlitz. La présence policière est également renforcée à Marseille, Gap ou Grenoble.

    Ces contrôles ciblent les personnes racisées, et sont suivies par des retenues au commissariat pouvant aller jusqu’à 24 heures, qui se soldent par des mesures d’éloignement : des OQTF (obligation de quitter le territoire français) sans délai, parfois suivies par des placements en CRA (centre de rétention) dans des villes éloignées, comme Toulouse.

    Dans la ville frontalière de Briançon, ces vagues d’interpellations dissuadent les personnes exilées de circuler, elles ne sont donc en sécurité que dans le seul lieu d’accueil actuellement ouvert, un bâtiment occupé en autogestion. La société publique locale Eau Service de la Haute Durance, dont le président n’est autre que le maire de Briançon, M. MURGIA, a coupé l’approvisionnement en eau courante de ce bâtiment le 17 août 2023. Aggravant la précarité des personnes accueillies, cette décision a de fortes répercussions pour la santé et le respect des droits fondamentaux des personnes. (Le lieu accueillant l’association Refuges solidaires a fermé fin août, ne pouvant assurer seul l’hébergement d’urgence à Briançon.)

    Des ordres ont été donné par le préfet pour augmenter la présence policière dans la ville de Briançon. L’augmentation des contrôles d’identité viserait à prévenir la recrudescence des « incivilités » liées au contexte de pression migratoire. Les forces de l’ordre répètent que les contrôles qu’ils opèrent dans la ville de Briançon sont des contrôles dits « Schengen »[1], possibles dans une bande de 20 km après la frontière, visant à rechercher et prévenir la criminalité transfrontalière.

    Or, le fait de franchir une frontière irrégulièrement, ou de se maintenir sur le territoire français irrégulièrement ne sont pas des infractions permettant de justifier un contrôle d’identité. En aucun cas, la police ne peut déduire que la personne est étrangère à cause d’un critère inhérent à la personne contrôlée (couleur de peau, d’yeux, de cheveux, vêtements, etc..). Ces contrôles sont restreints dans le temps : pas plus de douze heures consécutives. Or, ils sont permanents dans la zone frontalière briançonnaise. Dans les faits, ce sont bien des contrôles au faciès qui sont menés, car ce sont bien les personnes racisées qui sont la cible de ces contrôles, qui ne semblent justifiés par aucun motif précis. A moins que le simple fait de dormir dans la rue soit considéré cyniquement comme une infraction par l’État, ou une « incivilité » alors même que celui-ci se place dans l’illégalité en n’ouvrant pas de places d’hébergement d’urgence dans le département ? Ces contrôles au faciès font plutôt penser à une réelle volonté du préfet de supprimer la présence des personnes exilées de l’espace public.

    Par ailleurs, la CJUE (Cour de justice de l’Union européenne) a bien rappelé dans sa décision[2] du 21 septembre que la France met en place des pratiques illégales en termes de contrôles et d’enfermement aux frontières intérieures, et qu’elle est tenue de se conformer aux textes européens, ce qu’elle ne fait pas.

    Ces pratiques répondent à la même logique que celle dénoncée par nos associations depuis maintenant plusieurs années à la frontière : une volonté politique d’empêcher à tout prix les personnes exilées de circuler, en faisant fi des textes de loi qui encadrent à la fois les contrôles d’identité et les procédures de non-admissions sur le territoire. Aussi, la réponse de l’Etat est une fois de plus de faire croire qu’il est possible « d’étanchéifier » la frontière, en déployant pour cela des moyens dispendieux.

    Or, Médecins du Monde et Tous migrants ont mené une enquête sur une semaine à la fin du mois d’août, et les résultats de nos observations confirment ce que nous documentons depuis plusieurs années : ce dispositif de contrôle de la frontière met en danger les personnes. Il n’empêche absolument pas les personnes exilées d’entrer en France, mais accroît par contre leur vulnérabilité en rendant le passage plus difficile, plus dangereux.

    Les récits des personnes qui traversent la frontière sont édifiants : contrôles par surprise, courses-poursuites par les forces de l’ordre, qui provoquent des chutes, avec des fractures, des entorses ou encore des pertes de connaissance. Marchant en moyenne 10 heures depuis l’Italie pour atteindre Briançon, les personnes font état de leur extrême fatigue, de déshydratation, et du risque de se perdre en montagne. Certain.es ont passé plus de 48 heures en montagne, parfois sans boire ni manger. Cette énième traversée de frontières avec des tentatives de passage souvent multiples s’ajoute à un parcours migratoire extrêmement éprouvant et crée de plus des reviviscences traumatiques susceptibles ensuite de se traduire par des altérations de la santé mentale. Les récits recueillis ces dernières semaines et les observations de Médecins du Monde lors des permanences médicales confirment ces pratiques.

    La plupart des personnes qui traversent la frontière sont originaires des pays d’Afrique sub-saharienne, et plus récemment du Soudan, et relèvent du droit d’asile ou de la protection subsidiaire. Les refouler en Italie de manière systématique et collective ignore le droit d’asile européen. De même, prendre à leur encontre des mesures d’éloignement (OQTF) vers leurs pays d’origine, où elles risquent la mort ou la torture, est contraire au principe de non-refoulement (article 33 de la Convention de 1951 relative au statut des réfugiés).

    [1] Encadrés par le Code de procédure pénale, article 78-2 alinéa 5
    [2] Contrôle des frontières : le gouvernement contraint de sortir de l’illégalité - Alerte presse inter-associative- 21 septembre 2023. http://www.anafe.org/spip.php?article694

    communiqué de presse Tous Migrants (co-signée avec Médecins du Monde), reçu le 3 octobre 2023 via la newsletter de Tous Migrants

    #frontière_sud-alpine #frontières #asile #migrations #contrôles_frontaliers #Hautes-Alpes #traque #espace_public #contrôles_d'identité #ville #Paris #Marseille #Gap #Grenoble #gare #contrôles_au_faciès #OQTF #CRA #détention_administrative #squat #présence_policière #incivilités #zone_frontalière #SDF #hébergement #non-admission #vulnérabilisation #courses-poursuites #France #Italie #dangers #risques #montagne #refoulements #push-backs

    • Ritorno a #Oulx, sulla frontiera alpina. Aumentano i transiti, i respingimenti sono sistematici

      Sono già diecimila i passaggi monitorati quest’anno allo snodo Nord-occidentale, in forte aumento rispetto al 2022 quando furono in tutto 12mila. La stretta sorveglianza del confine da parte francese e il mancato accesso ai diritti sul territorio italiano, se non per iniziative volontarie, colpiscono duramente i migranti. Il reportage

      Per le strade di Briançon, primo Comune francese subito dopo il confine con l’Italia alla frontiera Nord-occidentale, non c’è quasi nessuno. È una notte fonda dei primi d’ottobre quando all’improvviso sbuca un gruppo di ragazzi che si dirige con passo svelto verso la stazione: cercano un luogo dove potersi riposare. Intorno è tutto chiuso e avrebbero bisogno almeno di bere un sorso d’acqua, ma la gioia di essere riusciti ad arrivare in Francia compensa la necessità di dormire e di mangiare.

      “Ce l’abbiamo fatta”, dice sorridendo uno di loro. Sono in cinque, tutti provenienti dal Niger e tra loro c’è anche un minorenne. “Abbiamo camminato per otto ore -racconta- ci siamo fermati solo per nasconderci dalla polizia in mezzo agli alberi. Oppure ci siamo sdraiati per terra quando sentivamo un rumore dal cielo”.

      A far paura in questi giorni non sono solo i gendarmi appostati con i binocoli ma anche i droni che il governo francese sta usando per bloccare quanti più transitanti possibile. Dotati di visori termici, sono in grado di stanare i ragazzi anche di notte ed è per questo che i “cacciati” tendono a salire sempre più in cima, oltre i duemila metri. In questo modo il loro tragitto, di per sé già complicato, diventa ancora più pericoloso, soprattutto con la neve e il ghiaccio. Il gruppo arrivato a Briançon saluta e si nasconde nel buio per trovare un posto dove riposare qualche ora. C’è da aspettare l’alba, quando con un treno o con un autobus si tenterà di proseguire il viaggio verso una delle principali città francesi.

      “C’è mio fratello che mi aspetta”, racconta un sedicenne mentre riempie la bottiglietta alla fontanella del centro di Claviere (TO), l’ultimo Comune italiano prima del confine. È pomeriggio e il sole è decisamente caldo per essere ottobre, ma lui indossa una giacca a vento e una sciarpa pronta a far da cappello se in nottata la temperatura dovesse scendere. Aspetta insieme a un gruppo di giovani che si faccia buio per salire in montagna. “Non ho paura della montagna. Ho paura di essere preso dalla polizia e di essere rimandato indietro -continua-. Ma tanto ci riprovo”. Un secondo ragazzo racconta di essere già stato respinto due volte: “Ma prima o poi ce la faccio. Sono stato picchiato tante volte lungo il viaggio, torturato e minacciato. Il buio e la montagna non potranno mai essere peggio”. Del freddo sì, qualcuno ha paura.

      La maggior parte delle persone che si apprestano ad attraversare le Alpi non ha idea di quanto le temperature possano scendere in montagna. In questi giorni di caldo decisamente anomalo, poi, non credono a chi li avverte che potrebbero soffrire il freddo e battere i denti. E così al rifugio “Fraternità Massi” di Oulx i volontari devono convincerli a prendere la felpa e a indossare i calzettoni prima di infilare gli scarponi da montagna.

      Questo luogo è diventato negli anni un punto di riferimento fondamentale per i migranti che vogliono lasciare l’Italia e raggiungere la Francia. Ma negli ultimi mesi il flusso di persone che ogni giorno arrivano è cresciuto fino a raggiungere livelli insostenibili. “All’anno scorso ne arrivavano tra le cinquanta e le cento al giorno. Ma i momenti di sovraffollamento erano poco frequenti -spiega una delle volontarie-. Arrivavano soprattutto dalla rotta balcanica: erano siriani, afghani, palestinesi, bengalesi. C’era anche qualche persona nordafricana. Oggi, invece, arrivano quasi esclusivamente migranti provenienti dai Paesi dell’Africa sub-sahariana sbarcati nelle scorse settimane a Lampedusa o in altre località del Sud”.

      In questi giorni al rifugio i volontari sono sotto pressione: arrivano fino a 250 persone a notte ma i posti a disposizione sono solo 80. “È chiaro che dover aiutare così tante persone ha messo a dura prova l’organizzazione -spiega don Luigi Chiampo, parroco di Bussoleno (TO) che gestisce la struttura-. Significa farli dormire per terra, faticare per offrire a tutti un piatto di pasta o per vestirli in maniera adeguata ad affrontare la montagna”. Il rifugio è un luogo sicuro, dove le persone in transito sanno di poter trovare le cure di cui hanno bisogno dal momento che è sempre presente il presidio di due associazioni che offrono assistenza medico-sanitaria: Rainbow for Africa e Medici per i diritti umani (Medu). Ma soprattutto sanno che possono cambiare le scarpe, spesso lacere e inadeguate. “La maggior parte di chi arriva qui lo fa con le infradito ai piedi -racconta Sofia, una delle volontarie- indossando magliette e pantaloncini. Non possono andare in montagna così”.

      Al mattino gli ospiti del rifugio si mettono in fila al guardaroba, una stanza al pian terreno dell’edificio dove si può trovare tutto il necessario per questa nuova tappa del viaggio: scarpe, pantaloni, maglie, giacconi, guanti, calzettoni, cappellini e zaini per uomini, donne e bambini. Tutto viene catalogato per taglia e tipologia.

      “Shoes, chaussures, scarpe. Non vanno bene quelle”, spiegano i volontari. Le persone si lasciano consigliare ma alcune, soprattutto i più giovani, sgranano gli occhi di fronte a felpe colorate e giacche morbide.

      E così, imbacuccati e attrezzati, aspettano l’autobus per Claviere. “Ho 18 anni -dice uno di loro- ma sono partito quando ne avevo 16. Sono due anni che cerco di salvarmi la vita e ora sono nelle mani di Dio”. La maggior parte dei migranti che in questi giorni stanno tentando di attraversare le Alpi è sbarcata nelle scorse settimane a Lampedusa e in poco tempo ha raggiunto il confine: “Non vogliamo rimanere in Italia, abbiamo tutti famiglia o amici che ci aspettano in Francia o in Belgio -spiega Hassan a nome dei suoi compagni di viaggio-. Abbiamo una casa e forse anche un lavoro ad aspettarci”.

      Tra i migranti al rifugio di Oulx ci sono anche molte donne con bambini piccoli. Per loro la traversata in montagna è ancora più difficile, ma non c’è alternativa. Ismael sta imparando a camminare proprio in questi giorni, aggrappandosi alle gambe delle sedie e appoggiandosi alle mani di tanti sconosciuti che gli sorridono. “Non ha paura di niente”, ammette la madre. Insieme a un piccolo gruppo, anche lei tenterà di raggiungere Briançon.

      Intanto è ora di lasciare il rifugio per andare alla stazione e salire sull’autobus. Biglietto alla mano le persone prendono posto e salutano i volontari, sperando davvero di non rivederli più. Se dovessero ripresentarsi a sera tarda o la mattina seguente vorrà dire che la polizia francese li avrà presi e respinti.

      A riportare i migranti al rifugio è un mezzo della Croce Rossa che fa la spola, anche più volte al giorno, tra Monginevro e Oulx. Seguiamo l’autobus per ritornare a Claviere: mentre un gruppo s’inerpica su per la montagna, un furgoncino torna giù con a bordo cinque persone bloccate la sera precedente. È un meccanismo perverso a regolare questo passaggio a Nord-Ovest, l’ennesimo che i migranti subiscono durante il loro viaggio. Mentre sulle montagne va in scena la caccia all’uomo e i bambini sono rimpallati come biglie, i governi europei giocano al braccio di ferro, senza pensare a canali legali che possano garantire sicurezza e rispetto dei diritti umani.

      https://www.youtube.com/watch?v=z_MO67A_-nQ&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Faltreconomia.it%2F&

      https://altreconomia.it/ritorno-sulla-frontiera-alpina-a-oulx-aumentano-i-transiti-i-respingime

    • La denuncia di MEDU: «Respinti anche se minorenni»

      È quel che sta accadendo al confine italo-francese

      Siamo al confine alpino tra Italia e Francia. Più precisamente a Oulx in Alta Val di Susa, al #Rifugio_Fraternità_Massi. Un edificio di solidarietà, assistenza e cura gestito in maniera coordinata da un pool di professionisti e volontari, in cui ognuno opera con compiti specifici assegnati in base all’esperienza, alle competenze alle finalità dell’organizzazione di appartenenza. Un “luogo sicuro” dove poter riposare per una notte, trovare abiti puliti, un pasto dignitoso e ricevere assistenza medica prima di riprendere il proprio viaggio verso la Francia.

      Qui MEDU (Medici per i diritti umani) da inizio del 2022 fornisce assistenza medica alle migliaia di persone migranti diretti in Francia presso l’ambulatorio allestito dall’associazione Rainbow for Africa (R4A) al Rifugio. L’associazione garantisce la presenza di un medico, di una coordinatrice e di un mediatore linguistico – culturale. In particolare, il medico si occupa sia di fornire assistenza sanitaria ai pazienti che di coordinare le attività sanitarie svolte dalle organizzazioni e dai medici volontari presenti presso il rifugio.

      Nell’ultimo web report pubblicato nel mese di maggio del 2023 le autrici descrivono Oulx come una delle ultime tappe di un lungo viaggio, che può durare dai 2 ai 6 anni e che può costare dai 2 agli 8 mila euro. «Un viaggio che collega l’Afghanistan, la Siria, l’Iran e molti paesi africani con i paesi del nord Europa e dell’Europa centrale, attraverso valichi alpini che superano i 1.800 metri di quota».

      Sono numerosi i minori non accompagnati che ogni giorno raggiungono il Rifugio Fraternità Massi.

      «Negli ultimi mesi, in concomitanza con l’aumento degli arrivi via mare», spiega l’organizzazione umanitaria, «il numero delle presenze è aumentato in modo significativo: a fronte di una capienza di 70 posti, si registrano anche 230 presenze in una sola notte presso il rifugio, tra cui donne e minori».

      Sono tantissime le testimonianze, raccolte da MEDU, di minori non accompagnati che sono stati respinti al controllo di frontiera perché al momento dell’ingresso in Italia sono stati registrati – per loro stessa dichiarazione o per errore – come maggiorenni. Nonostante il loro tentativo di dichiarare la vera età al confine, vengono comunque respinti in Italia, invece di accedere alla procedura di asilo in Francia.

      «Non riconoscere la minore età al confine vuol dire esporre i minori ai rischi derivanti dall’attraversamento della frontiera a piedi, di notte, lungo sentieri di montagna impervi e pericolosi, soprattutto nei mesi invernali. A questi, si aggiunge il rischio di consegnarli alle reti dell’illegalità e dello sfruttamento» denuncia MEDU.

      «Stiamo continuando a garantire ascolto e cure alle persone accolte presso il rifugio e a portare all’attenzione dell’opinione pubblica le loro storie» – conclude l’organizzazione – «che raccontano nella maggior parte dei casi di violazioni e abusi subìti lungo le rotte migratorie».

      https://www.meltingpot.org/2023/10/la-denuncia-di-medu-respinti-anche-se-minorenni
      #mineurs #MNA #val_de_suse

  • Les oubliés du droit d’asile

    Plus de 500 personnes ont participé à l’enquête réalisée sur 5 structures d’accueil parisiennes. L’enquête a permis la production d’un rapport final à partir de l’analyse des données quantitatives et qualitatives recueillies.


    Le rapport « Les oubliés du droit d’asile » dresse un constat alarmant sur les conditions d’existence des #hommes_isolés fréquentant les structures sur lesquelles l’enquête a été menée. Ces résultats amènent les associations à formuler des recommandations qui supposent une adaptation réglementaire et législative, l’augmentation des moyens ou l’ajustement des pratiques. Les associations en sont convaincues, les réponses aux difficultés rencontrées par les hommes isolés visés par l’enquête ne pourront se construire qu’en concertation et collaboration entre les associations, les services et agences de l’Etat et les collectivités.

    https://www.youtube.com/watch?v=ScjteUjbWAA

    https://www.actioncontrelafaim.org/publication/les-oublies-du-droit-dasile
    #rapport #France #Paris #asile #migrations #réfugiés #accueil #recommandations #SDF #sans-abris #sans-abrisme #hébergement #conditions_d'accueil #île_de_France #conditions_matérielles_d'accueil #enquête #dispositif_d'accueil #précarisation #allocation_pour_demandeurs_d'asile (#ADA) #accès_aux_droits #faim #santé_mentale

    ping @karine4

    • 95 entretiens poussés , un peu de sérieux , 85 bénévoles combien ça coute ? transmission des résultats aux services publiques , canal habituel ? l’honorable correspondant ? etc ...

  • Unconditional cash transfers reduce homelessness

    A core cause of homelessness is a lack of money, yet few services provide immediate cash assistance as a solution. We provided a one-time unconditional CAD$7,500 #cash_transfer to individuals experiencing homelessness, which reduced homelessness and generated net societal savings over 1 y. Two additional studies revealed public mistrust in homeless individuals’ ability to manage money and the benefit of counter-stereotypical or utilitarian messaging in garnering policy support for cash transfers. This research adds to growing global evidence on cash transfers’ benefits for marginalized populations and strategies to increase policy support. Although not a panacea, cash transfers may hasten housing stability with existing social supports. Together, this research offers a new tool to reduce homelessness to improve homelessness reduction policies.

    https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.2222103120

    #SDF #sans-abrisme #aide #cash #logement #solution

  • La drammatica condizione dei migranti in arrivo a Trieste: “500 persone abbandonate in strada”

    I trasferimenti dei richiedenti asilo in arrivo nella città dalla rotta balcanica sono fermi, mentre gli arrivi aumentano (quasi 8mila tra gennaio e luglio). Crescono i casi di famiglie e i minori soli costretti a dormire all’addiaccio. Le istituzioni restano immobili, negando servizi di bassa soglia. La rete solidale cittadina fa il punto della situazione

    La situazione dei migranti a Trieste, principale punto di passaggio delle rotte balcaniche nel nostro Paese, è sempre più drammatica: a fine agosto sono quasi 500 i richiedenti asilo costretti a vivere all’addiaccio, mentre i trasferimenti si sono completamente azzerati. Lo evidenzia il nuovo rapporto stilato dalla rete solidale cittadina, network di realtà che operano nel capoluogo giuliano nel campo dell’accoglienza e dell’assistenza alle persone in transito e che comprende la Comunità di San Martino al Campo, il Consorzio italiano di solidarietà (Ics), la Diaconia valdese (Csd), Donk humanitarian medicine, International rescue committee Italia e l’associazione Linea d’Ombra.

    Il documento fa seguito al report “Vite abbandonate”, predisposto all’inizio dell’estate, che rendeva noti i dati raccolti dagli attivisti e dagli operatori nel corso del 2022. La necessità di un aggiornamento deriva dal grave inasprimento della situazione, ormai di estrema emergenza, dovuta alla carenza dei servizi a fronte di un’elevata richiesta di aiuto. Il numero di migranti a Trieste è in aumento -sono 7.890 gli arrivi dall’inizio di gennaio alla fine di luglio, contro i 3.191 dello stesso periodo dello scorso anno- con una presenza sempre maggiore di nuclei familiari, donne sole o con bambini e minori non accompagnati. Questi ultimi sono saliti dell’11% rispetto al 2022, con un’età in calo.

    Alcuni dei ragazzi incontrati dalle realtà autrici del report sono sotto i 14 anni e in alcuni casi ne hanno anche 10 o 11. Nel solo mese di luglio sono arrivate nel capoluogo giuliano 2.277 persone, il 20% delle quali non era ancora maggiorenne; solo in questo periodo sono giunte 55 famiglie, molte delle quali di provenienza curda.

    A questa impennata di presenze non è corrisposto affatto un incremento dei servizi di bassa soglia. Anzi, l’amministrazione comunale ha deciso di chiudere, a inizio luglio, il progetto “Emergenza freddo”, che garantiva una sessantina di posti letto in più per le persone vulnerabili costrette a vivere per strada. Per l’accoglienza temporanea dei nuclei familiari e delle donne sole, un grande lavoro è stato fatto dall’hotel Alabarda, struttura di proprietà del Comune gestita dalla Caritas; oggi, tuttavia, l’albergo si trova in una situazione di tale saturazione -dovuta anche all’aumento di minori stranieri non accompagnati- che risulta difficile trovare posto per nuove persone. “L’altro giorno c’era una famiglia curda con quattro bambini, di cui la più grande aveva sei anni e il più piccolo tre mesi -ha raccontato nella conferenza stampa del 24 agosto Gian Andrea Franchi di Linea d’Ombra-. Sono andato alla parrocchia più vicina, che risponde al sontuoso nome di ‘Santissimo cuore immacolato di Maria’, ho suonato, abbiamo parlato un po’ e mi hanno detto di andare alla Caritas, che però era chiusa. Alla fine un amico ha dato ospitalità a suo rischio a questo nucleo familiare”.

    Il rapporto evidenzia, così come il precedente, la mancanza strutturale di servizi di bassa soglia e “suggerisce” al Comune di Trieste di prendere atto della realtà in cui è inserito e del periodo storico che stiamo attraversando. La città, infatti, essendo il punto di ingresso su suolo italiano delle rotte balcaniche, dovrebbe prepararsi agli arrivi di persone migranti e intervenire aumentando l’assistenza e i posti letto disponibili. L’incremento nel numero di ingressi dipende in larghissima parte dalle condizioni di vita nei Paesi di partenza ed è quindi pressoché inevitabile. La maggiore responsabilità della situazione drammatica che si è delineata nel capoluogo giuliano, tuttavia, va ricercata nell’azzeramento totale dei trasferimenti verso altre Regioni; il rapporto mette infatti in evidenza lo strettissimo rapporto tra la quantità di spostamenti organizzati e il numero di richiedenti asilo segnalati senza accoglienza. Se a gennaio c’erano 132 trasferimenti e 313 persone rimaste in strada, ad agosto, con zero trasferimenti, i migranti costretti a vivere all’addiaccio sono 494. Di questi, almeno 74 sono in attesa di un posto nel sistema di accoglienza da più di tre mesi.

    “Nel momento in cui il ministero fa un programma, i richiedenti asilo devono essere considerati tutti uguali e devono essere tutti ricollocati -ha aggiunto Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) e tra le anime della rete RiVolti ai Balcani-. Ci dovrebbe essere una quota da ripartire per area di ingresso. A Trieste se prima questa quota era bassa e avevamo persone in strada, adesso siamo a zero. Questo territorio è completamente abbandonato, lo Stato è sparito. Per questa situazione catastrofica ci sono delle responsabilità su cui la magistratura dovrà indagare”. Come messo in luce dall’associazione Donk humanitarian medicine, chi vive in situazioni critiche di abbandono ha più probabilità di sviluppare patologie.

    Le persone che si ammalano, tuttavia, dopo esser state visitate dal pronto soccorso, tornano sulla strada, spesso a dormire nel silos accanto alla stazione, in un ambiente estremamente malsano e precario e certamente non adatto a un periodo di convalescenza o alla cura di una malattia. Gli operatori segnalano, inoltre, che da giugno si sono verificati alcuni episodi di violenza, dovuti all’arrivo di un gruppo di individui che parrebbe lavorare in rapporto con i passeur. La situazione di stallo che caratterizza la città è ormai nota anche alle persone in arrivo: rispetto all’anno scorso è aumentato il numero di coloro che dichiarano di non volersi fermare in zona per chiedere asilo (dal 59 al 72%). La maggior parte degli ingressi (77,1%) sono di cittadini provenienti dall’Afghanistan, che spesso preferiscono continuare il proprio viaggio. Chi invece tende a fare maggiori domande di asilo nell’area sono i cittadini pakistani, che rappresentano il 51,3% dei richiedenti asilo in attesa di accoglienza a Trieste. Lasciati lì.

    https://altreconomia.it/la-drammatica-condizione-dei-migranti-in-arrivo-a-trieste-500-persone-a

    #Trieste #asile #migrations #réfugiés #frontières #frontière_sud-alpine #Italie #Slovénie #SDF #sans-abris #hébergement #route_des_Balkans #Balkans #statistiques #chiffres #accueil #vulnérabilité

    • Aggiornamento sulla situazione dei migranti in arrivo dalla rotta balcanica – gennaio/luglio 2023

      Nella mattina di oggi, nell’ufficio di ICS, è stato presentato l’aggiornamento del report “Vite abbandonate”, comprendente i dati da gennaio a luglio 2023. È possibile scaricarlo cliccando qui: https://www.icsufficiorifugiati.org/wp-content/uploads/2023/08/PRESENTAZIONE-DATI-GIU-LUG-23-2.pdf. Di seguito potete leggere invece l’analisi dei dati contenuti nel report.

      Arrivi e vulnerabilità

      Durante le attività di monitoraggio svolte nell’area di Piazza Libertà e del Centro Diurno, mediatori e operatori hanno incontrato dall’inizio di gennaio alla fine di luglio 7890 persone provenienti dalla Rotta Balcanica. Un confronto con i dati pubblicati nel Report 2022 “Vite abbandonate”, indica che il totale nello stesso periodo considerato era stato di 3191. Una media di arrivi nel 2023 di 37 al giorno contro i 15 dell’anno precedente. Il 91,8% di essi è di sesso maschile, circa 4% femminile (sole, sole con figli o in famiglia) e il 4% bambini. I nuclei famigliari sono stati 120. Il 16% delle persone che attraversano la Rotta Balcanica che coinvolge Trieste è composta da Minori Stranieri Non Accompagnati, categoria di altissima vulnerabilità, in forte aumento rispetto l’anno precedente (11%). Riguardo la provenienza, è evidente un aumento della componente afghana (il 73% in questi mesi del 2023, nel 2022 erano il 54%), rispetto a un calo delle nazionalità pakistana (11% contro il 25% del 2022), bengalese (3,5 % contro 6%), stabili le percentuali nepalese (il 2%, tra loro un alto tasso di donne sole) e kurda turca (il 4%, nella loro totalità significano nuclei famigliari in transito verso altre destinazioni). La destinazione dichiarata continua ad essere l’estero. Le attività della rete confermano questo dato, incontrando persone che passano pochissime ore a Trieste prima di riprendere il viaggio verso altri paesi europei. Rispetto all’anno precedente infatti vi è un aumento netto delle persone che preferiscono questa opzione, ad oggi il 72% (nel 2022 erano il 59%). Va posta attenzione ai risultati del monitoraggio del mese di luglio: sono arrivate solo in questo periodo 2277 persone, il numero delle famiglie incontrate sono state 55 (su un totale 2023 di 120) e i Minori Stranieri Non Accompagnati addirittura il 21,5% del totale del mese. 270 persone (11,8% del mese) hanno dichiarato di voler fare domanda di asilo a Trieste, che sono andate ad aumentare le fila di chi già era sul territorio nei due mesi precedenti in attesa di entrare in accoglienza. È un dato importante, perché il mese di luglio ha significato la chiusura del progetto Emergenza Freddo del Comune, riducendo significativamente i posti in accoglienza a rotazione nei dormitori di bassa soglia della Comunità di San Martino e Caritas, fondamentali per venire incontro alle situazioni di emergenza e vulnerabilità che spesso le organizzazioni si trovano a dover affrontare quotidianamente, costringendo alla strada moltissime persone in stato di necessità. Una delle strutture più efficaci per intervenire in ottica di riduzione del danno come l’Hotel Alabarda che accoglie donne sole e famiglie, nelle ultime settimane si è trovata senza disponibilità di posti letto, generando un’emergenza che ancora perdura e rendendo impossibile l’accoglienza di questi casi fragili.

      Stato dei trasferimenti e delle accoglienze

      Il rallentamento delle procedure di trasferimento e ricollocazione dei richiedenti asilo in altre regioni italiane a cui abbiamo assistito nel 2022 è continuato anche nei primi mesi del 2023, con eccezione dei mesi di febbraio e marzo, ed è andato peggiorando fino ad arrivare ad un blocco pressoché totale nei mesi estivi – quelli in cui è prevedibile avere un incremento degli arrivi di richiedenti asilo.

      Dopo il mese di marzo che aveva notevolmente abbassato il numero di persone in strada e ridotto i tempi medi di attesa per l’ingresso nelle strutture di prima accoglienza, siamo dunque tornati in una situazione di forte emergenza, chiaramente creata artificialmente. Ciò si verifica non tanto per l’aumento dei flussi di arrivo, che hanno visto solo un piccolo incremento rispetto ai mesi precedenti, quanto invece all’ennesima paralisi nei trasferimenti. A ciò si è aggiunta la decisione della Prefettura di ridurre la capienza di uno dei centri di prima accoglienza, l’Ostello scout di Prosecco (con la conseguente chiusura di un’intera camerata), passata a 75 richiedenti asilo rispetto ai precedenti 95, che ha quindi costretto a limitare le accoglienze successive alle partenze.

      Nonostante la situazione di emergenza fosse totalmente prevedibile, nel corso del 2023 non è stato dato avvio ai lavori presso l’Ostello per la creazione di una nuova fognatura con l’installazione di moduli abitativi ma neppure vi sono state collocate in via provvisoria delle tende con relativi servizi igienici chimici. Tale scelta avrebbe potuto assicurare il raggiungimento di almeno 200 posti complessivi nella struttura, alleggerendo parzialmente la gravissima situazione di abbandono in strada dei richiedenti asilo.

      Di fronte al numero sempre più elevato di richiedenti asilo che si trovano in strada e al blocco dei trasferimenti nessuna misura di emergenza è stata adottata dalla Prefettura – Ufficio territoriale del Governo per mitigare la situazione. Tale quadro di generale inerzia ha colpito anche le situazioni più vulnerabili tra i richiedenti, quali persone traumatizzate, persone con patologie mediche evidenti, persone appena dimesse dalle strutture ospedaliere locali: tutte indistintamente sono state abbandonate in strada senza curarsi delle loro condizioni.

      L’esplosione nel 2022 del fenomeno delle persone richiedenti asilo abbandonate in strada, ha raggiunto nei mesi estivi del 2023 dei numeri ancora eccezionalmente elevati: al 22 agosto sono più di 494 richiedenti asilo che sono costretti a vivere per strada, con una permanenza all’addiaccio che arriva a più di 3 mesi per almeno 74 persone, prima di poter accedere al sistema di prima accoglienza previsto dalla legge.

      Di fronte a questo scenario, tristemente non inusuale, le organizzazioni della società civile impegnate a Trieste continuano in forma volontaria a dare supporto alle centinaia di persone abbandonate a loro stesse, a monitorare in maniera indipendente gli sviluppi, a rendere la Prefettura edotta della situazione in cui versano i richiedenti asilo privi di accoglienza, comunicando in maniera più circostanziata possibile il loro numero, i tempi di attesa e le situazioni più vulnerabili. Questo lavoro è stato svolto anche per mezzo di 10 segnalazioni formali inviate alla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Trieste dal Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS) tra gennaio e agosto 2023 via PEC; segnalazioni rimaste, purtroppo, senza risposta. Nel periodo menzionato sono state censite 1202 persone richiedenti asilo in stato di indigenza che non hanno avuto accesso tempestivo alle misure di accoglienza, in violazione di quanto previsto dalle normative vigenti (sono invece 2.068 le persone riportate nelle segnalazioni formali: con l’incremento dei tempi di attesa, infatti, molte persone sono state segnalate anche più volte prima di ricevere adeguate misure di accoglienza). L’ultima segnalazione, quella che meglio dipinge la situazione ormai fuori controllo, è quella del 22 agosto 2023. Alla Prefettura sono state fatte pervenire le generalità delle 494 persone fuori accoglienza, di cui 74 da maggio 2023, che avevano quindi raggiunto i 3 mesi di attesa.

      Raccomandazioni

      Come già evidenziato nel rapporto “Vite Abbandonate” è inderogabile ed urgente mettere in atto da parte delle pubbliche autorità le seguenti iniziative urgenti al fine di contenere una situazione che ha assunto il profilo di una vera emergenza umanitaria:

      1) La Prefettura di Trieste e il Ministero dell’Interno, nell’ambito delle rispettive competenze, devono immediatamente riprendere l’attuazione di un piano di sistematici trasferimenti dei richiedenti asilo dalle aree di confine tramite l’assegnazione di quote adeguate. La situazione di evidente difficoltà conseguente al netto incremento degli arrivi nel Mediterraneo può in parte giustificare il fatto che la quota assegnata a Trieste e al resto del FVG non sia del tutto adeguata ma in nessun caso si può giustificare la totale assenza di quote, come invece sta avvenendo da giugno 2023.

      Un’attenzione specifica va riservata alle situazioni maggiormente vulnerabili (famiglie con minori, donne sole, malati, persone vittime di traumi) alle quali in ogni caso va garantita una temporanea accoglienza in ogni caso, se necessario in mancanza di posti, attraverso la collocazione in strutture alberghiere.

      2) Il Comune di Trieste deve assumere piena conspaevolezza del fatto che la città, per la sua collocazione geografica quale terminale della rotta balcanica, si trova ad affrontare problematiche di intervento di “bassa soglia” più simili a quelle di un’area metropolitana che non a quelle di una città di media dimensione. In tale ottica è necessario implementare un Piano di intervento umanitario che sia attivo anche al di fuori del periodo invernale e che consenta di assicurare posti di accoglienza notturna presso il sistema dei dormitori a bassa soglia con alta turnazione per una capienza complessiva di almeno 100 posti letto giornalieri da destinare a tutte le persone in transito e ai richiedenti asilo nelle more del loro tempestivo passaggio al sistema di accoglienza loro dedicato previsto dalle normative vigenti. Tale Piano deve prevedere altresì un reale sostegno alle attività del Centro Diurno di via Udine quale luogo cruciale della prima assistenza umanitaria. Si sottolinea nuovamente come gli interventi di assistenza oggi realizzati presso il Centro Diurno di via Udine sono quasi interamente a carico delle associazioni di volontariato per ciò che riguarda i costi degli interventi e quello relativo al personale che gestisce la struttura, nonché la mediazione linguistica. Si tratta di una situazione insostenibile nel lungo periodo; qualora infatti, per mancanza di risorse, l’attività attuale presso il Centro Diurno dovesse cessare, la situazione umanitaria a Trieste diventerebbe immediatamente drammatica e di ciò le istituzioni devono essere consapevoli.

      3) La ASUGI (Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina) dovrebbe far fronte in maniera più attenta ai numerosi bisogni di cure mediche delle persone migranti, anche prive di documenti, superando il mero rinvio al pronto soccorso nei soli casi di estrema urgenza e provvedendo a un rifornimento costante e sistematico di medicinali nonché alla messa a disposizione di in servizio di mediazione culturale presso il Centro Diurno.

      https://www.icsufficiorifugiati.org/aggiornamento-sulla-situazione-dei-migranti-in-arrivo-dalla-rot
      #rapport #ICS #2023

    • Trieste. Invisibili sotto gli occhi di tutti (I parte)

      Pioggia torrenziale e vento a 120 km orari. Un trasferimento di 60 ragazzi

      Quello che, ormai da troppo tempo, sta succedendo nella città di Trieste, è gravissimo. Centinaia di persone in transito e richiedenti asilo nel più totale e vergognoso abbandono delle istituzioni. Una situazione che non ci stancheremo mai di denunciare.

      Questo è la testimonianza di Chiara Lauvergnac, un’attivista triestina, che pubblicheremo in più parti. Nel primo articolo si parla delle forti piogge di fine agosto.

      Il caldo torrido degli ultimi giorni si è sciolto sotto un temporale che pareva un uragano. La mattina del 28 agosto tutta la parte bassa della città, quella più vicina al mare, si è allagata. Lo scirocco ha raggiunto i 120 chilometri all’ora, cosa che non si era mai vista, facendo volare gli arredi dei caffè eleganti di Piazza Unità, mentre i cassonetti delle immondizie navigavano, trascinati dall’acqua.

      Anche il Silos, che è aperto alla pioggia e a tutti i venti, si è allagato. Gli effetti personali di ogni persona che è costretta a viverci si sono completamente inzuppati; tutti i vestiti, anche quelli che avevano addosso, coperte, documenti, tutto. Parecchie tende sono state sradicate dal vento, alcune danneggiate irreparabilmente, qualche baracca è stata scoperchiata. I generi alimentari, soprattutto farina e zucchero, sono andati perduti. Poi ha continuato a piovere per tutta la giornata, un susseguirsi di temporali con piogge torrenziali 1.

      Marianna Buttignoni, volontaria da 3 anni e membro del direttivo di Linea D’Ombra, spiega, «Immaginate un edificio diroccato, senza luce, acqua, infissi. Immaginate la mitica bora di Trieste, e ora pensate all’inverno. È tempo di aprire gli occhi sulla realtà e vedere che serve aprire un dormitorio. Noi possiamo portare le tende, le coperte, qualche indumento asciutto, ma manca un intervento di civiltà: la grande Trieste lascia i suoi ospiti nel fango e senza un cesso, per poi dire “si adeguino ai nostri costumi”. Guardate le foto: non pensate che per qualunque altra popolazione sarebbe già intervenuta la protezione civile?»

      In questo tempo infernale sono arrivati molti ragazzi dalla rotta balcanica, anche loro bagnati fino all’osso. La sera è arrivato un grosso gruppo di afghani (112 secondo i volontari) tra cui molti minori: c’è un ragazzino di 10 o 11 anni al massimo e un altro di 14 circa, altri più grandi, tra i 15 e i 17 anni. Tutti hanno i piedi a pezzi.

      Quando l’acqua entra nelle scarpe i piedi si macerano, la pelle assorbe l’acqua, si gonfia e diventa bianca, molle e piena di grinze, poi comincia a rompersi per la frizione prodotta dal camminare. Tre volontarie di Linea d’Ombra hanno curato i piedi feriti fino a dopo la mezzanotte, riparate alle meno peggio sotto la tettoia della stazione perché la piazza era sferzata dalla pioggia, il sottopassaggio pedonale allagato.

      La polizia ha costretto tutti ad uscire dalla stazione: «È solo per chi ha il biglietto, è il regolamento». Altri volontari sono arrivati con thé caldo cibo, vestiti asciutti, si è distribuito uno stock di vestiti troppo grandi, quelli di misura medio/piccola erano finiti, come erano finite tende e coperte. C’erano solamente coperte d’emergenza isotermiche, le cosiddette metalline, teli di plastica sottile color oro. Ne vanno pacchi interi. Si attende un carico di coperte vere che arriverà tra qualche giorno, ma non bastano mai. Anche se è ancora estate, con la pioggia e la temperatura che scende al di sotto dei 16 gradi il freddo è tagliente.

      Serata difficile. Diciamo arrivederci sotto la pioggia battente a un gruppo di ragazzi che il giorno successivo, il 29, verranno trasferiti. Sono venuti in tanti da Campo Sacro, una località vicina, dove dopo tre mesi o più nel Silos erano stati sistemati in una struttura d’accoglienza temporanea, dormendo 25 per camerone. Sono ritornati per salutarci. Certo, noi tutti vorremmo che ci fossero più trasferimenti e che questa situazione di abbandono delle persone lasciate in strada finisse, ma non possiamo sapere se e quando. non crediamo affatto che la situazione si risolverà.

      Per me questo è stato il trasferimento più doloroso. Vedendo i ragazzi ogni giorno, per mesi, finisce che ci si affeziona, con alcuni si instaurano vere amicizie. La partenza è una lacerazione, è lo strapparsi delle relazioni che si sono create. Noi siamo tristi, anche loro lo sono, alcuni ragazzi hanno pianto. Verranno tutti portati in Sardegna, un’isola troppo lontana. Non sappiamo come verranno sistemati, magari in qualche orribile mega CAS come quello di Monastir vicino a Cagliari, dove centinaia di persone sono ammassate in casermoni isolati, il cibo è scadente, non c’è adeguata assistenza medica, e non c’è niente da fare, non ci sono lezioni di italiano, né supporto legale, né supporto di alcun genere.

      Questo trasferimento è il primo dal 13 luglio, e riguarda solamente 60 persone. I richiedenti asilo fuori struttura a Trieste sono ormai più di 550.

      «Non servono interventi spot. Va attuato un piano ordinario di redistribuzione settimanale dei richiedenti asilo da Trieste verso il resto del territorio nazionale, nel rispetto delle leggi vigenti, con una quota di almeno 100 trasferimenti a settimana». Questo è il sunto del comunicato stampa diffuso da ICS (Consorzio italiano di solidarietà).

      Gli arrivi continuano a ritmo serrato, solo il giorno delle forti piogge, il 28 agosto, come dicevamo, sono arrivate 112 persone. La maggior parte di loro proseguono verso la Francia, la Germania o il Belgio, ma quasi il 30% presentano la domanda d’asilo e restano qui. Gli edifici fatiscenti del Silos hanno già molti nuovi abitanti che non conosciamo ancora. I ragazzi continuano ad arrivare in piena notte, fradici, con occhi enormi per la stanchezza e sguardi cupi di tristezza e di paura. Non sanno dove sono arrivati, né come riusciranno a cavarsela. Per loro è un tale sollievo trovare qualcuno che si prende cura di loro, lo sguardo cambia, riprendono coraggio, ricominciano a sorridere. Il miracolo della solidarietà.

      La mattina dopo vado al Silos per distribuire bustine di thé, zucchero e biscotti. Voglio vedere come stanno, con questo freddo e questa pioggia si ammalano. Stanno benino e stanno asciugando la loro roba e le loro coperte, è venuto un po’ di sole che purtroppo non durerà, è prevista ancora pioggia. Ci sono anche alcuni degli afghani arrivati ieri, compresi i due minori più piccoli: si sono appena svegliati, hanno dormito malgrado la pioggia, senza tenda, per terra su coperte bagnate abbandonate da altri passati prima di loro.

      Dopo un incontro tra Linea d’Ombra e il vescovo di Trieste, 22 persone verranno ospitate da una parrocchia, scelte tra le più vulnerabili. Gli altri, centinaia, rimangono in strada, attendendo una soluzione.

      In queste ore arriva la notizia di un altro trasferimento previsto per martedì prossimo, il 3 settembre. La destinazione è sempre la Sardegna.

      https://www.meltingpot.org/2023/09/trieste-invisibili-sotto-gli-occhi-di-tutti-i-parte

  • Blueberries. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

    La raccolta dei mirtilli, nel distretto della frutta saluzzese, si svolge dalla metà di giugno all’inizio di luglio: pochi giorni durante i quali i datori di lavoro hanno bisogno di tanta manodopera tutta insieme. Tra i filari assolati alle pendici del Monviso i carrettini sono spinti da braccianti maliani, gambiani, ivoriani, burkinabé ma anche cinesi, pakistani, albanesi e qualche giovane italiano. In alcune aziende i raccoglitori sono protetti da ombrelloni da spiaggia, in altre no. In media si lavora nove ore al giorno. La paga è tra i 5.50 e gli 8 euro all’ora, a seconda dell’accordo informale che si è riusciti a strappare con il datore del lavoro, i contratti non contano granché vista la sistematicità del lavoro grigio.
    Gli imprenditori sembrano schiacciati tra le esigenze del mercato globale che impone regole e tempi e la difficoltà di reperire manodopera per un periodo così breve.

    “Mentre nell’area mediterranea la stagionalità del consumo del mirtillo è legata al periodo estivo, esiste un mercato britannico che consuma piccoli frutti tutto l’anno. Li importa in inverno dal Sudamerica e poi dai Paesi europei: prima Spagna, poi Italia e quindi Polonia. Nel contesto nazionale il mirtillo delle Alpi è di norma precoce e viene raccolto e distribuito da metà giugno a tutto luglio.
    … il mirtillo ha spesso sostituito gli appezzamenti di pesche e kiwi, diventando nel tempo un investimento redditizio.
    In provincia si coltivano oltre 500 ettari, di cui più della metà nell’area Saluzzese/Pinerolese, da cui proviene il 25% del prodotto nazionale. Sono sorte sotto il Monviso una quarantina di medie aziende. Vi sono poi, specialmente in collina, una miriade di piccoli e medi produttori (quasi 400) che conferiscono a cooperative e organizzazioni di produttori, che a loro volta sono la cintura di collegamento con la grande distribuzione e i mercati europei.” (La Gazzetta di Saluzzo, 4 giugno 2020).

    “…Un ulteriore problema di difficile risoluzione pare essere quello della manodopera, non per quanto riguarda la questione costi, ma per quanto riguarda la reperibilità: “Il costo della manodopera è sempre lo stesso. Il problema è trovarla” afferma un imprenditore di Revello. “Noi crediamo che questa volta sarà necessario rivolgersi alle cooperative, ma anche in quel caso si tratta di un terno al lotto. Per quanto ci riguarda, con altre colture oltre ai mirtilli riusciamo a mantenere gli operatori per periodi più lunghi di una sola campagna di raccolta. Inoltre, in questo modo si stabilisce un rapporto più stretto con il personale che può durare anche più anni”.
    “Abbiamo una cascina con diverse camere da letto, cucina, bagni. Siamo attrezzati per far alloggiare i dipendenti gratuitamente. Se si trovano bene è più probabile che rimangano. Cerchiamo di parlare sempre con i dipendenti, in questo modo si crea un dialogo diretto e ci si accorda sulla durata, sulle tempistiche e sulle modalità del lavoro”.
    “Abbiamo una decina di dipendenti che dal 2016 lavorano con noi. Credo sia normale aspettarsi un ricambio del personale, per svariati motivi, ma devo dire che la maggior parte rimane con noi”.
    (sito Italian Berry, 11 marzo 2023).

    Dunque: la superficie coltivata a mirtilli è notevolmente aumentata negli ultimi anni, anticipando così l’inizio della stagione della raccolta che durerà fino a novembre inoltrato con le mele cosiddette tardive. Nella grande piantagione a cielo aperto del Saluzzese, costitutivamente orientata all’export (l’80% della merce prodotta è destinata al commercio estero), il mirtillo è un prodotto relativamente recente, inserito nel portfolio produttivo degli agricoltori locali per via dell’elevata domanda e buona redditività sul mercato internazionale.

    Di agroindustria si tratta, un comparto che fa girare milioni di euro e quindi i costi di produzione non possono essere lasciati al caso: tra questi la manodopera è il fattore sul quale più facilmente si può giocare per ottenere profitti più alti. Certamente è noto con anticipo il fabbisogno, ma la maggior parte dei braccianti in questo primo periodo non ha un contratto o viene reclutata “last minute” tramite cooperative, agenzie o altre modalità informali di intermediazione. Rigorosamente a chiamata. Che l’apparente scarsa programmazione delle aziende celi una strategia di compressione dei salari? A pensar male si fa peccato, ma chissà…

    A tal proposito si fa un gran parlare di caporalato, il buco nero del discorso dove ogni altra forma di critica tende a collassare. Senza negare che il fenomeno esista e possa avere tratti particolarmente odiosi e anti-solidali, occorrerebbe un inquadramento della questione radicalmente diverso rispetto a quello ideologico dominante. Per esempio: quando il padrone chiede ad Amadou, che ormai da anni ogni estate lavora per lui e col quale si è instaurato un rapporto di strumentale fiducia, di trovare «tra i suoi contatti africani» braccianti disponibili per i giorni della raccolta, Amadou di fatto sta svolgendo una mansione extra per cui non ci sembra scandaloso possa percepire una retribuzione o qualche privilegio. Del resto, anche le tante regolari agenzie di intermediazione del lavoro non sono propriamente delle ONLUS. Se poi Amadou taglieggia i suoi contatti, allora è una persona spregevole, senza se e senza ma. Altrimenti? Amadou sta davvero compiendo chissà quale crimine? Un crimine più grave delle tante giornate di lavoro sistematicamente non segnate dai datori? Delle condizioni di lavoro indegne e logoranti? Delle paghe sempre inferiori a quelle che dovrebbero essere corrisposte in rapporto alle mansioni svolte?

    Certo, anche le pratiche d’intermediazione informali, questa sorta di ‘caporalato soft’, s’inscrivono in una cornice di reclutamento della forza-lavoro fortemente neoliberista: il caporale è solo un (piccolo) imprenditore in un mondo dominato da (grandi) imprenditori. Ma rivalutare la questione in questi termini, più materialisti e meno moralisti, forse, aiuterebbe a spostare il focus sulle cause e non sugli effetti.

    Parliamo allora di sfruttamento. Sfruttamento non in quanto mero reato, ma come motore del processo di accumulazione di capitale. Per accelerare le operazioni e incentivare la produttività, in molti casi ai lavoratori viene proposto di raccogliere a cottimo, un euro a cassetta per quanto riguarda i mirtilli. Alcuni accettano, «perché comunque conviene: se sei veloce guadagni di più che essere pagato ad ora, e poi nelle campagne del sud siamo abituati a lavorare così…quindi perché no». Comprensibile, certamente, specie sul piano individuale. Ma onestamente problematico dal punto di vista collettivo. La produttività della forza-lavoro è infatti essenziale per incrementare i margini di profitto e il Capitale, impersonificato nella figura degli imprenditori agricoli, grandi o piccole che siano le loro aziende, cura questo aspetto con grande attenzione. Non solo e non tanto con un’organizzazione più efficiente del processo produttivo, ma anche e soprattutto a scapito dell’alienazione e della tenuta fisica dei lavoratori spesso trattati come se fossero dei macchinari e non anzitutto degli esseri umani. Ma non si creda che il lavoro vivo subisca sempre passivamente questo disciplinamento! «Pretendono di usare il telefono mentre lavorano, la sera fanno i loro ‘summit’ tra di loro e impongono alle squadre più veloci di rallentare, e così via…», si lamenta un imprenditore agricolo. «Cerchiamo di non andare troppo veloce, di lavorare in modo tranquillo, per respirare un po’» afferma un bracciante. Lo scontro sul ritmo del lavoro è uno dei principali punti di frizione tra salariati e datori di lavoro, il rallentamento della produttività una possibile linea di forza di questa working class, ancora sconosciuto nella sua forza.

    Ai padroni poco importa quanti chilometri percorrono in bicicletta per presentarsi sul campo o se non hanno un posto dove dormire. L’importante è che le preziose bacche non restino sulle piante e giungano in fretta sui mercati. Anche in questo caso però può succedere che i “mediatori” si offrano per risolvere un problema reale garantendo il trasporto o, meno frequentemente, un posto letto (a carico del lavoratore).

    In questo primo scorcio di stagione, le cosiddette accoglienze, coordinate dalla Prefettura di Cuneo (i containers e la casa del cimitero del comune di Saluzzo per circa 230 posti letto) e gestite da una cooperativa, sono in ampissima misura mantenute chiuse. Può sembrare una scelta paradossale visto che, in assenza di alternative, una quota di lavoratori e aspiranti lavoratori, tra i 25 e i 100, è costretta ad accamparsi nei giardini pubblici del Parco Gullino, da qualche anno diventato luogo di approdo e di socialità, sorvegliato giorno e soprattutto notte dalle forze dell’ordine.

    In realtà dietro questa scelta politica ben precisa una logica c’è, per quanto perversa e cinica essa sia. La motivazione ufficiale, buona da sbandierare sulla stampa locale, è che i Comuni aderenti al progetto di accoglienza, ‘al modello Saluzzo’ (sic!), sono tarati sull’inizio della raccolta delle pesche nella seconda metà di luglio e non sono pronti per aprire prima. Storie. La motivazione reale ha invece a che vedere con il timore delle amministrazioni di creare un fattore di attrazione che susciti un’eccedenza di proletari razzializzati presenti sul territorio, persone non gradite se non in quanto risorse produttive immediatamente impiegate nella fabbrica agricola. Si basa inoltre sulle “prenotazioni” di posti letto da parte di alcuni imprenditori per chi più avanti avrà un contratto per tutta la stagione.
    Va da sé che chi non ha un contratto non può accedere alle accoglienze.

    La fantasia governamentale è di disporre just-in-time, né prima né dopo i periodi delle raccolte, della giusta quota di forza-lavoro, né troppa né troppo poca.

    Ormai non c’è più soluzione di continuità tra mirtilli, albicocche, pesche e mele ma quantità diverse di frutta da raccogliere e quindi diverso numero di braccia da impiegare. Tutto chiaro, gli imprenditori e le organizzazioni che li rappresentano conoscono benissimo le dinamiche del mercato del lavoro bracciantile che attraverseranno l’intera stagione fino all’autunno inoltrato.

    https://www.meltingpot.org/2023/07/blueberries-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi

    #Italie #Saluzzo #myrtilles #agriculture #exploitation #petits_fruits #migrations #travail #Pinerolo #main-d'oeuvre #exportation #industrie_agro-alimentaire #caporalato #hébergement #logement #SDF #sans-abris #Parco_Gullino #modello_Saluzzo #modèle_Saluzzo #fruits #récolte #récolte_de_fruits

    • #Golden_Delicious. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

      La seconda parte di queste cronache del bracciantato saluzzese è riferita alla raccolta delle mele che è in pieno svolgimento.

      Quando, a Saluzzo e dintorni, si parla di lavoro migrante in agricoltura, in particolare di bracciantato africano, generalmente si finisce per parlare di accoglienza.

      Se, da un lato, viene millantata la bontà del ‘modello Saluzzo’ e delle cosiddette accoglienze diffuse e in azienda, dall’altra parte viene giustamente fatta notare la contraddizione degli insediamenti informali, simboleggiata dalla situazione al Parco Gullino 1. L’impressione, tuttavia, è che la condizione di chi dorme o ha dormito al parco venga generalizzata in modo problematico, prendendo uno specifico spaccato di realtà per il tutto. Senza voler minimizzare l’importanza della questione abitativa, che peraltro è molto più di ampia portata e andrebbe esaminata oltre la dialettica tra insediamenti informali e accoglienze, crediamo sia doveroso parlare anche e soprattutto di lavoro. Perché in fondo le persone a Saluzzo – tutte, dalla prima all’ultima – vengono per lavorare.

      «Quest’anno le mele cuneesi, pur a fronte di un lieve calo produttivo dovuto all’andamento climatico, sono contraddistinte da una qualità estetica e organolettica ovunque buona. E’ quanto evidenzia Coldiretti Cuneo in occasione dell’avvio della campagna di raccolta che si apre con buone prospettive commerciali…

      Le operazioni di raccolta sono iniziate per le mele estive mentre tra fine mese e inizio settembre si passerà alle varietà del gruppo Renetta, dopodiché sarà la volta delle mele a maturazione intermedia dei gruppi varietali Golden Delicious e Red delicious; la campagna di raccolta continuerà fino a dicembre con i gruppi varietali a maturazione tardiva.

      … La Granda, che vanta una produzione di eccellenza a marchio IGP, la Mela Rossa Cuneo, ha conosciuto negli ultimi anni una progressiva espansione degli impianti di melo, con oltre 2000 aziende frutticole coinvolte e una superficie dedicata di quasi 6000 ettari (+ 21% negli ultimi 5 anni), pari all’85% della superficie piemontese coltivata a melo». (Comunicato Stampa Coldiretti, 25 agosto 2023)

      Il problema principale è che la manodopera scarseggia.

      «In provincia di Cuneo, nel 2022, sono state 3232 le aziende assuntrici di manodopera agricola e 13200 i dipendenti in agricoltura , a fronte di 24844 pratiche di assunzione, perché ci sono dei lavoratori che, per via della stagionalità delle operazioni nel settore, hanno lavorato in più aziende…

      L’agricoltura garantisce sempre più occupazione per l’intero anno o una larga parte di questo ma la carenza di manodopera base e specialistica ormai è una realtà; le cause sono diverse ma occorre lavorare per fare diventare più attrattivo il lavoro in agricoltura, specie nei confronti dei giovani. Oggi la manodopera extracomunitaria è sempre più indispensabile ma bisogna semplificare gli iter di rilascio dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato, che a volte sono un ostacolo nel fidelizzare i lavoratori stranieri rispetto ad altri paesi europei. In ultimo il costo del lavoro, che incide in maniera eccessiva sulle aziende agricole…Servono urgentemente interventi decontributivi. – lancia l’allarme Confagricoltura Cuneo – Oggi la difficoltà maggiore per le aziende è reperire manodopera ma i tempi di lavorazione in agricoltura non sono decisi dagli imprenditori bensì dalla natura. Lavoratori italiani non se ne trovano più ma calano anche i lavoratori neocomunitari e per gli extra UE permangono molte incertezze legate al decreto Flussi e ai tempi di rilascio dei visti di ingresso… Per le aziende agricole assumere manodopera sta diventando sempre più una corsa ad ostacoli con più regole, contributi e sanzioni». (Comunicato Confagricoltura Cuneo, luglio 2023)

      Ovviamente nessuno parla delle condizioni di lavoro e di salario. Altro che rendere appetibile il lavoro in agricoltura!

      Qual è dunque la cifra costitutiva del lavoro salariato in agricoltura (e forse non solo in agricoltura) nel Saluzzese (e forse non solo nel Saluzzese)?

      Crediamo di poter rispondere, senza timore di smentita, il surplus extra-legale di sfruttamento della forza-lavoro, ovvero la mancata corresponsione di una significativa porzione di salario. Inutile e controproducente utilizzare mezzi termini: si tratta di un vero e proprio furto, perpetrato con la massima naturalezza e serenità dagli imprenditori agricoli in un clima di generale impunità e accondiscendenza. Tanto più quando il lavoratore è straniero ed è strutturalmente più vulnerabile a causa del ricatto del permesso di soggiorno, tanto più quando non conosce abbastanza la lingua italiana ed è inconsapevole dei suoi diritti, tanto più quando ha a disposizione poche opportunità di impiego alternative.

      Non serve essere dei marxisti ortodossi per condividere che la ricchezza è prodotta dal lavoro degli operai ma appropriata dai possessori dei mezzi di produzione. Oggi, in un’epoca dominata dall’egemonia del pensiero capitalistico, questo pilastro non è forse più così in in evidenza, eppure il meccanismo è sempre quello. A partire dal caso del distretto della frutta del Saluzzese, vogliamo sottolineare come i padroni di oggi, oltre al plusvalore frutto dello sfruttamento legalizzato, si avvalgano di tutta una serie di tecniche extra-legali per garantirsi l’accaparramento di un’eccedenza di ricchezza.

      È sconcertante constatare come agli operai africani impiegati nel distretto della frutta non sia praticamente mai corrisposta la retribuzione che spetterebbe loro da contratto, che è comunque vergognosamente bassa rispetto alle condizioni generali di un lavoro del genere, duro e precario per definizione.

      La stragrande maggioranza dei braccianti dichiara infatti di lavorare circa dieci ore al giorno, durante le fasi intense di raccolta anche la domenica. Secondo il Contratto Collettivo Nazionale degli Operai Agricoli e Florovivaisti, dopo le 6.30 ore di lavoro giornaliere (39 ore settimanali su 5 giorni) le ore svolte sono da considerarsi straordinari, e la maggiorazione per ogni ora di straordinario è pari al 30% e per i festivi pari al 60%. I sindacati coi quali abbiamo interloquito ci hanno detto di non avere quasi mai visto una busta paga contenente degli straordinari, mentre i lavoratori di non avere mai ricevuto ‘fuori busta’ paghe orarie superiori alla retribuzione oraria pattuita. Insomma, sebbene lavorare nei campi roventi d’estate e gelidi d’inverno sia già di per sé un lavoro duro e logorante, semplicemente il lavoro straordinario (che è la norma) non è riconosciuto, come se non esistesse tout court. 50/60 euro a giornata devono bastare.

      Un altro aspetto del furto di salario consiste nell’approvvigionamento del materiale di lavoro. Per legge, grazie ai risultati delle lotte del passato che l’hanno imposto anche sul piano legale, il datore di lavoro è tenuto a fornire al dipendente tutti i dispositivi di sicurezza di cui necessita per svolgere le mansioni richieste da contratto. Bene, è sufficiente farsi un giro alla Caritas, oppure al parco Gulino la domenica, per rendersi immediatamente conto di come ciò non avvenga e i lavoratori debbano procurarsi autonomamente i dispositivi di protezione (scarpe anti-infortunistica, guanti, etc.), altrimenti non vengono assunti.

      Se poi guardiamo oltre i picchi della raccolta stagionale e ci concentriamo sui non pochi operai agricoli africani che riescono ad ottenere contratti più lunghi, che magari si estendono sino a dicembre, anche qui si vedrà come raramente il lavoro è pagato il giusto prezzo. Pur svolgendo mansioni qualificate come ad esempio il diradamento o la potatura, spesso l’inquadramento salariale è quello del raccoglitore, a cui corrisponde ça va sans dire un salario inferiore.

      E si potrebbe andare avanti, e più avanti si va più si possono notare comunanze tra la condizione dei braccianti africani e quella di tanti lavoratori, in altri settori, stranieri ma anche italiani.

      I lavoratori africani nel Saluzzese accettano tutto ciò passivamente?

      No, specialmente oggi che il problema del contesto italiano (almeno nel nord del paese) sembra essere meno l’assenza di impiego e più il lavoro povero. La principale manifestazione di contropotere operaio è infatti l’atteggiamento iper-utilitaristico con cui si affrontano i padroni: “non mi paghi in modo soddisfacente, prendo e me ne vado. Immediatamente. Tanto riesco a trovare altro“. Non è sempre stato così, non è detto che sarà sempre così: in alcuni momenti l’offerta di lavoro era così ridotta che un lavoro, per quanto sfruttato e indegno, bisognava tenerselo stretto, perché serviva per mangiare, perché serviva per i documenti.

      Esistono poi molteplici linee di resistenza spontanea che agiscono sotterraneamente, di cui si viene a conoscenza solo creando un rapporto di fiducia e di ascolto reale con i lavoratori.

      Per esempio, la contrattazione informale sulle giornate di lavoro da segnare effettivamente in busta paga, almeno quel tot per raggiungere la soglia necessaria alla disoccupazione agricola, strumento peculiare per garantire continuità reddittuale nei mesi di inattività forzata. Il lavoro grigio, infatti, molto più che la qualità della frutta prodotta nelle piantagioni, è il vero marchio di fabbrica del distretto della frutta del Saluzzese.

      In zona è perfettamente noto a tutti, organi di controllo compresi, che le giornate di lavoro segnate ai braccianti non coincidono con quelle effettivamente svolte. Sebbene le situazioni varino di azienda in azienda, ipotizziamo che le giornate segnate siano meno della metà di quelle svolte. Un grande, enorme risparmio per le tasche degli imprenditori. Per rendersi conto dell’enorme volume di attività lavorativa non contabilizzato – quindi dei soldi risparmiati – sarebbe sufficiente disporre dei dati relativi alle giornate di lavoro necessarie in rapporto alla superficie di terreno coltivato e incrociarlo con le giornate documentate, ma guarda a caso questi dati non sono disponibili e custoditi gelosamente dagli organi di controllo e di rappresentanza delle aziende. (Dati che peraltro sarebbero estremamente utili anche per la programmazione della gestione abitativa della forza-lavoro stagionale, anziché agitare il solito spettro degli insediamenti informali)

      Sorvoliamo sui contributi non versati e sul conseguente mancato introito nelle casse dello Stato, perché il discorso sulla tassazione è lungo e complesso,ma guardiamo le cose dal punto di vista, anche egoistico se vogliamo, ma maledettamente materiale, del lavoratore che si spacca la schiena in campagna. Perché se il padrone risparmia, risparmia solo lui e l’operaio non ne trae alcun beneficio?

      Purtroppo però le linee di resistenza spontanea individuale faticano a comporsi in una forza collettiva organizzata. L’azione sindacale ha fatto pochi passi in avanti e resta schiacciata sull’azione legale piuttosto che sulla pratica di lotta diretta, con il risultato di non fare mai esperienza di un fronte comune ma di vincere o perdere in solitudine.

      Occorrerebbe infine guardare l’evidente diminuzione degli arrivi di braccianti in cerca di occupazione da un punto di vista diverso, diminuzione che si sovrappone e si sostituisce al ricambio pressoché totale di persone che arrivano a Saluzzo stagionalmente già registrato negli anni passati. Anche questo fenomeno andrebbe considerato infatti come una forma di “resistenza”, confermato dai continui appelli per mancanza di manodopera lanciati dalle organizzazioni datoriali e dal veloce passaggio ad altri settori produttivi di molti lavoratori africani che si sono stabiliti nel saluzzese.

      Sarebbe interessante approfondire che cosa intendono i padroni quando parlano di “fidelizzazione” dei propri dipendenti…

      Siamo perfettamente consapevoli che nella congiuntura attuale molti piccoli imprenditori agricoli stiano faticando, schiacciati dalla concorrenza del mercato internazionale, dal potere della grande distribuzione, dall’interdipendenza della distribuzione logistica.

      Alcune aziende sono a rischio fallimento, altre vengono assorbite dai pesci più grandi… ma è l’agriculutral squeeze, baby! Che altrove ha già comportato un cambio di scala nella dimensione aziendale. D’altro canto, è inaccettabile che l’insostenibilità della produzione agricola contemporanea per il piccolo imprenditore sia scaricata sui lavoratori salariati, non a caso persone razzializzate, che l’auto-sfruttamento dei datori di lavoro sia proiettato sui dipendenti. Già, perché a quanto pare il grado di sfruttamento nelle piccole aziende è ancora maggiore che nelle grandi. Ma se, anziché allearsi con le forze vive del lavoro per cambiare le regole del gioco, i contadini compartecipano al sistema di sfruttamento generalizzato, potendo sopravvivere solo grazie allo sfruttamento dell’ultimo anello della catena, allora la scelta di campo è stata fatta.

      https://www.meltingpot.org/2023/09/golden-delicious-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi
      #pommes

    • L’ultimo kiwi. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

      Il lavoro stagionale nel distretto frutticolo di Saluzzo, tradizionalmente, si chiude con la raccolta dei kiwi nella seconda metà di novembre. Sei mesi sono trascorsi da quando i mirtilli, colorandosi di blu, avevano dato avvio alla stagione 2023.

      In realtà la produzione locale è notevolmente diminuita negli ultimi anni a causa della batteriosi e della cosiddetta “morìa” che hanno falcidiato ettari di frutteti, poi sostituiti da mirtilli e mele invernali ma anche in relazione a scelte imprenditoriali che hanno portato alla delocalizzazione delle piantagioni, verso il distretto di Latina in particolare. La raccolta, quindi, si concentra in poche giornate dai ritmi di lavoro massacranti, una corsa contro il tempo per sfruttare le ore di luce giornaliera che vanno diminuendo e anticipare le gelate precoci nella pianura ai piedi del Monviso.

      “L’Italia, con 320 mila tonnellate esportate nel 2021 in cinquanta paesi, per un fatturato di oltre 400 milioni di euro, è il principale produttore europeo di kiwi e il terzo nel mondo dopo Cina e Nuova Zelanda. – informa una accurata inchiesta condotta da IRPI Media pubblicata a marzo di quest’anno – La prima regione del nostro paese dove si coltiva la “bacca verde” è il Lazio. Globalmente, un terzo di tutti i kiwi commerciati nella grande distribuzione viene dalla multinazionale Zespri. Nata in Nuova Zelanda, oggi è leader nel settore e presente in sei paesi. Dalla provincia di Latina, arriva una buona parte della frutta venduta con il marchio Zespri (il 10,5%). Un mercato gigantesco, che solo in Italia conta quasi tremila ettari di campi, centinaia di produttori e migliaia di braccianti.” 4

      Anche sugli scaffali dei supermercati saluzzesi le varietà di kiwi sono vendute quasi tutte con il marchio Zespri: Green Premium, origine Italia confezionato in Lombardia, Sun Gold origine Nuova Zelanda e Hayward origine Grecia confezionati chissà dove.

      Alcune aziende locali producono in provincia di Latina i loro kiwi a polpa gialla (i Sun Gold) di cui Zespri detiene il brevetto e l’esclusiva della commercializzazione.

      Un colosso a livello internazionale è il Gruppo Rivoira che controlla Kiwi Uno S.p.A. con sede a Verzuolo, pochi chilometri da Saluzzo: “Da sempre in stretta relazione con il Cile, oggi grazie all’integrazione tra produzione italiana e cilena, abbiamo modo di essere sui mercati europei e d’oltre mare per dodici mesi all’anno” si legge sul sito dell’azienda. Rivoira controlla, tra le altre, anche un’azienda con sede a Cisterna di Latina, la capitale del kiwi italico, che vanta 110 ettari coltivati a kiwi, varietà hi-tech che hanno conquistato una loro nicchia di mercato.

      Ma restiamo a Saluzzo… Nell’annata in cui i lavoratori delle campagne non hanno più fatto notizia, scomparsi dalle cronache locali e nazionali, non più oggetto di studi eruditi in relazione a presunte emergenze ma sempre ben presenti in carne, ossa e muscoli tra i filari a reggere l’economia di questo angolo benestante di nord-ovest, la stagione del lavoro bracciantile si è chiusa mestamente nell’aula di un tribunale. A Cuneo il 23 novembre scorso, infatti, si è svolta l’udienza preliminare del processo a carico del datore di lavoro di Moussa Dembele, maliano, deceduto a Revello il 10 luglio 2022.

      Moussa lavorava in nero (“senza regolare contratto” secondo la fredda dicitura burocratica) presso un’azienda agricola dedita all’allevamento dei bovini.

      L’allevamento di bovini e suini è l’altro grande business della provincia di Cuneo da cui deriva la coltivazione intensiva del mais che, insieme a frutteti e capannoni di cemento, domina il paesaggio della pianura saluzzese.

      Nel settore zootecnico le condizioni di lavoro riescono ad essere forse persino peggiori che in agricoltura. Così almeno sostengono alcuni ex-lavoratori, i quali, stando a quanto ci dicono, ricordano il mestiere con un certo orrore. «Se lo fai troppo a lungo», ci racconta Ousmane, «diventi un vitello anche tu! È massacrante, fisicamente ma soprattutto mentalmente: lavori tutti i giorni, a orario spezzato, da solo, nell’aria pesante che puzza di animale e di merda. Per una paga nemmeno buona devi completamente rinunciare a farti una tua vita personale, eppure il padrone non è mai, mai contento…» Nell’invisibilità garantita dalle stalle diffuse nel profondo della campagna industrializzata il rapporto di forza tra l’azienda e il dipendente, che spesso lavora individualmente, è tutto a favore della prima.

      Quella domenica Moussa trasportava pesanti vasche di plastica colme di mangime insilato per l’alimentazione delle mucche, riempite di volta in volta al cassone di un inquietante macchinario denominato “desilatore portato”, attrezzatura agricola attaccata alla forza motrice di un trattore. Nella richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Cuneo, tale attrezzatura viene definita “non idonea ai fini della sicurezza”, priva cioè delle necessarie protezioni, modificata per facilitare le operazioni.

      Giunto ormai al termine del lavoro affidatogli, il manovale si è sporto oltre la sponda del cassone per spingere con una scopa i resti dell’insilato verso la coclea, rimanendo incastrato e schiacciato da un componente del macchinario in funzione. Questa la ricostruzione ufficiale. Moussa è deceduto per “arresto cardiorespiratorio a causa di shock midollare e ipovolemico”, in pratica è morto sul colpo con l’osso del collo fracassato nell’impatto.

      La storia di Moussa è simile a quella di tanti lavoratori e lavoratrici delle campagne, che accettano di lavorare in nero perché non sono in regola con il permesso di soggiorno e non hanno alternative oppure per integrare i contratti a chiamata che non garantiscono un salario sufficiente per sé e per poter aiutare le proprie famiglie nei paesi d’origine.

      «Si trovava in Italia dal 2013 e pare che lavorasse nell’azienda da circa sei mesi. Da più di un anno stava aspettando il rinnovo del permesso di soggiorno… Oltre alla moglie e alle due figlie, Moussa ha lasciato il fratello Makan, di due anni più giovane, che vive a Gambasca e lavora per un’azienda agricola del paese. I due erano arrivati in Italia in momenti diversi. E’ stato lui ad accompagnare la salma in Mali». (L’eco del Chisone, agosto 2023)

      Alla notizia della morte di Moussa un pugno di braccianti aveva manifestato spontaneamente dolore e rabbia per le strade di Saluzzo.

      In generale si dice che a Saluzzo, “a differenza del Sud” – il Sud preso come termine di paragone sempre negativo, il Sud diverso e lontano, il Sud selvaggio e criminale, il Sud che nel Piemonte profondo non ha mai smesso di venire razzializzato – il lavoro nero in agricoltura sia tutto sommato poco diffuso, un’eccezione e non la regola. Come abbiamo scritto qui, la cifra costitutiva degli attuali rapporti lavorativi locali è in effetti il lavoro ‘grigio’, cioè lavoro ‘nero a metà’ per dirla con un grande cantore del Meridione quale Pino Daniele. Tuttavia, a ben vedere, specialmente durante i picchi della raccolta, non sono affatto pochi i raccoglitori non contrattualizzati impiegati anche nel saluzzese.

      Abbiamo persino sentito dire che ci sono datori di lavoro che in quei momenti quando ci si gioca il raccolto di un anno intero, incuranti di un pericolo evidentemente non così temibile, cercano lavoratori disponibili a lavorare in nero, “perché per così pochi giorni, ma che senso ha fare un contratto?” Mera noia burocratica o cosciente risparmio sul costo del lavoro? Chissà, intanto il bracciante ha qualche giorno in meno per il calcolo della disoccupazione agricola e zero tutele dei propri diritti… Agli unici lavoratori che in un certo senso conviene, per il paradossale effetto della violenza strutturale sancita dalla legge Bossi-Fini, sono le persone, come Moussa, sprovviste di regolare permesso di soggiorno a causa delle estenuanti lungaggini burocratiche.

      Per una drammatica coincidenza, ma per chi conosce bene le condizioni di vita dei braccianti non è affatto una sorpresa, poco distante dal luogo del decesso di Moussa, nelle campagne di Revello, grosso comune agricolo dove lavorano centinaia di stagionali e di cui si parla spesso in quanto l’unico del distretto della frutta a non aver aderito al protocollo di accoglienza della Prefettura, nella primavera di quest’anno è morto Dahaba, 40 anni, anche lui maliano. Ma la notizia è passata praticamente sotto silenzio.

      L’uomo ha perso la vita la notte di Pasqua a causa delle esalazioni del monossido di carbonio: per riscaldarsi aveva acceso, nella sua stanza, un braciere ricavato da un secchio di metallo. Ad aprile fa ancora freddo da queste parti, i camini delle cascine fumano e le gelate notturne rischiano di compromettere i raccolti, è questa la preoccupazione maggiore.

      Dahaba era arrivato da Rosarno dove aveva raccolto le arance e si era appena recato in Questura a ritirare il suo permesso di soggiorno per “attesa occupazione”, il documento che viene rilasciato quando il titolare di un permesso per lavoro subordinato ne richiede il rinnovo ma non ha, al momento, un contratto e delle buste paga da esibire. A Revello abitava in un alloggio messo a disposizione dal suo datore di lavoro, a quanto pare non riscaldato adeguatamente. Il martedì seguente il giorno di pasquetta, lo stesso datore di lavoro, non vedendolo arrivare, è andato a cercarlo e ha trovato il cadavere.

      L’uomo era poco conosciuto nella numerosa comunità maliana che vive nel saluzzese.

      L’episodio dovrebbe suscitare una riflessione seria sulle condizioni di vita dei braccianti africani, sul pendolarismo forzato nelle campagne d’Italia alla ricerca di un lavoro, sulla precarietà esistenziale estrema, sulla solitudine di un corpo senza vita rinvenuto solo perché non si è presentato sul posto di lavoro.

      Per non parlare del problema della casa o della tanto invocata accoglienza in azienda, in questi anni considerata la panacea di tutti i mali ma niente affatto sinonimo di dignitosa qualità di vita. L’accoglienza in cascina, anche quando fatta nel migliore dei modi – e non è certo sempre il caso – è infatti problematica sotto molteplici punti di vista: rappresenta un ulteriore ricatto per il lavoratore, il cui datore di lavoro e il padrone di casa sono la stessa persona; è un fattore di isolamento spaziale che ha forti ripercussioni sulla socialità; impedisce una chiara separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro; e molto altro. Nel peggiore dei casi, si può dire che rievochi l’organizzazione sociale totale della piantagione coloniale…

      Moussa e Dakar chiedono di non essere dimenticati, di non essere considerati soltanto le note stonate di una narrazione dei fatti appiattita sul paternalismo padronale, ossessionata dal decoro urbano e dalla qualità delle eccellenze del territorio agricolo circostante. La morte che spesso attende in agguato chi lavora, in campagna e altrove, non è una tragica fatalità ma l’espressione più estrema di una condizione di ‘normale’ sfruttamento, che sistematicamente, a gradi variabili, produce sofferenza e afflizioni, fisiche e mentali.

      https://www.meltingpot.org/2023/12/lultimo-kiwi-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi

      #kiwi #kiwis