• Gli utili record dei padroni del cibo a scapito della sicurezza alimentare

    I cinque principali #trader di prodotti agricoli a livello mondiale hanno fatto registrare utili e profitti record tra il 2021 e il 2023. Mentre il numero di persone che soffrono la fame ha toccato i 783 milioni. Il report “Hungry for profits” della Ong SOMO individua le cause principali di questa situazione. E propone una tassa sui loro extra-profitti

    Tra il 2021 e il 2022 -anni in cui il numero di persone che soffrono la fame nel mondo è tornato ad aumentare, così come i prezzi dei beni agricoli spinti verso l’alto da inflazione e speculazione finanziaria- i profitti dei primi cinque trader di materie prime agricole a livello globale sono schizzati verso l’alto.

    Nel 2022 le multinazionali riunite sotto l’acronimo Abccd (Archer-Daniels-Midland company, Cargill, Cofco e Louis Dreyfus Company) hanno comunicato ai propri stakeholder un aumento degli utili per il 2021 compreso tra il 75% e il 260% rispetto al 2016-2020. “Mentre nel 2022 i profitti netti sono raddoppiati o addirittura triplicati rispetto allo stesso periodo. In base ai rapporti finanziari trimestrali disponibili al pubblico, i profitti netti dei commercianti di materie prime agricole sono rimasti eccessivamente alti nei primi nove mesi del 2023”, si legge nel rapporto “Hungry for profits” curato dalla Ong olandese Somo. Dati che fanno comprendere meglio quali sono i fattori che influenzano l’andamento del costo dei prodotti agricoli e -soprattutto- chi sono i reali vincitori dell’attuale sistema agroindustriale.

    La statunitense Cargill è la prima tra i Big five in termini di ricavi (165 miliardi di dollari nel 2022) e utili (6,6 miliardi), seguita dalla cinese Cofco (che nello stesso anno ha superato i 108 miliardi di dollari e i 3,3 miliardi di utili) e da Archer-Daniels-Midland company (Adm, con 101 miliardi di ricavi e 4,3 miliardi di utili). Nello stesso anno il numero di persone che soffrono la fame ha raggiunto i 783 milioni (122 milioni in più rispetto al 2019) e i prezzi dei prodotti alimentari hanno continuato a crescere, spinti dall’inflazione.

    Complessivamente questi cinque colossi detengono una posizione di oligopolio sul mercato globale dei prodotti di base come i cereali (di cui controllano una quota che va dal 70-90%), soia e zucchero. “Questo alto grado di concentrazione e il conseguente controllo sulle più importanti materie prime agricole del mondo, conferisce loro un enorme potere contrattuale per plasmare il panorama alimentare globale”, spiega Vincent Kiezebrink, ricercatore di Somo e autore della ricerca.

    La posizione dominante che di fatto ricoprono sul mercato globale rappresenta uno dei fattori che ha permesso agli Abccd di registrare profitti e utili da record negli ultimi tre anni. “La sola Cargill è responsabile della movimentazione del 25% di tutti i cereali e i semi di soia prodotti dagli agricoltori statunitensi -si legge nel report-. Anche il principale mercato agricolo per l’approvvigionamento di soia, l’America Latina, è dominato dagli Abccd: oltre la metà di tutte le esportazioni di questo prodotto passano da loro”.

    La situazione non cambia se si guarda a quello che succede in Europa: l’olandese Bunge e la statunitense Cargill da sole sono responsabili di oltre il 30% delle esportazioni di soia dal Brasile verso l’Unione europea. Bunge, in particolare, è il principale fornitore di soia per l’industria della carne dell’Ue con una chiara posizione di monopolio in alcuni mercati come il Portogallo, dove controlla il 90-100% delle vendite di olio di soia grezzo.

    Questa concentrazione è stata costruita nel tempo attraverso fusioni e acquisizioni che non sono state limitate dalle autorità per la concorrenza: quelle europee, ad esempio, hanno valutato un totale di 60 fusioni relative alle società Abccd dal 1990 a oggi. “Tutte le operazioni, tranne una, sono state autorizzate incondizionatamente -si legge nel report-. La prossima grande fusione in arrivo è quella tra la canadese Viterra (specializzata nella produzione e nel commercio di cereali, ndr) e Bunge. Un’operazione senza precedenti nel settore agricolo globale e che avvicinerà la nuova società alle dimensioni di Adm e Cargill”.

    Un secondo elemento che ha permesso a queste Big five di accumulare ricavi senza precedenti in questi anni è poi la loro capacità di influenzare la disponibilità dei beni alimentari attraverso un’enorme potenzialità di stoccaggio. “Il rapporto speciale 2022 del Gruppo internazionale di esperti sui sistemi alimentari sostenibili (Ipes) ha evidenziato che i trader conservano notevoli riserve di cereali -si legge nel report-. E sono incentivati ‘a trattenere le scorte fino a quando i prezzi vengono percepiti come massimi’”. Per avere un’idea delle quantità di materie prime in ballo, basti pensare che la capacità di stoccaggio combinata di Adm, Bunge e Cofco, è pari a circa 68 milioni di tonnellate, è simile al consumo annuo di grano di Stati Uniti, Turchia e Regno Unito messi assieme.

    Terzo e ultimo elemento individuato nel report è il fatto che queste società sono integrate verticalmente e hanno il pieno controllo della filiera produttiva dal campo alla tavola: forniscono cioè agli agricoltori prestiti, sementi, fertilizzanti e pesticidi; immagazzinano, trasformano e trasportano i prodotti alimentari.

    A fronte di questa situazione, Somo ha invitato la Commissione europea a intervenire per porre un freno alla crescente monopolizzazione del comparto: “L’indagine dovrebbe concentrarsi sul potere che può essere esercitato nei confronti dei fornitori per comprimere i loro margini di profitto -concludono i ricercatori-. È preoccupante che alle multinazionali sia stato permesso di triplicare i loro profitti facendo salire i prezzi degli alimenti, mentre le persone in tutto il mondo soffrono di una crisi del costo della vita e i più poveri sono alla fame”. Per questo motivo l’organizzazione suggerisce di applicare un’imposta sugli extra-profitti delle società Abccd che, con un’ipotetica aliquota fiscale del 33%. A fronte di utili che hanno toccato i 5,7 miliardi di dollari nel 2021 e i 6,4 miliardi nel 2022, permetterebbe di generare un gettito fiscale pari rispettivamente a 1,8 e 2 miliardi di dollari.

    https://altreconomia.it/gli-utili-record-dei-padroni-del-cibo-a-scapito-della-sicurezza-aliment
    #agriculture #business #profits #industrie_agro-alimentaire #sécurité_alimentaire #inflation #Archer-Daniels-Midland_company #Cargill #Cofco #Louis_Dreyfus_Company (#Abccd) #oligopole #céréales #soja #sucre

  • Dr. Serge Zaka (Dr. Zarge) on twitter : « [Thread] Un évènement spectaculaire est en cours au #Maroc, dont l’agriculture est déjà terrassée par une #sécheresse historique. En plein mois de février, la #température atteint 35.7°C à Agadir. A minuit, il faisait encore 30.5°C à Sidi Ifni. Rappelons qu’en août dernier, Agadir… https://t.co/Ji30Xronwn » / X
    https://twitter.com/SergeZaka/status/1757823900052861035

    Dr. Serge Zaka (Dr. Zarge)
    @SergeZaka
    [Thread] Un évènement spectaculaire est en cours au Maroc, dont l’agriculture est déjà terrassée par une sécheresse historique. En plein mois de février, la température atteint 35.7°C à Agadir. A minuit, il faisait encore 30.5°C à Sidi Ifni. Rappelons qu’en août dernier, Agadir avait explosé tous les records avec 50.4°C.
    Quelques conséquences agroclimatiques, à dérouler
    [1/3]

    [2/3] D’après la rapport du GIEC, la désertification menace progressivement les zones agricoles du Maroc. Ces six dernières années de sécheresse en sont bien révélatrices. Le Maroc, tout comme l’Espagne du sud, ne pourront plus être les vergers de l’Europe d’ici 2050.
    https://pbs.twimg.com/media/GGUKTxlXwAAQQv-?format=jpg&name=large

    [3/3] En conséquence, le Maroc et l’Andalousie vont sortir progressivement de la biogéographie (aire de répartition des espèces) de nombreuses espèces agricoles entraînant la disparition de nombreuses filières agricoles.
    Comme par exemple ici pour l’olivier, qui devrait commencer à s’implanter plus au nord dont la France.

  • Sécheresse à Barcelone : après le déni, un réveil brutal
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2024/02/14/secheresse-a-barcelone-apres-le-deni-un-reveil-brutal_6216431_3244.html

    Le gouvernement catalan a jusqu’alors tout fait pour éviter un rationnement strict de l’eau, au risque de minimiser le problème. L’agglomération doit désormais prendre des mesures plus drastiques.

    #sécheresse #eau #pénurie #tourisme

    Un tout petit peu plus au sud, aussi :
    https://seenthis.net/messages/1041358

  • #Université, service public ou secteur productif ?

    L’#annonce d’une “vraie #révolution de l’Enseignement Supérieur et la Recherche” traduit le passage, organisé par un bloc hégémonique, d’un service public reposant sur des #carrières, des #programmes et des diplômes à l’imposition autoritaire d’un #modèle_productif, au détriment de la #profession.

    L’annonce d’une « #vraie_révolution » de l’Enseignement Supérieur et la Recherche (ESR) par Emmanuel Macron le 7 décembre, a pour objet, annonce-t-il, d’« ouvrir l’acte 2 de l’#autonomie et d’aller vers la #vraie_autonomie avec des vrais contrats pluriannuels où on a une #gouvernance qui est réformée » sans recours à la loi, avec un agenda sur dix-huit mois et sans modifications de la trajectoire budgétaire. Le président sera accompagné par un #Conseil_présidentiel_de_la_science, composé de scientifiques ayant tous les gages de reconnaissance, mais sans avoir de lien aux instances professionnelles élues des personnels concernés. Ce Conseil pilotera la mise en œuvre de cette « révolution », à savoir transformer les universités, en s’appuyant sur celles composant un bloc d’#excellence, et réduire le #CNRS en une #agence_de_moyen. Les composantes de cette grande transformation déjà engagée sont connues. Elle se fera sans, voire contre, la profession qui était auparavant centrale. Notre objet ici n’est ni de la commenter, ni d’en reprendre l’historique (Voir Charle 2021).

    Nous en proposons un éclairage mésoéconomique que ne perçoit ni la perspective macroéconomique qui pense à partir des agrégats, des valeurs d’ensemble ni l’analyse microéconomique qui part de l’agent et de son action individuelle. Penser en termes de mésoéconomie permet de qualifier d’autres logiques, d’autres organisations, et notamment de voir comment les dynamiques d’ensemble affectent sans déterminisme ce qui s’organise à l’échelle méso, et comment les actions d’acteurs structurent, elles aussi, les dynamiques méso.

    La transformation de la régulation administrée du #système_éducatif, dont nombre de règles perdurent, et l’émergence d’une #régulation_néolibérale de l’ESR, qui érode ces règles, procède par trois canaux : transformation du #travail et des modalités de construction des #carrières ; mise en #concurrence des établissements ; projection dans l’avenir du bloc hégémonique (i.e. les nouveaux managers). L’action de ces trois canaux forment une configuration nouvelle pour l’ESR qui devient un secteur de production, remodelant le système éducatif hier porté par l’État social. Il s’agissait de reproduire la population qualifiée sous l’égide de l’État. Aujourd’hui, nous sommes dans une nouvelle phase du #capitalisme, et cette reproduction est arrimée à l’accumulation du capital dans la perspective de #rentabilisation des #connaissances et de contrôle des professionnels qui l’assurent.

    Le couplage de l’évolution du système d’ESR avec la dynamique de l’#accumulation, constitue une nouvelle articulation avec le régime macro. Cela engendre toutefois des #contradictions majeures qui forment les conditions d’une #dégradation rapide de l’ESR.

    Co-construction historique du système éducatif français par les enseignants et l’État

    Depuis la Révolution française, le système éducatif français s’est déployé sur la base d’une régulation administrée, endogène, co-construite par le corps enseignant et l’État ; la profession en assumant de fait la charge déléguée par l’État (Musselin, 2022). Historiquement, elle a permis la croissance des niveaux d’éducation successifs par de la dépense publique (Michel, 2002). L’allongement historique de la scolarité (fig.1) a permis de façonner la force de travail, facteur décisif des gains de productivité au cœur de la croissance industrielle passée. L’éducation, et progressivement l’ESR, jouent un rôle structurant dans la reproduction de la force de travail et plus largement de la reproduction de la société - stratifications sociales incluses.

    À la fin des années 1960, l’expansion du secondaire se poursuit dans un contexte où la détention de diplômes devient un avantage pour s’insérer dans l’emploi. D’abord pour la bourgeoisie. La massification du supérieur intervient après les années 1980. C’est un phénomène décisif, visible dès les années 1970. Rapidement cela va télescoper une période d’austérité budgétaire. Au cours des années 2000, le pilotage de l’université, basé jusque-là sur l’ensemble du système éducatif et piloté par la profession (pour une version détaillée), s’est effacé au profit d’un pilotage pour et par la recherche, en lien étroit avec le régime d’accumulation financiarisé dans les pays de l’OCDE. Dans ce cadre, l’activité économique est orientée par l’extraction de la valeur financière, c’est à dire principalement par les marchés de capitaux et non par l’activité productive (Voir notamment Clévenot 2008).
    L’ESR : formation d’un secteur productif orienté par la recherche

    La #massification du supérieur rencontre rapidement plusieurs obstacles. Les effectifs étudiants progressent plus vite que ceux des encadrants (Piketty met à jour un graphique révélateur), ce qui entrave la qualité de la formation. La baisse du #taux_d’encadrement déclenche une phase de diminution de la dépense moyenne, car dans l’ESR le travail est un quasi-coût fixe ; avant que ce ne soit pour cette raison les statuts et donc la rémunération du travail qui soient visés. Ceci alors que pourtant il y a une corrélation étroite entre taux d’encadrement et #qualité_de_l’emploi. L’INSEE montre ainsi que le diplôme est un facteur d’amélioration de la productivité, alors que la productivité plonge en France (voir Aussilloux et al. (2020) et Guadalupe et al. 2022).

    Par ailleurs, la massification entraine une demande de différenciation de la part les classes dominantes qui perçoivent le #diplôme comme un des instruments de la reproduction stratifiée de la population. C’est ainsi qu’elles se détournent largement des filières et des établissements massifiés, qui n’assurent plus la fonction de « distinction » (voir le cas exemplaire des effectifs des #écoles_de_commerce et #grandes_écoles).

    Dans le même temps la dynamique de l’accumulation suppose une population formée par l’ESR (i.e. un niveau de diplomation croissant). Cela se traduit par l’insistance des entreprises à définir elles-mêmes les formations supérieures (i.e. à demander des salariés immédiatement aptes à une activité productive, spécialisés). En effet la connaissance, incorporée par les travailleurs, est devenue un actif stratégique majeur pour les entreprises.

    C’est là qu’apparaît une rupture dans l’ESR. Cette rupture est celle de la remise en cause d’un #service_public dont l’organisation est administrée, et dont le pouvoir sur les carrières des personnels, sur la définition des programmes et des diplômes, sur la direction des établissements etc. s’estompe, au profit d’une organisation qui revêt des formes d’un #secteur_productif.

    Depuis la #LRU (2007) puis la #LPR (2020) et la vague qui s’annonce, on peut identifier plusieurs lignes de #transformation, la #mise_en_concurrence conduisant à une adaptation des personnels et des établissements. Au premier titre se trouvent les instruments de #pilotage par la #performance et l’#évaluation. À cela s’ajoute la concurrence entre établissements pour l’#accès_aux_financements (type #Idex, #PIA etc.), aux meilleures candidatures étudiantes, aux #labels et la concurrence entre les personnels, pour l’accès aux #dotations (cf. agences de programmes, type #ANR, #ERC) et l’accès aux des postes de titulaires. Enfin le pouvoir accru des hiérarchies, s’exerce aux dépens de la #collégialité.

    La généralisation de l’évaluation et de la #sélection permanente s’opère au moyen d’#indicateurs permettant de classer. Gingras évoque une #Fièvre_de_l’évaluation, qui devient une référence définissant des #standards_de_qualité, utilisés pour distribuer des ressources réduites. Il y a là un instrument de #discipline agissant sur les #conduites_individuelles (voir Clémentine Gozlan). L’important mouvement de #fusion des universités est ainsi lié à la recherche d’un registre de performance déconnecté de l’activité courante de formation (être université de rang mondial ou d’université de recherche), cela condensé sous la menace du #classement_de_Shanghai, pourtant créé dans un tout autre but.

    La remise en question du caractère national des diplômes, revenant sur les compromis forgés dans le temps long entre les professions et l’État (Kouamé et al. 2023), quant à elle, assoit la mise en concurrence des établissements qui dépossède en retour la profession au profit des directions d’établissement.

    La dynamique de #mise_en_concurrence par les instruments transforme les carrières et la relation d’#emploi, qui reposaient sur une norme commune, administrée par des instances élues, non sans conflit. Cela fonctionne par des instruments, au sens de Lascoumes et Legalès, mais aussi parce que les acteurs les utilisent. Le discours du 7 décembre est éloquent à propos de la transformation des #statuts pour assurer le #pilotage_stratégique non par la profession mais par des directions d’établissements :

    "Et moi, je souhaite que les universités qui y sont prêtes et qui le veulent fassent des propositions les plus audacieuses et permettent de gérer la #ressource_humaine (…) la ministre m’a interdit de prononcer le mot statut. (…) Donc je n’ai pas dit qu’on allait réformer les statuts (…) moi, je vous invite très sincèrement, vous êtes beaucoup plus intelligents que moi, tous dans cette salle, à les changer vous-mêmes."

    La démarche est caractéristique du #new_management_public : une norme centrale formulée sur le registre non discutable d’une prétérition qui renvoie aux personnes concernées, celles-là même qui la refuse, l’injonction de s’amputer (Bechtold-Rognon & Lamarche, 2011).

    Une des clés est le transfert de gestion des personnels aux établissements alors autonomes : les carrières, mais aussi la #gouvernance, échappent progressivement aux instances professionnelles élues. Il y a un processus de mise aux normes du travail de recherche, chercheurs/chercheuses constituant une main d’œuvre qui est atypique en termes de formation, de types de production fortement marqués par l’incertitude, de difficulté à en évaluer la productivité en particulier à court terme. Ce processus est un marqueur de la transformation qui opère, à savoir, un processus de transformation en un secteur. La #pénurie de moyen public est un puissant levier pour que les directions d’établissement acceptent les #règles_dérogatoires (cf. nouveaux contrats de non titulaires ainsi que les rapports qui ont proposé de spécialiser voire de moduler des services).

    On a pu observer depuis la LRU et de façon active depuis la LPR, à la #destruction régulière du #compromis_social noué entre l’État social et le monde enseignant. La perte spectaculaire de #pouvoir_d’achat des universitaires, qui remonte plus loin historiquement, en est l’un des signaux de fond. Il sera progressivement articulé avec l’éclatement de la relation d’emploi (diminution de la part de l’emploi sous statut, #dévalorisation_du_travail etc.).

    Arrimer l’ESR au #régime_d’accumulation, une visée utilitariste

    L’État est un acteur essentiel dans l’émergence de la production de connaissance, hier comme commun, désormais comme résultat, ou produit, d’un secteur productif. En dérégulant l’ESR, le principal appareil de cette production, l’État délaisse la priorité accordée à la montée de la qualification de la population active, au profit d’un #pilotage_par_la_recherche. Ce faisant, il radicalise des dualités anciennes entre système éducatif pour l’élite et pour la masse, entre recherche utile à l’industrie et recherche vue comme activité intellectuelle (cf. la place des SHS), etc.

    La croissance des effectifs étudiants sur une période assez longue, s’est faite à moyens constants avec des effectifs titulaires qui ne permettent pas de maintenir la qualité du travail de formation (cf. figure 2). L’existence de gisements de productivité supposés, à savoir d’une partie de temps de travail des enseignants-chercheurs inutilisé, a conduit à une pénurie de poste et à une recomposition de l’emploi : alourdissement des tâches des personnels statutaires pour un #temps_de_travail identique et développement de l’#emploi_hors_statut. Carpentier & Picard ont récemment montré, qu’en France comme ailleurs, le recours au #précariat s’est généralisé, participant par ce fait même à l’effritement du #corps_professionnel qui n’a plus été à même d’assurer ni sa reproduction ni ses missions de formation.

    C’est le résultat de l’évolution longue. L’#enseignement est la part délaissée, et les étudiants et étudiantes ne sont plus au cœur des #politiques_universitaires : ni par la #dotation accordée par étudiant, ni pour ce qui structure la carrière des universitaires (rythmée par des enjeux de recherche), et encore moins pour les dotations complémentaires (associées à une excellence en recherche). Ce mouvement se met toutefois en œuvre en dehors de la formation des élites qui passent en France majoritairement par les grandes écoles (Charle et Soulié, 2015). Dès lors que les étudiants cessaient d’être le principe organisateur de l’ESR dans les universités, la #recherche pouvait s’y substituer. Cela intervient avec une nouvelle convention de qualité de la recherche. La mise en œuvre de ce principe concurrentiel, initialement limité au financement sur projets, a été élargie à la régulation des carrières.

    La connaissance, et de façon concrète le niveau de diplôme des salariés, est devenu une clé de la compétitivité, voire, pour les gouvernements, de la perspective de croissance. Alors que le travail de recherche tend à devenir une compétence générale du travail qualifié, son rôle croissant dans le régime d’accumulation pousse à la transformation du rapport social de travail de l’ESR.

    C’est à partir du système d’#innovation, en ce que la recherche permet de produire des actifs de production, que l’appariement entre recherche et profit participe d’une dynamique nouvelle du régime d’accumulation.

    Cette dynamique est pilotée par l’évolution jointe du #capitalisme_financiarisé (primauté du profit actionnarial sur le profit industriel) et du capitalisme intensif en connaissance. Les profits futurs des entreprises, incertains, sont liés d’une part aux investissements présents, dont le coût élevé repose sur la financiarisation tout en l’accélérant, et d’autre part au travail de recherche, dont le contrôle échappe au régime historique de croissance de la productivité. La diffusion des compétences du travail de recherche, avec la montée des qualifications des travailleurs, et l’accumulation de connaissances sur lequel il repose, deviennent primordiaux, faisant surgir la transformation du contenu du travail par l’élévation de sa qualité dans une division du travail qui vise pourtant à l’économiser. Cela engendre une forte tension sur la production des savoirs et les systèmes de transmission du savoir qui les traduisent en connaissances et compétences.

    Le travail de recherche devenant une compétence stratégique du travail dans tous les secteurs d’activité, les questions posées au secteur de recherche en termes de mesure de l’#efficacité deviennent des questions générales. L’enjeu en est l’adoption d’une norme d’évaluation que les marchés soient capables de faire circuler parmi les secteurs et les activités consommatrices de connaissances.

    Un régime face à ses contradictions

    Cette transformation de la recherche en un secteur, arrimé au régime d’accumulation, suppose un nouveau compromis institutionnalisé. Mais, menée par une politique néolibérale, elle se heurte à plusieurs contradictions majeures qui détruisent les conditions de sa stabilisation sans que les principes d’une régulation propre ne parviennent à émerger.

    Quand la normalisation du travail de recherche dévalorise l’activité et les personnels

    Durant la longue période de régulation administrée, le travail de recherche a associé le principe de #liberté_académique à l’emploi à statut. L’accomplissement de ce travail a été considéré comme incompatible avec une prise en charge par le marché, ce dernier n’étant pas estimé en capacité de former un signal prix sur les services attachés à ce type de travail. Ainsi, la production de connaissance est un travail entre pairs, rattachés à des collectifs productifs. Son caractère incertain, la possibilité de l’erreur sont inscrits dans le statut ainsi que la définition de la mission (produire des connaissances pour la société, même si son accaparement privé par la bourgeoisie est structurel). La qualité de l’emploi, notamment via les statuts, a été la clé de la #régulation_professionnelle. Avec la #mise_en_concurrence_généralisée (entre établissements, entre laboratoires, entre Universités et grandes écoles, entre les personnels), le compromis productif entre les individus et les collectifs de travail est rompu, car la concurrence fait émerger la figure du #chercheur_entrepreneur, concerné par la #rentabilisation des résultats de sa recherche, via la #valorisation sous forme de #propriété_intellectuelle, voire la création de #start-up devenu objectifs de nombre d’université et du CNRS.

    La réponse publique à la #dévalorisation_salariale évoquée plus haut, passe par une construction différenciée de la #rémunération, qui rompt le compromis incarné par les emplois à statut. Le gel des rémunérations s’accompagne d’une individualisation croissante des salaires, l’accès aux ressources étant largement subordonné à l’adhésion aux dispositifs de mise en concurrence. La grille des rémunérations statutaires perd ainsi progressivement tout pouvoir organisationnel du travail. Le rétrécissement de la possibilité de travailler hors financements sur projet est indissociable du recours à du #travail_précaire. La profession a été dépossédée de sa capacité à défendre son statut et l’évolution des rémunérations, elle est inopérante à faire face à son dépècement par le bloc minoritaire.

    La contradiction intervient avec les dispositifs de concurrence qui tirent les instruments de la régulation professionnelle vers une mise aux normes marchandes pour une partie de la communauté par une autre. Ce mouvement est rendu possible par le décrochage de la rémunération du travail : le niveau de rémunération d’entrée dans la carrière pour les maîtres de conférences est ainsi passé de 2,4 SMIC dans les années 1980 à 1,24 aujourd’hui.

    Là où le statut exprimait l’impossibilité d’attacher une valeur au travail de recherche hors reconnaissance collective, il tend à devenir un travail individualisable dont le prix sélectionne les usages et les contenus. Cette transformation du travail affecte durablement ce que produit l’université.

    Produire de l’innovation et non de la connaissance comme communs

    Durant la période administrée, c’est sous l’égide de la profession que la recherche était conduite. Définissant la valeur de la connaissance, l’action collective des personnels, ratifiée par l’action publique, pose le caractère non rival de l’activité. La possibilité pour un résultat de recherche d’être utilisé par d’autres sans coût de production supplémentaire était un gage d’efficacité. Les passerelles entre recherche et innovation étaient nombreuses, accordant des droits d’exploitation, notamment à l’industrie. Dans ce cadre, le lien recherche-profit ou recherche-utilité économique, sans être ignoré, ne primait pas. Ainsi, la communauté professionnelle et les conditions de sa mise au travail correspondait à la nature de ce qui était alors produit, à savoir les connaissances comme commun. Le financement public de la recherche concordait alors avec la nature non rivale et l’incertitude radicale de (l’utilité de) ce qui est produit.

    La connaissance étant devenue un actif stratégique, sa valorisation par le marché s’est imposée comme instrument d’orientation de la recherche. Finalement dans un régime d’apparence libérale, la conduite politique est forte, c’est d’ailleurs propre d’un régime néolibéral tel que décrit notamment par Amable & Palombarini (2018). Les #appels_à_projet sélectionnent les recherches susceptibles de #valorisation_économique. Là où la #publication fait circuler les connaissances et valide le caractère non rival du produit, les classements des publications ont pour objet de trier les résultats. La priorité donnée à la protection du résultat par la propriété intellectuelle achève le processus de signalement de la bonne recherche, rompant son caractère non rival. La #rivalité exacerbe l’effectivité de l’exclusion par les prix, dont le niveau est en rapport avec les profits anticipés.

    Dans ce contexte, le positionnement des entreprises au plus près des chercheurs publics conduit à une adaptation de l’appareil de production de l’ESR, en créant des lieux (#incubateurs) qui établissent et affinent l’appariement recherche / entreprise et la #transférabilité à la #valorisation_marchande. La hiérarchisation des domaines de recherche, des communautés entre elles et en leur sein est alors inévitable. Dans ce processus, le #financement_public, qui continue d’endosser les coûts irrécouvrables de l’incertitude, opère comme un instrument de sélection et d’orientation qui autorise la mise sous contrôle de la sphère publique. L’ESR est ainsi mobilisée par l’accumulation, en voyant son autonomie (sa capacité à se réguler, à orienter les recherches) se réduire. L’incitation à la propriété intellectuelle sur les résultats de la recherche à des fins de mise en marché est un dispositif qui assure cet arrimage à l’accumulation.

    Le caractère appropriable de la recherche, devenant essentiel pour la légitimation de l’activité, internalise une forme de consentement de la communauté à la perte du contrôle des connaissances scientifiques, forme de garantie de sa circulation. Cette rupture de la non-rivalité constitue un coût collectif pour la société que les communautés scientifiques ne parviennent pas à rendre visible. De la même manière, le partage des connaissances comme principe d’efficacité par les externalités positives qu’il génère n’est pas perçu comme un principe alternatif d’efficacité. Chemin faisant, une recherche à caractère universel, régulée par des communautés, disparait au profit d’un appareil sous doté, orienté vers une utilité de court terme, relayé par la puissance publique elle-même.

    Un bloc hégémonique réduit, contre la collégialité universitaire

    En tant que mode de gouvernance, la collégialité universitaire a garanti la participation, et de fait la mobilisation des personnels, car ce n’est pas la stimulation des rémunérations qui a produit l’#engagement. Les collectifs de travail s’étaient dotés d’objectifs communs et s’étaient accordés sur la #transmission_des_savoirs et les critères de la #validation_scientifique. La #collégialité_universitaire en lien à la définition des savoirs légitimes a été la clé de la gouvernance publique. Il est indispensable de rappeler la continuité régulatrice entre liberté académique et organisation professionnelle qui rend possible le travail de recherche et en même temps le contrôle des usages de ses produits.

    Alors que l’université doit faire face à une masse d’étudiants, elle est évaluée et ses dotations sont accordées sur la base d’une activité de recherche, ce qui produit une contradiction majeure qui affecte les universités, mais pas toutes. Il s’effectue un processus de #différenciation_territoriale, avec une masse d’établissements en souffrance et un petit nombre qui a été retenu pour former l’élite. Les travaux de géographes sur les #inégalités_territoriales montrent la très forte concentration sur quelques pôles laissant des déserts en matière de recherche. Ainsi se renforce une dualité entre des universités portées vers des stratégies d’#élite et d’autres conduites à accepter une #secondarisation_du_supérieur. Une forme de hiatus entre les besoins technologiques et scientifiques massifs et le #décrochage_éducatif commence à être diagnostiquée.

    La sectorisation de l’ESR, et le pouvoir pris par un bloc hégémonique réduit auquel participent certaines universités dans l’espoir de ne pas être reléguées, ont procédé par l’appropriation de prérogatives de plus en plus larges sur les carrières, sur la valorisation de la recherche et la propriété intellectuelle, de ce qui était un commun de la recherche. En cela, les dispositifs d’excellence ont joué un rôle marquant d’affectation de moyens par une partie étroite de la profession. De cette manière, ce bloc capte des prébendes, assoit son pouvoir par la formation des normes concurrentielles qu’il contrôle et développe un rôle asymétrique sur les carrières par son rôle dominant dans l’affectation de reconnaissance professionnelle individualisée, en contournant les instances professionnelles. Il y a là création de nouveaux périmètres par la norme, et la profession dans son ensemble n’a plus grande prise, elle est mise à distance des critères qui servent à son nouveau fonctionnement et à la mesure de la performance.

    Les dispositifs mis en place au nom de l’#excellence_scientifique sont des instruments pour ceux qui peuvent s’en emparer et définissant les critères de sélection selon leur représentation, exercent une domination concurrentielle en sélectionnant les élites futures. Il est alors essentiel d’intégrer les Clubs qui en seront issus. Il y a là une #sociologie_des_élites à préciser sur la construction d’#UDICE, club des 10 universités dites d’excellence. L’évaluation de la performance détermine gagnants et perdants, via des labels, qui couronnent des processus de sélection, et assoit le pouvoir oligopolistique et les élites qui l’ont porté, souvent contre la masse de la profession (Musselin, 2017).

    Le jeu des acteurs dominants, en lien étroit avec le pouvoir politique qui les reconnait et les renforce dans cette position, au moyen d’instruments de #rationalisation de l’allocation de moyens pénuriques permet de définir un nouvel espace pour ceux-ci, ségrégué du reste de l’ESR, démarche qui est justifié par son arrimage au régime d’accumulation. Ce processus s’achève avec une forme de séparatisme du nouveau bloc hégémonique composé par ces managers de l’ESR, composante minoritaire qui correspond d’une certaine mesure au bloc bourgeois. Celles- et ceux-là même qui applaudissent le discours présidentiel annonçant la révolution dont un petit fragment tirera du feu peu de marrons, mais qui seront sans doute pour eux très lucratifs. Toutefois le scénario ainsi décrit dans sa tendance contradictoire pour ne pas dire délétère ne doit pas faire oublier que les communautés scientifiques perdurent, même si elles souffrent. La trajectoire choisie de sectorisation déstabilise l’ESR sans ouvrir d’espace pour un compromis ni avec les personnels ni pour la formation. En l’état, les conditions d’émergence d’un nouveau régime pour l’ESR, reliant son fonctionnement et sa visée pour la société ne sont pas réunies, en particulier parce que la #rupture se fait contre la profession et que c’est pourtant elle qui reste au cœur de la production.

    https://laviedesidees.fr/Universite-service-public-ou-secteur-productif
    #ESR #facs #souffrance

  • First Look at Ubuntu’s New ‘Desktop #security Center’
    https://www.omgubuntu.co.uk/2024/02/first-look-at-ubuntus-new-desktop-security-center

    Ubuntu is working on a new Desktop Security Center that aims to make it easier for users to access some of the distro’s underlying security features. An early version of the Flutter-based tool was made available to install from the Canonical Snap Store this week — but before anyone gets too excited I should stress it’s very much a WIP and not entirely functional (so set expectations accordingly)! Even so, there’s enough to pique interest. Read on for a more detail on what this tool is, the features Canonical plans to surface through, and how you can install the early […] You’re reading First Look at Ubuntu’s New ‘Desktop Security Center’, a blog post from OMG! Ubuntu. Do not reproduce elsewhere without (...)

    #News #Snaps #Ubuntu_24.04_LTS

  • Homme au volant : #mort au tournant
    http://carfree.fr/index.php/2024/02/13/homme-au-volant-mort-au-tournant

    Une campagne télévisée récente de la #sécurité_routière rappelle que la connerie motorisée est avant tout une affaire d’hommes. Malgré les présupposés sexistes qui ironisent sur le mode « Femme au Lire la suite...

    #Fin_de_l'automobile #Insécurité_routière #accident #mortalité #motards #sexisme #vitesse

  • La sequía pone en jaque al turismo de la Costa del Sol | España | EL PAÍS
    https://elpais.com/espana/2024-02-12/la-sequia-pone-en-jaque-al-turismo-de-la-costa-del-sol.html

    Comment « accueillir » plus de 14 millions de touristes quand plus de 250 000 habitants n’ont déjà plus assez d’eau, sachant que plus un touriste dépense d’argent en hôtel, plus il dépense d’eau ? Une question à 19 milliards d’euros pour Malaga...

    La Costa del Sol afronta este 2024 un año paradójico. Por un lado, busca superar los 14 millones de turistas que llegaron en 2023, su récord histórico. Por otro, no dispone de agua ni para su población. Los datos indican que unas 250.000 personas del litoral de Málaga ya tienen restricciones, de las que 100.000 sufren cortes nocturnos en 15 municipios. Y, claro, surgen las preguntas. ¿Se podrá atender al turismo? ¿Seguirán llegando viajeros? ¿Aceptarán no poder ducharse a ciertas horas o que la piscina de la casa de alquiler esté vacía? Las dudas sobrevuelan a un sector que afronta un verano espinoso y que es indispensable para la economía malagueña: durante el año pasado creó más de 128.000 empleos y dejó más de 19.000 millones de ingresos, según los datos de la Diputación provincial. La incertidumbre rodea a una zona sedienta de turistas, pero que se atraganta ante la persistente falta de lluvia.

    Enrique Navarro, director del Instituto Andaluz de Turismo en su sede malagueña, explica que el consumo de agua turístico varía mucho según el tipo de alojamiento. Las cifras más bajas corresponden a hoteles de una o dos estrellas y las más altas a los de lujo, que cuentan con piscinas, spas o grandes jardines. Hay pocos estudios con datos concretos, pero en la Universidad de Baleares aprovecharon la pandemia para analizar la demanda de los residentes en las islas. Lo compararon con años de turismo y calcularon así el gasto de los visitantes: hay municipios donde apenas el 40% es consumido por residentes. Los cálculos de la investigación indican que en un hotel de cinco estrellas cada persona gasta unos 500 litros al día, “pero pueden ser incluso 700″, explica el profesor Cels García, catedrático de Geografía Física de dicha universidad, quien señala que en un tres o cuatro estrellas baja hasta rondar los 300 litros por día. Sea como sea, el consumo medio de un turista siempre es mayor que el de la población local. Según el Instituto Nacional de Estadística, cada habitante de España gasta 133 litros diarios de media, a los que sumar un 25% más por las pérdidas en la red de abastecimiento.

    • https://www.youtube.com/watch?v=5g4arkqC8gM

      Destinazione lager!
      Partono vagoni notte e giorno
      il biglietto è solo andata e non c’è ritorno
      nei tuoi bellissimi occhi neri
      non c’è domani non c’è oggi e non ieri

      Dentro il carro merci il tempo si è fermato
      è passato tanto tempo e tu non sai quanto hai viaggiato
      lacrime e sudore fame sete tosse e scarpe rotte
      il tempo non esiste e non distingui più il giorno dalla notte

      Alla stazione dove arrivi la neve danza tutto intorno
      alla stazione dove arrivi è sempre notte e non è mai giorno
      alla stazione dove arrivi la neve gira gira gira come impazzita
      e allora pensi che vita è già finita

      Destinazione lager!
      le ciminiere affondano nel cielo

      Destinazione lager!
      e nei tuoi occhi grandi passa un velo
      solo paura nel tuo viso e nel tuo cuore
      non c’è più tempo per parlar d’amore

      Destinazione lager!
      le ciminiere si infilzano nel cielo

      Destinazione lager!
      e nei tuoi occhi belli cala un velo
      solo sgomento nel tuo cuore e nel tuo viso
      non hai più voglia di carezze non hai più voglia di un sorriso

      #Francesco_Pais #histoire #musique #guerre #chanson #musique_et_politique #WWII #camps_d'extermination #shoah #seconde_guerre_mondiale #deuxième_guerre_mondiale #nazisme #lager

  • #Risques_industriels : la #Cour_des_comptes au renfort d’#Amaris
    https://www.banquedesterritoires.fr/risques-industriels-la-cour-des-comptes-au-renfort-damaris

    Il y a peu, l’association Amaris déplorait que les pouvoirs publics n’aient pas tiré le bilan de la loi dite Bachelot relative à la prévention des risques technologiques et naturels, adoptée il y a 20 ans (voir notre article du 20 septembre 2023). L’association vient de recevoir un renfort de poids : celui de la Cour des comptes. En conclusion du rapport(https://www.ccomptes.fr/sites/default/files/2024-01/20240201-S2023-1508-ICPE-industrielles.pdf) qu’elle vient de consacrer à la gestion des installations classées pour la protection l’environnement (#ICPE) dans le domaine industriel, […] si elle constate que la grande majorité des PPRT a été approuvée, la rue Cambon relève comme Amaris que "beaucoup de questions demeurent sans réponse : de nombreux #logements resteront exposés […] et la mise en #sécurité des entreprises riveraines et des bâtiments publics n’est pas suivie". Elle ajoute que les ouvrages d’infrastructures de transports de matières dangereuses sont ignorés. Pour y remédier, elle recommande de prévoir des mesures de protection foncière et des travaux pour les "zones d’effets létaux" qui y sont liées, mais aussi de modifier la législation pour généraliser la mise en place de commissions consultatives analogues aux commissions de suivi de site des ICPE.

    Sont insuffisamment pris en compte également selon elle, des risques dont l’acuité va pourtant croissant, comme les "NaTechs" (#accidents_technologiques dus à un événement naturel) ou les #cyberattaques. C’est encore le cas des risques chroniques. Elle juge ainsi que "les impacts sanitaires et environnementaux de la #pollution des sols et #nappes_phréatiques ne sont pas assez étudiés", alors que nombre de ces derniers sont "durablement pollués". Elle souligne en outre que "la volonté de simplifier et d’accélérer les procédures afin de faciliter les implantations industrielles a conduit à restreindre le champ de l’obligation de l’étude d’impact et à rendre facultative la consultation du comité départemental de l’environnement et des risques sanitaires et technologique" (#Coderst – via la loi Asap — https://www.banquedesterritoires.fr/simplification-tout-ce-que-les-collectivites-peuvent-retenir-de — et son décret d’application — https://www.banquedesterritoires.fr/simplification-des-procedures-environnementales-le-decret-asap-), et que la loi pour l’industrie verte (https://www.banquedesterritoires.fr/industrie-verte-le-projet-de-loi-adopte-par-le-parlement) introduit de nouvelles mesures de #simplification. Elle déplore encore que nombre de « #polluants_émergents » (au regard de leur prise en compte, et pas de leur existence) ne sont toujours pas réglementés, leur encadrement se heurtant souvent à l’absence de valeurs toxicologiques de référence.

    De manière générale, la Cour dénonce l’insuffisance des moyens accordés. Pour elle, c’est notamment le cas des moyens alloués au recensement des sites pollués – et à leur# dépollution (mais le fonds vert est salué). Cela l’est également singulièrement des moyens de #police_environnementale de l’inspection des installées classées, fortement sollicités par l’essor des éoliennes terrestres et des méthaniseurs, mais aussi par l’application du règlement européen REACH et l’instruction des projets soutenues par le plan France 2030 (voir notre article du 22 juin 2023).

    […] Côté #sanctions, ce n’est guère mieux : "Les suites administratives demeurent peu dissuasives à l’exception des astreintes", les plafonds n’étant ni proportionnels aux capacités financières des contrevenants, ni à l’enrichissement qu’ils sont susceptibles de tirer de la situation de non-conformité.

    […] En dépit des efforts conduits en la matière – notamment le lancement du plan d’actions "Tous résilients face aux risques" –, la rue Cambon juge que "l’information institutionnelle sur les risques majeurs peine à atteindre ses cibles". Elle relève que "les organismes de concertation mis en place sont souvent critiqués pour leur fonctionnement vertical" et que "nombre de secrétariats permanents pour la prévention des pollutions industrielles ne sont plus actifs depuis plusieurs années". Elle estime également que "la culture de sécurité reste inégale parmi les élus, y compris parmi ceux des #collectivités accueillant des ICPE à hauts risques" et que "les collectivités s’estiment peu éclairées sur les risques chroniques et leurs effets sur l’environnement et la santé".

  • Cadences, sous-traitance, pression… quand le travail tue

    « Morts au travail : l’hécatombe. » Deux personnes meurent chaque jour, en moyenne, dans un accident dans le cadre de leur emploi. Ce chiffre, sous estimé, qui n’intègre pas les suicides ou les maladies, illustre un problème systémique

    « J’ai appris la mort de mon frère sur Facebook : la radio locale avait publié un article disant qu’un homme d’une trentaine d’années était décédé près de la carrière, raconte Candice Carton. J’ai eu un mauvais pressentiment, j’ai appelé la gendarmerie, c’était bien lui… L’entreprise a attendu le lendemain pour joindre notre mère. » Son frère Cédric aurait été frappé par une pierre à la suite d’un tir de mine le 28 juillet 2021, dans une carrière à Wallers-en-Fagne (Nord). Il travaillait depuis dix-sept ans pour le Comptoir des calcaires et matériaux, filiale du groupe Colas.

    Deux ans et demi plus tard, rien ne permet de certifier les causes de la mort du mécanicien-soudeur de 41 ans. D’abord close, l’enquête de gendarmerie a été rouverte en septembre 2023 à la suite des conclusions de l’inspection du travail, qui a pointé la dizaine d’infractions dont est responsable l’entreprise. Cédric Carton n’avait pas le boîtier pour les travailleurs isolés, qui déclenche une alarme en cas de chute. « Ils l’ont retrouvé deux heures après, se souvient sa sœur. Le directeur de la carrière m’a dit que mon frère était en sécurité, et qu’il avait fait un malaise… alors qu’il avait un trou béant de 20 centimètres de profondeur de la gorge au thorax. » En quête de réponses, elle a voulu déposer plainte deux fois, chacune des deux refusée, multiplié les courriers au procureur, pris deux avocats… Sans avoir le fin mot de cette triste histoire.

    Que s’est-il passé ? Est-ce la « faute à pas de chance », les « risques du métier » ? Qui est responsable ? Chaque année, des centaines de familles sont confrontées à ces questions après la mort d’un proche dans un accident du travail (AT), c’est-à-dire survenu « par le fait ou à l’occasion du travail, quelle qu’en soit la cause ».

    « Un chauffeur routier a été retrouvé mort dans son camion », « Un ouvrier de 44 ans a été électrocuté », « Un homme meurt écrasé par une branche d’arbre », « Deux ouvriers roumains, un père et son fils, trouvent la mort sur un chantier à Istres [Bouches-du-Rhône] »… Le compte X de Matthieu Lépine, un professeur d’histoire-géographie, qui recense depuis 2019 les accidents dramatiques à partir des coupures de presse locale, illustre l’ampleur du phénomène. Vingt-huit ont été comptabilisés depuis janvier.

    En 2022, selon les derniers chiffres connus, 738 décès ont été recensés parmi les AT reconnus. Soit deux morts par jour. Un chiffre en hausse de 14 % sur un an, mais stable par rapport à 2019. Et, depuis une quinzaine d’années, il ne baisse plus. A cela s’ajoutent 286 accidents de trajet mortels (survenus entre le domicile et le lieu de travail) et 203 décès consécutifs à une maladie professionnelle.

    Et encore, ces statistiques sont loin de cerner l’ampleur du problème. La Caisse nationale d’assurance-maladie (CNAM) ne couvre que les salariés du régime général et n’intègre donc ni la fonction publique, ni les agriculteurs, ni les marins-pêcheurs, la majorité des chefs d’entreprise ou les autoentrepreneurs. C’est ainsi qu’en 2022 la Mutualité sociale agricole (MSA) a dénombré 151 accidents mortels dans le secteur des travaux agricoles, 20 % de plus qu’en 2019.

    Pour disposer de chiffres plus complets, il faut se tourner vers la direction de l’animation de la recherche, des études et des statistiques du ministère du travail (Dares). Problème : sa dernière étude porte sur 2019… A cette époque, elle dénombrait 790 AT mortels chez les salariés affiliés au régime général ou à la MSA et les agents des fonctions publiques territoriale et hospitalière.

    Le secteur de la construction est celui où la fréquence des accidents mortels est la plus importante (le triple de la moyenne). Arrivent ensuite l’agriculture, la sylviculture et la pêche, le travail du bois et les transports-entreposage. Quatre-vingt-dix pour cent des victimes sont des hommes, et les ouvriers ont cinq fois plus de risques de perdre la vie que les cadres.

    Les accidents mortels sont deux fois plus fréquents chez les intérimaires. (...)
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/06/cadences-sous-traitance-pression-quand-le-travail-tue_6214988_3234.html

    https://justpaste.it/2ozrb

    #travail #accidents_du_travail #le_travail_tue

    • Accidents du travail : la lenteur de la justice pour faire reconnaître la responsabilité de l’employeur
      https://www.lemonde.fr/emploi/article/2024/02/06/morts-au-travail-la-douloureuse-lenteur-de-la-justice_6215011_1698637.html

      Les familles de victimes d’accidents mortels doivent parfois attendre des années avant de voir le bout de procédures judiciaires complexes.

      Pour ceux qui ont perdu un proche à la suite d’un accident du travail, la reconnaissance de la responsabilité de l’employeur est essentielle. Mais les procédures, d’ordre pénal ou civil, tournent parfois au parcours du combattant, voire s’étirent sur des années, ajoutant à la douleur des familles. Fabienne Bérard, du collectif Familles : stop à la mort au travail, cite l’exemple de Fanny Maquin, qui a perdu son mari cordiste, Vincent, il y a douze ans. Et qui n’est toujours pas passée en justice pour être indemnisée. « Comme souvent, il y a eu un grand nombre de renvois d’audience, explique-t-elle. L’avocat adverse met en avant que, depuis ce temps, elle a reconstruit une cellule familiale et que le préjudice ne peut pas être établi de la même manière… »

      Tout accident du travail mortel est suivi d’une enquête de l’inspection du travail (qui doit intervenir dans les douze heures), et de la gendarmerie ou de la police. Depuis 2019, les deux institutions peuvent mener une enquête en commun, mais c’est encore rare. Et souvent, l’enquête de l’inspection dure plusieurs mois, parce que les effectifs manquent pour mener à bien les constats immédiats, les auditions des témoins ou encore solliciter des documents auprès de l’entreprise.

      Ces investigations permettent de déterminer si la responsabilité pénale de l’employeur est engagée. Si les règles de santé et sécurité n’ont pas été respectées, l’inspection du travail en avise le procureur, qui est le seul à pouvoir ouvrir une procédure. « Dès lors, le parquet a trois possibilités, explique l’avocat Ralph Blindauer, qui accompagne souvent des familles. Soit l’affaire est classée sans suite, soit une information judiciaire avec juge d’instruction est ouverte, car le cas est jugé complexe, soit, le plus couramment, une ou plusieurs personnes sont citées à comparaître devant le tribunal correctionnel. »

      Un montant négligeable

      En cas de poursuite au pénal, l’employeur est fréquemment condamné pour homicide involontaire en tant que personne morale – ce qui est peu satisfaisant pour les victimes, et peu dissuasif. L’amende est en effet de 375 000 euros maximum, un montant négligeable pour un grand groupe. L’employeur est plus rarement condamné en tant que personne physique, car il est difficile d’identifier le responsable de la sécurité – la peine encourue est alors l’emprisonnement.

      Dans le cas d’une procédure au civil, la reconnaissance d’une « faute inexcusable » de l’employeur permet aux ayants droit (conjoints, enfants ou ascendants) d’obtenir la majoration de leur rente, ainsi que l’indemnisation de leur préjudice moral. La faute est caractérisée lorsque l’entreprise a exposé son salarié à un danger dont il avait, ou aurait dû, avoir conscience et qu’il n’a pas pris les mesures nécessaires pour l’en préserver.

      « Le nœud du sujet, c’est la conscience du danger, en particulier lors d’un malaise mortel, explique Morane Keim-Bagot, professeure de droit à l’université de Strasbourg. Les employeurs remettent en question le caractère professionnel de l’accident, en démontrant qu’il y a une cause étrangère exclusive. » Certains prétendent ainsi que la victime souffrait d’un problème cardiaque décelé au moment de l’autopsie, de surpoids, de stress ou de tabagisme.

      « Si vous tombez sur un inspecteur surchargé, un parquet qui s’y attelle moyennement, des gendarmes non spécialisés et débordés, les procédures durent facilement des années, sans compter les renvois d’audience fréquents, conclut Me Blindauer. La longueur très variable de ces affaires illustre aussi le manque de moyens de la #justice. »

      #responsabilité_de_l’employeur #inspection_du_travail #responsabilité_pénale

    • Entre déni des entreprises et manque de données, l’invisibilisation des suicides liés au travail

      https://www.lemonde.fr/emploi/article/2024/02/06/entre-deni-des-entreprises-et-manque-de-donnees-l-invisibilisation-des-suici

      Le manque de prise en compte du mal-être au travail renforce les risques d’accidents dramatiques.
      Par Anne Rodier

      « La dernière conversation que j’ai eue avec mon mari [Jean-Lou Cordelle] samedi 4 juin [2022] vers 22 heures concernait les dossiers en cours à son travail. Le lendemain matin, mon fils découvrait son père au bout d’une corde pendu dans le jardin », témoigne Christelle Cordelle dans la lettre adressée aux représentants du personnel d’Orange pour leur donner des précisions sur l’état psychologique de son mari avant son suicide, à l’âge de 51 ans, après des mois de surcharge de travail, d’alertes vaines à la hiérarchie et à la médecine du travail.

      Son acte, finalement reconnu comme « accident de service » – c’est ainsi que sont nommés les accidents du travail (#AT) des fonctionnaires –, n’est pas recensé dans le bilan annuel de la Sécurité sociale. Celui-ci ne tient pas, en effet, compte de la fonction publique, invisibilisant les actes désespérés des infirmières, des professeurs ou encore des policiers.

      L’Assurance-maladie parle d’une quarantaine de suicides-accidents du travail par an. Un chiffre stable, représentant 5 % du total des accidents du travail mortels, mais qui serait nettement sous-évalué. C’est entre vingt et trente fois plus, affirme l’Association d’aide aux victimes et aux organismes confrontés aux suicides et dépressions professionnelles (ASD-pro), qui l’évalue plutôt entre 800 et 1 300 chaque année, sur la base d’une étude épidémiologique sur les causes du suicide au travail réalisée fin 2021 par Santé publique France. https://www.santepubliquefrance.fr/recherche/#search=Suicide%20et%20activité%20professionnelle%20en%20France

      L’explosion des risques psychosociaux (RPS) en entreprise constatée étude après étude et par la Caisse nationale d’assurance-maladie (CNAM : https://assurance-maladie.ameli.fr/etudes-et-donnees/2018-sante-travail-affections-psychiques) apporte de l’eau au moulin de l’ASD-pro : 1 814 maladies professionnelles relèvent de maladies psychiques, en augmentation régulière, note le rapport 2022. Quant au dernier baromètre du cabinet Empreinte humaine, publié en novembre 2023, il est sans équivoque : près d’un salarié sur deux (48 %) était en détresse psychologique en 2023.

      « Passage à l’acte brutal »

      La mécanique mortifère de la souffrance au travail est connue. « Les mécanismes à l’œuvre semblent être toujours liés : atteintes à la professionnalité et à l’identité professionnelle, perte de l’estime de soi, apparition d’un sentiment d’impuissance », explique Philippe Zawieja, psychosociologue au cabinet Almagora.
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      Tous les RPS ne conduisent pas au geste fatal. « Il y a moins de suicidés chez les #salariés que parmi les #chômeurs, et 90 % des suicides interviennent sur fond de problème psychiatrique antérieur », souligne M. Zawieja. Mais « il existe des actes suicidaires qui ne sont pas la conséquence d’un état dépressif antérieur, qui marquent un passage à l’acte brutal [raptus], lié à un élément déclencheur conjoncturel », indique l’Institut national de recherche et de sécurité pour la prévention des accidents du travail et des maladies professionnelles (INRS) https://www.inrs.fr/risques/suicide-travail/ce-qu-il-faut-retenir.html. Comme ce fut le cas du management toxique institutionnel à France Télécom. C’est alors que survient l’accident.

      « Pour Jean-Lou, tout s’est passé insidieusement, témoigne sa veuve. Il était en surcharge de travail depuis octobre-novembre 2021, avec des salariés non remplacés, des départs en retraite. Un jour de janvier, je l’ai vu buguer devant son ordinateur. A partir de là, j’ai été plus attentive. En mars [2022], ils ont allégé sa charge de travail mais insuffisamment. En avril, il a craqué. La médecine du travail a été prévenue. Il a finalement été mis en arrêt, sauf qu’il continuait à recevoir des mails. Ils lui avaient laissé son portable professionnel et il n’y avait pas de message de gestion d’absence renvoyant vers un autre contact. Jusqu’au bout, Orange n’a pas pris la mesure ».

      Le plus souvent, les suicides au travail sont invisibilisés, au niveau de l’entreprise d’abord, puis des statistiques. « Classiquement, l’entreprise, quand elle n’est pas tout simplement dans le déni, considère que c’est une affaire privée et que le travail n’en est pas la cause », explique le juriste Loïc Lerouge, directeur de recherche au Centre national de la recherche scientifique (CNRS) et spécialiste du sujet.

      Un déni qui a valu à Renault la première condamnation pour « faute inexcusable de l’employeur pour n’avoir pas pris les mesures nécessaires alors qu’il avait conscience du danger » concernant les salariés du Technocentre de Guyancourt (Yvelines) qui ont mis fin à leurs jours dans les années 2000. [en 2012 https://www.lemonde.fr/societe/article/2012/05/12/suicide-au-technocentre-renault-condamne-pour-faute-inexcusable_1700400_3224 « On reconnaît pleinement la responsabilité de la personne morale de l’entreprise depuis l’affaire #France_Télécom », précise M. Lerouge.

      Caractérisation délicate

      L’#invisibilisation des suicides commence par le non-dit. En réaction aux deux suicides de juin 2023 à la Banque de France, où l’une des victimes avait laissé une lettre incriminant clairement ses conditions de travail, la direction a déclaré avoir « fait ce qui s’impose » après un tel drame https://www.lemonde.fr/economie/article/2023/10/10/a-la-banque-de-france-le-suicide-de-deux-salaries-empoisonne-le-dialogue-soc . Puis, lors des vœux 2024 adressés au personnel le 2 janvier, le gouverneur de la Banque de France, François Villeroy de Galhau, n’a pas prononcé le mot « suicide », évoquant les « décès dramatiques de certains collègues ». Et s’il a déclaré « prendre au sérieux les résultats et les suggestions » de l’enquête qui acte le problème de #surcharge_de_travail, présentée au comité social et économique extraordinaire du 18 janvier, il n’a pas mis sur pause le plan de réduction des effectifs dans la filière fiduciaire. Celle-là même où travaillaient les deux salariés qui ont mis fin à leurs jours. « Beaucoup de gens n’ont pas les moyens de faire correctement leur travail et sont en souffrance. Il existe à la Banque de France une forme de maltraitance généralisée », affirme Emmanuel Kern, un élu CGT de l’institution.

      La caractérisation des suicides en accidents du travail est un exercice délicat, au cœur de la reconnaissance de la responsabilité de l’employeur. Pour Santé publique France, la définition est assez simple (« Surveillance des suicides en lien potentiel avec le travail », 2021). Il s’agit de tout suicide pour lequel au moins une des situations suivantes était présente : la survenue du décès sur le lieu du travail ; une lettre laissée par la victime mettant en cause ses conditions de travail ; le décès en tenue de travail alors que la victime ne travaillait pas ; le témoignage de proches mettant en cause les conditions de travail de la victime ; des difficultés connues liées au travail recueillies auprès des proches ou auprès des enquêteurs.

      Mais pour l’administration, le champ est beaucoup plus restreint : l’Assurance-maladie prend en compte « l’acte intervenu au temps et au lieu de travail ». Et la reconnaissance n’aura pas lieu si des éléments au cours de l’enquête permettent d’établir que « le travail n’est en rien à l’origine du décès », précise la charte sur les accidents du travail rédigée à destination des enquêteurs de la Sécurité sociale https://www.atousante.com/wp-content/uploads/2011/05/Charte-des-AT-MP-acte-suicidaire-et-accident-du-travail.pdf. « En dehors du lieu de travail, c’est à la famille de faire la preuve du lien avec l’activité professionnelle », explique Michel Lallier, président de l’ASD-pro. Une vision nettement plus restrictive, qui explique cet écart entre les bilans des suicides au travail.

      #suicide_au_travail #risques_psychosociaux #médecine_du_travail #conditions_de_travail #management #cadences #pression #surcharge_de_travail

    • Manque de sécurité sur les chantiers : « Notre fils est mort pour 6 000 euros », Aline Leclerc
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/07/manque-de-securite-sur-les-chantiers-notre-fils-est-mort-pour-6-000-euros_62

      Pour réduire les coûts et tenir les délais, certaines entreprises du bâtiment accumulent les négligences et infractions au code du travail, susceptibles d’engendrer de graves accidents du travail

      Alban Millot avait trouvé l’offre d’emploi sur Leboncoin. Touche-à-tout débrouillard enchaînant les petits boulots, il n’avait aucune expérience dans la pose de panneaux photovoltaïques ni dans le travail en hauteur. Trois semaines après son embauche, il est passé à travers la toiture d’un hangar, le 10 mars 2021. Une chute mortelle de plus de 5 mètres. Le jour de ses 25 ans.

      « Quand le gendarme vous l’annonce, il parle d’un “accident”, comme on dit quand quelqu’un meurt sur la route », se rappelle douloureusement Laurent Millot, son père. La chute renvoie toujours d’abord l’idée d’une erreur d’attention, d’un déséquilibre. La faute à pas de chance. Et à la victime surtout – Alban n’a-t-il pas marché sur une plaque translucide qu’il savait fragile ?

      Ce n’est que quelque temps après que reviennent en mémoire ces petites phrases qui donnent à l’« accident » un autre sens. « J’avais eu Alban au téléphone une semaine avant. Il m’a dit que son travail était hyperdangereux, et qu’il allait s’acheter son propre harnais parce que celui fourni par la boîte était bas de gamme », raconte Véronique Millot, sa mère. Quand pour la rassurer il lui a dit : « Je fais ça seulement jusqu’à l’été », elle a répondu : « Te tue pas pour un boulot… »

      Inexpérimentés

      L’enquête, étoffée dans ce dossier, a mis en évidence une effarante liste de dysfonctionnements et d’infractions au code du travail de la PME qui l’employait, dont l’activité officiellement enregistrée (son code NAF ou APE) était « commerce de détail en quincaillerie, peintures ». Le seul technicien dûment diplômé avait quitté la société deux mois avant l’embauche d’Alban. Sur les vingt-cinq salariés, une dizaine de commerciaux et seulement trois équipes de deux poseurs, lesquels étaient en conséquence soumis à un rythme intense pour honorer les commandes.

      Avant sa mort, Alban et son collègue de 20 ans, et trois mois d’ancienneté seulement, étaient partis le lundi de Narbonne (Aude) pour un premier chantier en Charente, puis un autre en Ille-et-Vilaine, avant un troisième, le lendemain, dans les Côtes-d’Armor, et un ultime, le mercredi, en Ille-et-Villaine, où a eu lieu l’accident. Alban, seul à avoir le permis, avait conduit toute la route.

      Inexpérimentés, les deux hommes n’avaient reçu qu’une formation sommaire à la sécurité. Et, surtout, ne disposaient pas de harnais complets pour s’attacher, comme l’a constaté l’inspectrice du travail le jour du drame.

      « Méconnaissance totale » et « déconcertante » du dirigeant

      Sans matériel, ils ont loué sur place une échelle chez Kiloutou. « Combien pèse une plaque photovoltaïque ? », a demandé le président du tribunal correctionnel de Rennes, lors du procès en première instance. « Dix-huit kilos », a répondu le chef d’entreprise. « Il faut monter l’échelle avec le panneau sous le bras ? », s’est étonné le président. « Cela dépend du chantier. »

      Il sera démontré pendant l’enquête, puis à l’audience, la « méconnaissance totale » et « déconcertante » du dirigeant, commercial de formation, de la réglementation en vigueur sur le travail en hauteur comme sur les habilitations électriques. Il n’avait entrepris aucune démarche d’évaluation des risques. Et ce, alors que deux autres accidents non mortels avaient eu lieu peu de temps avant sur ses chantiers.

      Dans son jugement du 6 juin 2023, le tribunal a reconnu l’employeur – et non l’entreprise, déjà liquidée – coupable d’homicide involontaire, retenant la circonstance aggravante de « violation manifestement délibérée » d’une obligation de sécurité ou de prudence, « tant l’inobservation était inscrite dans ses habitudes ».

      Enjeux financiers

      Car ces négligences tragiques cachent aussi des enjeux financiers. Monter un échafaudage, c’est plusieurs heures perdues dans un planning serré, et un surcoût de 6 000 euros, qui aurait doublé le devis, a chiffré un ouvrier à l’audience. « En somme, notre fils est mort pour 6 000 euros », souligne Mme Millot.

      L’affaire résonne avec une autre, dans laquelle Eiffage Construction Gard et un sous-traitant ont été condamnés en première instance comme en appel lors des procès qui se sont tenus en mai 2021 et avril 2022, à Nîmes. Mickaël Beccavin, cordiste de 39 ans, a fait une chute mortelle le 6 mars 2018, alors qu’il assemblait des balcons sur les logements d’un chantier d’envergure. Pour une raison restée inexpliquée, une corde sur laquelle il était suspendu a été retrouvée sectionnée, trop courte de plusieurs mètres. Quand la défense de l’entreprise a plaidé la seule responsabilité de la victime, qui aurait mal vérifié son matériel, l’inspecteur du travail a proposé une autre analyse.

      « On peut vous expliquer que le cordiste doit faire attention, mais la question n’est pas que là. La question est : est-ce qu’on devait faire appel à des cordistes pour ce chantier ? », a expliqué Roland Migliore à la barre, en mai 2021. Car la législation n’autorise les travaux sur cordes, particulièrement accidentogènes, qu’en dernier recours : cette pratique n’est possible que si aucun autre dispositif de protection dite « collective » (échafaudage, nacelle…) n’est envisageable. « La protection collective protège le salarié indépendamment de ce qu’il peut faire lui. S’il s’attache mal, il est protégé, rappelle l’inspecteur du travail. Au contraire, si l’on choisit la protection individuelle, on fait tout reposer sur le salarié. »

      « Précipitation »

      Le recours à la corde était apparu à l’audience comme un choix de dernière minute, sur un chantier où « tout le monde était pressé ». L’inspecteur du travail avait alors souligné cet aspect : « Malheureusement, dans le BTP, les contraintes sur les délais de livraison poussent à la précipitation : on improvise, quitte à ne pas respecter le plan général de coordination. »

      Secrétaire CGT-Construction, bois et ameublement de Nouvelle-Aquitaine, Denis Boutineau n’en peut plus de compter les morts. « Très souvent, c’est lié à un manque de sécurité. Quand vous êtes en ville, regardez les gens qui travaillent sur les toits, il n’y a aucune protection ! Pourquoi ? Pour des raisons économiques ! » Il cite ainsi le cas d’un jeune couvreur passé à travers un toit Everite. « L’employeur avait fait deux devis ! Un avec la mise en sécurité, un sans ! Bien sûr, le second était moins cher. Lequel croyez-vous qu’a accepté le client ? »

      Caroline Dilly reste, elle aussi, hantée par un échange avec son fils Benjamin, 23 ans, quelque temps avant sa mort, le 28 février 2022. Couvreur lui aussi, il aurait chuté en revenant dans la nacelle après avoir remis une ardoise en place sur un toit. Il n’était pas titulaire du certificat d’aptitude à la conduite d’engins en sécurité (Caces), nécessaire à l’utilisation de cet engin. Et la nacelle était-elle adaptée pour réaliser ce chantier ? C’est ce que devra établir la procédure judiciaire, encore en cours.

      Mais avant de rejoindre cette entreprise, Benjamin avait été renvoyé par une autre, au bout de quinze jours. « Il avait refusé de monter sur un échafaudage qui n’était pas aux normes », raconte sa mère, qui s’entend encore lui faire la leçon : « Y a ce que t’apprends à l’école et y a la réalité du monde du travail ! » « Je m’en veux tellement d’avoir dit ça… J’ai pris conscience alors à quel point prendre des risques au travail était entré dans nos mœurs. Tout ça pour aller plus vite. Comment en est-on arrivés à ce que la rentabilité prime sur le travail bien fait, en sécurité ? », se désole-t-elle.

      « Quand on commence, on est prêt à tout accepter »

      Depuis qu’elle a rejoint le Collectif familles : stop à la mort au travail, elle est frappée par la jeunesse des victimes : « Quand on commence dans le métier, on n’ose pas toujours dire qu’on a peur. Au contraire, pour s’intégrer, on est prêt à tout accepter. »

      Alexis Prélat avait 22 ans quand il est mort électrocuté sur un chantier, le 5 juin 2020. Son père, Fabien, bout aujourd’hui d’une colère qui lui fait soulever des montagnes. Sans avocat, il a réussi à faire reconnaître par le pôle social du tribunal judiciaire de Périgueux la « faute inexcusable » de l’employeur.

      C’est-à-dire à démontrer que ce dernier avait connaissance du danger auquel Alexis a été exposé et n’a pas pris les mesures nécessaires pour l’en préserver. Le jeune homme est descendu dans une tranchée où était clairement identifiée, par un filet rouge, la présence d’un câble électrique. « Le préposé de l’employeur sous les ordres duquel travaillait la victime ce jour-là aurait dû avoir connaissance du danger », dit le jugement rendu le 11 mai 2023, qui liste des infractions relevées par l’inspecteur du travail, notamment l’« absence d’habilitation électrique » et l’« absence de transcription de l’ensemble des risques dans le document unique d’évaluation des risques ».

      Fabien Prélat relève également que, comme pour Alban Millot, le code APE de l’entreprise ne correspond pas à son activité réelle. Elle est identifiée comme « distribution de produits informatiques, bureautique et papeterie ». Il estime par ailleurs que le gérant, « de fait », n’est pas celui qui apparaît sur les documents officiels. « Bien sûr, ce n’est pas ça qui a directement causé la mort de mon fils. Mais si l’Etat contrôlait mieux les choses, ces gens-là n’auraient jamais pu s’installer », s’emporte-t-il.

      « Pas assez de contrôles de l’inspection du travail »

      Cheffe du pôle santé et sécurité à la Confédération de l’artisanat et des petites entreprises du bâtiment (Capeb), syndicat patronal, et elle-même gestionnaire d’une PME de charpente et couverture dans le Puy-de-Dôme, Cécile Beaudonnat s’indigne de ces pratiques. « Ce sont des gens contre qui on lutte, explique-t-elle. On les repère quand leurs clients nous contactent, dépités, quand ils comprennent que l’entreprise qui leur a mal installé des panneaux solaires n’avait ni les techniciens qualifiés, ni l’assurance professionnelle décennale », explique-t-elle.

      Normalement, pour s’installer, il y a l’obligation d’avoir une formation professionnelle qualifiante homologuée (au moins un CAP ou un BEP) ou de faire valider une expérience de trois ans sous la supervision d’un professionnel. « Malheureusement, il n’y a pas assez de contrôles de l’inspection du travail », déplore-t-elle. Avant d’ajouter : « Pour nous, c’est avant tout au chef d’entreprise d’être exemplaire, sur le port des équipements de protection, en faisant ce qu’il faut pour former ses salariés et en attaquant chaque chantier par une démarche de prévention des risques. Nous sommes une entreprise familiale, on n’a aucune envie d’avoir un jour un décès à annoncer à une famille. »

      « Il y a une bataille à mener pour faire changer les mentalités. Y compris chez les ouvriers, pour qu’ils ne se mettent pas en danger pour faire gagner plus d’argent à l’entreprise ! Quand on voit les dégâts que ça fait sur les familles… », s’attriste Denis Boutineau.

      Les deux parents d’Alexis Prélat ont obtenu, chacun, 32 000 euros en réparation de leur préjudice moral, sa sœur 18 000 euros. Ils espèrent maintenant un procès en correctionnelle. « La meilleure façon de changer les choses, c’est d’obtenir des condamnations exemplaires », estime Fabien Prélat.

      Fait rare, l’employeur d’Alban Millot a, lui, été condamné en correctionnelle à trente-six mois de prison dont dix-huit ferme. Il a fait appel du jugement. « Avant le procès, j’avais la haine contre ce type, confie Laurent Millot. L’audience et, surtout, une sanction telle que celle-là m’ont fait redescendre. »

    • Accidents du travail : quand les machines mettent en péril la vie des salariés
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/08/accidents-du-travail-quand-les-machines-tuent_6215360_3234.html

      Dans l’industrie, le BTP ou l’agriculture, les accidents liés à l’utilisation de machines comptent parmi les plus graves et les plus mortels. Employeurs, fabricants et responsables de la maintenance se renvoient la faute.

      Lorsqu’il prend son poste, ce lundi 27 décembre 2021, cela fait déjà plusieurs mois que Pierrick Duchêne, 51 ans, peste contre la machine qu’il utilise. Après deux décennies dans l’agroalimentaire, il est, depuis cinq ans, conducteur de presse automatisée dans une agence Point P. de fabrication de parpaings, à Geneston (Loire-Atlantique). Depuis un an et demi, la bonne ambiance au boulot, cette fraternité du travail en équipe qu’il chérit tant, s’est peu à peu délitée. L’atmosphère est devenue plus pesante. La cadence, toujours plus infernale. Les objectifs de #productivité sont en hausse. Et ces #machines, donc, « toujours en panne », fulmine-t-il souvent auprès de sa femme, Claudine.

      Ce jour-là, il ne devait même pas travailler. Mais parce qu’il était du genre à « toujours aider et dépanner », dit Claudine, il a accepté de rogner un peu sur ses vacances pour participer à la journée de maintenance et de nettoyage des machines. Pierrick Duchêne a demandé à son fils qu’il se tienne prêt. Dès la fin de sa journée, à 15 heures, ils devaient aller à la déchetterie. Mais, vers 11 h 30, il est retrouvé inconscient, en arrêt cardiorespiratoire, écrasé sous une rectifieuse à parpaing. Dépêché sur place, le service mobile d’urgence et de réanimation fait repartir son cœur, qui s’arrête à nouveau dans l’ambulance. Pierrick Duchêne meurt à l’hôpital, le 2 janvier 2022.

      Son histoire fait tragiquement écho à des centaines d’autres, se produisant chaque année en France. En 2022, la Caisse nationale d’assurance-maladie a recensé 738 accidents du travail mortels dans le secteur privé, selon son rapport annuel publié en décembre 2023. 1 % d’entre eux sont liés au « risque machine » – auquel on peut ajouter les accidents liés à la « manutention mécanique », de l’ordre de 1 % également. Selon l’Institut national de recherche et de sécurité (INRS), qui répertorie plus précisément les incidents de ce type, les machines sont mises en cause dans 10 % à 15 % des accidents du travail ayant entraîné un arrêt supérieur ou égal à quatre jours, ce qui représente environ 55 000 accidents. Dont une vingtaine sont mortels chaque année.

      « La peur suppure de l’usine parce que l’usine au niveau le plus élémentaire, le plus perceptible, menace en permanence les hommes qu’elle utilise (…), ce sont nos propres outils qui nous menacent à la moindre inattention, ce sont les engrenages de la chaîne qui nous rappellent brutalement à l’ordre », écrivait Robert Linhart, dans L’Etabli (Editions de Minuit), en 1978. L’industrie, et notamment la métallurgie, est un secteur d’activité dans lequel les risques pour la santé des ouvriers sont amplifiés par l’utilisation d’outils et de machines. Les employés agricoles, les salariés de la chimie ou les travailleurs du BTP sont aussi très exposés. Sur le terrain, les services de l’inspection du travail font régulièrement état de la présence de machines dangereuses.

      « Aveuglement dysfonctionnel »

      Si leur fréquence baisse depuis les années 1990, ces accidents sont souvent les plus graves, avec des blessures importantes, et les procédures qui s’ensuivent sont extrêmement longues. La responsabilité peut être difficile à établir, car plusieurs acteurs sont en jeu : l’employeur, le fabricant de la machine, l’installateur, la maintenance. La plupart du temps, chacun se renvoie la faute. Comme si la machine permettait à tous de se dédouaner.

      « Le risque zéro n’existe pas », entend-on régulièrement au sujet des accidents du travail, qui plus est quand une machine est en cause. Pourtant, le dysfonctionnement brutal que personne ne pouvait anticiper, qui accréditerait la thèse d’une infortune létale, n’est quasiment jamais à l’œuvre. Au contraire, les défaillances des machines sont souvent connues de tous. « Il peut s’installer une sorte d’aveuglement dysfonctionnel, analyse Jorge Munoz, maître de conférences en sociologie à l’université de Bretagne occidentale. Le problème est tellement récurrent qu’il en devient normal. »

      Une situation qui hante encore les jours et les nuits de Delphine et de Franck Marais, les parents de Ludovic. Personne ne pouvait soupçonner que ce jeune apprenti barman de 19 ans mettait sa vie en péril en servant pintes et cafés derrière le comptoir d’une brasserie réputée de Tours. Mais, le 16 décembre 2019, quelques minutes avant de rentrer chez lui, à 23 h 45, sa tête est percutée par le monte-charge des poubelles.

      La machine fonctionnait depuis des mois, voire plusieurs années, avec les grilles de protection ouvertes. « Quelqu’un a désactivé la sécurité qui empêchait le monte-charge de démarrer ainsi, grilles ouvertes », raconte Franck, le père. Qui ? Un salarié, pour gagner du temps ? L’employeur, pour que ses salariés aillent plus vite ? Le responsable de la maintenance, à la demande de l’employeur ? Un oubli du technicien ? « On ne saura probablement jamais, mais, finalement, là n’est pas la question, estime l’avocate des parents, Marion Ménage. Ce qui compte, c’est que l’entreprise savait qu’il fonctionnait grilles ouvertes et qu’elle n’a rien fait. »

      « Il se sentait en danger »

      Sécurité désactivée, maintenance non assurée, prévention déconsidérée… Les mêmes logiques, les mêmes légèretés face à des machines dangereuses reviennent méthodiquement dans les récits, soulignant le caractère systémique de ces événements dramatiques. « Les dispositifs de sécurité ralentissent parfois le processus de travail et empêchent de tenir la cadence, analyse Jorge Munoz. On peut être tenté de défaire le mécanisme et, donc, de mettre en péril l’utilisateur. » C’est cette logique mortifère qui a été fatale à Flavien Bérard. Le jeune homme de 27 ans était sondeur pour la Société de maintenance pétrolière (SMP), une entreprise de forage et d’entretien de puits pétroliers, gaziers et de géothermie.

      D’abord employé sur un site dans le Gard, où il s’épanouit malgré les conditions de travail difficiles, Flavien Bérard est transféré après une semaine à Villemareuil, en Seine-et-Marne. Il se retrouve sur un chantier de forage pétrolier dont est propriétaire SMP, « les puits du patron », comme on surnomme le lieu. Industrie lourde, à l’ancienne, rythme en trois-huit, rendements à tout prix… Flavien est confronté à un milieu dur et peu accueillant. « Il nous a vite dit que c’était difficile, se souvient sa mère, Fabienne. Le gaillard de 1,84 mètre, plus de 80 kilos, corps de rugbyman, est pourtant du genre à tenir physiquement.

      « Il nous a surtout dit qu’il se sentait en danger, que les machines étaient dangereuses et qu’il avait des doutes sur la sécurité », déplore aujourd’hui Fabienne Bérard. Ses inquiétudes s’avèrent prémonitoires. Alors qu’il avait décidé de ne pas poursuivre sur le site une fois sa mission arrivée à son terme, le 5 mars 2022, vers 4 heures, une pièce métallique d’une trentaine de kilos se détache d’une machine de forage et percute Flavien à la tête, une quinzaine de mètres plus bas. Il meurt le lendemain, à l’hôpital de la Pitié-Salpêtrière, à Paris.

      « On nous a tout de suite parlé d’une erreur humaine, avec une sécurité désactivée », explique le père de la victime, Laurent Bérard. Selon l’avocat des parents, Lionel Béthune de Moro, le rapport machine de l’expert judiciaire ferait état de « 373 non-conformités », dont 3 concerneraient le système responsable de l’accident. « Une sécurité essentielle a été désactivée, pour le rendement », ajoute-t-il. « On nous a même dit que ce n’était pas la première fois qu’il y avait un problème avec cette machine », renchérit Fabienne Bérard.

      Complexité des procédures

      Ces exemples posent la question de la #prévention et de la maintenance. « L’objectif, c’est que les entreprises voient celles-ci comme un profit et non comme un coût », affirme Jean-Christophe Blaise, expert de l’INRS. L’institut a justement pour mission de développer et de promouvoir une culture de prévention des accidents du travail au sein des entreprises. « Dans certains cas, elle peut être perçue comme quelque chose qui alourdit les processus, qui coûte plus cher, complète Jorge Munoz. Mais l’utilisation d’une machine nécessite une organisation spécifique. »

      D’autant qu’une politique de prévention se déploie sur le long terme et nécessite des actions régulières dans le temps. Les agents de l’INRS travaillent sur trois aspects pour éviter les drames autour des machines : les solutions techniques, l’organisation du travail et le levier humain (formation, compétences, etc.). « Un accident du travail est toujours multifactoriel et il faut agir sur tout à la fois, souligne M. Blaise. La clé, c’est la maintenance préventive : anticiper, prévoir plutôt que subir. »

      Les accidents du travail liés aux machines ont un autre point commun : la complexité des procédures qui s’ensuivent. Plus de deux ans après les faits, Claudine Duchêne ne connaît toujours pas les circonstances exactes de la mort de son mari. « Je sais juste que la machine n’aurait pas dû fonctionner en ce jour de maintenance, qu’il n’aurait pas dû y avoir d’électricité », assure-t-elle. L’enquête de la gendarmerie a été close en juillet 2022, celle de l’inspection du travail a été remise à la justice en juin 2023. Celle-ci révélerait « une faute accablante sur l’organisation de la journée de maintenance », précise Claudine Duchêne. Depuis, elle attend la décision du parquet de Nantes.

      Aux enquêtes de police et de l’inspection du travail peut s’ajouter une expertise judiciaire, ralentissant encore un peu plus la procédure, comme dans le cas de Flavien Bérard. « L’attente est longue et douloureuse pour les familles, souligne Me Béthune de Moro. Plus il y a d’intervenants, plus cela alourdit les choses, mais c’est toujours pour éclairer la situation, dans un souci de manifestation de la vérité. » La famille attend désormais d’éventuelles mises en examen et une ordonnance de renvoi dans l’année pour un procès en 2025.

      Après l’accident de Ludovic Marais, le monte-charge a été mis sous scellé jusqu’en mars 2023, une procédure indispensable mais qui allonge encore les délais. Cela a empêché l’intervention d’un expert judiciaire pendant plus de trois ans. « Le nouveau juge d’instruction a décidé de lever les scellés et une nouvelle expertise est en cours », confie Me Ménage. Le rapport pourrait arriver d’ici à l’été. Sachant que les avocats de la défense pourront éventuellement demander une contre-expertise. La brasserie, le patron, la tutrice du jeune apprenti, Otis (la société ayant installé le monte-charge) et un de ses techniciens chargé de la maintenance sont mis en examen pour « homicide involontaire par violation manifestement délibérée d’une obligation de sécurité et de prudence dans le cadre du travail ». Un procès pourrait avoir lieu fin 2024 ou en 2025. La fin d’un chemin de croix judiciaire pour qu’enfin le deuil soit possible.

    • Accidents du travail : les jeunes paient un lourd tribut
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/09/accidents-du-travail-les-jeunes-paient-un-lourd-tribut_6215566_3234.html

      Entre les entreprises peu scrupuleuses et la nécessité pour les jeunes de faire leurs preuves dans un monde du travail concurrentiel, les stagiaires, élèves de lycées professionnels ou apprentis sont les plus exposés aux risques professionnels.

      Quatre jours. L’unique expérience professionnelle de Jérémy Wasson n’aura pas duré plus longtemps. Le #stage d’observation de cet étudiant en première année à l’Ecole spéciale des travaux publics, du bâtiment et de l’industrie (ESTP) devait durer deux mois, dans l’entreprise Urbaine de travaux (filiale du géant du BTP Fayat). Le 28 mai 2020, il est envoyé seul sur le toit du chantier du centre de commandement unifié des lignes SNCF de l’Est parisien, à Pantin (Seine-Saint-Denis). A 13 h 30, il fait une chute en passant à travers une trémie de désenfumage – un trou laissé dans le sol en attente d’aménagement – mal protégée. Il meurt deux jours plus tard, à 21 ans.

      L’accident de Jérémy a laissé la grande école du bâtiment en état de choc. « C’est ce qui m’est arrivé de pire en trente ans d’enseignement supérieur », exprime Joël Cuny, directeur général de l’ESTP, directeur des formations à l’époque. La stupeur a laissé la place à de vibrants hommages. Un peu courts, toutefois… L’ESTP ne s’est pas portée partie civile au procès, regrette Frédéric Wasson, le père de Jérémy, qui souligne que « Fayat est l’entreprise marraine de la promo de [s]on fils… », ou que, dès 2021, Urbaine de travaux reprenait des dizaines de stagiaires issus de l’école.

      #Stagiaires, élèves de lycées professionnels en période de formation en milieu professionnel, #apprentis… Les jeunes paient un lourd tribut parmi les morts au travail : trente-six travailleurs de moins de 25 ans n’ont pas survécu à un accident du travail en 2022, selon le dernier bilan de la Caisse nationale d’assurance-maladie (CNAM). C’est 29 % de plus qu’en 2019. Et encore cela ne porte que sur les salariés du régime général. La CNAM souligne aussi que, par rapport aux autres accidents du travail, il s’agit davantage d’accidents « classiques, c’est-à-dire hors malaises et suicides », et d’accidents routiers.

      « Irresponsabilité totale »

      L’inexpérience de ces jeunes, quand elle n’est pas compensée par un accompagnement renforcé, explique en partie cette surmortalité. Quelque 15 % des accidents graves et mortels surviennent au cours des trois premiers mois suivant l’embauche, et plus de la moitié des salariés de moins de 25 ans morts au travail avaient moins d’un an d’ancienneté dans le poste.

      Tom Le Duault a, lui, perdu la vie le lundi 25 octobre 2021. Cet étudiant en BTS technico-commercial entame alors son quatrième contrat court dans l’abattoir de LDC Bretagne, à Lanfains (Côtes-d’Armor). Sa mère y travaille depuis vingt-neuf ans, et il espère ainsi mettre un peu d’argent de côté. Comme lors de ses premières expériences, il est « à la découpe », où il s’occupe de mettre en boîte les volailles. Ce matin-là, un salarié est absent. Tom doit le remplacer dans le réfrigérateur où sont stockées les caisses de viande. Il est censé y empiler les boîtes avec un gerbeur, un appareil de levage.

      « Sur les dernières images de vidéosurveillance, on le voit entrer à 9 h 53. Il n’est jamais ressorti, et personne ne s’est inquiété de son absence », regrette Isabelle Le Duault, sa mère. Il est découvert à 10 h 45, asphyxié sous deux caisses de cuisses de volaille. Elle apprend la mort de son fils par hasard. « J’ai vu qu’il y avait plein de monde dehors. Une fille m’a dit qu’il y avait un accident grave, elle m’a dit de demander si ce n’était pas mon fils au responsable. Il m’a demandé : “C’est Tom comment ?” C’était bien lui… »

      Les conclusions des enquêtes de gendarmerie et de l’inspection du travail ont vite écarté une éventuelle responsabilité du jeune homme. Jean-Claude Le Duault, son père, en veut à l’entreprise. « Tom n’a pas voulu les décevoir, vu que sa mère travaillait là. Mais on ne met pas un gamin de 18 ans seul dans un atelier, une heure, sans vérifier, sur un gerbeur. Il ne connaît pas les dangers, les règles de sécurité. C’est une irresponsabilité totale, à tous les étages. »

      Manquements

      Dans un monde du travail concurrentiel, les jeunes se doivent de faire leurs preuves. A quel prix ? Selon une enquête du Centre d’études et de recherches sur les qualifications publiée en 2020, 59 % des jeunes sortant de la voie professionnelle sont exposés à des risques de blessures ou d’accidents. Or, dans le même temps, ils n’ont pas la même connaissance de leurs droits. Toujours dans cette étude, 42 % déclaraient ne pas avoir reçu de formation ou d’informationsur la santé et la sécurité à l’arrivée sur leur poste. C’est le cas de Tom Le Duault, qui n’avait même pas de fiche de poste. Comme son utilisation du gerbeur n’était pas prévue, il avait été formé sur le tas.

      « Il avait déjà travaillé avec un appareil de levage lors de son précédent contrat, et il s’était déjà blessé à la cheville, ce qui avait causé trois semaines d’arrêt, fulmine Ralph Blindauer, avocat de la famille. Il a été formé par un autre intérimaire. C’était une formation à l’utilisation, pas à la sécurité ! »

      A l’absence d’encadrement et de formation s’ajoutent d’autres manquements, détaillés lors du procès de l’entreprise au pénal : l’appareil était défaillant, ce qui a vraisemblablement causé l’accident, et les salariés de LDC avaient l’habitude d’empiler les caisses sur trois niveaux au lieu de deux, faute de place dans la chambre froide, ce qui est contraire aux règles de sécurité.

      Le rôle du tuteur est crucial

      LDC Bretagne a été condamné, en mai 2023, à une amende de 300 000 euros, tandis que l’ancien directeur de l’#usine – devenu, entre-temps, « chargé de mission » au sein de l’entreprise – a été condamné à deux ans de prison avec sursis. Reconnaissant ses manquements, l’entreprise n’a pas fait appel, chose rare. La direction de cette grosse PME déclare que des mesures complémentaires ont été prises à la suite du décès de Tom, notamment un « plan de formation renforcé à la sécurité, des habilitations, une évaluation complète et approfondie des risques sur les différents postes, des audits par des cabinets indépendants ou le suivi d’indicateurs ».

      Un badge est désormais nécessaire pour se servir d’un gerbeur, ajoute Isabelle Le Duault. Elle a choisi de rester dans l’entreprise, mais à mi-temps. « Moi, je ne peux plus passer devant cette usine, ou même dans cette ville », renchérit son mari.

      En stage ou en apprentissage, le rôle du tuteur est crucial. Sur le chantier d’Urbaine de travaux, à Pantin, l’arrivée de Jérémy Wasson n’avait pas été anticipée. Le lundi matin, personne ne s’occupe de lui, car le chantier est en retard. Il ne reçoit rien d’autre qu’un livret d’accueil et un rendez-vous de quinze minutes pendant lequel on lui parle surtout des gestes barrières. « Jérémy s’est très vite interrogé sur la nature de son stage. Dès le premier jour, on lui a fait faire du marteau-piqueur, le mercredi soir, il trouvait ça fatigant et inintéressant. Ce soir-là, on a hésité à prévenir l’école… », raconte son père.

      Renforcer la formation à la sécurité

      La société Urbaine de travaux a été condamnée, en 2022, à 240 000 euros d’amende pour « homicide involontaire », et l’ingénieure en chef du chantier à 10 000 euros et deux ans de prison avec sursis. Cette décision du tribunal de Bobigny a confirmé les lourdes conclusions de l’inspection du travail, notamment la violation délibérée d’une obligation de #sécurité, l’absence d’encadrement et de formation de Jérémy et l’absence de #sécurisation de la trémie. L’entreprise a fait appel.

      Face à la violence de ces récits, qui concernent parfois des mineurs, le sujet a été érigé en axe prioritaire dans le plan santé au travail du gouvernement. Mais le choix du ministère du travail de publier deux mémentos qui mettent jeunes et entreprises sur le même plan, les invitant à « respecter toutes les consignes », peut étonner.

      Les écoles et centres de formation ont aussi un rôle à jouer pour renforcer la formation à la sécurité. En 2022, la CNAM a recensé plus de 1 million d’élèves et apprentis (CAP et bac professionnel) ayant reçu un enseignement spécifique en santé et sécurité au travail.

      Faciliter la mise en situation des adolescents

      A la suite du décès de Jérémy, l’ESTP a renforcé les enseignements – déjà obligatoires – sur la sécurité. Un élève ne peut se rendre en stage sans avoir obtenu une certification. « En cas de signalement, on fait un point avec les RH de l’entreprise, et si ça ne se résout pas, nous n’avons pas de scrupules à arrêter le stage. Mais je ne remets pas en cause la volonté des entreprises de créer un environnement de sécurité pour accueillir nos élèves », déclare Joël Cuny.

      Un argument difficile à entendre pour la famille de Jérémy Wasson… Car les #entreprises restent les premières responsables de la santé des jeunes sous leur responsabilité, comme du reste de leurs salariés. Le nombre d’apprentis a explosé ces dernières années, la réforme du lycée professionnel souhaite faciliter la mise en situation des adolescents.

      Par ailleurs, le gouvernement a annoncé l’obligation pour les élèves de 2de générale et technologique, dès 2024, d’effectuer un stage en entreprise ou en association de deux semaines, semblable au stage de 3e. La question ne s’est jamais autant posée : les employeurs mettront-ils les moyens pour protéger tous ces jeunes ?

      #apprentissage

    • Avec la sous-traitance, des accidents du travail en cascade, Anne Rodier
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/10/avec-la-sous-traitance-des-accidents-du-travail-en-cascade_6215798_3234.html

      Pression économique des donneurs d’ordre, délais resserrés, manque de prévention… Les salariés des entreprises en sous-traitance, en particulier sur les chantiers et dans le nettoyage, sont plus exposés aux accidents du travail. Surtout lorsqu’ils sont #sans-papiers.

      https://justpaste.it/axscq

      #sous-traitance

  • Et tu découvres que des vieilles peaux de Seenthis, façon grizzly, dont les publis ne valent ni plus ni moins, mais bon, c’est les réseaux sociaux, tu relaies, t’ont bloqué. Egos boursouflés... :-D :-D :-D

    Aux apatrides du web merdique, reconnaissants...

    Le Web 2.0 est mort, vive le Web de... !

    https://api.arretsurimages.net/api/public/media/pourquoi-internet-a-cesse-detre-fun/action/show?format=public&t=2024-01-25T17:54:30+01:00

    #média #communication #humour #triste #moraliste #sectaire #France #vérité #nombril #voisins_vigilants #société #seenthis #vangauguin

    https://www.arretsurimages.net/chroniques/clic-gauche/aux-apatrides-du-web-merdique

  • La lutte des FTP-MOI, l’affiche rouge et la panthéonisation des époux Manouchian. De l’histoire au mythe.

    "Au fil du temps, l’affiche rouge, xénophobe, antisémite et anticommuniste, s’impose comme l’image iconique de la propagande nazie. Or, paradoxalement, elle devient également la preuve de la place éminente prise par des étrangers dans la Résistance, contribuant, par ricochet, à la glorification d’individus que les concepteurs de l’affiche cherchaient à stigmatiser.

    80 ans après l’exécution des hommes de l’affiche rouge, le président Macron décide de panthéoniser Missak et Mélinée Manouchian. Certes, avec le couple, c’est symboliquement tout le cortège de combattants étrangers, communistes, qui,va entrer en ce lieu. Il n’empêche, le choix de célébrer l’esprit universaliste de la résistance risque de transformer Manouchian en un héros de "roman national", au service d’un récit patriotique. A moins que le discours lénifiant du politique, cherchant à faire oublier le récent vote de la loi immigration, ne fasse du résistant un modèle "d’intégration à la française". Ce serait oublier un peu vite que les hommes du FTP-MOI étaient, pour la plupart d’entre eux, communistes, donc internationalistes. De même, le choix de panthéoniser Manouchian plutôt qu’Epstein - son supérieur hiérarchique, lui aussi exécuté par les Allemands - peut-être interrogé. Pour Annette Wievorka, « ne panthéoniser que lui, c’est coller à la propagande allemande qui en a fait un chef de bande, alors que choisir les vingt-trois permettrait de rétablir le récit historique qui a évacué les autres, républicains espagnols, juifs polonais ou communistes italiens. » "
    https://lhistgeobox.blogspot.com/2024/02/la-lutte-des-ftp-moi-laffiche-rouge-et.html

  • « Et dans pas bien longtemps des têtes de cochon comme le type de Csilla vont dégager, tout le monde dit que la guerre approche, ils seront les premiers à être rappelés sous les drapeaux dans l’armée populaire yougoslave, un homme comme ça, à moitié bohémien, il y sera bienvenu, qu’il se batte donc et qu’il crève pour les Serbes ! (…) tante Icu, qui se signe, le suit du regard, et toi, dit-elle, toi aussi tu devais tout autant servir de chair à canon pendant la dernière guerre, toi, un Hongrois parmi les Partisans, toi à qui on n’avait mêm pas donné une arme dans ton régiment de Pétöfi, mais toi et ton épaule, vous l’avez oublié depuis belle lurette, toi, mon Piri, mais moi pas. »
    #guerre #hongrois #minorité #yougoslavie #mémoire #secondeguerremondiale #rrom #racisme #communisme

    Pigeon vole p. 99-100

  • La biodynamie : occultisme et dérive sectaire, Cyril Gambari* – Science, Travail & Environnement
    https://revue-progressistes.org/2023/02/21/la-biodynamie-occultisme-et-derive-sectaire-a-la-campagne-entre

    Très concrètement, l’agriculture biodynamique offre les mêmes résultats que l’agriculture biologique[7]. Les bonnes pratiques paysannes – rotation des cultures, lâcher d’auxiliaires, enherbement, plantation de haies, etc. – qui sont utilisées à la fois en agriculture biologique et en agriculture biodynamique expliquent le peu de différences observé entre les deux.

    La biodynamie c’est du bio plus de la pseudo-science. Les prétentions de Demeter ne s’appuient sur rien de solide, rien de concret. C’est ce qu’on pourrait appeler du marketing.

    La très large majorité des études scientifiques comparant l’agriculture conventionnelle, l’agriculture biologique et l’agriculture biodynamique montrent des résultats similaires quant aux rendements, à la faune et à la microbiologie des sols, à l’incidence des maladies… et à la qualité nutritionnelle entre les produits des deux dernières. La biodynamie c’est du bio plus de la pseudo-science.

    Les prétentions de Demeter ne s’appuient sur rien de solide, rien de concret. C’est ce qu’on pourrait appeler du marketing.

    • Peu de monde connaît l’existence de ces préparations, elles sont pourtant la base de la biodynamie. Il existe huit préparations, numérotées P500 à P507. Si ceux qui s’intéressent un peu à la biodynamie connaissent la bouse de corne (de la bouse introduite dans une corne de vache), ce n’est pas le cas de la vessie de cerf fourrée d’achillée millefeuille, du crâne d’animal domestique fourré d’écorces de chêne ou encore des mésentères et autres intestins de bovins fourrés de fleurs diverses, car ils sont très peu médiatisés.

      Ces préparations à épandre dans les champs ou destinées à arroser le tas de compost ont toutes une signification dans l’anthroposophie de Steiner. Ainsi pour la préparation P502 les biodynamistes prennent le cerf pour sa tendance à accumuler les forces astrales, via ses cornes, dans sa vessie. Selon Rudolf Steiner, le cerf est l’animal qui capte le plus ce qui provient de l’environnement de la Terre. Toujours selon Steiner, l’achillée, étant connue pour sa capacité à soigner les problèmes de reins ou de vessie qui proviennent d’un déséquilibre astral, va transmettre les forces de Vénus et réguler le processus potassium par l’intermédiaire du soufre. Ceux qui vont promouvoir la biodynamie aujourd’hui font toujours appel aux mêmes arguments : toutes les préparations ont ce genre de signification ; on ne peut vraiment les comprendre sans avoir lu Steiner et les avoir passées sous le prisme de l’anthroposophie.

      Ca ressemble a certaines pratiques vues dans Midsommar de Ari Aster.

      the filmmaker researched the work of Austrian philosopher Rudolf Steiner, who founded anthroposophy, a philosophy that encourages spiritual development (to put it mildly).

      https://www.vanityfair.com/hollywood/2019/07/midsommar-folklore-sweden

      Il y aussi des references aux croyances nazi-compatibles de Steiner et la langue des Harga
      https://i.imgur.com/awPy8jI.jpeg
      https://veritesteiner.wordpress.com/2015/06/15/les-nazis-et-les-anthroposophes-amis-ou-ennemis

  • Des milliers d’Indiens postulent pour travailler en Israël
    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/01/30/des-milliers-d-indiens-postulent-pour-travailler-en-israel_6213904_3210.html

    Des milliers d’Indiens postulent pour travailler en Israël
    Par Carole Dieterich (New Delhi, correspondance)
    Après avoir parfois parcouru des centaines de kilomètres, des milliers d’Indiens, âgés de 21 à 45 ans, ont fait la queue des heures durant dans le froid devant les centres de recrutement installés du 17 au 21 janvier à Rohtak, dans l’Haryana, à la frontière de la capitale, New Delhi, puis du 21 au 30 janvier à Lucknow, dans l’Uttar Pradesh, dans l’espoir de décrocher un emploi en Israël, qui fait face à une pénurie de main-d’œuvre depuis les attaques menées par le Hamas, le 7 octobre 2023.
    Le 1er janvier, Gurmeet Kashyap, un maçon d’à peine 25 ans, a répondu à une annonce publiée sur un site du gouvernement de l’Haryana pour un emploi de plâtrier en Israël. Face à l’offre alléchante, le travailleur journalier n’a pas hésité. « Que pouvons-nous faire ? La sécurité n’existe pas quand vous gagnez à peine de quoi acheter du pain et de l’eau. Notre sécurité est entre les mains de Dieu », lance Gurmeet Kashyap, qui a passé des entretiens lors du premier cycle de recrutement, organisé dans l’enceinte d’une université de Rohtak. Les salaires proposés par les recruteurs israéliens dépassent les 1 500 euros mensuels. C’est plus de dix fois ce que Gurmeet Kashyap peut espérer gagner en Inde – une centaine d’euros les bons mois, dit-il.
    L’Inde, qui se targue d’être la cinquième puissance économique mondiale devant le Royaume-Uni, est marquée par un chômage chronique. Des millions de personnes ne parviennent pas à trouver d’emploi stable à temps plein. Près de 22 % des salariés indiens sont des travailleurs occasionnels, dont le revenu mensuel moyen n’atteint même pas les 90 euros. Les jeunes, qui sont des millions à arriver chaque année sur le marché de l’emploi, souffrent particulièrement de ce fléau. Selon le rapport sur l’emploi de l’université Azim Premji, à Bangalore, le chômage touche 15 % des diplômes universitaires de tous les âges et environ 42 % des diplômes de moins de 25 ans. « Il n’y a pas d’emploi en Inde, j’ai postulé alors même que je n’ai aucune qualification dans la construction », admet Abhishek, un jeune de 24 ans, titulaire d’une licence.
    Israël pour sa part manque cruellement de travailleurs dans le secteur du bâtiment, quasiment au point mort. Depuis le début de la guerre, de nombreux travailleurs étrangers ont fui Israël, qui a également retiré leur permis de travail à plus de 100 000 Palestiniens. « Nous avons perdu 82 000 travailleurs dans le secteur de la construction, la plupart venaient d’Europe de l’Est ou encore de Chine et vivaient en Israël depuis des années », indique Shay Pauzner, directeur général adjoint de l’Association des constructeurs d’Israël, qui participe actuellement au recrutement de 20 000 personnes en Inde, sous l’égide de New Delhi et de Tel-Aviv. Avant le début du conflit, en mai 2023, les deux pays avaient signé un accord pour permettre à 40 000 Indiens d’être employés dans les secteurs de la construction mais aussi des soins infirmiers. Quelque 18 000 Indiens travailleraient déjà en Israël.
    Cette vague de recrutement pour des postes de menuisiers, de maçons ou encore de plâtriers et d’électriciens a débuté fin décembre et s’est poursuivie jusqu’au 30 janvier. Les candidats, qui doivent posséder des connaissances de base en anglais, sont également soumis à un test de compétences en conditions réelles. Environ 7 000 Indiens ont déjà été embauchés et l’Association des constructeurs d’Israël espère pouvoir commencer à les faire venir sous peu, au rythme de 1 000 par semaine. « La difficulté est que peu de vols commerciaux desservent actuellement Israël et il va falloir que nous trouvions une solution pour y remédier », indique Shay Pauzner, qui aimerait recruter encore davantage en Inde. Plusieurs milliers d’ouvriers seront également engagés au Sri Lanka mais aussi en Ouzbékistan.
    Le gouvernement indien, qui s’est rapproché d’Israël ces dernières années, avait assuré dès le mois de novembre 2023 qu’il ne s’agissait pas de remplacer les travailleurs palestiniens. Plusieurs syndicats de gauche indiens se sont néanmoins indignés du recrutement de leurs compatriotes par Israël. Le Centre of Indian Trade Unions a accusé le gouvernement indien de fournir de la main-d’œuvre bon marché à Israël et appelé les travailleurs indiens à ne pas devenir des proies en postulant à des emplois en Israël, une « zone déchirée par un conflit » et dont « le gouvernement prive de leur emploi des milliers de Palestiniens travaillant en Israël ». New Delhi a assuré que l’Inde s’engageait à garantir la sécurité et la protection de ses travailleurs migrants et a fait valoir que le droit du travail en Israël était robuste. « Le gouvernement israélien a interrompu les constructions dans les zones dangereuses », abonde Shay Pauzner, affirmant que ces nouveaux travailleurs n’avaient rien à craindre pour leur sécurité. « Avec un salaire à plus de 1 500 euros, j’ai tout naturellement postulé », fait valoir Sunil Kumar, un maçon de 33 ans qui a passé un entretien à la fin du mois de janvier. « Nous voulons tous une vie décente, pouvoir envoyer nos enfants à l’école et manger à notre faim », conclut-il, dans l’attente d’une réponse de ses recruteurs.

    #Covid-19#migrant#migration#israel#gaza#inde#travailleurmigrant#economie#securite#pauvrete

  • L’#Europe et la fabrique de l’étranger

    Les discours sur l’ « #européanité » illustrent la prégnance d’une conception identitaire de la construction de l’Union, de ses #frontières, et de ceux qu’elle entend assimiler ou, au contraire, exclure au nom de la protection de ses #valeurs particulières.

    Longtemps absente de la vie démocratique de l’#Union_européenne (#UE), la question identitaire s’y est durablement installée depuis les années 2000. Si la volonté d’affirmer officiellement ce que « nous, Européens » sommes authentiquement n’est pas nouvelle, elle concernait jusqu’alors surtout – à l’instar de la Déclaration sur l’identité européenne de 1973 – les relations extérieures et la place de la « Communauté européenne » au sein du système international. À présent, elle renvoie à une quête d’« Européanité » (« Europeanness »), c’est-à-dire la recherche et la manifestation des #trait_identitaires (héritages, valeurs, mœurs, etc.) tenus, à tort ou à raison, pour caractéristiques de ce que signifie être « Européens ». Cette quête est largement tournée vers l’intérieur : elle concerne le rapport de « nous, Européens » à « nous-mêmes » ainsi que le rapport de « nous » aux « autres », ces étrangers et étrangères qui viennent et s’installent « chez nous ».

    C’est sous cet aspect identitaire qu’est le plus fréquemment et vivement discuté ce que l’on nomme la « #crise_des_réfugiés » et la « #crise_migratoire »

    L’enjeu qui ferait de l’#accueil des exilés et de l’#intégration des migrants une « #crise » concerne, en effet, l’attitude que les Européens devraient adopter à l’égard de celles et ceux qui leur sont « #étrangers » à double titre : en tant qu’individus ne disposant pas de la #citoyenneté de l’Union, mais également en tant que personnes vues comme les dépositaires d’une #altérité_identitaire les situant à l’extérieur du « #nous » – au moins à leur arrivée.

    D’un point de vue politique, le traitement que l’Union européenne réserve aux étrangères et étrangers se donne à voir dans le vaste ensemble de #discours, #décisions et #dispositifs régissant l’#accès_au_territoire, l’accueil et le #séjour de ces derniers, en particulier les accords communautaires et agences européennes dévolus à « une gestion efficace des flux migratoires » ainsi que les #politiques_publiques en matière d’immigration, d’intégration et de #naturalisation qui restent du ressort de ses États membres.

    Fortement guidées par des considérations identitaires dont la logique est de différencier entre « nous » et « eux », de telles politiques soulèvent une interrogation sur leurs dynamiques d’exclusion des « #autres » ; cependant, elles sont aussi à examiner au regard de l’#homogénéisation induite, en retour, sur le « nous ». C’est ce double questionnement que je propose de mener ici.

    En quête d’« Européanité » : affirmer la frontière entre « nous » et « eux »

    La question de savoir s’il est souhaitable et nécessaire que les contours de l’UE en tant que #communauté_politique soient tracés suivant des #lignes_identitaires donne lieu à une opposition philosophique très tranchée entre les partisans d’une défense sans faille de « l’#identité_européenne » et ceux qui plaident, à l’inverse, pour une « #indéfinition » résolue de l’Europe. Loin d’être purement théorique, cette opposition se rejoue sur le plan politique, sous une forme tout aussi dichotomique, dans le débat sur le traitement des étrangers.

    Les enjeux pratiques soulevés par la volonté de définir et sécuriser « notre » commune « Européanité » ont été au cœur de la controverse publique qu’a suscitée, en septembre 2019, l’annonce faite par #Ursula_von_der_Leyen de la nomination d’un commissaire à la « #Protection_du_mode_de_vie_européen », mission requalifiée – face aux critiques – en « #Promotion_de_notre_mode_de_vie_européen ». Dans ce portefeuille, on trouve plusieurs finalités d’action publique dont l’association même n’a pas manqué de soulever de vives inquiétudes, en dépit de la requalification opérée : à l’affirmation publique d’un « #mode_de_vie » spécifiquement « nôtre », lui-même corrélé à la défense de « l’#État_de_droit », « de l’#égalité, de la #tolérance et de la #justice_sociale », se trouvent conjoints la gestion de « #frontières_solides », de l’asile et la migration ainsi que la #sécurité, le tout placé sous l’objectif explicite de « protéger nos citoyens et nos valeurs ».

    Politiquement, cette « priorité » pour la période 2019-2024 s’inscrit dans la droite ligne des appels déjà anciens à doter l’Union d’un « supplément d’âme
     » ou à lui « donner sa chair » pour qu’elle advienne enfin en tant que « #communauté_de_valeurs ». De tels appels à un surcroît de substance spirituelle et morale à l’appui d’un projet européen qui se devrait d’être à la fois « politique et culturel » visaient et visent encore à répondre à certains problèmes pendants de la construction européenne, depuis le déficit de #légitimité_démocratique de l’UE, si discuté lors de la séquence constitutionnelle de 2005, jusqu’au défaut de stabilité culminant dans la crainte d’une désintégration européenne, rendue tangible en 2020 par le Brexit.

    Précisément, c’est de la #crise_existentielle de l’Europe que s’autorisent les positions intellectuelles qui, poussant la quête d’« Européanité » bien au-delà des objectifs politiques évoqués ci-dessus, la déclinent dans un registre résolument civilisationnel et défensif. Le geste philosophique consiste, en l’espèce, à appliquer à l’UE une approche « communautarienne », c’est-à-dire à faire entièrement reposer l’UE, comme ensemble de règles, de normes et d’institutions juridiques et politiques, sur une « #communauté_morale » façonnée par des visions du bien et du monde spécifiques à un groupe culturel. Une fois complétée par une rhétorique de « l’#enracinement » desdites « #valeurs_européennes » dans un patrimoine historique (et religieux) particulier, la promotion de « notre mode de vie européen » peut dès lors être orientée vers l’éloge de ce qui « nous » singularise à l’égard d’« autres », de « ces mérites qui nous distinguent » et que nous devons être fiers d’avoir diffusés au monde entier.

    À travers l’affirmation de « notre » commune « Européanité », ce n’est pas seulement la reconnaissance de « l’#exception_européenne » qui est recherchée ; à suivre celles et ceux qui portent cette entreprise, le but n’est autre que la survie. Selon #Chantal_Delsol, « il en va de l’existence même de l’Europe qui, si elle n’ose pas s’identifier ni nommer ses caractères, finit par se diluer dans le rien. » Par cette #identification européenne, des frontières sont tracées. Superposant Europe historique et Europe politique, Alain Besançon les énonce ainsi : « l’Europe s’arrête là où elle s’arrêtait au XVIIe siècle, c’est-à-dire quand elle rencontre une autre civilisation, un régime d’une autre nature et une religion qui ne veut pas d’elle. »

    Cette façon de délimiter un « #nous_européen » est à l’exact opposé de la conception de la frontière présente chez les partisans d’une « indéfinition » et d’une « désappropriation » de l’Europe. De ce côté-ci de l’échiquier philosophique, l’enjeu est au contraire de penser « un au-delà de l’identité ou de l’identification de l’Europe », étant entendu que le seul « crédit » que l’on puisse « encore accorder » à l’Europe serait « celui de désigner un espace de circulation symbolique excédant l’ordre de l’identification subjective et, plus encore, celui de la #crispation_identitaire ». Au lieu de chercher à « circonscri[re] l’identité en traçant une frontière stricte entre “ce qui est européen” et “ce qui ne l’est pas, ne peut pas l’être ou ne doit pas l’être” », il s’agit, comme le propose #Marc_Crépon, de valoriser la « #composition » avec les « #altérités » internes et externes. Animé par cette « #multiplicité_d’Europes », le principe, thématisé par #Etienne_Balibar, d’une « Europe comme #Borderland », où les frontières se superposent et se déplacent sans cesse, est d’aller vers ce qui est au-delà d’elle-même, vers ce qui l’excède toujours.

    Tout autre est néanmoins la dynamique impulsée, depuis une vingtaine d’années, par les politiques européennes d’#asile et d’immigration.

    La gouvernance européenne des étrangers : l’intégration conditionnée par les « valeurs communes »

    La question du traitement public des étrangers connaît, sur le plan des politiques publiques mises en œuvre par les États membres de l’UE, une forme d’européanisation. Celle-ci est discutée dans les recherches en sciences sociales sous le nom de « #tournant_civique ». Le terme de « tournant » renvoie au fait qu’à partir des années 2000, plusieurs pays européens, dont certains étaient considérés comme observant jusque-là une approche plus ou moins multiculturaliste (tels que le Royaume-Uni ou les Pays-Bas), ont développé des politiques de plus en plus « robustes » en ce qui concerne la sélection des personnes autorisées à séjourner durablement sur leur territoire et à intégrer la communauté nationale, notamment par voie de naturalisation. Quant au qualificatif de « civique », il marque le fait que soient ajoutés aux #conditions_matérielles (ressources, logement, etc.) des critères de sélection des « désirables » – et, donc, de détection des « indésirables » – qui étendent les exigences relatives à une « #bonne_citoyenneté » aux conduites et valeurs personnelles. Moyennant son #intervention_morale, voire disciplinaire, l’État se borne à inculquer à l’étranger les traits de caractère propices à la réussite de son intégration, charge à lui de démontrer qu’il conforme ses convictions et comportements, y compris dans sa vie privée, aux « valeurs » de la société d’accueil. Cette approche, centrée sur un critère de #compatibilité_identitaire, fait peser la responsabilité de l’#inclusion (ou de l’#exclusion) sur les personnes étrangères, et non sur les institutions publiques : si elles échouent à leur assimilation « éthique » au terme de leur « #parcours_d’intégration », et a fortiori si elles s’y refusent, alors elles sont considérées comme se plaçant elles-mêmes en situation d’être exclues.

    Les termes de « tournant » comme de « civique » sont à complexifier : le premier car, pour certains pays comme la France, les dispositifs en question manifestent peu de nouveauté, et certainement pas une rupture, par rapport aux politiques antérieures, et le second parce que le caractère « civique » de ces mesures et dispositifs d’intégration est nettement moins évident que leur orientation morale et culturelle, en un mot, identitaire.

    En l’occurrence, c’est bien plutôt la notion d’intégration « éthique », telle que la définit #Jürgen_Habermas, qui s’avère ici pertinente pour qualifier ces politiques : « éthique » est, selon lui, une conception de l’intégration fondée sur la stabilisation d’un consensus d’arrière-plan sur des « valeurs » morales et culturelles ainsi que sur le maintien, sinon la sécurisation, de l’identité et du mode de vie majoritaires qui en sont issus. Cette conception se distingue de l’intégration « politique » qui est fondée sur l’observance par toutes et tous des normes juridico-politiques et des principes constitutionnels de l’État de droit démocratique. Tandis que l’intégration « éthique » requiert des étrangers qu’ils adhèrent aux « valeurs » particulières du groupe majoritaire, l’intégration « politique » leur demande de se conformer aux lois et d’observer les règles de la participation et de la délibération démocratiques.

    Or, les politiques d’immigration, d’intégration et de naturalisation actuellement développées en Europe sont bel et bien sous-tendues par cette conception « éthique » de l’intégration. Elles conditionnent l’accès au « nous » à l’adhésion à un socle de « valeurs » officiellement déclarées comme étant déjà « communes ». Pour reprendre un exemple français, cette approche ressort de la manière dont sont conçus et mis en œuvre les « #contrats_d’intégration » (depuis le #Contrat_d’accueil_et_d’intégration rendu obligatoire en 2006 jusqu’à l’actuel #Contrat_d’intégration_républicaine) qui scellent l’engagement de l’étranger souhaitant s’installer durablement en France à faire siennes les « #valeurs_de_la_République » et à les « respecter » à travers ses agissements. On retrouve la même approche s’agissant de la naturalisation, la « #condition_d’assimilation » propre à cette politique donnant lieu à des pratiques administratives d’enquête et de vérification quant à la profondeur et la sincérité de l’adhésion des étrangers auxdites « valeurs communes », la #laïcité et l’#égalité_femmes-hommes étant les deux « valeurs » systématiquement mises en avant. L’étude de ces pratiques, notamment les « #entretiens_d’assimilation », et de la jurisprudence en la matière montre qu’elles ciblent tout particulièrement les personnes de religion et/ou de culture musulmanes – ou perçues comme telles – en tant qu’elles sont d’emblée associées à des « valeurs » non seulement différentes, mais opposées aux « nôtres ».

    Portées par un discours d’affrontement entre « systèmes de valeurs » qui n’est pas sans rappeler le « #choc_des_civilisations » thématisé par #Samuel_Huntington, ces politiques, censées « intégrer », concourent pourtant à radicaliser l’altérité « éthique » de l’étranger ou de l’étrangère : elles construisent la figure d’un « autre » appartenant – ou suspecté d’appartenir – à un système de « valeurs » qui s’écarterait à tel point du « nôtre » que son inclusion dans le « nous » réclamerait, de notre part, une vigilance spéciale pour préserver notre #identité_collective et, de sa part, une mise en conformité de son #identité_personnelle avec « nos valeurs », telles qu’elles s’incarneraient dans « notre mode de vie ».

    Exclusion des « autres » et homogénéisation du « nous » : les risques d’une « #Europe_des_valeurs »

    Le recours aux « valeurs communes », pour définir les « autres » et les conditions de leur entrée dans le « nous », n’est pas spécifique aux politiques migratoires des États nationaux. L’UE, dont on a vu qu’elle tenait à s’affirmer en tant que « communauté morale », a substitué en 2009 au terme de « #principes » celui de « valeurs ». Dès lors, le respect de la dignité humaine et des droits de l’homme, la liberté, la démocratie, l’égalité, l’État de droit sont érigés en « valeurs » sur lesquelles « l’Union est fondée » (art. 2 du Traité sur l’Union européenne) et revêtent un caractère obligatoire pour tout État souhaitant devenir et rester membre de l’UE (art. 49 sur les conditions d’adhésion et art. 7 sur les sanctions).

    Reste-t-on ici dans le périmètre d’une « intégration politique », au sens où la définit Habermas, ou franchit-on le cap d’une « intégration éthique » qui donnerait au projet de l’UE – celui d’une intégration toujours plus étroite entre les États, les peuples et les citoyens européens, selon la formule des traités – une portée résolument identitaire, en en faisant un instrument pour sauvegarder la « #civilisation_européenne » face à d’« autres » qui la menaceraient ? La seconde hypothèse n’a certes rien de problématique aux yeux des partisans de la quête d’« Européanité », pour qui le projet européen n’a de sens que s’il est tout entier tourné vers la défense de la « substance » identitaire de la « civilisation européenne ».

    En revanche, le passage à une « intégration éthique », tel que le suggère l’exhortation à s’en remettre à une « Europe des valeurs » plutôt que des droits ou de la citoyenneté, comporte des risques importants pour celles et ceux qui souhaitent maintenir l’Union dans le giron d’une « intégration politique », fondée sur le respect prioritaire des principes démocratiques, de l’État de droit et des libertés fondamentales. D’où également les craintes que concourt à attiser l’association explicite des « valeurs de l’Union » à un « mode de vie » à préserver de ses « autres éthiques ». Deux risques principaux semblent, à cet égard, devoir être mentionnés.

    En premier lieu, le risque d’exclusion des « autres » est intensifié par la généralisation de politiques imposant un critère de #compatibilité_identitaire à celles et ceux que leur altérité « éthique », réelle ou supposée, concourt à placer à l’extérieur d’une « communauté de valeurs » enracinée dans des traditions particulières, notamment religieuses. Fondé sur ces bases identitaires, le traitement des étrangers en Europe manifesterait, selon #Etienne_Tassin, l’autocontradiction d’une Union se prévalant « de la raison philosophique, de l’esprit d’universalité, de la culture humaniste, du règne des droits de l’homme, du souci pour le monde dans l’ouverture aux autres », mais échouant lamentablement à son « test cosmopolitique et démocratique ». Loin de représenter un simple « dommage collatéral » des politiques migratoires de l’UE, les processus d’exclusion touchant les étrangers constitueraient, d’après lui, « leur centre ». Même position de la part d’Étienne Balibar qui n’hésite pas à dénoncer le « statut d’#apartheid » affectant « l’immigration “extracommunautaire” », signifiant par là l’« isolement postcolonial des populations “autochtones” et des populations “allogènes” » ainsi que la construction d’une catégorie d’« étrangers plus qu’étrangers » traités comme « radicalement “autres”, dissemblables et inassimilables ».

    Le second risque que fait courir la valorisation d’un « nous » européen désireux de préserver son intégrité « éthique », touche au respect du #pluralisme. Si l’exclusion des « autres » entre assez clairement en tension avec les « valeurs » proclamées par l’Union, les tendances à l’homogénéisation résultant de l’affirmation d’un consensus fort sur des valeurs déclarées comme étant « toujours déjà » communes aux Européens ne sont pas moins susceptibles de contredire le sens – à la fois la signification et l’orientation – du projet européen. Pris au sérieux, le respect du pluralisme implique que soit tolérée et même reconnue une diversité légitime de « valeurs », de visions du bien et du monde, dans les limites fixées par l’égale liberté et les droits fondamentaux. Ce « fait du pluralisme raisonnable », avec les désaccords « éthiques » incontournables qui l’animent, est le « résultat normal » d’un exercice du pouvoir respectant les libertés individuelles. Avec son insistance sur le partage de convictions morales s’incarnant dans un mode de vie culturel, « l’Europe des valeurs » risque de produire une « substantialisation rampante » du « nous » européen, et d’entériner « la prédominance d’une culture majoritaire qui abuse d’un pouvoir de définition historiquement acquis pour définir à elle seule, selon ses propres critères, ce qui doit être considéré comme la culture politique obligatoire de la société pluraliste ».

    Soumis aux attentes de reproduction d’une identité aux frontières « éthiques », le projet européen est, en fin de compte, dévié de sa trajectoire, en ce qui concerne aussi bien l’inclusion des « autres » que la possibilité d’un « nous » qui puisse s’unir « dans la diversité ».

    https://laviedesidees.fr/L-Europe-et-la-fabrique-de-l-etranger
    #identité #altérité #intégration_éthique #intégration_politique #religion #islam

    • Politique de l’exclusion

      Notion aussi usitée que contestée, souvent réduite à sa dimension socio-économique, l’exclusion occupe pourtant une place centrale dans l’histoire de la politique moderne. Les universitaires réunis autour de cette question abordent la dimension constituante de l’exclusion en faisant dialoguer leurs disciplines (droit, histoire, science politique, sociologie). Remontant à la naissance de la citoyenneté moderne, leurs analyses retracent l’invention de l’espace civique, avec ses frontières, ses marges et ses zones d’exclusion, jusqu’à l’élaboration actuelle d’un corpus de valeurs européennes, et l’émergence de nouvelles mobilisations contre les injustices redessinant les frontières du politique.

      Tout en discutant des usages du concept d’exclusion en tenant compte des apports critiques, ce livre explore la manière dont la notion éclaire les dilemmes et les complexités contemporaines du rapport à l’autre. Il entend ainsi dévoiler l’envers de l’ordre civique, en révélant la permanence d’une gouvernementalité par l’exclusion.

      https://www.puf.com/politique-de-lexclusion

      #livre

  • Mayotte : des barrages de collectifs citoyens contre l’insécurité et l’immigration
    https://www.lemonde.fr/politique/article/2024/01/29/mayotte-des-barrages-de-collectifs-citoyens-contre-l-insecurite-et-l-immigra

    Mayotte : des barrages de collectifs citoyens contre l’insécurité et l’immigration
    Par Nathalie Guibert et Jérôme Talpin (Saint-Denis (La Réunion), correspondant)
    Le préfet Thierry Suquet a peut-être annoncé un peu prématurément, samedi 27 janvier, le « rétablissement de la liberté d’aller et venir » à Mayotte, après la levée par les forces de l’ordre des barrages qui ont entravé la circulation de l’île durant la semaine. Celle-ci a vu se multiplier des blocages de collectifs de citoyens excédés par l’insécurité et l’immigration, tandis que des bandes de quartiers barraient d’autres axes à l’occasion d’affrontements intervillages, une pratique devenue courante.
    Lundi 29 janvier, de nouveau, des routes ont été barrées dans plusieurs localités. Alors que la crise de l’eau commence tout juste à se résorber grâce à la saison des pluies, le département de l’océan Indien connaît un énième accès de fièvre.Plusieurs collèges sont restés fermés à l’issue du week-end, pour des raisons diverses. Notamment celui de Koungou, attaqué mercredi dernier par des bandes venues y régler leurs différends à coups de machettes et de pierres. Des heurts ont encore eu lieu aux abords de l’établissement ce lundi, et le recteur, qui s’est rendu sur place, a été la cible d’un caillassage sur son trajet, a rapporté la chaîne La 1ère.
    Dans la soirée de dimanche, c’est la brigade de gendarmerie de Sada qui a subi l’assaut d’une cinquantaine de jeunes hommes. « Ils ont jeté des pierres et des cocktails Molotov sur la caserne sans faire de dégâts majeurs. Avec l’arrivée de renforts, le calme est revenu vers 23 heures », a indiqué le commandement de la gendarmerie. Le Groupe d’intervention de la gendarmerie nationale a de son côté été déployé à Mramadoudou. Une sorte de routine, même si la gendarmerie dit devoir désormais gérer des « profils de délinquants » classiques ciblant les forces de l’ordre.
    S’ajoutant à ces affrontements réguliers, de nouvelles tensions ont éclaté quand des collectifs de citoyens, minoritaires mais très visibles sur l’île, s’en sont pris au campement de migrants installé autour du stade de Cavani à Mamoudzou. Quelque 500 Africains venus de République démocratique du Congo, du Burundi, du Rwanda et de Somalie, s’y sont installés dans des abris précaires depuis le mois de mai, une partie d’entre eux ont un statut de demandeurs d’asile. Leur nombre croissant aurait agi auprès d’eux comme un élément déclencheur.
    « Les autorités nous expliquent qu’ils sont protégés par le droit d’asile mais nous ne pouvons le comprendre dans nos conditions de vie actuelles », alerte Haoussi Boinahedja, syndicaliste présent sur un barrage constitué de branchages et de carcasses de voitures, sur la RN3, à Chirongui. « L’immigration illégale déstabilise et étouffe ce petit territoire qui est le plus pauvre de France. J’entends la colère des gens. Je crains le pire. » Selon lui, l’Etat doit mettre fin au « titre de séjour territorialisé » qui contraint les immigrés détenteurs à rester à Mayotte.
    Avec les « mamans » de son Collectif des citoyens de Mayotte 2018, Safina Soula organise, elle, un sit-in depuis le 6 décembre devant le service des étrangers de la préfecture, entravant le traitement des dossiers. « Ce camp, c’est la goutte d’eau qui a fait déborder le vase, proteste-t-elle. Il y a l’immigration clandestine venue des Comores voisines et maintenant c’est l’Afrique qui voit Mayotte comme un sas d’entrée en France et en Europe. » Quant à la lutte contre l’insécurité : « Nous avons demandé l’état d’urgence. Rien. Mayotte va exploser. » L’opération Wuambushu, déployée par le ministère de l’intérieur d’avril à août 2023 sur les deux fronts de l’immigration illégale et de l’insécurité, n’aura apporté qu’un court répit.
    Les barrages sont tenus par des pères et des mères de famille, assure Safina Soula. « Ce ne sont pas des fous mais des agents hospitaliers, des pompiers, des chauffeurs de transports scolaires qui n’en peuvent plus de se faire caillasser tous les jours, juge-t-elle. Le confinement à Mayotte ne s’est pas arrêté en 2020. La population est cloîtrée en fonction de l’humeur des délinquants. Le soir, tout le monde essaie de rentrer avant 18 heures pour être en sécurité et a peur pour ses enfants ».
    La préfecture a commencé à démanteler le camp du stade de Cavani le 25 janvier. Le vendredi 26, les « mamans » du collectif ont été délogées de l’entrée principale de la préfecture. Mais elles y sont revenues lundi matin, tandis que les barrages des collectifs réapparaissaient. « Il existe un deux poids deux mesures par rapport à l’attitude du gouvernement avec les agriculteurs, souligne Mme Soula. Nous vivons un manque de considération. »La situation met en danger toute la population, s’est alarmé le directeur de l’hôpital, Jean-Mathieu Defour, sur La 1ère. « La mobilité des soignants est gravement entravée. Cette situation exceptionnelle conduit le centre hospitalier de Mayotte à fonctionner avec moins de 50 % de son personnel. »
    « Anarchie à Mayotte », a dénoncé pour sa part dans un tweet la députée (Libertés, indépendants, outre-mer et territoires) Estelle Youssouffa. La parlementaire accuse le préfet Thierry Suquet de se montrer plus ferme vis-à-vis des Mahorais des collectifs qu’envers les fauteurs de troubles des quartiers. Le haut fonctionnaire, sur le départ, a défendu le bilan de l’Etat dans un long courrier adressé à l’association des maires de Mayotte le 26 janvier.
    « Depuis maintenant deux ans, le gouvernement a fortement augmenté les moyens humains et matériels dédiés à la sécurité et à la lutte contre l’immigration clandestine », assure le préfet. Et de citer les escadrons de gendarmerie, pérennisé (pour un d’entre eux) ou envoyés en renfort (deux), le détachement de dix agents du Raid, l’arrivée de drones, la création d’une brigade de gendarmerie effective début 2024, ou « l’affectation de 200 à 300 policiers et gendarmes dédiés à la sécurisation du transport scolaire chaque jour ». Depuis novembre, indique-t-il encore, « plus de 50 délinquants impliqués dans des troubles à l’ordre public et des faits de violence ont été interpellés et les deux tiers condamnés à des peines de prison ». Et les communes ont reçu 1,8 million d’euros de dotations en équipements de sécurité. Le préfet vante un « résultat historique », quant aux interceptions de migrants illégaux venus des Comores par la mer : « En 2023 ce sont plus de 660 kwassas [barques] transportant près de 8660 personnes qui ont été interceptés », soit plus des trois quarts d’entre eux, affirme-t-il. Mais quelque 23 000 étrangers arrivent et repartent de Mayotte chaque année, des chiffres stables en dépit des promesses de durcissement du ministère de l’intérieur.

    #Covid-19#migrant#migration#frannce#mayotte#crise#kwassas#traversee#comores#migrationirreguliere#campement#securite#sante

  • Sécheresse au Maroc : « Plus rien ne pousse ici »
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/01/26/secheresse-au-maroc-plus-rien-ne-pousse-ici_6213130_3212.html


    Le barrage Al Massira, deuxième plus grand réservoir du Maroc, est à sec. AURÉLIE COLLAS

    Le barrage Al Massira, deuxième plus grand réservoir d’eau du pays, est à sec. Une sixième année de sécheresse consécutive est à craindre.

    [...]
    L’enjeu est pourtant crucial dans un pays où l’#agriculture, pilier de l’économie, représente 31 % de l’emploi et 12 % du PIB. Après cinq années de #sécheresse, le secteur est « genou à terre », alerte Mohamed Taher Sraïri, enseignant chercheur à l’Institut agronomique et vétérinaire de Rabat : « L’agriculture traditionnelle pluviale, qui représente au moins 80 % des surfaces cultivées, est touchée, tout comme l’agriculture irriguée, car la pression s’accentue sur les eaux souterraines dans lesquelles l’#eau est puisée. Certains en arrivent à sacrifier leur cheptel et même à arracher leurs arbres. »
    Face à l’urgence, les autorités misent sur le dessalement de l’eau de mer. Sept usines sont en projet, qui viendront s’ajouter aux douze existantes, pour atteindre une capacité de production de 1,4 milliard de m3 par an en 2030 (contre 186,5 millions actuellement). De nouveaux barrages doivent également être construits, ainsi que des stations de recyclage des eaux usées.


    Le fleuve Oum Errabiâ, deuxième plus important du Maroc, est réduit à un filet d’eau. AURÉLIE COLLAS

    En parallèle, le pays a mis un coup d’accélérateur à ses projets d’« autoroutes de l’eau » – des interconnexions de bassins visant à acheminer de l’eau du nord vers les zones plus arides du sud. Le premier tronçon, mis en service en août, qui relie le barrage du fleuve Sebou à celui du Bouregreg, près de Rabat, aurait d’ores et déjà permis d’éviter le scénario catastrophe : sans ce raccordement, l’#eau_potable aurait été coupée le 18 décembre à Casablanca et Rabat, les capitales économique et politique du royaume, a affirmé M. Baraka.

    La sécurité hydrique ne pourra toutefois être assurée qu’au prix d’une rationalisation drastique de l’usage de l’eau, en particulier dans l’agriculture, qui accapare 89 % de la ressource. Présenté comme un large succès économique mais décrié, le plan Maroc vert (2008-2018) a fortement influencé la stratégie agricole du pays. « Il a amplifié le développement d’une #agriculture_irriguée, productiviste, tournée vers des cultures de fruits et légumes destinées à l’export, très consommatrices en eau, explique M. Sraïri. Cela a abouti à une surexploitation des ressources hydriques à des niveaux insoutenables. »

    Changer de paradigme

    De fait, de nombreux agriculteurs, encouragés par d’importantes subventions, se sont convertis à des systèmes d’irrigation localisée, au goutte-à-goutte. « Cette technique a été promue avec l’illusion qu’elle allait permettre des économies d’eau. Or, c’est tout l’inverse qui s’est produit, observe Ali Hatimy, agronome et cofondateur du site d’information Nechfate sur le changement climatique au #Maroc. Des cultures toujours plus gourmandes en eau, comme l’avocat ou les agrumes, se sont étendues. Les cycles de culture se sont accélérés et les surfaces irriguées ont largement augmenté. »

    Dans le même temps, les nappes souterraines se sont taries. Sans compter que cette stratégie, en misant tout sur les cultures d’exportation et l’agrobusiness, a « marginalisé la petite agriculture familiale, principale productrice de produits de base destinés à nourrir la population comme les céréales, le sucre…, ajoute M. Hatimy, au détriment du développement rural et de la souveraineté alimentaire du pays ».

    #sécheresse #climat #réchauffement_climatique #villes

    • Le Maroc inaugure la première autoroute de l’eau – Atalayar
      (29/08/2023)
      https://www.atalayar.com/fr/articulo/societe/maroc-inaugure-premiere-autoroute-leau/20230829132038190092.html


      PHOTO/SOMAGECGROUPE - Plan du projet de liaison, à travers des canaux appelés « les autoroutes de l’eau » , des rivières Sebou et Bourgreg pour l’approvisionnement des villes entre Rabat et Casablanca

      Les infrastructures relieront les eaux du fleuve Sebou au Bouregreg afin d’alimenter la capitale du pays, Rabat et la ville de Casablanca

      Le Royaume du Maroc, confronté aux besoins engendrés par le changement climatique, a réussi à relier deux des fleuves les plus importants du pays afin de garantir l’approvisionnement en eau à Rabat et Casablanca. Pour ce faire, les autoroutes alimenteront en eau les barrages de Sidi Mohamed Ben Abdellah et El Massira.

      Bien que le bassin du Bouregreg alimentait déjà en eau potable l’agglomération de Casablanca, les “autoroutes de l’eau” contribueront à garantir l’approvisionnement sur l’ensemble du littoral entre les villes de Rabat et Casablanca.

      Le projet, qui aurait dû être achevé en 2021, a été repris par l’équipe gouvernementale actuelle. Le coût qui a dépassé les 6 000 millions de dirhams. Depuis que le Ministère de l’Agriculture, en collaboration avec l’Office Régional de Développement du Gharb, a repris le plan, les “autoroutes de l’eau" de plus de 66,5 kilomètres de long ont été construites en un temps record. À l’heure actuelle, la sécurité en eau de plus de 12 millions de personnes est garantie.

      Il dispose actuellement de deux stations de pompage et en plus d’al Sebou et Bouregreg, la construction des autoroutes a également une influence sur les rivières Oum Er Rbia et Al Tensift. Ce n’est que le début du projet pharaonique porté par l’Exécutif marocain. D’une capacité de transport de 3 mètres cubes par seconde (15 mètres cubes par seconde d’ici fin septembre), les nouveaux canaux devraient transporter plus de 400 millions de mètres cubes d’eau vers Rabat et Casablanca.

      Parmi les principales fonctions des autoroutes de l’eau, les institutions en charge du projet ont mis en évidence : garantir la flexibilité et une meilleure gestion des ouvrages hydrauliques, garantir l’approvisionnement en eau potable des régions côtières et soutenir leur développement socio-économique, optimiser la gestion des ressources grâce à l’utilisation efficace des usines de dessalement, contribuer à la protection d’éventuelles inondations qui entraînent des inondations et, à l’avenir, étendre les réseaux pour pouvoir intercommuniquer tous les bassins et rivières du pays.

      L’eau est l’une des rares ressources dont le continent souffre d’une pénurie. Le projet des" autoroutes de l’eau " a été un fait qui a résonné dans tous les pays du monde, mais surtout dans les pays du continent africain. Le Maroc, avec la construction d’autoroutes, a été en avance sur tous ses pays voisins.