• #Villa_del_seminario”, la storia rimossa del campo di concentramento in #Maremma

    Nella frazione #Roccatederighi del Comune di #Roccastrada tra la fine del 1943 e la metà del 1944 vi fu un “campo di concentramento ebraico”, come scrissero i fascisti nel contratto di affitto con un vescovo vicino al regime. Da lì si partiva per #Fossoli, direzione Auschwitz. Il romanzo dello scrittore Sacha Naspini smuove la polvere.

    Roccatederighi, frazione del Comune di Roccastrada, in Maremma, tra il 28 novembre del 1943 e il 9 giugno del 1944 ospitò un campo di concentramento: vi furono rinchiusi un centinaio di ebrei, 38 dei quali poi deportati verso la Germania, da cui ritornarono solo in quattro. La struttura che ospitò il campo è la sede estiva del seminario vescovile di Grosseto, la “Villa del seminario” che dà il titolo all’ultimo romanzo di Sacha Naspini, scrittore grossetano che a Roccatederighi (che diventa Le Case in questo e in altri dei suoi libri) ha passato l’infanzia nella casa dei nonni materni.

    Che cosa ti ha spinto ad affrontare la vicenda del campo di concentramento della Villa del seminario?
    SN In qualche modo vengo da lì e fin da ragazzino sentivo girare per casa questa faccenda: il seminario sono due grossi edifici all’imbocco del paese, dicevano là sono successe delle cose, ma erano discorsi che sfumavano nel nulla. Prima del 2008, quando in occasione della Giornata della memoria fu messa lì una lastra commemorativa, la villa del seminario era usata per fare le scampagnate, anche le braciate del 25 aprile o del 1 maggio. Ricordo io e mio fratello, con i miei nonni che andavamo nel giardino del vescovo. Pochi sapevano, così quando è uscito il libro ho ricevuto molti messaggi o mail, da parte di persone che magari oggi hanno 75 anni, che sono nate e vivono a Roccatederighi e che di quella vicenda non ne avevano mai sentito parlare. Un uomo, che abita sulla provinciale, a cento metri dal seminario e mi ha proprio scritto: “Davvero vivo davanti a un campo di concentramento?”. Perché da lì si partiva per Fossoli (Modena), proseguendo poi per Auschwitz. E negli anni Ottanta e Novanta lì i giovani della Diocesi, anche quelli della mia generazione, facevano i campi estivi.

    Sei cresciuto a Grosseto: manca ancora o si è sviluppata una memoria condivisa rispetto a quell’evento? Nel libro scrivi che la strada verso quell’edificio ormai diroccato è ancora oggi via del Seminario.
    SN C’è un rimosso, io vengo da quei massi, quella bella cartolina di Maremma, rude e vera, ma anche da quel silenzio. Non tutti i rocchigiani hanno accolto bene il mio romanzo, fa parte della mentalità di paese il sentirsi attaccati o in qualche modo svestiti, spogliati da una serie di costruzioni e difese che la gente prende nei confronti dello stare al mondo in quella routine. Questo però è un caso unico nel mondo, perché nel contratto di affitto tra Alceo Ercolani (prefetto di Grosseto per la Repubblica sociale italiana) e Paolo Galeazzi, vescovo fascista, si parla apertamente di “campo di concentramento ebraico”, cose che danno un certo sgomento. Come ricordo nelle ultime pagine del romanzo, a febbraio 2022, nel giorno in cui ho chiuso le bozze del mio libro, il sindaco di Grosseto Antonfrancesco Vivarelli Colonna inaugurava la piazza in ricordo di Galeazzi, di cui si ricordano pastorali di chiaro stampo fascista e passeggiate a braccetto di Benito Mussolini.

    La memoria, quindi, non è né può essere condivisa.
    SN Il mio libro è stato un po’ come andare a muovere polvere sotto il tappeto. C’è anche chi mi ha detto “Io non lo sapevo, quindi non è vero”, ma la realtà è che una storica, Luciana Rocchi (dal 1993 al 2016 è stata Direttrice dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea, ndr) ha scoperto negli archivi della Diocesi il contratto d’affitto, che non può essere nascosto. La notizia, frutto del lavoro di una storica, resta un po’ sottotono, in sordina. Finché un libro, “Il muro degli ebrei”, di Ariel Paggi, una ricognizione su 175 ebrei di Maremma, molti dei quali passano anche da via del Seminario, mi ha dato le mappe per scrivere davvero questa storia.
    Altri particolari sono frutto della storia familiare: mia nonna mi ha raccontato in tutte le salse l’inverno durissimo del 1943, che già da novembre si annunciava così; poi la guerra, com’era avvertita in paese, con la febbre che si alzava sempre di più man mano che avanzavano gli alleati, l’organizzazione delle prime bande partigiane, ma anche le privazioni, il razionamento. Nel dicembre del 1943 il babbo della mia nonna materna è morto di “deperimento organico”, praticamente di fame, in casa. I bottegai di Roccatederighi probabilmente non ne sapevano niente, ma hanno visto arrivare intere famiglie che si facevano auto-internare, con l’idea di trascorrere alla villa del seminario quel momento particolare, lasciar passare la guerra e tornare a casa. Il vescovo è rimasto lì per tutto il tempo, scegliendo solo alla fine di salvare alcuni ebrei, tra i più benestanti, probabilmente per ottenere una “carta verde” dal nuovo governo, a cui ha poi chiesto gli arretrati per l’affitto non pagato.
    Anche dopo il 2008, quand’è stata apposta la lastra, non c’è la giusta attenzione. Sono emersi negli anni alcuni progetti di rivalutazione dello stabile, per farne un albergo o un istituto per malati di Alzheimer, ma la villa resta in abbandono. È cambiata la sacralità del luogo: dormiresti in un albergo sapendo che è stato un campo di concentramento?

    Uno dei protagonisti della vicenda è Boscaglia, giovanissima guida di una banda partigiana.
    SN La storia di Guido Radi, “Boscaglia”, è legata a quella della partigiana Norma Parenti, due persone che vibrano ancora. Lui venne ucciso a 19 anni, il suo corpo straziato trascinato fino a Massa Marittima, dove lei andò a recuperarlo, per darne sepoltura. Sono storie che potete ritrovare, perché tutto ciò che racconto è vero, a partire dalla morte di Edoardo, il figlio di Anna, in una vicenda che richiama la strage di Istia d’Ombrone, quando 11 ragazzi vennero assassinati per rappresaglia nel marzo del 1944. All’ultima commemorazione, nel 2023, il sindaco Vivarelli Colonna, che si è presentato senza fascia tricolore, è stato contestato da cittadini che hanno assistito al comizio del sindaco girati di spalle, in silenzio.

    La storia è narrata da René, un ciabattino di 50 anni che ha perso tre dita al tornio da ragazzino. Nel libro racconti la sua rivoluzione.
    SN Presa coscienza del grande lavoro di Paggi ho voluto scrivere una storia creando questo cinquantenne fuori dai giochi, che ingoia tutta le cattiverie del paese a partire dai nomignoli per la sua menomazione, da Pistola a Settebello. L’ho voluto ciabattino, perché quello è un pezzo di guerra che si è combattuta tanto con i piedi. È una storia che potrei aver ascoltato in paese e che ho ritrovato in un libro di Cazzullo, “Mussolini il capobanda”, che parla di un ciabattino storpio di Roccastrada che ha fatto la Resistenza. Ho voluto raccontare la trasformazione di un personaggio passivo, spettatore del mondo, dovuto all’impatto con la storia con la “s” maiuscola: il suo impatto vero è quando uccidono Edoardo, suo figlioccio, quando l’amica amata Anna decide di andare nei boschi per continuare l’impegno di suo figlio e lascio a lui un compito. Per la prima volta si trova a modificare il suo sguardo sulle cose e su stesso. È un’epopea interiore. Si chiede che cosa vedano i ragazzi che vanno nei boschi, che cosa intuiscono, elementi che tornano anche nel personaggio di Simone.

    Simone, che diventa amico di Renè, è un giovane soldato che pare appoggiare la resistenza. Come l’hai costruito?
    SN Per costruire il suo personaggio mi sono agganciato alle testimonianze dei ragazzi che si ritrovavano ingabbiati in un’uniforme che non sentivano più loro. Il calvario di Simone lo porta a dire “preferisco morire dalla parte sbagliata”. Oggi mi piace trasmettere questi fuochi, quella brama di futuro ai ragazzi che incontro nelle scuole, che si infervorano di fronte a vicende che riguardano loro coetanei. Ogni romanzo offre un’immersione in una circostanza accompagnata da un’emotività particolare. “Boscaglia” aveva 19 anni quando è morto, 18 quando era andato in montagna, non lascia indifferente un ragazzo di quinta superiore.

    https://altreconomia.it/villa-del-seminario-la-storia-rimossa-del-campo-di-concentramento-in-ma
    #Italie #camp_de_concentration #deuxième_guerre_mondiale #seconde_guerre_mondiale #shoah #histoire #déportation #Auschwitz #mémoire

    • Villa del seminario

      Una storia d’amore, riscatto e Resistenza.
      Maremma toscana, novembre ’43. Le Case è un borgo lontano da tutto. René è il ciabattino del paese. Tutti lo chiamano Settebello, nomignolo che si è tirato addosso in tenera età, dopo aver lasciato tre dita sul tornio. Oggi ha cinquant’anni – schivo, solitario, taciturno. Niente famiglia. Ma c’è Anna, l’amica di sempre, che forse avrebbe potuto essere qualcosa di più... René non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. Poi ecco la guerra, che cambia tutto. Ecco che Settebello scopre la Resistenza. Possibile che una rivoluzione di questo tipo possa partire addirittura dalla suola delle scarpe?
      Villa del seminario evoca fatti realmente accaduti: Grosseto fu l’unica diocesi in Europa ad aver stipulato un regolare contratto d’affitto con un gerarca fascista per la realizzazione di un campo d’internamento. A Roccatederighi, tra il ’43 e il ’44, nel seminario del vescovo furono rinchiusi un centinaio di ebrei italiani e stranieri destinati ai lager di sterminio. Soprattutto Auschwitz.

      Maremma toscana, novembre ’43. Le Case è un borgo lontano da tutto. Vista da lì, anche la guerra ha un sapore diverso; perlopiù attesa, preghiere, povertà. Inoltre si preannuncia un inverno feroce... Dopo la diramazione della circolare che ordina l’arresto degli ebrei, ecco la notizia: il seminario estivo del vescovo è diventato un campo di concentramento.

      René è il ciabattino del paese. Tutti lo chiamano Settebello, nomignolo che si è tirato addosso in tenera età, dopo aver lasciato tre dita sul tornio. Oggi ha cinquant’anni. Schivo, solitario, taciturno. Niente famiglia. Ma c’è Anna, l’amica di sempre, che forse avrebbe potuto essere qualcosa di più... René non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. In realtà, non ha mai avuto il coraggio di fare niente. Le sue giornate sono sempre uguali: casa e lavoro. Rigare dritto.

      Anna ha un figlio, Edoardo, tutti lo credono al fronte. Un giorno viene catturato dalla Wehrmacht con un manipolo di partigiani e fucilato sul posto. La donna è fuori di sé dal dolore, adesso ha un solo scopo: continuare la rivoluzione. Infatti una sera sparisce. Lascia a René un biglietto, poche istruzioni. Ma ben presto trapela l’ennesima voce: un altro gruppo di ribelli è caduto in un’imboscata. Li hanno rinchiusi là, nella villa del vescovo. Tra i prigionieri pare che ci sia perfino una donna... Settebello non può più restare a guardare.

      https://www.edizionieo.it/book/9788833576053/villa-del-seminario
      #Sacha_Naspini

  • #Ukraine, #Israël, quand les histoires se rencontrent

    Dans son dernier livre, l’historien #Omer_Bartov revient sur l’histoire de sa famille et de son voyage de la Galicie ukraino-polonaise à Israël, à travers les soubresauts de l’histoire de la première partie du 20e siècle.

    Alors que les atrocités du conflit israélo-palestinien continuent de diviser les étudiants de prestigieux campus américains, l’universitaire Omer Bartov se propose d’analyser la résurgence de l’#antisémitisme dans le monde à la lumière de sa propre #histoire_familiale.

    Un #antisémitisme_endémique dans les campus américains ?

    L’historien Omer Bartov réagit d’abord aux polémiques qui ont lieu au sujet des universités américaines et de leur traitement du conflit israélo-palestinien : “il y a clairement une montée de l’antisémitisme aux États-Unis, comme dans d’autres parties du monde. Néanmoins, il y a aussi une tentative de faire taire toute critique de la politique israélienne. Cette tentative d’associer cette critique à de l’antisémitisme est également problématique. C’est un bannissement des discussions. Les étudiants, qui sont plus politisés que par le passé, prennent part à cette histoire”. Récemment, la directrice de l’Université de Pennsylvanie Elizabeth Magill avait proposé sa démission à la suite d’une audition controversée au Congrès américain, lors de laquelle elle n’aurait pas condamné les actions de certains de ses étudiants à l’encontre d’Israël.

    De Buczacz à la Palestine, une histoire familiale

    Dans son dernier livre Contes des frontières, faire et défaire le passé en Ukraine, qui paraîtra aux éditions Plein Jour en janvier 2024, Omer Bartov enquête sur sa propre histoire, celle de sa famille et de son voyage de la Galicie à la Palestine : “en 1935, ma mère avait onze ans et a quitté #Buczacz pour la #Palestine. Le reste de la famille est restée sur place et quelques années plus tard, ils ont été assassinés par les Allemands et des collaborateurs locaux. En 1995, j’ai parlé avec ma mère de son enfance en Galicie pour la première fois, des grands écrivains locaux comme Yosef Agnon. Je voulais comprendre les liens entre #Israël et ce monde juif qui avait disparu à Buczacz au cours de la #Seconde_Guerre_mondiale”.

    À la recherche d’un monde perdu

    Cette conversation a mené l’historien à consacrer une véritable étude historique à ce lieu et plus généralement à cette région, la #Galicie : “ce monde avait selon moi besoin d’être reconstruit. Ce qui le singularisait, c’était la diversité qu’il accueillait. Différentes communautés nationales, ethniques et religieuses avaient coexisté pendant des siècles et je voulais comprendre comment il s’était désintégré”, explique-t-il. Le prochain livre qu’il souhaite écrire en serait alors la suite : “je veux comprendre comment ma génération a commencé à repenser le monde dans lequel nous avons grandi après la destruction de la civilisation précédente”, ajoute-t-il.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/france-culture-va-plus-loin-l-invite-e-des-matins/ukraine-israel-quand-les-histoires-se-rencontrent-9022449
    #multiculturalisme #histoire #crime_de_guerre #crime_contre_l'humanité #génocide #Gaza #7_octobre_2023 #nettoyage_ethnique #destruction #déplacements_forcés #Hamas #crimes_de_guerre #massacre #pogrom #occupation

    • Contes des frontières, faire et défaire le passé en Ukraine

      À nouveau Omer Bartov étudie Buczacz, a ville de Galicie qui servait déjà de point d’ancrage pour décrire le processus du génocide dans Anatomie d’un génocide (Plein Jour 2021). Cette fois, il étudie les perceptions et l’imaginaire que chacune des communautés juive, polonaise et ukrainienne nourrissait sur elle-même, ce a depuis les origines de sa présence dans ce territoire des confins de l’Europe.

      Comment des voisins partageant un sol commun ont-ils élaboré des récits fondateurs de leurs #identités jusqu’à opposer leurs #mémoires ? comment se voyaient-ils les uns les autres, mais également eux-mêmes ; quels #espoirs nourrissaient-ils ? Les #mythes ont ainsi influencé a grande histoire, le #nationalisme, les luttes, et de façon plus intime les espoirs individuels, voire les désirs de partir découvrir un monde plus arge, nouveau, moderne. Ce livre, qui traite de ces récits « nationaux », de a construction de l’identité et de l’opposition qu’elle peut induire entre les différents groupes, apparaît comme une clé de compréhension du passé autant que du présent. Aujourd’hui avec a guerre en Ukraine, sa résonance, son actualité sont encore plus nettes.

      https://www.editionspleinjour.fr/contes-des-fronti%C3%A8res
      #livre #identité

    • Anatomie d’un génocide

      Buczacz est une petite ville de Galicie (aujourd’hui en Ukraine). Pendant plus de quatre cents ans, des communautés diverses y ont vécu plus ou moins ensemble – jusqu’à la Deuxième Guerre mondiale, qui a vu la disparition de toute sa population juive. En se concentrant sur ce seul lieu, qu’il étudie depuis l’avant-Première Guerre mondiale, Omer Bartov reconstitue une évolution polarisée par l’avènement des nationalismes polonais et ukrainien, et la lutte entre les deux communautés, tandis que l’antisémitisme s’accroît.

      À partir d’une documentation considérable, récoltée pendant plus de vingt ans – journaux intimes, rapports politiques, milliers d’archives rarement analysées jusqu’à aujourd’hui –, il retrace le chemin précis qui a mené à la #Shoah. Il renouvelle en profondeur notre regard sur les ressorts sociaux et intimes de la destruction des Juifs d’Europe.

      https://www.editionspleinjour.fr/anatomie-d-un-g%C3%A9nocide

  • Les étudiants de #Bordeaux testent la « sécurité sociale de l’alimentation »

    Depuis la rentrée, 150 étudiants bordelais reçoivent l’équivalent de 100 euros en #monnaie_locale pour faire leurs courses. L’objectif : lutter contre la #précarité, mais aussi promouvoir une #alimentation saine, durable et produite dans des conditions éthiques.

    Chaque fois qu’elle fait ses courses, Lison Rousteau, 21 ans, souffle un peu. De son propre aveu, l’étudiante en master alimentation durable à l’université Bordeaux-Montaigne ressent moins de pression et n’a plus vraiment à se demander si elle doit sacrifier tel ou tel aliment pour s’octroyer une sortie avec ses ami·es.

    Depuis le mois d’octobre, elle appartient à la cohorte des 150 étudiant·es tiré·es au sort à l’université Bordeaux-Montaigne pour participer à l’expérimentation lancée par le Centre ressource d’écologie pédagogique de Nouvelle-Aquitaine (Crépaq) et la Gemme, l’association qui gère la monnaie locale girondine. Les deux associations ont mis en place dans les campus bordelais une expérimentation inédite : une « sécurité sociale de l’alimentation » (SSA).

    Cette idée de promouvoir un modèle plus vertueux en matière sanitaire, écologique et sociale chemine depuis plusieurs années à gauche, notamment au sein du #collectif_SSA.

    Moyennant une cotisation de 10 à 50 euros pour les plus fortuné·es, les participant·es reçoivent l’équivalent de 100 euros en monnaie locale – la gemme, du nom de la résine du pin maritime présent sur tout le territoire – et doivent les dépenser dans les magasins partenaires.

    Le #Crépaq et la #Gemme pilotent le dispositif, au budget global de 200 000 euros, financés par des collectivités, l’#université_Bordeaux-Montaigne et des fondations, ainsi que par les cotisations des participant·es, qui représentent environ 10 % du montant total.

    Non boursière, Lison Rousteau verse 30 euros tous les mois à la caisse commune. Elle considère qu’elle n’est pas des plus à plaindre, car ses parents lui octroient tous les mois 800 euros pour vivre. Mais pouvoir mieux manger lui paraît être un horizon enviable.
    Manger bio

    Lila Vendrely, étudiante en maths appliquées et sciences humaines, boursière à l’échelon 5 (sur 7 échelons) est tout aussi enthousiaste de prendre part à l’expérimentation. Elle parvient à s’en sortir en faisant un service civique à Bordeaux Métropole en parallèle de ses études. Chaque mois, elle cotise à hauteur de 10 euros et ajoute seulement 20 à 30 euros pour faire ses courses. Une économie non négligeable.

    Avant d’être sélectionnée pour l’expérimentation, elle ne connaissait pas grand-chose à la monnaie locale. Et même si elle était déjà sensibilisée à la question de l’alimentation durable et sourcée par ses parents, elle reconnaît qu’elle a progressé et qu’elle mange mieux. « Aller dans un magasin bio ne me semblait pas étrange, mais désormais, je consomme beaucoup plus de saison et local », précise-t-elle. L’étudiante varie davantage son alimentation et cuisine beaucoup plus. Elle a désormais tendance à s’éloigner des produits transformés comme les gâteaux industriels.

    Le Crépaq est une association créée en 1996, dont l’objet est la transition écologique et solidaire dans la région Nouvelle-Aquitaine. Par la force des choses, elle en vient à s’intéresser à l’alimentation durable, à la résilience et la démocratie alimentaires. L’idée de mettre en place une sécurité sociale de l’alimentation a germé en 2019. Le confinement du printemps 2020 a mis un coup d’arrêt au projet, mais il a été relancé en 2022.

    Entre-temps, le Crépaq s’était rapproché de l’université Bordeaux-Montaigne, qui compte 17 000 étudiant·es, en y installant deux « frigos zéro gaspi », dans lesquels tout le monde peut entreposer ou prendre les denrées à disposition, selon ses besoins.

    L’association propose à la Gemme de se joindre à elle pour ce projet. « L’avantage de la monnaie locale, et c’est pour cela que le Crépaq a pensé à nous, c’est que nous avions un réseau de commerçants et de producteurs qui adhéraient à cette charte, et proposaient de l’achat local, bio, éthique et solidaire », explique Yannick Lung, président de la Gemme.

    L’ancien universitaire est partant pour penser l’expérimentation. La première réunion lançant le projet se tient en octobre 2022, débouchant sur la création d’une « caisse locale », le mode de gouvernance de la sécurité sociale de l’alimentation. On y trouve des étudiant·es, des associations déjà engagées sur la question alimentaire, des collectivités et des commerçant·es.

    Olivier Buitge, gérant d’un Biocoop à Talence, à deux pas du campus, voit chaque mois entre cinquante et soixante étudiant·es s’approvisionner dans ses rayons dans le cadre de l’expérimentation. Il est convaincu du bien-fondé du projet. Après plusieurs années dans la grande distribution, il a choisi d’ouvrir ce magasin bio pour donner du sens à son travail : « J’avais à l’esprit d’avoir un projet social. Je ne trouve pas normal que des producteurs agricoles se suicident alors qu’ils bossent 80 heures par semaine parce qu’ils touchent 600 euros par mois. »

    Ceux qui le fournissent sont rémunérés à un juste prix. Alors prendre part à l’expérimentation lui a semblé couler de source. Il était de surcroît déjà familier des gemmes, et essaie aussi de payer ses producteurs avec. « Le but d’une monnaie locale, c’est qu’elle circule… » Aurore Bonneau, de la Gemme, confirme que le projet privilégie le choix de « commerces tournés vers la transition écologique, vers le respect de l’environnement et du vivant ».

    La crise sanitaire, et avec elle « l’explosion de la précarité alimentaire », amène le Crépaq à investir davantage le sujet. « Il faut changer ce système d’aide alimentaire qui a atteint ses limites, et c’est d’autant plus d’actualité que même les Restos du cœur n’y arrivent plus et menacent de fermer leurs portes », poursuit Dominique Nicolas, codirecteur du Crépaq, assis à la grande table de l’association, à Bordeaux.

    Il dénonce l’institutionnalisation d’un système censé être provisoire depuis les années 1980. « On en arrive à l’absurdité, où on demande à des bénévoles de se décarcasser pour aller donner à manger à 10 millions de personnes… » Avec toute la violence que cela peut engendrer pour les personnes concernées, comme l’a décrit l’anthropologue Bénédicte Bonzi.

    Si la sécurité sociale de l’alimentation n’a pas pour seul objet de juguler la précarité des étudiant·es, le sujet s’est imposé de lui-même et reste un volet important du projet. Selon une étude de la Fédération des associations générales étudiantes (Fage), première organisation étudiante, rendue publique début janvier, 19 % des étudiant·es ne mangent pas à leur faim.
    Une évaluation à venir

    Xavier Amelot, vice-président de l’université Bordeaux-Montaigne, a lui aussi dû affronter des situations de précarité alimentaire dans la population étudiante, notamment en 2020, lors du premier confinement. Dans un contexte d’urgence, des distributions d’aide alimentaire ont eu lieu et un soutien financier a été apporté aux associations qui mettaient en place des dispositifs complémentaires de ceux du Crous et de la Banque alimentaire, en dehors de tous critères sociaux.

    Kevin Dagneau, aujourd’hui directeur de cabinet de Xavier Amelot, était à l’époque chargé de la vie étudiante. Les deux hommes ont tissé un lien avec le Crépaq, notamment autour de la mise en place de ces « frigos zéro gaspi ». « Quand le Crépaq et la Gemme ont voulu lancer le projet en 2022, ils se sont tournés vers nous car nous étions devenus un partenaire privilégié autour de ces questions, se souvient Xavier Amelot. Tout de suite, cela nous a semblé correspondre à l’esprit des initiatives que nous souhaitons soutenir sur notre campus. »

    Même si elle n’est pas « la plus à plaindre », Lison Rousteau confie que la hausse des prix alimentaires grève son budget depuis plusieurs années. « Entre la vie étudiante et la vie sociale, la part que je consacrais à mon alimentation s’était réduite, et j’avais fini par acheter des produits de moins bonne qualité. Forcément, acheter en bio, c’était fini. » Avant d’arriver à Bordeaux, elle avait pu profiter de paniers à bas prix proposés par l’aide alimentaire sur le campus de Tours, où elle étudiait. Aujourd’hui, elle suit les recettes envoyées par le Crépaq pour varier sa cuisine.

    L’expérimentation en cours va être évaluée. À l’issue de la première année, Une étude d’impact sera réalisée par plusieurs chercheurs et chercheuses de l’université, sur la base des questionnaires remplis par les étudiant·es au fil des mois. Caroline Bireau, l’autre codirectrice du Crépaq, précise que les chercheurs vont aussi vérifier s’ils notent une amélioration de l’état psychologique et matériel des bénéficiaires. Les premières remontées de terrain plaident en ce sens.

    Les différents acteurs sont conscients des enjeux de cette première, qu’ils espèrent parvenir à pérenniser. Mais pour cela, il faudra mobiliser plus largement la communauté universitaire, notamment les salarié·es qui seraient susceptibles de cotiser davantage. Cela permettrait de répondre à l’autre nécessité : tendre vers une autonomie plus prononcée, et dépendre moins des acteurs extérieurs pour abonder la caisse.

    Le vice-président de l’université est convaincu que les universités, encore plus en sciences humaines, doivent être des lieux d’expérimentation. « L’idée de la Sécurité sociale, et l’esprit dans lequel elle s’est construite après la Seconde Guerre mondiale, est assez réjouissante. Et politiquement, ce n’est pas neutre, cela promeut une vision de la solidarité et des communs que nous voulons valoriser. »

    Xavier Amelot et Kevin Dagneu espèrent que cette expérimentation donnera des idées à d’autres établissements et que la sécurité sociale de l’alimentation sera bientôt largement considérée comme « un moyen de lutter contre la précarité à l’université ».

    https://www.mediapart.fr/journal/france/200124/les-etudiants-de-bordeaux-testent-la-securite-sociale-de-l-alimentation

    #université #étudiants #pauvreté #sécurité_sociale_de_l'alimentation #SSA #sécurité_sociale_alimentaire #ESR

  • Boeing Cargo Plane Makes Emergency Landing in Miami After ‘Engine Malfunction’ - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2024/01/19/us/miami-boeing-plane-engine-fire.html

    Le remplacement d’une culture technique, dans laquelle des ingénieurs évaluaient les situations par une culture commerciale dans laquelle les bureaucrates géraient les coûts n’est pas propre à l’éviation, ni même au seul Boeing. C’est le refrain général qui court des services publics (hôpital qui remplace la gestion médicale par la comptabilité) aux entreprises commerciales.
    Pour sûr, ce changement de hiérarchie industrielle est le bon moment pour relancer un plan nucléaire ;-)

    A Boeing cargo plane headed for Puerto Rico was diverted back to Miami International Airport shortly after takeoff when an engine failed, according to the Federal Aviation Administration. The episode is another potential setback for Boeing, which has been thrust into the spotlight in recent weeks over quality control concerns.

    Atlas Air Flight 5Y095 landed safely after experiencing an “engine malfunction” shortly after departure, the airline said early Friday.

    Video taken from the ground appeared to showed flames repeatedly shooting from the plane as it flew.

    The F.A.A. said in its initial report on the incident that a post-flight inspection revealed “a softball-size hole” above the No. 2 engine. It said it would investigate further.

    #Boing #Sécurité #Néolibéralisme #Culture_technique

  • Workers at a Boeing Supplier Raised Issues About Defects. The Company Didn’t Listen.
    https://jacobin.com/2024/01/alaska-airlines-boeing-parts-malfunction-workers-spirit-aerosystems

    La sous-traitance et le licenciement de techniciens expérimentés menace la sécurité des avions Boeing. Ces problèmes touchent toutee les entreprises et organisations qui sont gérées dans le but d’optimisation financière. Là c’est la vie des passagers qui est mise en danger, ailleurs on détruit des structures d’entraide et on oblige des millions d’employés à travailler pour un salair de misère. Les dégats se sentent partout, dans tous les pays capitalistes. Il n’y a que les symdicats et le mouvement ouvrier qui peuvent nous protéger contre.

    9.1.2024 by Katya Schwenk, David Sirota , Lucy Dean Stockton, Joel Warner - Less than a month before a catastrophic aircraft failure prompted the grounding of more than 150 of Boeing’s commercial aircraft, documents were filed in federal court alleging that former employees at the company’s subcontractor repeatedly warned corporate officials about safety problems and were told to falsify records.

    One of the employees at Spirit AeroSystems, which reportedly manufactured the door plug that blew out of an Alaska Airlines flight over Portland, Oregon, allegedly told company officials about an “excessive amount of defects,” according to the federal complaint and corresponding internal corporate documents reviewed by us.

    According to the court documents, the employee told a colleague that “he believed it was just a matter of time until a major defect escaped to a customer.”

    The allegations come from a federal securities lawsuit accusing Spirit of deliberately covering up systematic quality-control problems, encouraging workers to undercount defects, and retaliating against those who raised safety concerns. Read the full complaint here.

    Although the cause of the Boeing airplane’s failure is still unclear, some aviation experts say the allegations against Spirit are emblematic of how brand-name manufacturers’ practice of outsourcing aerospace construction has led to worrisome safety issues.

    They argue that the Federal Aviation Administration (FAA) has failed to properly regulate companies like Spirit, which was given a $75 million public subsidy from Pete Buttigieg’s Transportation Department in 2021, reported more than $5 billion in revenues in 2022, and bills itself as “one of the world’s largest manufacturers of aerostructures for commercial airplanes.”

    “The FAA’s chronic, systemic, and longtime funding gap is a key problem in having the staffing, resources, and travel budgets to provide proper oversight,” said William McGee, a senior fellow for aviation and travel at the American Economic Liberties Project, who has served on a panel advising the US Transportation Department. “Ultimately, the FAA has failed to provide adequate policing of outsourced work, both at aircraft manufacturing facilities and at airline maintenance facilities.”

    David Sidman, a spokesperson for Boeing, declined to comment on the allegations raised in the lawsuit. “We defer to Spirit for any comment,” he wrote in an email to us.

    Spirit AeroSystems did not respond to multiple requests for comment on the federal lawsuit’s allegations. The company has not yet filed a response to the complaint in court.

    “At Spirit AeroSystems, our primary focus is the quality and product integrity of the aircraft structures we deliver,” the company said in a written statement after the Alaska Airlines episode.

    The FAA did not immediately respond to a request for comment on its oversight of Spirit.
    “Business Depends Largely on Sales of Components for a Single Aircraft”

    Spirit was established in 2005 as a spin-off company from Boeing. The publicly traded firm remains heavily reliant on Boeing, which has lobbied to delay federal safety mandates. According to Spirit’s own Securities and Exchange Commission filings, the company’s “business depends largely on sales of components for a single aircraft program, the B737,” the latest version of which — the 737 Max 9 — has now been temporarily grounded, pending inspections by operators.

    Spirit and Boeing are closely intertwined. Spirit’s new CEO Patrick Shanahan was a Trump administration Pentagon official who previously worked at Boeing for more than thirty years, serving as the company’s vice president of various programs, including supply chain and operations, all while the company reported lobbying federal officials on airline safety issues. Spirit’s senior vice president Terry George, in charge of operations engineering, tooling, and facilities, also previously served as Boeing’s manager on the 737 program.

    Last week’s high-altitude debacle — which forced an Alaska Airlines 737 Max 9’s emergency landing in Portland — came just a few years after Spirit was named in FAA actions against Boeing. In 2019 and 2020, the agency alleged that Spirit delivered parts to Boeing that did not comply with safety standards, then “proposed that Boeing accept the parts as delivered” — and “Boeing subsequently presented [the parts] as ready for airworthiness certification” on hundreds of aircraft.

    Then came the class-action lawsuit: In May 2023, a group of Spirit AeroSystems’ shareholders filed a complaint against the company, claiming it made misleading statements and withheld information about production troubles and quality-control issues before media reports of the problems led to a major drop in Spirit’s market value.

    An amended version of the complaint, filed on December 19, provides more expansive charges against the company, citing detailed accounts by former employees alleging extensive quality-control problems at Spirit.

    Company executives “concealed from investors that Spirit suffered from widespread and sustained quality failures,” the complaint alleges. “These failures included defects such as the routine presence of foreign object debris (‘FOD’) in Spirit products, missing fasteners, peeling paint, and poor skin quality. Such constant quality failures resulted in part from Spirit’s culture which prioritized production numbers and short-term financial outcomes over product quality, and Spirit’s related failure to hire sufficient personnel to deliver quality products at the rates demanded by Spirit and its customers including Boeing.”
    “We Are Being Asked to Purposely Record Inaccurate Information”

    The court documents allege that on Feruary 22, 2022, one Spirit inspection worker explicitly told company management that he was being instructed to misrepresent the number of defects he was working on.

    “You are asking us to record in a inaccurately [sic] way the number of defects,” he wrote in an email to a company official. “This make [sic] us and put us in a very uncomfortable situation.”

    The worker, who is unnamed in the federal court case, submitted an ethics complaint to the company detailing what had occurred, writing in it that the inspection team had “been put on [sic] a very unethical place,” and emphasizing the “excessive amount of defects” workers were encountering.

    “We are being asked to purposely record inaccurate information,” the inspection worker wrote in the ethics complaint.

    He then sent an email to Spirit’s then CEO, Tom Gentile, attaching the ethics complaint and detailing his concerns, saying it was his “last resort.”

    When the employee had first expressed concerns to his supervisor about the mandate, the supervisor responded “that if he refused to do as he was told, [the supervisor] would fire him on the spot,” the court documents allege.

    After the worker sent the first email, he was allegedly demoted from his position by management, and the rest of the inspection team was told to continue using the new system of logging defects.

    Ultimately, the worker’s complaint was sustained, and he was restored to his prior position with back pay, according to the complaint. He quit several months later, however, and claimed that other inspection team members he had worked with had been moved to new positions when, according to management, they documented “too many defects.”
    “Spirit Concealed the Defect”

    In August 2023, news broke that Boeing had discovered a defect in its MAX 737s, delaying rollout of the four hundred planes it had set to deliver this year. Spirit had incorrectly manufactured key equipment for the fuselage system, as the company acknowledged in a press statement.

    But these defects had been discovered by Spirit months before they became public, according to the December court filings.

    The court documents claim that a former quality auditor with Spirit, Joshua Dean, identified the manufacturing defects — bulkhead holes that were improperly drilled — in October 2022, nearly a year before Boeing first said that the defect had been discovered. Dean identified the issue and sent his findings to supervisors on multiple occasions, telling management at one point that it was “the worst finding” he had encountered during his time as an auditor.

    “The aft pressure bulkhead is a critical part of an airplane, which is necessary to maintain cabin pressure during flight,” the complaint says. “Dean reported this defect to multiple Spirit employees over a period of several months, including submitting formal written findings to his manager. However, Spirit concealed the defect.”

    In April 2023, after Dean continued to raise concerns about the defects, Spirit fired him, the complaint says.

    In October 2023, Boeing and Spirit announced they were expanding the scope of their inspections. The FAA has said it is monitoring the inspections, but said in October there was “no immediate safety concern” as a result of the bulkhead defects.
    “Emphasis on Pushing Out Product Over Quality”

    Workers cited in the federal complaint attributed the alleged problems at Spirit to a culture that prioritized moving products down the factory line as quickly as possible — at any cost. The company has been under pressure from Boeing to ramp up production, and in earnings calls, Spirit’s shareholders have pressed the company’s executives about its production rates.

    According to the Financial Times, after the extended grounding of Boeing’s entire fleet of 737 Max airlines following two major crashes in 2018 and 2019, “the plane maker has sought to increase its output rate and gain back market share it lost to Airbus,” its European rival.

    Spirit, which also produces airframe components for Airbus, has felt the pressure of that demand. As Shanahan noted in Spirit’s third-quarter earnings call on November 1, “When you look at the demand for commercial airplanes, having two of the biggest customers in the world and not being able to satisfy the demand, it should command our full attention.”

    According to the court records, workers believed Spirit placed an “emphasis on pushing out product over quality.” Inspection workers were allegedly told to overlook defects on final walkthroughs, as Spirit “just wanted to ship its completed products as quickly as possible.”

    Dean claimed to have noticed a significant deterioration in Spirit’s workforce after Spirit went through several rounds of mass layoffs in the early days of the COVID-19 pandemic, despite the huge influx in government funding they received.

    According to court documents, Dean said that “Spirit laid off or voluntarily retired a large number of senior engineers and mechanics, leaving a disproportionate number of new and less experienced personnel.”
    “Over-Tightening or Under-Tightening That Could Threaten the Structural Integrity”

    After the Alaska Airlines plane was grounded, United Airlines launched an independent inspection of its planes. Initial reporting shows that inspectors found multiple loose bolts throughout several Boeing 737 Max 9 planes. Alaska Airlines is currently conducting an audit of its aircraft.

    Concerns about properly tightened equipment were detailed in the federal complaint.

    “Auditors repeatedly found torque wrenches in mechanics’ toolboxes that were not properly calibrated,” said the complaint, citing another former Spirit employee. “This was potentially a serious problem, as a torque wrench that is out of calibration may not torque fasteners to the correct levels, resulting in over-tightening or under-tightening that could threaten the structural integrity of the parts in question.”

    According to former employees cited in the court documents, in a company-wide “toolbox audit,” more than one hundred of up to 1,400 wrenches were found out of alignment.

    On Spirit’s November earnings call, after investors pressed the company’s new CEO about its quality-control problems, Shanahan promised that the company was working to fix the issues — and its reputation.

    “The mindset I have is that we can be zero defects,” he said. “We can eliminate all defects. . . . But every day, we have to put time and attention to that.”

    #USA #aviation #sécurité #syndicalisme #travail #sous-traitance #salaire

  • Le #lobbying sans #frontières de #Thales
    (publié en 2021, ici pour archivage)

    Pour vendre ses systèmes de surveillance aux confins de l’Union européenne, l’entreprise use de son influence. Indirectement, discrètement, efficacement.

    Ce 23 mai 2017, au sixième étage de l’immense tour vitrée qui héberge les locaux de #Frontex à Varsovie, en Pologne, les rendez-vous sont réglés comme du papier à musique. L’agence européenne de gardes-frontières et de gardes-côtes reçoit des industriels pour des discussions consacrées à l’utilisation de la biométrie aux confins de l’Union. Leonardo, Safran, Indra… Frontex déroule le tapis rouge aux big boss de la sécurité et de la défense. Juste après la pause-déjeuner, c’est au tour de #Gemalto, qui sera racheté deux ans plus tard par Thales (lire l’épisode 5, « Thales s’immisce dans ta face »), de déballer pendant quarante-cinq minutes ses propositions. Un document PowerPoint de 14 pages sert de support visuel. L’entreprise franco-néerlandaise y développe diverses utilisations de la reconnaissance faciale aux frontières : en collectant un selfie grâce à son téléphone avant de voyager, en plein vol dans un avion ou dans un véhicule qui roule. Oubliant de s’interroger sur la légalité et le cadre juridique de cette technologie, la présentation conclut : « La reconnaissance faciale en mouvement n’a pas été testée dans les essais de “frontières intelligentes” mais devrait. » Une manière à peine voilée de dire que Frontex devrait coupler des logiciels de reconnaissance faciale aux caméras de surveillance qui lorgnent les frontières extérieures de l’Europe, afin de mieux identifier et surveiller ceux qui tentent de pénétrer dans l’UE.

    Ce document est l’un des 138 dévoilés le 5 février dernier par les « Frontex Files », enquête diligentée par la chaîne de télévision publique allemande ZDF, en collaboration avec l’ONG européenne Corporate Europe Observatory. Ce travail lève le voile sur des réunions menées par Frontex avec 125 lobbyistes, reçus entre 2018 et 2019… ainsi que sur leur opacité, puisque 72 % d’entre elles se sont tenues très discrètement, en dehors des règles de transparence édictées par l’Union européenne.

    Depuis 2016, Frontex joue un rôle dans la lutte contre la criminalité transfrontalière. Son budget atteint 544 millions en 2021

    Fondée en 2004 pour aider les pays européens à sécuriser leurs frontières, Frontex est devenue une usine à gaz de la traque des réfugiés. Depuis 2016 et un élargissement de ses fonctions, elle joue désormais un rôle dans la lutte contre la criminalité transfrontalière. Alors qu’il plafonnait à 6 millions d’euros en 2005, son budget atteint 544 millions en 2021. Pour le prochain cycle budgétaire de l’UE (2021-2027), la Commission européenne a attribué une enveloppe de 12,7 milliards d’euros à la gestion des frontières et de 9,8 milliards à la migration.

    Thales et Gemalto trônent dans le top 10 des entreprises ayant eu le plus d’entretiens avec l’agence européenne : respectivement trois et quatre réunions. Mais les deux sociétés devraient être comptées comme un tout : en rachetant la seconde, la première a logiquement profité des efforts de lobbying que celle-ci avait déployés auparavant. Pour le géant français, l’enjeu des frontières est majeur, ainsi que nous le racontions précédemment (lire l’épisode 6, « Thales police les frontières »). #Murs, #clôtures, #barbelés, #radars, #drones, systèmes de reconnaissance d’#empreintes_digitales biométriques… Chaque année, les marchés attribués se comptent en millions d’euros. L’ONG Transnational Institute parle de « business de l’édification de murs », du nom d’un de ses rapports, publié en novembre 2019. Celui-ci met la lumière sur les trois entreprises qui dévorent la plus grosse part du gâteau : l’espagnole #Leonardo (ex-#Finmeccanica), #Airbus et bien sûr Thales. Un profit fruit de plus de quinze années de lobbying agressif.

    Thales avance à couvert et s’appuie sur l’#European_Organisation_for_Security, un think tank qui regroupe ses principaux alliés et concurrents

    Flash-back en 2003. Le traumatisme des attentats du 11-Septembre est encore vif. L’Union européenne aborde l’épineuse question de la sécurisation de ses frontières. Elle constitue un « groupe de personnalités », dont la mission est de définir les axes d’un futur programme de recherche européen sur la question. Au milieu des commissaires, chercheurs et représentants des institutions s’immiscent les intérêts privés de sociétés spécialisées dans la défense : Thales, Leonardo, mais aussi l’allemande #Siemens et la suédoise #Ericsson. Un an plus tard, le rapport suggère à l’UE de calquer son budget de recherche sur la sécurité sur celui des États-Unis, soit environ quatre dollars par habitant et par an, raconte la juriste Claire Rodier dans son ouvrage Xénophobie business : à quoi servent les contrôles migratoires ? (La Découverte, 2012). En euros, la somme s’élève à 1,3 milliard par an. La machine est lancée. Les lobbyistes sont dans la place ; ils ne la quitteront pas.

    Au sein du registre de transparence de l’Union européenne, Thales publie les détails de ses actions d’influence : un lobbyiste accrédité au Parlement, entre 300 000 et 400 000 euros de dépenses en 2019 et des réunions avec des commissaires et des membres de cabinets qui concernent avant tout les transports et l’aérospatial. Rien ou presque sur la sécurité. Logique. Thales, comme souvent, avance à couvert (lire l’épisode 1, « Nice, le “little brother” de Thales ») et s’appuie pour faire valoir ses positions sur l’#European_Organisation_for_Security (EOS), un think tank qui regroupe ses principaux alliés et concurrents : #Airbus, Leonardo ou les Français d’#Idemia. Bref, un lobby. L’implication de Thales dans #EOS est tout à fait naturelle : l’entreprise en est la créatrice. Un homme a longtemps été le visage de cette filiation, #Luigi_Rebuffi. Diplômé en ingénierie nucléaire à l’université polytechnique de Milan, cet Italien au crâne dégarni et aux lunettes rectangulaires doit beaucoup au géant français. Spécialisé dans la recherche et le développement au niveau européen, il devient en 2003 directeur des affaires européennes de Thales. Quatre ans plus tard, l’homme fonde EOS. Détaché par Thales, il en assure la présidence pendant dix ans avant de rejoindre son conseil d’administration de 2017 à 2019.

    Depuis, il a fondé et est devenu le secrétaire général de l’#European_Cyber_Security_Organisation (#Ecso), représentant d’influence enregistré à Bruxelles, dont fait partie #Thales_SIX_GTS France, la filiale sécurité et #systèmes_d’information du groupe. À la tête d’Ecso, on trouve #Philippe_Vannier, également président de la division #big_data et sécurité du géant français de la sécurité #Atos… dont l’ancien PDG #Thierry_Breton est depuis 2019 commissaire européen au Marché intérieur. Un jeu de chaises musicales où des cadres du privé débattent désormais des décisions publiques.

    Entre 2012 et 2016, Luigi Rebuffi préside l’European Organisation for Security… et conseille la Commission pour ses programmes de recherche en sécurité

    Luigi Rebuffi sait se placer et se montrer utile. Entre 2012 et 2016, il occupe, en parallèle de ses fonctions à l’EOS, celle de conseiller pour les programmes de recherche en sécurité de la Commission européenne, le #Security_Advisory_Group et le #Protection_and_Security_Advisory_Group. « C’est une position privilégiée, analyse Mark Akkerman, chercheur et coauteur du rapport “Le business de l’édification de murs” de l’ONG Transnational Institute. Rebuffi faisait partie de l’organe consultatif le plus influent sur les décisions de financement par l’UE de programmes de recherche et d’innovation dans le domaine de la sécurité. »

    Ce n’est donc pas un hasard si, comme le note le site European Research Ranking, qui compile les données publiées par la Commission européenne, Thales est l’un des principaux bénéficiaires des fonds européens sur la #recherche avec 637 projets menés depuis 2007. La sécurité figure en bonne place des thématiques favorites de la société du PDG #Patrice_Caine, qui marche main dans la main avec ses compères de la défense Leonardo et Airbus, avec lesquels elle a respectivement mené 48 et 109 projets.

    Entre 2008 et 2012, l’Union européenne a, par exemple, attribué une subvention de 2,6 millions d’euros à un consortium mené par Thales, dans le cadre du projet #Aspis. Son objectif ? Identifier des systèmes de #surveillance_autonome dans les #transports_publics. Des recherches menées en collaboration avec la #RATP, qui a dévoilé à Thales les recettes de ses systèmes de sécurité et les coulisses de sa première ligne entièrement automatisée, la ligne 14 du métro parisien. Un projet dont l’un des axes a été le développement de la #vidéosurveillance.

    Thales coordonne le projet #Gambas qui vise à renforcer la #sécurité_maritime et à mieux repérer les bateaux de réfugiés tentant de rejoindre l’Europe

    À la même période, Thales s’est impliqué dans le projet #Oparus, financé à hauteur de 1,19 million d’euros par la Commission européenne. À ses côtés pour penser une stratégie européenne de la surveillance terrestre et maritime par #drones, #EADS (ancien nom d’#Airbus) ou #Dassault_Aviation. Depuis le 1er janvier dernier, l’industriel français coordonne aussi le projet Gambas (1,6 million de financement), qui vise à renforcer la sécurité maritime en améliorant le système de surveillance par #radar #Galileo, développé dans le cadre d’un précédent #projet_de_recherche européen pour mieux repérer les bateaux de réfugiés tentant de rejoindre l’Europe. Une #technologie installée depuis 2018 aux frontières européennes.

    Des subventions sont rattachées aux derniers programmes de recherche et d’innovation de l’Union européenne : #PR7 (2007-13) et #Horizon_2020 (2014-20). Leur petit frère, qui court jusqu’en 2027, s’intitule, lui, #Horizon_Europe. L’une de ses ambitions : « La sécurité civile pour la société ». Alors que ce programme s’amorce, Thales place ses pions. Le 23 novembre 2020, l’entreprise s’est entretenue avec #Jean-Éric_Paquet, directeur général pour la recherche et l’innovation de la Commission européenne. Sur quels thèmes ? Ont été évoqués les programmes Horizon 2020 et Horizon Europe, et notamment « dans quelles mesures [les] actions [de la Commission] pourraient susciter l’intérêt de Thales, en vue d’un soutien renforcé aux PME mais aussi aux écosystèmes d’innovation au sein desquels les groupes industriels ont un rôle à jouer », nous a répondu par mail Jean-Éric Paquet.

    L’European Organisation for Security s’intéresse aussi directement aux frontières européennes. Un groupe de travail, coprésidé par #Peter_Smallridge, chef des ventes de la division « #borders_and_travel » de Thales et ancien de Gemalto, poursuit notamment l’ambition « d’encourager le financement et le développement de la recherche qui aboutira à une industrie européenne de la sécurité plus forte ». Entre 2014 et 2019, EOS a organisé 226 réunions pour le compte d’Airbus, Leonardo et Thales, dépensant 2,65 millions d’euros pour la seule année 2017. Le chercheur Mark Akkerman est formel : « Toutes les actions de lobbying sur les frontières passent par l’EOS et l’#AeroSpace_and_Defence_Industries_Association_of_Europe (#ASD) », l’autre hydre de l’influence européenne.

    L’AeroSpace and Defence Industries Association of Europe a particulièrement souligné la nécessité de renforcer les liens entre les politiques de sécurité européennes et l’industrie de la sécurité.
    Sonya Gospodinova, porte-parole de la Commission chargée de l’industrie de la défense

    Dans ses derniers comptes publiés, datés de 2018, EOS déclare des dépenses de lobbying en nette baisse : entre 100 000 et 200 000 euros, un peu moins que les 200 000 à 300 000 euros de l’ASD. La liste des interlocuteurs de ces structures en dit beaucoup. Le 12 février 2020, des représentants d’EOS rencontrent à Bruxelles #Despina_Spanou, cheffe de cabinet du Grec #Margarítis_Schinás, vice-président de la Commission européenne chargé des Migrations. Le 11 juin, c’est au tour de l’ASD d’échanger en visioconférence avec Despina Spanou, puis début juillet avec un autre membre du cabinet, #Vangelis_Demiris. Le monde de l’influence européenne est petit puisque le 30 juin, c’est Ecso, le nouveau bébé de Luigi Rebuffi, d’organiser une visioconférence sur la sécurité européenne avec le trio au grand complet : Margarítis Schinás, Despina Spanou et Vangelis Demiris. Pour la seule année 2020, c’est la troisième réunion menée par Ecso avec la cheffe de cabinet.

    Également commissaire chargé de la Promotion du mode de vie européen, Margarítis Schinás a notamment coordonné le rapport sur la « stratégie de l’UE sur l’union de la sécurité ». Publié le 24 juillet 2020, il fixe les priorités sécuritaires de la Commission pour la période 2020-2025. Pour lutter contre le terrorisme et le crime organisé, le texte indique que « des mesures sont en cours pour renforcer la législation sur la sécurité aux frontières et une meilleure utilisation des bases de données existantes ». Des points qui étaient au cœur de la discussion entre l’ASD et son cabinet, comme l’a confirmé aux Jours Sonya Gospodinova, porte-parole de la Commission chargée de l’industrie de la défense. « Lors de cette réunion, l’ASD a particulièrement souligné la nécessité de renforcer les liens entre les politiques de sécurité européennes et l’industrie de la sécurité », confie-t-elle. Difficile d’avoir le son de cloche des lobbyistes. Loquaces quand il s’agit d’échanger avec les commissaires et les députés européens, Luigi Rebuffi, ASD, EOS et Thales n’ont pas souhaité répondre à nos questions. Pas plus que l’une des autres cibles principales des lobbyistes de la sécurité, Thierry Breton. Contrairement aux Jours, l’AeroSpace and Defence Industries Association of Europe a décroché deux entretiens avec l’ancien ministre de l’Économie de Jacques Chirac en octobre dernier, pour aborder des sujets aussi vastes que le marché international de l’#aérospatiale, la #défense ou la #sécurité. À Bruxelles, Thales et ses relais d’influence sont comme à la maison.

    https://lesjours.fr/obsessions/thales-surveillance/ep7-lobbying-europe

    #complexe_militaro_industriel #surveillance_des_frontières #migrations #réfugiés #contrôles_frontaliers #lobby

    • Thales police les frontières

      De Calais à Algésiras, l’entreprise met ses technologies au service de la politique antimigratoire de l’Europe, contre de juteux contrats.

      Cette journée d’octobre, Calais ne fait pas mentir les préjugés. Le ciel est gris, le vent âpre. La pluie mitraille les vitres de la voiture de Stéphanie. La militante de Calais Research, une ONG qui travaille sur la frontière franco-anglaise, nous promène en périphérie de la ville. Un virage. Elle désigne du doigt un terrain poisseux, marécage artificiel construit afin de décourager les exilés qui veulent rejoindre la Grande-Bretagne. À proximité, des rangées de barbelés brisent l’horizon. Un frisson claustrophobe nous saisit, perdus dans ce labyrinthe de clôtures.

      La pilote de navire marchand connaît bien la région. Son collectif, qui réunit chercheurs et citoyens, effectue un travail d’archiviste. Ses membres collectent minutieusement les informations sur les dispositifs technologiques déployés à la frontière calaisienne et les entreprises qui les produisent. En 2016, ils publiaient les noms d’une quarantaine d’entreprises qui tirent profit de l’afflux de réfugiés dans la ville. Vinci, choisi en septembre 2016 pour construire un mur de 4 mètres de haut interdisant l’accès à l’autoroute depuis la jungle, y figure en bonne place. Tout comme Thales, qui apparaît dans la liste au chapitre « Technologies de frontières ».

      Thales vend son dispositif comme un outil pour protéger les employés, mais on voit bien que c’est pour empêcher les réfugiés de passer.
      Stéphanie, militante de l’ONG Calais Research

      Stéphanie stoppe sa voiture le long du trottoir, à quelques mètres de l’entrée du port de Calais. Portes tournantes et lecteurs de badges, qui permettent l’accès aux employés, ont été conçus par Thales. Le géant français a aussi déployé des dizaines de caméras le long de la clôture de 8 000 mètres qui encercle le port. « Thales vend son dispositif comme un outil pour protéger les employés, glisse Stéphanie, mais on voit bien que c’est pour empêcher les réfugiés de passer. » Le projet Calais Port 2015 – année initialement fixée pour la livraison –, une extension à 863 millions d’euros, « devrait être achevé le 5 mai 2021 », d’après Jean-Marc Puissesseau, PDG des ports de Calais-Boulogne-sur-Mer, qui n’a même pas pu nous confirmer que Thales en assure bien la sécurité, mais chiffre à 13 millions d’euros les investissements de sécurité liés au Brexit. Difficile d’en savoir plus sur ce port 2.0 : ni Thales ni la ville de Calais n’ont souhaité nous répondre.

      Les technologies sécuritaires de Thales ne se cantonnent pas au port. Depuis la mise en place du Brexit, la société Eurotunnel, qui gère le tunnel sous la Manche, a mis à disposition de la police aux frontières les sas « Parafe » (« passage automatisé rapide aux frontières extérieures ») utilisant la reconnaissance faciale du même nom, conçus par Thales. Là encore, ni Eurotunnel ni la préfecture du Pas-de-Calais n’ont souhaité commenter. L’entreprise française fournit aussi l’armée britannique qui, le 2 septembre 2020, utilisait pour la première fois le drone Watchkeeper produit par Thales. « Nous restons pleinement déterminés à soutenir le ministère de l’Intérieur britannique alors qu’il s’attaque au nombre croissant de petits bateaux traversant la Manche », se félicite alors l’armée britannique dans un communiqué. Pour concevoir ce drone, initialement déployé en Afghanistan, Thales a mis de côté son vernis éthique. Le champion français s’est associé à Elbit, entreprise israélienne connue pour son aéronef de guerre Hermes. En 2018, The Intercept révélait que ce modèle avait été utilisé pour bombarder Gaza, tuant quatre enfants. Si le patron de Thales, Patrice Caine, appelait en 2019 à interdire les robots tueurs, il n’éprouve aucun état d’âme à collaborer avec une entreprise qui en construit.

      Du Rafale à la grande mosquée de la Mecque, Thales s’immisce partout mais reste invisible. L’entreprise cultive la même discrétion aux frontières européennes

      À Calais comme ailleurs, un détail frappe quand on enquête sur Thales. L’entreprise entretient une présence fantôme. Elle s’immisce partout, mais ses six lettres restent invisibles. Elles ne figurent ni sur la carlingue du Rafale dont elle fournit l’électronique, ni sur les caméras de vidéosurveillance qui lorgnent sur la grande mosquée de la Mecque ni les produits informatiques qui assurent la cybersécurité du ministère des Armées. Très loquace sur l’efficacité de sa « Safe City » mexicaine (lire l’épisode 3, « Thales se prend un coup de chaud sous le soleil de Mexico ») ou les bienfaits potentiels de la reconnaissance faciale (lire l’épisode 5, « Thales s’immisce dans ta face »), Thales cultive la même discrétion sur son implication aux frontières européennes. Sur son site francophone, une page internet laconique mentionne l’utilisation par l’armée française de 210 mini-drones Spy Ranger et l’acquisition par la Guardia civil espagnole de caméras Gecko, œil numérique à vision thermique capable d’identifier un bateau à plus de 25 kilomètres. Circulez, il n’y a rien à voir !

      La branche espagnole du groupe est plus bavarde. Un communiqué publié par la filiale ibérique nous apprend que ces caméras seront installées sur des 4x4 de la Guardia civil « pour renforcer la surveillance des côtes et des frontières ». Une simple recherche sur le registre des appels d’offres espagnols nous a permis de retracer le lieu de déploiement de ces dispositifs. La Guardia civil de Melilla, enclave espagnole au Maroc, s’est vue attribuer une caméra thermique, tout comme celle d’Algésiras, ville côtière située à quelques kilomètres de Gibraltar, qui a reçu en complément un logiciel pour contrôler les images depuis son centre de commandement. Dans un autre appel d’offres daté de novembre 2015, la Guardia civil d’Algésiras obtient un des deux lots de caméras thermiques mobiles intégrées directement à un 4x4. Le second revient à la police des Baléares. Montant total de ces marchés : 1,5 million d’euros. Des gadgets estampillés Thales destinés au « Servicio fiscal » de la Guardia civil, une unité dont l’un des rôles principaux est d’assurer la sécurité aux frontières.

      Thales n’a pas attendu 2015 pour vendre ses produits de surveillance en Espagne. D’autres marchés publics de 2014 font mention de l’acquisition par la Guardia civil de Ceuta et Melilla de trois caméras thermiques portables, ainsi que de deux systèmes de surveillance avec caméras thermiques et de quatre caméras thermiques à Cadix et aux Baléares. La gendarmerie espagnole a également obtenu plusieurs caméras thalesiennes « Sophie ». Initialement à usage militaire, ces jumelles thermiques à vision nocturne, dont la portée atteint jusqu’à 5 kilomètres, ont délaissé les champs de bataille et servent désormais à traquer les exilés qui tentent de rejoindre l’Europe. Dans une enquête publiée en juillet dernier, Por Causa, média spécialisé dans les migrations, a analysé plus de 1 600 contrats liant l’État espagnol à des entreprises pour le contrôle des frontières, dont onze attribués à Thales, pour la somme de 3,8 millions d’euros.

      Algésiras héberge le port le plus important du sud de l’Espagne, c’est depuis des années l’une des portes d’entrées des migrants en Europe.
      Salva Carnicero, journaliste à « Por Causa »

      Le choix des villes n’est bien sûr pas anodin. « Algésiras héberge le port le plus important du sud de l’Espagne, c’est depuis des années l’une des portes d’entrées des migrants en Europe », analyse Salva Carnicero, qui travaille pour Por Causa. Dès 2003, la ville andalouse était équipée d’un dispositif de surveillance européen unique lancé par le gouvernement espagnol pour contrôler sa frontière sud, le Système intégré de surveillance extérieure (SIVE). Caméras thermiques, infrarouges, radars : les côtes ont été mises sous surveillance pour identifier la moindre embarcation à plusieurs dizaines de kilomètres. La gestion de ce système a été attribuée à l’entreprise espagnole Amper, qui continue à en assurer la maintenance et a remporté plusieurs appels d’offres en 2017 pour le déployer à Murcie, Alicante et Valence. Une entreprise que Thales connaît bien, puisqu’elle a acquis en 2014 l’une des branches d’Amper, spécialisée dans la création de systèmes de communication sécurisés pour le secteur de la défense.

      Ceuta et Melilla, villes autonomes espagnoles ayant une frontière directe avec le Maroc, sont considérées comme deux des frontières européennes les plus actives. En plus des caméras thermiques, Thales Espagne y a débuté en septembre 2019, en partenariat avec l’entreprise de sécurité suédoise Gunnebo, l’un des projets de reconnaissance faciale les plus ambitieux au monde. Le logiciel thalesien Live Face Identification System (LFIS) est en effet couplé à 35 caméras disposées aux postes-frontières avec l’Espagne. L’objectif : « Surveiller les personnes entrant et sortant des postes-frontières », et permettre « la mise en place de listes noires lors du contrôle aux frontières », dévoile Gunnebo, qui prédit 40 000 lectures de visages par jour à Ceuta et 85 000 à Melilla. Une technologie de plus qui complète l’immense clôture qui tranche la frontière. « Les deux vont de pair, le concept même de barrière frontalière implique la présence d’un checkpoint pour contrôler les passages », analyse le géographe Stéphane Rosière, spécialisé dans la géopolitique et les frontières.

      Chercheur pour Stop Wapenhandel, association néerlandaise qui milite contre le commerce des armes, Mark Akkerman travaille depuis des années sur la militarisation des frontières. Ses rapports « Border Wars » font figure de référence et mettent en exergue le profit que tirent les industriels de la défense, dont Thales, de la crise migratoire. Un des documents explique qu’à l’été 2015, le gouvernement néerlandais a accordé une licence d’exportation de 34 millions d’euros à Thales Nederland pour des radars et des systèmes C3. Leur destination ? L’Égypte, un pays qui viole régulièrement les droits de l’homme. Pour justifier la licence d’exportation accordée à Thales, le gouvernement néerlandais a évoqué « le rôle que la marine égyptienne joue dans l’arrêt de l’immigration “illégale” vers Europe ».

      De l’Australie aux pays du Golfe, l’ambition de Thales dépasse les frontières européennes

      L’ambition de Thales dépasse l’Europe. L’entreprise veut surveiller aux quatre coins du monde. Les drones Fulmar aident depuis 2016 la Malaisie à faire de la surveillance maritime et les caméras Gecko – encore elles –, lorgnent sur les eaux qui baignent la Jamaïque depuis 2019. En Australie, Thales a travaillé pendant plusieurs années avec l’entreprise publique Ocius, aidée par l’université New South Wales de Sydney, sur le développement de Bluebottle, un bateau autonome équipé d’un radar dont le but est de surveiller l’espace maritime. Au mois d’octobre, le ministère de l’industrie et de la défense australien a octroyé à Thales Australia une subvention de 3,8 millions de dollars pour développer son capteur sous-marin Blue Sentry.

      Une tactique rodée pour Thales qui, depuis une quinzaine d’années, profite des financements européens pour ses projets aux frontières. « L’un des marchés-clés pour ces acteurs sont les pays du Golfe, très riches, qui dépensent énormément dans la sécurité et qui ont parfois des problèmes d’instabilité. L’Arabie saoudite a barriérisé sa frontière avec l’Irak en pleine guerre civile », illustre Stéphane Rosière. En 2009, le royaume saoudien a confié la surveillance électronique de ses 8 000 kilomètres de frontières à EADS, aujourd’hui Airbus. Un marché estimé entre 1,6 milliard et 2,5 milliards d’euros, l’un des plus importants de l’histoire de la sécurité des frontières, dont l’attribution à EADS a été vécue comme un camouflet par Thales.

      Car l’entreprise dirigée par Patrice Caine entretient une influence historique dans le Golfe. Présent aux Émirats Arabes unis depuis 45 ans, l’industriel y emploie 550 personnes, principalement à Abu Dhabi et à Dubaï, où l’entreprise française est chargée de la sécurité d’un des plus grands aéroports du monde. Elle y a notamment installé 2 000 caméras de vidéosurveillance et 1 200 portillons de contrôle d’accès.

      Au Qatar, où elle comptait, en 2017, 310 employés, Thales équipe l’armée depuis plus de trois décennies. Depuis 2014, elle surveille le port de Doha et donc la frontière maritime, utilisant pour cela des systèmes détectant les intrusions et un imposant dispositif de vidéosurveillance. Impossible de quitter le Qatar par la voie des airs sans avoir à faire à Thales : l’entreprise sécurise aussi l’aéroport international d’Hamad avec, entre autres, un dispositif tentaculaire de 13 000 caméras, trois fois plus que pour l’intégralité de la ville de Nice, l’un de ses terrains de jeu favoris (lire l’épisode 1, « Nice, le “little brother” de Thales »).

      La prochaine grande échéance est la Coupe du monde de football de 2022, qui doit se tenir au Qatar et s’annonce comme l’une des plus sécurisées de l’histoire. Thales participe dans ce cadre à la construction et à la sécurisation du premier métro qatari, à Doha : 241 kilomètres, dont 123 souterrains, et 106 stations. Et combien de milliers de caméras de vidéosurveillance ?

      https://lesjours.fr/obsessions/thales-surveillance/ep6-frontieres-europe

  • Loi « immigration » : les associations déterminées avant l’examen devant le Conseil constitutionnel
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/01/05/loi-immigration-les-associations-determinees-avant-l-examen-devant-le-consei

    Loi « immigration » : les associations déterminées avant l’examen devant le Conseil constitutionnel
    Par Abel Mestre
    Maintenir coûte que coûte la pression, c’est l’état d’esprit des opposants à la loi « immigration ». Voté le 19 décembre 2023, le texte comporte, selon l’exécutif lui-même, plusieurs mesures susceptibles d’être censurées par le Conseil constitutionnel. Saisis par le président de la République, Emmanuel Macron, mais aussi par l’opposition de gauche, les neuf juges constitutionnels doivent se prononcer d’ici à la fin du mois de janvier sur la conformité du texte. D’ici là, les partis de gauche, les associations, les syndicats et de nombreux juristes essaient d’organiser la riposte.
    Cette dernière se mène sur plusieurs fronts. Juridique, d’abord. Plusieurs « contributions extérieures » (également appelées « portes étroites ») seront adressées au Conseil par des personnes physiques ou morales concernées par la loi « immigration ». Serge Slama, professeur de droit public à l’université Grenoble-Alpes et spécialiste du droit des étrangers, a été la cheville ouvrière de cette initiative. L’universitaire a été marqué par le nombre de ses collègues qui ont participé à ce travail, beaucoup plus nombreux qu’à l’ordinaire. « Cela dépasse le noyau dur habituel », estime-t-il. Selon lui, la loi « immigration » « est très mal rédigée, très mal ficelée et va être un nid à contentieux et poser beaucoup de problèmes d’interprétation ».
    Ces contributions extérieures sont organisées par thèmes (nationalité, étudiants internationaux, protection sociale et hébergement d’urgence, étrangers gravement malades, asile, mineurs non accompagnés, contentieux judiciaire et rétention…) et ont été élaborées par des universitaires et des responsables associatifs. Elles donnent donc tous les arguments juridiques pour appuyer une censure des dispositions visées, voire une censure globale du texte.
    Autre secteur qui se mobilise : celui des associations et des syndicats. Quarante-cinq organisations parmi les plus importantes – entre autres : Attac, la Fondation Abbé Pierre, Emmaüs, la Ligue des droits de l’homme, France Terre d’asile, la Cimade, Oxfam, la CFDT, la CGT – dénoncent « un point de bascule pour [les] principes républicains ». Les signataires donnent rendez-vous avant fin janvier « pour poursuivre cette dynamique de rassemblement, demander au président de la République de surseoir à la promulgation de la loi, intensifier et élargir la mobilisation contre ce texte et son idéologie ». Problème : on ne sait pas quelle forme prendra cette mobilisation. « La loi fait l’unanimité contre elle, d’où le nombre de signataires. Mais sur les modes d’action, on est un peu dans l’expectative, confesse Manuel Domergue, de la Fondation Abbé Pierre. Les cultures sont différentes et nous sommes dans l’attente de la décision du Conseil constitutionnel. »
    D’autres ne sont pas aussi patients : plusieurs organisations, parmi lesquelles le Groupe d’information et de soutien des immigrés, La France insoumise (LFI) ou Europe Ecologie-Les Verts, ainsi que plusieurs collectifs de sans-papiers, ont d’ores et déjà appelé à « manifester massivement sur tout le territoire le dimanche 14 janvier pour empêcher que cette loi soit promulguée ». Car c’est là tout le paradoxe des larges fronts d’opposition : il est parfois difficile de mettre tout le monde d’accord sur la marche à suivre. Ainsi, certains poussent pour organiser un grand meeting unitaire où chacun pourrait s’exprimer. L’avantage de cette solution est que le risque est minimal : il suffit de réserver une salle un peu petite pour donner l’illusion du nombre. En revanche, rien de pire qu’une manifestation qui ne fait pas le plein pour casser un mouvement naissant… Les partisans des manifs, eux, rappellent qu’en 1997 les cortèges contre les lois Debré sur l’immigration avaient fait le plein (jusqu’à 100 000 personnes à Paris)…
    Ce dilemme, les partis politiques en ont conscience. La France insoumise pousse pour que la démarche soit unitaire. « Il y a plusieurs cadres de discussion. On souhaite qu’il y ait tout le monde la même date, notamment les premiers concernés, comme la Marche des solidarités et les collectifs de sans-papiers, de même que les syndicats, associations, forces politiques opposés a la loi Darmanin », note Aurélie Trouvé, députée LFI de Seine-Saint-Denis. Surtout, une difficulté majeure s’ajoute : l’articulation avec les mobilisations pour la Palestine. Il est vrai que ces rassemblements concernent, en très grande partie, les mêmes organisations, le même milieu militant. Comment faire pour ne pas se marcher sur les pieds et ne pas abandonner un combat au profit de l’autre ? Une solution pourrait être une grande mobilisation mêlant les deux questions, sur le mode de la « convergence des luttes », mais le risque est de brouiller les messages. Une chose est sûre : la décision du Conseil constitutionnel ne réglera pas tout. Le scénario le plus probable est la censure (sur le fond ou comme « cavaliers législatifs », c’est-à-dire sans lien avec la loi) des dispositions les plus « aberrantes », selon l’expression de Serge Slama. Pourraient ainsi être concernées plusieurs mesures issues des amendements présentés par la droite, comme, par exemple, les mesures touchant aux prestations sociales ou celles sur le regroupement familial. Ces censures seraient une sorte de victoire à la Pyrrhus pour les opposants. En effet, le cœur du texte du gouvernement serait validé. Et il serait encore plus difficile de mobiliser contre une loi qui aura perdu ses aspects les plus clivants.

    #Covid-19#migration#migrant#france#loiimmigration#droit#conseilconstitutionnel#syndicat#association#securitesociale#regroupementfamilial

  • #Loi_immigration : l’accueil des étrangers n’est pas un fardeau mais une nécessité économique

    Contrairement aux discours répétés ad nauseam, le #coût des aides accordées aux immigrés, dont la jeunesse permet de compenser le vieillissement des Français, est extrêmement faible. Le #poids_financier de l’#immigration n’est qu’un #faux_problème brandi pour flatter les plus bas instincts.

    Quand les paroles ne sont plus audibles, écrasées par trop de contre-vérités et de mauvaise foi, il est bon parfois de se référer aux #chiffres. Alors que le débat sur la loi immigration va rebondir dans les semaines à venir, l’idée d’entendre à nouveau les sempiternels discours sur l’étranger qui coûte cher et prend nos emplois nous monte déjà au cerveau. Si l’on regarde concrètement ce qu’il en est, le coût de l’immigration en France, que certains présentent comme bien trop élevé, serait en réalité extrêmement faible selon les économistes. Pour l’OCDE, il est contenu entre -0,5% et +0,5% du PIB selon les pays d’Europe, soit un montant parfaitement supportable. Certes, les immigrés reçoivent davantage d’#aides que les autres (et encore, beaucoup d’entre elles ne sont pas réclamées) car ils sont pour la plupart dans une situation précaire, mais leur #jeunesse permet de compenser le vieillissement de la population française, et donc de booster l’économie.

    Eh oui, il est bien loin ce temps de l’après-guerre où les naissances explosaient : les bébés de cette période ont tous pris leur retraite ou sont en passe de le faire et, bientôt, il n’y aura plus assez de jeunes pour abonder les caisses de #retraite et d’#assurance_sociale. Sans compter que, vu l’allongement de la durée de vie, la question de la dépendance va requérir énormément de main-d’œuvre et, pour le coup, devenir un véritable poids financier. L’immigration, loin d’être un fardeau, est bien une #nécessité si l’on ne veut pas voir imploser notre modèle de société. Les Allemands, eux, l’assument haut et fort : ils ont besoin d’immigrés pour faire tourner le pays, comme l’a clamé le chancelier Olaf Scholz au dernier sommet économique de Davos. Le poids financier de l’immigration est donc un faux problème brandi par des politiques qui ne pensent qu’à flatter les plus bas instincts d’une population qui craint que l’avenir soit pire encore que le présent. On peut la comprendre, mais elle se trompe d’ennemi.

    https://www.liberation.fr/idees-et-debats/editorial/loi-immigration-laccueil-des-etrangers-nest-pas-un-fardeau-mais-une-neces
    #économie #démographie #France #migrations

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    voir aussi cette métaliste sur le lien entre #économie (et surtout l’#Etat_providence) et la #migration... des arguments pour détruire l’#idée_reçue : « Les migrants profitent (voire : viennent POUR profiter) du système social des pays européens »...
    https://seenthis.net/messages/971875

    ping @karine4

    • Sur les #prestations_sociales aux étrangers, la #contradiction d’#Emmanuel_Macron

      Le pouvoir exécutif vante une loi « immigration » qui concourt à une meilleure intégration des « travailleurs » et soutient « ceux qui travaillent ». Mais la restriction des droits sociaux pour les non-Européens fragilise le système de #protection_sociale.

      Depuis son adoption au Parlement, la loi relative à l’immigration est présentée par Emmanuel Macron et par le gouvernement comme fidèle à la doctrine du « #en_même_temps ». D’un côté, le texte prétend lutter « contre les #passeurs » et l’entrée illicite d’étrangers dans l’Hexagone. De l’autre, il viserait à « mieux intégrer ceux qui ont vocation à demeurer sur notre sol » : les « réfugiés, étudiants, chercheurs, travailleurs ». En s’exprimant ainsi dans ses vœux à la nation, le 31 décembre 2023, le président de la République a cherché à montrer que la #réforme, fruit d’un compromis avec les élus Les Républicains, et inspirée par endroits du logiciel du Rassemblement national, conciliait #fermeté et #humanisme.

      Mais cette volonté d’#équilibre est contredite par les mesures concernant les prestations sociales. En réalité, le texte pose de nouvelles règles qui durcissent les conditions d’accès à plusieurs droits pour les étrangers non ressortissants de l’Union européenne, en situation régulière, ce qui risque de plonger ces personnes dans le dénuement.

      Un premier régime est créé, qui prévoit que l’étranger devra soit avoir résidé en France depuis au moins cinq ans, soit « justifier d’une durée d’affiliation d’au moins trente mois au titre d’une activité professionnelle » – sachant que cela peut aussi inclure des périodes non travaillées (chômage, arrêt-maladie). Ce « #délai_de_carence » est une nouveauté pour les aides visées : #allocations_familiales, prestation d’accueil du jeune enfant, allocation de rentrée scolaire, complément familial, allocation personnalisée d’autonomie, etc.

      « #Régression considérable »

      Un deuxième régime est mis en place pour les #aides_personnelles_au_logement (#APL) : pour les toucher, l’étranger devra soit être titulaire d’un visa étudiant, soit être établi sur le territoire depuis au moins cinq ans, soit justifier d’une « durée d’affiliation d’au moins trois mois au titre d’une activité professionnelle ». Là aussi, il s’agit d’une innovation. Ces critères plus stricts, précise la loi, ne jouent cependant pas pour ceux qui ont obtenu le statut de réfugié ou détiennent la carte de résident.

      Le 19 décembre 2023, Olivier Dussopt, le ministre du travail, a réfuté la logique d’une #discrimination entre nationaux et étrangers, et fait valoir que le texte établissait une « #différence » entre ceux qui travaillent et ceux qui ne travaillent pas, « qu’on soit français ou qu’on soit étranger ». « Nous voulons que celles et ceux qui travaillent soient mieux accompagnés », a-t-il ajouté, en faisant allusion au délai de carence moins long pour les étrangers en emploi que pour les autres. Une présentation qui omet que le nouveau régime ne s’applique qu’aux résidents non européens, et laisse penser que certains étrangers mériteraient plus que d’autres d’être couverts par notre #Etat-providence.

      Alors que la loi est censée faciliter – sous certaines conditions – l’#intégration de ressortissants d’autres pays, des spécialistes de la protection sociale considèrent que les mesures sur les prestations tournent le dos à cet objectif. « Les délais de carence vont totalement à l’encontre de l’intégration que l’on prétend viser », estime Michel Borgetto, professeur émérite de l’université Paris Panthéon-Assas. Ils risquent, d’une part, de « précipiter dans la #précarité des personnes confrontées déjà à des #conditions_de_vie difficiles, ce qui aura pour effet d’accroître le nombre de #travailleurs_pauvres et de #mal-logés, voire de #sans-abri, relève-t-il. Ils sont, d’autre part, susceptibles de se révéler largement contre-productifs et terriblement néfastes, poursuit le spécialiste du droit de la #sécurité_sociale, dans la mesure où les étrangers en situation régulière se voient privés des aides et accompagnements nécessaires à leur insertion durable dans la société, dans les premiers mois ou années de leur vie en France. C’est-à-dire, en fait, au moment même où ils en ont précisément le plus besoin… »

      Maîtresse de conférences en droit social à l’université Lyon-II, Laure Camaji tient à rappeler que les prestations visées constituent des « #droits_universels, attribués depuis des décennies en raison de la résidence sur le territoire ». « Cela fait bien longtemps – depuis une loi de 1975 – que le droit aux #prestations_familiales n’est plus lié à l’exercice d’une #activité_professionnelle, souligne-t-elle. C’est un principe fondamental de notre système de sécurité sociale, un #acquis majeur qui forme le socle de notre #pacte_social, tout comme l’est l’#universalité de la #couverture_maladie, de la prise en charge du #handicap et de la #dépendance, du droit au logement et à l’#hébergement_d’urgence. »

      A ses yeux, le texte entraîne une « régression considérable » en instaurant une « #dualité de régimes entre les Français et les Européens d’un côté, les personnes non ressortissantes de l’Union de l’autre ». L’intégralité du système de protection sociale est fragilisée, « pour tous, quelle que soit la nationalité, l’origine, la situation familiale, puisque l’universalité n’est plus le principe », analyse-t-elle.

      Motivation « idéologique »

      Francis Kessler, maître de conférences à l’université Paris-I Panthéon-Sorbonne, ne comprend pas « la logique à l’œuvre dans cette loi, sauf à considérer qu’il est illégitime de verser certaines prestations à une catégorie de la population, au motif qu’elle n’a pas la nationalité française, ou que les étrangers viennent en France pour toucher des aides – ce qu’aucune étude n’a démontré ». En réalité, complète-t-il, la seule motivation de cette loi est « idéologique » : « Elle repose très clairement sur une idée de “#préférence_nationale” et place notre pays sur une pente extrêmement dangereuse. »

      Toute la question, maintenant, est de savoir si les dispositions en cause seront validées par le #Conseil_constitutionnel. L’institution de la rue de Montpensier a été saisie par la présidente de l’Assemblée nationale, Yaël Braun-Pivet, ainsi que par des députés et sénateurs de gauche, notamment sur les restrictions des #aides_financières aux étrangers. Les parlementaires d’opposition ont mis en avant le fait que les délais de carence violaient – entre autres – le #principe_d’égalité. Plusieurs membres du gouvernement, dont la première ministre, Elisabeth Borne, ont reconnu que des articles du texte, comme celui sur les APL, pouvaient être jugés contraires à la Loi fondamentale. Le Conseil constitutionnel rendra sa décision avant la fin du mois de janvier.

      https://www.lemonde.fr/politique/article/2024/01/05/sur-les-prestations-sociales-aux-etrangers-la-contradiction-d-emmanuel-macro
      #Macron #loi_immigration #accès_aux_droits

  • Pourquoi la #promesse de « vidéogérer » les #villes avec des caméras couplées à une #intelligence_artificielle séduit et inquiète

    Sécurité, stationnement, déchets… #Nîmes a inauguré, à l’automne 2023, son « #hyperviseur_urbain ». Alors que la collecte et la circulation des #données sont au cœur de ce système, l’antenne locale de la Ligue des droits de l’homme s’inquiète. D’autres villes, comme #Dijon, ont déjà fait ce choix.

    La salle a des allures de centre spatial : un mur de plus de 20 mètres de long totalement recouvert d’écrans, 76 au total, chacun pouvant se diviser en neuf. Ici parviennent les images des 1 300 #caméras disposées dans la ville de Nîmes et dans certaines communes de son agglomération.

    A la pointe depuis 2001 sur le thème des #caméras_urbaines, se classant sur le podium des villes les plus vidéosurveillées du pays, Nîmes a inauguré, le 13 novembre 2023, son « #hyperviseur ». Ce plateau technique et confidentiel de 600 mètres carrés est entièrement consacré à une « nouvelle démarche de #territoire_intelligent », indique le maire (Les Républicains), Jean-Paul Fournier, réélu pour un quatrième mandat en 2020.

    Avec cet outil dernier cri, sur lequel se relaient nuit et jour une cinquantaine de personnes, la ville fait un grand pas de plus vers la #smart_city (la « #ville_connectée »), une tendance en plein développement pour la gestion des collectivités.

    Ce matin-là, les agents en poste peuvent facilement repérer, à partir d’images de très haute qualité, un stationnement gênant, un véhicule qui circule trop vite, un dépotoir sauvage, un comportement étrange… L’hyperviseur concentre toutes les informations en lien avec la gestion de l’#espace_public (sécurité, circulation, stationnement, environnement…), permet de gérer d’un simple clic l’éclairage public d’un quartier, de mettre une amende à distance (leur nombre a augmenté de 23 % en un an avec la #vidéoverbalisation) ou de repérer une intrusion dans un des 375 bâtiments municipaux connectés.

    La collecte et la circulation des données en temps réel sont au cœur du programme. Le système s’appuie sur des caméras dotées, et c’est la nouveauté, de logiciels d’intelligence artificielle dont les #algorithmes fournissent de nouvelles informations. Car il ne s’agit plus seulement de filmer et de surveiller. « Nous utilisons des caméras qui permettent de gérer en temps réel la ville et apportent des analyses pour optimiser la consommation d’énergie, par exemple, ou gérer un flux de circulation grâce à un logiciel capable de faire du comptage et de la statistique », explique Christelle Michalot, responsable de ce centre opérationnel d’#hypervision_urbaine.

    #Reconnaissance_faciale

    Si la municipalité n’hésite pas à présenter, sur ses réseaux sociaux, ce nouveau dispositif, elle est en revanche beaucoup plus discrète lorsqu’il s’agit d’évoquer les #logiciels utilisés. Selon nos informations, la ville travaille avec #Ineo, une entreprise française spécialisée dans le domaine de la #ville_intelligente. Le centre de police municipale est également équipé du logiciel de #surveillance_automatisée #Syndex, et d’un logiciel d’analyse pour images de vidéosurveillance très performant, #Briefcam.

    Ce dernier logiciel, de plus en plus répandu dans les collectivités françaises, a été mis au point par une société israélienne rachetée par le japonais #Canon, en 2018. Il est surtout au cœur de plusieurs polémiques et d’autant d’actions en justice intentées par des syndicats, des associations et des collectifs qui lui reprochent, notamment, de permettre la reconnaissance faciale de n’importe quel individu en activant une fonctionnalité spécifique.

    Le 22 novembre 2023, le tribunal administratif de Caen a condamné la communauté de communes normande #Cœur-Côte-Fleurie, ardente promotrice de cette solution technologique, « à l’effacement des données à caractère personnel contenues dans le fichier », en estimant que l’utilisation de ce type de caméras dites « intelligentes » était susceptible de constituer « une atteinte grave et manifestement illégale au #respect_de_la_vie_privée ». D’autres décisions de la #justice administrative, comme à #Nice et à #Lille, n’ont pas condamné l’usage en soi du #logiciel, dès lors que la possibilité de procéder à la reconnaissance faciale n’était pas activée.

    A Nîmes, le développement de cette « surveillance de masse » inquiète la Ligue des droits de l’homme (LDH), la seule association locale à avoir soulevé la question de l’utilisation des #données_personnelles au moment de la campagne municipale, et qui, aujourd’hui encore, s’interroge. « Nous avons le sentiment qu’on nous raconte des choses partielles quant à l’utilisation de ces données personnelles », explique le vice-président de l’antenne nîmoise, Jean Launay.

    « Nous ne sommes pas vraiment informés, et cela pose la question des #libertés_individuelles, estime celui qui craint une escalade sans fin. Nous avons décortiqué les logiciels : ils sont prévus pour éventuellement faire de la reconnaissance faciale. C’est juste une affaire de #paramétrage. » Reconnaissance faciale officiellement interdite par la loi. Il n’empêche, la LDH estime que « le #droit_à_la_vie_privée passe par l’existence d’une sphère intime. Et force est de constater que cette sphère, à Nîmes, se réduit comme peau de chagrin », résume M. Launay.

    « Des progrès dans de nombreux domaines »

    L’élu à la ville et à Nîmes Métropole Frédéric Escojido s’en défend : « Nous ne sommes pas Big Brother ! Et nous ne pouvons pas faire n’importe quoi. L’hyperviseur fonctionne en respectant la loi, le #RGPD [règlement général sur la protection des données] et selon un cahier des charges très précis. » Pour moderniser son infrastructure et la transformer en hyperviseur, Nîmes, qui consacre 8 % de son budget annuel à la #sécurité et dépense 300 000 euros pour installer entre vingt-cinq et trente nouvelles caméras par an, a déboursé 1 million d’euros.

    La métropole s’est inspirée de Dijon, qui a mis en place un poste de commandement partagé avec les vingt-trois communes de son territoire il y a cinq ans. En 2018, elle est arrivée deuxième aux World Smart City Awards, le prix mondial de la ville intelligente.

    Dans l’agglomération, de grands panneaux lumineux indiquent en temps réel des situations précises. Un accident, et les automobilistes en sont informés dans les secondes qui suivent par le biais de ces mâts citadins ou sur leur smartphone, ce qui leur permet d’éviter le secteur. Baptisé « #OnDijon », ce projet, qui mise aussi sur l’open data, a nécessité un investissement de 105 millions d’euros. La ville s’est associée à des entreprises privées (#Bouygues_Telecom, #Citelum, #Suez et #Capgemini).

    A Dijon, un #comité_d’éthique et de gouvernance de la donnée a été mis en place. Il réunit des habitants, des représentants de la collectivité, des associations et des entreprises pour établir une #charte « de la #donnée_numérique et des usages, explique Denis Hameau, adjoint au maire (socialiste) François Rebsamen et élu communautaire. La technique permet de faire des progrès dans de nombreux domaines, il faut s’assurer qu’elle produit des choses justes dans un cadre fixe. Les données ne sont pas là pour opprimer les gens, ni les fliquer ».

    Des « systèmes susceptibles de modifier votre #comportement »

    Nice, Angers, Lyon, Deauville (Calvados), Orléans… Les villes vidéogérées, de toutes tailles, se multiplient, et avec elles les questions éthiques concernant l’usage, pour le moment assez flou, des données personnelles et la #surveillance_individuelle, même si peu de citoyens semblent s’en emparer.

    La Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), elle, veille. « Les systèmes deviennent de plus en plus performants, avec des #caméras_numériques capables de faire du 360 degrés et de zoomer, observe Thomas Dautieu, directeur de l’accompagnement juridique de la CNIL. Et il y a un nouveau phénomène : certaines d’entre elles sont augmentées, c’est-à-dire capables d’analyser, et ne se contentent pas de filmer. Elles intègrent un logiciel capable de faire parler les images, et ces images vont dire des choses. »

    Cette nouveauté est au cœur de nouveaux enjeux : « On passe d’une situation où on était filmé dans la rue à une situation où nous sommes analysés, reprend Thomas Dautieu. Avec l’éventuel développement des #caméras_augmentées, quand vous mettrez un pied dans la rue, si vous restez trop longtemps sur un banc, si vous prenez un sens interdit, vous pourrez être filmé et analysé. Ces systèmes sont susceptibles de modifier votre comportement dans l’espace public. Si l’individu sait qu’il va déclencher une alerte s’il se met à courir, peut-être qu’il ne va pas courir. Et cela doit tous nous interpeller. »

    Actuellement, juridiquement, ces caméras augmentées ne peuvent analyser que des objets (camions, voitures, vélos) à des fins statistiques. « Celles capables d’analyser des comportements individuels ne peuvent être déployées », assure le directeur à la CNIL. Mais c’est une question de temps. « Ce sera prochainement possible, sous réserve qu’elles soient déployées à l’occasion d’événements particuliers. » Comme les Jeux olympiques.

    Le 19 mai 2023, le Parlement a adopté une loi pour mieux encadrer l’usage de la #vidéoprotection dite « intelligente ». « Le texte permet une expérimentation de ces dispositifs, et impose que ces algorithmes ne soient mis en place, avec autorisation préfectorale, dans le temps et l’espace, que pour une durée limitée, par exemple pour un grand événement comme un concert. Ce qui veut dire que, en dehors de ces cas, ce type de dispositif ne peut pas être déployé », insiste Thomas Dautieu. La CNIL, qui a déjà entamé des contrôles de centres d’hypervision urbains en 2023, en fait l’une de ses priorités pour 2024.

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/01/02/pourquoi-la-promesse-de-videogerer-les-villes-avec-des-cameras-couplees-a-un
    #vidéosurveillance #AI #IA #caméras_de_vidéosurveillance

  • « La loi sur l’immigration rompt avec les principes de la Sécurité sociale »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/03/la-loi-sur-l-immigration-rompt-avec-les-principes-de-la-securite-sociale_620

    « La loi sur l’immigration rompt avec les principes de la Sécurité sociale »
    Tribune Elvire Guillaud Michaël Zemmour Economistes
    La loi sur l’immigration adoptée le 19 décembre constitue une rupture politique sur de nombreux plans qui justifieraient amplement son abandon rapide. L’un d’entre eux est le domaine des politiques sociales. Sur la forme, en introduisant une restriction liée à la nationalité sur l’accès à une prestation de sécurité sociale, il rompt avec les principes historiques de celle-ci, instaurant un lien direct entre cotisation et affiliation. Sur le fond, la réforme, si elle était appliquée, provoquerait un appauvrissement important de familles et d’enfants, français ou non, avec des conséquences sociales dramatiques à court et à long terme.
    Le texte voté introduit pour les étrangers, hors Union européenne, une période d’exclusion de trois mois à cinq ans dans l’accès aux aides au logement, mais également une période d’exclusion de deux ans et demi à cinq ans dans l’accès aux allocations familiales. Cette dernière mesure, que l’on retrouvait jusqu’ici dans le programme du Rassemblement national, et non dans le programme présidentiel, constitue une rupture avec le principe posé par l’ordonnance du 4 octobre 1945 qui institue « une organisation de la Sécurité sociale destinée à garantir les travailleurs et leurs familles contre les risques de toute nature susceptibles de réduire ou de supprimer leur capacité de gain, à couvrir les charges de maternité et les charges de famille qu’ils supportent ».
    Certes, Il existe en France des prestations comme le revenu de solidarité active (RSA) soumises à une période d’exclusion de cinq ans pour les étrangers résidents avec des conséquences sociales graves. Mais le RSA n’est pas une prestation de sécurité sociale : c’est un dispositif d’aide publique financé par le budget des départements, eux-mêmes subventionnés par l’Etat. Aucun mécanisme d’assurance sociale n’a jamais été concerné jusqu’ici par une telle exclusion sur critère de nationalité.
    En effet, le critère de nationalité n’est pas, depuis les origines, dans le répertoire de la Sécurité sociale. Celle-ci, inspirée du paradigme « bismarckien » des assurances sociales, s’est construite dans une logique contributive d’affiliation émanant du salariat : la communauté des assurés est la communauté des cotisants, construisant ainsi une citoyenneté sociale et les bases d’une démocratie sociale. Même les prestations de sécurité sociale devenues avec le temps « universelles », comme celles touchant à la maladie ou à la famille, ont conservé jusqu’ici des dimensions de « contributivité » propres aux assurances sociales. Elles sont financées par des prélèvements – cotisations sociales, contribution sociale généralisée (CSG) et prélèvements fiscaux se substituant aux cotisations exonérées – prélevés d’abord sur les seuls revenus du salariat puis sur l’ensemble des revenus, et servent des prestations à l’ensemble des assurés affiliés.
    C’est d’ailleurs en reconnaissance de ce principe qu’en 2015 la Cour de justice européenne avait dispensé un salarié néerlandais de CSG sur ses revenus du patrimoine, car il était déjà couvert par une assurance sociale obligatoire dans son pays d’origine. Aussi, si la loi était appliquée, des personnes affiliées à la Sécurité sociale par leur travail et à ce titre assujetties à la CSG et aux cotisations sociales ne pourraient pas bénéficier des prestations comme l’ensemble des assurés. Par exemple, une salariée dont dès le premier jour d’embauche 0,95 point de CSG et de 1,65 % à 3,45 % de cotisations employeur financent directement la branche famille serait, pour ses enfants, privée de la couverture à laquelle elle contribue, en raison de sa nationalité, au contraire des autres salariés de l’entreprise.
    Cette rupture d’égalité d’accès aux droits serait contraire aux fondements de la Sécurité sociale, à moins que le Conseil constitutionnel n’invalide cette mesure, précisément pour cette raison.
    Par-delà les ruptures politiques, la mise en œuvre de la réforme conduirait à appauvrir durablement des dizaines de milliers de familles et d’enfants, français ou non (puisque la loi retient la nationalité des parents, et non des enfants, comme critère d’exclusion). Une mère célibataire de trois enfants, en raison de sa nationalité, pourrait par exemple voir ses revenus mensuels diminuer de 319 euros au titre des allocations familiales et de 516 euros au titre des aides au logement, contrairement à sa voisine ou collègue vivant dans les mêmes conditions et soumise aux mêmes prélèvements. Un couple d’actifs avec un enfant de 6 ans et un enfant de 6 mois se trouverait privé d’allocations familiales (140 euros) et de la prestation d’accueil du jeune enfant (182 euros).
    On peut également anticiper une hausse du taux et de l’intensité de la pauvreté des familles et des enfants vivant en France, même si celle-ci n’est pas encore quantifiée : à notre connaissance, personne, à l’université ou dans les administrations, n’a songé jusqu’ici à évaluer l’impact d’un tel tournant xénophobe de la politique sociale. Ainsi, si les mesures adoptées sont d’abord le fruit d’un marchandage politique de circonstance, les conséquences immédiatement prévisibles sont loin d’être symboliques : appauvrissement des familles et des enfants, difficultés accrues à vivre, à apprendre, à se loger et à participer à la vie sociale dans de bonnes conditions. Cette loi dangereuse pour la cohésion sociale du pays ne doit pas s’appliquer.
    Elvire Guillaud est maîtresse de conférences à l’université Paris-I Panthéon-Sorbonne et économiste au Laboratoire interdisciplinaire d’évaluation des politiques publiques de Sciences Po ; Michaël Zemmour est enseignant-chercheur à l’université Lumière Lyon-II et économiste au Laboratoire interdisciplinaire d’évaluation des politiques publiques de Sciences Po.

    #Covid-19#migration#migrant#france#loiimmigration#securitesociale#xenophobie#appauvrissement#inegalite#politiquesociale#sante

  • « La loi sur l’immigration rompt avec les principes de la Sécurité sociale »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/03/la-loi-sur-l-immigration-rompt-avec-les-principes-de-la-securite-sociale_620

    « La loi sur l’immigration rompt avec les principes de la Sécurité sociale »
    Tribune Elvire Guillaud Michaël Zemmour Economistes
    La loi sur l’immigration adoptée le 19 décembre constitue une rupture politique sur de nombreux plans qui justifieraient amplement son abandon rapide. L’un d’entre eux est le domaine des politiques sociales. Sur la forme, en introduisant une restriction liée à la nationalité sur l’accès à une prestation de sécurité sociale, il rompt avec les principes historiques de celle-ci, instaurant un lien direct entre cotisation et affiliation. Sur le fond, la réforme, si elle était appliquée, provoquerait un appauvrissement important de familles et d’enfants, français ou non, avec des conséquences sociales dramatiques à court et à long terme.
    Le texte voté introduit pour les étrangers, hors Union européenne, une période d’exclusion de trois mois à cinq ans dans l’accès aux aides au logement, mais également une période d’exclusion de deux ans et demi à cinq ans dans l’accès aux allocations familiales. Cette dernière mesure, que l’on retrouvait jusqu’ici dans le programme du Rassemblement national, et non dans le programme présidentiel, constitue une rupture avec le principe posé par l’ordonnance du 4 octobre 1945 qui institue « une organisation de la Sécurité sociale destinée à garantir les travailleurs et leurs familles contre les risques de toute nature susceptibles de réduire ou de supprimer leur capacité de gain, à couvrir les charges de maternité et les charges de famille qu’ils supportent ».
    Certes, Il existe en France des prestations comme le revenu de solidarité active (RSA) soumises à une période d’exclusion de cinq ans pour les étrangers résidents avec des conséquences sociales graves. Mais le RSA n’est pas une prestation de sécurité sociale : c’est un dispositif d’aide publique financé par le budget des départements, eux-mêmes subventionnés par l’Etat. Aucun mécanisme d’assurance sociale n’a jamais été concerné jusqu’ici par une telle exclusion sur critère de nationalité.
    En effet, le critère de nationalité n’est pas, depuis les origines, dans le répertoire de la Sécurité sociale. Celle-ci, inspirée du paradigme « bismarckien » des assurances sociales, s’est construite dans une logique contributive d’affiliation émanant du salariat : la communauté des assurés est la communauté des cotisants, construisant ainsi une citoyenneté sociale et les bases d’une démocratie sociale. Même les prestations de sécurité sociale devenues avec le temps « universelles », comme celles touchant à la maladie ou à la famille, ont conservé jusqu’ici des dimensions de « contributivité » propres aux assurances sociales. Elles sont financées par des prélèvements – cotisations sociales, contribution sociale généralisée (CSG) et prélèvements fiscaux se substituant aux cotisations exonérées – prélevés d’abord sur les seuls revenus du salariat puis sur l’ensemble des revenus, et servent des prestations à l’ensemble des assurés affiliés.
    C’est d’ailleurs en reconnaissance de ce principe qu’en 2015 la Cour de justice européenne avait dispensé un salarié néerlandais de CSG sur ses revenus du patrimoine, car il était déjà couvert par une assurance sociale obligatoire dans son pays d’origine. Aussi, si la loi était appliquée, des personnes affiliées à la Sécurité sociale par leur travail et à ce titre assujetties à la CSG et aux cotisations sociales ne pourraient pas bénéficier des prestations comme l’ensemble des assurés. Par exemple, une salariée dont dès le premier jour d’embauche 0,95 point de CSG et de 1,65 % à 3,45 % de cotisations employeur financent directement la branche famille serait, pour ses enfants, privée de la couverture à laquelle elle contribue, en raison de sa nationalité, au contraire des autres salariés de l’entreprise.
    Cette rupture d’égalité d’accès aux droits serait contraire aux fondements de la Sécurité sociale, à moins que le Conseil constitutionnel n’invalide cette mesure, précisément pour cette raison.
    Par-delà les ruptures politiques, la mise en œuvre de la réforme conduirait à appauvrir durablement des dizaines de milliers de familles et d’enfants, français ou non (puisque la loi retient la nationalité des parents, et non des enfants, comme critère d’exclusion). Une mère célibataire de trois enfants, en raison de sa nationalité, pourrait par exemple voir ses revenus mensuels diminuer de 319 euros au titre des allocations familiales et de 516 euros au titre des aides au logement, contrairement à sa voisine ou collègue vivant dans les mêmes conditions et soumise aux mêmes prélèvements. Un couple d’actifs avec un enfant de 6 ans et un enfant de 6 mois se trouverait privé d’allocations familiales (140 euros) et de la prestation d’accueil du jeune enfant (182 euros).
    On peut également anticiper une hausse du taux et de l’intensité de la pauvreté des familles et des enfants vivant en France, même si celle-ci n’est pas encore quantifiée : à notre connaissance, personne, à l’université ou dans les administrations, n’a songé jusqu’ici à évaluer l’impact d’un tel tournant xénophobe de la politique sociale. Ainsi, si les mesures adoptées sont d’abord le fruit d’un marchandage politique de circonstance, les conséquences immédiatement prévisibles sont loin d’être symboliques : appauvrissement des familles et des enfants, difficultés accrues à vivre, à apprendre, à se loger et à participer à la vie sociale dans de bonnes conditions. Cette loi dangereuse pour la cohésion sociale du pays ne doit pas s’appliquer.
    Elvire Guillaud est maîtresse de conférences à l’université Paris-I Panthéon-Sorbonne et économiste au Laboratoire interdisciplinaire d’évaluation des politiques publiques de Sciences Po ; Michaël Zemmour est enseignant-chercheur à l’université Lumière Lyon-II et économiste au Laboratoire interdisciplinaire d’évaluation des politiques publiques de Sciences Po.

    #Covid-19#migration#migrant#france#loiimmigration#securitesociale#xenophobie#appauvrissement#inegalite#politiquesociale#sante

  • « La loi sur l’immigration rompt avec les principes de la Sécurité sociale »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/03/la-loi-sur-l-immigration-rompt-avec-les-principes-de-la-securite-sociale_620

    « La loi sur l’immigration rompt avec les principes de la Sécurité sociale »
    Tribune Elvire Guillaud Michaël Zemmour Economistes
    La loi sur l’immigration adoptée le 19 décembre constitue une rupture politique sur de nombreux plans qui justifieraient amplement son abandon rapide. L’un d’entre eux est le domaine des politiques sociales. Sur la forme, en introduisant une restriction liée à la nationalité sur l’accès à une prestation de sécurité sociale, il rompt avec les principes historiques de celle-ci, instaurant un lien direct entre cotisation et affiliation. Sur le fond, la réforme, si elle était appliquée, provoquerait un appauvrissement important de familles et d’enfants, français ou non, avec des conséquences sociales dramatiques à court et à long terme.
    Le texte voté introduit pour les étrangers, hors Union européenne, une période d’exclusion de trois mois à cinq ans dans l’accès aux aides au logement, mais également une période d’exclusion de deux ans et demi à cinq ans dans l’accès aux allocations familiales. Cette dernière mesure, que l’on retrouvait jusqu’ici dans le programme du Rassemblement national, et non dans le programme présidentiel, constitue une rupture avec le principe posé par l’ordonnance du 4 octobre 1945 qui institue « une organisation de la Sécurité sociale destinée à garantir les travailleurs et leurs familles contre les risques de toute nature susceptibles de réduire ou de supprimer leur capacité de gain, à couvrir les charges de maternité et les charges de famille qu’ils supportent ».
    Certes, Il existe en France des prestations comme le revenu de solidarité active (RSA) soumises à une période d’exclusion de cinq ans pour les étrangers résidents avec des conséquences sociales graves. Mais le RSA n’est pas une prestation de sécurité sociale : c’est un dispositif d’aide publique financé par le budget des départements, eux-mêmes subventionnés par l’Etat. Aucun mécanisme d’assurance sociale n’a jamais été concerné jusqu’ici par une telle exclusion sur critère de nationalité.
    En effet, le critère de nationalité n’est pas, depuis les origines, dans le répertoire de la Sécurité sociale. Celle-ci, inspirée du paradigme « bismarckien » des assurances sociales, s’est construite dans une logique contributive d’affiliation émanant du salariat : la communauté des assurés est la communauté des cotisants, construisant ainsi une citoyenneté sociale et les bases d’une démocratie sociale. Même les prestations de sécurité sociale devenues avec le temps « universelles », comme celles touchant à la maladie ou à la famille, ont conservé jusqu’ici des dimensions de « contributivité » propres aux assurances sociales. Elles sont financées par des prélèvements – cotisations sociales, contribution sociale généralisée (CSG) et prélèvements fiscaux se substituant aux cotisations exonérées – prélevés d’abord sur les seuls revenus du salariat puis sur l’ensemble des revenus, et servent des prestations à l’ensemble des assurés affiliés.
    C’est d’ailleurs en reconnaissance de ce principe qu’en 2015 la Cour de justice européenne avait dispensé un salarié néerlandais de CSG sur ses revenus du patrimoine, car il était déjà couvert par une assurance sociale obligatoire dans son pays d’origine. Aussi, si la loi était appliquée, des personnes affiliées à la Sécurité sociale par leur travail et à ce titre assujetties à la CSG et aux cotisations sociales ne pourraient pas bénéficier des prestations comme l’ensemble des assurés. Par exemple, une salariée dont dès le premier jour d’embauche 0,95 point de CSG et de 1,65 % à 3,45 % de cotisations employeur financent directement la branche famille serait, pour ses enfants, privée de la couverture à laquelle elle contribue, en raison de sa nationalité, au contraire des autres salariés de l’entreprise.
    Cette rupture d’égalité d’accès aux droits serait contraire aux fondements de la Sécurité sociale, à moins que le Conseil constitutionnel n’invalide cette mesure, précisément pour cette raison.
    Par-delà les ruptures politiques, la mise en œuvre de la réforme conduirait à appauvrir durablement des dizaines de milliers de familles et d’enfants, français ou non (puisque la loi retient la nationalité des parents, et non des enfants, comme critère d’exclusion). Une mère célibataire de trois enfants, en raison de sa nationalité, pourrait par exemple voir ses revenus mensuels diminuer de 319 euros au titre des allocations familiales et de 516 euros au titre des aides au logement, contrairement à sa voisine ou collègue vivant dans les mêmes conditions et soumise aux mêmes prélèvements. Un couple d’actifs avec un enfant de 6 ans et un enfant de 6 mois se trouverait privé d’allocations familiales (140 euros) et de la prestation d’accueil du jeune enfant (182 euros).
    On peut également anticiper une hausse du taux et de l’intensité de la pauvreté des familles et des enfants vivant en France, même si celle-ci n’est pas encore quantifiée : à notre connaissance, personne, à l’université ou dans les administrations, n’a songé jusqu’ici à évaluer l’impact d’un tel tournant xénophobe de la politique sociale. Ainsi, si les mesures adoptées sont d’abord le fruit d’un marchandage politique de circonstance, les conséquences immédiatement prévisibles sont loin d’être symboliques : appauvrissement des familles et des enfants, difficultés accrues à vivre, à apprendre, à se loger et à participer à la vie sociale dans de bonnes conditions. Cette loi dangereuse pour la cohésion sociale du pays ne doit pas s’appliquer.
    Elvire Guillaud est maîtresse de conférences à l’université Paris-I Panthéon-Sorbonne et économiste au Laboratoire interdisciplinaire d’évaluation des politiques publiques de Sciences Po ; Michaël Zemmour est enseignant-chercheur à l’université Lumière Lyon-II et économiste au Laboratoire interdisciplinaire d’évaluation des politiques publiques de Sciences Po.

    #Covid-19#migration#migrant#france#loiimmigration#securitesociale#xenophobie#appauvrissement#inegalite#politiquesociale#sante

  • « Elle a du stock ». La chanson populaire dans la France occupée (1940-1944).

    "De 1940 à 1944, les conditions d’existence dans la France défaite et occupée sont difficiles. Pour autant la vie artistique et culturelle conserve une grande vitalité tout au long des « années noires ». La création musicale connaît alors un grand dynamisme et une réelle diversité. Les chansons de variété peuvent évoquer les tristes réalités de l’époque, servir de support de propagande à la « Révolution nationale » ou encore inciter à la résistance. "
    https://lhistgeobox.blogspot.com/2024/01/elle-un-stock-la-chanson-dans-la.html

  • Malgré des progrès appréciables, la #sécurité_routière reste un problème urgent dans le monde
    https://www.who.int/fr/news/item/13-12-2023-despite-notable-progress-road-safety-remains-urgent-global-issue

    Selon le dernier rapport de l’OMS, avec 1,19 million de décès par an, le nombre de personnes tuées dans des accidents de la route a légèrement baissé. Il n’en demeure pas moins qu’ils restent la principale cause de mortalité chez les enfants et les jeunes âgés de 5 à 29 ans en provoquant plus de deux décès par minute et plus de 3200 par jour.

    […] Parmi les États Membres de l’ONU, 108 pays ont fait état d’une baisse du nombre de décès liés aux accidents de la route entre 2010 et 2021. Dix pays sont parvenus à les réduire de plus de 50 % : le Bélarus, le Brunéi Darussalam, le Danemark, les Émirats arabes unis, le Japon, la Lituanie, la Norvège, la Fédération de Russie, Trinité-et-Tobago et le Venezuela. Trente-cinq autres pays ont fait des progrès notables en faisant baisser le nombre de décès de 30 % à 50 %

    […] Neuf décès sur 10 surviennent dans les pays à revenu faible ou intermédiaire et leur nombre est disproportionnellement plus élevé au regard de celui des véhicules et des routes dans ces pays. Le risque de décès est trois fois plus élevé dans les pays à faible revenu que dans ceux à revenu élevé, alors que les premiers ne possèdent qu’un pour cent des véhicules à moteur dans le monde.

    Cinquante-trois pour cent de tous les décès dus aux accidents de la route concernent des usagers de la route vulnérables, notamment : les piétons (23 %) ; les conducteurs de deux-roues et de trois-roues motorisés tels que les motocyclettes (21 %) ; les cyclistes (6 %) ; et les usagers d’engins de micro-mobilité comme les trottinettes électriques (3 %). La mortalité parmi les occupants de voitures et d’autres véhicules légers à 4 roues a légèrement diminué pour s’établir à 30 % des décès dans le monde

    Lien vers le rapport : https://www.who.int/publications/i/item/9789240086517

  • #Inde : dans les champs du #Pendjab, la colère s’enracine

    Depuis leur soulèvement en 2021, les paysans du sous-continent sont revenus aux champs. Mais dans le grenier à #blé du pays, la révolte gronde toujours et la sortie de la #monoculture_intensive est devenue une priorité des #syndicats_agricoles.

    « Nous sommes rassemblés parce que la situation des agriculteurs est dans l’impasse. Dans le Pendjab, les paysans sont prisonniers de la monoculture du blé et du #riz, qui épuise les #nappes_phréatiques », explique Kanwar Daleep, président du grand syndicat agricole #Kisan_Marzoor. À ses côtés, ils sont une centaine à bloquer la ligne de train qui relie la grande ville d’Amritsar, dans le Pendjab, à New Delhi, la capitale du pays. Au milieu d’immenses champs de blé, beaucoup sont des paysans sikhs, reconnaissables à leur barbe et à leur turban.

    C’est d’ici qu’est parti le plus grand mouvement de contestation de l’Inde contemporaine. Pour s’opposer à la #libéralisation du secteur agricole, des paysans du Pendjab en colère puis des fermiers de toute l’Inde ont encerclé New Delhi pacifiquement mais implacablement en décembre 2020 et en 2021, bravant froids hivernaux, coronavirus et police. En novembre 2021, le premier ministre Narendra Modi a finalement suspendu sa #réforme, dont une des conséquences redoutées aurait été la liquidation des tarifs minimums d’achat garantis par l’État sur certaines récoltes.

    « Depuis cette #révolte historique, les agriculteurs ont compris que le peuple avait le pouvoir, juge #Sangeet_Toor, écrivaine et militante de la condition paysanne, basée à Chandigarh, la capitale du Pendjab. L’occupation est finie, mais les syndicats réclament un nouveau #modèle_agricole. Ils se sont emparés de sujets tels que la #liberté_d’expression et la #démocratie. »

    Pour Kanwar Daleep, le combat entamé en 2020 n’est pas terminé. « Nos demandes n’ont pas été satisfaites. Nous demandons à ce que les #prix_minimums soient pérennisés mais aussi étendus à d’autres cultures que le blé et le riz, pour nous aider à régénérer les sols. »

    C’est sur les terres du Pendjab, très plates et fertiles, arrosées par deux fleuves, que le gouvernement a lancé dans les années 1960 un vaste programme de #plantation de semences modifiées à grand renfort de #fertilisants et de #pesticides. Grâce à cette « #révolution_verte », la production de #céréales a rapidement explosé – l’Inde est aujourd’hui un pays exportateur. Mais ce modèle est à bout de souffle. Le père de la révolution verte en Inde, #Monkombu_Sambasivan_Swaminathan, mort en septembre, alertait lui-même sur les dérives de ce #productivisme_agricole forcené.

    « La saison du blé se finit, je vais planter du riz », raconte Purun Singh, qui cultive 15 hectares près de la frontière du Pakistan. « Pour chaque hectare, il me faut acheter 420 euros de fertilisants et pesticides. J’obtiens 3 000 kilos dont je tire environ 750 euros. Mais il y a beaucoup d’autres dépenses : l’entretien des machines, la location des terrains, l’école pour les enfants… On arrive à se nourrir mais notre compte est vide. » Des récoltes aléatoires vendues à des prix qui stagnent… face à un coût de la vie et des intrants de plus en plus élevé et à un climat imprévisible. Voilà l’équation dont beaucoup de paysans du Pendjab sont prisonniers.

    Cet équilibre financier précaire est rompu au moindre aléa, comme les terribles inondations dues au dérèglement des moussons cet été dans le sud du Pendjab. Pour financer les #graines hybrides et les #produits_chimiques de la saison suivante, les plus petits fermiers en viennent à emprunter, ce qui peut conduire au pire. « Il y a cinq ans, j’ai dû vendre un hectare pour rembourser mon prêt, raconte l’agriculteur Balour Singh. La situation et les récoltes ne se sont pas améliorées. On a dû hypothéquer nos terrains et je crains qu’ils ne soient bientôt saisis. Beaucoup de fermiers sont surendettés comme moi. » Conséquence avérée, le Pendjab détient aujourd’hui le record de #suicides de paysans du pays.

    Champs toxiques

    En roulant à travers les étendues vertes du grenier de l’Inde, on voit parfois d’épaisses fumées s’élever dans les airs. C’est le #brûlage_des_chaumes, pratiqué par les paysans lorsqu’ils passent de la culture du blé à celle du riz, comme en ce mois d’octobre. Cette technique, étroitement associée à la monoculture, est responsable d’une très importante #pollution_de_l’air, qui contamine jusqu’à la capitale, New Delhi. Depuis la route, on aperçoit aussi des fermiers arroser leurs champs de pesticides toxiques sans aucune protection. Là encore, une des conséquences de la révolution verte, qui place le Pendjab en tête des États indiens en nombre de #cancers.

    « Le paradigme que nous suivons depuis les années 1960 est placé sous le signe de la #sécurité_alimentaire de l’Inde. Où faire pousser ? Que faire pousser ? Quelles graines acheter ? Avec quels intrants les arroser ? Tout cela est décidé par le marché, qui en tire les bénéfices », juge Umendra Dutt. Depuis le village de Jaito, cet ancien journaliste a lancé en 2005 la #Kheti_Virasat_Mission, une des plus grandes ONG du Pendjab, qui a aujourd’hui formé des milliers de paysans à l’#agriculture_biologique. « Tout miser sur le blé a été une tragédie, poursuit-il. D’une agriculture centrée sur les semences, il faut passer à une agriculture centrée sur les sols et introduire de nouvelles espèces, comme le #millet. »

    « J’ai décidé de passer à l’agriculture biologique en 2015, parce qu’autour de moi de nombreux fermiers ont développé des maladies, notamment le cancer, à force de baigner dans les produits chimiques », témoigne Amar Singh, formé par la Kheti Virasat Mission. J’ai converti deux des quatre hectares de mon exploitation. Ici, auparavant, c’était du blé. Aujourd’hui j’y plante du curcuma, du sésame, du millet, de la canne à sucre, sans pesticides et avec beaucoup moins d’eau. Cela demande plus de travail car on ne peut pas utiliser les grosses machines. Je gagne un peu en vendant à des particuliers. Mais la #transition serait plus rapide avec l’aide du gouvernement. »

    La petite parcelle bio d’Amar Singh est installée au milieu d’hectares de blé nourris aux produits chimiques. On se demande si sa production sera vraiment « sans pesticides ». Si de plus en plus de paysans sont conscients de la nécessité de cultiver différemment, la plupart peinent à le faire. « On ne peut pas parler d’une tendance de fond, confirme Rajinder Singh, porte-parole du syndicat #Kirti_Kazan_Union, qui veut porter le combat sur le plan politique. Lorsqu’un agriculteur passe au bio, sa production baisse pour quelques années. Or ils sont déjà très endettés… Pour changer de modèle, il faut donc subventionner cette transition. »

    Kanwar Daleep, du Kisan Marzoor, l’affirme : les blocages continueront, jusqu’à obtenir des garanties pour l’avenir des fermiers. Selon lui, son syndicat discute activement avec ceux de l’État voisin du Haryana pour faire front commun dans la lutte. Mais à l’approche des élections générales en Inde en mai 2024, la reprise d’un mouvement de masse est plus une menace brandie qu’une réalité. Faute de vision des pouvoirs publics, les paysans du Pendjab choisissent pour l’instant l’expectative. « Les manifestations peuvent exploser à nouveau, si le gouvernement tente à nouveau d’imposer des réformes néfastes au monde paysan », juge Sangeet Toor.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/281223/inde-dans-les-champs-du-pendjab-la-colere-s-enracine
    #agriculture #monoculture #résistance

  • Amazon drought: ’We’ve never seen anything like this’

    The Amazon rainforest experienced its worst drought on record in 2023. Many villages became unreachable by river, wildfires raged and wildlife died. Some scientists worry events like these are a sign that the world’s biggest forest is fast approaching a point of no return.

    As the cracked and baking river bank towers up on either side of us, Oliveira Tikuna is starting to have doubts about this journey. He’s trying to get to his village, in a metal canoe built to navigate the smallest creeks of the Amazon.

    Bom Jesus de Igapo Grande is a community of 40 families in the middle of the forest and has been badly affected by the worst drought recorded in the region.

    There was no water to shower. Bananas, cassava, chestnuts and acai crops spoiled because they can’t get to the city fast enough.

    And the head of the village, Oliveira’s father, warned anyone elderly or unwell to move closer to town, because they are dangerously far from a hospital.

    Oliveira wanted to show us what was happening. He warned it would be a long trip.

    But as we turn from the broad Solimões river into the creek that winds towards his village, even he is taken aback. In parts it’s reduced to a trickle no more than 1m (3.3ft) wide. Before long, the boat is lodged in the river bed. It’s time to get out and pull.

    “I’m 49 years old, we’ve never seen anything like this before,” Oliveira says. “I’ve never even heard of a drought as bad as this.”

    After three hours of trudging up the drying stream, we give up and turn back.

    “If it dries out any more than that, my family will be isolated there,” Oliveira says.

    To get in or out they’ll have to walk across a lakebed on the other side of the village. But that’s dangerous - there are snakes and alligators there.

    The rainy season in the Amazon should have started in October but it was still dry and hot until late November. This is an effect of the cyclical El Niño weather pattern, amplified by climate change.

    El Niño causes water to warm in the Pacific Ocean, which pushes heated air over the Americas. This year the water in the North Atlantic has also been abnormally warm, and hot, dry air has enveloped the Amazon.

    “When it was my first drought I thought, ’Wow, this is awful. How can this happen to the rainforest?’” says Flávia Costa, a plant ecologist at the National Institute for Amazonian Research, who has been living and working in the rainforest for 26 years.

    “And then, year after year, it was record-breaking. Each drought was stronger than before.”

    She says it’s too soon to assess how much damage this year’s drought has done, but her team has found many plants “showing signs of being dead”.

    Past dry seasons give an indication of the harm that could be done. By some estimates the 2015 “Godzilla drought” killed 2.5bn trees and plants in just one small part of the forest - and it was less severe than this latest drought.

    “On average, the Amazon stopped functioning as a carbon sink,” Dr Costa says. “And we mostly expect the same now, which is sad.”

    As well as being home to a stunning array of biodiversity, the Amazon is estimated to store around 150bn tonnes of carbon.

    Many scientists fear the forest is racing towards a theoretical tipping point - a point where it dries, breaks apart and becomes a savannah.

    As it stands, the Amazon creates a weather system of its own. In the vast rainforest, water evaporates from the trees to form rain clouds which travel over the tree canopy, recycling this moisture five or six times. This keeps the forest cool and hydrated, feeding it the water it needs to sustain life.

    But if swathes of the forest die, that mechanism could be broken. And once this happens there may be no going back.

    Brazilian climatologist Carlos Nobre first put forward this theory in 2018. The paper he co-authored says that if the Amazon is deforested by 25% and the global temperature hits between 2C and 2.5C above pre-industrial levels, the tipping point will be hit.

    “I’m even more worried now than I was in 2018,” he says. “I just came back from COP28 and I’m not optimistic that greenhouse gases will be reduced by the agreement targets. If we exceed 2.5C, the risks to the Amazon are horrendous.”

    Currently 17% of the Amazon has been deforested and the global temperature is 1.1C to 1.2C above pre-industrial levels.

    But Dr Nobre finds some hope in the fact that deforestation fell in all countries of the Amazon this year and that all are committed to getting it to zero by 2030. He believes Brazil can get there even sooner.

    Not all scientists agree the forest will be transformed completely if Dr Nobre’s tipping-point conditions occur. Dr Flávia Costa’s research indicates that parts of the forest will survive - particularly those with easy access to groundwater, such as valleys.

    But there are worrying signs of degradation everywhere. In Coari, a city in the heart of the Amazon, the air was thick with smoke as we headed off for Oliveira’s village.

    When the forest is dry, small fires set to clear land for planting crops burn out of control. Usually they burn in already degraded or deforested parts of the Amazon but this year has seen more fires in untouched or primary forest.

    And there are other signs that the ecosystem is struggling. In two lakes in the region hundreds of dolphins have been found dead.

    “It was just devastating,” says Dr Miriam Marmontel, from the Mamirauá Institute for Sustainable Development. “We were dealing with live animals, beautiful specimens and then five days later, we had 70 carcasses.”

    In a matter of weeks they found 276 dead dolphins. Dr Marmontel believes it’s the temperature of the water that is killing them. It reached 40.9C in places, nearly 4C higher than dolphin - and human - body temperature.

    “You can imagine, the animal that has its whole body immersed in that water for so many hours,” Dr Marmontel says. “What do you do? That’s where you live, then all of a sudden, you’re in the middle of this soup and you can’t get away.”

    In her 30 years living in the Amazon, Dr Marmontel never imagined she would see it so dry. She is shocked by how quickly the climate is changing.

    “It was like a slap in the face. Because it’s the first time that I see and I feel what’s happening to the Amazon,” she says.

    “We always say these animals are sentinels because they feel first what’s going to come to us. It’s happening to them, it’s going to happen to us.”

    For Oliveira, too, this year has been a wake up call.

    “We know that we are very much to blame for this, we haven’t been paying attention, we haven’t been defending our mother Earth. She is screaming for help,” he says.

    “It’s time to defend her.”

    https://www.bbc.com/news/world-latin-america-67751685
    #Amazonie #sécheresse

  • Notre billet le plus lu en 2023 et rédigé par Marc van der Wal, Ingénieur R&D à l’Afnic, porte sur les résultats de l’étude sur l’usage de SPF, DKIM et DMARC au sein de la zone .fr.

    Saviez-vous que moins de 10 % des domaines .fr exploitent pleinement le DNS pour assurer l’authenticité de leurs e-mails ?

    Lisez son analyse complète sur https://www.afnic.fr/observatoire-ressources/papier-expert/spf-dkim-et-dmarc-ou-en-sommes-nous-sur-le-fr

    #Afnic #Sécurité #emails #DMARC #DKIM #SPF

  • Lutte contre l’immigration irrégulière : 16 candidats dont 03 guinéens et 01 malien interpellés à la plage de Lobor à Mboro
    https://www.dakaractu.com/Lutte-contre-l-immigration-irreguliere-16-candidats-dont-03-guineens-et-0

    Lutte contre l’immigration irrégulière : 16 candidats dont 03 guinéens et 01 malien interpellés à la plage de Lobor à Mboro
    Dans ses opérations courantes de sécurisation, la compagnie de Gendarmerie de Thiés a interpellé ce 23 décembre 2023, 16 candidats à l’émigration dont 03 guinéens et 01 malien, sur la plage de Lobor à Mboro. Elle a également procédé au démantèlement d’un réseau de trafic de carburant à Kayar. Au cours des opérations, 01 camion de 20.000 litres et 05 bidons de 20 litres de gasoil ont été saisis ainsi que 800 litres de super.

    #Covid-19#migrant#migration#senegal#emigration#migrationirreguliere#reseau#trafic#mboro#mali#guinee#securisation#thies#genadarmerie

  • Finland: Concern over right to seek asylum and need for human rights safeguards after full closure of Eastern land border

    In a letter addressed to the Minister of Interior of Finland, #Mari_Rantanen, published today, the Council of Europe Commissioner for Human Rights, Dunja Mijatović, raises concerns about the rights of refugees, asylum seekers and migrants following the temporary closure of Finland’s Eastern land border.

    While acknowledging concerns about the potential instrumentalisation by the Russian Federation of the movement of asylum seekers and migrants, “it is crucial that Council of Europe member states, even when dealing with challenging situations at their borders, react in a manner that fully aligns with their human rights obligations”, writes the Commissioner.

    The Commissioner expresses her concern that decisions to restrict and subsequently close access to the border may impact notably on the right to seek asylum, as well as the principle of non-refoulement and prohibition of collective expulsion. She asks for several clarifications on safeguards implemented and measures taken to ensure human rights protection, and to prevent a humanitarian crisis from unfolding in the context of worsening weather conditions at the border.

    The letter follows up on previous dialogue regarding legislative amendments allowing the Finnish government to restrict access to the border and concentrate applications for international protection at one or more crossing points.

    Read the Commissioner’s letter addressed to the Minister of Interior of Finland: https://rm.coe.int/letter-to-the-minister-of-interior-of-finland-concerning-the-human-rig/1680adab75

    https://www.coe.int/en/web/commissioner/-/finland-concern-over-right-to-seek-asylum-and-need-for-human-rights-safeguards-

    #Finlande #frontières #migrations #asile #réfugiés #fermeture_des_frontières #lettre #Russie

    • Il confine tra Russia e Finlandia è «un inferno fatto di ghiaccio».

      Il governo finlandese chiude i valichi di frontiera fino al 14 gennaio.

      Il 14 dicembre 2023, in una sessione straordinaria, il governo finlandese ha deciso la chiusura dell’intero confine orientale della Finlandia con la Russia. I valichi di frontiera di #Imatra, #Kuusamo, #Niirala, #Nuijamaa, #Raja-Jooseppi, #Salla, #Vaalimaa e #Vartius sono stati chiusi e lo saranno fino al 14 gennaio 2024. «Di conseguenza, le domande di protezione internazionale alle frontiere esterne della Finlandia saranno ricevute solo dai valichi di frontiera degli aeroporti e dei porti marittimi» ha comunicato il governo guidato da Petteri Orpo, entrato in carica il 20 giugno scorso.

      La decisione, motivata dalla difesa della sicurezza nazionale e l’ordine pubblico in Finlandia, è avvenuta nello stesso giorno in cui si erano riaperti due valichi di frontiera, dopo una prima chiusura di tutto il confine iniziata il 18 novembre 2023.

      Il governo di Helsinki accusa il governo russo di aver orchestrato l’arrivo dei richiedenti asilo ai valichi di frontiera come ritorsione per l’adesione del Paese nordico all’alleanza militare della NATO, formalizzata il 4 aprile scorso.

      «Questo è un segno che le autorità russe stanno continuando la loro operazione ibrida contro la Finlandia. È una cosa che non tollereremo», ha dichiarato la ministra dell’Interno Mari Rantanen.

      Intanto anche la Lettonia e la Lituania 2 stanno prendendo in considerazione l’idea di chiudere le loro frontiere.

      Per far fronte alla situazione sul confine orientale la guardia di frontiera ha chiesto supporto a Frontex (Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera), che aveva già inviato personale alla fine di novembre in Carelia settentrionale (una regione storica, la parte più orientale della Finlandia).

      Oltre alla sorveglianza del territorio, l’adesione della Finlandia alla Nato porterà alla costruzione di una recinzione sul confine con la Russia che è lungo 1.340 chilometri. L’opera richiede circa 380 milioni di euro e dai tre ai quattro anni di tempo per essere completata. Rappresenterà la struttura fisica di “protezione” più lunga tra il blocco dell’alleanza atlantica e la Federazione russa.

      I lavori di costruzione della barriera, che sarà situata sul confine sud-orientale per una lunghezza complessiva di circa 200 km, sono partiti con una prima recinzione pilota di circa 3 chilometri che è stata costruita a Pelkola.

      https://www.youtube.com/watch?v=8d_qVqN3yUo&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.meltingpot.org%

      Ora è iniziata l’implementazione della fase successiva, che prevede la costruzione di circa 70 chilometri di barriera ai valichi di frontiera e nell’area circostante nel periodo 2024-2025. La barriera, secondo quanto riporta la guardia di frontiera, è una combinazione di una recinzione, una strada adiacente, un’apertura libera da alberi e un sistema di sorveglianza tecnica. Quest’ultimo è definito come uno strumento importante per il controllo delle frontiere.

      In occasione della prima chiusura dei valichi di frontiera, avvenuta nel mese di novembre, diverse istituzioni e ONG hanno criticato questa scelta che compromette il diritto a chiedere asilo. Da Amnesty international all’UNHCR fino al Commissario per l’uguaglianza finlandese.

      Fra le prese di posizione anche quella della Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatović, che in una lettera alla Ministra degli Interni finlandese, Mari Rantanen, ha ricordato che «è fondamentale che gli Stati membri del Consiglio d’Europa, anche in situazioni difficili alle loro frontiere, reagiscono in modo pienamente conforme ai loro obblighi in materia di diritti umani». Ha, inoltre, chiesto chiarimenti sulle salvaguardie attuate e sulle misure adottate per garantire la tutela dei diritti umani e per evitare che si verifichi una crisi umanitaria a causa del peggioramento delle condizioni meteorologiche.

      In un comunicato del mese di dicembre, Amnesty International 3 ha affermato che «chiedere asilo è un diritto umano. Il Ministro degli Interni Rantanen sta ignorando i richiedenti asilo e la loro situazione in modo disumano. Nel mondo ci sono più persone che sono state costrette a lasciare le loro case che mai, e limitare il diritto di chiedere asilo non è la risposta».

      L’organizzazione per i diritti umani ha sottolineato che dalle loro precedenti ricerche si è dimostrato che la chiusura delle frontiere ha aumentato la violenza e spinto le persone in cerca di asilo su rotte ancora più pericolose.

      «Nel profondo sono davvero disperato e spero solo che arrivino giorni migliori, il prima possibile. Mi sento come se vivessi in un inferno fatto di ghiaccio, dove la mia vita è arrivata a un punto in cui non c’è via d’uscita, la fine del mio lungo cammino da quando ho lasciato il mio Paese, la Siria». E’ la testimonianza di Nasser, siriano di 43 anni, raccolta da InfoMigrants 4.

      Secondo le informazioni diffuse dal governo finlandese la chiusura dei valichi di frontiera è prevista fino al 14 gennaio. Sarà da capire se questa decisione verrà prorogata e cosa ne è del diritto di asilo in Finlandia.

      1. Studentessa di lettere moderne a Padova. Proseguirò i miei studi con una magistrale in relazioni internazionali in quanto sono molto interessata alla politica, internazionale e al sociale
      2. Border Closure Raises Fears Among Latvia, Lithuania and Estonia, Ecre (15 dicembre 2023)
      3. Il comunicato stampa (finlandese)
      4. Stuck at the Russian-Finnish border: ‘I feel that I will die here, in the cold’, Michaël Da Costa – InfoMigrants (4 dicembre 2023)

      https://www.meltingpot.org/2024/01/il-confine-tra-russia-e-finlandia-e-un-inferno-fatto-di-ghiaccio

      #sécurité_nationale #ordre_public #Frontex #murs #barrières_frontalières #Pelkola #technologie #asile #droit_d'asile

    • Entre 2 000 et 3 000 migrants massés à la frontière russo-finlandaise, toujours fermée

      Entre 2 000 et 3 000 exilés sont actuellement bloqués à la frontière russo-finlandaise, fermée totalement depuis décembre 2023 et jusqu’en février prochain. Helsinki accuse Moscou d’avoir orchestré cet afflux de migrants pour déstabiliser la Finlande, après son adhésion à l’OTAN en avril dernier. Les relations diplomatiques entre les deux pays n’ont cessé de se dégrader depuis l’offensive russe en Ukraine en 2022.

      La pression migratoire s’accroît à la frontière russo-finlandaise. Entre 2 000 et 3 000 migrants sont actuellement bloqués dans la zone frontalière, depuis la fermeture totale de la frontière finlandaise orientale en décembre 2023.

      Le pays scandinave reproche à la Russie de laisser passer délibérément un flux de migrants sur le sol finlandais, à des fins politiques, pour ébranler l’Union européenne (UE). De son côté, le Kremlin nie et rejette ces accusations.

      Selon Le Monde, la plupart des migrants sont entrés légalement en Russie avant de bénéficier de la complicité d’agents de police russes pour les déposer à la frontière finlandaise qu’ils franchissent en vélo, le franchissement à pied étant interdit.

      D’après Euronews, les exilés payent jusqu’à 6 000 euros les passeurs pour atteindre la frontière finlandaise. Dans un témoignage aux Observateurs de France 24, un passeur a également expliqué soudoyer des garde-frontières finlandais pour laisser passer les migrants : « On donne 500 dollars [457 euros, ndlr] aux garde-frontières par migrant ». Depuis la fermeture de la frontière, les passages réussis sont cependant plus rares - voire impossibles. La semaine dernière, quatre migrants ont été interpellés par les garde-frontières finlandais à Parikkala, en Carélie du Sud, alors qu’ils tentaient de franchir la frontière.
      Volume inhabituel de demandeurs d’asile

      Depuis début août 2023, les autorités finlandaises assure que près de 1 000 demandeurs d’asile sans-papiers, originaires de Somalie, du Yémen ou encore d’Irak, se sont présentés aux postes-frontières séparant les deux pays, pour entrer en Finlande. Un volume inhabituel pour le petit pays nordique de 5,5 millions d’habitants, qui comptabilise d’ordinaire plutôt une dizaine de demandeurs d’asile chaque mois à cette frontière.

      En réponse à ces mouvements de population, la Finlande a renforcé ses patrouilles le long de sa frontière. Elle a fait état sur X (ex-Twitter) de « plus de patrouilles que d’habitude, un contrôle technique plus étendu et un équipement plus polyvalent que d’habitude pour les patrouilles ». L’agence des garde-côtes européenne Frontex a également déployé 55 agents à la frontière finlandaise début décembre.

      https://twitter.com/rajavartijat/status/1747196574554349673

      La Finlande a, par ailleurs, entamé en février 2023 la construction d’une clôture de trois mètres de hauteur sur 200 km à sa frontière avec la Russie, longue de 1 340 km, pour anticiper les futurs mouvements de populations.
      Détérioration des relations entre la Finlande et la Russie

      Helsinki accuse aussi le Kremlin de lui faire payer le prix de sa coopération militaire avec les États-Unis. Le 18 décembre dernier, Washington a signé un accord lui permettant d’accéder à 15 bases militaires en Finlande, et d’y prépositionner du matériel.

      Pendant des années, la Finlande a refusé de rejoindre l’Organisation du traité de l’Atlantique nord (OTAN) pour éviter de contrarier son voisin russe. Mais les relations entre les deux pays se sont progressivement dégradées depuis l’invasion russe en l’Ukraine, en février 2022. En avril 2023, la Finlande a finalement rejoint l’OTAN, craignant que l’offensive russe ne s’étende à d’autres pays limitrophes. De son côté, Vladimir Poutine a accusé les Occidentaux d’avoir « entraîné la Finlande dans l’Otan » et affirmé que cette adhésion allait créer des « problèmes » là où il n’y « en avait pas ».


      https://www.infomigrants.net/fr/post/54531/entre-2-000-et-3-000-migrants-masses-a-la-frontiere-russofinlandaise-t

    • Finland extended the closure of crossing points at the border with Russia until at least mid-April yesterday.

      This also means that no asylum applications can be submitted there.

      🇫🇮 first started closing the border in November, after the arrival of hundreds of asylum seekers.

      https://twitter.com/InfoMigrants/status/1755974773224378457

    • Face à la menace russe, le virage vers l’ouest de la Finlande

      Helsinki accuse Moscou d’envoyer des migrants à la frontière entre les deux pays, une « #attaque_hybride » en réponse à son adhésion à l’Otan. La fin des échanges, amorcée dès l’épidémie de Covid, transforme la vie locale, mais le pays reste décidé à regarder vers l’Ouest.

      Le capitaine Jyrki Karhunen marche seul au milieu d’une nationale enneigée du sud-est de la Finlande. Celle-ci mène au poste-frontière d’Imatra, désert, dans la région de Carélie du Sud. La Russie n’est qu’à quelques kilomètres, cachée derrière les vastes forêts de pins, de sapins et de bouleaux.

      « Aujourd’hui, il ne se passe plus rien ici, c’est paisible », explique Jyrki Karhunen. Ce matin de février, seul un SUV de touristes s’introduit dans le paysage figé. « Il est impossible de passer côté russe », indique le capitaine à ces Finlandais en doudoune et lunettes de soleil miroirs. Pour cela, il faut maintenant transiter par l’Estonie ou la Turquie, à plus de 2 000 kilomètres.

      En novembre, le gouvernement d’Helsinki a en effet fermé la totalité de sa frontière orientale avec la Russie, longue de 1 340 kilomètres. Ses points de passage resteront fermés au moins jusqu’au 14 avril, à l’exception d’une entrée ouverte au fret. La Finlande, voisine de la Norvège et de la Suède au nord, ouverte sur la mer Baltique à l’ouest et au sud, se coupe ainsi totalement de la Russie, son unique voisine à l’est.

      Avant la pandémie de Covid et l’invasion de l’Ukraine par Moscou en 2022, 9 millions de personnes franchissaient chaque année cette longue frontière peu habitée où règne la taïga. Les commerciaux y transportaient le bois des riches forêts et ses produits dérivés. Les 90 000 Russes de Finlande retournaient voir leurs proches. Les touristes russes affluaient sur les rives du grand lac Saimaa, dépensant chaque jour 1 million d’euros dans la région de Carélie du Sud.

      Mais l’attaque russe en Ukraine a progressivement affecté ces passages. La Finlande a cessé d’octroyer des visas touristiques aux Russes. Les entreprises locales et russes ont cessé leurs collaborations.
      Un pays neutre jusqu’en 2022

      La fermeture totale de la frontière est finalement tombée fin 2023, en raison d’une « attaque hybride » de Moscou, selon les termes du gouvernement finlandais. La Russie envoie volontairement des migrants à la frontière, accuse Helsinki. L’opération « hybride » serait une réponse de Moscou à l’entrée de la Finlande dans l’Otan, en avril 2023.

      La Finlande, officiellement neutre militairement jusqu’en 2022, était une zone stratégique manquante sur le flanc oriental de l’Alliance atlantique. L’adhésion du pays le plus septentrional de l’UE bouscule la donne militaire de la Baltique à l’Arctique. Le Kremlin avait vite annoncé qu’il prendrait des « contre-mesures ».

      Marko Saareks, adjoint à la direction opérationnelle des gardes-frontières, ne « croi[t] pas à une intervention armée russe à la frontière dans l’immédiat ». Mais « la déstabilisation migratoire » est la principale pression, dit-il.

      Entre août et novembre 2023, environ 1 300 exilés irakiens, syriens, afghans, yéménites ou d’autres pays d’Asie ou d’Afrique sont arrivés via la Russie, des hommes pour la plupart et quelques familles. Ils ont été « aidés et escortés ou transportés jusqu’à la frontière par les gardes-frontières russes », affirme le premier ministre, Petteri Orpo.

      Les arrivées « restent faibles », concèdent les autorités finlandaises, proportionnellement à celles d’autres pays aux frontières externes de l’UE, comme la Grèce. Mais elles sont « inhabituelles » dans ce pays nordique de 5,5 millions d’habitant·es, loin d’être situé sur une route migratoire fréquentée.
      La crainte de l’espionnage

      « Des migrants attendent de l’autre côté. Ils viendront très probablement dès que nous ouvrirons la frontière. Notre crainte est qu’il y ait des espions parmi eux, précise Marko Saareks. Des migrants sont surveillés par Moscou. Les services de renseignement des consulats russes ont quitté la Finlande. Nous soupçonnons Moscou de vouloir renvoyer des agents. »

      Pour être sûre de « contrôler les flux migratoires », poursuit-il, la Finlande construit également une barrière antimigrants de 200 kilomètres de long. Dissimulés derrière les hauts arbres près du poste-frontière d’Imatra, des poteaux d’acier hauts de 3 mètres sortent de la terre gelée. Le chantier, à l’arrêt pendant l’hiver, où le mercure descend jusqu’à − 25 °C, ne doit s’achever qu’en 2026.

      Aujourd’hui, rares sont les exilés qui franchissent la frontière fermée. Un seul y est parvenu, frigorifié, mi-février. Il a été envoyé dans l’un des centres de rétention ou d’accueil du pays. Celui de Joutseno, une ancienne prison rénovée perdue entre les bouleaux, à une quinzaine de kilomètres de la frontière, héberge une centaine de réfugié·es.

      « Nous ne sommes pas utilisés comme armes par Moscou, personne ne m’a poussé vers la Finlande, c’est mon choix, se défend Moayad Salami, un Syrien venu en novembre, qui parle ouvertement à la presse. C’était pour moi le chemin le plus accessible pour rejoindre l’UE. » Pour cet avocat, « depuis que cette frontière est fermée, les réfugiés tentent leur chance ailleurs ». Mais lui raconte une traversée « facile ».

      Il a d’abord acheté un visa russe 2 700 euros à des passeurs pour rejoindre la Russie. Il envisageait de tenter un passage en Pologne via le Bélarus, « mais c’était trop dangereux » au Bélarus, dit-il. Moayad a alors payé des passeurs pour rejoindre la frontière finlandaise en taxi depuis Saint-Pétersbourg, à 160 kilomètres d’ici.

      Avant 2022, un filtrage aux postes-frontières était censé être opéré selon un accord tacite entre la Russie et la Finlande. « Les gardes-frontières russes m’ont laissé partir sans problème, relate Moayad. Mais ils m’ont forcé à leur acheter un vélo à 270 euros pour traverser. » Il ajoute : « Des gardes-frontières russes m’ont ensuite suivi en voiture à distance, pour être sûrs, j’imagine, que je partais bien du pays. »

      Comme lui, plusieurs exilés interrogés assurent avoir été contraints d’acheter à un prix trop élevé des vélos « de mauvaise qualité, qui ne valaient même pas 15-20 euros », à des gardes-frontières ou à leurs « complices ».

      D’autres réfugiés expliquent être restés quelque temps en Russie avant de rejoindre la Finlande. Viku*, un ressortissant pakistanais qui ne souhaite pas donner son nom, a ainsi vécu deux ans à Saint-Pétersbourg. « J’ai étudié les technologies de l’information, je ne trouvais pas d’emploi dans mon secteur et je me sentais harcelé par les autorités. Alors je suis venu en Finlande pour travailler. On dit que c’est le pays où l’on est le plus heureux au monde ! », sourit-il.

      Samir*, un Afghan de 23 ans, en doute, tant le temps s’écoule lentement dans le centre isolé. Étudiant en Russie, il a fui après l’expiration de son visa, « de peur d’être renvoyé en Afghanistan sous la coupe des talibans ». Comme la majorité des réfugiés ici, il attend un entretien qui ne vient pas pour sa demande d’asile.

      « Ces personnes viennent de pays en tension, ou en guerre, comme le Yémen et la Syrie, et sont pour la plupart éligibles à l’asile. Il est absurde de les considérer soudain comme les armes d’une opération hybride, déplore Pia Lindfors, directrice du Centre finlandais de conseil pour les réfugiés, à Helsinki. S’ils étaient des espions, comme l’ont suggéré certaines autorités et hommes politiques, ils ne seraient pas arrivés en tant que demandeurs d’asile. Ils ne seraient pas isolés dans des camps comme ils le sont actuellement. »

      Pia Lindfors déplore la fermeture de cette frontière, contraire au droit d’asile. Tout comme le discours radicalement antimigrants, porté par le Parti des Finlandais, qui gagne du terrain. Cette force politique d’extrême droite a placé ses membres à des postes clés du gouvernement de Petteri Orpo, formé en juin 2023. Celui-ci comprend des membres de quatre partis : la Coalition nationale, présidée par Petteri Orpo, le Parti populaire suédois de Finlande, les chrétiens-démocrates et le Parti des Finlandais. Ce dernier parti extrémiste affiche de longue date son hostilité à l’immigration, qu’il juge « préjudiciable aux finances et à la sécurité ».

      La politique de défense se mélange aujourd’hui à la politique migratoire, au nom de la « sécurité nationale ». La tendance se retrouve dans d’autres pays de l’UE. La Pologne, à titre d’exemple, est accusée de bafouer les droits des demandeurs et demandeuses d’asile à sa frontière avec le Bélarus, qu’elle accuse aussi de « guerre hybride ». Mais ces dérogations d’accès à l’asile pourraient devenir légales à l’échelle européenne, alertent des ONG : la Commission européenne discute de mesures exceptionnelles à mettre en place en cas de « situations d’instrumentalisation de l’immigration ».
      Une logique de « dissuasion »

      La pression migratoire est-elle la seule « menace russe » qui pousse à la fermeture totale de la frontière ? La Baltique, qui borde la Finlande, est un point de tension. Le sabotage des gazoducs Nord Stream, en 2022, n’a toujours pas été élucidé. La Russie a lancé en août des manœuvres navales et aériennes dans cette vaste mer, baptisées « Bouclier océanique 2023 ». Enfin, en décembre, Vladimir Poutine a déclaré : « Il n’y avait aucun problème [à la frontière finlandaise], mais il y en aura maintenant, car nous allons créer le district militaire de Léningrad et y concentrer un certain nombre d’unités. »

      « En Finlande, nous n’avons pas peur de Poutine, mais nous surveillons de près ses actions, déclare avec assurance Pekka Toveri, un député du parti de la Coalition nationale. Comme lui, six anciens militaires siègent aujourd’hui dans l’hémicycle de 200 député·es, un nombre inédit.

      Pekka Toveri étale les atouts militaires d’une Finlande « qui est prête » en cas d’attaque. « Nous avons une bonne armée, 12 000 soldats et quelque 870 000 réservistes, nos entreprises sont prêtes à contribuer à l’effort de guerre », expose l’ancien officier qui veut maintenant « participer au défi d’adhésion à l’Otan ». Environ 60 à 65 % de la population y était réticente avant le conflit ukrainien, « mais la grande majorité y est favorable depuis la guerre en Ukraine », plaide-t-il.

      Partisan d’un engagement sans limite dans l’Alliance atlantique, le président élu en février et investi le 1er mars, Alexander Stubb, est maintenant prêt à autoriser le stockage et le transport d’armes nucléaires sur le territoire. Parallèlement, Helsinki a renforcé sa coopération militaire avec les États-Unis, autorisant l’armée américaine à accéder à quinze installations et zones finlandaises.

      Le virage vers l’ouest est indispensable, considère Pekka Toveri. « Nous connaissons bien les Russes, nous savons que la technique du bâton est celle qui fonctionne le mieux. Il faut rester ferme, la plainte ne fonctionne pas », détaille-t-il, basant son analyse sur un siècle de relations avec le voisin russe.

      La Finlande a fait partie de l’empire russe jusqu’en 1917, avant d’être indépendante. Elle n’a jamais appartenu à l’Union des républiques socialistes soviétiques (URSS). Mais l’attaque de la Finlande par les Soviétiques en 1939, dite guerre d’hiver, a marqué les esprits. « Nous savions que Moscou était capable de nous menacer. Notre principe de neutralité [revendiqué depuis la fin des années 1940 – ndlr] était comme une politique du Yin et du Yang, estime Pekka Toveri. Nous avions une politique de bon voisinage mais nous étions prudents et avions une bonne défense. Nous avons par exemple construit des bunkers capables d’abriter 900 000 personnes depuis le début de la guerre froide. »

      Pour Heikki Patomaki, professeur de relations internationales à l’université d’Helsinki, une mentalité basée sur une « croyance presque exclusive dans la dissuasion et à travers la militarisation rapide de la société » s’intensifie depuis 2022.

      À la chute de l’URSS, surtout, les liens des deux pays s’étaient réchauffés : « Le non-alignement militaire persistant et les nombreuses formes de commerce et de coopération avec la Russie ont facilité de bonnes relations, au moins jusqu’à l’invasion de la Crimée en 2014 et, d’une certaine manière, jusqu’en 2021-2022, note-t-il. Rompre tout dialogue et continuer dans cette logique pourrait être dangereux. Nous avons une longue histoire avec la Russie et ne pouvons pas appliquer cette solution simple à une relation complexe. La Russie ne va pas disparaître et nous avons également un futur avec elle. »

      Signe que la situation est incertaine, les officiels l’accordent : la fermeture de la frontière ne peut être définitive. « Ce n’est pas notre but. Nous avons des échanges commerciaux et une diaspora russe, souligne l’adjoint à la direction opérationnelle des gardes-frontières, Marko Saareks. Mais nous cherchons encore les solutions pour l’ouvrir sans risques. »

      https://www.mediapart.fr/journal/international/010324/face-la-menace-russe-le-virage-vers-l-ouest-de-la-finlande

      #Joutseno #Imatra

    • Finland decides to close border with Russia indefinitely

      The Finnish government has decided to keep the border with Russia closed “until further notice,” Finland’s Interior Ministry reported on April 4.

      Finland closed its border with Russia in late November 2023 after Russia orchestrated an influx of migrants as a way to pressure Helsinki.

      In November alone, around 900 asylum seekers from countries like Kenya, Morocco, Pakistan, Somalia, and Yemen entered Finland from Russia.

      Finland decided in February to keep the border closed until April 14, but the latest decision means that the border crossing will remain shut until the risk of “instrumentalized migration” falls, the Interior Ministry said.

      “The threat assessment is the same and also the assessment that if the border stations were to be opened, it would probably have led to the same situation as before, when they were opened,” Prime Minister Petteri Orpo said in parliament, according to Finnish newspaper Helsingin Sanomat.

      Finland’s government also decided to close several crossing points for maritime traffic to leisure boating due to concerns that Russia may encourage migrants to reach Finland by sea or over lakes.

      “This would be dangerous for people trying to land and would put a burden on sea rescue,” the Interior Ministry said.

      Russia’s strategy of sending asylum seekers to Finland’s eastern border was similar to the situation at the border between Belarus and Poland in 2021, when Minsk encouraged thousands of asylum seekers from the Middle East and Africa to try to reach the EU via the Polish border.

      Most of the migrants were violently pushed back by Polish border guards who set up a no-access zone at the border for nine months.

      https://kyivindependent.com/finland-decides-to-close-border-with-russia-indefinitely

    • Finland closes border crossings with Russia indefinitely

      The Finnish government has announced the country’s border with Russia will remain closed indefinitely. The decision comes on the heels of several closures and reopenings over the past five months.

      On Thursday (April 4), the Finnish Ministry of the Interior said the country’s border crossings with neighboring Russia will remain closed.

      The move comes after the government in February ordered the closure of the border until April 14. As of April 4, this measure has now been extended until further notice.

      In addition, the sea crossings on the island of Haapasaari, in the port of Nuijamaa and on the island of Santio will be closed to “leisure boating” from April 15. Finland wants to prevent the threat of targeted migration from Russia in the spring by closing the harbors to maritime traffic.

      In the press release, the government said that irregular migration into Finland from Russia “could expand to maritime traffic” during spring. “This would be dangerous to people seeking to enter Finland and would burden maritime search and rescue,” the government claims.

      The indefinite closure means that migrants will still not be able to apply for asylum at the border crossings — with the exception of “other border crossing points for maritime traffic and at border crossing points for air traffic,” a corresponding press release (https://intermin.fi/en/-/finland-s-eastern-border-to-remain-closed-until-further-notice) reads.

      ’Instrumentalized migration’ expected to increase

      According to the press release, the Finnish government expects the “instrumentalized migration” from Russia to continue and increase. This would pose a “serious threat to Finland’s national security and public order,” the press release reads.

      “Finnish authorities see this as a long-term situation. We have not seen anything this spring that would lead us to conclude that the situation has changed meaningfully,” Finland’s Minister of the Interior Mari Rantanen is quoted in the press release. “In addition, spring will provide opportunities to put more pressure on Finland. There are hundreds and possibly thousands of people close to Finland’s border on the Russian side that could be instrumentalized against Finland.”

      Finland, which shares a more than 1,300-kilometer-long border with Russia, began gradually closing (https://www.infomigrants.net/en/post/53925/finland-to-close-entire-border-with-russia-again) the frontier crossings in November.

      Despite both being external borders for the EU and NATO following Finland’s inclusion in the military alliance a year ago, the Finnish-Russian border runs mostly through taiga forests and does not follow any rivers.

      Rights groups including the Council of Europe have been raising concerns over the rights of refugees, asylum seekers and migrants amid the border closures with Russia.

      The Finnish authorities, meanwhile, accuse Moscow of deliberately bringing undocumented asylum seekers to the posts in order to cause problems for the EU and NATO country. The Kremlin denies this.

      There were no immediate reactions to Finland’s move by the Kremlin in Moscow.

      https://www.infomigrants.net/en/post/56264/finland-closes-border-crossings-with-russia-indefinitely

  • « Loin de créer un “choc des savoirs”, Gabriel Attal va produire un choc d’ignorance », Pierre Merle, spécialiste des questions scolaires
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/12/19/pierre-merle-specialiste-des-questions-scolaires-loin-de-creer-un-choc-des-s

    La réforme souhaitée par le ministre de l’éducation nationale, Gabriel Attal, sous l’appellation « choc des savoirs », est fondée sur des diagnostics erronés. Première contrevérité, le collège français n’est nullement « uniforme ». En 2022, les collèges publics scolarisent près de 40 % d’élèves défavorisés. Les collèges privés en scolarisent moins de 16 %. Encore ne s’agit-il que de moyenne ! Dans les réseaux d’éducation prioritaire (REP et REP+), la proportion d’élèves d’origine populaire dépasse parfois 70 % alors qu’elle est souvent inférieure à 10 % dans les collèges privés du centre-ville des capitales régionales.

    A cette #ségrégation_sociale interétablissement, à laquelle correspondent des différences considérables de compétences des élèves, s’ajoute, énonce notamment une étude publiée en 2016 par le Conseil national d’évaluation du système scolaire (Cnesco), une ségrégation intraétablissement d’une importance équivalente en raison de la multiplication des #sections bilangues et européennes, des classes à horaires aménagés, des langues rares, etc.

    Vouloir créer des groupes de niveau (faible, moyen, fort) dans des classes déjà homogènes est une triple erreur. D’abord, l’idée (en elle-même bienvenue) de réduire à 15 le nombre de collégiens dans les groupes de niveau d’élèves faibles profitera à des élèves moyens, voire bons, scolarisés dans les collèges très favorisés, au détriment des élèves réellement faibles scolarisés en REP.

    Ensuite, en 2019, une synthèse des recherches publiée par Sciences Po Paris a montré un effet bénéfique de la mixité sociale et scolaire sur les progressions des élèves faibles, sans effet négatif sur les meilleurs. Séparer encore davantage les élèves faibles des élèves moyens et forts ne fera qu’accentuer leurs difficultés d’apprentissage.

    Mixité sociale bénéfique à tous

    Enfin, l’évaluation des expériences de mixité sociale réalisées en France, souligne une note publiée en avril par le Conseil scientifique de l’éducation nationale, se traduit par un accroissement du bien-être de l’ensemble des élèves, y compris celui des élèves favorisés. La mixité sociale favorise aussi le développement des capacités socioémotionnelles, réduit la prévalence des #stéréotypes raciaux et sociaux et, pour les élèves socialement défavorisés, améliore leur insertion professionnelle (note de l’Institut des politiques publiques, publiée en novembre). Autant d’effets bénéfiques à tous les élèves. L’établissement scolaire et la classe sont des petites sociétés. Il faut créer de l’unité, non des groupes de niveau.

    La seconde contrevérité du projet ministériel est d’accréditer l’idée d’un redoublement favorable aux élèves en difficulté. Un large consensus scientifique a montré que cette politique débouche sur un résultat inverse. Le redoublement produit des effets négatifs en termes d’estime de soi, de motivation et d’apprentissages ultérieurs. Les seules exceptions concernent, outre la classe de terminale, les classes de 3e et de 2de dans lesquelles les élèves faibles, en cas de redoublement, sont motivés pour éviter une orientation non choisie.

    Tout comme la création des groupes de niveau, des redoublements plus fréquents pénaliseront les élèves faibles, majoritairement d’origine défavorisée. Alors même que, pour l’école française, le constat principal de l’édition 2022 du Programme international pour le suivi des acquis des élèves (PISA) est l’écart considérable entre le niveau des élèves d’origine défavorisée et favorisée, le ministre Gabriel Attal, loin de créer un choc des savoirs, va produire un choc d’ignorance fondé sur une mise à l’écart encore plus accentuée des élèves les plus faibles.

    Le projet ministériel contient d’autres contradictions. Par exemple, Gabriel Attal souhaite une réforme des programmes et une labellisation des manuels scolaires, non pas en référence avec les cycles actuels de trois ans, mais avec des « objectifs annuels », voire « semi-annuels ». Finalement, après avoir dénoncé une uniformité fantasmée du collège, le ministre veut imposer un rythme de progression identique à tous les élèves alors même que, dès l’âge de 2 ans, les inégalités socio-économiques différencient sensiblement leurs compétences langagières.

    De surcroît, la décision de réformer au plus vite le « socle commun » [de connaissances, de compétences et de culture] signifie que l’expérience des #professeurs, les plus avertis des difficultés des élèves, ne sera pas prise en compte. Gabriel Attal veut renforcer leur autorité et, dans le même temps, a déjà décidé d’une modification des programmes sans même les consulter. Un bel exemple de déni de leurs compétences. Pourquoi, aussi, faut-il changer d’urgence des #programmes déjà réécrits par Jean-Michel Blanquer ? Sont-ils à ce point médiocres ? Et pourquoi la nouvelle équipe ministérielle ferait-elle mieux que l’ancienne ?

    Effets délétères

    Dernier exemple, bien que les résultats de #PISA 2022 montrent une baisse des compétences des élèves en #mathématiques, le ministre a décidé la création, à la fin des classes de premières générales et technologiques, d’une nouvelle épreuve anticipée du bac consacrée aux mathématiques et à la culture scientifique. Le ministre se targue de provoquer un choc des savoirs tout en supprimant une année entière d’enseignement scientifique ! Un projet paradoxal dont la genèse tient à l’absence d’une réelle réflexion sur un problème incontournable : la #crise_de_recrutement des professeurs, particulièrement en mathématiques.

    La réforme Blanquer, en reportant le concours d’accès au professorat de la fin du master 1 à celle du master 2, a réduit l’attractivité déjà insuffisante du métier d’enseignant. Certes, Gabriel Attal souhaite revenir sur cette réforme désastreuse, mais son projet est controversé. Au mieux, une réforme ne s’appliquera qu’à la rentrée 2025. En attendant, le ministre se contente d’expédients tels que le recrutement de #contractuels non formés, choix incompatible avec l’élévation du niveau scolaire des élèves.

    L’analyse du projet ministériel montre les effets délétères des mesures envisagées. Groupes de niveau, #redoublement, fin du collège « uniforme », énième réforme des programmes, renforcement de l’autorité du professeur… ne sont que les poncifs éculés de la pensée conservatrice. Ils ne répondent en rien à la crise de l’école française. En revanche, électoralistes et populistes, ces mesures sont susceptibles de servir l’ambition présidentielle de l’actuel ministre de l’éducation.

    Pierre Merle est sociologue, spécialiste des questions scolaires et des politiques éducatives, et il a notamment publié « Parlons école en 30 questions » (La Documentation française, 2021).

    https://seenthis.net/messages/1031680

    #élitisme #obscurantisme #autorité #école #éducation_nationale #élèves #éducation #groupes_de_niveau #ségrégation #Gabriel_Attal #hétérogénéité #coopération

  • Repackaging Imperialism. The EU – IOM border regime in the Balkans

    In November 2023, European Commission President #Ursula_von_der_Leyen concluded a Balkan tour, emphasizing EU enlargement’s priority for peace and prosperity. However, scrutiny intensified over EU practices, especially in the Balkans, where border policies, implemented by the International Organization for Migration (IOM), reflect an imperialist approach. This report exposes the consequences – restricted migration, erosion of international norms, and deadly conditions along migrant routes. The EU’s ’carrot and stick’ strategy in the Balkans raises concerns about perpetual pre-accession status and accountability for human rights abuses.

    https://www.tni.org/en/publication/repackaging-imperialism

    #migrations #asile #réfugiés #IOM #OIM #impérialisme #frontières #rapport #tni #paix #prospérité #droits_humains #militarisation_des_frontières #route_des_Balkans #humanitarisme #sécurisation #sécurité #violence #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #hotspot #renvois #retours_volontaires #joint_coordination_plateform #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #décès

  • La patate souffre de la #chaleur et provoque une #guerre_de_l’eau

    Les quelque 4000 producteurs suisses de pommes de terre font face depuis trois ans à des récoltes médiocres. La patate a besoin d’eau en été. Elle est frappée de plein fouet par des mois estivaux brûlants. La tension monte autour de l’usage de l’or bleu.

    En Suisse la patate est sacrée. Pensez aux röstis ! Et un pique-nique ne va pas sans un bon paquet de chips. De leur côté, les paysans suisses aiment aussi la patate. Quand tout se déroule bien, elle offre un rendement inégalable aux agriculteurs du Plateau suisse. Cela, en retour d’un investissement de 10’000 francs pour en cultiver un hectare.

    « La pomme de terre est une championne dans sa capacité à transformer le soleil en calories et elle a l’avantage de pouvoir être consommée directement », commente Patrice de Werra, spécialiste de la pomme de terre à l’Agroscope, le centre de compétence de la Confédération dans le domaine de la recherche agronomique.

    Autre signe distinctif ? Elle nécessite de l’eau, bien plus que le blé ou le maïs doux, par exemple. Et le précieux liquide doit arriver au bon moment, c’est-à-dire en été, au moment où la pomme de terre – celle utilisée pour faire des frites et des chips – déploie ses tubercules dans la terre. Or les épisodes caniculaires se sont succédé depuis 2021. Et la patate ne pousse plus au-delà de 30 degrés. Pour ne rien arranger, la pluie est parfois tombée à contretemps, comme en été 2021, entravant la mise en terre des plants.

    « L’ennemi numéro un de la patate, ce sont les extrêmes climatiques », résume Niklaus Ramseyer, secrétaire général de l’Union suisse des producteurs de pommes de terre (USPPT). Les rendements de la généreuse patate ont baissé sensiblement, avec dans certains cas des pertes de 40%. Il a fallu importer des stocks des pays voisins. Plus de 50’000 tonnes en 2021, où la récolte a connu les plus mauvais rendements depuis le début du siècle avec 380’000 tonnes produites, contre plus de 500’000 tonnes les bonnes années. L’accumulation de ces mauvaises saisons commence à peser sur le moral des agriculteurs. Au point que certains envisagent même d’abandonner la pomme de terre.
    Des sécheresses au pays de l’eau

    Au cœur de cette culture, on trouve la question de l’eau, dans un pays qui est pourtant considéré comme le château d’eau de l’Europe. « C’est un grand problème », reconnaît Niklaus Ramseyer, membre de l’Union suisse des producteurs de pommes de terre (USPPT). « Nous avons plus de pluie en hiver et moins en été. Si le niveau d’eau d’une rivière baisse, les paysans qui utilisent des eaux de surface peuvent voir cette source fermée par les autorités », résume-t-il. L’USPPT milite pour la mise en place de systèmes d’arrosage partout où cela est possible. Environ 45% des exploitations ne disposent pas d’une telle ressource. « Seule une fraction d’entre elles pourront s’équiper », précise Patrice Werra, pour des raisons liées à la déclivité du terrain et à la proximité des sources.

    Niklaus Ramseyer milite pour trouver de nouvelles solutions. « On pourrait, par exemple, utiliser les barrages pour conserver de l’eau en hiver afin de mieux irriguer en été », suggère-t-il. Les paysans peuvent aussi tester des espèces plus robustes, planter des variétés plus précoces. Dans tous les cas, les producteurs défendent bec et ongles la culture de la patate. « Nous voulons répondre à la demande, qui est forte. Et nous sommes opposés aux importations. Le plus important, c’est que les surfaces d’exploitation de la pomme de terre ne baissent pas », martèle Niklaus Ramseyer. Qui rappelle que la Suisse possède de bonnes terres et bénéficie d’assez de pluie pour cette culture.

    Un pays où l’eau n’est pas comptée

    « On aura toujours assez d’eau en Suisse, mais pas forcément au bon endroit et pas au bon moment », réagit Bettina Schaefli, professeure d’hydrologie à l’Université de Berne. Cette situation de pénurie estivale est un fait nouveau dans un pays où il y a quelques dizaines d’années, l’arrosage des patates était rare. La scientifique prévoit que des arbitrages devront avoir lieu dans les régions, avec une priorité pour l’agriculture, puisqu’elle nous nourrit. Une juste répartition de l’eau entre agriculture, industrie et usage privé devra se fonder sur des chiffres. Or la Suisse ne compte pas son or bleu. « Les agriculteurs doivent fournir des statistiques sur tout ce qu’ils font, sauf concernant l’usage de l’eau », regrette Bettina Schaefli. Qui s’empresse de préciser que les paysans ne gaspillent pas cette ressource, dont l’usage coûte.

    Les barrages viendront-ils à l’aide de la pomme de terre ? L’hydrologue estime qu’il s’agit de deux questions séparées, du fait de l’éloignement de ces deux activités. « Le facteur principal, c’est la pluie et la neige », dit-elle. Dans tous les cas, le futur de la patate suisse est incertain. La longueur et l’intensité des périodes caniculaires, la baisse de la pluviosité en été et l’évaporation vont réduire les volumes d’eau disponibles pendant les périodes vitales. « Le défi concerne toute la culture maraîchère, qui a besoin d’encore plus d’eau que la patate. Quant à la pomme de terre, si le dérèglement climatique s’emballe, elle risque de devenir un produit de luxe dans 70 ans. Dans cent ans, elle est susceptible de disparaître », prévoit Patrice de Werra. Les paysans suisses se tourneront vers une agriculture moins gourmande en eau, comme la culture du maïs doux ou des lentilles. « Ils savent s’adapter, tandis que des pays comme la Russie, par exemple, gagneront des terres cultivables », conclut-il.

    https://www.swisscommunity.org/fr/nouvelles-et-medias/revue-suisse/article/la-patate-souffre-de-la-chaleur-et-provoque-une-guerre-de-leau

    #patates #pommes_de_terre #eau #Suisse #sécheresse #climat #changement_climatique #agriculture #canicules #rendements #arrosage #pluie #neige #pluviosité #évaporation #maraîchage