• Dans une série inédite, Jean-Michel Aphatie revient en détail sur le déni colonial français en Algérie, et la difficulté d’en parler encore aujourd’hui.
    https://www.binge.audio/actualites/jean-michel-aphatie-revient-en-detail-sur-le-deni-colonial-francais-en-alge

    Sétif, Guelma, Kherrata : 80 ans après le 8 mai 1945, ce que la France choisit encore de ne pas commémorer

    Le 8 mai 1945, de l’autre côté de la Méditerranée, une tout autre histoire que celle de la victoire des Alliés s’écrivait. À Sétif, Guelma et Kherrata, des milliers d’Algériens – entre 15 000 et 20 000 selon les estimations – étaient massacrés par des soldats et colons français pour avoir manifesté leur désir d’indépendance – une répression d’une brutalité et d’une barbarie indignes du pays des droits de l’homme. Un épisode longtemps occulté, pourtant point de départ de la guerre d’Algérie, et symptôme d’un aveuglement persistant : celui d’un pays qui refuse encore de regarder en face la violence de son passé colonial.

    Au cœur de cette histoire, un fait presque méconnu, et pourtant glaçant : en juin 1945, dans la (...)

  • 80 Luoghi per 80 anni di Libertà: mappa dei luoghi della Resistenza e della Liberazione a Milano

    Questa mappa dei luoghi della Resistenza e della Liberazione a Milano nasce con l’obiettivo di restituire una visione complessiva della lotta antifascista e delle violenze perpetrate dall’occupazione nazifascista e dalla guerra totale fra il luglio 1943 e l’aprile 1945.
    In occasione dell’80° anniversario della Liberazione, sono stati simbolicamente individuati 80 luoghi, suddivisi in sette categorie:
    – REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
    – TEDESCHI
    – BOMBARDAMENTI
    – PERSECUZIONE E DEPORTAZIONI
    – RAPPRESAGLIE
    – RESISTENZA E PARTIGIANI
    – INSURREZIONE
    Nella selezione si sono privilegiati luoghi che restituissero la dimensione collettiva degli eventi e il loro impatto sulla città.
    La mappa, nelle versioni pdf e interattiva, si propone quindi come uno strumento orientativo accessibile, capace di connettere il passato al presente e di rendere evidente come la città porti ancora oggi innumerevoli segni degli eventi che hanno condotto alla Liberazione dal nazifascismo e alla nascita di un’Italia libera e democratica.

    https://libri.unimi.it/index.php/milanoup/catalog/book/241
    https://www.comune.milano.it/web/milano-memoria/80-luoghi-80-anni-liberta

    #Milan #Libération #Italie #WWII #seconde_guerre_mondiale #Résistance #anti-fascisme #histoire #cartographie #visualisation #carte

  • Da “sudditi coloniali” a partigiani d’Oltremare. Un’esperienza antirazzista della Resistenza

    Giunti in Italia per essere esposti nello “zoo umano” della #Mostra_triennale_delle_Terre_d’Oltremare nel 1940, ne uscirono dopo la guerra come partigiani liberatori. Lo storico Matteo Petracci ha il merito di aver riportato alla luce la vicenda di una dozzina di uomini e donne provenienti dal Corno d’Africa, membri della “#banda_Mario”. Dopo la Liberazione dovettero affrontare però l’“offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana”. L’abbiamo intervistato

    Arrivati in Italia come sudditi coloniali da esporre nello “zoo umano” della Mostra triennale delle Terre d’Oltremare nel 1940, ne uscirono anni dopo, terminata la Seconda guerra mondiale, come partigiani. Erano una dozzina di uomini e donne provenienti dal Corno d’Africa: lo storico Matteo Petracci ha riportato alla luce la loro vicenda unica con il libro “Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana” (Pacini Editore, 2019).

    Le loro storie, insieme a quella dell’italo-etiope Giorgio Marincola e non solo, testimoniano la presenza nelle forze della Resistenza italiana di partigiani provenienti dal continente africano.

    Uno di loro era l’etiope Abbabulgù “Carlo” Abbamagal, che compare in due posizioni diverse nelle foto scattate ai partigiani della banda “Mario”, attiva nelle Marche nei mesi dell’occupazione nazista tra 1943 e 1944. Da queste immagini, conservate presso l’archivio fotografico Anpi di San Severino Marche (MC), prende avvio il nostro incontro con lo storico Matteo Petracci alla scoperta di un’esperienza intrinsecamente antirazzista e meticcia durante la Resistenza italiana.

    Come mai hanno voluto scattare e tramandare, con tutti i rischi che l’eventuale scoperta di quelle foto da parte dei nazifascisti avrebbe potuto comportare, due fotografie praticamente identiche? Che cosa ci rivelano quelle immagini?
    MP Sono state scattate in sequenza: la prima immortala il momento in cui, proprio mentre il gruppo partigiano è in posa su due file, passa il loro compagno etiope che, infatti, compare di striscio e seminascosto sullo sfondo. Decidono allora di farne una seconda, in cui il ragazzo africano si staglia al centro dell’immagine, in mezzo ai suoi compagni di lotta. Queste due foto sono la rappresentazione plastica delle motivazioni ideali che avevano portato queste persone ad armarsi e a lottare contro il progetto nazifascista: richiamando il compagno etiope e facendolo posare al centro della foto hanno voluto enfatizzare una visione del mondo antitetica a quella fascista, sottolineando il valore della solidarietà internazionale e il carattere autenticamente antirazzista della banda “Mario”.

    “A very mixed bunch”, la definì infatti un ex prigioniero inglese. Come mai? Che brigata partigiana era quella che accolse nei suoi ranghi le donne e gli uomini portati in Italia nel 1940 e fuggiti nel 1943 da Villa Spada nel Comune di Treia (MC) in cui erano confinati dopo il trasferimento da Napoli?
    MP La peculiarità di questa formazione partigiana, ovvero la sua composizione marcatamente internazionale, è stata resa possibile da una serie di fattori. In particolare, è stata fondamentale la presenza nei dintorni di diversi campi di prigionia e internamento realizzati dal fascismo nelle zone interne delle Marche e, più in generale, dell’Appennino. La notizia della firma dell’Armistizio l’8 settembre e il conseguente dissolvimento dei centri di comando spinse molti alla fuga, diretti verso le montagne. Qui trovarono dei validissimi alleati all’interno della popolazione contadina della zona: li nascosero, diedero loro da mangiare e fornirono loro le indicazioni necessarie a poter raggiungere i luoghi dove, nel frattempo, si stavano formando i primi gruppi partigiani intorno a figure carismatiche e con un’esperienza politica e militare tale da coagulare intorno a sé i fuggitivi. Mario Depangher era uno di questi: nato a Capodistria nel 1896, conosceva cinque lingue ed era fuggito anche lui dalle prigioni fasciste. Diventò nel giro di poco “la persona giusta nel posto giusto”, aggregando attorno a sé donne e uomini scappati dai campi di prigionia: militari sbandati, antifascisti della zona, preti e anche l’imprenditore Enrico Mattei. Alla banda “Mario” si unirono, dopo la fuga dalla struttura nel Comune di Treia, anche quattro etiopi, portati in Italia nel 1940 per la Mostra triennale delle Terre d’Oltremare e impossibilitati a tornare a casa con l’entrata dell’Italia in guerra. Per loro quattro, a cui si unirono, dopo l’attacco partigiano in cerca di armi a Villa Spada del 28 ottobre 1943, anche altri somali, eritrei ed etiopi, tra cui due donne, la partecipazione alla Resistenza fu una scelta del tutto volontaria e una forma di riscatto personale, ancora prima che politico.

    Nella banda “Mario” c’erano partigiani di tante nazionalità. Come gestivano una questione banale ma centrale nella vita di una qualunque organizzazione come le diversità linguistiche?
    MP Dalle testimonianze raccolte sia da alcuni partigiani sia nei documenti, pare che che ogni singolo gruppo nazionale utilizzasse la propria lingua al proprio interno, mentre l’italiano era una lingua franca, utilizzata e conosciuta da tutti. Molti combattenti della banda “Mario”, infatti, erano stati portati in Italia forzatamente e sapevano benissimo quanto fosse importante la conoscenza della lingua locale, soprattutto in caso di fuga. È curioso notare, però, come ogni tanto le persone che ho intervistato utilizzassero anche parole straniere per descrivere quanto successo in quei mesi nella banda “Mario”: ho immaginato che alcune espressioni, a prescindere dall’origine, fossero diventate di uso comune all’interno di questa formazione partigiana. È come se, in quei mesi, fosse nata una sorta di lingua universale composta da parole provenienti da lingue diverse: era una sorta di esperanto partigiano.

    La storia dei partigiani provenienti dal Corno d’Africa della banda “Mario” non si conclude, però, con la Liberazione. Quali altre sfide dovettero affrontare? Uno di loro si trovò anche sotto processo per omicidio. Ci può raccontare?
    MP Nel luglio del 1944 la zona dove operava il battaglione Mario venne liberata e in molti si trovarono di fronte al dilemma su cosa fare. Alcuni si arruolarono con il Corpo Volontario per la Libertà e continuarono a combattere fino alla Liberazione di Bologna. Con la fine delle ostilità, uno degli ex combattenti etiopi, però, si trovò addirittura a affrontare un processo per episodi successi durante l’esperienza partigiana. Erano gli anni della cosiddetta “offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana” e a farne le spese fu anche l’etiope Abbagirù Abbanagi, partigiano della banda “Mario”, arrestato con l’accusa di aver ucciso un milite fascista per rapina. Dal carcere, con l’aiuto di un amico italiano, cominciò a scrivere delle lettere alla neonata Anpi a Roma che, contattata la sezione locale, lo fece assistere dall’ avvocato antifascista Virginio Borioni, passato sia dalle galere fasciste sia dall’esperienza del confino. Alla fine, grazie al supporto dell’Anpi locale e dell’avvocato, il partigiano etiope venne prosciolto dall’accusa, uscì dal carcere e tornò nel suo Paese. Nel Corno d’Africa era tornato anche un altro dei combattenti africani della banda “Mario”, il somalo Aaden Shire Jamac. A Mogadiscio si iscrisse alla Lega dei Giovani Somali e prese parte al processo di decolonizzazione dell’ex colonia italiana: sarebbe diventato pochi anni dopo ministro nei governi dopo l’indipendenza del Paese.

    https://altreconomia.it/da-sudditi-coloniali-a-partigiani-doltremare-unesperienza-antirazzista-
    #Italie #colonialisme #Italie_coloniale #partisans #Résistance #WWII #seconde_guerre_mondiale #histoire_coloniale #zoo_humain #Carlo_Abbamagal #Abbabulgù_Abbamagal #photographie #Villa_Spada #Treia #montagne #Mario_Depangher #Enrico_Mattei #langue #Corpo_Volontario_per_la_Libertà #Abbagirù_Abbanagi #Aaden_Shire_Jamac #Lega_dei_Giovani_Somali

    • Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana

      Napoli, 1940. L’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale sorprende un gruppo di somali, eritrei ed etiopi chiamati ad esibirsi come figuranti alla Mostra delle Terre d’Oltremare, la più grande esposizione coloniale mai organizzata nel Paese. Bloccati e costretti a subire le restrizioni provocate dalle leggi razziali, i “sudditi coloniali” vengono successivamente spostati nelle Marche dove, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e lo sfaldamento dello Stato, alcuni decidono di raggiungere i gruppi di antifascisti, militari sbandati, prigionieri di guerra e internati civili che si stanno organizzando nell’area del Monte San Vicino.

      Attraverso testimonianze, documenti e fotografie, l’autore ricostruisce il percorso di questi Partigiani d’Oltremare, raccontandone il vissuto, le possibili motivazioni alla base della loro scelta di unirsi alla Resistenza e la loro esperienza nella “Banda Mario”, un gruppo partigiano composto da donne e uomini di almeno otto nazionalità diverse e tre religioni: un crogiuolo mistilingue che trova nella lotta al fascismo e al nazismo una solida ragione unificante.

      https://www.youtube.com/watch?v=mdjLAqMB-p4


      https://www.pacinieditore.it/prodotto/partigiani-oltremare

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      #livre

  • Des comptes nazis en #Suisse : un lourd passé refait surface

    Une vieille affaire refait surface en Suisse. Des comptes bancaires, longtemps inconnus, ayant appartenu à des nazis ou des proches de nazis ont été découverts dans les #archives de #Credit_Suisse. Cette découverte met en lumière les relations économiques ambiguës entre la Suisse et l’#Allemagne_nazie durant la #Seconde_Guerre_mondiale.

    La Suisse a joué un rôle clé durant la Seconde Guerre mondiale en facilitant la conversion de l’#or_nazi en devises. Ce commerce a permis au régime du #IIIe_Reich de poursuivre ses #efforts_de_guerre. Les banques suisses ont ainsi reçu près de 345 tonnes d’or en échange de #francs_suisses, une devise largement acceptée dans le monde entier. Ce #partenariat aurait permis à la Suisse d’éviter l’invasion allemande. Cependant, l’argument économique n’est pas le seul à avoir fait pencher la balance selon l’historien Marc Perrenoud qui précise que la petite Suisse « n’était pas une priorité pour Hitler ».

    A la fin de la guerre, et malgré les nombreux reproches des Alliés, la Suisse parvient à faire oublier ses liens avec l’Allemagne nazie en participant économiquement à la reconstruction de l’Europe. Ce n’est que des décennies plus tard que cette sombre histoire refera surface.

    Le scandale des #comptes_en_déshérence

    Après la guerre, les banques suisses exigent des certificats de décès pour restituer les fonds aux familles juives, une condition souvent impossible à remplir. Cette politique suscite de vives critiques croissantes, notamment de la part du Congrès juif mondial qui accuse les banques suisses d’avoir prolongé la guerre.

    La #Commission_Bergier, créée en 1996 pour enquêter sur l’affaire des comptes en déshérence, a notamment permis la levée temporaire du secret bancaire. Après cinq ans de travail, le rapport Bergier, long de 11’000 pages, est publié. Il révèle à la population une réalité loin du mythe d’une Suisse neutre et résistante.

    Mais de nombreuses archives restent encore inexplorées, comme le souligne Marc Perrenoud, membre de la Commission : « Nous n’avons pas pu faire des recherches exhaustives. Il y avait une masse considérable d’archives que nous n’avons pas eu le temps de consulter et parfois dont on nous a caché l’existence ».

    Un appel à la transparence

    Malgré les enquêtes et les réparations, la découverte de comptes nazis en 2025 souligne la nécessité d’un travail de transparence continu. « L’enjeu actuel est que les historiens aient à nouveau accès aux archives bancaires, mais c’est un travail de longue haleine », précise Marc Perrenoud.

    https://www.rts.ch/info/suisse/2025/article/comptes-nazis-en-suisse-le-passe-trouble-des-banques-refait-surface-28806866.htm
    #histoire #WWII #nazisme #complicité #or #banques

  • Le #Mandat français sur la #Syrie : une #domination_coloniale sans cesse contestée, par Alain Ruscio

    Le #Mandat_français sur la Syrie (1920-1946)

    Au terme de la Première guerre mondiale, la toute jeune Société des Nations (SDN) donna mandat au Royaume-Uni (en Irak et Palestine) et à la France (en Syrie et au Liban) d’administrer cette région, relevant auparavant de l’autorité de l’Empire Ottoman vaincu, à condition de rendre compte régulièrement de leur politique et de leurs actions, jusqu’au terme de la mission, l’indépendance.

    Mais les deux puissances gérèrent de façons radicalement différentes ces mandats.

    La brutalité – la France bombarda Damas en 1925 et en 1945 – et le refus obstiné d’envisager l’indépendance exigée par les nationalistes marquèrent la politique française, contribuant à une dégradation de l’image internationale du pays.

    « Cette terre qu’on a pu appeler la France du Levant… »[1]

    La France avait de longue date noué des contacts avec les habitants de la région. D’une formule, le général Édouard Brémond, qui connaissait bien la région, résuma cette ancienneté : « La Syrie, ce pays qui tient aux fibres de la France depuis Pépin le Bref, d’une manière si continue et si constante » (L’histoire secrète du traité franco-syrien, 1938)[2].

    Sous le Second Empire, son intervention ferme au Liban en faveur des chrétiens maronites, victimes de massacres, en 1860, lui avait valu reconnaissance et rayonnement, en tout cas pour une partie de la population, dans cette région. Nul doute que cette politique, à caractère humanitaire, avait également comme fonction d’affirmer les droits de la France face à l’éternel rival britannique.

    Cette histoire multiséculaire transpire dans l’ouvrage de Barrès, Une enquête aux pays du Levant, mi-journal de voyage, mi-réflexion sur la place, naturelle et prépondérante, de la France dans la région, écrit en 1914[3].

    Le tout sur un fond général d’esprit de croisade : « Sur cette terre d’Orient, une lutte qui dure depuis le Moyen-Âge est engagée entre la civilisation méditerranéenne, à base de christianisme, et l’Islam asiatique » (Robert de Beauplan, L’Illustration, 16 mars 1929)[4].

    Tout au long de la période des mandats, les Français présenteront leur politique comme correspondant à une mission très anciennement ancrée dans le temps, justifiée par des relations culturelles étroites et une présence (réelle) de la langue française dans la région : « Les traditions françaises sont très vieilles au Liban et en Syrie. Sans remonter jusqu’aux croisades (…), nos missionnaires, nos marins, nos ingénieurs ont, depuis longtemps, apporté leur dévouement et leur intelligence sur ces côtes. Nos missionnaires ont appris notre langue à la jeunesse depuis des générations, et il n’est pas de pays étranger au monde (…) où le français soit parlé aussi couramment qu’au Liban » (Général Gouraud, La France en Syrie, 1922)[5].

    Il est évidemment une autre raison à l’intérêt de la France pour la région : de solides intérêts économiques, installés bien avant 1914 dans cette partie de l’ex-Empire ottoman[6]. Après la guerre, cependant, c’est plus en termes de potentiel que de profits immédiats que certains raisonnent. Le Haut commissaire lui-même, le général Gouraud, justifia ainsi la politique française dans la région : « Il faut qu’on le sache en France : la Syrie est un pays très riche (…). Pour résumer d’un mot : “L’affaire payera“. Voilà pourquoi nous devons rester en Syrie et pourquoi nous y resterons » (Déclaration, Marseille, 9 novembre 1920)[7]. Un député de droite, Edouard Soulier, de retour de Syrie, expliqua à ses collègues : « La France récoltera. Si vous me permettez une comparaison familière, je dirai que, sous nos dépenses pour la Syrie, nous sommes comme le particulier qui fait figurer sur son livre de dépense : “Achat de titres de rentes : tant“. La dépense est peut-être forte, l’intérêt viendra. La dépense aujourd’hui est forte pour la Syrie, l’intérêt viendra, il viendra de toute façon. C’est un pays merveilleusement intéressant, nous devons le dire, le proclamer pour qu’on y aille (…). Surtout – et c’est ici que je suis sur le terrain le plus solide, celui que vous estimez le plus au point de vue économique – la Syrie, sous notre direction, et tant que nous serons là, parce que les Syriens eux-mêmes ne sont pas complètement des gens d’initiative et de persévérance, la Syrie pourra être pour la culture un pays plus merveilleux encore qu’il ne l’est ; il y a à entretenir ou à refaire les ports, il y a à multiplier les chemins de fer, à les envoyer comme de grandes mains tendues vers le centre de l’Asie. Au point de vue minier, les prospections n’ont, jusqu’ici, pas donné grand’ chose, mais comme l’antiquité y avait trouvé des richesses, on en retrouvera peut-être. Nous reboiserons, nous irriguerons, nous labourerons… » (Chambre des députés, 11 juillet 1921).

    Cette mise en valeur, dans l’esprit de l’orateur, devait être évidemment faite d’abord par des entreprises françaises.

    Le partage franco-britannique[8]

    L’entrée de l’Empire ottoman dans la guerre, dès octobre 1914, aux côtés de l’Allemagne, va ouvrir l’ère des tempêtes pour cette région. Dès ce moment, Britanniques et Français réfléchissent à la politique à suivre, après la victoire espérée face à cette coalition. En mai 1916, un mémorandum secret entre Sir Mark Sykes et François Georges-Picot[9] envisage le partage futur en zones d’influence. Le Levant est considéré comme une aire d’influence de la France, l’Irak et la Palestine revenant au Royaume-Uni.

    Mais le nationalisme arabe, entré en effervescence, ne veut pas qu’à l’emprise turque succède une domination occidentale. Sur te terrain, les Britanniques mènent un double jeu subtil, encourageant le nationalisme arabe, tout en multipliant les déclarations d’amitié à l’égard de la France. Le Shérif Hussein, autoproclamé Roi des Arabes, et son fils Fayçal mènent la lutte contre les Ottomans, avec le soutien des services britanniques (rôle du colonel Lawrence). C’est de concert que les troupes anglaises et celles de Fayçal entrent dans Damas (1er octobre 1918). Les Français, à la présence militaire insignifiante dans la région, ont été systématiquement écartés de ces événements.

    Fin octobre 1918, la guerre se termine de la même façon que sur le front ouest : l’allié de l’Allemagne, l’Empire Ottoman, est défait et son démembrement peut commencer.

    Londres est alors devant un choix : respecter l’accord Sykes-Picot ou continuer le soutien à Hussein-Fayçal. Le gouvernement britannique, lui-même en butte à des difficultés, privilégie la solidarité inter-impérialiste. Le président du Conseil français Clemenceau et le Premier ministre britannique Lloyd George entament des négociations, afin de confirmer le partage du Moyen-Orient en zones d’influence.

    Lors de conférence de la paix, qui s’ouvre à Paris le 12 janvier 1919, la question est réétudiée et entérinée. Ni les représentants des populations concernées, ni les autres délégations (États-Unis en particulier) ne sont associés à ces décisions. Le traité, finalement signé à Versailles le 28 juin 1919, n’évoque pas la question, malgré les protestations arabes. Il en est pourtant question dans les statuts de la SDN, fondée par ce même traité. Mais le moins que l’on puisse dire est que ces statuts étaient viciés dès l’origine par des formules ambigües : « Certaines communautés qui appartenaient autrefois à l’Empire ottoman ont atteint un degré de développement tel que leur existence comme nations indépendantes peut être reconnue provisoirement, à la condition que les conseils et l’aide d’un mandataire guident leur administration jusqu’au moment où elles seront capables de se conduire seules » (Pacte de la SDN, article 22). Les Français liront surtout le mot Mandataires et le verbe Guider, les nationalistes arabes l’expression Nations indépendantes et l’adverbe Provisoirement. En fait, le drame de la notion de Mandat était son statut incertain « lacune considérable qui contient en germes tous les litiges »[10]. Qui, réellement, en France, a fait la différence entre Mandat et Protectorat voire, pour certains, entre Mandat et Colonie ? À lire la majorité des discours politiques et des reportages de presse ou à observer les cartes de l’époque (les taches roses de l’Empire), on a l’impression que beaucoup ont considéré que notre domaine s’était enrichi et que, comme l’Algérie, comme l’Indochine, le Levant nous appartenait. Nul ne proteste, et bien peu s’interrogent, par exemple, lorsque les organisateurs de l’Exposition coloniale de Marseille, dès 1922, font construire un Pavillon des intérêts français dans le Levant. A fortiori, en 1931, à Vincennes, on n’a même plus cette hypocrisie : le Pavillon des États du Levant met donc les Mandats sur le même plan que les colonies[11].

    Un acteur important des événements écrira plus tard : « Pour la masse de l’opinion française, la France “possède“ la Syrie. Son devoir est de l’administrer, d’y sauvegarder les intérêts français. Mais on ne “traite“ pas avec les colonies. On les garde. On les défend contre les périls extérieurs. On les administre. Et c’est tout… Pour la plupart des Français, en effet, “notre mandat“ en Syrie n’est guère qu’une fiction. Notre devoir est de tenir ce que nous possédons, et un règlement du genre de celui que nous avons été amenés à envisager[12] apparaît – le mot a été prononcé – comme une trahison » (Pierre Viénot, Le Mandat français sur le Levant, 1939)[13]. L’auteur employa ce jour-là des formules (« pour la masse de l’opinion française (…) pour la plupart des Français »), mais, par expérience, il savait bien que beaucoup de décideurs avaient le même état d’esprit.

    Ce n’est qu’a posteriori que la conférence de San Remo confirme l’attribution des mandats (26 avril 1920), charge à Londres et à Paris d’en préciser la répartition et le contenu exact, ce qu’ils feront lors de la conférence franco-britannique de Londres (24 juin 1922)[14].

    En fait, dès leur prise de mandat, les Français façonnent la région, selon le vieux principe diviser pour régner : ils constituent la nouvelle Syrie autour des États d’Alep et de Damas et du sandjak d’Alexandrette (capitale Damas), l’État des Alaouites avec les sandjaks de Lattaquié et de Tartous (capitale Lattaquié), l’État du Djebel druze (capitale Soueida) et l’État du Grand Liban (capitale Beyrouth), lui-même cependant en quatre sandjaks, Liban-Nord, Mont-Liban, Liban-Sud et Bekaa et en deux municipalités autonomes, Beyrouth et Tripoli.

    « Il n’y a pas d’unité nationale syrienne »

    Il y eut une permanence du regard français sur la Syrie, durant toute la période : ce pays n’avait pas d’unité ethnique, religieuse et, partant, nationale.

    Il y avait cependant une donnée gênante – mais incontournable : on n’avait guère demandé l’avis des plus concernés, les peuples de la région. Or, si le Liban fut, peu ou prou l’enfant sage des États de la région à l’ère des mandats (l’influence française y était ancienne, la francophonie solidement implantée la communauté chrétienne plutôt accueillante), avec la Syrie, il en alla tout autrement.

    Tout à fait au début de la gestion mandataire, le député communiste Marcel Cachin interpelle le gouvernement et exige l’indépendance de la Syrie. Réponse du président du Conseil : « Il faut ne pas connaître l’histoire de la Syrie pour parler ainsi. Il n’y a pas là-bas un peuple ayant des traditions, des vues, des buts communs. Il y a des peuples qui peuvent vivre dans la liberté, par le moyen d’un système fédéral, mais qui, entre eux, ont besoin d’un lien et ont besoin de faire un effort administratif commun. En constituant pour eux ce lien, la France leur rend le plus grand service qu’ils puissent désirer » (Aristide Briand, Chambre des députés, 12 décembre 1921). Le grand reporter Albert Londres, qui enquête alors sur place, pense la même chose : « Y a-t-il une Syrie, des Syriens ? Au point de vue ethnique, on trouve un mélange de Libanais, d’Arabes, de Druses et de Turcs ; au point de vue confessionnel, quelque vingt-neuf religions ou sectes (…). Qu’est la Syrie ? Ce n’est pas un pays de nationalités mais de religions. En Syrie, il n’y a pas de Syriens (…). En tout vingt-neuf religions. Et le pays ne compte que deux millions huit cent mille habitants. Comment s’entendront-ils au paradis ? Pas de lien patriotique et, pour lien social, la communauté religieuse » (Le Petit Parisien, 16 décembre 1925)[15].

    Même au lendemain de la crise finale du printemps 1945, au cours de laquelle les Français furent payés pour savoir que le nationalisme syrien existait, le chef du GPRF persistait dans les mêmes schémas : « Il est très difficile de réaliser une entité géographique et politique qui s’appelle la Syrie. La Syrie est un ensemble de régions très distinctes les unes des autres, peuplées de populations extrêmement différentes et pratiquant des religions diverses ; d’où la difficulté particulière de conduire la Syrie jusqu’à devenir un État fonctionnant et se développant normalement » (Charles de Gaulle, Conférence de presse, 2 juin 1945)[16].

    Un conflit d’ampleur

    Si l’expression guerre de Syrie n’est pas passée dans le vocabulaire historique, c’est pourtant bien un conflit d’ampleur qui eut lieu durant les premières années de l’implantation du mandat.

    Le 8 octobre 1919, le général Gouraud est nommé Haut commissaire de France[17], signe évident du caractère prioritairement militaire de cette présence (Gouraud était l’ancien commandant en chef du Corps expéditionnaire aux Dardanelles). Dès ce moment, des troupes françaises commencent à relever les Britanniques. Malgré des entretiens informels et inaboutis entre Clemenceau et Fayçal, l’armée française rencontre sur le terrain une hostilité systématique. Sur la route de Damas, elle est accrochée à Maysalûn, le 24 juillet 1920, par un contingent militaire syrien sous les ordres du ministre de la Guerre de Fayçal, Youssef bey Azmi. Si cette bataille ne dure qu’une journée, elle est d’une extrême violence. De l’aveu même de Gouraud, elle est comparable à certains épisodes de la Première Guerre mondiale : « Les chars d’assaut et l’aviation ont combattu à coups de bombes et de mitrailleuses comme dans les combats de la Grande Guerre et ont pris une très grande part dans le succès » (Télégramme au Quai d’Orsay, 24 juillet 1920)[18]. Gouraud estime les pertes françaises à 150 hommes. On peut imaginer ce que furent celles des Syriens.

    Le lendemain, l’armée française entre dans Damas. La presse française quasi unanime se félicite de cette leçon administrée à des Syriens présentés comme bellicistes : « Nous sommes entrés à Damas. Attaquées par les Chérifiens, nos troupes battent l’adversaire » (L’Intransigeant, 26 juillet 1920)… « Les événements démontrent non seulement la force de la France, mais aussi sa bonne foi » (Le Temps, 26 juillet 1920). Mais la portée militaire de l’événement est niée : « C’est une mesure de police qui ne doit revêtir aucun caractère d’hostilité contre la population arabe » (Le Matin, 26 juillet 1920). Le Gaulois se permet cette précision : notre tâche sera « relativement aisée » si nous maintenons notre confiance à Gouraud[19]. Erreur, lui répond le billettiste de l’alors socialiste Humanité, appelé plus tard à une certaine carrière politique : « Bien que, d’après la dépêche officielle, la résistance paraisse brisée, ce n’est qu’un commencement » (Léon Blum, L’Humanité, 26 juillet 1920). Un quart de siècle durant cette résistance donnera raison à Blum.

    La politique française apparaît alors d’une totale limpidité : il s’agit de contrecarrer l’influence arabo-musulmane (Syrie) par une politique d’avantages à la communauté chrétienne (Liban). Pour ce faire, la diplomatie française commence par réduire le territoire syrien, tel que l’avait imaginé Fayçal, en mettant en place une entité dite Grand Liban (1er septembre 1920) qui, outre le mont Liban, intègre la vallée de la Bekaa et le littoral. Afin que nul ne se trompe sur l’indépendance de ce nouvel État, son étendard est symboliquement « aux couleurs françaises avec un cèdre sur la partie blanche du pavillon »[20].

    Que faire de ce qu’il reste de la Grande Syrie ? La diviser encore. La politique française est résumée par le conseiller civil de Gouraud, Robert de Caix : « Nous sommes à même de modeler la Syrie au mieux de nos intérêts et des siens. Les uns et les autres, comme aussi la réalité de son état politique, recommandent non une monarchie militaire, nationaliste, xénophobe, théocratique même dans une certaine mesure, mais une série d’autonomies à forme républicaine et constituant une fédération dont le lien serait l’organe représentant la France » (Robert de Caix, Note, 17 juillet 1920)[21]. Toute la politique française vis-à-vis de la Syrie jusqu’en 1945 est dans ce texte : « modeler la Syrie au mieux de nos intérêts » (évidemment cités en premier, l’expression « et des siens » apparaissant comme une simple formule polie) ; le refus d’une « monarchie militaire, nationaliste, xénophobe, théocratique » (le pouvoir fayçalien, mais à la vérité tout pouvoir central syrien) ; enfin, la mise en place d’une « fédération dont le lien serait l’organe représentant la France ».

    Selon cette logique, Gouraud découpe littéralement le pays : État d’Alep, État de Damas, territoire autonome alaouite, enfin État du Djebel druze. Bien au delà des rangs des nationalistes, les Syriens sont exaspérés. Le Mandat, qui avait déjà été difficilement accepté, est devenu en moins d’une année le synonyme de la perte de toute identité.

    Une paix jamais vraiment assurée

    Malgré les déclarations apaisantes – plus à vrai dire à l’intention de la SDN que de l’opinion – des gouvernements, les troupes françaises furent l’objet d’un perpétuel harcèlement de la résistance syrienne. On le vit bien lors de la grande révolte druze, étendue à Damas (1925-1926), qui ne put être matée par les troupes du général Sarrail, haut commissaire, et du général Gamelin, commandant en chef, qu’au prix de bombardements intensifs sur Damas (19 au 21 octobre 1925), faisant des milliers de morts. Le Temps, pourtant partisan de l’intervention, se fait l’écho de la presse anglaise – mieux informée sur place que la française : « Les pertes de la population indigène à Damas sont évaluées à 1.200 personnes, mais on croit que ce chiffre pourrait être plus élevé (…). La partie de la ville qui est maintenant inhabitable, abritait – dit-on – 120.000 personnes »[22].

    D’autres bombardements, cette fois aériens, auront lieu en mai 1926. Nul besoin, dès lors, de propagande nationaliste pour que naisse et explose un sentiment antifrançais. Quant à l’image internationale de la France, elle fut évidemment et fortement entachée, y compris chez ses alliés. Le même article du Temps précisait que Washington s’apprêtait à demander des réparations à Paris s’il s’avérait que des intérêts américains avaient été atteints.

    Il fallut attendre 1928 pour qu’un nouveau Haut commissaire, le cinquième en sept années, Henri Ponsot, lève l’état de siège. Si cette décision prouvait le rétablissement de l’ordre colonial, elle ne préfigurait cependant en rien une solution politique.

    Une tentative échoue, toujours en 1928. Ponsot provoque des élections plus ou moins contrôlées – et surtout excluant le territoire alaouite et le Djebel druze – mais, devant le succès nationaliste, dissout l’Assemblée et promulgue unilatéralement une Constitution.

    Cruauté des parallèles : c’est exactement à ce moment que les Britanniques passent à la phase active du processus qui mènera à l’indépendance de l’Irak. Un traité est signé le 30 juin 1930, débouchant sur une admission à la SDN le 30 mai 1932, l’Irak devenant le premier État arabe à connaître cette consécration internationale. On imagine que cette évolution fut suivie avec passion par les Libanais et les Syriens.

    Les hommes politiques les plus lucides, en France, se rendent à l’évidence : contrairement aux affirmations du début du mandat, le sentiment national, dans la région, est une force ; le Corps expéditionnaire ne contrôlera jamais réellement le pays, et les rares Syriens qui acceptent de collaborer avec la puissance mandataire sont isolés.

    Comme pour inaugurer l’année 1936 qui verra des transformations en France, Damas se soulève de nouveau en janvier de cette année, à l’occasion des cérémonies du 40 è jour après lé décès d’Ibrahim Hananou, fondateur du Bloc national[23]. De nouveaux affrontements font plusieurs dizaines de morts. La loi martiale est rétablie. L’histoire se répète : va-t-on vers une nouvelle bataille de Damas, comparable à celle, tragique, d’octobre 1925 ?

    Le Haut commissaire alors en place, le comte Damien de Martel, penche pour le langage habituel dans ces cas-là, la répression. Mais, en haut fonctionnaire discipliné, il interroge le Quai d’Orsay : doit-il rétablir l’ordre à tout prix ou entrer en négociations avec les nationalistes ?

    Promesses et revirements

    Fort heureusement, le ministre des Affaires étrangères Pierre-Étienne Flandin, un conservateur affirmé, n’est nullement un jusqu’au-boutiste. Il donne au Haut commissaire la consigne d’éviter de perpétuer la violence. Des négociations avec les éléments nationalistes commencent, puis aboutissent à un projet de traité, le 1er mars 1936. Les principales revendications syriennes sont acceptées. Le principe d’un voyage d’une délégation syrienne à Paris, afin de finaliser le projet, est arrêté. La sortie – enfin pacifique – de la crise s’esquisse.

    Du côté libanais, l’accord franco-syrien a un certain écho. Le chef de la communauté maronite, Mgr Arida, demande que son pays ait le même traitement.

    Contrairement à bien des idées reçues, ce n’est donc pas l’avènement du Front populaire[24] qui a amené la réorientation de la politique française au Levant. Par contre, le nouveau ministre des Affaires étrangères, Yvon Delbos et, surtout, son secrétaire d’État, Pierre Viénot, ont eu l’intelligence de maintenir M. de Martel, qui avait désormais l’oreille des nationalistes, à son poste.

    La personnalité de Pierre Viénot doit ici être soulignée. Ancien secrétaire particulier de Lyautey à Rabat (1920-1923), libéral authentique, sympathisant socialiste (il n’adhérera à la SFIO qu’à la chute du gouvernement Blum), prenant l’avis d’experts, comme Louis Massignon ou Robert-Jean Longuet, il donne immédiatement à sa mission une appellation : la « politique de confiance »[25]. En Tunisie et au Maroc, il n’hésitera pas à affirmer, face aux prétentions des colons, que « certains intérêts privés des Français de Tunisie ne se confond(ai)ent pas nécessairement avec l’intérêt de la France »[26]. Tout au long de son court mandat (juin 1936-juin 1937), il agira en honnête homme, tentant de mettre en accord ses conceptions libérales et ses actes.

    Début septembre, la délégation syrienne, prévue par le texte du 1er mars, arrive à Paris. Le 7, le Conseil des ministres analyse le projet de Traité franco-syrien d’alliance et d’amitié qui, suivi d’un Traité similaire avec le Liban, sera appelé à mettre fin aux Mandats[27]. Par une sorte de naïveté, côté français, c’est le texte du traité… irako-britannique de 1931 qui a servi de modèle[28]. Le droit à l’indépendance est formellement reconnu, mais est assorti de garanties pour la partie française : les deux pays devaient, durant les 25 années suivantes, s’entretenir régulièrement, les Syriens acceptaient le maintien de deux bases militaires françaises, plus celui de troupes, durant cinq ans, dans le pays alaouite et dans le Djebel druze, s’engageaient enfin à choisir des conseillers français pour certains postes, etc.[29].

    Le traité est paraphé par le leader syrien Hachem bey Atassi et par Pierre Viénot le 9 septembre, en présence du président du Conseil, Léon Blum. Viénot emploie des mots forts. Il salue le « patriotisme éclairé » des délégués syriens, puis conclut : « Ces textes substantiels qui traduisent notre amitié et qui embrassent tous les aspects des futurs rapports entre la France et la Syrie sur les bases de complète liberté, souveraineté et indépendance, ont une haute signification. Ces textes ouvrent la voie à la reconnaissance de la souveraineté de la Syrie par tous les États membres de la Société des nations. Ils donnent ainsi une satisfaction éclatante aux légitimes aspirations du peuple syrien » (Pierre Viénot, Déclaration, 9 septembre 1936)[30].

    Puis, le 20 octobre, Damien de Martel fait le voyage à Beyrouth pour entamer une négociation visant à parvenir à un accord franco-libanais. Lequel est signé le 13 novembre[31].

    Il y a cependant une différence de nature entre les traités. Si l’accord franco-syrien débouchait – ou aurait dû déboucher (voir infra) – sur une reconnaissance de l’indépendance, celui entre Paris et Beyrouth ressemblait plus à un protectorat. Le président de la République du Liban, Émile Eddé, ancien élève des Jésuites, qui avait vécu en France[32], craignait surtout « le joug musulman », une intégration à terme dans une grande Syrie, préférant « être conduit et corrigé par un berger que mangé par les loups »[33].

    En France, la nouvelle est dans l’ensemble plutôt bien accueillie, même par le conservateur Figaro[34]. La presse nationaliste, L’Action française, L’Écho de Paris, naguère si riches en informations et en protestations, ne font que signaler l’événement, sans commentaires. On a un peu l’impression qu’après plus de quinze années de relations conflictuelles, la France avait soudain envie de se débarrasser d’un fardeau, tout en se donnant bonne conscience quant aux intérêts français : « Ce projet, lorsqu’il aura été définitivement ratifié, est de nature à consolider sur le plan contractuel une position d’influence française que le maintien trop prolongé d’un régime d’autorité pouvait risquer à la longue de compromettre » (Le Temps, 8 septembre 1936). Le climat entre la France et les États naguère tenus en tutelle connaît alors une nette amélioration. Un (court) temps, l’image de la France dans le monde arabe redevient bonne. Pierre Viénot rencontre même à Genève l’homme politique et journaliste druze Chekib[35] Arslan[36], jusque là hyper-critique contre la France. Celui-ci le félicite et réitère son jugement positif dans un article de La Nation Arabe[37].

    Il reste alors, toutefois, aux deux Parlements à ratifier ce texte. Par ailleurs, une période probatoire de trois années est prévue, afin que les Syriens aient le temps de mettre en place un État, puis de poser la candidature de leur pays à la SDN.

    L’indépendance était donc programmée pour 1939.

    Mais en France, le Parti colonial, qui avait paru réduit au silence durant plusieurs mois, préparait une contre-offensive. Pourquoi, demandèrent certains, les États du Levant ne rembourseraient-ils pas les frais d’occupation et de police qu’après tout la France avait engagés pour le bien des peuples de la région ? Pourquoi laisserions-nous pour rien les éléments (voies ferrées, routes…) de la mise en valeur que nous laissions ? En 1937, les frères Tharaud, dont l’influence était forte sur l’opinion de droite, publièrent un récit de voyage dans la région qui réaffirmait la vieille thèse : « Cette unité syrienne (…) ne possède d’autre existence que celle que nous lui avons donnée, bien à tort, sur le papier du traité franco-syrien. La vérité qui saute aux yeux quand on circule dans ce pays, c’est qu’il n’y a pas de Syrie ». Logiques avec eux-mêmes, les Tharaud exigeaient que ce traité ne soit pas ratifié (Alerte en Syrie !, 1937)[38].

    Une campagne sur ce thème commence. Wladimir d’Ormesson, lui aussi fort influent, s’alerte : que la politique de Blum-Viénot ne soit pas interprétée comme une volonté pour la France de « se replier du proche-Orient », que notre « générosité » ne soit pas « la marque d’une faiblesse »… « car ce serait à bref délai un grabuge affreux dans toute cette région » (Le Figaro, 15 décembre 1936)[39].

    La chute du gouvernement Blum – on a vu que le président du Conseil était présent le 9 septembre 1936 – en juin 1937, encourage les adversaires du traité. Viénot ne sera pas reconduit dans le cabinet suivant, dirigé par Camille Chautemps, dans lequel d’ailleurs son poste sera supprimé, alors que le très conservateur Yvon Delbos gardait, lui, le Quai d’Orsay. Sur les causes de cette absence, une raison fut souvent invoquée : les douleurs occasionnées par sa vieille blessure de guerre. C’est possible. On ne peut cependant s’empêcher de penser que le caractère humaniste et politiquement avant-gardiste de son action fut insupportable aux réactionnaires qui revenaient en force dès juin 1937. Dans La Révolution prolétarienne, Jean-Paul Finidori, qui connaissait particulièrement bien la Tunisie, employa la formule adéquate : « Viénot est limogé »[40].

    À l’été 1938, le Premier ministre syrien Jamil Mardam Bey, en visite à Paris, se voit opposer de nouvelles exigences. Le nouveau ministre français des affaires étrangères, Georges Bonnet, est particulièrement fermé à toute conciliation, épaulé par le ministre de la Défense, Édouard Daladier, inquiet de la montée des tensions dans le monde. Le délégué syrien comprend que la France s’apprête à rompre unilatéralement un traité qu’elle a pourtant signé.

    Le 14 décembre 1938, la commission des Affaires étrangères du Sénat examine le projet. Les deux rapporteurs exposent « les graves inconvénients d’une ratification prématurée » (Bergeon), « non compatible avec l’intérêt de la France » (Henry-Haye)[41]. Georges Bonnet accueille favorablement cette demande – à moins qu’il l’ait provoquée : le gouvernement ne demande plus, désormais, la ratification du traité[42].

    Deux semaines plus tard commence l’année 1939, qui aurait dû voir, si la France avait respecté sa parole, l’indépendance de la Syrie et du Liban. En janvier, un nouveau Haut commissaire, Gabriel Puaux, est chargé de veiller aux intérêts français. Son état d’esprit peut être résumé par les formules qu’il emploiera, plus tard, dans un ouvrage de souvenirs : « C’est là-bas que passe la nouvelle route des Indes : celle des avions et des camions, là-bas que coulent les sources du pétrole ; c’est sur cette côte que s’édifie notre base d’opérations en Proche-Orient ». Conclusion limpide : « Tout nous commande donc de rester au Levant »[43]. En juillet, il dissout la Chambre syrienne et fait emprisonner des leaders nationalistes (d’autres choisissent l’exil)[44]. Fin août, le général Weygand, nommé chef du Théâtre d’opérations de la Méditerranée orientale, s’installe à Beyrouth. Dans la perspective du nouveau conflit mondial qui commence, il est plus que jamais hors de question pour la France d’abandonner des positions au Levant.

    Lorsque commence la Seconde Guerre mondiale, la situation est en bien des points comparable… à ce qu’elle était au terme de la Première : partout des blocages, des tensions, souvent des violences.

    Le Levant dans la Seconde Guerre mondiale

    Après la défaite de l’armée française et l’armistice de juin 1940, en métropole, le Levant reste sous le contrôle du gouvernement de Vichy.

    En décembre 1940, ce gouvernement a envoyé un signe qui ne trompe pas : pour la première fois depuis 1925, c’est de nouveau un militaire, le général Dentz, qui est nommé Haut commissaire.

    Mais, évidemment, cette région est l’objet d’une lutte violente entre Britanniques, encore massivement présents, et services allemands. En avril 1941, les Britanniques, inquiets de négociations secrètes entre les nazis et les nationalistes irakiens, envoient de nouvelles troupes sur place. Une guerre commence. Les positions françaises en Syrie et au Liban prennent alors une importance stratégique majeure.

    L’amiral Darlan, désigné comme le dauphin de Pétain, et en plein accord avec lui, multiplie les gestes de bonne volonté à l’égard de l’Allemagne[45]. Le 25 décembre 1940, il a rencontré Hitler à La Ferté-sur-Epte. Le 5 mai 1941, immédiatement donc après le début de la guerre irako-britannique, il rencontre cette fois Otto Abetz, à Paris. Les entretiens portent sur des facilités à accorder à l’aviation du Reich en Syrie et sur l’achat par les insurgés irakiens – avec l’argent allemand – des stocks d’armes françaises en Syrie[46]. Puis, une fois de plus, le 12 mai, à Berchtesgaden, Darlan est reçu, en secret, par le chancelier. La question du Levant et de l’Irak est de nouveau évoquée, preuve que les deux parties y accordaient de l’importance[47].

    Sur place, le général Dentz, par patriotisme, est très réticent. Mais il reçoit de Darlan des ordres formels : « Des conversations générales sont en cours entre les gouvernements français et allemand. Il importe au plus haut point pour leur réussite que, si des avions allemands à destination de l’Irak atterrissaient sur un terrain des territoires sous mandat, vous leur donniez toutes facilités pour reprendre leur route » (Amiral Darlan, Télégramme, 6 mai 1941)[48].

    Officiellement, la France de Vichy ne peut, ni ne veut, intervenir dans les rivalités germano-britanniques au Moyen-Orient. Pétain lui-même le déclare publiquement : « Les quelques avions qui avaient fait escale sur nos territoires ont aujourd’hui quitté la Syrie, à l’exception de trois ou quatre, hors d’état de voler (…). Il n’y a pas un soldat allemand ni en Syrie ni au Liban » (Message aux Français de Syrie, Vichy, 9 juin 1941)[49]. Pétain mentait sciemment. Le 14 mai précédent, il avait présidé le conseil des ministres, à Vichy, au cours duquel Darlan avait rendu compte des entretiens de Berchtesgaden. Il avait lui-même télégraphié à Dentz, le sentant peut-être réticent, pour confirmer la politique de collaboration avec l’Allemagne dans la région. Lorsque cette déclaration est faite, les premiers avions allemands ont atterri en Syrie depuis un mois, le 9 mai ; en tout, il y en aura une centaine[50] ; outre les pilotes et mécaniciens de bord, il y a une trentaine de spécialistes au sol.

    Le Levant français est devenu, de fait, une position avancée de l’Allemagne nazie.

    Les services britanniques ne sont évidemment pas dupes. L’intervention est décidée, en accord avec les gaullistes. De Gaulle connaît d’ailleurs la région pour y avoir été en poste, à l’état-major, à Beyrouth, de 1929 à 1931. Il l’a sillonnée, se rendant entre autres à Damas[51]. Son délégué pour le Moyen-Orient, le général Catroux, également (il a effectué plusieurs missions dans la région, la première en février 1919).

    Le 8 juin 1941, les troupes alliées, Français libres compris, attaquent. Le jour même, Catroux promet l’indépendance à la Syrie et au Liban – sans cependant préciser de date. La guerre est courte : le 21 juin, les troupes britanniques et les combattants français entrent dans Damas, auparavant évacuée par le général Dentz[52]. Le 23, de Gaulle et Catroux entrent à leur tour dans la capitale syrienne.

    On imagine que la presse vichyste, déjà très anglophobe, suivant une vieille tradition française, se déchaîne. Les partisans de De Gaulle ne sont pas épargnés. Charles Maurras dénonce « le crime des gaullistes », de ces « mauvais Français » qui, au nom d’un « super-patriotisme », cachent mal les « profils judaïques, maçonniques, communistes et autres »[53].

    Au début de cette guerre-éclair, De Gaulle tient à rappeler que, dès le début, la France libre a été associée aux décisions « dès le 20 mai » et que ses troupes – citées en premier – y ont participé : « La France Libre fait la guerre. Or, avec le consentement de Vichy, les Allemands ont commencé à prendre pied au Levant. Militairement, c’est un immense danger. Politiquement, c’est livrer au tyran des peuples que nous nous sommes engagés de tout temps à conduire à l’indépendance. Moralement, c’est, pour la France, perdre tout ce qui lui reste de prestige en Orient. Nous ne voulons pas cela. Voilà pourquoi nous sommes entrés en Syrie et au Liban avec nos alliés britanniques (…). La France ne veut pas de la victoire allemande. La France veut être délivrée. Nous exécuterons la volonté de la France » (Charles de Gaulle, Déclaration, Le Caire, 10 juin 1941)[54]. Comme toujours à l’époque, il surévalue quelque peu le rôle de la France libre – et, par ricochet, le sien. En réalité, les Français du Levant, plutôt légalistes et férocement anglophobes, n’ont guère été enthousiastes de la situation nouvelle. Politiquement, les Français libres n’ont donc l’importance que par le verbe gaullien ; militairement, ils ne représentent pas grand’ chose par rapport aux Britanniques.

    « Le moment venu »

    Mais l’essentiel n’est pas là : on aura surtout remarqué l’emploi du mot Indépendance. Le général Catroux en confirme le principe : « Dépositaire de la tradition libérale française et soucieuse de faire honneur aux engagements contractés envers vous, la France Libre, en entrant au Levant, a commencé, en dépit de la guerre et en dépit de l’état d’exception qu’elle impose, par un acte d’émancipation ; elle vous à rendus libres et indépendants. Vos aspirations sont satisfaites ». Voilà qui était clair et net. Mais les nationalistes durent être quelque peu refroidis par la suite de la déclaration : « Il s’agit maintenant d’organiser votre indépendance » (Déclaration, 26 septembre 1941)[55]. Suivait une série de déclarations de principe dans lesquelles il était bien difficile de démêler ce qui appartenait à ce Liban indépendant et ce qui restait contrôlé par la France, au nom de sa « mission séculaire ». L’appel se terminait par une formule qui repoussait encore l’échéance : Catroux appelait de ses vœux un « traité franco-libanais qui consacrera définitivement l’indépendance du pays »… sous-entendu : après la fin du conflit mondial… Le lendemain, 27 septembre, il faisait sensiblement la même déclaration au peuple syrien[56].

    De son côté, le chef de la France libre prévient la SDN[57] des intentions de son gouvernement (28 novembre 1941)[58]. De Gaulle se rend de nouveau au Levant en août 1942. À Beyrouth, il dit : « L’indépendance de l’État de la Syrie et de l’État du Liban est devenue un fait acquis ». Mais pour préciser immédiatement – message limpide aux alliés et aux indépendantistes – qu’il n’appartient qu’à la France de mettre en place cette indépendance, au rythme et selon les modalités fixés par elle. Et ce qui suit n’est pas propre à susciter l’enthousiasme des principaux intéressés, car chacun a encore en tête, évidemment, les atermoiements de la période 1936-1939 : « Ce n’est point à dire, certes, que la tâche soit maintenant achevée et que la Syrie et le Liban, qui ne connurent jamais, depuis des millénaires, une réelle indépendance nationale, aient en quelques mois achevé leur évolution. Les principes sont acquis, les bases sont jetées ! Il reste à ces peuple si anciens, devenus de si jeunes États, beaucoup à faire pour construire leur propre maison politique ». De Gaulle insiste ensuite sur la nécessité d’ « organiser l’indépendance », avec l’aide de la France, ce que « les dures servitudes de la guerre » ne permettent pas pour l’instant. Ce sera fait, conclut-il, « le moment venu » (28 août 1942)[59].

    Une fois de plus, des représentants officiels de la France donnaient l’impression d’adopter un double langage et de repousser éternellement l’ère des indépendances réelles (Catroux en 1941 : « … dès que possible… » ; de De Gaulle en 1942 : « … il reste… beaucoup à faire… »). Avec, cette fois, une particularité dérangeante : les Britanniques étaient sur place et observaient cette évolution.

    On sait que l’alliance entre gaullistes et Britanniques n’était pas dénuée d’arrière-pensées. Leur cohabitation, dans un Levant désormais acquis aux Alliés, va se révéler orageuse, les premiers soupçonnant en permanence les seconds de soutenir les éléments nationalistes locaux, afin de contrecarrer des visées restées à leurs yeux colonialistes.

    Mais il n’y a pas que le Royaume-Uni. Washington et Moscou, pour des raisons évidemment différentes mais circonstanciellement convergentes, professent un anticolonialisme stratégique. Le représentant de la France libre sur place, le général Beynet, écrit : « Nous avons donc tout le monde contre nous »[60]. Constat tragique, mais réaliste.

    Dans ce monde où beaucoup raisonnent déjà en termes de décolonisation, même si le mot est peu en usage à l’époque, le Gouvernement français (alors le GPRF) apparut, avant même la fin de la guerre, comme dirigé par des « casuistes », des « retardataires »[61], selon les termes d’un homme au cœur de l’appareil d’État, Jean Chauvel, secrétaire général du Quai d’Orsay[62].

    Une fin de mandat chaotique[63]

    La France souffle le chaud et le froid. Le 20 mars 1945, la Syrie et le Liban sont admis à la Conférence de San Francisco, qui prépare intensivement alors la charte des Nations Unies, avec le soutien de la délégation française.

    Est-ce l’indépendance totale ? Il faut apporter une nuance. Le général de Gaulle est un homme de convictions. Pour lui, les mouvements nationalistes syrien et libanais sont le fait d’adversaires irréductibles – et minoritaires – de la France, soutenus en sous-main par les Britanniques. Le 5 avril, une réunion décisive se tient, à Paris, sous la présidence du Général, qui déclare en préambule : « Il faut considérer que l’indépendance des États est une chose et que notre présence au Levant sous une forme militaire en est une autre. Nous ne renoncerons pas à cette présence »[64]. On sait aujourd’hui que son intransigeance n’était pas partagée par les autres présents. Georges Bidault, ministre des Affaires étrangères, était réticent devant la politique de force[65] – mais il n’eut quasiment jamais voix au chapitre, tant que le Général dirigea la France[66]. Jean Chauvel, déjà cité, mais aussi le général Beynet qui, sur place, connaissait la situation réelle, argumentèrent en faveur de concessions. Mais qui aurait eu le courage, un peu suicidaire, d’insister ? Au terme de la réunion, de Gaulle donne l’ordre à l’état-major d’envoyer sur place trois bataillons.

    Dans des instructions qu’il adresse à Bidault, De Gaulle résume son état d’esprit : il faut mettre fin à « la période d’effacement de la France », ne céder ni aux « caresses », ni aux « grognements » des Britanniques, pour conclure : « C’est le moment de marquer le coup. » (30 avril 1945)[67]. Le même jour, recevant l’ambassadeur d’Angleterre à Paris, Duff Cooper, il lui dit, sans langage diplomatique particulier : « Il n’y aura pas de désordres au Levant, à moins qu’ils ne soient fomentés par les Anglais eux-mêmes »[68]. Les Britanniques étaient habitués à l’hostilité du Général. Cette position laissait augurer de la grave crise à venir.

    La presse – qui par parenthèse aborde alors très rarement cette question – soutient la position française : « La position de notre pays n’a jamais changé. Depuis le jour où il a reconnu la souveraineté de la Syrie et du Liban, il n’a à aucun moment failli à sa parole. Mais, avant que cette souveraineté devienne pleinement effective, il entend – ainsi que cela a été également reconnu dès le début par ses partenaires – assurer la sauvegarde de ses droits et intérêts séculaires dans ces pays qui nous sont redevables, pour une si large part, aussi bien de leur développement culturel que de leurs progrès économiques ». Cet éditorial se concluait par un rappel, discret mais ferme, aux alliés britanniques de jouer le jeu de l’amitié avec la France (Le Monde, 25 mai 1945)[69].

    Le 7 mai, veille de la capitulation nazie en Europe, de nouvelles troupes (1.200 soldats, essentiellement des Sénégalais) arrivent à Beyrouth. Pour les Français, c’est une simple relève technique. Pour les nationalistes – cette fois, Syriens et Libanais unis – c’est une provocation. Ils le clament haut et fort : « Ils se trompent s’ils pensent qu’ils peuvent en faire quelque chose ; si toutes leurs armées à la fois se retournent contre nous, ils seront incapables de nous priver de notre indépendance tant que nous vivrons. Nous avons acquis cette indépendance au prix d’un sang précieux. Il n’est pas une parcelle du sol libanais qui n’ait été arrosée de sang pour l’obtention de cette indépendance. C’est pourquoi ils ne pourront nous ravir cette indépendance avant de nous anéantir tous. Ils peuvent nous priver de la vie, détacher nos têtes de nos épaules, mais ils ne pourront jamais prendre notre indépendance » dit ainsi le Premier ministre Abdel Hamid Karamé (Beyrouth, 16 mai 1945)[70]. Même opinion à Damas : « Je ne sais pas comment finira la crise ; ce qui est certain, c’est que les Syriens sont disposés à mourir plutôt que de permettre la moindre atteinte à leur Indépendance » (Saadalah Djabri, président de la Chambre des députés, 31 mai 1945)[71].

    Ensuite, tout va très vite. Au Liban, des grèves de protestation sont organisées. En Syrie, c’est plus violent. Des Français sont attaqués à Damas, à Alep, à Hama, dans le Djebel druze. Il y a des morts, des blessés. Les Français, militaires et civils, ne peuvent plus quitter leurs maisons ou des lieux sécurisés.

    La tension atteint son paroxysme dans la capitale entre le 22 et le 30 mai 1945.

    Le gouverneur militaire de Damas est alors le colonel François Olive, dit Oliva-Roget. Il a reçu des ordres formels de Paris : il s’agit d’anéantir ce qui est présenté comme une émeute. Il les transmet à ses subordonnés le 26 mai. Le 29, la bataille de Damas commence. Durant 36 heures, les troupes françaises – où les tirailleurs sénégalais sont majoritaires – utilisent les automitrailleuses, les tanks, les armes lourdes (canons de 75) et même l’aviation. Les troupes occupent le Parlement, les bâtiments gouvernementaux, le siège de la Banque centrale. Des dizaines de bâtiments brûlent. Le bilan humain est lourd. Toutes les études historiques estiment qu’il y eut des centaines de morts, la fourchette variant entre 500 et 2.000. De Gaulle lui-même, répondant à une question lors d’une conférence de presse que l’on citera plus longuement infra, évoquera « plusieurs centaines de personnes tuées ou blessées à Damas »[72]. On sait qu’il y eut également des morts – entre 100 et 300 –, dans les mêmes conditions, à Hama. Par contre, à Alep, le délégué français Fauquenot refusa de bombarder la ville[73].

    Cette initiative française est fortement critiquée dans le monde entier. Le gouvernement britannique, dont les relations avec de Gaulle sont devenues exécrables, Washington, Moscou, critiquent Paris en termes plus ou moins diplomatiques. Surtout, le monde arabo-musulman, bien au delà de Damas, s’enflamme. La Ligue arabe – qui est toute jeune : elle a été fondée en mars – émet une protestation indignée. Des manifestations populaires ont lieu dans tout le Moyen-Orient.

    C’est, finalement, le gouvernement de Londres qui résout la crise. À sa manière. Le 31 mai, devant les Communes, Anthony Eden fait une déclaration solennelle et ferme : « Nous avons reçu un appel pressant du gouvernement syrien. Nous avons le profond regret d’ordonner au commandant en chef en Orient[74] d’intervenir afin d’empêcher que le sang ne coule davantage »[75]. Ordonner… le mot est fort, précis, mais correspond à la réalité. Ainsi, Londres a envoyé un ultimatum à un officier français sans passer par Paris. Un incident supplémentaire aggrave encore la situation : ce message est rendu public avant même d’avoir été transmis au chef du gouvernement français. Les interprétations de cet incident diplomatique, qui aggravait encore le contentieux, divergent : maladresse ou mesure vexatoire de la part de Londres ? Qu’importe : de Gaulle, pour sa part, crut dur comme fer à la seconde version. Ce même 31 mai, Massigli, ambassadeur de France à Londres, est convoqué au 10 Downing Street par Churchill et Eden. Il lui est confirmé de transmettre à son gouvernement l’ordre formel de cesser le feu, assorti d’une menace d’intervention des troupes britanniques qui sont considérablement plus importantes que le contingent français. Ce même jour, le général Bernard Paget, commandant en chef des troupes britanniques au Moyen-Orient, en résidence au Caire, reçoit l’ordre de son gouvernement de se rendre à Beyrouth pour y faire appliquer cette mesure. C’est dire que cette mesure aurait été appliquée, quelle que fût la réponse des Français. La mort dans l’âme, finalement, de Gaulle accepte et transmet à Oliva-Roget l’ordre de cesser le combat et de ne pas s’opposer aux mouvements que les troupes britanniques seraient amenés à faire dans Damas.

    Le 1er juin au matin, le feu cesse. Les troupes anglaises font leur entrée dans Damas. Le général Paget y arrive le lendemain, en nouveau maître des lieux. Les Britanniques se donnent même le plaisir de procéder au transfert et à la protection des Français, en butte à l’hostilité de la foule syrienne (il y aura tout de même des cas d’agressions contre des individus isolés et même une quinzaine d’assassinats).

    Le 3 juin, le drapeau français a cessé de flotter à Damas.

    La veille, à Paris, de Gaulle s’était exprimé, cette fois publiquement, lors d’une conférence de presse consacrée quasiment à cette question. Il y avait fait un long récit de l’histoire du Mandat depuis les origines. Abordant la crise en cours, il employa l’argumentaire colonial classique : des « bandes armées », soutenues par les autorités syriennes et libanaises, avaient déclenché des troubles, et les Français avaient été obligés de répliquer. Le chef du gouvernement en profita surtout pour régler ses comptes avec Londres : son irritation contre la politique britannique était présente dans chaque formule[76].

    Mais le verbe gaullien ne pouvait rien contre la réalité du terrain : des populations syrienne et même libanaise excédées, dressées contre la France, un monde arabe en ébullition, des alliés en désaccord total et menaçants… il n’y avait plus de place – en tout cas, sous forme coloniale ou para-coloniale – pour la France dans la région.

    Jusqu’en septembre, les soldats se replient sur l’aéroport de Damas. Là, ils subissent l’affront de passer leurs derniers mois dans un véritable camp retranché (mines antipersonnel aux abords, barbelés, et même blockhaus aux quatre coins), protégés par des Britanniques, que l’on imagine goguenards, faisant des rondes[77].

    Au moins de Gaulle ne vit-il pas – en tout cas en tant que chef du gouvernement – l’aboutissement logique de son entêtement : il quitta le pouvoir avec fracas le 20 janvier 1946. Le 14 février suivant, le Conseil de sécurité de l’ONU demande à toutes les forces militaires étrangères de quitter le Levant ; pour les troupes françaises, le retrait s’acheva le 30 avril (Syrie) et le 31 août (Liban).

    Les Français, arrivés dans la région, après la Première guerre mondiale, avec la fierté des vainqueurs, en sont évincés sans gloire au terme de la Seconde.

    Un bilan ?

    Comme toujours en histoire coloniale, les défenseurs de l’œuvre française et ses critiques opposent, à coups de chiffres, des bilans fort opposés.

    Discours prononcé lors de l’inauguration du siège du Comité France-Orient par son président, M. Le Nail, ancien délégué de la SDN dans la région (1929) : « Laissez-moi proclamer la grandeur de l’œuvre française en Syrie et au Liban. Ce que mon pays a réalisé en dix ans, au travers de tant d’hostilités, d’intrigues, d’incompréhensions, si d’autres pays l’eussent accompli, quelle publicité, quelle orgueil, quel argument ! Mais ce n’est que la France : alors les Français n’en savent rien ! C’est vrai cependant qu’elle y a fait du beau travail, équipant les chutes d’eau pour la lumière et la force motrice, asséchant les marais, ouvrant les routes, lançant des voies ferrées, fondant les écoles d’agriculture. Des officiers, des fonctionnaires ont créé cette richesse, malgré l’émeute, malgré les crédits chichement mesurés, malgré l’indifférence de leurs compatriotes. Qui donc leur a dit que leur œuvre était bonne et qu’elle grandissait la patrie ? Eh bien, nous le disons ici. Nous les remercions de leur claire vision de la mission de la France. Et nous nous efforcerons d’en convaincre l’opinion, afin qu’elle les soutienne et que, forts de cette sympathie agissante, ils continuent à faire la France plus grande »[78].

    À la veille de la Seconde Guerre mondiale, Louis Kieffer, dans un document du Centre des Hautes Études sur l’Afrique et l’Asie Modernes (CHEAM), écrit : « Si l’on dresse, après vingt ans de Mandat, le bilan de la situation, on constate de remarquables progrès, qu’il serait injuste de ne pas inscrire à l’actif de la France. Les résultats tangibles apparaissent avec le plus d’évidence dans le domaine de l’équipement » (Genèse du Mandat français au Levant, 1939)[79].

    Une brochure anonyme de la même époque présente ce bilan de deux décennies de présence française : une superficie de terres cultivées doublée, un outillage industriel moderne, un réseau routier multiplié par 4, un réseau ferroviaire doublé, une fréquentation scolaire en hausse (50.000 élèves en 1919, 271.000 en 1939), etc.[80]

    Faut-il s’étonner si les habitants de la région – et en particulier les Syriens – aient une vision un peu différente ? La présence française a certes, comme en d’autres lieux colonisés ou para-colonisés, accéléré l’entrée de la région dans la modernité. Mais comment oublier, lorsqu’on est Syrien, la violence qui a accompagné la politique française, quasi du premier (bataille de Maysalûn, 23 juillet 1920) au dernier jour (affrontements de Damas, fin mai 1945), donc durant un quart de siècle ? Comment oublier que Damas, ville sainte pour les Musulmans, fut bombardée à deux occasions ?

    Un fait est d’ailleurs caractéristique : alors que les deux moments forts de la répression, 1925 et 1945, sont restés très présents, aujourd’hui encore, dans la mémoire des Syriens, ces faits sont à peu près ignorés en France[81], à part dans quelques milieux de chercheurs spécialisés.

    Aussi fut-ce tout naturellement que les autorités françaises, lorsqu’elles décidèrent de construire un nouveau lycée à Damas, lui donnèrent le nom de Charles de Gaulle. Le jour de l’inauguration par le président Sarkozy, en septembre 2008, nul journaliste français ne songea à rappeler le rôle du gouvernement de Gaulle en 1945, nul officiel syrien n’y fit allusion…

    –-

    [1] Un voyage en Syrie, Paris, Paris, Éd. de l’Illustration Economique et Financière, 1921 ; cité par Anne-Lucie Chaigne-Oudin, art. cité.

    [2] Préface à l’ouvrage de Marcel Homet, Syrie terre irrédente. L’histoire secrète du traité franco-syrien. Où va le Proche-Orient ?, Paris, J. Peyronnet & Cie, Éd., Coll. Outre-Mer

    [3] Paris, Libr. Plon, 1923

    [4] « Le mandat français en Syrie »

    [5] La Revue de France, 1 er avril, cité par Anne-Lucie Chaigne-Oudin, art. cité

    [6] Jacques Thobie, op. cit.

    [7] Cité par Correspondance d’Orient, n° 251, 15 décembre

    [8] Gérard D. Khoury, La France et l’Orient arabe, op. cit.

    [9] Un négociateur russe, Sazonoff, avait participé à ces négociations secrètes. Mais la révolution bolchévik mit évidemment fin à cette politique (et même révéla publiquement ces accords).

    [10] Robert de Beauplan, Où va la Syrie ? Le mandat sous les cèdres, Paris, Éd. Jules Tallandier, 1929

    [11] François Xavier Trégan, « Appréhensions et méthodes dans un système mandataire : le cas de la participation des États du Levant à l’Exposition coloniale internationale de Paris, 1931 », in Nadine Méouchy, op. cit.

    [12] Sous le Front populaire. Voir infra

    [13] Conférence, Institut International de Coopération Intellectuelle, 9 mars 1939, in Revue Politique Étrangère, Vol. IV, n° 2, 1939

    [14] Clémentine Kruse, « La France et le Levant (1860-1920) », Site Les clés du Moyen-Orient, 17 avril 2012

    [15] « Notre enquête en Syrie »

    [16] In Discours et Messages, Vol. I, Pendant la guerre, 1940-1946, Paris Plon, 1970

    [17] Journal des Débats, 9 octobre

    [18] Cité par Gérard D. Khoury, La France et l’Orient arabe, op. cit.

    [19] « La France en Syrie », 26 juillet

    [20] « Proclamation de l’État du Grand Liban », Journal des Débats, 5 septembre 1920

    [21] Cité par Gérard D. Khoury, Une tutelle coloniale, op. cit.

    [22] « Les événements de Damas », Le Temps, 30 octobre 1925

    [23] Robert Montagne, « Les émeutes de Damas », in Association des auditeurs du Centre des Hautes Études sur l’Afrique et l’Asie Modernes, Regards sur le Levant. Les anciens du CHEAM et l’émancipation du Proche-Orient, Paris, Éd. du CHEAM, 2000

    [24] Sur cette période, voir Jacques Couland, « Le Front populaire et la négociation des traités avec les États du Levant », in Walid Arbid & al., Méditerranée, Moyen Orient : deux siècles de relations internationales. Recherches en hommage à Jacques Thobie, Paris, L’Harmattan, Varia Turcica XXXIV, 2003

    [25] Télégramme aux hauts commissaires à Rabat, Tunis et Beyrouth, 15 juin 1936, cité par Jacques Couland, art. cité

    [26] Ce discours est souvent cité sans référence. Nous avons utilisé le texte paru dans Le Populaire, le 2 mars 1937.

    [27] G. Severis, « Le traité d’alliance franco-syrien sera signé demain à Paris », Le Figaro, 8 septembre ; Éditorial, « Le projet de traité franco-syrien », Le Temps, 8 septembre

    [28] G. Severis, « En quoi consiste le traité d’alliance franco-syrien », Le Figaro, 9 septembre

    [29] Pierre Viénot, conférence citée, mars 1939

    [30] Cité par Le Temps, 10 septembre

    [31] Cyril Buffet, « Le traité franco-libanais de 1936 », Cahiers de la Méditerranée, Vol. 44, n° 1, 1992

    [32] Michel Van Leeuw, « Émile Eddé (1884-1949) : “Pour le Liban, avec la France“ », Thèse, Université Paris VIII (dir. Jacques Thobie), 2001

    [33] Cyril Buffet, art. cité

    [34] Deux articles cités

    [35] Parfois orthographié Chakib

    [36] Raja Adal, « Shakib Arslan’s Imagining of Europe : The Colonizer, the Inquisitor, The Islamic, The Virtuous and the Friend », in Nathalie Clayer & Eric Germain, Islam in Europe in the Interwar Period : Networks, Status, Challenges, New York, Columbia Univ. Press, London, Hurst, 2008

    [37] « Le traité franco-syrien », septembre-novembre 1936, cité par Raja Adal, art. cité

    [38] Paris, Libr. Plon

    [39] « Le vrai sens de l’affaire d’Alexandrette »

    [40] « Le massacre de Tunis, apothéose de l’impérialisme français », 25 juin 1938

    [41] « La commission des affaires étrangères se prononce contre la ratification du traité franco-syrien », Journal des Débats, 16 décembre, p. 2

    [42] « Devant la commission des affaires étrangères, M. Georges Bonnet fait d’importantes déclarations sur les grands problèmes internationaux », Journal des Débats, même date, 1 ère page

    [43] Deux années au Levant. Souvenirs de Syrie et du Liban, Paris, Hachette, 1952.

    [44] Jean-David Mizrahi, « La France et sa politique de mandat en Syrie et au Liban (1920-1939) », in Nadine Méouchy (dir.), op. cit.

    [45] Tous ces épisodes se situent avant l’invasion de l’Union soviétique et la célèbre phrase de Pierre Laval : « Je souhaite la victoire de l’Allemagne » (22 juin 1942). Darlan a donc été un précurseur.

    [46] D’autres clauses concernent la collaboration en Tunisie et en Afrique subsaharienne. En échange, Darlan obtient des libérations de prisonniers et un assouplissement des conditions de passage de la ligne de démarcation.

    [47] « Syrie : Vichy ordonne de résister le plus longtemps possible », Périodique De Gaulle en ce temps-là, n° 19, Paris, Éd. du Hénin, 1971

    [48] Cité in « Vichy livre la Syrie à Hitler », Périodique De Gaulle en ce temps-là, n° 18, Paris, Éd. du Hénin, 1971

    [49] Journal des Débats, 10 juin

    [50] Anne-Lucie Chaigne-Oudin, « Guerre du Levant, 8 juin-11 juillet 1941 », Site Les clés du Moyen-Orient, 5 janvier 2011

    [51] Voir Anne-Lucie Chaigne-Oudin, « Le commandant de Gaulle au Levant de 1929 à 1931 », Site Les clés du Moyen-Orient, 6 mai 2010

    [52] On sait qu’il sera condamné à mort par la Haute Cour de Justice, le 20 avril 1945, puis gracié par de Gaulle. Mais il mourra en prison le 13 décembre de la même année.

    [53] « Sur la manœuvre anglaise », L’Action française, 10 juin 1941

    [54] In Discours et Messages, Vol. I, Pendant la guerre, 1940-1946, Paris Plon, 1970

    [55] Correspondance d’Orient, n° 509, janvier 1945

    [56] Id.

    [57] L’organisme, évidemment en sommeil durant la guerre, ne sera (auto) dissous qu’en avril 1946.

    [58] Voir Pierre Guillen, « La France et la question du Levant à la fin de la Seconde Guerre mondiale », in Walid Arbid & al., op. cit.

    [59] In Discours et Messages, Vol. I, Pendant la guerre, 1940-1946, Paris Plon, 1970

    [60] Message à Georges Bidault, ministre des Affaires étrangères, 2& septembre 1944, cité par pierre Guillen, art. cité

    [61] On sait que ce même Gouvernement provisoire rendit public, en mars 1945, un programme pour l’Indochine jugé par tous les observateurs totalement dépassé par la situation réelle sur place, puis encouragea – ou, pour le moins, couvrit – en mai la sanglante répression du Constantinois, répression exactement contemporaine du drame de Damas (voir infra).

    [62] Lettre au ministre de France au Caire, Jean Lécuyer, 22 juin 1945, cité par Maurice Albord, L’armée française et les États du Levant, 1936-1946, Paris, CNRS Éd., 2000

    [63] Jacques Thobie, « Mai 1945 : crise au Levant et domaine réservé », in Enjeux et Puissances. Mélanges en l’honneur de Jean-Baptiste Duroselle, Paris, Publ. de la Sorbonne, 1986 ; voir également Anne Bruchez, « La fin de la présence française en Syrie : de la crise de mai 1945 au départ des dernières troupes étrangères », Revue Relations Internationales, n° 122, 2 / 2005

    [64] Cité par Jacques Thobie, art. cité

    [65] Jean-Rémy Bézias, « Georges Bidault et le Levant : l’introuvable politique arabe (1945-1946) », Rev. d’Hist. moderne et contemporaine (Mélanges en hommage à J.-B. Duroselle), octobre 1995

    [66] De Gaulle méprisait Bidault, qui en était bien conscient. Il aurait dit, lorsque le Général décida de quitter le pouvoir, en janvier 1946 : « C’est le plus beau jour de ma vie » (Georgette Elgey, Histoire de la IV è République, Vol. I, La République des Illusions, Paris, Fayard, Coll. Les grandes Etudes contemporaines, 1965)

    [67] Cité par Pierre Guillen, art. cité

    [68] Propos rapportés par l’ambassadeur lui-même in The Duff Cooper Diaries, London, Orion Books, 2005, cité par Henri de Wailly, 1945. L’Empire rompu. Syrie, Algérie, Indochine, Paris, Perrin, 2012

    [69] « Les incidents syro-libanais »

    [70] Cité in « La cise syrienne et libanaise », Correspondance d’Orient, n° 515, juillet 1945

    [71] Cité in « La cise syrienne et libanaise », art. cité

    [72] Conférence de presse, Paris, 2 juin 1945, in Discours et Messages, Vol. I, Pendant la guerre, 1940-1946, Paris Plon, 1970

    [73] Association des auditeurs du CHEAM, op. cit.

    [74] Le colonel Oliva-Roget

    [75] Cité par Henri de Wailly, op. cit.

    [76] Conférence de presse, Paris, 2 juin 1945, in Discours et Messages, Vol. I, Pendant la guerre, 1940-1946, Paris Plon, 1970. De Gaulle, qui n’oubliait rien, gardera jusqu’à la fin de ses jours une rancune contre Churchill et Eden. Vingt-trois années plus tard, recevant l’historien Michel-Christian Davet, qui avait consacré un ouvrage à ce drame (op. cit.), il dira : « Les Anglais ont été parfaitement odieux en Syrie » (2 avril 1968), « Vingt-sept ans après, de Gaulle maintient », Périodique De Gaulle en ce temps-là, n° 18, Paris, Éd. du Hénin, 1971

    [77] Commandant Edouard de Montalembert, « Souvenirs de Syrie (1944-1946) », in Regards sur le Levant, op. cit.

    [78] In Revue des Questions Coloniales & Maritimes, janvier-février 1930

    [79] In Regards sur le Levant, op. cit.

    [80] L’Œuvre française en Syrie et au Liban, 1919-1939, Paris, Larose, 30 juin 1939

    [81] Dans le très épais Dictionnaire de la France coloniale, sous la direction de Jean-Pierre Rioux (Paris, Flammarion, 2007), l’ère du Mandat sur le Levant n’est traitée qu’en 6 pages (rédigées par Pierre Fournié) sur 936.

    https://histoirecoloniale.net/mandat-francais-sur-la-syrie-une-brutale-domination-coloniale-san
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  • Le déni des #persécutions génocidaires des « #Nomades »

    Le dernier interné « nomade » des #camps français a été libéré il y a presque 80 ans. Pourtant, il n’existe pas de décompte exact des victimes « nomades » de la #Seconde_Guerre_mondiale en France, ni de #mémorial nominatif exhaustif. Le site internet collaboratif NOMadeS, mis en ligne le 6 décembre 2024, se donne pour mission de combler cette lacune. Pourquoi aura-t-il fallu attendre huit décennies avant qu’une telle initiative ne soit lancée ?
    Les « Nomades » étaient, selon la loi du 16 juillet 1912, « des “#roulottiers” n’ayant ni domicile, ni résidence, ni patrie, la plupart #vagabonds, présentant le caractère ethnique particulier aux #romanichels, #bohémiens, #tziganes, #gitanos[1] ».

    Cette #loi_raciale contraignait les #Roms, les #Manouches, les #Sinti, les #Gitans, les #Yéniches et les #Voyageurs à détenir un #carnet_anthropométrique devant être visé à chaque départ et arrivée dans un lieu. Entre 1939 et 1946, les personnes que l’administration française fit entrer dans la catégorie de « Nomades » furent interdites de circulation, assignées à résidence, internées dans des camps, et certaines d’entre elles furent déportées.

    Avant même l’occupation de la France par les nazis, le dernier gouvernement de la Troisième République décréta le 6 avril 1940 l’#assignation_à_résidence des « Nomades » : ces derniers furent contraints de rejoindre une #résidence_forcée ou un camp. Prétextant que ces « Nomades » représentaient un danger pour la sécurité du pays, la #Troisième_République en état de guerre leur appliqua des mesures qui n’auraient jamais été prises en temps de paix, mais qui s’inscrivaient parfaitement dans la continuité des politiques anti-nomades d’avant-guerre.

    Le 4 octobre 1940, les Allemands ordonnèrent l’internement des « #Zigeuner [tsiganes] » en France. L’administration française traduisit « Zigeuner » par « Nomades » et appliqua aux « Nomades » les lois raciales nazies. Les personnes classées comme « Nomades » furent alors regroupées dans une soixantaine de camps sur l’ensemble du territoire métropolitain, tant en zone libre qu’en zone occupée.

    À la fin de la guerre, la Libération ne signifia pas la liberté pour les « Nomades » : ils demeurèrent en effet assignés à résidence et internés jusqu’en juillet 1946, date à laquelle la #liberté_de_circulation leur fut rendue sous condition. Ils devaient toujours être munis de leur carnet anthropométrique. La loi de 1912, au titre de laquelle les persécutions génocidaires de la Seconde Guerre mondiale furent commises sur le territoire français, ne fut pas abrogée, mais appliquée avec sévérité jusqu’en janvier 1969. La catégorie administrative de « Nomades » céda alors la place à celle de « #gens_du_voyage » et de nouvelles mesures discriminatoires furent adoptées à leur encontre.

    L’occultation de la persécution des « Nomades » (1944-1970)

    En 1948, le ministère de la Santé publique et de la Population mena une vaste enquête sur les « Nomades ». Les résultats montrent que plus d’un tiers des services départementaux interrogés savaient assez précisément ce qu’avaient subi les « Nomades » de leur département pendant la guerre : il fut question des #camps_d’internement, des conditions dramatiques de l’assignation à résidence, de #massacres et d’engagement dans la résistance. Ces enquêtes font également état de l’#antitsiganisme de beaucoup de hauts fonctionnaires de l’époque : on y lit entre autres que les mesures anti-nomades de la guerre n’étaient pas indignes, mais qu’au contraire, elles avaient permis d’expérimenter des mesures de #socialisation.

    Cette enquête de 1948 permet de comprendre que ces persécutions n’ont pas été « oubliées », mais qu’elles ont été délibérément occultées par l’administration française. Lorsqu’en 1949 est créée une Commission interministérielle pour l’étude des populations d’origine nomade, ses membres ne furent pas choisis au hasard : il s’agissait de personnes qui avaient déjà été en charge des questions relatives aux « Nomades », pour certaines d’entre elles pendant la guerre. Ainsi y retrouve-t-on #Georges_Romieu, ancien sous-directeur de la Police nationale à Vichy, qui avait été chargé de la création des camps d’internement pour « Nomades » en zone libre.

    Il n’est donc pas très étonnant que les survivants des persécutions aient eu beaucoup de mal à faire reconnaître ce qu’ils venaient de subir. Alors même qu’en 1948, deux lois établirent le cadre juridique des #réparations des #préjudices subis par les victimes de la Seconde Guerre mondiale, le régime d’#indemnisation mis en place posa de nombreux problèmes aux victimes « nomades ». L’obstacle principal résidait dans le fait qu’une reconnaissance des persécutions des « Nomades » comme victimes de #persécutions_raciales remettait en cause l’idée que la catégorie « Nomade » n’était qu’un #classement_administratif des populations itinérantes et non une catégorie raciale discriminante. Le ministère des Anciens Combattants et Victimes de guerre ne voulait pas que l’internement des « Nomades » puisse être considéré comme un internement sur critères raciaux.

    Ainsi, entre 1948 et 1955, les premiers dossiers de « Nomades » présentés au ministère des Anciens Combattants ne furent pas ceux des internés des camps français, encore moins des assignés à résidence, mais ceux des rescapés de la déportation afin d’obtenir le titre de « #déporté_politique ». Même pour ces derniers, l’administration manifesta un antitsiganisme explicite. Dans le dossier d’une femme rom française pourtant décédée dans les camps nazis, on peut y lire l’avis défavorable suivant : « Laissé à l’avis de la commission nationale, la matérialité de la déportation à Auschwitz n’étant pas établie. Les témoins (gitans comme le demandeur) signent tout ce qu’on leur présente. »

    Dans les années 1960, quelques dizaines d’anciens internés « Nomades » demandèrent l’obtention du statut d’interné politique. Les premiers dossiers furent rejetés : l’administration refusait de reconnaître que les camps dans lesquels les « Nomades » avaient été internés étaient des camps d’internement. Pour ceux qui arrivaient à prouver qu’ils avaient bel et bien été internés dans des camps reconnus comme tels, par exemple celui de #Rivesaltes, l’administration rejetait leur demande en arguant que leur état de santé ne pouvait pas être imputé au mauvais traitement dans les camps mais à leur mauvaise hygiène de vie.

    Devant ces refus systématiques de reconnaître la persécution des « Nomades », certaines personnes s’insurgèrent : les premiers concernés d’abord sans n’être aucunement entendus, puis des personnalités issues de l’action sociale comme, par exemple le #père_Fleury. Ce dernier avait été un témoin direct de l’internement et de la déportation depuis le camp de Poitiers où il avait exercé la fonction d’aumônier. Il contacta à plusieurs reprises le ministère des Anciens Combattants pour se plaindre du fait que les attestations qu’il rédigeait pour les anciens internés dans le but d’obtenir une reconnaissance n’étaient pas prises en compte. En 1963, les fonctionnaires de ce ministère lui répondirent que les demandes d’obtention du #statut d’interné politique faites par des « Nomades » n’aboutissaient pas faute d’archives et qu’il fallait qu’une enquête soit menée sur les conditions de vie des « Nomades » pendant la guerre.

    Le père Fleury mit alors en place une équipe qui aurait dû recenser, partout en France, les victimes et les lieux de persécution. Mais le président de la Commission interministérielle pour l’étude des populations d’origine nomade, le conseiller d’État Pierre Join-Lambert s’opposa à l’entreprise. C’est à peu près au même moment que celui-ci répondit également à l’ambassadeur d’Allemagne fédéral qu’il n’y avait pas lieu d’indemniser les « #Tziganes_français ». La position de Join-Lambert était claire : aucune #persécution_raciale n’avait eu lieu en France où les « Tsiganes » étaient demeurés libres.

    Cependant, à la fin des années 1960, devant la profusion des demandes d’obtention du statut d’internés politique de la part de « Nomades », le ministère des Anciens Combattants mena une enquête auprès des préfectures pour savoir si elles possédaient de la documentation sur « les conditions d’incarcération des Tsiganes et Gitans arrêtés sous l’Occupation ». Si certaines préfectures renvoyèrent des archives très parcellaires, certaines donnèrent sciemment de fausses informations. Le préfet du Loiret écrivit ainsi que, dans le camp de #Jargeau (l’un des plus grands camps d’internement de « Nomades » sur le territoire métropolitain), « les nomades internés pouvaient bénéficier d’une certaine liberté grâce à la clémence et à la compréhension de l’autorité administrative française ». En fait, les internés étaient forcés de travailler à l’extérieur des camps.

    Premières #commémorations, premières recherches universitaires (1980-2000)

    Pour répondre à l’occultation publique de leurs persécutions, des survivants roms, manouches, sinti, yéniches, gitans et voyageurs s’organisèrent pour rappeler leur histoire.

    À partir des années 1980, plusieurs associations et collectifs d’internés se formèrent dans le but de faire reconnaître ce qui doit être nommé par son nom, un génocide : on peut citer l’association nationale des victimes et des familles de victimes tziganes de France, présidée par un ancien interné, #Jean-Louis_Bauer, ou encore le Comité de recherche pour la mémoire du génocide des Tsiganes français avec à sa tête #Pierre_Young. Quelques manifestations eurent lieu : on peut rappeler celle qui eut lieu sur le pont de l’Alma à Paris, en 1980, lors de laquelle plusieurs dizaines de Roms et survivants de la déportation manifestèrent avec des pancartes : « 47 membres de ma famille sont morts en camps nazis pour eux je porte le Z ». Mais aucune action n’eut l’ampleur de celles du mouvement rom et sinti allemand qui enchaîna, à la même époque, grèves de la faim et occupation des bâtiments pour demander la reconnaissance du génocide des Roms et des Sinti.

    Cependant, la création de ces associations françaises coïncida avec le début des recherches historiques sur l’internement des « Nomades » en France, qui ne furent pas le fait d’historiens universitaires mais d’historiens locaux et d’étudiants. Jacques Sigot, instituteur à Montreuil-Bellay, se donna pour mission de faire l’histoire du camp de cette ville où avaient été internés plus de 1800 « Nomades » pendant la guerre. Rapidement, il fut rejoint dans ses recherches par d’anciens internés qui appartenaient, pour certains, à des associations mémorielles. Ainsi, paru en 1983, Un camp pour les Tsiganes et les autres… #Montreuil-Bellay 1940-1945. Plusieurs mémoires d’étudiants firent suite à cette publication pionnière : en 1984 sur le camp de #Saliers, en 1986 sur le camp de #Rennes et en 1988 sur le camp de #Jargeau.

    Les premières #plaques_commémoratives furent posées dans un rapport d’opposition à des autorités locales peu soucieuses de réparation. En 1985, Jean-Louis Bauer, ancien interné « nomade » et #Félicia_Combaud, ancienne internée juive réunirent leurs forces pour que soit inauguré une #stèle sur le site du camp de #Poitiers où ils avaient été privés de liberté. En 1988, le même Jean-Louis Bauer accompagné de l’instituteur Jacques Sigot et d’autres survivants imposèrent à la mairie de Montreuil-Bellay une stèle sur le site du camp. En 1991, grâce aux efforts et à la persévérance de Jean-Louis Bauer et après quatre années d’opposition, le conseil municipal de la commune accepta la pose d’une plaque sur le site de l’ancien camp de Jargeau.

    En 1992, sous cette pression, le Secrétariat d’État aux Anciens Combattants et Victimes de Guerre, le Secrétariat général de l’Intégration et la Fondation pour la Mémoire de la Déportation demandèrent à l’Institut d’histoire du temps présent (IHTP) de mener une recherche intitulée : « Les Tsiganes de France 1939-1946. Contrôle et exclusion ». L’historien Denis Peschanski en fut nommé le responsable scientifique et, sous sa direction parut deux ans plus tard un rapport de 120 pages.

    Ce rapport apportait la preuve formelle de l’internement des « Nomades », mais certaines de ses conclusions étaient à l’opposé de ce dont témoignaient les survivants : il concluait en effet que la politique que les Allemands avaient mise en œuvre en France à l’égard des « Nomades » ne répondait pas à une volonté exterminatrice, en d’autres termes que les persécutions françaises n’étaient pas de nature génocidaire. De plus, le rapport ne dénombrait que 3 000 internés « tsiganes » dans les camps français : un chiffre bas qui ne manqua pas de rassurer les pouvoirs publics et de rendre encore les survivants encore plus méfiants vis-à-vis de l’histoire officielle.

    Popularisation de l’histoire des « Nomades » et premières reconnaissances nationales (2000-2020)

    Au début du XXIe siècle, les anciens internés « nomades » qui étaient adultes au moment de la guerre n’étaient plus très nombreux. La question de la préservation de leur mémoire se posait, alors même que les universitaires n’avaient pas cherché à collecter leurs paroles et les survivants n’avaient pas toujours trouvé les moyens de laisser de témoignages pérennes derrière eux.

    Les initiatives visant à préserver cette mémoire furent d’abord le fait de rencontres entre journalistes, artistes et survivants : en 2001, le photographe Mathieu Pernot documenta l’internement dans le camp de Saliers ; en 2003 et 2009, Raphaël Pillosio réalisa deux documentaires sur la persécution des « Nomades » ; en 2011, la journaliste Isabelle Ligner publia le témoignage de #Raymond_Gurême, interné avec sa famille successivement dans les camps de #Darnétal et de #Linas-Monthléry, dont il s’évada avant de rejoindre la Résistance.

    Les années 2000 popularisèrent l’histoire des « Nomades » à travers des bandes dessinées, des films ou, encore, des romans. Le 18 juillet 2010, Hubert Falco, secrétaire d’État à la Défense et aux Anciens Combattants, mentionna pour la première fois l’internement des « Tsiganes » dans un discours officiel. Cette reconnaissance partielle fut aussitôt anéantie par des propos du président de la République, Nicolas Sarkozy associant les « gens du voyage » et les « Roms » à des délinquants. L’été 2010 vient rappeler que la reconnaissance des persécutions passées était épineuse tant que des discriminations avaient encore cours.

    En 2016, alors que la plupart des descendants d’internés et d’assignés à résidence « Nomades » étaient toujours soumis à un régime administratif de ségrégation, celui de la loi du 3 janvier 1969 les classant comme « gens du voyage », il fut décidé que le président de la République, François Hollande, se rendrait sur le site du camp de Montreuil-Bellay. Une cérémonie, qui eut lieu le 29 octobre 2016, fut préparée dans le plus grand secret : jusqu’au dernier moment, la présence du résident fut incertaine. Les survivants et leurs enfants invités étaient moins nombreux que les travailleurs sociaux et les membres d’associations ayant vocation à s’occuper des « gens du voyage » et aucun survivant ne témoigna. François Hollande déclara : « La République reconnaît la souffrance des nomades qui ont été internés et admet que sa #responsabilité est grande dans ce drame. » La souffrance ne fut pas qualifiée et la question du #génocide soigneusement évitée.

    Le Conseil d’État rejeta en septembre 2020 la demande de deux associations de Voyageurs et de forains d’ouvrir le régime d’indemnisation des victimes de spoliation du fait des lois antisémites aux victimes des lois antitsiganes. Il déclara que les « Tsiganes » n’avaient pas « fait l’objet d’une politique d’extermination systématique ». Si le Parlement européen a reconnu le génocide des Roms et des Sinti en 2015 et a invité les États membres à faire de même, la France de 2024 n’a toujours pas suivi cette recommandation.
    Résistances et liste mémorielle

    À partir de 2014, les descendants de « Nomades » et des Roms et Sinti persécutés par les nazis et les régimes collaborateurs changèrent de stratégie : ce n’était pas seulement en tant que victimes qu’ils voulaient se faire reconnaître, mais aussi en tant que résistants. Le mouvement européen du 16 mai (#romaniresistance), rappelant l’insurrection des internés du Zigeunerlager [camp de Tsiganes] d’Auschwitz-Birkenau quand des SS vinrent pour les conduire aux chambres à gaz, se propagea. Il réunit tous les ans la jeunesse romani et voyageuse européenne à l’appel de l’ancien interné français Raymond Gurême : « Jamais à genoux, toujours debout ! »

    La base de données « NOMadeS : Mur des noms des internés et assignés à résidence en tant que “Nomades” en France (1939-1946) » propose d’établir collaborativement une #liste aussi exhaustive que possible des internés et des assignés à résidence en tant que « Nomades » en France entre 1939 et 1946. Soutenue par plusieurs associations de descendants d’internés, elle servira d’appui à de nouvelles revendications mémorielles. Peut-être aussi à une demande de reconnaissance par la France du génocide des Manouches, des Roms, des Voyageurs, des Gitans, des Sinti et des Yéniches.

    https://aoc.media/analyse/2024/12/18/le-deni-des-persecutions-genocidaires-des-nomades

    #persécution #encampement #France #histoire #déni #internement #déportation #travail_forcé #reconnaissance

    • Mémorial des Nomades et Forains de France

      Le Mémorial des Nomades de France, sous le parrainage de Niki Lorier, œuvre pour une reconnaissance pleine et entière par la France de sa responsabilité dans l’internement et la déportation des Nomades de France entre 1914 et 1946,

      Il collecte les témoignages des survivants.

      Il propose des interventions en milieu scolaire et du matériel pédagogique sur le CNRD.

      Il réalise des partenariats avec des institutions mémorielles (Mémorial de la Shoah, Mémorial du camp d’Argelès, Mémorial du Camp de Rivesaltes) et des associations dans la réalisation d’expositions, de sites internets…

      Un comité scientifique a été mis en place en 2018.

      Il dispose d’un fond documentaire, et d’archives privées.

      –-

      #Manifeste :

      ▼ Le MÉMORIAL DES NOMADES DE FRANCE a été crée en 2016 en réaction à l’annonce par la Dihal que le discours du président de la République sur le site du camp de Montreuil-Bellay constituerait une reconnaissance officielle de la France. Pour nous, cette démarche est trompeuse et purement déclarative. Nous souhaitons que la reconnaissance des persécutions contre le monde du Voyage par les différents gouvernements entre 1912 et 1969 passe par la voie législative, sur le modèle de la journée de commémoration nationale de la Shoah votée par le parlement en 2000, suivie le 10 mai 2001, par l’adoption de la « loi Taubira », qui reconnaît la traite et l’esclavage comme crime contre l’humanité. Rappelons que depuis 2015, le Parlement européen a fixé par un vote solennel au 2 août la date de la « Journée européenne de commémoration du génocide des Roms », journée non appliquée en France.

      ▼ Le MÉMORIAL DES NOMADES DE FRANCE demande l’application pleine et entière de la loi Gayssot de 1990, notamment dans l’Éducation Nationale. Sur tous les manuels d’histoires utilisés en France, seulement 5 mentionnent le génocide des Zigeuner par les Nazis, pas un ne fait mention des persécutions subies du fait des autorités françaises sous les différents gouvernements de la Troisième République, de « Vichy », du GPRF, ou de la IVe République. Nous sommes parfaitement conscients de la difficulté pour l’État, de reconnaître une situation encore en vigueur aujourd’hui par un procédé d’encampement généralisé de la catégorie administrative des dits « gens du voyage » dans le cadre des « lois Besson » de 1990 et 2000.

      ▼ Le MÉMORIAL DES NOMADES DE FRANCE, demande que l’habitat caravane soit reconnu comme un logement de plein droit, ouvrant un accès aux droits communs qui leurs sont déniés aux Voyageurs et Voyageuses, l’État se mettant enfin en conformité avec l’article premier de la Constitution de 1958.

      ▼ Le MÉMORIAL DES NOMADES DE FRANCE demande la dissolution de la Commission Nationale des Gens du Voyage, dernier organisme post-colonial d’État, qui organise la ségrégation territoriale des différents ethnies constituant le monde du Voyage en France, par le biais de l’application des lois Besson et l’abandon de celle-ci, garantissant la liberté de circulation pour tous et son corollaire, le droit de stationnement, dans des lieux décents, ne mettant pas en danger la santé et la sécurité des intéressés. Les textes existent, il suffit de s’y conformer. Le Conseil constitutionnel considère que la liberté de circulation est protégée par les articles 2 et 4 de la Déclaration des droits de l’Homme et du citoyen de 1789 (il l’a notamment rappelé dans la décision du 5 août 2021). A ce titre la loi Égalité et Citoyenneté de 2017 a abrogé les carnets de circulation. Nous considérons que l’application de l’avis du Conseil Constitutionnel est incomplète, les dites « aires d’accueil » ou « de grands passages » servant justement à contrôler la circulation des Voyageurs sur le territoire métropolitain. C’est le seul moyen de mettre fin au dernier racisme systémique d’État.

      ▼ Le travail de recherche et de restitution historique du MÉMORIAL DES NOMADES DE FRANCE tend en ce sens.

      https://memorialdesnomadesdefrance.fr

  • Thiaroye, #mémoires d’un massacre

    Le 1er décembre 1944, dans le #camp_militaire de Thiaroye, près de Dakar, l’armée française ouvre le feu sur des tirailleurs sénégalais qui réclament le versement de leurs soldes. Longtemps tu dans l’Hexagone, le massacre est pour partie reconnu par l’État français, mais quantité de parts d’ombre demeurent à l’approche de son 80ᵉ anniversaire.

    En juillet 2024, l’Office national des combattants et des victimes de guerre reconnaissait officiellement six tirailleurs sénégalais comme « morts pour la France »…, quatre-vingts ans après leur décès au cours d’une tuerie perpétrée par l’armée française contre ses propres troupes, le 1er décembre 1944 au camp militaire de Thiaroye, près de Dakar. Cette reconnaissance, partielle et tardive, intervient après plus de trois quarts de siècle de bataille mémorielle entre les autorités militaires françaises et les familles et militants politiques ouest-africains. Le conflit porte autour de la qualification de l’événement. Pour les autorités militaires françaises, il s’agit de la répression d’une rébellion armée ; pour les défenseurs des victimes, d’un massacre colonial perpétré contre d’anciens prisonniers de guerre réclamant le versement de leurs soldes.

    Depuis une vingtaine d’années, deux historiens français – Armelle Mabon et Martin Mourre – travaillent sur cet événement. Auteur d’une thèse sur Thiaroye et chercheur associé à l’Institut des mondes africains1, Martin Mourre revient sur ce « déchaînement de violence à l’encontre de ses propres troupes comme on en a peu vu dans l’histoire coloniale, voire dans l’Histoire tout court ». Les événements du 1er décembre s’inscrivent dans le contexte de la fin de la Seconde Guerre mondiale. À la Libération, après quatre années de captivité dans des Frontstalags2 en France, un premier convoi de tirailleurs sénégalais, faits prisonniers par l’armée allemande en 1940, comme 120 000 autres combattants des colonies françaises, se dirige vers la Bretagne pour y embarquer en direction de Dakar et de l’Afrique-Occidentale française3 (AOF), la plus importante des colonies françaises avec une superficie sept fois plus grande que la métropole. Combien sont-ils ? Les sources divergent : entre 1 200 et 1 300 selon les rapports militaires de l’époque, plus de 1 600 pour plusieurs historiens.
    De Morlaix à Thiaroye : la mécanique d’un massacre

    Quoi qu’il en soit, une archive de la Croix-Rouge française exhumée par Armelle Mabon, maîtresse de conférences retraitée à l’université de Bretagne Sud, signale que 315 tirailleurs refusent, le 4 novembre à Morlaix, d’embarquer à bord du Circassia, le navire anglais chargé de les ramener à Dakar, parce qu’ils n’ont pas reçu le quart du solde qui leur était dû. Livrés à eux-mêmes, logés dans des familles ou couchant dehors, ils restent dans la sous-préfecture du Finistère jusqu’au 11 novembre. Ce jour-là, une violente opération de gendarmerie les déloge et les enferme au camp militaire de Trévé, dans les Côtes-d’Armor, puis à Guingamp, jusqu’en janvier 1945. Armelle Mabon pointe leur amertume d’anciens prisonniers de guerre « de nouveau soumis à un régime disciplinaire assez strict, sous la surveillance de gendarmes et de forces françaises de l’intérieur (FFI) ».

    Leurs camarades qui ont pris place sur le Circassia ont entretemps débarqué à Dakar le 21 novembre, avant de rejoindre Thiaroye, à une quinzaine de kilomètres de la capitale de l’AOF. Mais le 27, eux aussi se plaignent auprès des autorités militaires de la colonie du non-versement de leurs soldes et refusent de monter dans un train à direction de Bamako, dans l’actuel Mali. Cette désobéissance s’explique, pour Martin Mourre, par le fait que « ces sommes d’argent conséquentes auraient pu changer le cours de la vie de ces hommes à leur retour au village ». Au demeurant, elle étonne « les officiers français, très surpris que des tirailleurs sénégalais osent réclamer des droits, estime Armelle Mabon, sans compter le préjugé raciste selon lequel les Africains ne savaient pas se servir de l’argent ».

    Au vu des événements, le général de division Marcel Dagnan se rend sur place dès le 28 novembre et promet de répondre aux récriminations des soldats. En parallèle, il prévient sa hiérarchie et le gouverneur général de l’AOF, et monte une opération de répression à partir de toutes les forces militaires disponibles dans la colonie du Sénégal – soit un peu plus de 1 000 tirailleurs – parmi lesquelles le 6e régiment d’artillerie coloniale et ses redoutables automitrailleuses, commandées par des officiers et sous-officiers blancs, pour la plupart restés vichystes jusqu’au ralliement de Dakar à la France libre en 1943.

    Tous les acteurs du drame sont présents. Le 1er décembre au matin, l’armée française tire à l’arme automatique sur la masse des tirailleurs de Thiaroye. Sitôt la fusillade achevée, les troupes arrêtent 48 tirailleurs qu’elles identifient comme des meneurs – parmi lesquels des gradés, comme Antoine Abibou, fin lettré évadé d’un Fronstalag et engagé dans la Résistance en métropole – en raison de la véhémence de leurs protestations les jours précédents. Sur les 48, 34 sont finalement jugés et condamnés en mars 1945 à diverses peines de prison, allant d’un à dix ans, et à la dégradation militaire – c’est le cas d’Antoine Abibou. En 1946 puis 1947, ces condamnés bénéficient d’une loi d’amnistie – et non d’une grâce. Or, pour Armelle Mabon, avec l’amnistie « se construit l’oubli qui entérine le récit de la rébellion armée » et laisse, de fait, les condamnés coupables d’un crime qu’ils n’ont pas commis.

    Le bilan des victimes toujours en question

    De fait, pendant plus d’un demi-siècle, les historiens ne pouvaient s’appuyer que sur les rapports militaires écrits après les événements du 1er décembre et justifiant ces derniers. Or, d’autres sources, dont les procès-verbaux des 34 tirailleurs arrêtés puis les témoignages des survivants recueillis par leurs enfants, mais aussi les archives du Circassia, font apparaître des contradictions entre les différents récits des autorités coloniales et amènent à critiquer la sous-évaluation des victimes du massacre. Alors que les autorités militaires françaises évoquent, aux lendemains de la fusillade, 35 à 70 morts (un chiffre repris par le président de la République François Hollande lors de sa visite d’État au Sénégal en 2014 au moment du 70e anniversaire de Thiaroye), plusieurs historiens parlent de plusieurs centaines de morts.

    Parmi eux, Martin Mourre s’appuie sur une incohérence dans le récit officiel. Un rapport de la Sûreté générale à Dakar postérieur au 1er décembre relate une désertion de 400 tirailleurs lors d’une escale de 24 heures à Casablanca ; or, le rapport d’un chef d’escadron présent sur le navire ne signale rien de tel lors de l’escale marocaine, jugée tout à fait normale. Pour l’historien français, cette supposée désertion de 400 hommes, « invraisemblable pour des hommes si près du foyer après quatre années de captivité », pourrait avoir servi à dissimuler le nombre réel des victimes à Thiaroye.

    Armelle Mabon abonde dans le même sens. À ses yeux, « les historiens ont travaillé sur des documents falsifiés sur ordre, de sorte qu’on ne sait plus ce qui est vrai et ce qui est faux ». Elle-même prend pour exemple le cas de M’Bap Senghor, l’une des six victimes reconnues « mortes pour la France » après le long combat entamé dès 1972 par son fils, d’abord classé comme « non rentré » de captivité puis, une fois que la famille avait appris son départ de France, comme « déserteur ».

    Autre source de discorde : l’emplacement des corps des victimes. Celles-ci ont vraisemblablement été enterrées dans des fosses communes à proximité de Thiaroye, mais aucune archive accessible ne permette de les situer. Cependant, la reconnaissance des six « morts pour la France » pourrait changer la donne. Pour Armelle Mabon, « cette mention oblige la France, avec l’accord du Sénégal, à offrir une tombe individuelle à M’Bap Senghor, identifiable grâce à l’ADN de son fils Biram, et de dédier un ossuaire à toutes les victimes. Dès lors, on mesurera l’ampleur du massacre en exhumant les corps des fosses communes ».
    Mémoires de Thiaroye

    Cette question des sépultures est au cœur du 80e anniversaire de l’événement. De fait, elle met au jour la différence de mémoire de Thiaroye entre les pays issus de l’ex-AOF et leur ancienne métropole. Que ce soit lors des luttes pour l’indépendance ou, plus tard, pour dénoncer la collusion des élites politiques avec l’ancienne puissance coloniale, « Thiaroye, resté une blessure en Afrique de l’Ouest, a toujours été pris en charge par des militants politiques », juge Martin Mourre.

    En témoignent le succès en 1988 du film Camp de Thiaroye, réalisé par le cinéaste sénégalais Ousmane Sembène, ou l’institution en 2004 de la Journée du tirailleur par le président sénégalais Abdoulaye Wade. Encore aujourd’hui, les quelques descendants encore en vie des victimes identifiées bataillent pour faire reconnaître le statut de leurs pères. C’est le cas de Biram Senghor, accompagné d’Armelle Mabon, en cours de procédure judiciaire contre l’État français pour obtenir réparation du préjudice moral et matériel causé par la mort de son père lorsque lui-même avait six ans.

    En France, à l’inverse, le massacre de Thiaroye reste relativement méconnu et la responsabilité de l’armée française tardivement avouée. Il faut attendre 2014 pour que François Hollande admette officiellement4 la mort de « plus de 70 » tirailleurs sous les balles de l’armée française. Dix ans plus tard, la reconnaissance des six « morts pour la France » s’inscrit dans un contexte géopolitique régional bien différent.

    Depuis les coups d’État au Burkina Faso, au Mali et au Niger entre 2020 et 2023 et l’élection présidentielle sénégalaise en 2024, la France est perçue comme hostile dans une bonne partie de l’ex-AOF. Dans ce contexte, « les nouvelles autorités régionales tablent sur la souveraineté mémorielle et une volonté panafricaine de s’emparer de cette mémoire », analyse Martin Mourre. Ainsi du président burkinabé Ibrahim Traoré qui, lors du second sommet Russie/Afrique en 2023, dresse un parallèle entre les soldats soviétiques, à ses yeux les grands oubliés de la libération de l’Europe, et les tirailleurs sénégalais, dont ceux tués à Thiaroye. Une chose est sûre : 80 ans après les faits, les événements du 1er décembre 1944 continuent de s’écrire au présent.

    https://lejournal.cnrs.fr/articles/thiaroye-memoires-dun-massacre
    #Thiaroye_44 #Thiaroye #WWII #post-colonialisme #colonialisme #mémoire #tirailleurs_sénégalais #massacre #seconde_guerre_mondiale #deuxième_guerre_mondiale #histoire #France #historicisation #histoire_de_France #mensonge #massacre_de_Thiaroye

  • Des médecins s’inquiètent déjà au 19e siècle des effets des #pesticides sur la #santé

    Si l’usage des pesticides s’est généralisé dans les années 1960, il avait commencé bien avant, explique l’historienne des sciences #Nathalie_Jas. Dès le 19e siècle, des médecins se sont aussi inquiétés de leurs effets sur la santé. Entretien.
    Basta ! : Quand a commencé l’usage des pesticides en agriculture ?

    Nathalie Jas : Dès la fin du 18e siècle, des savants et des représentants de l’élite agricole ont essayé d’utiliser des produits chimiques en agriculture. À partir des années 1830, une industrie des engrais se développe aux États-Unis et dans les pays européens. Ce mouvement est étroitement lié à des formes d’intensification de la production agricole qui se mettent d’abord en place dans les zones qui s’urbanisent et s’industrialisent.

    Dans ces territoires, les agriculteurs doivent alors produire plus, en étant moins nombreux, pour nourrir les personnes qui ont quitté les campagnes. L’utilisation de produits chimiques comme les insecticides, anti-parasitaires ou anti-cryptogamiques (c’est-à-dire les antifongiques, contre les champignons, ndlr) en agriculture est ainsi initié dès la première moitié du 19e siècle puis se répand dans la viticulture ou la production de certains fruits. Ce processus ne va jamais cesser.

    Après la Seconde Guerre mondiale, et en particulier dans les années 1960, on assiste à une accélération de l’industrialisation de l’agriculture qui repose, entre autres, sur l’usage des pesticides. Les transformations profondes qui s’opèrent à ce moment-là s’inscrivent dans différentes dynamiques initiées antérieurement, à commencer par la longue confrontation avec des problèmes sanitaires, que ce soit pour les végétaux ou les animaux, qui restaient sans véritables solutions. Par exemple, dès la fin du 18e siècle, on a cherché à utiliser des substances chimiques pour la conservation des semences et des récoltes attaquées par des champignons ou des insectes.

    Est-ce la course au rendement agricole qui a poussé à l’utilisation toujours plus poussée des pesticides ?

    Des textes d’agronomes au début du vingtième siècle décrivent bien les conséquences phytosanitaires des logiques d’intensification que requièrent des cultures orientées vers le rendement. Des formes de monoculture se mettent en place, avec des choix de variétés qui ne sont pas forcément les plus résistantes face aux insectes, aux maladies et champignons. La monoculture réduisant les possibilités de stratégie agronomiques, on se tourne, avec plus ou moins de succès, vers des produits chimiques afin de limiter les dégâts.

    À partir du dernier tiers du 19e siècle, les marchés globaux se développent, notamment avec l’arrivée du chemin-de-fer et des bateaux à vapeur. Cette densification des échanges de produits agricoles s’accompagne d’un accroissement conséquent des circulations de pathogènes, d’insectes, d’adventices. De nouveaux problèmes phytosanitaires s’installent dans des régions où ils n’étaient pas présents auparavant.

    C’est le cas du très célèbre phylloxéra, un puceron venu des États-Unis et, qui, en une trentaine d’années détruit l’ensemble du vignoble européen. Une solution efficace via un système de greffe est mise au point à la fin des années 1870 à Montpellier. Elle n’est cependant adoptée qu’à la fin du 19e siècle, après plus d’une vingtaine d’années d’utilisation massive de produits chimiques pulvérisés sans succès et avec le soutien de l’État. Cette histoire est une illustration parmi d’autres de l’importance qu’a pu prendre la lutte chimique en agriculture avant la Seconde Guerre mondiale, dans certains secteurs agricoles au moins.

    Cette émergence de la chimie dans l’agriculture s’accompagne-t-elle de tentatives de réglementations, liées à la peur de l’empoisonnement collectif ?

    C’est ce que l’on appelle les législations sur les substances vénéneuses, qui ont une très longue histoire, antérieure même au 18e siècle. Ces législations ont été revues et développées à différentes époques. Au-delà de la question de la consommation de produits alimentaires potentiellement contaminés, on trouve des traces de l’inquiétude de médecins, d’agronomes et de chimistes du 19e face aux conséquences sur la santé des ouvriers et ouvrières agricoles et des paysans et paysannes de l’utilisation de produits chimiques.

    Ainsi, à la fin du 19e siècle, ce qui est considéré comme le premier manuel de « médecine agricole » rédigé par un médecin, décrit les maux de santé rencontrés en milieu agricole et rural. Quelques pages sont consacrées à l’utilisation de produits chimiques pour protéger les récoltes et les animaux, et sur les effets délétères de ces produits sur la santé de ceux et celles qui y sont exposés.

    L’ordonnance de 1846, qui vise à encadrer les multiples usages de l’arsenic en agriculture, est-elle appliquée ?

    À cette époque, on utilisait des produits à base d’arsenic pour traiter les semences et les cultures, et lutter contre certaines maladies cutanées animales comme la gale, qui pouvaient rendre les animaux très malades et engendrer d’importantes pertes. Cet usage s’est notamment développé parmi certains éleveurs de moutons qui plongeait leurs bêtes dans des bains d’arsenic. Il y avait aussi un usage domestique pour lutter contre les mouches.

    Dans les années 1840, les autorités publiques s’inquiètent des empoisonnements criminels alimentaires à l’arsenic. Pour tenter de lutter contre ce qui est présenté comme un problème majeur de sécurité publique, elles ont inclus cette préoccupation dans la législation les « substances vénéneuses » via un article d’une ordonnance royale de 1846 qui la réforme.

    L’usage des « composés arsenicaux » est interdit en 1846 sur les cultures et les récoltes ainsi que dans la sphère domestique. Mais cette ordonnance continue à autoriser l’usage de ces produits pour le bain des animaux. Les autorités considèrent alors que pour les semences, il y a des solutions alternatives, mais qu’il n’en existe pas pour les animaux. C’est une première manifestation de ce que j’appelle une « politique de segmentation » pour les produits chimiques toxiques utilisés en agriculture.

    Cette politique est toujours structurante : les politiques publiques différencient les mesures appliquées à ces produits suivant les produits, mais aussi suivant l’usage qui en est fait. Ce qui est intéressant aussi avec la législation de 1846, c’est qu’elle n’est pas appliquée. Les écarts plus ou moins importants aux normes prescrites par les réglementations portant sur les toxiques en agriculture que l’on désigne comme pesticides après la Seconde Guerre mondiale sont aussi très structurants dans le long terme.

    Est-ce aussi ce qui s’est passé pour la vigne ?

    La vigne est soumise à de nombreuses problématiques phytosanitaires que l’on a très tôt cherché à solutionner en utilisant des produits chimiques : produits à base de cuivre, nicotine (dont les stocks nationaux sous la Troisième République font l’objet d’une répartition départementale âprement négociée, votée chaque année au Parlement), souffre, arsenicaux notamment. Le cas du phylloxéra montre bien que le réflexe « produits chimiques » étaient déjà bien installé dans certains secteurs agricoles dans le dernier tiers du 19e siècle. Ce que le cas du phylloxéra nous enseigne aussi, c’est que ce réflexe était aussi le produit de l’activité voire de l’activisme d’un ensemble d’acteurs : des élites viticoles, mais aussi des industries.

    Mais à cette époque, ce n’était pas forcément les industries fabricant les produits chimiques qui conduisaient ce que l’on appellerait aujourd’hui du lobbying. En France, ce secteur était alors très éclaté, et peu organisé. Les entreprises qui organisent la promotion des solutions chimiques auprès des autorités publiques et agricoles afin de lutter contre le phylloxera, c’est la compagnie ferroviaire PLM (pour Paris Lyon Marseille), qui assure le transport de produits et de pulvérisateurs mais aussi l’entreprise Vermorel, alors le premier fabricant de pulvérisateurs du pays.

    Bien que la crise du phylloxera ait été solutionnée par le greffage, la viticulture n’a pas alors remis en cause l’utilisation de produits chimiques dans la lutte phytosanitaire. Au contraire, le coût pour replanter les vignes était conséquent : la vigne est donc devenue à la fin du 19e siècle une importante culture qui reposait sur la minimisation des risques de perte de récoltes. La logique de la solution chimique va se poursuivre.

    En 1916, en plein milieu de la Première Guerre mondiale, une autre loi encadrant l’usage des pesticides voit le jour. Qu’apporte-elle de nouveau ?

    Le décret-loi du 14 septembre 1916 concernant l’importation, le commerce, la détention et l’usage des substances vénéneuses est une législation très importante qui ne concerne pas principalement l’agriculture, mais qui jette les bases d’un ensemble de règles qui encadrent encore aujourd’hui l’usage des pesticides.

    Ce texte mentionne par exemple l’obligation d’avoir un local séparé et fermé pour stocker les produits définis réglementairement comme toxiques ou dangereux et utilisés en agriculture, l’obligation de mentionner des informations précises sur les étiquettes des sacs ou des bidons contenants ces produits ou encore l’obligation de porter des vêtements de protection pour manipuler ou épandre les produits, vêtements qui devaient être enlevés et lavés systématiquement après chaque utilisation. Les employeurs étaient tenus d’informer les ouvriers et les ouvrières agricoles des dangers des produits utilisés. Et ces travailleurs et travailleuses devaient avoir des endroits où se laver avant de repartir à leur domicile

    Pourquoi les préoccupations pour la santé publique apparaissent à ce moment-là dans les débats politiques ?

    Il y a plusieurs raisons. La fin du 19e siècle et le début du 20e siècle ont été marqués par un ensemble de luttes ouvrières visant, entre autres, à supprimer l’utilisation de certains produits toxiques dans les industries. De ces luttes ont résulté des législations sur les accidents du travail et les maladies professionnelles qui ne concernaient pas le secteur agricole.

    Cependant, certains médecins hygiénistes et chimistes toxicologues, forts de leur expérience du milieu industriel, s’inquiètent de l’utilisation de certains toxiques en agriculture, au premier rang desquels les arsenicaux. Ils craignent ce qu’ils nomment l’épidémie d’« arsenicisme à venir » résultant d’expositions répétées à de petites doses (la cancérogénicité de l’arsenic n’est pas encore identifiée) via le travail agricole, la contamination des habitations par les travailleurs et travailleuses agricoles (et donc des enfants) et l’alimentation.

    Au-delà, ils s’interrogent aussi des effets sur la faune, notamment les abeilles. Par ailleurs, les préfets sont préoccupés par la circulation de produits à base d’arsenicaux non seulement interdits mais pouvant aussi contaminer les aliments. Des intoxications collectives visibles retentissantes confirment cette préoccupation.

    Les interpellations de l’État sont suffisamment importantes pour qu’il intervienne. Sa réponse, via le décret-loi de 1916 tente d’articuler développement de l’agriculture à la protection de la santé publique via l’instauration de réglementations qui encadrent les usages. Non seulement l’efficacité de ces mesures n’est pas évaluée, mais aucun moyen n’est alloué pour s’assurer de leur mise en œuvre. Elles restent donc largement ignorées.

    Est-ce en vertu de ce pragmatisme économique et industriel que la notion « d’usage contrôlé » fait son entrée dans la loi ?

    La notion d’ « usage contrôlé » est postérieure mais c’est bien cette logique qui guide le décret-loi de 1916. Il établit trois tableaux dans lesquels les substances sont classées. Les substances qui ne sont classées dans aucun des trois tableaux ne sont pas soumises au décret-loi. On trouve des substances utilisées en agriculture à des fins vétérinaires ou phytosanitaires dans les tableaux A (substances toxiques) et C (substances dangereuses). Les substances classées dans ces tableaux sont soumises à des réglementations spécifiques qui encadrent leur commercialisation, leur détention et leurs usages et qui visent à protéger la santé publique.

    La loi dit que les produits classés comme A, qui sont considérés comme les plus toxiques, ne sont théoriquement pas autorisés à être utilisés en agriculture. C’était le cas des arsenicaux. Le décret-loi institue cependant un système dérogatoire au bénéfice de certains arsenicaux. Il est à noter que des systèmes similaires se mettent alors en place dans d’autres pays et que ce type de classement des substances chimiques suivant leur toxicité qui organise leur encadrement réglementaire se retrouve aujourd’hui dans de nombreuses législations internationales, dont la législation européenne.

    Ce système dérogatoire va être largement utilisé dans l’entre-deux-guerres, et le nombre de produits utilisés ne va cesser de croître...

    Oui, il va y avoir une extension des dérogations à d’autres substances en fonction de ce qui est considéré comme étant des urgences. C’est le cas de l’arseniate de plomb, qui était totalement interdit en 1916 et qui est autorisé dans l’entre-deux-guerres via un système dérogatoire pour lutter contre les invasions de doryphores sur les pommes de terre.

    Si les médecins hygiénistes s’indignent, les agronomes et nombre d’agriculteurs considèrent alors que c’est l’unique solution pour préserver les récoltes de pommes de terre qui est un aliment essentiel dans l’Entre-deux guerre. De nombreux autres produits sont utilisés, le souffre, le cuivre et la nicotine déjà évoqués mais aussi les huiles de pétrole ou des produits comme la chloropicrine, issus des recherches sur les gaz de guerre. À partir des années 1930, de nouveaux produits font leur apparition sur les marchés par exemple pour la désinfection des semences (dont le Zyklon B, utilisé dans les chambres à gaz par les nazis) ou des herbicides élaborés à partir de produits pétroliers.

    Pendant et après la Seconde Guerre mondiale, il y a une accélération de la structuration des industries phytosanitaires. Co-construite avec l’État, cette structuration et cet encadrement de l’usage des pesticides ne riment pas nécessairement avec une meilleure protection des usagers. Pourquoi ?

    Avant la Seconde Guerre mondiale, il existait une multitude de petites entreprises qui produisaient des insecticides, des anti-parasitaires, des produits anti-cryptogamiques voir des herbicides. On ne parlait pas encore de pesticides. Ces entreprises avaient mauvaise réputation car la qualité de leurs produits n’étaient pas contrôlée et et encore moins réglementée, à l’exception des produits à base de cuivre.

    Les plus grosses entreprises dont celles qui constituèrent ensuite Rhône-Poulenc et Péchiney – les deux très grandes entreprises françaises des pesticides post Seconde Guerre mondiale, ainsi que Vermorel, le gros fabricant français de pulvérisateurs – étaient d’un avis différent. Elles voulaient gagner en crédibilité pour développer leur marché. Elles ont donc travaillé avec certains haut-fonctionnaires du ministère de l’Agriculture, des scientifiques convaincus par la lutte chimique et des représentants du monde agricole.

    https://basta.media/des-medecins-s-inquietent-des-le-19e-siecle-des-effets-des-pesticides-sur-l
    #histoire #médecine #histoire_des_sciences #agriculture #industrie_agro-alimentaire #produits_chimiques #industrialisation #urbanisation #insecticides #viticulture #WWII #seconde_guerre_mondiale #industrialisation_de_l’agriculture #rendement_agricole #monoculture #phylloxéra #lutte_chimique #chimie #législations #lois #substances_vénéneuses #médecine_agricole #ordonnance #1846 #arsenic #semences #élevage #composés_arsenicaux #politique_de_segmentation #normes #vigne #lobbying #PLM #Vermorel #greffage #1916 #santé_publique #travail #conditions_de_travail #maladies_professionnelles #travail_agricole #abeilles #alimentation #intoxications #usage_contrôlé

  • Je rêvais de vivre en dessinant, mais la guerre m’en a empêché

    https://www.visionscarto.net/adriana-filippi

    « L’expérience d’Adriana Filippi, la « peintre de San Giacomo », et de ses amies, est le sujet du roman Il villaggio messo a fuoco (Le village en ligne de mire) que l’écrivain Nino Berrini, originaire de Boves, commune de la province de Coni dans le Piémont italien, a écrit entre septembre 1943 et décembre 1945.
    Ce texte présente des extraits de Boves. Storie di guerra e di pace (Boves. Histoires de guerre et de paix), d’Elisa Dani, illustré par Francesca Reinero, édité par Michele Calandri aux éditions Primalpe (2002). »

    Texte d’Elisa Dani. Illustrations de Francesca Reinero
    Traduction : Cristina Del Biaggio

    • Il tesoro sepolto di Adriana Filippi, l’unica #war_artist della lotta partigiana

      Raccontò con il pennello i venti mesi di lotta della #Banda_Boves, la leggendaria formazione comandata da #Ignazio_Vian, operante nella località del Cuneese. Dipinti e ritratti, sotterrati per prudenza, in mostra permanente al Museo della Resistenza.

      Adriana Filippi, nata a Torino nel 1909, è stata staffetta e l’unica war artist della lotta di Liberazione, una “reporter di guerra con cavalletto e pennello” la definì il generale Carlo Oberti. Figura e donna straordinaria, laureata all’Accademia delle Belle arti di Firenze, insegnante elementare, già prima della guerra viene trasferita a Boves, allora piccolo villaggio del Cuneese, nella scuola di San Giacomo, la più alta delle frazioni del borgo, nel bel mezzo della montagna che sovrasta l’intera provincia, la Bisalta. Il suo impegno da partigiana e “artista della Resistenza” le sono valse l’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica.


      Adriana ci ha lasciato un diario e 160 opere pittoriche, che rappresentano dettagliatamente i venti mesi della Resistenza. Il Presidente della Repubblica Pertini, dopo aver visto i suoi quadri scrisse nell’introduzione al catalogo della mostra permanente ospitata nel Museo della Resistenza di Boves: “È la testimonianza migliore, resa senza un briciolo di enfasi o di retorica, della realtà di un movimento che nacque dalla rivolta di uomini semplici, usciti da ogni classe sociale, animati dalla ideologie più diverse, mossi esclusivamente da un’esigenza di libertà e di giustizia, dall’odio per il nazifascismo, dall’amore per la patria calpestata”.

      È a San Giacomo che già i primissimi giorni dopo l’8 settembre 1943 Adriana vede arrivare i primi soldati della IV Armata che, rientrati in treno dalla Francia e bloccati dai nazisti alla stazione di Cuneo, erano scappati all’ingiunzione fascista di prestare giuramento alla repubblica di Salò e arruolarsi nelle truppe collaborazioniste oppure di essere deportati in Germania. La Bisalta era il baluardo più vicino per rifugiarsi.

      Adriana vedrà arrivare decine e poi centinaia di soldati che costituiranno la prima Banda di Boves, comandati da Ignazio Vian, futura Medaglia d’Oro al Valore Militare alla memoria, e assisterà alla prima strage nazifascista d’Italia, il 19 settembre 1943. La descrive in numerose pagine del suo diario, raccogliendo diverse testimonianze.

      Il diario e la mostra pittorica si compensano a vicenda e documentano la tragedia della guerra per i partigiani e per la popolazione. Boves è una delle poche località italiane ad aver ottenuto sia la Medaglia d’Oro al Valore Militare sia quella al Valor Civile, proprio per la straordinaria accoglienza che gli abitanti riservarono ai partigiani, nascosti in case, fienili, stalle, protetti e mai denunciati nonostante il terribile rischio che sapevano di correre.


      Le opere di Adriana Filippi testimoniano inoltre il rapporto di fratellanza fra Adriana e i partigiani che lei, insieme alla madre Mariangela, curava e aiutava, facendosi molte volte staffetta, trasportando e consegnando messaggi e pacchi. I quadri venivano abbozzati mentre i fatti stavano accadendo e completati più tardi. Diverse le battute che si scambiavano mentre lei dipingeva i partigiani.

      Si legge nel diario: «Vian, vista la scena [dice]: “I modelli, fino a quadro finito, agli ordini della signorina, gli altri ai nostri”. Franco, l’altro comandante, conta le figure sul quadro, poi: “Caro Vian – con la sua solita schietta risatina – agli ordini della signorina ne restano nove, ai nostri tre!”. E in un’altra occasione, Franco: ‘Ho capito, allora sospendiamo la guerra fino a quadro finito!’”. Non c’era un granché per divertirsi, ma gli animi erano forti e ridere, anche per poco, li sollevava dalla tragedia che stavano vivendo.

      Dalle scene collettive il passo fu breve per arrivare ai ritratti, straordinari, che ogni partigiano voleva farsi fare da lei. Questi però erano più rischiosi perché erano veri e propri identikit e, se entrati in possesso dei nazisti, avrebbero fatto identificare i combattenti. Fu così che Vian diede ordine ad Adriana di abbozzare soltanto i ritratti e di seppellirli nel bosco in due grosse casse. Il patto era che sarebbero stati terminati alla fine della guerra. E così è stato.

      Una testimonianza vivida che ancora oggi, a quarant’anni dalla scomparsa dell’artista (Roma, 1982) continua a comunicare in modo fulminante gli orrori della guerra.

      Oggi, ogni volta che accompagno a visitare la mostra persone che stanno scappando dalle guerre attuali, succede: restano impietrite, colpite da scene, sguardi fieri, a volte tristi, a volte allegri . E ognuna di loro mi dice: “È quello che sta succedendo ora!”.

      Enrica Giordano, componente del direttivo provinciale Anpi Cuneo e già coordinatrice della Scuola di pace di Boves

      Pubblichiamo un estratto dal diario personale di Adriana Filippi, preziosa testimonianza storica dove riferisce del 20 settembre ’43 e di ciò che il comandante Bartolomeo Giuliano le racconta del primo eccidio di Boves, compiuto il 19 settembre 1943. Il borgo, oggi divenuto una cittadina, verrà nuovamente bruciato fra il 31 dicembre ’43 e il 2 gennaio ’44.

      «Là di tedeschi non ve ne sono più e Boves è illuminata dalle fiamme, sembra giorno. I sinistrati tentano di isolare il fuoco, tentano lo spegnimento facendo catena coi secchi, chi lancia acqua a casaccio…

      Finalmente arrivano i pompieri locali e pompieri diventano tutti i bovesani, servendosi della roggia che attraversa il paese, nel quale è tutto un vociare di gente invocante e di animali gementi, vaganti nelle vie o ancora chiusi nelle stalle.

      Prima di raggiungere la grotta passo da casa mia per dare agli amici la triste notizia: “Purtroppo… di tutte le prime case incendiate nessuna è salva!”.

      Arrivo alla grotta stanco e affranto. Mamma mi porta pane e latte: mette pane, mangio pane, aggiungo pane, mia mamma aggiunge latte, io non me ne accorgo perché intento a guardare fuori, sul limitare della grotta, mio padre, il cui viso è illuminato ad intervalli dai bagliori di Boves in fiamme, che arrivano fin lì malgrado la lontananza. Mi addormento. Nel sonno sento la mano leggera della mamma che mi toglie gli scarponi. Non so quanto ho dormito, quando sento una voce che mi sussurra all’orecchio: “…è ora! …la tua postazione ti aspetta!” “…eh…? …chi è che mi aspetta?” ancora con gli occhi chiusi. La voce ripete: “…la tua postazione… – è mio padre che mi porge la solita scodellona di latte e un altrettanto grossa pagnotta – “…mangia e poi va’ senza svegliare mamma, sarà meglio… ti ha messo tutta la nostra provvista nello zaino e nel sacco da montagna, pensando che non sarà tutto per te!”.

      “Al limitare delle nostre postazioni ci incontriamo tutti noi bovesani, puntuali, malgrado qualcuno abbia la casa distrutta e abbia lavorato tutta la notte nel vano tentativo di salvarla…”.


      Vian è in piedi sul muricciolo attorniato dagli ufficiali. Con voce chiara: “Peiper, ieri mattina e di nuovo stamattina, inviò emissari per invitarci alla resa. Ieri abbiamo risposto: “No!”. Oggi ho risposto al maresciallo e al brigadiere dei carabinieri che intendevo chiamare a consiglio tutti: ufficiali, sottufficiali e anche i soldati, perché qui non siamo militari in servizio obbligatorio, siamo tutti volontari, perciò mi sarebbero occorse ventiquattro ore di tempo. Ora, io non sono per la resa, direi di rendere le armi…”.

      Voci di soldati, mormorii di ufficiali lo interrompono: “No!” “Noooo!” “…nienteeee!!” “Ne abbiamo bisogno noi!!!” “…cosa facciamo, qui, senz’armi…!!!”.

      Vian alza la mano, tutti fanno silenzio, e lui, con un abbozzo di sorriso: “…volevo dire… quelle inservibili! Chi è d’accordo sta con me, chi non è d’accordo è libero di lasciare la valle!”.

      Tutti: “D’accordoooo…” “…lei sarà il nostro comandante!”.

      Tutti gli altri ufficiali lo confermano: “È una decisione presa all’unanimità senza esserci consultati!” gli dicono.


      Vian risponde serio e grave: “Va bene, accetto perché ieri ho visto come vi siete comportati”.

      Il pomeriggio arrivano il parroco e la fantesca. “Reverendo – gli diciamo – potremmo scendere fino a Castellar dal cappellano, lui, più vicino a Boves, saprà qualcosa di più di noi”.

      In casa del cappellano c’è gente di Boves. Un tale racconta i fatti visti e subiti, dice: “Sono arrivati di sorpresa, i tedeschi, non abbiamo fatto a tempo ad andarcene. Con i nostri occhi abbiamo visto incendiare con lanciafiamme, con fiammiferi, prendere il nostro parroco e il signor Vassallo, farli salire su di un camion e portarli in giro per il paese a vedere lo spettacolo dell’incendio, poi gettarli giù davanti alla casa, davanti alle scuole, noi ci siamo nascosti, cospargerli di benzina, spingerli dentro, dar loro fuoco, chiudere la porta, incendiando così quella casa con quei due infelici in fiamme.

      Le SS correvano qua e là come indemoniati, ammazzando tutti gli uomini giovani e vecchi che incontravano, tentanti di portare in salvo le loro masserizie o di spegnare le fiamme, li snidavano dalle loro case per ammazzarli sulla via.

      Sentivamo solo grida, lamenti umani che si confondevano con i lamenti degli animali che bruciavano nelle stalle o fuggivano perché il padrone aveva fatto in tempo [ad] aprire loro la porta.


      Il viceparroco che trainava un carretto su cui [erano] due vecchi cronici per salvarli, hanno sparato e colpito giusto”.

      “Hanno… ucciso anche lui?” interrompono ad una voce i due sacerdoti “Sì!” risponde con un cenno di capo il narratore che, angosciato, non può parlare. Poi riprende: “I pochi uomini rimasti o dovuti rimanere in paese, fortunatamente vivi, io compreso, appena via i tedeschi, andiamo a raccogliere i nostri compaesani assassinati nelle vie, nelle strade. Stamane, salendo quassù, abbiamo visto, fino al punto in cui avvenne la battaglia, bovini, ovini, maiali morti o vivi pascolanti spauriti, inselvatichiti per la nottata trascorsa all’aperto. Impossibile avvicinarli, conoscevano appena appena i padroni”.


      Il bovesano ha finito il suo racconto, restiamo tutti in silenzio: sono fatti di poche ore prima, l’animo nostro ne è tutto pervaso e le narici sentono odor di bruciato…».

      https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/forme/tesoro-adriana-filippi-war-artist-lotta-partigiana
      #partisans #partisanes #femmes #histoire #Italie #peinture #Résistance #WWII #seconde_guerre_mondiale #Adriana_Filippi #Coni #Cuneo #portraits #art

    • Et il y a un musée qui conserve ses oeuvres, à Boves :

      IL Museo della Resistenza

      Il Museo, allestito all’ultimo piano di questo antico palazzo del 1600, sede del Municipio fino al 1936, è dedicato alla memoria della resistenza italiana ed in particolare a quella bovesana poiché in esso è esposta la raccolta dal titolo “Impressioni – Momenti di vita partigiana”, composta da 150 quadri, tra disegni, pastelli ed olii, eseguiti dal vero dalla pittrice Adriana Filippi, nel tempo e sul luogo dell’azione partigiana con i personaggi operanti sulla Bisalta tra l’8 settembre 1943 e l’aprile 1945.

      Le opere si richiamano a una pagina gloriosa della nostra storia, affinchè il sacrificio di un popolo, vissuto nell’eroismo e nella dedizione con cui venne affrontata e vinta la furia di struggitrice della barbarie, non vada perduta.
      La mostra, che costituisce un raro e prezioso documento storico e testimonianza diretta di fasi vissute, può essere suddivisa in due sezioni, una paesaggistica dove vengono raffigurate baite e nascondigli e una in cui vengono ritratti i partigiani anche durante le loro mansioni e azioni quotidiane.

      Adriana Filippi, Cavaliere al Merito della Repubblica, ha vissuto per due volte le molteplici vicende, prima come partigiana, poi come artista tra i partigiani, impressionando su tela, con tocco estremamente sensibile, momenti tragici di quell’infausto periodo di dominazione nazifascista.

      La pittrice nasce a Torino il 25/09/1909 e muore a Roma il 03/03/1982.
      Appena diplomata, all’Accademia Fiorentina delle Belle Arti, lascia la residenza torinese perché già sotto i bombardamenti e si trasferisce con la madre Mariangela, compagna inseparabile, a S. Giacomo di Boves, in veste di insegnante presso la locale scuola elementare.
      Sopravvenuta la guerra di Liberazione, mamma e figlia rimangono in quella località isolata e così l’11 settembre del 1943 vedono giungere i primi sbandati, seguiti il 15 da contingenti d’ufficiali e di soldati con un cannone; il 19 settembre assistono all’eccidio di Boves, prima rappresaglia nazista contro la presenza nei dintorni montani di gran parte della IV Armata.
      La si può definire come un reporter di guerra con cavalletto e pennello: nei suoi quadri sono colte le scene più umane, cariche d’amore ma anche di pericolo.
      Adriana Filippi, insieme alla madre, cerca di aiutare e portare conforto ai partigiani: la loro modesta casa viene trasformata in un piccolo ospedale ed ambulatorio, improvvisandosi infermiere, avvalendosi di mezzi di fortuna e ricorrendo anche all’uncinetto per estrarre schegge dalle ferite.
      Il museo della resistenza ospita inoltre alcuni cimeli di guerra, documenti, testi, medaglie, gagliardetti ed altro materiale vario donati alla comunità bovesana dalle numerose delegazioni che periodicamente omaggiano la città martire decorata con medaglia d’oro al valor militare e civile.

      http://www.bovesonline.it/museo-della-resistenza.html

  • Italiani, brava gente ?

    Negli anni che vanno dall’unità del nostro Paese alla fine della seconda guerra mondiale si sono verificati molti episodi nei quali gli italiani si sono rivelati capaci di indicibili crudeltà. In genere le stragi sono state compiute...

    https://neripozza.it/libro/9788854503199

    #livre #Italie #histoire #colonisation #colonialisme #fascisme #colonialisme_italien #italiani_brava_gente #Angelo_del_Boca #WWII #seconde_guerre_mondiale
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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    • Le livre a été traduit en anglais, avec un très beau titre :
      As Cruel as Anyone Else. Italians, Colonies and Empire

      Reveals a dark chapter in the Italian government’s colonial history that has been largely hidden from view.

      Between the end of the nineteenth century and over the first half of the twentieth, Italy invaded and occupied the Horn of Africa, Libya and several other territories. Yet recognition of this history of colonial destruction, racist violence and genocidal aerial and chemical warfare—carried out not only during the Fascist dictatorship but also under preceding liberal governments—has been consistently repressed beneath the myth that the Italians never truly practiced colonialism.

      The late journalist, historian, novelist, campaigner and former Resistance fighter Angelo Del Boca dismantles this myth. He expertly narrates episodes of state violence committed by Italians both abroad—from Ethiopia to Slovenia, from China to Libya—and ‘at home’ during the civil war following Unification in the 1860s or when the anti-Fascist Resistance faced off against the Republic of Salò after 1943. Attentive to the losses and pain suffered by all sides in war, Del Boca deftly demonstrates how such violence was not only a tool of domination but has also been central to creating and shaping an Italian ‘people’.

      Drawing on a lifetime of interviews as a special correspondent, decades of work in private and state archives and his own experiences during the Second World War, Del Boca’s popular and influential work has contributed to overturning views of Italian history. Presenting many historical episodes in English for the first time, As Cruel as Anyone Else provides a key to reading contemporary Italy, its place in international politics and the disturbing permanence of the far-right within mainstream Italian politics.

      https://www.seagullbooks.org/as-cruel-as-anyone-else

  • À LA FRONTIÈRE, L’accueil des réfugié·es en Suisse, 1940-1945

    1940. À mesure que la guerre en Europe s’amplifie, des réfugié·es par milliers convergent vers les #frontières_suisses. Faut-il les accueillir ? Les repousser ? En 7 épisodes, A la frontière raconte comment, jusqu’à 1945, une dualité de comportement a déchiré un pays partagé entre #fermeté́ de l’État, #tradition_humanitaire et #résistance_solidaire.

    https://www.chahut.ch/alafrontiere

    #frontières #Suisse #réfugiés #WWII #migrations #seconde_guerre_mondiale #humanité #solidarité
    #podcast #audio

  • #Charlotte_Delbo et les #femmes du convoi 31000 : enquête sur les #traces d’un #camp_nazi oublié

    Le taxi s’engagea sur un chemin juste à côté de la route principale qui partait du musée d’Auschwitz vers le sud et passa devant une rangée de bungalows avec des jardins un peu en pagaille en ce mois de novembre. Il s’arrêta devant une paire de grilles rouillées, à moitié ouvertes, dont le cadenas pendait. À l’intérieur, on pouvait apercevoir des serres délabrées et envahies par la végétation.

    En sortant du taxi, j’ai poussé les grilles et je suis entrée. Je me suis approchée des serres, en essayant d’imaginer les travailleurs du camp de concentration et d’extermination nazi d’Auschwitz-Birkenau, situé à proximité, qui ont construit et travaillé de force à cet endroit à partir de 1943.

    Il s’agissait des vestiges du sous-camp de #Rajsko, l’un des 40 #camps_de_concentration satellites d’#Auschwitz.

    Ce fut autrefois une #station_botanique expérimentale nazie destinée à soutenir l’usine #IG_Farben en cultivant et en extrayant le #latex d’une espèce de #pissenlit russe (#Taraxacum_kok-saghyz afin de répondre aux besoins de plus en plus importants des nazis en matière de #caoutchouc de guerre. Le camp était l’enfant rêvé de #Heinrich_Himmler, l’un des principaux architectes des programmes génocidaires d’Hitler.

    Malgré les intentions de Himmler, Rajsko ne produisit pas de caoutchouc et fut liquidé par les nazis en 1945. La station botanique s’est dégradée avant d’être transformée en jardinerie commerciale privée. Elle a été largement oubliée et il était très difficile d’en retrouver l’emplacement – même le personnel du service clientèle auquel j’ai parlé au musée d’Auschwitz n’en avait aucune connaissance.

    Une grande partie du village de Rajsko a été déboisée pour permettre aux SS d’établir cette station de recherche botanique ainsi qu’un SS #Hygiene_Institut. Il s’agissait d’une clinique où l’on examinait le sang et d’autres fluides corporels pour y déceler les signes du #typhus (une des principales causes de mortalité dans les camps), du #paludisme et de la #syphilis.

    Plus tard, le célèbre médecin nazi #Josef_Mengele, qui s’intéressait à la #génétique_raciale, a mené des expériences sur des jumeaux roms et sinti à l’Institut d’hygiène SS. À partir de mai 1944, les sujets des expériences de Mengele ont également été prélevés sur les rampes de déchargement d’Auschwitz.

    Malgré ce passé, il n’y avait pas de panneaux indicateurs, de guides ou de centres d’accueil à Rajsko. Ce camp de concentration a été largement oublié en tant que site historique. Il n’a pas été facile de le retrouver. Après être entrée, je suis tombée sur les deux vieux propriétaires de la #jardinerie, penchés sur des brouettes et des pots de fleurs. Comme je ne parle pas polonais et qu’ils ne parlent pas anglais, nous avons communiqué par l’intermédiaire de leur fils anglophone, que la femme a appelé sur son portable.

    J’ai expliqué ce que je recherchais et, par son intermédiaire, j’ai pu jeter un coup d’œil. Le fils, un homme d’une trentaine d’années, est arrivé peu de temps après, de retour de son service de nuit et prêt à se coucher. Je n’ai pas retenu son nom, mais il a eu la gentillesse de m’emmener, à travers un mur de buissons envahissants, jusqu’au bâtiment central du site, à partir duquel les serres s’étendent en rangées ordonnées vers le nord et le sud. Le bâtiment est fermé à clé et inaccessible.

    Là, une #plaque écrite en polonais est apposée sur le mur, masquée par les arbres. Il s’agit de la seule information et #commémoration de Rajsko en tant que #camp_de_travail_forcé nazi. On peut y lire :

    « De 1942 à 1945, le #jardin_de_Rajsko a été un lieu de #travail_forcé pour les prisonniers et les prisonnières du camp de concentration d’Auschwitz. »

    La chasse au #convoi 31000

    Je me suis rendue à Rajsko à la fin de l’année 2023 dans le cadre d’un voyage de recherche doctorale aux archives d’Auschwitz. J’étais sur la piste du #convoi_31000. Il s’agit du seul transport vers Auschwitz-Birkenau composé uniquement de 230 femmes déportées de France pour leur #activisme_politique, et non en tant que juives.

    Mais seuls des instantanés ont été conservés dans les archives.

    Ce que nous savons, c’est que le groupe était composé de femmes issues de toute la société, parmi lesquelles des enseignantes, des étudiantes, des chimistes, des écrivaines, des couturières et des femmes au foyer. Il y avait une chanteuse de l’Opéra de Paris, une sage-femme et une chirurgienne-dentiste. Ces femmes courageuses ont distribué des tracts antinazis, imprimé des journaux subversifs, caché des résistants et des Juifs, transporté des armes et transmis des messages clandestins.

    La plus jeune était #Rosie_Floch, une écolière de 15 ans qui avait griffonné « V » comme victoire sur les murs de son école, tandis que la plus âgée, une veuve sexagénaire nommée #Marie_Mathilde_Chaux, avait hébergé des membres de la Résistance française. La Gestapo et la police française ont traqué toutes ces femmes et les ont emprisonnées au #Fort_de_Romainville, dans la banlieue de Paris, avant de les mettre dans un train – le convoi 31000 – à destination d’Auschwitz en 1943.

    Je cherchais en particulier des traces des personnes et des lieux que Charlotte Delbo mentionne dans sa littérature. Delbo était une participante non juive à la Résistance française et fait l’objet de ma recherche doctorale, qui examine comment les représentations vestimentaires de Delbo révèlent toutes sortes d’histoires extraordinaires et oubliées sur l’expérience des femmes pendant l’occupation de la France et l’Holocauste.

    Née en 1913 dans la banlieue de Paris au sein d’une famille ouvrière d’origine italienne, Delbo a travaillé comme assistante du célèbre directeur de théâtre et acteur Louis Jouvet et s’est inscrite aux #Jeunesses_communistes. Pendant les premières années de l’occupation nazie de la France, elle a aidé son mari #Georges_Dudach à produire des textes clandestins et à traduire des émissions radiophoniques en provenance du Royaume-Uni et de Russie.

    Delbo et son mari ont été arrêtés par une division spéciale de la police française en mars 1942, et son mari a été exécuté par la #Wehrmacht à #Paris en mai de la même année. Elle a été détenue dans deux prisons à Paris avant d’être déportée à #Auschwitz-Birkenau en janvier 1943, puis transférée à Rajsko en août de la même année, avant d’être finalement transférée au camp de concentration de #Ravensbrück dans le nord de l’Allemagne en janvier 1944.

    Delbo a été évacuée par la Croix-Rouge suédoise en avril 1945 et rapatriée à Paris où elle a passé les 40 années suivantes à écrire sur son expérience et sur d’autres périodes d’oppression, ainsi qu’à travailler comme traductrice pour l’ONU et pour le sociologue Henri Lefebvre. Elle est décédée en mars 1985.

    L’œuvre de Delbo comprend de la prose, de la poésie et du théâtre, ainsi que des textes documentaires. Elle est importante parce que son langage attire l’attention sur des histoires négligées ou cachées, notamment celle des déportés non juifs à Auschwitz. Elle s’intéresse à des lieux peu connus comme Rajsko, aux femmes membres de la Résistance française et à la façon dont les enfants vivent l’héritage de la guerre.

    Elle est l’un des auteurs les plus brillants et les plus stimulants à avoir survécu à Auschwitz, mais la plupart de ses écrits restent relativement méconnus.

    Son ouvrage le plus célèbre est Auschwitz et après, qui donne un aperçu de son séjour à Rajsko. Dans un autre ouvrage, Le Convoi du 24 janvier, Delbo écrit la biographie de chaque femme du convoi. Il s’agit d’une compilation de souvenirs, de recherches et de correspondances menée par une équipe de survivantes. Les histoires racontées mettent en évidence l’hétérogénéité des femmes du convoi, les destructions causées à la vie des femmes elles-mêmes et de leurs familles et la complicité de la police française avec les nazis. Dans un passage du Convoi du 24 janvier, Delbo écrit :

    « Sur les 230 qui chantaient dans les wagons au départ de Compiègne le 24 janvier 1943, quarante-neuf sont revenues après vingt-sept mois de déportation. Pour chacune, un miracle qu’elle ne s’est pas expliqué. »

    Les mensonges nazis dans les archives d’Auschwitz

    Le matin suivant ma visite à Rajsko, j’étais assise dans l’un des baraquements en briques surplombant la tristement célèbre porte « Arbeit Macht Frei » (« Le travail rend libre ») d’Auschwitz I. C’est là que se trouvent les archives du musée d’Auschwitz, et l’archiviste Szymon Kowalski m’a présenté l’histoire de la collection.

    Depuis le Royaume-Uni, j’avais commandé à l’avance des documents concernant Delbo et d’autres membres de son convoi auprès de Wojciech Płosa, responsable des archives. Je n’avais aucune idée du nombre de jours de travail qu’il me faudrait pour parcourir ce matériel et le relier aux textes de Delbo. J’espérais avoir suffisamment de temps pendant ma visite de quatre jours.

    J’ai été stupéfaite d’apprendre de la bouche de Kowalski qu’à peine 5 % des archives du système d’Auschwitz ont survécu, dont seulement 20 à 30 % concernent des femmes. Des recherches antérieures ont également mis en évidence la question des #trous_noirs dans les #archives.

    La perte de 95 % des archives est due à deux systèmes politiques différents qui ont tenté successivement de contrôler l’information sur le passé nazi. Tout d’abord, les SS ont détruit des tonnes de documents à l’approche de l’Armée rouge soviétique en janvier 1945. Ensuite, les Soviétiques ont confisqué les documents après la libération du camp et les ont ramenés à Moscou. Certains ont été remis en circulation dans les années 1990 pendant la perestroïka, mais les autres sont restés en Russie.

    Quelle chance avais-je alors de retrouver Delbo et les femmes dont elle parle dans ses livres si un pourcentage aussi infime des dossiers contenait des références à des femmes ?

    Heureusement pour moi, Płosa avait déjà commencé à affiner ma recherche. Une grande pile de registres pesait sur le bureau devant moi, chacun avec des signets aux pages pertinentes.

    Les archives contenaient deux références à Delbo et les deux mentions attestaient de sa présence à Rajsko. La première mention plaçait Delbo à l’infirmerie de Rajsko entre le 4 et le 8 juillet 1943, souffrant d’une « magen gryppe » (grippe intestinale). En revanche, je n’ai pas pu lire la seconde mention. Elle semblait faire référence à des tests biologiques subis par Delbo à l’Institut d’hygiène SS, mais le volume se trouvait dans le département de conservation et n’était pas disponible pour consultation.

    Pourtant, j’ai vu sur la liste du Dr Płosa que ce volume indisponible contenait également les dossiers de 11 autres femmes du convoi de Delbo, dont certaines étaient membres du groupe de travail envoyé à Rajsko.

    Après avoir creusé un peu plus, j’ai commencé à tirer des conclusions de ces 12 mentions dans le registre de l’Institut d’hygiène SS. La proximité des numéros de page contenant des références à ces femmes suggère que des tests de routine ont été effectués sur elles pendant qu’elles étaient en quarantaine à Auschwitz-Birkenau avant leur transfert à Rajsko. Les SS ne voulaient que des femmes en bonne santé pour travailler avec les précieux pissenlits dans les serres et les laboratoires de Rajsko (dans l’intérêt de la santé des plantes, pas de celle des travailleuses).

    Plus tard, à mon hôtel, j’ai recoupé les noms des femmes figurant dans le registre de l’Institut d’hygiène SS avec l’affirmation de Delbo selon laquelle toutes les femmes du convoi 31000 transférées d’Auschwitz-Birkenau à Rajsko ont survécu à la guerre. La plupart des prisonnières qui ont été contraintes de rester à Birkenau y sont mortes quelques semaines après leur arrivée en janvier 1943. En fait, au mois d’août de cette année-là, il ne restait plus que 57 prisonnières en vie sur les 230 présentes à l’origine. Seules 17 furent transférées à Rajsko. Parmi elles, cinq semblent être mortes avant la fin de leur séjour en quarantaine. Les 12 autres, dont Delbo, ont survécu à Rajsko.

    Delbo attribue la survie de son groupe au transfert à Rajsko et à la période de quarantaine qui l’a précédé. Ce sous-camp dans lequel les travailleurs forcés étaient exécutés semblait, paradoxalement, sauver des vies.

    Retrouver #Raymonde_Salez

    Le lendemain, j’ai examiné le registre des certificats de décès des prisonnières et j’ai vu qu’un membre du convoi de Delbo, Raymonde Salez, était enregistrée comme décédée le 4 mars 1943 à 10h20 de « grippe bei körperschwäche » (grippe et faiblesse générale du corps), le certificat étant signé par un certain « Dr Kitt ». Kowalski m’avait déjà expliqué que les dates, heures et causes de décès étaient fabriquées sur les certificats de décès et qu’aucune mention d’Auschwitz n’était faite afin de dissimuler au grand public la raison d’être du camp.

    N’ayant pas le droit de prendre des photos, j’ai noté avec diligence tous les détails du certificat de décès de Raymonde Salez, au cas où ils seraient utiles. Bien que ce nom ne me soit pas familier, je savais que Delbo avait consigné les noms et surnoms de toutes les femmes de son convoi dans Le Convoi du 24 janvier, ainsi que dans certains de ses autres ouvrages, et je voulais voir si le nom de Salez était mentionné quelque part. De retour à mon hôtel plus tard dans la soirée, j’ai commencé ma recherche de Raymonde Salez.

    J’ai sursauté lorsque j’ai réalisé que Salez était une femme que j’ai appris à connaître grâce à la pièce de Delbo Les Hommes et à ses monologues de survivants Mesure de nos jours. Dans ces textes, Delbo désigne Salez par son nom de guerre, « Mounette », mais la biographie qu’elle consacre à cette femme dans Le Convoi du 24 janvier indique que son vrai nom est Raymonde Salez.

    La pièce de Delbo, Les Hommes, se déroule dans un autre site moins connu de l’Holocauste, le camp de détention de la Gestapo du Fort de Romainville, en banlieue parisienne. C’est là que les femmes du Convoi 31000 ont été détenues juste avant leur déportation à Auschwitz-Birkenau. Dans cette pièce, #Mounette apparaît comme une jeune femme blonde, jolie, les joues roses, qui porte de la lingerie luxueuse en soie framboise empruntée pour jouer dans un spectacle de théâtre que les prisonnières montent dans le camp de détention. Elle est décrite comme « tout à fait mignonne » et son fiancé la voit « avec des anglaises et des petits nœuds dans ses beaux cheveux ».

    Jeune, jolie et dynamique, Mounette s’engage dans la Résistance française et est arrêtée en juin 1942. Elle est déportée à Auschwitz avec le reste du convoi 31000 le 24 janvier 1943. Six semaines plus tard, la voici dans les archives. Morte.

    J’ai pleuré en réalisant qui était vraiment cette personne. Je connaissais si bien le personnage de Mounette, mais la découverte des archives l’a fait revivre.

    Mais lorsque j’ai comparé l’acte de décès de Salez avec le texte de Delbo, j’ai constaté une divergence : Delbo indique que la mort de Mounette est survenue le 9 mars à la suite d’une dysenterie, alors que les nazis ont enregistré la mort de Salez le 4 mars, à la suite d’une grippe et d’un épuisement. Delbo a expliqué comment les détenus se souvenaient de dates et de détails clés à Auschwitz afin de pouvoir témoigner plus tard. Cette divergence semblait être la preuve des mensonges nazis (rappelons que dissimuler leurs crimes et supprimer les preuves était une procédure opérationnelle standard).

    En même temps, bien que le certificat de décès de Salez semble contenir des informations falsifiées, il est important car c’est la seule trace documentée à Auschwitz-Birkenau de sa présence, car il n’existe pas de photographie d’elle en prisonnière.

    https://www.youtube.com/watch?v=6iIHqGjpzYg

    Il reste donc des questions sans réponse perdues dans les archives et ces lacunes attirent l’attention sur la façon dont Salez et tant d’autres personnes ont perdu la vie et ont disparu sans laisser de traces. Néanmoins, cette trace historique est précieuse, étant donné qu’il ne reste qu’un faible pourcentage de documents sur les femmes à Auschwitz.

    Les références à Mounette et à Salez se trouvent dans les ruines des archives et démontrent à quel point le #musée_d’Auschwitz est inestimable, à la fois pour sauvegarder l’histoire et pour mettre en lumière la corruption de celle-ci par les nazis.

    L’examen des références à Mounette dans la littérature de Delbo a permis de mettre en lumière cette ambiguïté. La littérature de Delbo contient également des instantanés de Mounette, qui autrement aurait disparu sans laisser de traces ; elle enregistre des fragments non seulement de son incarcération et de sa mort, mais aussi de sa vie avant qu’elle ne soit consumée par l’Holocauste. Comme l’écrit Delbo :

    « Chère petite Mounette, comme elle est fine, comme elle est douée, si curieuse de tout, avide de tout apprendre. »

    Le bloc de la mort

    Le troisième jour de mon voyage, j’ai visité le centre d’extermination et le camp de travail forcé d’#Auschwitz-Birkenau. J’ai été bouleversée par l’ampleur du site, les rangées de baraquements qui semblaient interminables. J’ai été stupéfaite par le nombre considérable et incompréhensible de victimes d’Auschwitz-Birkenau, par l’étendue de leur anonymat, par l’énorme absence qui remplit l’endroit.

    Ma visite s’est concentrée, non pas sur les chambres à gaz où les juifs entrants ont été assassinés, mais sur les baraquements où les femmes du convoi de Delbo ont été logées : les blocs 14 et 26 de la zone BIa.

    Au bloc 26, j’ai été confrontée à l’horreur : le bloc 25 adjacent était le bloc de la mort. C’est là que les femmes mouraient de faim. Le bloc 26 voisin de Delbo avait une rangée de fenêtres donnant sur l’unique cour fermée du bloc de la mort, ce qui signifie qu’elle et ses camarades de baraquement ont été témoins des personnes laissées pour mortes, criant au secours, empilées à la fois mortes et vivantes dans des camions pour être transportées vers les fours crématoires.

    Le bloc de la mort figure dans de nombreux chapitres très durs d’Aucun de nous ne reviendra, le premier volume d’Auschwitz et après, de façon particulièrement choquante dans « Les Mannequins » et de façon plus touchante peut-être dans « La jambe d’Alice ». Elle y décrit la mort de sa camarade, la chanteuse d’opéra parisienne Alice Viterbo, qui portait une prothèse de jambe.

    Lors d’une « sélection » au début du mois de février 1943, quelques jours seulement après l’arrivée des femmes et au cours de laquelle elles étaient forcées de courir, Alice a fait partie des femmes qui sont tombées et elle a été abandonnée par ses camarades. Elle est alors emmenée au bloc de la mort. À travers la fenêtre grillagée, Alice supplie qu’on lui donne du poison. Alice meurt le 25 ou le 26 février, Delbo ne sait pas exactement, mais elle sait que « La plus longue à mourir a été Alice ». Sa prothèse de jambe est restée dans la neige derrière le bloc pendant plusieurs jours.

    #Alice_Viterbo, une Italienne née en Égypte en 1895, était chanteuse à l’Opéra de Paris jusqu’à ce qu’elle perde une jambe dans un accident de voiture, après quoi elle a quitté la scène et ouvert une école de chant et d’expression orale. Delbo rapporte que la raison de l’arrestation de Viterbo est inconnue mais qu’elle pourrait avoir été impliquée dans un réseau de résistance. Viterbo a fait un effort « surhumain » pour courir lors de la sélection d’Auschwitz-Birkenau, étant déjà debout à l’appel depuis 3 heures du matin.

    Combien d’autres femmes attendent d’être redécouvertes ?

    Il m’a suffi de quatre jours pour découvrir l’existence de Salez, de Rajsko et des mensonges nazis à propos du camp et de ces travailleuses. Qui sait combien d’autres femmes sont oubliées, leur histoire attendant d’être retrouvée ?

    Mon voyage dans les ruines du complexe du camp d’Auschwitz renforce encore la valeur de la littérature de Delbo. Elle apporte un témoignage sur des personnes, des lieux et des expériences qui se sont perdus dans l’histoire. Elle met également en évidence les lacunes et les mensonges de l’histoire. Et elle nous rappelle celles qui, comme Salez, ont disparu sans laisser de traces, leur mort n’ayant pas été commémorée par une tombe. En représentant ces oubliées, la littérature de Delbo se souvient de leur existence. Les quelques fragments qui restent de leur vie sont précieux et soulignent encore plus ce que nous avons perdu avec leur disparition.

    https://www.youtube.com/watch?v=69iCBeHQ0Sw

    En visitant les lieux dont parle Delbo dans sa littérature saisissante et dépouillée, j’ai pris conscience de l’horreur de ce qu’elle et les autres femmes de son convoi ont vécu, du décalage entre ce qu’elles ont vécu et #ce_qui_reste sur le site, et du défi que représente la manière de le représenter par des mots ; d’essayer de combler le fossé d’incompréhension avec tous ceux d’entre nous qui n’étaient pas là.

    C’est une lacune que Delbo a elle-même ressentie, comme elle l’a exprimé dans Auschwitz et après :

    Ce point sur la carte
    Cette tache noire au centre de l’Europe
    cette tache rouge
    cette tache de feu cette tache de suie
    cette tache de sang cette tache de cendres
    pour des millions
    un lieu sans nom.
    De tous les pays d’Europe
    de tous les points de l’horizon
    les trains convergeaient
    vers l’in-nommé
    chargés de millions d’êtres
    qui étaient versés là sans savoir où c’était
    versés avec leur vie
    avec leurs souvenirs
    avec leurs petits maux
    et leur grand étonnement
    avec leur regard qui interrogeait
    et qui n’y a vu que du feu,
    qui ont brûlé là sans savoir où ils étaient.
    Aujourd’hui on sait
    Depuis quelques années on sait
    On sait que ce point sur la carte
    c’est Auschwitz
    On sait cela
    Et pour le reste on croit savoir.

    https://theconversation.com/charlotte-delbo-et-les-femmes-du-convoi-31000-enquete-sur-les-trace
    #WWII #seconde_guerre_mondiale #déboisement #oubli #déportation

  • Les sombres secrets des cartes en #Suisse

    Cartes secrètes, interdictions de vente et retouches : plusieurs mesures ont été prises dans le domaine de la cartographie suisse pour protéger les #secrets_militaires.

    L’Armée suisse a toujours protégé ses installations les plus importantes des regards indiscrets : dépôts de munition dissimulés dans des parois rocheuses, positions d’artillerie camouflées en chalets, usines d’armement entourées de forêts denses et aérodromes militaires encerclés de barbelés.

    Cette discrétion a conduit à des objectifs contradictoires en matière de cartographie : les cartes topographiques censées reproduire la surface de la Terre aussi fidèlement que possible ne devaient toutefois pas trahir les secrets militaires. Au fil des décennies, l’Office fédéral de topographie (aujourd’hui swisstopo) ne cessa d’inventer des moyens de résoudre ce dilemme.

    Deux cartogra­phies, l’une officielle et l’autre secrète

    La production cartographique officielle de la Suisse se scinda en deux dès la fin du XIXe siècle : une section publique et une section secrète. D’un côté, l’Office fédéral de topographie établit la cartographie officiellement en vigueur à ce moment-là, la carte Siegfried, à l’échelle 1:50’000 pour l’espace alpin et 1:25’000 pour le reste du pays. Ces cartes étaient en vente libre.

    De l’autre côté, le Département militaire fédéral (DMF) élabora des cartes à l’échelle 1:10’000 strictement confidentielles répertoriant les fortifications militaires de 1888 à 1952. Contrairement à la carte Siegfried, elles ne couvraient pas l’ensemble du pays, mais se limitaient aux endroits stratégiques comme la région du Gothard ou le Coude du Rhône. L’armée positionnée au sein de ces fortifications militaires avait rapidement besoin de ces cartes, car l’échelle 1:10’000 était indispensable pour calculer avec précision les trajectoires des tirs d’artillerie.

    Pendant la Première Guerre mondiale, la situation hautement dangereuse conduisit le Département militaire à ne plus délivrer la carte Siegfried, auparavant en libre accès, que sur présentation d’une autorisation spéciale, l’objectif étant de compliquer l’accès des espions étrangers aux cartes suisses récentes. Si les restrictions de vente furent levées en 1919, elles réapparurent 20 ans plus tard sous une forme encore plus stricte.

    Peu après le début de la Seconde Guerre mondiale en septembre 1939, le commandant en chef de l’Armée suisse Henri Guisan constata « que certains manifestaient un intérêt pour les cartes suisses qu’il convenait de surveiller ». Cette observation ne tombait pas du ciel : l’état-major suisse avait déjà soupçonné la Wehrmacht en mai 1939 de commander des cartes suisses via une adresse de couverture à Berlin.

    Henri Guisan s’inquiétait par ailleurs du fait que les réserves de cartes suisses « ne suffisent pas pour répondre aux besoins exceptionnels de réapprovisionnement, ni même pour fournir un second lot de nouvelles cartes aux états-majors et unités autorisés. » Pas de guerre possible sans connaissance du terrain : toute carte disponible devait donc être réquisitionnée et remise à l’armée au nom d’une stratégie défensive.

    En octobre 1939, le Conseil fédéral réagit à la pénurie de cartes et au problème de la confidentialité en interdisant la vente et l’exportation des cartes de la Suisse à l’échelle 1:1’000’000 ou supérieure. La reproduction d’informations cartographiques fut également interdite dans les livres, les journaux et même sur les cartes postales. Ces mesures, qui revenaient à une opération de grande envergure de censure des cartes, ne furent levées qu’à l’été 1945, à la fin de la guerre.

    Des données classées secrètes pendant la Guerre froide

    La stratégie de traitement des données spatiales sensibles changea après la Seconde Guerre mondiale. La production des cartes confidentielles des fortifications fut interrompue en 1952 et aucune nouvelle interdiction de vente ne fut prononcée pour les cartes officielles : la carte Siegfried et la carte nationale qui lui succéda à partir de 1938 furent disponibles à partir de 1945 en version intégrale et en vente libre. Ce changement était dû à la paix retrouvée en Europe, mais aussi au constat que les interdictions de vente n’empêchaient guère les autres Etats de se procurer les cartes souhaitées.

    Après 1945, la stratégie de confidentialité cartographique consista plutôt à dissimuler de manière ciblée les installations militaires importantes. Les aérodromes militaires, barrages antichars, usines d’armement et autres équipements stratégiques disparurent des cartes.

    Avec ou sans chalet ?

    Une fois les objets sensibles rayés de la carte, la question de la confidentialité semblait a priori réglée. Or des discussions enflammées éclatèrent pour décider de ce qu’on devait dissimuler ou non.

    Dans les années 1970, un groupe d’objets posa un véritable casse-tête : dans le cas des installations militaires camouflées en équipements civils, par exemple une position d’artillerie dissimulée derrière une façade de chalet, la confidentialité cartographique pouvait induire le contraire de ce qui était visé. Si, sur place, un espion apercevait un chalet qui ne figurait pas sur la carte, cela le désignait d’autant plus comme objet militaire. C’est pourquoi ces installations retrouvèrent leur place sur les cartes à partir de 1978.

    L’année 1978 marqua non seulement l’apparition d’un élément sur la carte, mais aussi la disparition d’un autre. Dans les années 1970, le risque d’attentats terroristes avait considérablement augmenté en Suisse. Les conduites forcées des centrales hydroélectriques furent donc rayées des cartes afin que leur représentation ne facilite pas les actes de sabotage. Cette dissimulation fut maintenue jusqu’au tournant du siècle.

    Déjà pendant la Guerre froide, certains commencèrent à émettre des doutes sur l’efficacité de la dissimulation cartographique. C’est finalement une avancée technologique qui fut à l’origine d’un changement de pratique : vers 1990, la télédétection par satellite était si aboutie que cela avait de moins en moins de sens de dissimuler des objets sur une carte. S’obstiner dans cette pratique aurait même pu se révéler contre-productif en attirant l’attention précisément sur les objets manquants sur la carte.

    Par conséquent, de nouvelles ordonnances et directives basées sur un principe de visibilité furent adoptées à partir de 1991. Cela signifiait que si des installations étaient visibles à la surface de la Terre, elles devaient figurer sur une carte. Ce principe s’avéra bel et bien valable puisqu’il est encore appliqué aujourd’hui.

    https://www.watson.ch/fr/blogs/suisse/214417070-les-sombres-secrets-des-cartes-en-suisse

    #cartographie #secret #armée #secret_militaire #histoire #guerre #guerre_froide #WWII #seconde_guerre_mondiale #bunkers #swisstopo #Office_fédéral_de_topographie #carte_Siegfried #fortifications_militaires #Gothard #Coude_du_Rhône #Première_Guerre_mondiale #général_Guisan #Henri_Guisan #censure #confidentialité #chalets #conduites_forcées #centrales_hydroélectriques #dissimulation #dissimulation_cartographique #images_satellitaires #télédétection #in/visibilité

    via @reka

  • 40 manteaux et un bouton

    Été 1942. Quarante enfants juifs débarquent à la gare de #Nonantola, dans la province de Modène. Ils ont fui l’Allemagne nazie grâce à une organisation d’#entraide. Accueillis dans une vaste propriété, la #villa_Emma, ces jeunes déracinés se lient d’amitié et se créent un monde moins menaçant que la réalité.

    Natan est l’un d’eux. Rongé par le souvenir de son père arrêté une nuit d’hiver, de sa mère et son jeune frère qu’il a dû abandonner à Berlin, ce garçon sauvage ne parvient pas à renoncer à sa méfiance. Pourtant, ici, il n’y a ni étoiles jaunes, ni ghetto, ni rafles. C’est un lieu où les paysans partagent leur nourriture, où un menuisier construit les lits qui manquent aux pensionnaires, où chacun peut apporter sa pierre à l’édifice. Mais le 8 septembre 1943, les troupes nazies atteignent Nonantola, et les occupants de la villa Emma doivent fuir à nouveau. Cette fois, ils ne sont plus seuls : un village entier est prêt à se battre pour eux.

    Inspiré de faits réels, un magnifique récit d’#héroïsme_collectif et de #solidarité vu à travers les yeux d’un enfant.

    https://www.albin-michel.fr/40-manteaux-et-un-bouton-9782226473080

    #livre #Italie #WWII #seconde_guerre_mondiale #réfugiés #sauvetage #histoire #résistance

    –-

    voir aussi:
    Maria Bacchi e Nella Roveri, L’età del transito e del conflitto. Bambini e adolescenti tra guerre e dopoguerra 1939-2015, Il Mulino


    https://seenthis.net/messages/566930

    • 40 cappotti e un bottone

      Estate 1942. A Nonantola, Modena, arrivano quaranta ragazzi e bambini ebrei. Sono scappati dalla Germania nazista e, grazie all’organizzazione di Recha Freier, stanno cercando di arrivare in Palestina. Ora, sistemati a Villa Emma, sembra che il peggio sia passato. Tra di loro c’è anche Natan, che inizialmente vede tutta questa attenzione con sospetto. Bruciano ancora il ricordo del padre trascinato via nella notte, l’addio della madre e del fratello più piccolo. Eppure, qui sembra di essere in un mondo completamente nuovo. Finché con l’otto settembre del 1943, a Nonantola iniziano ad accamparsi le truppe naziste e per i ragazzi di Villa Emma c’è una nuova fuga da organizzare. Questa volta, però, non sono soli, hanno un intero paese a lottare per loro. Ivan Sciapeconi è insegnante di scuola primaria a Modena. Ha pubblicato libri di narrativa per bambini (Zezè e Cocoricò, Raffaello Editore; Un dicembre rosso cuore, Einaudi Ragazzi; Come mettere il mondo a testa in giù, Giunti) e testi per la scuola (Erickson Edizioni, Rizzoli). 40 cappotti e un bottone è il suo primo romanzo.

      https://www.edizpiemme.it/libri/40-cappotti-e-un-bottone

    • « 40 manteaux et un bouton », des villageois italiens au secours d’#enfants_juifs allemands

      Pendant la guerre en Italie, les habitants de Nonantola ont permis l’exfiltration vers la Suisse d’enfants juifs venus d’Allemagne et d’Autriche. Ivan Sciapeconi consacre à cet épisode héroïque de l’Histoire un premier roman

      (#paywall)

      https://www.letemps.ch/culture/livres/40-manteaux-et-un-bouton-des-villageois-italiens-au-secours-d-enfants-juifs-

  • #Radio_Monte_Ceneri - Quello scomodo microfono

    #Felice_Antonio_Vitali (1907-2001), l’autore di questo libro li ebbe contro tutti, ad eccezione di Guglielmo Canevascini, che sempre lo sostenne e che ben merita il titolo di “padre della Radio della Svizzera Italiana”.

    L’AUTORE

    Felice Antonio Vitali (1907-2001) ha diretto la Radio Monte Ceneri dal 1931 al 1947. Sarà poi corrispondente della SSR nella Berlino quadripartita fino al 1956; inviato dell’Unesco e consulente in materia di radioprogrammi in Libia (1957-58) e capo del dipartimento Attualità e Politica alla Televisione di Zurigo (1958-67). Nel 1961 ha ricevuto il Prix Italia per un documentario.

    Dalla prefazione di Bixio Candolfi.

    (…) un libro che riguarda da vicino, voglio dire i ticinesi, il Ticino e la Radio della Svizzera italiana. Un libro di Felice Antonio Vitali che è insieme un auto-biografia e la storia della “giovinezza” della RSI, della quale egli fu il primo direttore, l’”inventore”, in un certo senso, con pochi altri. Ho detto della RSI; dirò, meglio, di “Radio Monteceneri”, come allora si chiamava la nostra radio. (…) come è documentato da numerose lettere di italiani che, non senza gravi rischi in qualche caso, negli anni bui della tirannide nazifascista, spinti dalla seta di notizie obiettive alla ricerca di conforto e speranza, si sintonizzavano sull’unica stazione libera di lingua italiana. (…) L’autore confessa che il libro era nato anche come proposito di “dare una risposta agli autori delle mille polemiche” con le quali la stampa di allora e il movimento “Controproradio” l’avevano combattuto. (…) Il capitolo più importante del libro è forse quello che illustra i non facili rapporti di Radio Monteceneri, durante la guerra, con le autorità di Berna, dopo che il Consiglio federale ebbe deciso di sospendere la concessione.

    https://lanostrastoria.ch/entries/EDknOJDDXp2

    Et je découvre qu’il n’y a aucune mention de cette radio (qui a joué un rôle important pour les luttes anti-fascistes en Italie) sur wikipedia... faudrait s’y mettre...

    #radio #anti-fascisme #résistance #Suisse #Tessin #radio_Monteceneri #WWII #seconde_guerre_mondiale #Monte_Ceneri

    • Storia della stazione radio nazionale onde medie del Monte Ceneri

      La stazione radio del Monte Ceneri venne messa in servizio il 18 aprile dell’anno 1933. Il progetto di una stazione radio per la Svizzera di lingua italiana avrebbe dovuto essere incluso nella pianificazione dei due trasmettitori nazionali di Beromünster (per la Svizzera tedesca) e di Sottens (per la Svizzera francese) entrati in servizio nel 1931. Ma la minoranza italofona venne in un primo tempo dimenticata e vide la luce, come detto sopra, qualche anno dopo con la costruzione della Stazione Radio OM del Monte Ceneri.

      Le tre stazioni nazionali svizzere non erano in grado di coprire allo stesso tempo l’intero territorio della Confederazione. L’onda terrestre non raggiunge infatti distanze elevate e non supera ostacoli montagnosi dei quali è ricco il panorama alpino.

      Pertanto, per favorire l’ascolto dei programmi radio nelle tre lingue nazionali, ecco una invenzione tipicamente svizzera: il radiotelefono.

      Il prezioso documento spiega perché la stazione radio venne eretta sul Monte Ceneri nel bel mezzo della Piazza d’ Armi dell’artiglieria, divenuta poi importante base logistica dell’esercito a cura del Dipartimento federale della difesa.

      Durante la seconda guerra mondiale, le trasmissioni su OM dal Monte Ceneri, grazie alla diffusione di notizie incensurate e pertanto attendibili, vennero seguite attentamente anche nella vicina Italia.

      Dopo la seconda guerra mondiale, l’aumento di potenza portò un bel miglioramento rispetto ai 15 kW avuti fino ad allora. Ma persistevano ancora interferenze da trasmettitori esteri. Pertanto nel 1967 la potenza veniva aumentata a 100 kW.

      Nel 1956 venne istallato il primo trasmettitore onde ultracorte a modulazione di frequenza, OUC - FM, nella nuova stazione radio del Monte Morello, colle dominante la regione di Chiasso. Quella stazione fu il terzo impianto radiofonico nel Cantone Ticino.

      Al Monte Ceneri, nel 1958, contemporaneamente alla stazione del San Salvatore, ecco la messa in servizio dei primi trasmettitori del Cantone Ticino per la televisione in bianco e nero.

      Nel 1972 sotto la direzione degli ingegneri Ernst Hanselmann delle Direzione Generale delle PTT di Berna e Renato Ramazzina della Direzione di Circondario dell’Azienda federale delle PTT di Bellinzona, iniziò la progettazione per la costruzione di un nuovo moderno impianto per le OM: l’impianto Monte Ceneri Cima.

      Correva l’anno 1983 quando l’evoluzione nel campo delle telecomunicazioni consigliò una riorganizzazione della divisione Radiocom di Telecom PTT per il Ticino e il Grigioni italiano che porterà alla fine dello storico monopolio della Confederazione: Swisscom SA viene infatti affiancata dalle ditte concorrenti Sunrise e Orange.

      La ricerca nel campo della fibra ottica data dal 1956. Il perfezionamento e l’applicazione ad uso pratico nelle telecomunicazioni avvenne nel 1970. Negli anni 90 del Novecento la trasmissione satellitare di programmi radiotelevisivi nella tecnica digitale era realtà. La prima fibra ottica in Ticino venne messa in posa da una ditta Giapponese tra Faido e Bellinzona nel 1980.

      In Svizzera nel 2008 l’esercizio degli storici trasmettitori nazionali Onde Medie venne sospeso, superato dagli eventi: Beromünster, Sottens e Monte Ceneri (30 giugno 2008) cessarono la loro attività e alla mezzanotte del 2012 Monte Ceneri Cima venne spento definitivamente.

      La trasformazione della grande Azienda federale delle PTT, diede origine al Museo della Radio e nel 2001, tredici collaboratori fondano l’Associazione Museo della RAdio, AMRA, ritenuta la formula migliore per garantirne il futuro.

      Come era il Ticino prima della radio? Un Ticino “povero” della civiltà contadina raccontato da alcuni scrittori nostrani, senza la radio. Quando la radio nel 1933 arriva a complemento dei giornali comincia una nuova Storia.

      https://lanostrastoria.ch/entries/x08AodKq71l
      #histoire

  • Les « #Trois_Rouges » ou le mystère de l’#Orchestre_Rouge_Suisse

    Les nazis les appelaient ’les Trois Rouges’ ! Trois émetteurs clandestins situés en Suisse par lesquels ont transité vers Moscou des #renseignements_militaires de première importance...

    Des informations précises qui ont peut-être permis à l’#Armée_rouge de remporter des victoires décisives à partir de 1942... Mais, si l’on sait qui étaient les opérateurs de ces ’Trois Rouges’, on s’interroge toujours sur l’origine de leurs sources et leur identité.

    Qui étaient-ils ? Des officiers supérieurs appartenant à l’entourage proche d’Hitler ? Ou bien des membres éminents de ses services de renseignement ? Et comment ces précieuses informations parvenaient-elles en Suisse ? Par quel canal ?

    Autant le dire tout de suite, il s’agit là de l’un des plus grands mystères de la #Seconde_Guerre_mondiale. Et ceux qui ont tenté de le résoudre ont émis les hypothèses les plus échevelées... Monsieur X a bien sûr son idée. C’est aussi l’occasion pour lui de brosser le portrait de quelques personnages étonnants, les protagonistes de ce redoutable Orchestre rouge suisse...

    https://www.radiofrance.fr/franceinter/podcasts/rendez-vous-avec-x/politique-et-gangsterisme-a-marseille-avant-et-apres-guerre-1-3842496
    #podcast #audio
    #radio #résistance #Suisse #WWII #URSS

    via @reka

  • Préjugé ! « Les immigrés veulent islamiser l’Europe »

    Derrière le préjugé de « l’#islamisation » de l’Europe se trouvent des stéréotypes anciens contre l’islam et les musulmans ainsi que des enjeux mémoriels autour de la colonisation et de la décolonisation. À cela s’ajoutent des théories d’extrême droite complotistes, comme celle du « grand remplacement ».

    Voici les ingrédients du cocktail :
    Mettre une bonne dose de crainte de la #mondialisation (sans trop savoir pourquoi, ça fait drôlement peur).
    Ajouter une grosse pincée de #racisme.
    Arroser le tout de #religion.
    Saupoudrer d’un peu de « grand remplacement ».
    Et vous obtenez un préjugé : « Les immigrés veulent islamiser l’Europe ».

    L’Europe à l’aune des décolonisations

    « Derrière cette peur d’une islamisation de la France ou de l’Europe par une ’#invasion' d’immigrés musulmans, il y a, sous-jacent, un certain nombre de préjugés : l’islam ne serait pas compatible avec la #culture_européenne, les musulmans constitueraient un groupe homogène qui chercherait à imposer sa culture et sa religion aux pays hôtes », explique l’historien #John_Tolan. À ces #stéréotypes anciens contre l’islam et contre les musulmans s’ajoute une #mémoire, encore vive et pas tout à fait pacifiée, celle de la #colonisation et de la #décolonisation. Ce préjugé, comme bien souvent, se nourrit d’histoire. Il mobilise #Charles_Martel qui arrête les Arabes à #Poitiers en #732, les #Ottomans qui font le #siège_de_Vienne en #1529 et #Charles_de_Gaulle, en 1962, qui craint que #Colombey-les-Deux-Églises ne devienne « #Colombey-les-Deux-Mosquées ».

    La peur d’une islamisation de l’Europe naît au lendemain de la #Seconde_Guerre_mondiale, quand l’industrie européenne en manque de main d’œuvre bon marché fait venir en masse des immigrés, bien souvent issus des anciennes colonies : des Indiens et des Pakistanais vers le Royaume-Uni, des Maghrébins et des Sénégalais vers la France, et des Turcs, vers la Belgique et l’Allemagne. Les mêmes questionnements surgissent : faut-il les intégrer à la communauté nationale ou les laisser à part, dans l’idée d’un départ à plus ou moins court terme ?

    Le « grand remplacement », une théorie complotiste

    La question se pose différemment à partir des années 1970, quand s’affirme un #islam_politique. De nouvelles craintes apparaissent, attisées par des délires complotistes. Les élites européennes, évidemment corrompues, favoriseraient ce mouvement, prêtes à vendre leur civilisation pour une poignée de pétro-dollars. Un pacte secret aurait même été signé avec la Ligue arabe afin d’islamiser l’Europe. Une littérature raciste et complotiste alimente ces théories. C’est là que l’on retrouve l’essayiste d’extrême droite #Renaud_Camus, qui publie en 2011 Le Grand Remplacement.

    Ces théoriciens, issus de l’#extrême_droite conspirationniste, ne visent pas seulement les musulmans mais aussi ceux qu’ils considèrent comme leur complices, qu’ils appellent les #islamo-gauchistes. Leurs écrits conduisent à de terribles passages à l’acte, comme par exemple, toujours en 2011, #Anders_Breivik qui attaque de jeunes militants travaillistes sur l’île d’Utøya en Norvège et provoque la mort de 85 personnes. Breivik ne visait pas des musulmans mais celles et ceux qui, selon lui, organisaient la « #colonisation_islamique » de l’Europe.

    La théorie complotiste du « grand remplacement », en soit intenable, repose sur une idée fausse : une Europe historiquement homogène par sa population, sa religion. « Il est certain que l’Europe de 2072 ne sera pas celle de 2022, tout comme celle de 2022 n’est pas celle de 1972. Mais l’Europe ne sera submergée ni par l’immigration ni par l’islamisation », explique John Tolan. Sinon par une invasion de #peurs et de préjugés !

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/histoire-des-prejuges/prejuge-les-immigres-veulent-islamiser-l-europe-4609034
    #préjugés #idées_reçues #migrations #islam #grand_remplacement #croyances #narration #islamo-gauchisme #complotisme #idées-reçues

    • https://www.youtube.com/watch?v=s25awGURcPs

      ""Passeranno i morti, ma resteranno i sogni" - sussurro’ Mimma.
      I due camerata fascisti la trascinarono nel mezzo della strada, in modo che dalla casa si potesse vedere bene.
      Il piu’ giovane la prese da dietro, avvinghiandole il collo con un braccio.
      Lei aveva le mani legate e non riusciva a muoverle.
      Nonostante le torture di quegli interminabili giorni era ancora lucida, ma non oppose resistenza.
      «Li’ ci sono i tuoi genitori» - le disse l’ufficiale del plotone - non li vedrai piu’, se non parli".
      «Passeranno i morti, ma resteranno i sogni», sussurro’ ancora Mimma.
      Come una litania, lo ripeteva continuamente. Ed era un sollievo, rinnovato ogni volta.
      Durante le torture, l’aveva aiutata a non cedere, a non fare i nomi dei suoi ragazzi, come lei li chiamava.
      Sapeva cosa le sarebbe accaduto se l’avessero catturata, c’erano molti corpi esposti a monito nelle strade.
      Ma aveva conquistato da tempo la loro fiducia, e non avrebbe mai deluso i compagni, sapeva anche questo.
      «Che fatica - penso’ - fargli vincere la diffidenza. Mi credevano sofisticata, benestante, senza capire che fossi ribelle nel cuore e che solo al cuore obbedisco».
      Il gerarca fascista si avvicino’.
      Le strinse il viso fra le mani, la guardo’ fissa negli occhi: «Se non parli ti ammazziamo qui, in mezzo alla strada, come una cagna».
      Lo disse con una spaventosa fermezza. Una fermezza quasi meccanica, algida.
      Mimma lo scruto’ come si osserva un’immagine lontana, sfuocata, indefinibile con certezza.
      Ma poi sorrise, quel suo sorriso ancora splendido in una cornice di lividi e sangue.
      «No», disse, «non lo faro’».
      L’ufficiale fascista si allontano’. Le spinse forte il capo all’indietro, lo sguardo intriso di odio, le labbra strette e sprezzanti.
      Si fece consegnare un bastone e lo porse a un graduato. Uno con la faccia da sadico, un coacervo di odio e barbarie.
      «Cancella quegli occhi ribelli dal mondo. - gli disse - Lo facciamo qui, davanti a suo padre».
      «Passeranno i morti, ma resteranno i sogni», disse a voce alta Mimma.
      Il gerarca esplose tra gli urli:
      «Cosa dici, bastarda? Cosa dici?! Sei morta, puttana! Sei morta!»
      Le si mise davanti e sputo’ sul selciato.
      Il boia strinse i pugni nel bastone, i due camerata la distesero a terra.
      Ormai non lo sentiva piu’, il dolore. Le tumefazioni, le ferite, l’avevano stordita per giorni. Ma adesso il corpo era quasi distante, quasi clemente.
      Guardo’ il cielo, e tutto quell’azzurro la fece piangere.
      Ma non era paura, la paura era scomparsa da tempo. Era una sensazione piu’ ampia, piu’ intensa.
      Erano lacrime per il mondo, che non avrebbe piu’ visto. Erano lacrime di rabbia, di odio e di guerra. Ma era un pianto d’amore. Per i ragazzi, che non aveva tradito, e di gioia, per non avere mancato.
      Aspiro’ aria a pieni polmoni, come a riempirsi di azzurro del cielo.
      «Si vive di attimi, - penso’ - e si muore di assenze».
      L’accecarono.
      Per un attimo fu il buio.
      Poi senti’ l’esplosione dei colpi, il calore nel corpo.
      Penso’ come fosse irreale morire in quel modo. Ma sapeva che la morte l’aveva scelta, e non importava come, e neppure perche’. Siamo effetti collaterali di coscienza e speranza.
      Il suo corpo fu lasciato per terra.
      Il suo ricordo dimora nella luce."

      –—

      Irma Bandiera (Bologna, 8 aprile 1915 – Bologna, 14 agosto 1944) è stata una partigiana italiana, Medaglia d’oro al valor militare (alla memoria).

      https://it.wikipedia.org/wiki/Irma_Bandiera

      #Irma_Bandiera #Mimma #partisans #résistance #WWII #seconde_guerre_mondiale #Italie #théâtre #anti-fascisme #femmes_partisanes #femmes_résistantes #femmes

  • La #mémoire de la #Résistance au travers des #noms_de_rues

    Héritage du Moyen Âge, les noms de rues ont progressivement évolué d’une origine vernaculaire vers un système honorifique et mémoriel. Aux dénominations anciennes –souvent très pittoresques – ont succédé des appellations destinées à perpétuer le souvenir d’événements marquants ou à honorer des personnalités. Au même titre que les monuments, plaques ou stèles, les noms de rues[1] sont ainsi devenus de véritables lieux de mémoire. Quelle est la trace laissée à cet égard par la Résistance ?

    Définition et constitution du corpus

    Plutôt que les rues rendant globalement hommage à la Résistance ou aux victimes de la répression allemande, ont été sélectionnées ici celles qui, idéologiquement et politiquement plus clivantes, sont dédiées, par la volonté des conseils municipaux, à la mémoire de tel résistant ou de tel autre ; ce qui, au-delà, traduit une représentation spécifique de la Résistance.

    Le choix a obéi à plusieurs critères. Afin d’éviter des interférences avec une carrière ultérieure, n’ont été retenus que les résistants morts pendant la guerre, ce qui exclut par exemple de Gaulle, Leclerc, Edmond Michelet, le colonel Rémy etc. Par ailleurs, les figures purement locales de la Résistance échappant matériellement aux possibilités d’identification à l’échelle du pays entier, le corpus se limite aux hommes et femmes dont la renommée a largement franchi les limites départementales. À partir de cette liste a été établie une base de données comportant près de 4 400 rues de France, dont émergent très clairement une vingtaine de noms.

    Cependant, l’hommage rendu aux résistants est sensiblement plus large que ne le laisse deviner la perspective offerte ici. Si la ville de Caen n’a ainsi consacré la mémoire que d’une seule figure de premier plan (Fred Scamaroni), elle a attribué à une trentaine de ses rues le nom de résistants locaux. De même, dans les quarante communes de Seine-Saint-Denis, une soixantaine de voies leur sont dédiées.

    Répartition spatiale

    La répartition spatiale dépend de plusieurs paramètres : la couleur politique des conseils municipaux, mais aussi le nombre de communes et de voies par département, ou encore le caractère dominant de chacun d’eux (rural ou urbain) en gardant à l’esprit que la Résistance a été un phénomène touchant davantage les villes que les campagnes.

    La première carte recense la totalité des rues vouées à la mémoire des résistants retenus. À sa manière, elle peut donner une indication sur le degré d’attachement des différentes régions envers la mémoire nationale de la Résistance. On remarquera le faible hommage qui lui est rendu en Alsace, dans l’Ouest intérieur ou le sud du Massif central. La région parisienne, le quart nord de la France, le littoral méditerranéen et le couloir rhodanien se distinguent en sens inverse.

    Compte tenu du poids occupé par les rues « Jean Moulin » au sein de l’échantillon (50 %), leur représentation est assez proche de la carte précédente. On observera toutefois que les rues à son nom étaient surtout situées avant 1964 dans les villes liées à sa vie personnelle, à sa carrière ou à ses activités de résistant. Par la suite, sa mémoire a été honorée – à des degrés divers – dans l’ensemble du pays.

    La carte des rues dédiées aux principales figures communistes de la Résistance, regroupées pour la circonstance, montre certaines analogies avec les deux précédentes, avec toutefois une concentration plus forte dans certaines régions (Nord, banlieue parisienne, Var, Meurthe-et-Moselle), mais aussi une large zone de faiblesse à l’ouest d’une diagonale allant du Havre à Marseille. Cette distribution, pas totalement conforme avec le vote communiste en 1945 ( Les élections à la première Assemblée constituante), illustre le décalage mémoriel entre les anciennes zones de maquis (Massif central, Alpes etc.) et les régions de résistance urbaine.

    Chronologie des dénominations

    Un échantillon formé à partir de 565 questionnaires retournés par des mairies permet d’esquisser une approche chronologique. La Libération est marquée par une forte effervescence dénominative. Si certains choix s’avèrent consensuels (Avenue de la Résistance, rue des Martyrs, etc.), on remarque cependant, notamment dans la banlieue parisienne, la forte émergence d’une mémoire spécifiquement communiste se concentrant autour de quelques noms (Gabriel Péri, Danielle Casanova, Pierre Semard, le colonel Fabien etc.) avec lesquels rivalisent essentiellement ceux de Pierre Brossolette ou d’Honoré d’Estienne d’Orves.

    La Guerre froide marque un coup d’arrêt à cette tendance, alors même que le nombre total des voies recevant le nom d’un résistant décroît fortement sous la IVe République.

    Le retour au pouvoir de De Gaulle en 1958 et, plus encore, la fin de la guerre d’Algérie marquent un incontestable regain, mais essentiellement au profit de la mémoire gaulliste de la Résistance. Jean Moulin, jusqu’alors assez délaissé, en est le principal bénéficiaire, surtout après le transfert de ses cendres au Panthéon en 1964 qui enclenche un mouvement de grande ampleur dans l’ensemble du pays. Au cours des quatre décennies suivantes, il monopolise 70 % des nouvelles dénominations.

    Depuis le milieu des années 1970, on observe un recul général du nombre de voies ayant reçu le nom d’un résistant de premier plan[2]. Ce phénomène pourrait être lié à la concurrence d’autres mémoires comme au fait que la création de rues nouvelles est désormais principalement liée à l’extension des communes périurbaines où les dénominations sont souvent d’ordre floral, artistique ou vernaculaire.

    [1] Entendons par-là l’ensemble des voies publiques : rues, boulevards, avenues, places, ponts etc.

    [2] L’année 1983, qui marque le quarantième anniversaire de la mort de Jean Moulin, fait exception.

    https://atlasfrance.hypotheses.org/15384
    #toponymie #odonymie #WWII #seconde_guerre_mondiale #deuxième_guerre_mondiale #cartographie #visualisation #France

  • Au procès de Nuremberg,un acte d’accusation en cartes et graphiques
    https://www.visionscarto.net/cartes-graphiques-au-proces-nuremberg

    par RJ Andrews Data storyteller, RJ Andrews accompagne les organisations pour résoudre des problèmes complexes à l’aide de métaphores visuelles et de graphiques d’information. Ses livres sont disponibles sur le site de Visionary Press. Cet article, traduit par Isabelle Saint-Saëns, a été initialement publié en anglais, dans Chartography, sous le titre « This Chart Kills Fascists - Information graphics from the Nuremberg trials » (12 avril 2024). En regardant la série Masters of the (...) Billets

    #Billets_

  • Campi di lavoro e lavoro nei campi

    Dall’agosto 1940 e fino alla fine del 1945 vennero internati, in numerosi campi sparsi sull’insieme del territorio ticinese, mediamente circa un migliaio di soldati stranieri, i quali rappresentarono una categoria specifica dell’insieme dei profughi accolti durante la Seconda guerra mondiale. Si trattò in gran parte di soldati polacchi, ma nei campi allestiti in Ticino risiedettero per periodi di tempo variabili pure francesi, italiani, tedeschi, austriaci, sovietici, indiani e vietnamiti, nonché un contingente di combattenti provenienti dal continente africano. Chi erano questi uomini? A quale regime furono sottoposti e perché? Dove sorsero i campi in cui furono confinati? Come trascorrevano le loro giornate? Quali furono i rapporti con la popolazione locale? Quale memoria della loro presenza si è sedimentata in Ticino? Attingendo a fonti archivistiche sinora poco sfruttate, il volume analizza e approfondisce il tema dell’internamento militare sul piano regionale, facendolo costantemente dialogare in senso verticale con quello nazionale. La pluralità degli approcci adottati e dei punti di vista considerati ha consentito di fare emergere alcune specificità ticinesi e, in altri casi, di fare luce su aspetti finora poco studiati dell’internamento militare nel suo insieme. Colmando una lacuna storiografica e fornendo un quadro esaustivo delle coordinate geografiche e temporali dell’internamento militare, il libro si presta a fungere da strumento imprescindibile per chiunque voglia affrontare la tematica della presenza di internati militari in Ticino ed eventualmente approfondirla sul piano locale.

    #livre
    #camps_de_travail #Tessin #Suisse #histoire #réfugiés_ukrainiens #réfugiés_polonais #Pologne #deuxième_guerre_mondiale #seconde_guerre_mondiale #WWII #mémoire

    • Polish Army in Insubrica region: the case study of Polish internees in Losone

      During the German campaign in the West, in June 1940, 2nd Polish Infantry Division under command of Bronisław Prugar-Ketling (1891-1948) was sent to the French region of Belfort to support 8th French army. After being cut off from supply, approximately 12,000 to 13,000 Polish soldiers of this Infantry Division, crossed the Swiss border on 19-20 June 1940, south of Ajoie, avoiding thus the German capture.

      The soldiers were interned in Switzerland according to the Hague Convention. After a failed attempt to concentrate all Pole servicemen in only one camp in Büren an der Aare, Polish soldiers were dispersed throughout Switzerland. From 1941, barrack camps were set up in all Switzerland, where these Poles soldiers were interned until December 1945. In the Insubrica region, many Polish soldiers were gathered and managed in Losone, nearby Locarno and Ascona.

      These interned Poles soldiers made mainly group-wise work assignments for the Swiss national defence works, related to the national infrastructure like constructions of roads and bridges, drainage of swamps as well as general works in the agriculture. A total of 450 kilometers in paths, bridges and canals were built alone in Ticino by these servicemen. At present, monuments and commemorative plaques commemorate the involuntary stay of these Polish soldiers people throughout the Ticino region. After the war, around 500 Poles were able to settle down in Switzerland, obtaining the Swiss citizenship.

      In addition to building and paving roads between Arcegno and Golino in the Canton Ticino, the Polish army soldiers, interned in the Losone camp during 1941-1945, worked hard to reclaim approximately 100 hectares of the land in the municipality of Losone between “Saleggi” and “Gerre”. This hard work reshaped radically the landscape of the region in the mid of the 1940s.

      Thanks to the intervention of Polish soldiers, a large amount of uncultivated agricultural areas in Ticino could be developed and, later, transformed in tourist and industrial zones.

      A hard work of Polish prisoners allowed a creation of a very important agricultural zone in Losone that persisted for many years until a construction of the famous 18 holes Golf place (shown in the centre of the map that can be seen above).

      Further in the North, in the 1980’s, an important industrial settlement called “Zandone” was created (on the left side of the above shown map). The Polish work allowed to erect a large camping in Melezza and the “Scuderia delle cavalli delle Gerre” in the area of Zandone. Between Arcegno and Golino, Polish soldiers managed to pave a road, that is named today “strada dei polacchi” (in English: Polish road).

      Polish soldiers were interned also in other parts of Switzerland and left unmistakable traces of their hard work. There are several so-called Polenweg‘s, which are roads that were built by Polish soldiers during the Second World War in Switzerland.

      https://insubricahistorica.ch/blog/2018/04/16/polish-army-in-insubrica-region-case-of-losone
      #Losone

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      Gli internati polacchi nel Locarnese e Valle Maggia

      Avevamo già scritto nell’aprile 2018 su Insubrica Historica un breve contributo sugli internati polacchi nella regione Insubrica. Durante dei lavori di ricerca per un imminente pubblicazione di Insubrica Historica sul Locarnese, abbiamo ritrovato ulteriori dettagli, che valgono la pena di essere condivisi.

      La presenza degli internati polacchi in Ticino e soprattutto nel Locarnese è legata soprattutto alla caserma di Losone posta nella località Piana di Arbigo, la quale ospitò ben oltre la fine del conflitto un ingente numero di soldati polacchi, circa un migliaio. Da questa caserma vennero impiegati per diversi lavori di bonifica. La loro presenza viene ricordata nel Locarnese per la Strada dei Polacchi da Arcegno a Golino, o ancora ad Orselina per la cappella della Madonna di “Ostra Brama”.

      Vi erano però diversi altri campi di lavoro distribuiti nella regione, i quali ospitavano anche loro soldati polacchi. In particolare grazie ad un recente articolo di Fabio Cheda Gli internati polacchi a Maggia, vi sono alcuni dettagli di questi campi nella Valle Maggia.

      I campi erano distribuiti nella maniera seguente: ai Ronchini di Aurigeno (15-30 militi), a Bignasco (10-15 militi), a Cevio (40-50 militi), a Linescio (30-35 militi), presso l’edificio “Cortao di Bonitt” a Maggia (30-35 militi), al Piano di Peccia (fino a 15 militi) e a San Carlo (100-200 militi). Nella sola Valle Maggia vi era circa il 15% (n=200) del totale dei soldati polacchi internati in Svizzera (n=12’000) durante la guerra. La maggior parte di loro erano entrati in Svizzera nella regione del Giura Francese, duranta la disfatta dell’esercito francese nell’estate del 1940.

      L’ubicazione di alcuni di questi campi e località di lavoro come a Lodano, lascia dedurre che l’impiego di questi soldati non era confinato al solo settore agricolo ma soprattutto anche nel disboscamento delle superfici forestali della Valle.

      «Questi baldi giovanotti facevano girare spesso la testa alle ragazze e alle mogli locali, tenendo in considerazione che gran parte degli uomini del paese erano impegnati nel servizio militare. È appurato che i Polacchi abbiano lasciato il segno: una donna si presentò un giorno ai capi responsabili mostrando il ventre gonfio…» (Fabio Cheda, A tu per tu, Dicembre 2020)

      Sempre secondo Fabio Cheda, il rapporto dei soldati polacchi con la popolazione era esemplare. Molto positivo, soprattutto con le signorine della Valle, tanto che vennero celebrati anche dei matrimoni.

      Non tutti i soldati polacchi ebbero la pazienza di restare fino alla fine del conflitto, oppure di ritornare in Pologna. Ve ne sono alcuni che riuscirono anche a fuggire da questi campi di lavoro prima e dopo il conflitto, i quali pur essendo controllati da soldati dell’esercito Elvetico, non sottostavano a rigida disciplina, come invece si ebbe in altri campi soprattutto della Svizzera tedesca.

      https://insubricahistorica.ch/blog/2021/09/30/gli-internati-polacchi-nel-locarnese-e-valle-maggia
      #internement #internés

    • Internati polacchi in Svizzera tra guerra, lavoro e sentimento

      Un’analisi storica sulla presenza degli internati militari polacchi in Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale vuole essere un momento prezioso per una riflessione su noi stessi e sulla nostra terra elvetica: terra di transito in cui i nostri orizzonti hanno potuto incontrarsi, per pochi anni, con un popolo straordinario, che nel dolore, nella perdita e nella sofferenza del conflitto ha saputo dare, oltre che il suo sudore del lavoro - fondamentale per il nostro Paese - durante l’internamento, un esempio unico di dignità, di comunanza e di fratellanza.
      Al di là della politica e delle vicissitudini belliche, gli uomini hanno saputo ritrovarsi, anche soltanto per un istante.

      https://www.editore.ch/shopvm/varia/internati-polacchi-in-svizzera-tra-guerra-lavoro-e-sentimento-detail.html

    • Dans cet article, on apprend qu’elle a été mandatée par le Secrétariat d’État chargé des Anciens Combattants et de la Mémoire pour participer à la dernière journée durant laquelle a eu lieu la cession officielle des archives sur Thiaroye au Sénégal. Elle a donc entendu le président Hollande évoquer au moins soixante-dix morts.

      #historienne_de_prefecture