• Let It Rain


      https://www.youtube.com/watch?v=JVl49s8Fn-Q&t=62s

      Born under siege, a place where you can’t leave
      Smoke’s in the air, so it makes it hard to breathe
      I need my family, protect them from the disease
      I went to chase my dreams, hoping that they rescue me

      Made it out the maze, God’s been blessing me
      First time in LA [1], got Gaza next to me
      It’s in my heart, it’s in my veins
      I’ve been smiling at the pain
      The bombs lit up the night sky and turn them into day

      It’s hard to come up with the right rhymes, I don’t know what to say
      I start to cry when I write mine, it happens every day
      A lot of death in my lifetime, all I do is pray
      This is my story from the sideline, this life is not a game

      I want to call my momma, I hope she charged her phone
      Hope my brother’s not alone
      Hope that one day they’ll be grown
      This is genocide, but this time it is televised
      Don’t believe all that you see, cause they’re be telling lies

      I count my blessings, not the problems
      From the bottom, where the robbers acting violent
      Killing toddlers, bombing us with helicopters
      They seeing me on a TV and they calling me the monster?
      That only makes me stronger This is me against the world
      So I’m doing it for the world
      This is me against the world
      So I’m doing it for the world

      I was in the studio, chopping up samples
      Electricity’s off, we sleep with the candles
      Sleeping in our sandals and leave the doors open
      Cause the bombs fall there’s no time to grab the handles

      Writing names on our hands just to identify
      With somebody’s faces off, it makes them hard to recognize
      Been through so many wars, I forgot to mention
      I can calculate the distance of the airplane engine

      You think you’re from the trenches? Nah, these the trenches
      Kids close their eyes and block their ears, they block their senses
      This war is senseless, they treat us like animals
      I’ll never understand why they built the fences I just wanna see my dream of peace to come true
      Refugee in my land, nowhere to run to
      I keep the hope when there was no sunshine
      They cut the water off, so God let it rain sometime

      Chorus

      This is me against the world
      So I’m doing it for the world
      This is me against the world
      So I’m doing it for the world

      #rap #Gaza #musique #chanson #musique_et_politique #génocide #Palestine #Israël #siège #bombardement #pluie #eau #mur

  • Quei bambini chiusi in trappola a Gaza. Il racconto di #Ruba_Salih
    (une interview de Ruba Salih, prof à l’Université de Bologne, 5 jours après le #7_octobre_2023)

    «Mai come in queste ore a Gaza il senso di appartenere a una comune “umanita” si sta mostrando più vuoto di senso. La responsabilità di questo è del governo israeliano», dice Ruba Salih antropologa dell’università di Bologna che abbiamo intervistato mentre cresce la preoccupazione per la spirale di violenza che colpisce la popolazione civile palestinese e israeliana.

    Quali sono state le sue prime reazioni, sentimenti, pensieri di fronte all’attacco di Hamas e poi all’annuncio dell’assedio di Gaza messo in atto dal governo israeliano?

    Il 7 ottobre la prima reazione è stata di incredulità alla vista della recinzione metallica di Gaza sfondata, e alla vista dei palestinesi che volavano con i parapendii presagendo una sorta di fine dell’assedio. Ho avuto la sensazione di assistere a qualcosa che non aveva precedenti nella storia recente. Come era possibile che l’esercito più potente del mondo potesse essere sfidato e colto così alla sprovvista? In seguito, ho cominciato a chiamare amici e parenti, in Cisgiordania, Gaza, Stati Uniti, Giordania. Fino ad allora si aveva solo la notizia della cattura di un numero imprecisato di soldati israeliani. Ho pensato che fosse una tattica per fare uno scambio di prigionieri. Ci sono più di 5000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane e 1200 in detenzione amministrativa, senza processo o accusa. Poi sono cominciate da domenica ad arrivare le notizie di uccisioni e morti di civili israeliani, a cui è seguito l’annuncio di ‘guerra totale’ del governo di Netanyahu. Da allora il sentimento è cambiato. Ora grande tristezza per la quantità di vittime, dell’una e dell’altra parte, e preoccupazione e angoscia senza precedenti per le sorti della popolazione civile di Gaza, che in queste ore sta vivendo le ore piu’ drammatiche che si possano ricordare.

    E quando ha visto quello che succedeva, con tantissime vittime israeliane, violenze terribili, immagini di distruzione, minacce di radere al suolo Gaza?

    Colleghi e amici israeliani hanno cominciato a postare immagini di amici e amiche uccisi – anche attivisti contro l’occupazione- e ho cominciato dolorosamente a mandare condoglianze. Contemporaneamente giungevano terribili parole del ministro della Difesa israeliano Gallant che definiva i palestinesi “animali umani”, dichiarando di voler annientare la striscia di Gaza e ridurla a “deserto”. Ho cominciato a chiamare amici di Gaza per sapere delle loro famiglie nella speranza che fossero ancora tutti vivi. Piano piano ho cominciato a cercare di mettere insieme i pezzi e dare una cornice di senso a quello che stava succedendo.

    Cosa può dirci di Gaza che già prima dell’attacco di Hamas era una prigione a cielo aperto?

    Si, Gaza è una prigione. A Gaza la maggior parte della popolazione è molto giovane, e in pochi hanno visto il mondo oltre il muro di recinzione. Due terzi della popolazione è composto da famiglie di rifugiati del 1948. Il loro vissuto è per lo più quello di una lunga storia di violenza coloniale e di un durissimo assedio negli ultimi 15 anni. Possiamo cercare di immaginare cosa significa vivere questo trauma che si protrae da generazioni. Gli abitanti di Gaza nati prima del 1948 vivevano in 247 villaggi nel sud della Palestina, il 50% del paese. Sono stati costretti a riparare in campi profughi a seguito della distruzione o occupazione dei loro villaggi. Ora vivono in un’area che rappresenta l’1.3% della Palestina storica con una densità di 7000 persone per chilometro quadrato e le loro terre originarie si trovano a pochi metri di là dal muro di assedio, abitate da israeliani.

    E oggi?

    Chi vive a Gaza si descrive come in una morte lenta, in una privazione del presente e della capacità di immaginare il futuro. Il 90% dell’acqua non è potabile, il 60% della popolazione è senza lavoro, l’80% riceve aiuti umanitari per sopravvivere e il 40% vive al di sotto della soglia di povertà: tutto questo a causa dell’ occupazione e dell’assedio degli ultimi 15 anni. Non c’è quasi famiglia che non abbia avuto vittime, i bombardamenti hanno raso al suolo interi quartieri della striscia almeno quattro volte nel giro di una decina di anni. Non credo ci sia una situazione analoga in nessun altro posto del mondo. Una situazione che sarebbe risolta se Israele rispettasse il diritto internazionale, né più né meno.

    Prima di questa escalation di violenza c’era voglia di reagire, di vivere, di creare, di fare musica...

    Certo, anche in condizioni di privazione della liberta’ c’e’ una straordinaria capacità di sopravvivenza, creatività, amore per la propria gente. Tra l’altro ricordo di avere letto nei diari di Marek Edelman sul Ghetto di Varsavia che durante l’assedio del Ghetto ci si innamorava intensamente come antidoto alla disperazione. A questo proposito, consilgio a tutti di leggere The Ghetto Fights di Edelman. Aiuta molto a capire cosa è Gaza in questo momento, senza trascurare gli ovvi distinguo storici.

    Puoi spiegarci meglio?

    Come sapete il ghetto era chiuso al mondo esterno, il cibo entrava in quantità ridottissime e la morte per fame era la fine di molti. Oggi lo scenario di Gaza, mentre parliamo, è che non c’è elettricità, il cibo sta per finire, centinaia di malati e neonati attaccati alle macchine mediche hanno forse qualche ora di sopravvivenza. Il governo israeliano sta bombardando interi palazzi, le vittime sono per più della metà bambini. In queste ultime ore la popolazione si trova a dovere decidere se morire sotto le bombe in casa o sotto le bombe in strada, dato che il governo israeliano ha intimato a un milione e centomila abitanti di andarsene. Andare dove? E come nel ghetto la popolazione di Gaza è definita criminale e terrorista.

    Anche Franz Fanon, lei suggerisce, aiuta a capire cosa è Gaza.

    Certamente, come ho scritto recentemente, Fanon ci viene in aiuto con la forza della sua analisi della ferita della violenza coloniale come menomazione psichica oltre che fisica, e come privazione della dimensione di interezza del soggetto umano libero, che si manifesta come un trauma, anche intergenerazionale. La violenza prolungata penetra nelle menti e nei corpi, crea una sospensione delle cornici di senso e delle sensibilità che sono prerogativa di chi vive in contesti di pace e benessere. Immaginiamoci ora un luogo, come Gaza, dove come un rapporto di Save the Children ha riportato, come conseguenza di 15 anni di assedio e blocco, 4 bambini su 5 riportano un vissuto di depressione, paura e lutto. Il rapporto ci dice che vi è stato un aumento vertiginoso di bambini che pensano al suicidio (il 50%) o che praticano forme di autolesionismo. Tuttavia, tutto questo e’ ieri. Domani non so come ci sveglieremo, noi che abbiamo il privilegio di poterci risvegliare, da questo incubo. Cosa resterà della popolazione civile di Gaza, donne, uomini bambini.

    Come legge il sostegno incondizionato al governo israeliano di cui sono pieni i giornali occidentali e dell’invio di armi ( in primis dagli Usa), in un’ottica di vittoria sconfitta che abbiamo già visto all’opera per la guerra Russia-Ucraina?

    A Gaza si sta consumando un crimine contro l’umanità di dimensioni e proporzioni enormi mentre i media continuano a gettare benzina sul fuoco pubblicando notizie in prima pagina di decapitazioni e stupri, peraltro non confermate neanche dallo stesso esercito israeliano. Tuttavia, non utilizzerei definizioni statiche e omogeneizzanti come quelle di ‘Occidente’ che in realtà appiattiscono i movimenti e le società civili sulle politiche dei governi, che in questo periodo sono per lo più a destra, nazionalisti xenofobi e populisti. Non è sempre stato così.

    Va distinto il livello istituzionale, dei governi e dei partiti o dei media mainstream, da quello delle società civili e dei movimenti sociali?

    Ci sono una miriade di manifestazioni di solidarietà ovunque nel mondo, che a fianco del lutto per le vittime civili sia israeliane che palestinesi, non smettono di invocare la fine della occupazione, come unica via per ristabilire qualcosa che si possa chiamare diritto (e diritti umani) in Palestina e Israele. Gli stessi media mainstream sono in diversi contesti molto più indipendenti che non in Italia. Per esempio, Bcc non ha accettato di piegarsi alle pressioni del governo rivendicando la sua indipendenza rifiutandosi di usare la parola ‘terrorismo’, considerata di parte, preferendo riferirsi a quei palestinesi che hanno sferrato gli attacchi come ‘combattenti’. Se sono stati commessi crimini contro l’umanità parti lo stabiliranno poi le inchieste dei tribunali penali internazionali. In Italia, la complicità dei media è invece particolarmente grave e allarmante. Alcune delle (rare) voci critiche verso la politica del governo israeliano che per esempio esistono perfino sulla stampa liberal israeliana, come Haaretz, sarebbero in Italia accusate di anti-semitismo o incitamento al terrorismo! Ci tengo a sottolineare tuttavia che il fatto che ci sia un certo grado di libertà di pensiero e di stampa in Israele non significa che Israele sia una ‘democrazia’ o perlomeno non lo è certo nei confronti della popolazione palestinese. Che Israele pratichi un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi è ormai riconosciuto da organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch, nonché sottolineato a più riprese dalla Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese.

    Dunque non è una novità degli ultimi giorni che venga interamente sposata la retorica israeliana?

    Ma non è una novità degli ultimi giorni che venga interamente sposata la narrativa israeliana. Sono anni che i palestinesi sono disumanizzati, resi invisibili e travisati. Il paradosso è che mentre Israele sta violando il diritto e le convenzioni internazionali e agisce in totale impunità da decenni, tutte le forme di resistenza: non violente, civili, dimostrative, simboliche, legali dei palestinesi fino a questo momento sono state inascoltate, anzi la situazione sul terreno è sempre più invivibile. Persino organizzazioni che mappano la violazione dei diritti umani sono demonizzate e catalogate come ‘terroristiche’. Anche le indagini e le commissioni per valutare le violazioni delle regole di ingaggio dell’esercito sono condotte internamente col risultato che divengono solo esercizi procedurali vuoti di sostanza (come per l’assassinio della reporter Shereen AbuHakleh, rimasto impunito come quello degli altri 55 giornalisti uccisi dall’esercito israeliano). Ci dobbiamo seriamente domandare: che cosa rimane del senso vero delle parole e del diritto internazionale?

    Il discorso pubblico è intriso di militarismo, di richiami alla guerra, all’arruolamento…

    Personalmente non metterei sullo stesso piano la resistenza di un popolo colonizzato con il militarismo come progetto nazionalistico di espansione e profitto. Possiamo avere diversi orientamenti e non condividere le stesse strategie o tattiche ma la lotta anticoloniale non è la stessa cosa del militarismo legato a fini di affermazione di supremazia e dominio di altri popoli. Quella dei palestinesi è una lotta che si inscrive nella scia delle lotte di liberazione coloniali, non di espansione militare. La lotta palestinese si collega oggi alle lotte di giustizia razziale e di riconoscimento dei nativi americani e degli afro-americani contro società che oggi si definiscono liberali ma che sono nate da genocidi, schiavitù e oppressione razziale. Le faccio un esempio significativo: la prima bambina Lakota nata a Standing Rock durante le lunghe proteste contro la costruzione degli olelodotti in North Dakota, che stanno espropriando e distruggendo i terre dei nativi e inquinando le acque del Missouri, era avvolta nella Kuffyah palestinese. Peraltro, il nazionalismo non è più il solo quadro di riferimento. In Palestina si lotta per la propria casa, per la propria terra, per la liberazione dalla sopraffazione dell’occupazione, dalla prigionia, per l’autodeterminazione che per molti è immaginata o orientata verso la forma di uno stato laico binazionale, almeno fino agli eventi recenti. Domani non so come emergeremo da tutto questo.

    Emerge di nuovo questa cultura patriarcale della guerra, a cui come femministe ci siamo sempre opposte…

    Con i distinguo che ho appena fatto e che ribadisco – ossia che non si può mettere sullo stesso piano occupanti e occupati, colonialismo e anticolonialismo -mi sento comunque di dire che una mobilitazione trasversale che aneli alla fine della occupazione deve essere possibile. Nel passato, il movimento femminista internazionalista tentava di costruire ponti tra donne palestinesi e israeliane mobilitando il lutto di madri, sorelle e figlie delle vittime della violenza. Si pensava che questo fosse un legame primario che univa nella sofferenza, attraversando le differenze. Ci si appellava alla capacità delle donne di politicizzare la vulnerabilità, convinte che nella morte e nel lutto si fosse tutte uguali. La realtà è che la disumanizzazione dei palestinesi, rafforzata dalla continua e sempre più violenta repressione israeliana, rende impossibile il superamento delle divisioni in nome di una comune umanità. Mentre i morti israeliani vengono pubblicamente compianti e sono degni di lutto per il mondo intero, i palestinesi – definiti ‘terroristi’ (anche quando hanno praticato forme non-violente di resistenza), scudi-umani, animali (e non da oggi), sono già morti -privati della qualità di umani- prima ancora di morire, e inscritti in una diversa classe di vulnerabilità, di non essenza, di disumanità.

    Antropologa dell’università di Bologna Ruba Salih si interessa di antropologia politica con particolare attenzione a migrazioni e diaspore postcoloniali, rifugiati, violenza e trauma coloniale, genere corpo e memoria. Più recentemente si è occupata di decolonizzazione del sapere e Antropocene e di politiche di intersezionalità nei movimenti di protesta anti e de-coloniali. Ha ricoperto vari ruoli istituzionali tra cui membro eletto del Board of Trustees del Arab Council for the Social Sciences, dal 2015 al 2019. È stata visiting professor presso varie istituzioni tra cui Brown University, University of Cambridge e Università di Venezia, Ca’ Foscari.

    https://left.it/2023/10/12/quei-bambini-chiusi-in-trappola-a-gaza-il-racconto-di-ruba-salih

    #Gaza #Israël #Hamas #violence #prison #Palestine #violence_coloniale #siège #trauma #traumatisme #camps_de_réfugiés #réfugiés #réfugiés_palestiniens #pauvreté #bombardements #violence #dépression #peur #santé_mentale #suicide #crime_contre_l'humanité #apartheid #déshumanisation #résistance #droit_international #lutte #nationalisme #féminisme #à_lire #7_octobre_2023

    • Gaza between colonial trauma and genocide

      In the hours following the attack of Palestinian fighters in the south of Israel Western observers, bewildered, speculated about why Hamas and the young Palestinians of Gaza, born and bred under siege and bombs, have launched an attack of this magnitude, and right now. Others expressed their surprise at the surprise.

      The Israeli government responded by declaring “total war”, promising the pulverization of Gaza and demanding the inhabitants to leave the strip, knowing that there is no escape. Mobilising even the Holocaust and comparing the fighters to the Nazis, the Israeli government engaged in an operation that they claim is aimed at the destruction of Hamas.

      In fact, as I am writing, Gaza is being razed to the ground with an unbearable number of Palestinian deaths which gets larger by the hour, with people fleeing under Israeli bombs, water, electricity and fuel being cut, hospitals – receiving one patient a minute – on the brink of catastrophe, and humanitarian convoys prevented from entering the strip.

      An ethnic cleansing of Palestinians in Gaza is taking place with many legal observers claiming this level of violence amounts to a genocide.

      But what has happened – shocking and terrible in terms of the number of victims – including children and the elderly – creates not only a new political scenario, but above all it also imposes a new frame of meaning.

      Especially since the Oslo accords onwards, the emotional and interpretative filter applying to the “conflict” has been the asymmetrical valuing of one life over the other which in turn rested on an expectation of acquiescence and acceptance of the Palestinians’ subalternity as a colonised people. This framing has been shattered.

      The day of the attack, millions of Palestinians inside and outside the occupied territories found themselves in a trance-like state – with an undeniable initial euphoria from seeing the prison wall of Gaza being dismantled for the first time. They were wondering whether what they had before their eyes was delirium or reality. How was it possible that the Palestinians from Gaza, confined in a few suffocating square kilometres, repeatedly reduced to rubble, managed to evade the most powerful and technologically sophisticated army in the world, using only rudimentary equipment – bicycles with wings and hang-gliders? They could scarcely believe they were witnessing a reversal of the experience of violence, accustomed as they are to Palestinian casualties piling up relentlessly under Israeli bombardments, machine gun fire and control apparatus.

      Indeed, that Israel “declared war” after the attack illustrates this: to declare war assumes that before there was “peace”. To be sure, the inhabitants of Sderot and southern Israel would like to continue to live in peace. For the inhabitants of Gaza, on the other hand, peace is an abstract concept, something they have never experienced. For the inhabitants of the strip, as well as under international law, Gaza is an occupied territory whose population – two million and three hundred thousand people, of which two thirds are refugees from 1948 – lives (or to use their own words: “die slowly”) inside a prison. Control over the entry and exit of people, food, medicine, materials, electricity and telecommunications, sea, land and air borders, is in Israeli hands. International law, correctly invoked to defend the Ukrainian people and to sanction the Russian occupier, is a wastepaper for Israel, which enjoys an impunity granted to no other state that operates in such violation of UN resolutions, even disregarding agreements they themselves signed, never mind international norms and conventions.

      This scaffolding has crucially rested on the certainty that Palestinians cannot and should not react to their condition, not only and not so much because of their obvious military inferiority, but in the warped belief that Palestinian subjectivity must and can accept remaining colonised and occupied, to all intents and purposes, indefinitely. The asymmetry of strength on the ground led to an unspoken – but devastatingly consequential – presumption that Palestinians would accept to be confined to a space of inferiority in the hierarchy of human life.

      In this sense, what is happening these days cannot be understood and analysed with the tools of those who live in “peace”, but must be understood (insofar as this is even possible for those who do not live in Gaza or the occupied Palestinian territories) from a space defined by the effects of colonial violence and trauma. It is to Franz Fanon that we owe much of what we know about colonial violence – especially that it acts as both a physical and psychic injury. A psychiatrist from Martinique who joined the liberation struggle for independence in Algeria under French colonial rule, he wrote at length about how the immensity and duration of the destruction inflicted upon colonised subjects results in a wide and deep process of de-humanisation which, at such a profound level, also compromises the ability of the colonised to feel whole and to fully be themselves, humans among humans. In this state of physical and psychic injury, resistance is the colonised subject’s only possibility of repair. This has been the case historically in all contexts of liberation from colonial rule, a lineage to which the Palestinian struggle belongs.

      It is in this light that the long-lasting Palestinian resistance of the last 75 years should be seen, and this is also the key to understanding the unprecedented events of the last few days. These are the result, as many observers – including Israeli ones – have noted, of the failure of the many forms of peaceful resistance that the Palestinians have managed to pursue, despite the occupation, and which they continue to put into play: the hunger strikes of prisoners under “administrative detention”; the civil resistance of villagers such as Bil’in or Sheikh Jarrah who are squeezed between the separation wall, the expropriation of land and homes, and suffocated by the increasingly aggressive and unstoppable expansion of settlements; the efforts to protect the natural environment and indigenous Palestinian culture, including the centuries-old olive trees so often burnt and vandalised by settlers; the Palestinian civil society organisations that map and report human rights violations – which make them, for Israel, terrorist organisations; the struggle for cultural and political memory; the endurance of refugees in refugee camps awaiting implementation of their human rights supported by UN resolutions, as well as reparation and recognition of their long term suffering; and, further back in time, the stones hurled in resistance during the first Intifada, when young people with slingshots threw those same stones with which Israeli soldiers broke their bones and lives, back to them.

      Recall that, in Gaza, those who are not yet twenty years old, who make up about half the population, have already survived at least four bombing campaigns, in 2008-9, in 2012, in 2014, and again in 2022. These alone caused more than 4000 deaths.

      And it is again in Gaza that the Israeli tactic has been perfected of firing on protesters during peaceful protests, such as those in 2018, to maim the bodies – a cynical necropolitical calculation of random distribution between maimed and dead. It is not surprising, then, that in post-colonial literature – from Kateb Yacine to Yamina Mechakra, just to give two examples – the traumas of colonial violence are narrated as presence and absence, in protagonists’ dreams and nightmares, of amputated bodies. This is a metaphor for a simultaneously psychic and physical maiming of the colonised identity, that continues over time, from generation to generation.

      Despite their predicament as colonised for decades and their protracted collective trauma, Palestinians inside and outside of Palestine have however shown an incredible capacity for love, grief and solidarity over time and space, of which we have infinite examples in day-to-day practices of care and connectedness, in the literature, in the arts and culture, and through their international presence in other oppressed peoples’ struggles, such as Black Lives Matter and Native American Dakota protestors camps, or again in places such as the Moria camp in Greece.

      The brutality of a 16 years long siege in Gaza, and the decades of occupation, imprisonment, humiliation, everyday violence, death, grief – which as we write happen at an unprecedented genocidal intensity, but are in no way a new occurrence – have not however robbed people of Gaza, as individuals, of their ability to share in the grief and fear of others.

      “Striving to stay human” is what Palestinians have been doing and continue to do even as they are forced to make inhumane choices such as deciding who to rescue from under the rubbles based on who has more possibility to survive, as recounted by journalist Ahmed Dremly from Gaza during his brief and precious dispatches from the strip under the heavy shelling. This colonial violence will continue to produce traumatic effects in the generations of survivors. Yet, it has to be made clear that as the occupied people, Palestinians cannot be expected to bear the pain of the occupier. Equal standing and rights in life are the necessary preconditions for collective shared grief of death.

      Mahmoud Darwish wrote, in one of his essays on the “madness” of being Palestinian, written after the massacre of Sabra and Shatila in 1982, that the Palestinian “…is encumbered by the relentless march of death and is busy defending what remains of his flesh and his dream…his back is against the wall, but his eyes remain fixed on his country. He can no longer scream. He can no longer understand the reason behind Arab silence and Western apathy. He can do only one thing, to become even more Palestinian… because he has no other choice”.

      The only antidote to the spiral of violence is an end to the occupation and siege, and for Israel to fully comply with international law and to the UN resolutions, as a first and non-negotiable step. From there we can begin to imagine a future of peace and humanity for both Palestinians and Israelis.

      https://untoldmag.org/gaza-between-colonial-trauma-and-genocide
      #colonialisme #traumatisme_colonial #génocide

    • Can the Palestinian speak ?

      It is sadly nothing new to argue that oppressed and colonised people have been and are subject to epistemic violence – othering, silencing, and selective visibility – in which they are muted or made to appear or speak only within certain perceptual views or registers – terrorists, protestors, murderers, humanitarian subjects – but absented from their most human qualities. Fabricated disappearance and dehumanisation of Palestinians have supported and continue to sustain their physical elimination and their erasure as a people.

      But the weeks after October 7th have set a new bar in terms of the inverted and perverse ways that Palestinians and Israel can be represented, discussed, and interpreted. I am referring here to a new epistemology of time that is tight to a moral standpoint that the world is asked to uphold. In that, the acts of contextualising and providing historical depth are framed as morally reprehensible or straight out antisemitic. The idea that the 7th of October marks the beginning of unprecedented violence universalises the experience of one side, the Israeli, while obliterating the past decades of Palestinians’ predicament. More than ever, Palestinians are visible, legible, and audible only through the frames of Israeli subjectivity and sensibility. They exist either to protect Israel or to destroy Israel. Outside these two assigned agencies, they are not, and cannot speak. They are an excess of agency like Spivak’s subaltern,[1] or a ‘superfluous’ people as Mahmoud Darwish[2] put it in the aftermath of the Sabra and Chatila massacre. What is more is the persistent denying by Israel and its Western allies, despite the abundant historical evidence, that Palestinian indigenous presence in Palestine has always been at best absented from their gaze – ‘a problem’ to manage and contain – at worse the object of systemic and persistent ethnic cleansing and erasure aiming at fulfilling the narcissistic image of “a land without a people for a people without a land.” Yet, the erasure of Palestinians, also today in Gaza, is effected and claimed while simultaneously being denied.

      A quick check of the word “Palestine” on google scholar returns one million and three hundred thousand studies, nearly half of them written from the mid 1990s onwards. Even granting that much of this scholarship would be situated in and reproducing orientalist and colonial knowledges, one can hardly claim scarcity of scholarly production on the dynamics of subalternity and oppression in Palestine. Anthropology, literary theory, and history have detected and detailed the epistemological and ontological facets of colonial and post-colonial erasure. One might thus ask: how does the persistent denial of erasure in the case of Palestinians work? We might resort to psychoanalysis or to a particular form of narcissistic behaviour known as DAVRO – Deny, Attack, and Reverse Victim and Offender[3] – to understand the current pervading and cunning epistemic violence that Israel and its allies enact. Denying the radical obstructing and effacing of Palestinian life (while effecting it through settler-colonialism, settler and state violence, siege, apartheid, and genocidal violence in Gaza) is the first stage in Israel’s and western allies’ discursive manipulation. Attacking historicisation and contextualisation as invalid, antisemitic, propaganda, hate speech, immoral, outrageous, and even contrary to liberal values is the second stage. Lastly is the Reversing Victim and Offender by presenting the war on Gaza as one where Israel is a historical victim reacting to the offender, in response to demands that Israel, as the colonial and occupying power, takes responsibility for the current cycle of violence.

      This partly explains why the violent attack that Hamas conducted in the south of Israel last October, in which 1200 people were killed, is consistently presented as the start date of an ‘unprecedented’ violence, with more than 5000 Palestinians killed in carpet bombings of Gaza until 2022 doubly erased, physically and epistemically. With this, October 7th becomes the departure point of an Israeli epistemology of time assumed as universal, but it also marks an escalation in efforts to criminalise contextualisation and banish historicisation.

      Since October 7th, a plurality of voices – ranging from Israeli political figures and intellectuals, to mainstream and left-leaning journalists – has condemned efforts to inscribe Gaza into a long term history of colonialism as scurrilous justification for the killing of Israeli civilians. Attempts to analyse or understand facts through a historical and political frame, by most notably drawing attention to Gazans’ lived experience over the past 16 years (as a consequence of its long term siege and occupation) or merely to argue that there is a context in which events are taking place, such as General UN director Guterres did when he stated that October 7th “did not happen in a vacuum,” are represented as inciting terrorism or morally repugnant hate speech. In the few media reports accounting for the dire and deprived conditions of Palestinians’ existence in Gaza, the reasons causing the former are hardly mentioned. For instance, we hear in reports that Palestinians in Gaza are mostly refugees, that they are unemployed, and that 80% of them are relying on aid, with trucks of humanitarian aid deemed insufficient in the last few weeks in comparison to the numbers let in before the 7th of October. Astoundingly, the 56 years old Israeli occupation and 17 years old siege of Gaza, as root causes of the destruction of the economy, unemployment, and reliance on aid are not mentioned so that the public is left to imagine that these calamities are the result of Palestinians’ own doing.

      In other domains, we see a similar endeavour in preventing Palestine from being inscribed in its colonial context. Take for instance the many critical theorists who have tried to foreclose Franz Fanon’s analysis of colonial violence to Palestinians. Naming the context of colonial violence and Palestinians’ intergenerational and ongoing traumas is interpreted as morally corrupt, tantamount to not caring for Israeli trauma and a justification for the loss of Israeli lives. The variation of the argument that does refer to historical context either pushes Fanon’s arguments to the margins or argues that the existence of a Palestinian authority invalidates Fanon’s applicability to Palestine, denying therefore the effects of the violence that Palestinians as colonised subjects have endured and continue to endure because of Israeli occupation, apartheid, and siege.

      But perhaps one of the most disconcerting forms of gaslighting is the demand that Palestinians should – and could – suspend their condition of subordination, their psychic and physical injury, to centre the perpetrators’ feelings and grief as their own. In fact, the issue of grief has come to global attention almost exclusively as an ethical and moral question in reaction to the loss of Israeli lives. Palestinians who accept to go on TV are constantly asked whether they condemn the October 7th attack, before they can even dare talk about their own long history of loss and dispossession, and literally while their families are being annihilated by devastating shelling and bombing and still lying under the rubbles. One such case is that of PLO ambassador to the UK Hussam Zomlot, who lost members of his own family in the current attack, but was asked by Kirsty Wark to “condemn Hamas” on screen. To put it another way: would it even be conceivable to imagine a journalist asking Israeli hostages in captivity if they condemn the Israeli bombardments and the war on Gaza as a precondition to speak and be heard?

      “Condemning” becomes the condition of Palestinian intelligibility and audibility as humans, a proof that they share the universal idea that all human life is sacred, at the very moment when the sacrality of human life is violently precluded to them and when they are experiencing with brutal clarity that their existence as a people matters to no one who has the power to stop the carnage. This imperative mistakes in bad faith the principle that lives should have equal worth with a reality that for Palestinians is plainly experienced as the opposite of this postulate. Israel, on the other hand, is given “the extenuating circumstances” for looking after Israelis’ own trauma by conducting one of the most indiscriminate and ferocious attacks on civilians in decades, superior in its intensity and death rate to the devastation we saw in Afghanistan, Iraq, and Syria, according to the New York Times. Nearly 20.000 killed – mostly children, women, and elderly – razed, shelled, bulldozed while in their homes or shelters, in an onslaught that does not spare doctors, patients, journalists, academics, and even Israeli hostages, and that aims at making Gaza an unlivable habitat for the survivors.

      Let us go back to the frequently invoked question of “morality.” In commentaries and op-eds over the last few weeks we are told that any mention of context for the attacks of October 7th is imperiling the very ability to be compassionate or be moral. Ranging from the Israeli government that argues that a killing machine in Gaza is justified on moral grounds – and that contextualisation and historicisation are a distraction or deviation from this moral imperative – to those who suggest Israel should moderate its violence against Palestinians – such as New York times columnist Nicholas Kristof who wrote that “Hamas dehumanized Israelis, and we must not dehumanize innocent people in Gaza” – all assign a pre-political or a-political higher moral ground to Israel. Moreover, October 7th is said to – and is felt as – having awakened the long historical suffering of the Jews and the trauma of the Holocaust. But what is the invocation of the Holocaust – and the historical experience of European antisemitism – if not a clear effort at historical and moral contextualisation? In fact, the only history and context deemed evocable and valid is the Israeli one, against the history and context of Palestinians’ lives. In this operation, Israeli subjectivity and sensibility is located above history and is assigned a monopoly of morality with October 7th becoming an a-historical and a meta-historical fact at one and the same time. In this canvas Palestinians are afforded permission to exist subject to inhabiting one of the two agencies assigned to them: guardian of Israeli life or colonised subject. This is what Israeli president Herzog means when he declares that there are no innocents in Gaza: “It’s an entire nation out there that is responsible. This rhetoric about civilians not aware, not involved, it’s absolutely not true. They could’ve risen up, they could have fought against that evil regime”. The nearly twenty thousand Palestinian deaths are thus not Israel’s responsibility. Palestinians are liable for their own disappearance for not “fighting Hamas” to protect Israelis. The Israeli victims, including hundreds of soldiers, are, on the other hand, all inherently civilians, and afforded innocent qualities. This is the context in which Heritage Minister Amichai Eliyahu, of Itamar Ben Gvir’s far-right party in power, can suggest nuking Gaza or wiping out all residents: “They can go to Ireland or deserts, the monsters in Gaza should find a solution by themselves”. Let us not here be mistaken by conceding this might just be a fantasy, a desire of elimination: the Guardian and the +972/Local call magazines have provided chilling evidence that Palestinian civilians in Gaza are not “collateral” damage but what is at work is a mass assassination factory, thanks to a sophisticated AI system generating hundreds of unverified targets aiming at eliminating as many civilians as possible.

      Whether Palestinians are worthy of merely living or dying depends thus on their active acceptance or refusal to remain colonised. Any attempts to exit this predicament – whether through violent attacks like on October 7th or by staging peaceful civil tactics such as disobedience, boycott and divesting from Israel, recurrence to international law, peaceful marches, hunger strikes, popular or cultural resistance – are all the same, and in a gaslighting mode disallowed as evidence of Palestinians’ inherent violent nature which proves they need taming or elimination.

      One might be compelled to believe that dehumanisation and the logic of elimination of Palestinians are a reaction to the pain, sorrow, and shock generated by the traumatic and emotional aftermath of October 7th. But history does not agree with this, as the assigning of Palestinians to a non-human or even non-life sphere is deeply rooted in Israeli public discourse. The standpoint of a people seeking freedom from occupation and siege has consistently been reversed and catalogued as one of “terror and threat” to Israeli state and society when it is a threat to their colonial expansive or confinement plans, whether the latter are conceived as divinely mandated or backed by a secular settler-colonial imaginary. In so far as “terrorists” are birthed by snakes and wild beasts as Israeli lawmaker Ayelet Shaker states, they must be exterminated. Her words bear citation as they anticipate Gaza’s current devastation with lucid clarity: “Behind every terrorist stand dozens of men and women, without whom he could not engage in terrorism. They are all enemy combatants, and their blood shall be on all their heads”. Urging the killing of all Palestinians women, men, and children and the destruction of their homes, she continued: “They should go, as should the physical homes in which they raised the snakes. Otherwise, more little snakes will be raised there. They have to die and their houses should be demolished so that they cannot bear any more terrorists.” This is not an isolated voice. Back in 2016 Prime Minister Netanyahu argued that fences and walls should be built all around Israel to defend it from “wild beasts” and against this background retired Israeli general and former head of Intelligence Giora Eiland, in an opinion article in Yedioth Aharonoth on November 19, argues that all Palestinians in Gaza die of fast spreading disease and all infrastructure be destroyed, while still positing Israel’s higher moral ground: “We say that Sinwar (Hamas leader in Gaza, ndr) is so evil that he does not care if all the residents of Gaza die. Such a presentation is not accurate, since who are the “poor” women of Gaza? They are all the mothers, sisters, or wives of Hamas murderers,” adding, “And no, this is not about cruelty for cruelty’s sake, since we don’t support the suffering of the other side as an end but as a means.”

      But let us not be mistaken, such ascription of Palestinians to a place outside of history, and of humanity, goes way back and has been intrinsic to the establishment of Israel. From the outset of the settler colonial project in 1948, Palestinians as the indigenous people of the land have been dehumanised to enable the project of erasing them, in a manner akin to other settler colonial projects which aimed at turning the settlers into the new indigenous. The elimination of Palestinians has rested on more than just physical displacement, destruction, and a deep and wide ecological alteration of the landscape of Palestine to suit the newly fashioned Israeli identity. Key Israeli figures drew a direct equivalence between Palestinian life on the one hand and non-life on the other. For instance, Joseph Weitz, a Polish Jew who settled in Palestine in 1908 and sat in the first and second Transfer Committees (1937–1948) which were created to deal with “the Arab problem” (as the indigenous Palestinians were defined) speaks in his diaries of Palestinians as a primitive unity of human and non-human life.[4] Palestinians and their habitat were, in his words, “bustling with man and beast,” until their destruction and razing to the ground in 1948 made them “fossilized life,” to use Weitz’ own words. Once fossilised, the landscape could thus be visualised as an empty and barren landscape (the infamous desert), enlivened and redeemed by the arrival of the Jewish settlers.

      Locating events within the context and long durée of the incommensurable injustices inflicted upon the Palestinians since 1948 – which have acquired a new unimaginable magnitude with the current war on Gaza – is not just ethically imperative but also politically pressing. The tricks of DARVO (Denying Attacking and Reversing Victim and Offender) have been unveiled. We are now desperately in need of re-orienting the world’s moral compass by exposing the intertwined processes of humanisation and dehumanisation of Jewish Israelis and Palestinians. There is no other way to begin exiting not only the very conditions that usher violence, mass killings, and genocide, but also towards effecting the as yet entirely fictional principle that human lives have equal value.

      [1] Spivak, G. “Can the Subaltern Speak?” (1988). In Lawrence Grossberg and Cary Nelson, eds., Marxism and the Interpretation of Culture, pp. 271–313. Urbana: University of Illinois Press; Basingstoke: Macmillan.

      [2] Mahmoud Darwish, “The Madness of Being a Palestinian,” Journal Of Palestine Studies 15, no. 1 (1985): 138–41.

      [3] Heartfelt thanks to Professor Rema Hamami for alerting me to the notion of DAVRO and for her extended and invaluable comments on this essay.

      [4] Cited in Benvenisti M (2000) Sacred Landscape: The Buried History of the Holy Land since 1948. Berkeley: University of California Press. pp.155-156.

      https://allegralaboratory.net/can-the-palestinian-speak
      #violence_épistémique #élimination #in/visilité #nettoyage_ethnique #oppression #DAVRO

  • #Taux_de_change : retour sur la politique israélienne des #otages

    Eyal Weizman, fondateur du collectif Forensic Architecture, revient sur la manière dont les #civils installés autour de #Gaza ont servi de « #mur_vivant » lors des massacres du 7 octobre perpétrés par le #Hamas, et retrace l’évolution de la politique israélienne à l’égard des otages.

    Au printemps 1956, huit ans après la Nakba (un terme arabe qui désigne « la catastrophe » ou « le désastre » que fut pour les Palestiniens la création d’Israël), un groupe de fedayins palestiniens franchit le fossé qui sépare Gaza de l’État d’Israël. D’un côté se trouvent 300 000 Palestiniens, dont 200 000 réfugiés expulsés de la région ; de l’autre, une poignée de nouvelles installations israéliennes. Les combattants palestiniens tentent de pénétrer dans le kibboutz de Nahal Oz, tuent Roi Rotberg, un agent de sécurité, et emportent son corps à Gaza, mais le rendent après l’intervention des Nations unies.

    #Moshe_Dayan, alors chef de l’état-major général d’Israël, se trouvait par hasard sur place pour un mariage et a demandé à prononcer, le soir suivant, l’éloge funèbre de Rotber. Parlant des hommes qui ont tué #Rotberg, il a demandé : « Pourquoi devrions-nous nous plaindre de la #haine qu’ils nous portent ? Pendant huit ans, ils se sont assis dans les camps de réfugiés de Gaza et ont vu de leurs yeux comment nous avons transformé les terres et les villages où eux et leurs ancêtres vivaient autrefois. » Cette reconnaissance de ce que les Palestiniens avaient perdu, les hommes politiques israéliens d’aujourd’hui ne peuvent plus se permettre de l’exprimer. Mais Dayan ne défendait pas le #droit_au_retour : il a terminé son discours en affirmant que les Israéliens devaient se préparer à une #guerre_permanente et amère, dans laquelle ce qu’Israël appelait les « #installations_frontalières » joueraient un rôle majeur.

    Au fil des ans, le #fossé s’est transformé en un système complexe de #fortifications - une #zone_tampon de 300 mètres, où plus de deux cents manifestants palestiniens ont été tués par balle en 2018 et 2019 et des milliers d’autres blessés, plusieurs couches de #clôtures en barbelés, des #murs en béton s’étendant sous terre, des mitrailleuses télécommandées - et des équipements de #surveillance, dont des tours de guet, des caméras de vidéosurveillance, des capteurs radar et des ballons espions. À cela s’ajoute une série de #bases_militaires, dont certaines situées à proximité ou à l’intérieur des installations civiles qui forment ce que l’on appelle l’#enveloppe_de_Gaza.

    Empêcher le retour des réfugiés

    Le #7_octobre_2023, lors d’une attaque coordonnée, le Hamas a frappé tous les éléments de ce système interconnecté. #Nahal_Oz, l’installation la plus proche de la clôture, a été l’un des points névralgiques de l’attaque. Le terme « #Nahal » fait référence à l’unité militaire qui a créé les installations frontalières. Les installations du Nahal ont débuté comme des avant-postes militaires et sont devenues des villages civils, principalement de type #kibboutz. Mais la transformation n’est jamais achevée et certains résidents sont censés se comporter en défenseurs quand la communauté est attaquée.

    La « #terre_des_absents » a été la #tabula_rasa sur laquelle les planificateurs israéliens ont dessiné le projet des colons sionistes après les expulsions de 1948. Son architecte en chef était #Arieh_Sharon, diplômé du Bauhaus, qui a étudié avec Walter Gropius et Hannes Meyer avant de s’installer en Palestine en 1931, où il a construit des lotissements, des coopératives de travailleurs, des hôpitaux et des cinémas. Lors de la création de l’État d’Israël, David Ben Gourion l’a nommé à la tête du département de planification du gouvernement. Dans The Object of Zionism (2018), l’historien de l’architecture Zvi Efrat explique que, bien que le plan directeur de Sharon soit fondé sur les principes les plus récents du design moderniste, il avait plusieurs autres objectifs : fournir des logements aux vagues d’immigrants arrivés après la Seconde Guerre mondiale, déplacer les populations juives du centre vers la périphérie, sécuriser la frontière et occuper le territoire afin de rendre plus difficile le retour des réfugiés.

    Dans les années 1950 et 1960, le #plan_directeur de Sharon et de ses successeurs a conduit à la construction, dans les « #zones_frontalières », définies à l’époque comme représentant environ 40 % du pays, de centres régionaux ou « #villes_de_développement » qui desservaient une constellation d’#implantations_agraires. Ces villes de développement devaient accueillir les immigrants juifs d’Afrique du Nord – les Juifs arabes – qui allaient être prolétarisés et devenir des ouvriers d’usine. Les implantations agraires de type kibboutz et #moshav étaient destinées aux pionniers du #mouvement_ouvrier, principalement d’Europe de l’Est. Les #terres appartenant aux villages palestiniens de #Dayr_Sunayd, #Simsim, #Najd, #Huj, #Al_Huhrraqa, #Al_Zurai’y, #Abu_Sitta, #Wuhaidat, ainsi qu’aux tribus bédouines #Tarabin et #Hanajre, sont occupées par les villes de développement #Sderot et #Ofakim et les kibboutzim de #Re’im, #Mefalsim, #Kissufim et #Erez. Toutes ces installations ont été visées le 7 octobre.

    La première #clôture

    À la suite de l’#occupation_israélienne de 1967, le gouvernement a établi des installations entre les principaux centres de population palestinienne à Gaza même, dont la plus grande était #Gush_Katif, près de Rafah, à la frontière égyptienne ; au total, les #colonies israéliennes couvraient 20 % du territoire de Gaza. Au début des années 1980, la région de Gaza et ses environs a également accueilli de nombreux Israéliens évacués du Sinaï après l’accord de paix avec l’Égypte.

    La première clôture autour du territoire a été construite entre 1994 et 1996, période considérée comme l’apogée du « #processus_de_paix ». Gaza était désormais isolée du reste du monde. Lorsque, en réponse à la résistance palestinienne, les colonies israéliennes de Gaza ont été démantelées en 2005, certaines des personnes évacuées ont choisi de s’installer près des frontières de Gaza. Un deuxième système de clôture, plus évolué, a été achevé peu après. En 2007, un an après la prise de pouvoir du Hamas à Gaza, Israël a entamé un #siège à grande échelle, contrôlant et limitant les flux entrants de produits vitaux - #nourriture, #médicaments, #électricité et #essence.

    L’#armée_israélienne a fixé les privations à un niveau tel que la vie à Gaza s’en trouve presque complètement paralysée. Associé à une série de campagnes de #bombardements qui, selon les Nations unies, ont causé la mort de 3 500 Palestiniens entre 2008 et septembre 2023, le siège a provoqué une #catastrophe_humanitaire d’une ampleur sans précédent : les institutions civiles, les hôpitaux, les systèmes d’approvisionnement en eau et d’hygiène sont à peine capables de fonctionner et l’électricité n’est disponible que pendant la moitié de la journée environ. Près de la moitié de la population de Gaza est au #chômage et plus de 80 % dépend de l’#aide pour satisfaire ses besoins essentiels.

    L’enveloppe de Gaza

    Le gouvernement israélien offre de généreux #avantages_fiscaux (une réduction de 20 % de l’impôt sur le revenu par exemple) aux habitants des installations autour de Gaza, dont beaucoup longent une route parallèle à la ligne de démarcation, à quelques kilomètres de celle-ci. L’enveloppe de Gaza comprend 58 installations situées à moins de 10 km de la frontière et comptant 70 000 habitants. Au cours des dix-sept années depuis la prise de pouvoir par le Hamas, malgré les tirs sporadiques de roquettes et de mortiers palestiniens et les bombardements israéliens sur le territoire situé à quelques kilomètres de là, les installations n’ont cessé d’augmenter. La hausse des prix de l’immobilier dans la région de Tel-Aviv et les collines ouvertes de la région (que les agents immobiliers appellent la « Toscane du nord du Néguev ») a entraîné un afflux de la classe moyenne.

    De l’autre côté de la barrière, les conditions se sont détériorées de manière inversement proportionnelle à la prospérité croissante de la région. Les installations sont un élément central du système d’#enfermement imposé à Gaza, mais leurs habitants tendent à différer des colons religieux de Cisjordanie. Démontrant l’aveuglement partiel de la gauche israélienne, certaines personnes installées dans le Néguev sont impliquées dans le #mouvement_pacifiste.

    Le 7 octobre, les combattants du Hamas ont forcé les éléments interconnectés du réseau de siège. Des tireurs d’élite ont tiré sur les caméras qui surplombent la zone interdite et ont lancé des grenades sur les #tours_de_communication. Des barrages de roquettes ont saturé l’#espace_radar. Plutôt que de creuser des tunnels sous les clôtures, les combattants sont venus par le sol. Les observateurs israéliens ne les ont pas vus ou n’ont pas pu communiquer assez rapidement ce qu’ils ont vu.

    Les combattants ont fait sauter ou ouvert quelques douzaines de brèches dans la clôture, élargies par les bulldozers palestiniens. Certains combattants du Hamas ont utilisé des parapentes pour franchir la frontière. Plus d’un millier d’entre eux ont pris d’assaut les bases militaires. L’armée israélienne, aveuglée et muette, n’a pas de vision claire du champ de bataille et les détachements mettent des heures à arriver. Des images incroyables sont apparues sur Internet : des adolescents palestiniens ont suivi les combattants à vélo ou à cheval, sur une terre dont ils avaient peut-être entendu parler par leurs grands-parents, maintenant transformée au point d’en être méconnaissable.

    Les #massacres du 7 octobre

    Les événements auraient pu s’arrêter là, mais ce ne fut pas le cas. Après les bases, ce furent les installations, les horribles massacres maison par maison, et le meurtre d’adolescents lors d’une fête. Des familles ont été brûlées ou abattues dans leurs maisons, des civils incluant des enfants et des personnes âgées ont été prises en otage. Au total, les combattants ont tué environ 1 300 civils et soldats. Plus de 200 personnes ont été capturées et emmenées à Gaza. Jusqu’alors, rien, dans la #violence ni la #répression, n’avait rendu de tels actes inévitables ou justifiés.

    Israël a mis des décennies à brouiller la ligne de démarcation entre les fonctions civiles et militaires des installations, mais cette ligne a aujourd’hui été brouillée d’une manière jamais envisagée par le gouvernement israélien. Les habitants civils cooptés pour faire partie du mur vivant de l’enveloppe de Gaza ont subi le pire des deux mondes. Ils ne pouvaient pas se défendre comme des soldats et n’étaient pas protégés comme des civils.

    Les images des installations dévastées ont permis à l’armée israélienne d’obtenir carte blanche de la part de la communauté internationale et de lever les restrictions qui avaient pu être imposées précédemment. Les hommes politiques israéliens ont appelé à la #vengeance, avec un langage explicite et annihilationiste. Les commentateurs ont déclaré que Gaza devrait être « rayée de la surface de la Terre » et que « l’heure de la Nakba 2 a sonné ». #Revital_Gottlieb, membre du Likoud à la Knesset, a tweeté : « Abattez les bâtiments ! Bombardez sans distinction ! Assez de cette impuissance. Vous le pouvez. Il y a une légitimité mondiale ! Détruisez Gaza. Sans pitié ! »

    L’échange de prisonniers

    Les otages civils des installations dont Israël a fait un « mur vivant » sont devenus pour le Hamas un #bouclier_humain et des atouts pour la #négociation. Quelle que soit la façon dont le #conflit se termine, que le Hamas soit ou non au pouvoir (et je parie sur la première solution), Israël ne pourra pas éviter de négocier l’#échange_de_prisonniers. Pour le Hamas, il s’agit des 6 000 Palestiniens actuellement dans les prisons israéliennes, dont beaucoup sont en #détention_administrative sans procès. La prise en otages d’Israéliens a occupé une place centrale dans la #lutte_armée palestinienne tout au long des 75 années de conflit. Avec des otages, l’#OLP et d’autres groupes cherchaient à contraindre Israël à reconnaître implicitement l’existence d’une nation palestinienne.

    Dans les années 1960, la position israélienne consistait à nier l’existence d’un peuple palestinien, et donc qu’il était logiquement impossible de reconnaître l’OLP comme son représentant légitime. Ce déni signifiait également qu’il n’y avait pas à reconnaître les combattants palestiniens comme des combattants légitimes au regard du droit international, et donc leur accorder le statut de #prisonniers_de_guerre conformément aux conventions de Genève. Les Palestiniens capturés étaient maintenus dans un #vide_juridique, un peu comme les « combattants illégaux » de l’après 11-septembre.

    En juillet 1968, le Front populaire de libération de la Palestine (FPLP) a détourné un vol d’El-Al et l’a fait atterrir en Algérie, inaugurant une série de détournements, dont l’objectif explicite était la libération de prisonniers palestiniens. L’incident d’Algérie a conduit à l’échange de 22 otages israéliens contre 16 prisonniers palestiniens, bien que le gouvernement israélien ait nié un tel accord. Seize contre 22 : ce taux d’échange n’allait pas durer longtemps. En septembre 1982, après l’invasion du Liban par Israël, le Commandement général du FPLP d’Ahmed Jibril a capturé trois soldats de l’armée israélienne ; trois ans plus tard, dans le cadre de ce qui a été appelé l’accord Jibril, Israël et le FPLP-CG sont finalement parvenus à un accord d’échange de prisonniers : trois soldats contre 1 150 prisonniers palestiniens. Dans l’accord de 2011 pour la libération de Gilad Shalit, capturé par le Hamas en 2006, le taux d’échange était encore plus favorable aux Palestiniens : 1 027 prisonniers pour un seul soldat israélien.
    Directive Hannibal

    Anticipant de devoir conclure de nombreux accords de ce type, Israël s’est mis à arrêter arbitrairement davantage de Palestiniens, y compris des mineurs, afin d’augmenter ses atouts en vue d’un échange futur. Il a également conservé les corps de combattants palestiniens, qui devaient être restitués dans le cadre d’un éventuel échange. Tout cela renforce l’idée que la vie d’un colonisateur vaut mille fois plus que la vie d’un colonisé, calcul qui évoque inévitablement l’histoire du #colonialisme et du commerce d’êtres humains. Mais ici, le taux de change est mobilisé par les Palestiniens pour inverser la profonde asymétrie coloniale structurelle.

    Tous les États ne traitent pas de la même manière la capture de leurs soldats et de leurs citoyens. Les Européens et les Japonais procèdent généralement à des échanges secrets de prisonniers ou négocient des rançons. Les États-Unis et le Royaume-Uni affirment publiquement qu’ils ne négocient pas et n’accèdent pas aux demandes des ravisseurs et, bien qu’ils n’aient pas toujours respecté cette règle à la lettre, ils ont privilégié l’abstention et le silence lorsqu’une opération de sauvetage semblait impossible.

    Cette attitude est considérée comme un « moindre mal » et fait partie de ce que les théoriciens des jeux militaires appellent le « jeu répété » : chaque action est évaluée en fonction de ses éventuelles conséquences à long terme, les avantages d’obtenir la libération d’un prisonnier étant mis en balance avec le risque que l’échange aboutisse à l’avenir à la capture d’autres soldats ou civils.

    Lorsqu’un Israélien est capturé, sa famille, ses amis et ses partisans descendent dans la rue pour faire campagne en faveur de sa libération. Le plus souvent, le gouvernement y consent et conclut un accord. L’armée israélienne déconseille généralement au gouvernement de conclure des accords d’échange, soulignant le risque pour la sécurité que représentent les captifs libérés, en particulier les commandants de haut rang, et la probabilité qu’ils encouragent les combattants palestiniens à prendre davantage d’otages. Yahya Sinwar, qui est aujourd’hui le chef du Hamas, a été libéré dans le cadre de l’#accord_Shalit. Une importante campagne civile contre ces échanges a été menée par le mouvement religieux de colons #Gush_Emunim, qui y voyait une manifestation de la fragilité de la société « laïque et libérale » d’Israël.

    En 1986, à la suite de l’#accord_Jibril, l’armée israélienne a publié la directive controversée Hannibal, un ordre opérationnel secret conçu pour être invoqué lors de la capture d’un soldat israélien par une force armée irrégulière. L’armée a nié cette interprétation, mais les soldats israéliens l’ont comprise comme une autorisation de tuer un camarade avant qu’il ne soit fait prisonnier. En 1999, #Shaul_Mofaz, alors chef de l’état-major général, a expliqué cette politique en ces termes : « Avec toute la douleur que cela implique, un soldat enlevé, contrairement à un soldat tué, est un problème national. »

    Bien que l’armée ait affirmé que le nom de la directive avait été choisi au hasard par un programme informatique, il est tout à fait approprié. Le général carthaginois Hannibal Barca s’est suicidé en 181 avant J.-C. pour ne pas tomber aux mains des Romains. Ceux-ci avaient fait preuve d’une détermination similaire trente ans plus tôt : lorsque Hannibal tenta d’obtenir une rançon pour les soldats qu’il avait capturés lors de sa victoire à Cannes, le Sénat, après un débat houleux, refusa et les prisonniers furent exécutés.

    Le 1er août 2014, lors de l’offensive sur Gaza connue sous le nom d’« #opération_Bordure_protectrice », des combattants palestiniens ont capturé un soldat de Tsahal près de Rafah, et la #directive_Hannibal est entrée en vigueur. L’armée de l’air a bombardé le système de tunnels où avait été emmené le soldat, tuant 135 civils palestiniens, dont des familles entières. L’armée a depuis annulé la directive. Toutefois, la plupart des bombardements actuels vise les #tunnels où se trouvent les postes de commandement du Hamas et les otages : le gouvernement semble ainsi, par ces bombardements aveugles, non seulement menacer les Gazaouis d’une #destruction sans précédent, mais aussi revenir au principe de préférer des captifs morts à un accord. #Bezalel_Smotrich, ministre israélien des finances, a appelé à frapper le Hamas « sans pitié, sans prendre sérieusement en considération la question des captifs ». #Gilad_Erdan, ambassadeur d’Israël auprès des Nations unies, a déclaré que les otages « ne nous empêcheraient pas de faire ce que nous devons faire ». Mais dans cette guerre, le sort des #civils de Gaza et des Israéliens capturés est étroitement lié, tout comme celui des deux peuples.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/041123/taux-de-change-retour-sur-la-politique-israelienne-des-otages
    #Israël #Palestine #Eyal_Weizman #à_lire

    • En ce lundi, l’#armée_israélienne affirme avoir frappé, via les airs et au sol, plus de 600 cibles dans #Gaza ces vingt-quatre dernières heures. Dans le détail : « des dépôts d’armes, positions de lancement de missiles antichar, caches du #Hamas » et « des dizaines » de chefs du mouvement islamiste tués. Des chars israéliens sont postés à la lisière de #Gaza_City et le principal axe routier nord-sud est coupé. C’est vendredi en fin de journée que l’État hébreu a lancé son opération d’envergure, annoncée depuis près de deux semaines déjà. Mêlant #incursions_terrestres localisées – surtout dans le nord de l’enclave palestinienne – et #bombardements intensifiés. Samedi, le Premier ministre israélien Benyamin Netanyahou a prévenu : la #guerre sera « longue et difficile ».

      Vendredi, 17 h 30. La #bande_de_Gaza plonge dans le noir. Plus d’électricité, plus de réseau téléphonique, ni de connexion internet. Le #black-out total. Trente-six heures de cauchemar absolu débutent pour les Gazaouis. Coupés du monde, soumis au feu. L’armée israélienne pilonne le territoire : plus de 450 bombardements frappent, aveugles. La population meurt à huis clos, impuissante. Après avoir quitté Gaza City au début de la riposte israélienne (lire l’épisode 1, « D’Israël à Gaza, la mort aux trousses »), Abou Mounir vit désormais dans le centre de la bande de Gaza, avec ses six enfants. Ce vendredi, il est resté cloîtré chez lui. Lorsqu’il retrouve du réseau, le lendemain matin, il est horrifié par ce qu’il découvre. « Mon quartier a été visé par des tirs d’artillerie. L’école à côté de chez moi, où sont réfugiées des familles, a été touchée. Devant ma porte, j’ai vu tous ces blessés agonisants, sans que personne ne puisse les aider. C’est de la pure #folie. Ils nous assiègent et nous massacrent. Cette façon de faire la guerre… On se croirait au Moyen-Âge », souffle le père de famille, qui dénonce « une campagne de #vengeance_aveugle ». L’homme de 49 ans implore Israël et la communauté internationale d’agir urgemment. « La seule et unique solution possible pour nous tous, c’est la #solution_politique. On l’a répété un million de fois : seule une solution politique juste nous apportera la paix. »

      Toujours à Gaza City avec sa famille, la professeure de français Assya décrit ce jour et demi d’#angoisse : « On se répétait : “Mais que se passe-t-il, que va-t-il nous arriver ?” On entendait les bombardements, boum, boum, boum… Ça n’arrêtait pas ! Ma petite-fille de 1 an, la fille de mon fils, quand il y avait de grosses explosions, elle pleurait. Alors nous, on faisait les clowns pour lui faire croire que c’était pour rire. Et elle se calmait… Chaque matin, c’est un miracle qu’on soit encore là… » Chaque jour aussi, Assya demande si nous, journalistes, en savons plus sur un cessez-le-feu.

      Plus de 8 000 Gazaouis ont péri, mais leurs suppliques résonnent dans le vide jusqu’à présent. Elles sont pourtant de plus en plus pressantes, face à la #situation_humanitaire qui se dégrade dramatiquement. Ce samedi, des entrepôts des Nations unies ont été pillés. « C’est le signe inquiétant que l’ordre civil est en train de s’effondrer après trois semaines de guerre et de #siège de Gaza. Les gens sont effrayés, frustrés et désespérés », a averti Thomas White, directeur des opérations de l’UNRWA, l’agence onusienne pour les réfugiés palestiniens. Assya confirme : l’un de ses cousins est revenu avec des sacs de sucre, de farine, des pois chiches et de l’huile. Quand elle lui a demandé d’où ça venait, il lui a raconté, le chaos à Deir Al-Balah, dans le sud de l’enclave. « Les gens ont cassé les portes des réserves de l’UNRWA, ils sont entrés et ont pris la farine pour se faire du pain eux-mêmes, car ils n’ont plus rien. La population est tellement en #colère qu’ils ont tout pris. » Depuis le 21 octobre, seuls 117 camions d’#aide_humanitaire (lire l’épisode 2, « “C’est pas la faim qui nous tuera mais un bombardement” ») ont pu entrer dans la bande de Gaza dont 33 ce dimanche), via le point de passage de Rafah au sud, à la frontière égyptienne. L’ONU en réclame 100 par jour, pour couvrir les besoins essentiels des Gazaouis. Le procureur de la Cour pénale internationale Karim Khan a averti : « Empêcher l’acheminement de l’aide peut constituer un #crime. […] Israël doit s’assurer sans délai que les #civils reçoivent de la #nourriture, des #médicaments. »

      Les corps des 1 400 victimes des attaques du 7 octobre sont dans une #morgue de fortune. Beaucoup ont subi des sévices, ont été brûlés. L’#horreur à l’état pur

      En écho à cette situation de plus en plus dramatique, Israël a intensifié sa guerre de la #communication. Pas question pour l’État hébreu de laisser le Hamas ni les Palestiniens gagner la bataille de l’émotion au sein des opinions. Depuis une dizaine de jours, les autorités israéliennes estiment que les médias internationaux ont le regard trop tourné vers les Gazaouis, et plus assez sur le drame du 7 octobre. Alors Israël fait ce qu’il maîtrise parfaitement : il remet en marche sa machine de la « #hasbara ». Littéralement en hébreu, « l’explication », euphémisme pour qualifier ce qui relève d’une véritable politique de #propagande. Mais cela n’a rien d’un gros mot pour les Israéliens, bien au contraire. Entre 1974 et 1975, il y a même eu un éphémère ministère de la Hasbara. Avant cela, et depuis, cette tâche de communication et de promotion autour des actions de l’État hébreu, est déléguée au ministère des Affaires étrangères et à l’armée.

      Un enjeu d’autant plus important face à cette guerre d’une ampleur inédite. C’est pourquoi, chaque jour de cette troisième semaine du conflit, l’armée israélienne a organisé des événements à destination de la #presse étrangère. Visites organisées des kibboutzim où les #massacres de civils ont été perpétrés : dimanche dans celui de Beeri, mercredi et vendredi à Kfar Aza, jeudi dans celui de Holit. Autre lieu ouvert pour les journalistes internationaux : la base de Shura, à Ramla, dans la banlieue de Tel Aviv. Elle a été transformée en morgue de fortune et accueille les 1 400 victimes des attaques du 7 octobre, afin de procéder aux identifications. Dans des tentes blanches, des dizaines de conteneurs. À l’intérieur, les corps. Beaucoup ont subi des sévices, ont été brûlés. L’horreur à l’état pur.

      Mais l’apogée de cette semaine de communication israélienne, c’est la convocation générale de la presse étrangère, lundi dernier, afin de visionner les images brutes des massacres. Quarante-trois minutes et quarante-quatre secondes d’une compilation d’images des GoPro embarquées des combattants du Hamas, des caméras de vidéosurveillance des kibboutzim, mais aussi des photos prises par les victimes avec leurs téléphones, ou par les secouristes. Le tout mis bout à bout, sans montage. Des images d’une violence inouïe. Une projection vidéo suivie d’une conférence de presse tenue par le porte-parole de l’armée israélienne, le général Daniel Hagari. Il le dit sans détour : l’objectif est de remettre en tête l’ignominie de ce qui s’est passé le 7 octobre dernier. Mais également de dire aux journalistes de mieux faire leur travail.

      Il les tance, vertement : « Vous ! Parfois, je prends trente minutes pour regarder les infos. Et j’ai été choqué de voir que certains médias essayent de COMPARER ce qu’Israël fait et ce que ces vils terroristes ont fait. Je ne peux pas comprendre qu’on essaye même de faire cette #comparaison, entre ce que nous venons de vous montrer et ce que l’armée fait. Et je veux dire à certains #médias qu’ils sont irresponsables ! C’est pour ça qu’on vous montre ces vidéos, pour qu’aucun d’entre vous ne puisse se dire que ce qu’ils font et ce que nous faisons est comparable. Vous voyez comment ils se sont comportés ! » Puis il enfonce le clou : « Nous, on combat surtout à Gaza, on bombarde, on demande aux civils d’évacuer… On ne cherche pas des enfants pour les tuer, ni des personnes âgées, des survivants de l’holocauste, pour les kidnapper, on ne cherche pas des familles pour demander à un enfant de toquer chez ses voisins pour les faire sortir et ensuite tuer sa famille et ses voisins devant lui. Ce n’est pas la même guerre, nous n’avons pas les mêmes objectifs. »

      Ce vendredi, pour finir de prouver le cynisme du Hamas, l’armée israélienne présente des « révélations » : le mouvement islamiste abriterait, selon elle, son QG sous l’hôpital Al-Shifa de Gaza City. À l’appui, une série de tweets montrant une vidéo de reconstitution en 3D des dédales et bureaux qui seraient sous l’établissement. Absolument faux, a immédiatement rétorqué le Hamas, qui accuse Israël de diffuser « ces mensonges » comme « prélude à la perpétration d’un nouveau massacre contre le peuple [palestinien] ».

      Au milieu de ce conflit armé et médiatique, le Président français a fait mardi dernier une visite en Israël et dans les territoires palestiniens. Commençant par un passage à Jérusalem, #Emmanuel_Macron a réaffirmé « le droit d’Israël à se défendre », appelant à une coalition pour lutter contre le Hamas dans « la même logique » que celle choisie pour lutter contre le groupe État islamique. Il s’est ensuite rendu à Ramallah, en Cisjordanie occupée, au siège de l’Autorité palestinienne. « Rien ne saurait justifier les souffrances » des civils de Gaza, a déclaré Emmanuel #Macron. Qui a lancé un appel « à la reprise d’un processus politique » pour mettre fin à la guerre entre Israël et le Hamas. Tenant un discours d’équilibriste, rappelant que paix et sécurité vont de pair, le Président a exigé la mise en œuvre de la solution à deux États, comme seul moyen de parvenir à une paix durable. Une visite largement commentée en France, mais qui a bien peu intéressé les Palestiniens.

      Car si les projecteurs sont braqués sur Israël et Gaza depuis le début de la guerre, les Palestiniens de #Cisjordanie occupée vivent également un drame. En à peine trois semaines, plus de 120 d’entre eux ont été tués, selon le ministère de la Santé de l’Autorité palestinienne. Soit par des colons juifs, soit lors d’affrontements avec les forces d’occupation israéliennes. Bien sûr, la montée de la #violence dans ce territoire avait commencé bien avant la guerre. Mais les arrestations contre les membres du Hamas, les raids réguliers menés par l’armée et les attaques de colons prennent désormais une autre ampleur. Ce lundi matin encore, l’armée israélienne a mené un raid sur le camp de Jénine, au nord de la Cisjordanie, faisant quatre morts. Selon l’agence de presse palestinienne Wafa, plus de 100 véhicules militaires et deux bulldozers sont entrés dans le camp. Déjà, mercredi dernier, deux missiles tirés depuis les airs en direction d’un groupe de personnes avait fait trois morts à #Jénine.

      À chaque mort de plus, la colère monte derrière les murs qui encerclent les Territoires. À Gaza, mais aussi en Cisjordanie

      À chaque mort de plus, la colère monte derrière le mur qui encercle les territoires palestiniens. Du sud, à Hébron, au nord, à Naplouse, en passant par Jénine et Ramallah, les #manifestations ont émaillé ces trois dernières semaines, s’intensifiant au fil du temps. À chaque fois, les Palestiniens y réclament la fin de l’#occupation, la mise en œuvre d’une solution politique pour un #accord_de_paix et surtout l’arrêt immédiat des bombardements à Gaza. Ce vendredi, quelques milliers de personnes s’étaient rassemblés à Ramallah. Drapeaux palestiniens à la main, « Que Dieu protège Gaza » pour slogan, et la rage au ventre. Yara était l’une d’entre eux. « Depuis le début de la guerre, le #traitement_médiatique en Europe et aux États-Unis est révoltant ! L’indignation sélective et le deux poids deux mesures sont inacceptables », s’énerve la femme de 38 ans. Son message est sans ambiguïté : « Il faut mettre un terme à cette agression israélienne soutenue par l’Occident. » Un sentiment d’injustice largement partagé par la population palestinienne, et qui nourrit sa colère.

      Manal Shqair est une ancienne militante de l’organisation palestinienne Stop The Wall. Ce qui se passe n’a rien de surprenant pour elle. La jeune femme, qui vit à Ramallah, analyse la situation. Pour elle, le soulèvement des Palestiniens de Cisjordanie n’est pas près de s’arrêter. « Aujourd’hui, la majorité des Palestiniens soutient le Hamas. Les opérations militaires du 7 octobre ont eu lieu dans une période très difficile traversée par les Palestiniens, particulièrement depuis un an et demi. La colonisation rampante, la violence des colons, les tentatives de prendre le contrôle de la mosquée Al-Aqsa à Jérusalem et enfin le siège continu de la bande de Gaza par Israël ont plongé les Palestiniens dans le #désespoir, douchant toute perspective d’un avenir meilleur. » La militante ajoute : « Et ce sentiment s’est renforcé avec les #accords_de_normalisation entre Israël et plusieurs pays arabes [les #accords_d’Abraham avec les Émirats arabes unis, Bahreïn, le Maroc et le Soudan, ndlr]. Et aussi le sentiment que l’#Autorité_palestinienne fait partie de tout le système de #colonialisme et d’occupation qui nous asservit. Alors cette opération militaire [du 7 octobre] a redonné espoir aux Palestiniens. Désormais, ils considèrent le Hamas comme un mouvement anticolonial, qui leur a prouvé que l’image d’un Israël invincible est une illusion. Ce changement aura un impact à long terme et constitue un mouvement de fond pour mobiliser davantage de Palestiniens à rejoindre la #lutte_anticoloniale. »

      #7_octobre_2023 #à_lire

    • Ma petite-fille de 1 an, la fille de mon fils, quand il y avait de grosses explosions, elle pleurait. Alors nous, on faisait les clowns pour lui faire croire que c’était pour rire.

      C’est exactement ce qu’on faisait ma femme et moi à notre fils de 4 ans en 2006 au Liban.

  • #Judith_Butler : Condamner la #violence

    « Je condamne les violences commises par le #Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un #massacre terrifiant et révoltant », écrit Judith Butler avant d’ajouter qu’« il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute #condamnation nécessite un refus de comprendre, de #peur que cette #compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre #capacité_de_jugement ».

    Les questions qui ont le plus besoin d’un #débat_public, celles qui doivent être discutées dans la plus grande urgence, sont des questions qui sont difficiles à aborder dans les cadres existants. Et même si l’on souhaite aller directement au cœur du sujet, on se heurte à un cadre qui fait qu’il est presque impossible de dire ce que l’on a à dire. Je veux parler ici de la violence, de la violence présente, et de l’histoire de la violence, sous toutes ses formes. Mais si l’on veut documenter la violence, ce qui veut dire comprendre les #tueries et les #bombardements massifs commis par le Hamas en Israël, et qui s’inscrivent dans cette histoire, alors on est accusé de « #relativisme » ou de « #contextualisation ». On nous demande de condamner ou d’approuver, et cela se comprend, mais est-ce bien là tout ce qui, éthiquement, est exigé de nous ? Je condamne les violences commises par le Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un massacre terrifiant et révoltant. Telle a été et est encore ma réaction première. Mais elle n’a pas été la seule.

    Dans l’immédiateté de l’événement, on veut savoir de quel « côté » sont les gens, et clairement, la seule réaction possible à de pareilles tueries est une condamnation sans équivoque. Mais pourquoi se fait-il que nous ayons parfois le sentiment que se demander si nous utilisons les bons mots ou comprenons bien la situation historique fait nécessairement obstacle à une #condamnation_morale absolue ? Est-ce vraiment relativiser que se demander ce que nous condamnons précisément, quelle portée cette condamnation doit avoir, et comment décrire au mieux la ou les formations politiques auxquelles nous nous opposons ?

    Il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute condamnation nécessite un refus de comprendre, de peur que cette compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre capacité de jugement. Mais que faire s’il est moralement impératif d’étendre notre condamnation à des #crimes tout aussi atroces, qui ne se limitent pas à ceux mis en avant et répétés par les médias ? Quand et où doit commencer et s’arrêter notre acte de condamnation ? N’avons-nous pas besoin d’une évaluation critique et informée de la situation pour accompagner notre condamnation politique et morale, sans avoir à craindre que s’informer et comprendre nous transforme, aux yeux des autres, en complices immoraux de crimes atroces ?

    Certains groupes se servent de l’histoire de la violence israélienne dans la région pour disculper le Hamas, mais ils utilisent une forme corrompue de raisonnement moral pour y parvenir. Soyons clairs. Les violences commises par #Israël contre les Palestiniens sont massives : bombardements incessants, assassinats de personnes de tous âges chez eux et dans les rues, torture dans les prisons israéliennes, techniques d’affamement à #Gaza, expropriation radicale et continue des terres et des logements. Et ces violences, sous toutes leurs formes, sont commises sur un peuple qui est soumis à un #régime_colonial et à l’#apartheid, et qui, privé d’État, est apatride.

    Mais quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard (Harvard Palestine Solidarity Groups) publient une déclaration disant que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques mortelles du Hamas contre des cibles israéliennes, ils font une erreur et sont dans l’erreur. Ils ont tort d’attribuer de cette façon la #responsabilité, et rien ne saurait disculper le Hamas des tueries atroces qu’ils ont perpétrées. En revanche, ils ont certainement raison de rappeler l’histoire des violences : « de la #dépossession systématique des terres aux frappes aériennes de routine, des #détentions_arbitraires aux #checkpoints militaires, des séparations familiales forcées aux #assassinats ciblés, les Palestiniens sont forcés de vivre dans un #état_de_mort, à la fois lente et subite. » Tout cela est exact et doit être dit, mais cela ne signifie pas que les violences du Hamas ne soient que l’autre nom des violences d’Israël.

    Il est vrai que nous devons nous efforcer de comprendre les raisons de la formation de groupes comme le Hamas, à la lumière des promesses rompues d’Oslo et de cet « état de mort, à la fois lente et subite » qui décrit bien l’existence des millions de Palestiniens vivant sous #occupation, et qui se caractérise par une #surveillance constante, la #menace d’une détention sans procès, ou une intensification du #siège de #Gaza pour priver ses habitants d’#eau, de #nourriture et de #médicaments. Mais ces références à l’#histoire des Palestiniens ne sauraient justifier moralement ou politiquement leurs actes. Si l’on nous demandait de comprendre la violence palestinienne comme une continuation de la violence israélienne, ainsi que le demandent les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard, alors il n’y aurait qu’une seule source de #culpabilité_morale, et même les actes de violence commis par les Palestiniens ne seraient pas vraiment les leurs. Ce n’est pas rendre compte de l’autonomie d’action des Palestiniens.

    La nécessité de séparer la compréhension de la violence omniprésente et permanente de l’État israélien de toute justification de la violence est absolument cruciale si nous voulons comprendre quels peuvent être les autres moyens de renverser le #système_colonial, mettre fin aux #arrestations_arbitraires et à la #torture dans les prisons israéliennes, et arrêter le siège de Gaza, où l’eau et la nourriture sont rationnés par l’État-nation qui contrôle ses frontières. Autrement dit, la question de savoir quel monde est encore possible pour tous les habitants de la région dépend des moyens dont il sera mis fin au système colonial et au pouvoir des colons. Hamas a répondu de façon atroce et terrifiante à cette question, mais il y a bien d’autres façons d’y répondre.

    Si, en revanche, il nous est interdit de parler de « l’#occupation », comme dans une sorte de Denkverbot allemand, si nous ne pouvons pas même poser le débat sur la question de savoir si le joug militaire israélien sur la région relève du #colonialisme ou de l’#apartheid_racial, alors nous ne pouvons espérer comprendre ni le passé, ni le présent, ni l’avenir. Et beaucoup de gens qui regardent le carnage dans les médias sont totalement désespérés. Or une des raisons de ce #désespoir est précisément qu’ils regardent les #médias, et vivent dans le monde sensationnel et immédiat de l’#indignation_morale absolue. Il faut du temps pour une autre #morale_politique, il faut de la patience et du courage pour apprendre et nommer les choses, et nous avons besoin de tout cela pour que notre condamnation puisse être accompagnée d’une vision proprement morale.

    Je m’oppose aux violences que le Hamas a commises, et ne leur trouve aucune excuse. Quand je dis cela, je prends une position morale et politique claire. Je n’équivoque pas lorsque je réfléchis sur ce que cette condamnation implique et présuppose. Quiconque me rejoint dans cette position se demande peut-être si la condamnation morale doit reposer sur une compréhension de ce qui est condamné. On pourrait répondre que non, que je n’ai rien besoin de connaître du Hamas ou de la Palestine pour savoir que ce qu’ils ont fait est mal et pour le condamner. Et si l’on s’arrête là, si l’on se contente des représentations fournies par les médias, sans jamais se demander si elles sont réellement utiles et exactes, et si le cadre utilisé permet à toutes les histoires d’être racontées, alors on se résout à une certaine ignorance et l’on fait confiance aux cadres existants. Après tout, nous sommes tous très occupés, et nous n’avons pas tous le temps d’être des historiens ou des sociologues. C’est une manière possible de vivre et de penser, et beaucoup de gens bien-intentionnés vivent effectivement ainsi, mais à quel prix ?

    Que nous faudrait-il dire et faire, en revanche, si notre morale et notre politique ne s’arrêtaient pas à l’acte de condamnation ? Si nous continuions, malgré tout, de nous intéresser à la question de savoir quelles sont les formes de vie qui pourraient libérer la région de violences comme celles-ci ? Et si, en plus de condamner les crimes gratuits, nous voulions créer un futur dans lequel ce genre de violences n’aurait plus cours ? C’est une aspiration normative qui va bien au-delà de la condamnation momentanée. Pour y parvenir, il nous faut absolument connaître l’histoire de la situation : l’histoire de la formation du Hamas comme groupe militant, dans l’abattement total, après Oslo, pour tous les habitants de Gaza à qui les promesses de gouvernement autonome n’ont jamais été honorées ; l’histoire de la formation des autres groupes palestiniens, de leurs tactiques et de leurs objectifs ; l’histoire enfin du peuple palestinien lui-même, de ses aspirations à la liberté et au #droit_à_l’autodétermination, de son désir de se libérer du régime colonial et de la violence militaire et carcérale permanente. Alors, si le Hamas était dissous ou s’il était remplacé par des groupes non-violents aspirant à la #cohabitation, nous pourrions prendre part à la lutte pour une Palestine libre.

    Quant à ceux dont les préoccupations morales se limitent à la seule condamnation, comprendre la situation n’est pas un objectif. Leur indignation morale est à la fois présentiste et anti-intellectuelle. Et pourtant, l’indignation peut aussi amener quelqu’un à ouvrir des livres d’histoire pour essayer de comprendre comment un événement comme celui-ci a pu arriver, et si les conditions pourraient changer de telle sorte qu’un avenir de violence ne soit pas le seul avenir possible. Jamais la « contextualisation » ne devrait être considérée comme une activité moralement problématique, même s’il y a des formes de contextualisation qui sont utilisées pour excuser ou disculper. Est-il possible de distinguer ces deux formes de contextualisation ? Ce n’est pas parce que certains pensent que contextualiser des violences atroces ne sert qu’à occulter la violence ou, pire encore, à la rationaliser que nous devrions nous soumettre à l’idée que toute forme de contextualisation est toujours une forme de #relativisme_moral.

    Quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard disent que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques du Hamas, ils souscrivent à une conception inacceptable de la responsabilité morale. Il semble que pour comprendre comment s’est produit un événement, et ce qu’il signifie, il nous faille apprendre l’histoire. Cela veut dire qu’il nous incombe tout à la fois d’élargir la perspective au-delà de la terrible fascination du moment et, sans jamais nier l’horreur, de ne pas laisser l’#horreur présente représenter toute l’horreur qu’il y a à représenter, et nous efforcer de savoir, de comprendre et de nous opposer.

    Or les médias d’aujourd’hui, pour la plupart d’entre eux, ne racontent pas les horreurs que vivent les Palestiniens depuis des décennies, les bombardements, les tueries, les attaques et les arrestations arbitraires. Et si les horreurs des derniers jours ont pour les médias une importance morale plus grande que les horreurs des soixante-dix dernières années, alors la réaction morale du moment menace d’empêcher et d’occulter toute compréhension des #injustices_radicales endurées depuis si longtemps par la Palestine occupée et déplacée de force.

    Certains craignent, à juste titre, que toute contextualisation des actes violents commis par le Hamas soit utilisée pour disculper le Hamas, ou que la contextualisation détourne l’attention des horreurs perpétrées. Mais si c’est l’horreur elle-même qui nous amenait à contextualiser ? Où commence cette horreur et où finit-elle ? Si les médias parlent aujourd’hui de « guerre » entre le Hamas et Israël, c’est donc qu’ils proposent un cadre pour comprendre la situation. Ils ont, ainsi, compris la situation à l’avance. Si Gaza est comprise comme étant sous occupation, ou si l’on parle à son sujet de « prison à ciel ouvert », alors c’est une autre interprétation qui est proposée. Cela ressemble à une description, mais le langage contraint ou facilite ce que nous pouvons dire, comment nous pouvons décrire, et ce qui peut être connu.

    Oui, la langue peut décrire, mais elle n’acquiert le pouvoir de le faire que si elle se conforme aux limites qui sont imposées à ce qui est dicible. S’il est décidé que nous n’avons pas besoin de savoir combien d’enfants et d’adolescents palestiniens ont été tués en Cisjordanie et à Gaza cette année ou pendant toutes les années de l’occupation, que ces informations ne sont pas importantes pour comprendre ou qualifier les attaques contre Israël, et les assassinats d’Israéliens, alors il est décidé que nous ne voulons pas connaître l’histoire des violences, du #deuil et de l’indignation telle qu’est vécue par les Palestiniens.

    Une amie israélienne, qui se qualifie elle-même d’« antisioniste », écrit en ligne qu’elle est terrifiée pour sa famille et pour ses amis, et qu’elle a perdu des proches. Et nous devrions tous être de tout cœur avec elle, comme je le suis bien évidemment. Cela est terrible. Sans équivoque. Et pourtant, il n’est pas un moment où sa propre expérience de l’horreur et de la perte de proches ou d’amis est imaginé comme pouvant être ce qu’une Palestinienne éprouve ou a éprouvé de son côté après des années de bombardement, d’incarcération et de violence militaire. Je suis moi aussi une Juive, qui vit avec un #traumatisme_transgénérationnel à la suite des atrocités commises contre des personnes comme moi. Mais ces atrocités ont aussi été commises contre des personnes qui ne sont pas comme moi. Je n’ai pas besoin de m’identifier à tel visage ou à tel nom pour nommer les atrocités que je vois. Ou du moins je m’efforce de ne pas le faire.

    Mais le problème, au bout du compte, n’est pas seulement une absence d’#empathie. Car l’empathie prend généralement forme dans un cadre qui permette qu’une identification se fasse, ou une traduction entre l’expérience d’autrui et ma propre expérience. Et si le cadre dominant considère que certaines vies sont plus dignes d’être pleurées que d’autres, alors il s’ensuit que certaines pertes seront plus terribles que d’autres. La question de savoir quelles vies méritent d’être pleurées fait partie intégrante de la question de savoir quelles sont les vies qui sont dignes d’avoir une valeur. Et c’est ici que le #racisme entre en jeu de façon décisive. Car si les Palestiniens sont des « #animaux », comme le répète Netanyahu, et si les Israéliens représentent désormais « le peuple juif », comme le répète Biden (englobant la diaspora juive dans Israël, comme le réclament les réactionnaires), alors les seules personnes dignes d’être pleurées, les seules qui sont éligibles au deuil, sont les Israéliens, car la scène de « guerre » est désormais une scène qui oppose les Juifs aux animaux qui veulent les tuer.

    Ce n’est certainement pas la première fois qu’un groupe de personnes qui veulent se libérer du joug de la #colonisation sont représentées comme des animaux par le colonisateur. Les Israéliens sont-ils des « animaux » quand ils tuent ? Ce cadre raciste de la violence contemporaine rappelle l’opposition coloniale entre les « civilisés » et les « animaux », qui doivent être écrasés ou détruits pour sauvegarder la « civilisation ». Et lorsque nous rappelons l’existence de ce cadre au moment d’affirmer notre condamnation morale, nous nous trouvons impliqué dans la dénonciation d’une forme de racisme qui va bien au-delà de l’énonciation de la structure de la vie quotidienne en Palestine. Et pour cela, une #réparation_radicale est certainement plus que nécessaire.

    Si nous pensons qu’une condamnation morale doive être un acte clair et ponctuel, sans référence à aucun contexte ni aucun savoir, alors nous acceptons inévitablement les termes dans lesquels se fait cette condamnation, la scène sur laquelle les alternatives sont orchestrées. Et dans ce contexte récent qui nous intéresse, accepter ce cadre, c’est reprendre les formes de #racisme_colonial qui font précisément partie du problème structurel à résoudre, de l’#injustice intolérable à surmonter. Nous ne pouvons donc pas refuser l’histoire de l’injustice au nom d’une certitude morale, car nous risquerions alors de commettre d’autres injustices encore, et notre certitude finirait par s’affaisser sur un fondement de moins en moins solide. Pourquoi ne pouvons-nous pas condamner des actes moralement haïssables sans perdre notre capacité de penser, de connaître et de juger ? Nous pouvons certainement faire tout cela, et nous le devons.

    Les actes de violence auxquels nous assistons via les médias sont horribles. Et dans ce moment où toute notre attention est accaparée par ces médias, les violences que nous voyons sont les seules que nous connaissions. Je le répète : nous avons le droit de déplorer ces violences et d’exprimer notre horreur. Cela fait des jours que j’ai mal au ventre à essayer d’écrire sans trouver le sommeil, et tous les gens que je connais vivent dans la peur de ce que va faire demain la machine militaire israélienne, si le #discours_génocidaire de #Netanyahu va se matérialiser par une option nucléaire ou par d’autres tueries de masse de Palestiniens. Je me demande moi-même si nous pouvons pleurer, sans réserve aucune, pour les vies perdues à Tel-Aviv comme pour les vies perdues à Gaza, sans se laisser entraîner dans des débats sur le relativisme et sur les #fausses_équivalences. Peut-être les limites élargies du deuil peuvent-elles contribuer à un idéal d’#égalité substantiel, qui reconnaisse l’égale pleurabilité de toutes les vies, et qui nous porte à protester que ces vies n’auraient pas dû être perdues, qui méritaient de vivre encore et d’être reconnues, à part égale, comme vies.

    Comment pouvons-nous même imaginer la forme future de l’égalité des vivants sans savoir, comme l’a documenté le Bureau de la coordination des affaires humanitaires des Nations unies, que les militaires et les colons israéliens ont tué au minimum 3 752 civils palestiniens depuis 2008 à Gaza et en Cisjordanie, y compris à Jérusalem-Est. Où et quand le monde a-t-il pleuré ces morts ? Et dans les seuls bombardements et attaques d’octobre, 140 enfants palestiniens ont déjà été tués. Beaucoup d’autres trouveront la mort au cours des actions militaires de « #représailles » contre le Hamas dans les jours et les semaines qui viennent.

    Ce n’est pas remettre en cause nos positions morales que de prendre le temps d’apprendre l’histoire de la #violence_coloniale et d’examiner le langage, les récits et les cadres qui servent aujourd’hui à rapporter et expliquer – et interpréter a priori – ce qui se passe dans cette région. Il s’agit là d’un #savoir_critique, mais qui n’a absolument pas pour but de rationaliser les violences existences ou d’en autoriser d’autres. Son but est d’apporter une compréhension plus exacte de la situation que celle proposée par le cadre incontesté du seul moment présent. Peut-être d’autres positions d’#opposition_morale viendront-elles s’ajouter à celles que nous avons déjà acceptées, y compris l’opposition à la violence militaire et policière qui imprègne et sature la vie des Palestiniens dans la région, leur droit à faire le deuil, à connaître et exprimer leur indignation et leur solidarité, à trouver leur propre chemin vers un avenir de liberté ?

    Personnellement, je défends une politique de #non-violence, sachant qu’elle ne peut constituer un principe absolu, qui trouve à s’appliquer en toutes circonstances. Je soutiens que les #luttes_de_libération qui pratiquent la non-violence contribuent à créer le monde non-violent dans lequel nous désirons tous vivre. Je déplore sans équivoque la violence, et en même temps, comme tant d’autres personnes littéralement stupéfiées devant leur télévision, je veux contribuer à imaginer et à lutter pour la justice et pour l’égalité dans la région, une justice et une égalité qui entraîneraient la fin de l’occupation israélienne et la disparition de groupes comme le Hamas, et qui permettrait l’épanouissement de nouvelles formes de justice et de #liberté_politique.

    Sans justice et sans égalité, sans la fin des violences perpétrées par un État, Israël, qui est fondé sur la violence, aucun futur ne peut être imaginé, aucun avenir de #paix_véritable – et je parle ici de paix véritable, pas de la « #paix » qui n’est qu’un euphémisme pour la #normalisation, laquelle signifie maintenir en place les structures de l’injustice, de l’inégalité et du racisme. Un pareil futur ne pourra cependant pas advenir si nous ne sommes pas libres de nommer, de décrire et de nous opposer à toutes les violences, y compris celles de l’État israélien, sous toutes ses formes, et de le faire sans avoir à craindre la censure, la criminalisation ou l’accusation fallacieuse d’antisémitisme.

    Le monde que je désire est un monde qui s’oppose à la normalisation du régime colonial israélien et qui soutient la liberté et l’autodétermination des Palestiniens, un monde qui réaliserait le désir profond de tous les habitants de ces terres de vivre ensemble dans la liberté, la non-violence, la justice et l’égalité. Cet #espoir semble certainement, pour beaucoup, impossible ou naïf. Et pourtant, il faut que certains d’entre nous s’accrochent farouchement à cet espoir, et refusent de croire que les structures qui existent aujourd’hui existeront toujours. Et pour cela, nous avons besoin de nos poètes, de nos rêveurs, de nos fous indomptés, de tous ceux qui savent comment se mobiliser.

    https://aoc.media/opinion/2023/10/12/condamner-la-violence

    ici aussi : https://seenthis.net/messages/1021216

    #à_lire #7_octobre_2023 #génocide

    • Palestinian Lives Matter Too: Jewish Scholar Judith Butler Condemns Israel’s “Genocide” in Gaza

      We speak with philosopher Judith Butler, one of dozens of Jewish American writers and artists who signed an open letter to President Biden calling for an immediate ceasefire in Gaza. “We should all be standing up and objecting and calling for an end to genocide,” says Butler of the Israeli assault. “Until Palestine is free … we will continue to see violence. We will continue to see this structural violence producing this kind of resistance.” Butler is the author of numerous books, including The Force of Nonviolence: An Ethico-Political Bind and Parting Ways: Jewishness and the Critique of Zionism. They are on the advisory board of Jewish Voice for Peace.

      https://www.youtube.com/watch?v=CAbzV40T6yk

  • #Guerre #Israël - #Hamas : l’engrenage infernal

    Une #catastrophe_humanitaire se déroule sous nos yeux dans la bande de Gaza tandis qu’Israël bombarde l’enclave et prépare une #riposte_militaire. Nos invités ont accepté d’échanger dans notre émission « À l’air libre » alors que cette guerre les touche. Ou les terrasse.

    Les invités :
    #Nadav_Lapid, réalisateur ;
    #Karim_Kattan, écrivain ;
    #Jonathan_Hayoun, réalisateur ;
    #Rony_Brauman, médecin, essayiste.

    https://www.youtube.com/watch?v=Z0OWMbWxhpg


    https://www.mediapart.fr/journal/international/171023/guerre-israel-hamas-l-engrenage-infernal

    #Gaza #7_octobre_2023 #à_lire #à_voir #vidéo
    #désespoir #désastre #impuissance #inquiétude #préoccupation #émotions #rage #médias #couverture_médiatique #couverture_politique #staus_quo #question_palestinienne #pogrom #mots #bombardements #eau #électricité #essence #réfugiés #déplacés_internes #IDPs #destruction #siège #catastrophe #Nakba #nouvelle_Nakba #évacuation #nourriture #famine #déportation #humiliation #paix #justice #droit_international #communauté_internationale #déshumanisation #sentiment_de_sécurité #sécurité #insécurité #apartheid #colonisation #nettoyage_ethnique #1948 #territoires_occupés #système_d'apartheid #double_régime_juridique #occupation_militaire #colonisation_civile #transferts_forcés_de_population #stratégie_de_désespoir #no_futur #actes_désespérés #lucidité #courage #étonnement #responsabilité #rationalisation #espoir #impasse #choc_électrique #trahison #traumatisme #terreur #cauchemar #cauchemar_traumatique #otages #libération_des_otages #guerre #autodestruction #suicide_national

    • Opinion. “Il est peu probable que l’Occident donne indéfiniment un blanc-seing à Israël”
      https://www.courrierinternational.com/article/opinion-il-est-peu-probable-que-l-occident-donne-indefiniment

      Les massacres commis par le Hamas dans le sud d’#Israël semblent avoir fait basculer les opinions publiques occidentales dans un soutien indéfectible à Tel-Aviv, estime ce journaliste israélien. Mais, à mesure que la situation des Palestiniens s’aggravera à #Gaza et en #Cisjordanie, ce soutien pourrait s’amenuiser.

      Le massacre de plus de 1 000 civils israéliens et l’enlèvement de dizaines d’autres servent désormais de base efficace à la diplomatie israélienne. Des pans importants des opinions publiques occidentales ont été révulsés par les tueries du 7 octobre et ont basculé. Mais pour combien de temps ?
      Pour le journaliste Amos Harel, du quotidien israélien de gauche Ha’Aretz, “il est peu probable que l’Occident donne indéfiniment un blanc-seing à Israël. L’État juif sait que la fenêtre d’action qui s’offre à lui n’est pas illimitée. Comme par le passé, il est difficile de synchroniser horloge militaire et horloge politique.”

      Pis, estime Amos Harel, deux États parmi les plus vieux pays arabes signataires d’un traité de paix avec Israël, l’#Égypte en 1979 et la #Jordanie en 1994, craignent de faire les frais de la contre-offensive israélienne, d’autant plus que la population du royaume hachémite est majoritairement d’origine palestinienne.
      “Jusqu’ici, cette dernière s’est montrée loyale envers Amman. Mais est-ce que cela durera indéfiniment ?”

      Enfin, la couverture médiatique de l’opération du #Hamas et de ses suites a relégué au second plan un autre problème : la Cisjordanie est également en proie aux violences. Près de 50 Palestiniens ont été tués la semaine dernière par des soldats israéliens et des colons juifs d’extrême droite.
      “La vraie menace réside en Cisjordanie, et il n’est pas certain que, malgré les slogans lancés par l’#extrême_droite présente au gouvernement, les #diplomaties_occidentales y soutiennent une répression israélienne d’une ampleur de Bouclier défensif [lancée par Ariel Sharon en avril 2002], qui avait vu Tsahal écraser et réoccuper les zones administrées par l’Autorité palestinienne”, soit 39 % des territoires autonomes #palestiniens de Cisjordanie.

  • Hotel Sarajevo
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Hotel-Sarajevo-218359

    Nel trentennale dell’inizio dell’assedio di Sarajevo è uscito il docu-film «Hotel Sarajevo» della regista Barbara Cupisti. Il titolo prende spunto dall’albergo Holiday Inn, costruito per le olimpiadi invernali del 1984 e durante la guerra diventato base dei giornalisti internazionali. Prima televisiva il prossimo 29 maggio su Rai

  • Zwei tote Flüchtlinge in Kleinbus entdeckt : Suche nach Schlepper läuft

    Nach dem Tod zweier syrischer Flüchtlinge in einem Klein-Lkw am gestrigen Dienstag im #Burgenland ist die Fahndung nach dem Schlepper am Mittwoch weitergegangen. Nach ihm werde „rund um die Uhr“ gesucht, sagte Polizeisprecher Helmut Marban zur APA. Die 27 Männer, die die Schlepperfahrt über die burgenländisch-ungarische Grenze überlebt haben, wurden als Zeugen befragt. Nun werde den Hinweisen aus ihren Aussagen und Beobachtungen im Zuge der Fahndung nachgegangen.

    Die aufgegriffenen Migranten wurden mit Hilfe eines Dolmetschers befragt. Die Todesursache und der Todeszeitpunkt der zwei verstorbenen Männer, die zwischen 25 und 30 Jahre alt gewesen sein dürften, standen noch nicht fest. Eine Obduktion wurde angeordnet. Die Staatsanwaltschaft Eisenstadt erwartet das Ergebnis Ende der Woche.

    Soldaten des Bundesheeres hatten die zwei toten Flüchtlinge am Dienstag an der ungarischen Grenze bei Siegendorf (Bezirk Eisenstadt-Umgebung) in einem Klein-Lkw entdeckt, in dem sich auch 27 weitere Syrer befanden. Der Fahrer war bei der Kontrolle sofort in Richtung Ungarn geflüchtet, nach ihm wird weiterhin gefahndet.

    „Die Ermittlungen laufen auf Hochtouren. Vielleicht ergeben sich aus den Angaben der Geschleppten interessante Hinweise“, noch seien nicht alle Personen als Zeugen einvernommen worden, erklärte Marban. Die 27 Männer wurden am Mittwoch weiter von der Polizei versorgt. Bisher haben sie keinen Asylantrag gestellt. Man gehe aber davon aus, dass sie das noch tun könnten - vorerst waren sie nach dem Vorfall aber „mit anderen Sorgen belastet“, sagte Marban. Sollten sie noch Asyl beantragen, werde man sie den Asylbehörden übergeben.

    Bis 28. September sind laut Innenministerium in Österreich 27.300 Menschen aufgegriffen worden, die ins Land „geschleppt“, rechtswidrig eingereist oder aufhältig waren. Davon entfallen alleine auf das Burgenland 11.400 Personen. Aktuell beträgt die Zahl der Aufgegriffenen etwa 30.000, wobei diese hauptsächlich aus Syrien, Afghanistan, Bangladesch und Somalia stammen. Wegen Schlepperei gab es bis Ende September 280 Anzeigen, die mittlerweile auf rund 300 angewachsen sind.

    https://www.bvz.at/burgenland/chronik-gericht/siegendorf-zwei-tote-fluechtlinge-in-kleinbus-entdeckt-suche-nach-schlepper-laeu

    #réfugiés #asile #migrations #Autriche #asile #mourir_aux_frontières #frontières #Hongrie #Siegendorf #morts #décès

    Ajouté à la métaliste sur les morts aux frontières des #Alpes, à voir si ces cas sont à mettre dans cette catégorie :
    https://seenthis.net/messages/758646

    –-

    Pour rappel, dans la même région, en 2015, moururent 71 personnes :
    https://seenthis.net/messages/402751

    • U autobusu u Austriji nađena dva mrtva migranta. Vozač pobjegao, traži ga policija

      U MINIBUSU punom putnika koji je došao iz Mađarske u Austriju pronađena su dva mrtva migranta.

      Austrijske oružane snage zaustavile su danas minibus i u njemu pronašle tijela migranata. Priopćile su kako je vozač pobjegao s mjesta događaja kada su ga zaustavili. Sada je za njim organizirana potraga u koju su uključeni i helikopteri, dronovi te psi tragači.

      U minibusu je bilo 30-ak migranata, za koje se pretpostavlja da su većinom došli iz Sirije.
      Čekaju se nalazi obdukcije

      Policija je priopćila da su tijela dvojice muškaraca u dvadesetim godinama pronađena nakon što su vozilo zaustavili pripadnici oružanih snaga. Uzrok smrti još nije poznat te se čekaju nalazi obdukcije.

      Hans Peter Doskozil, guverner regije Gradišće, rekao je lokalnim medijima da je paralela s tragičnim događajem iz 2015. “zastrašujuća”. Naime, vlasti su prije šest godina u kamionu pronašle 71 mrtvu osobu.

      “Današnji incident pokazuje brutalnost i nečovječnost organiziranog krijumčarenja ljudi”, kazao je Doskozil.

      https://www.index.hr/vijesti/clanak/u-autobusu-u-austriji-nadjena-dva-mrtva-migranta-vozac-pobjegao-trazi-ga-policija/2312105.aspx

    • Zwei tote Flüchtlinge im Burgenland : Schlepper festgenommen

      Ende Oktober wurden zwei Flüchtlinge tot in einem LKW im Bezirk Eisenstadt-Umgebung aufgefunden. Nun wurde der mutmaßliche 19-jährige Schlepper in Lettland gefasst. Er befindet sich in Übergabehaft.

      Im Fall der beiden Flüchtlinge, die Ende Oktober tot in einem Klein-Lkw bei Siegendorf (Bezirk Eisenstadt-Umgebung) gefunden worden waren, ist der mutmaßliche Schlepper festgenommen worden. Ein 19-jähriger Lette wurde in seinem Heimatland gefasst, berichtete die Landespolizeidirektion Burgenland am Dienstag. Er soll das Fahrzeug gelenkt haben und bei der Kontrolle durch Soldaten des Bundesheeres geflüchtet sein. Derzeit befindet er sich in Übergabehaft.

      Der 19-Jährige soll am 19. Oktober 29 Migranten über die grüne Grenze bei Siegendorf gebracht haben. Zwei syrische Flüchtlinge konnten damals nur noch tot aus dem Klein-Lkw geborgen werden. Sie dürften erstickt sein. Eine Alarmfahndung, die grenzüberschreitend auch in Ungarn stattfand, blieb erfolglos.
      20 weitere Schlepper in Untersuchungshaft

      In weiterer Folge wurden laut Polizei Ermittlungen gegen eine international agierende Vereinigung aufgenommen, die vor allem afghanische und syrische Flüchtlinge nach Österreich gebracht haben soll. Im Zuge dessen seien zwölf Schlepper in Österreich und acht weitere in Ungarn festgenommen worden, die letztlich auch zu dem flüchtigen Lenker von Siegendorf geführt hätten. Weil dieser mittlerweile wieder in Lettland war, wurde ein Europäischer Haftbefehl erlassen und Kontakt mit der lettischen Zielfahndungseinheit aufgenommen. In Ogre sei der 19-Jährige schließlich auf offener Straße gefasst worden.

      Innenminister Gerhard Karner (ÖVP) hob in diesem Zusammenhang die Arbeit der Zielfahnder des Bundeskriminalamtes hervor, die die Fahndung nach dem Schlepper Ende November auf Ersuchen des Landeskriminalamtes Burgenland übernommen hatten. „Durch dieses engmaschige Netzwerk der Sicherheitsbehörden und die gute internationale Zusammenarbeit der Polizei kann sich kein Täter auf der Flucht sicher fühlen“, betonte Karner. Die 20 weiteren Schlepper, die im Zuge der Ermittlungen festgenommen wurden, befinden sich in Untersuchungshaft.

      https://www.diepresse.com/6074005/zwei-tote-fluechtlinge-im-burgenland-schlepper-festgenommen

    • Tote Flüchtlinge: Schlepper gefasst

      Nachdem im Oktober bei Siegendorf in einem Klein-Lkw 29 Flüchtlinge – zwei davon waren bereits tot – gefunden worden waren, ist der mutmaßliche Schlepper festgenommen worden. Das berichtete die Landespolizeidirektion nach Anfragen des ORF Burgenland in einer Aussendung. Der 18-jährige lettische Staatsbürger steht unter Verdacht, das Fahrzeug gelenkt zu haben.

      Als am 19. Oktober der Klein-Lkw auf der Puszta bei Siegendorf (Bezirk Eisenstadt-Umgebung) durch Bundesheersoldaten angehalten wurde, flüchtete der Lenker. 29 Flüchtlinge befanden sich im Fahrzeug – mehr dazu in Zwei tote Flüchtlinge: Schlepper weiter auf der Flucht. Zwei von ihnen waren damals bereits tot, sie dürften erstickt sein – mehr dazu in Tote Flüchtlinge in Klein-Lkw vermutlich erstickt. Die damals verstorbenen Männer aus Syrien waren 33 und 37 Jahre alt. Die 27 weiteren Flüchtlinge beantragten Asyl.
      Verdächtiger lettischer Staatsbürger

      Unmittelbar danach wurde eine grenzüberschreitende Alarmfahndung eingeleitet, die zunächst erfolglos blieb, hieß es am Dienstag von der Polizei – mehr dazu in Tote Flüchtlinge: Suche nach Schleppern läuft. Man setzte auf internationale Ermittlungen, insbesondere in Kooperation mit der Polizei in Ungarn – mehr dazu in Huber: „Klares Zeichen gegen Schlepperei setzen“. Die Ermittlungen konzentrierten sich sehr bald auf eine international agierende kriminelle Vereinigung, die umfangreiche Schleppungen von überwiegend afghanischen und syrischen Migrantinnen und Migranten nach Österreich durchgeführt hat. Im Zuge dessen wurden zwölf Schlepper in Österreich und acht Schlepper in Ungarn gefasst, so Polizeisprecher Helmut Marban gegenüber dem ORF Burgenland. Alle befinden ich in Untersuchungshaft.

      Verdächtiger wird nach Österreich gebracht

      So konnten die Ermittler auch die Identität des Verdächtigen ausfindig machen – es handelt sich um einen 18-jährigen lettischen Staatsbürger. Er wurde am 8. Dezember 2021 auf offener Straße in Ogre (Lettland) festgenommen. Der Tatverdächtige befindet sich derzeit in Übergabehaft. In den kommenden Tagen soll er nach Österreich gebracht und in Untersuchungshaft genommen werden. Dann könne er von den Ermittlern zu der Schleppung bei Siegendorf befragt werden, so Marban.
      „Akribische kriminalistische Arbeit“

      Es handle sich dabei um eine sehr genaue und akribische kriminalistische Arbeit, so Marban. „Über Zeugenaussagen der geschleppten Personen, Routen, die man auf dem Handy findet, Informationen, die man auf dem Handy und Computer findet, und durch den Austausch mit anderen internationalen Polizeibehörden kann man langsam in diese großen kriminellen Organisationen vordringen“, sagte Marban. Das zeige, wie wichtig die internationale Zusammenarbeit sei.
      Marban: Schlepperszene „brutalisiert“ sich

      Es sei erkennbar, dass sich die Szene der Schlepperei durchaus „brutalisiert“, so Marban. Das zeige dieser Fall, aber auch andere Vorfälle mit Schleppern, wo auch schon Schusswaffen zu Einsatz kommen mussten. Auch bei Verfolgungsjagden würden Schlepper mit viel „Rücksichtslosigkeit“ vorgehen, sagte Marban im Interview mit dem ORF Burgenland.

      https://burgenland.orf.at/stories/3134435

    • Tragödie im Burgenland: Zwei Flüchtlinge tot im Kastenwagen

      29 Männer befanden sich in dem aus Ungarn kommenden Kleinbus. Zwei der Männer dürften während der Fahrt erstickt sein.

      Als der gelbe Renault-Kastenwagen am Dienstag gegen 13 Uhr in der Puszta von Siegendorf (Burgenland) zum Stehen kam, öffnete sich die Türe des Transporters auf der Rückseite. „Help! Help!“, schrien mehrere Männer. Sie rangen um Luft. Ein Blick in das Innere der Ladefläche offenbarte die Tragödie: 29 Menschen zwängten sich dicht an dicht. Zwei Männer lagen reglos am Boden. Sie dürften erstickt sein.

      Wieder ein Schlepper Drama im Burgenland

      Es sind fürchterliche Erinnerungen, die am Dienstag wieder wach wurden: Am 26. August 2015 starben 71 Menschen in einem Lkw.

      Diesmal war das Fahrzeug nicht abgestellt worden. Diesmal hielten zwei Bundesheer-Soldaten den gelben Kastenwagen mit ungarischem Kennzeichen in Siegendorf auf. Die Soldaten, die im Burgenland Assistenzdienst leisten, wollten eine Lenkerkontrolle durchführen.
      Großflächige Fahndung

      Der Lenker selbst konnte zu Fuß flüchten. Als die Soldaten den Hilferufen folgten, öffnete er die Tür und rannte davon. Eine sofort eingeleitete Alarmfahndung blieb bis zu am Abend ohne Erfolg. Der Mann könnte laut ersten Angaben der Flüchtlinge bewaffnet sein.

      Im Laufe des Nachmittags trafen immer wieder Meldungen von Zeugen ein, die den Flüchtenden gesehen haben wollen. Auch von einem zweiten Schlepper war kurzfristig die Rede, diese Annahme bestätigte sich aber nicht. Mit einem Polizeihubschrauber, Hunden und Drohnen wurde in dem Grenzgebiet gesucht.

      Die beiden Flüchtlinge, die im Lkw erstickt sein dürften, waren laut ersten Angaben stark dehydriert und körperlich auffallend schwach. Gewalteinwirkung konnte vorerst keine festgestellt werden. Die beiden Männer dürften laut ersten Schätzungen zwischen 25 und 30 Jahre alt gewesen sein.

      Noch am Dienstagabend hat die Staatsanwaltschaft Eisenstadt die Obduktion der beiden Toten angeordnet, um Todesursache und –Zeitpunkt zu klären. Mit einem Ergebnis wird Ende der Woche gerechnet.

      „Schlimmeres verhindert“

      Die Überlebenden – es handelt sich um männliche Syrer und zwei Pakistani – wurden zur Erstversorgung nach Nickelsdorf gebracht. Ihr Zustand ist laut Polizei den Umständen entsprechend gut. Die Männer wurden am Nachmittag mit Dolmetschern zu den Vorgängen als Zeugen befragt.

      „Wir konnten Schlimmeres verhindern“, meint Gerald Tatzgern, Leiter der Zentralstelle zur Bekämpfung der Schlepperkriminalität im Bundeskriminalamt. Auch ungarische Beamte waren am Dienstag an Ort und Stelle. Man sei auch mit Budapest in Kontakt.

      Lager am Westbalkan

      Die Flüchtlinge dürften aus den Lagern am Westbalkan kommen. „Vermutlich wollten sie keinen weiteren Winter dort verbringen“, meint Tatzgern. Mehr als 80 Prozent der Flüchtlinge vor Ort seien Männer.

      Aufgriffe vom Westbalkan beobachtet er in der jüngsten Zeit vermehrt. „Normalerweise führt die Route über Serbien nach Ungarn oder via Rumänien nach Ungarn.“

      Die Hauptziele der Flüchtlinge seien neben Österreich Deutschland, Holland, Schweden und Belgien. Schleppungen in Kastenwagen bzw. Transportern würden zunehmen. „Das bringt mehr Gewinn für die Schlepper.“ Tatzgern beobachtet zudem wieder einen vermehrt „sorglosen Umgang“ der Schlepper. Todesfälle passieren immer wieder – zuletzt etwa in Serbien oder Ungarn.
      Innenminister meldet sich zu Wort

      „Schlepperei gehört zu den menschenverachtendsten Formen der Organisierten Kriminalität“, meldete sich Innenminister Karl Nehammer (ÖVP) zu Wort. „Meine Gedanken gelten den Opfern und deren Angehörigen.“
      Reaktion von Landeshauptmann Doskozil

      Der burgenländische Landeshauptmann Hans Peter Doskozil (SPÖ) hat sich am Dienstag über den Vorfall erschüttert und tief betroffen gezeigt. Er forderte eine gesamteuropäische Reform des Asylwesens, die Asylverfahren schon außerhalb Europas ermöglicht und damit die gefährliche Flucht verhindere.

      Illegale Migration: Die Zahlen steigen

      Die Aufgriffe von Flüchtlingen, speziell im Burgenland, sind in den vergangenen Wochen und Monaten wieder stark angestiegen. Das Innenministerium berichtet in einer internen Analyse für das vierte Quartal über „gleichbleibend hohen Druck am Balkan und weiterhin hohen Migrationsdruck von Ungarn nach Österreich. Entspannung ist kurzfristig nicht zu erwarten.“

      1.200Flüchtlinge werden aktuell jede Woche in Österreich aufgegriffen. Es handelt sich großteils um Menschen aus Syrien und Afghanistan. Die Zahl der Schleppungen ist gegenüber dem Vorjahr um 63 Prozent gestiegen.
      Gruppen-Aufgriffe

      Immer öfter handelt es sich bei den Aufgriffen um Gruppen-Aufgriffe. Damit sind Aufgriffe mit mehr als fünf Personen gemeint. Besonders stark betroffen sind die burgenländischen Bezirke Oberpullendorf, Neusiedl und Oberwart.

      Laut Einschätzungen des Bundeskriminalamtes handelt es sich bei den Flüchtlingen, die aktuell nach Österreich kommen, um solche, die am Westbalkan festgesessen sind.

      https://kurier.at/chronik/burgenland/kurier-talk-mit-gerald-tatzgern-leiter-bekaempfung-der-schlepperkriminalitaet/401775372

  • #Pour_Sama

    #Waad_al-Kateab est une jeune femme syrienne qui vit à Alep lorsque la guerre éclate en 2011. Sous les bombardements, la vie continue. Waad tombe amoureuse, se marie avec Hamza et donne naissance à sa fille, Sama. Elle filme au quotidien les #pertes, les #espoirs et la #solidarité du peuple d’Alep. Son mari médecin sauve des centaines de vies dans un hôpital de fortune. Le couple est déchiré entre la protection de leur enfant et leur combat pour la #liberté.


    https://www.youtube.com/watch?v=WGp7C79Pvzg

    #film #documentaire #film_documentaire #Alep #guerre #vie #bombardements #hôpital #Syrie #révolution #résistance #ville #ville_en_guerre #témoignage #siège

  • Info-#Rojava 18.10.2019 Complément

    Le « #Kurds_Freedom_Convoy » résiste autour de #Serekanyie. Malgré la proclamation du cessez-le-feu au moins 30 personnes ont été tuées à Serakanyie par l’#aviation et des #drones turques. Le convoi humanitaire de civils qui depuis hier se dirigeait vers la ville pour rompre le #siège et demander l’ouverture d’un couloir humanitaire à été à nouveau attaqué. Au même moment d’autres personnes sont venues grossir la ceinture humaine qui encercle les assiégeants turco-djihadistes. 80 voitures et 400 civils. Le Kurds Freedom Convoy a rejoint à pied le village de #Mishrafa près de Serakanyie. Le village a été rasé au sol. Il y a de nombreux corps de civils tués. Sont également signalé des civils blessés dans d’autres villages avoisinants assiégées par les turques. L’on dénombre 8 tués à #Bab-al-Xer. C’est littéralement du #nettoyage_ethnique qui a cours !
    Quelques images du convoi humanitaires près de Serakanyie. En particulier le village de Mishrafa rasé par les troupes turco-djihadistes.


    http://libradio.org/wp-content/uploads/2019/10/K_Info18102019_Compl%C3%A9ment.pdf
    #convoi #guerre #évacuation #convoi_humanitaire #Kurdistan #Syrie #Kurdes #Turquie #attaque #décès #morts

  • Israël va réduire l’électricité dans certaines zones de Cisjordanie occupée
    http://www.lefigaro.fr/flash-eco/israel-va-reduire-l-electricite-dans-certaines-zones-de-cisjordanie-occupee

    La compagnie d’électricité israélienne a annoncé dimanche qu’elle réduisait « le courant dans certaines localités de Cisjordanie » occupée, en raison des impayés qui s’élèvent à quelque 440 millions d’euros. Cette société publique israélienne fournit l’électricité à la compagnie palestinienne de Jérusalem-Est qui, elle, la distribue en Cisjordanie, territoire palestinien occupé par Israël depuis 1967.

    La compagnie israélienne fait état d’1,7 milliard de shekels (440 millions d’euros) d’impayés de la part de la société palestinienne. À partir du 22 septembre, « la compagnie d’électricité va réduire le courant dans certaines localités de Cisjordanie en raison de la dette de la Compagnie de Jérusalem-Est », a annoncé l’entreprise israélienne.

    Elle a affirmé n’avoir trouvé « aucune » autre solution pour tenter de se faire payer, mais l’Autorité palestinienne a dénoncé un « chantage » des autorités israéliennes. « Le gouvernement d’occupation (israélien) cherche, avec ces sanctions et en exploitant les impayés de l’électricité, à faire pression sur le gouvernement palestinien afin qu’il accepte un accord ne respectant pas les droits des Palestiniens » et comprenant notamment « l’augmentation des prix », a affirmé dans un communiqué Zafer Melhem, directeur de l’Autorité palestinienne de l’Energie.

    La compagnie palestinienne a précisé que l’électricité serait coupée deux heures par jour dans certaines zones de Cisjordanie occupée, selon un calendrier qui s’étend jusque mi-octobre.

    #palestine #siège #occupation #chantage

  • #Piazza_della_Vittoria, Bolzano
    En me promenant à #Bolzano en mai 2019, voici ce que je vois :

    Piazza della vittoria, già Piazza della Pace
    (Place de la #victoire, déjà Place de la #paix)

    Je suis évidemment intriguée... pourquoi passer de la paix à la victoire ? Victoire de qui ? Paix pour qui ?

    Le #monument sur ladite place est aussi très imposant et impressionnant... et par son #architecture on comprend vite quand il a été érigé...

    Petit tour sur wikipedia, qui nous dit que le monument a été construit entre 1926 et 1928.
    #Monumento_alla_Vittoria :
    https://it.wikipedia.org/wiki/Monumento_alla_Vittoria_(Bolzano)
    #Siegesdenkmal

    Vous pouvez découvrir l’histoire du monument sur la page wikipedia.

    Je voulais aussi signaler un passage autour de ce monument dans le #livre de #Alessandro_Leogrande, « #La_frontiera » :

    «A Bolzano li chiamano ancora ’relitti fascisti’. Sono tutti quei musolei, palazzi, cimeli che ricordano il ventennio mussoliniano. Il relitto fascista per eccellenza è il monumento realizzato da #Marcello_Piacentini nel 1928 per celebrare la vittoria italiana nella Grande guerra e per rimarcare, com’è scritto in latino a caratteri cubitali sulla facciata, che ’hic patriae fines siste signa, hinc ceteros excluimus lingua legibus artibus’. E, cioè, che non solo qui sono fissati i confini della patria, ma che proprio ’da qui’ educammo ’gli altri’ con la lingua, le leggi, le arti.
    Per decenni ’gli altri’, cioè la comunità germanofona cui il fascismo aveva impedito di usare la propria lingua, hanno visto nel monumento il simbolo più eclatante dell’usurpazione e dell’occupazione. Ed eclatante il monumento di Piacentini lo è davvero. Non solo perché, con grande dispendio di marmo bianco, s’alza in stile littorio fino a dominare un’ampia porzione d’abitato, proprio nel punto in cui era stata avviata la costruzione di un altro monumento, prontamente demolito, in memoria dei caduti del reggimento austriaco #Kaiserjäger. Non so perché appare del tutto fuori luogo rispetto al territorio circostante, al paesaggio, all’architettura tradizionale, con lse sue quattordici colonne a forma di fascio che reggono un’imponente architrave. Ma anche perché è stato il cardine della mutazione urbanistica della città. Una mutazione imposta dal fascismo, che culmina, al termine di una serie di strade che ricordano i ’trionfi’ nazionali, nella piazza del Tribunale.
    Il Monumento è stato sempre percepito come la punta dell’iceberg di una frattura più ampia. D’altro canto, la destra italiana l’ha sempre difeso come un ’proprio’ simbolo, anche in età repubblicana. Così, benché a un certo punto la Südtiroler Volkspartei, il partito che rappresenta le minoranze tedesche e ladina e ha governato il processo di crescente autonomia della provincia, lo volesse buttare giù, è rimasto al suo posto. Ogni volta che gli attriti sono riemersi, ogni volta che il cammino verso l’autodeterminazione della provincia speciale è parso arrestarsi, ogni volta che le bombe hanno ripreso a esplodere, e sono state molte le bombe a esplodere in queste vallate tra gli anni sessanta e ottanta del Novecento, quelle funebri colonne littorie sono tornate al centro del buco nero delle reciproche incomprensioni.
    Nel 1979 fu #Alexander_Langer, leader della nuova sinistra, da sempre sostenitore della necessità di creare gruppi interetnici, tanto da aver fondato dieci anni prima una rivista che si chiamava ’#Die_Brücke', ciò ’Il ponte’, a presentare in Consiglio provinciale una mozione in cui si chiedeva che il monumento diventasse un luogo di ’memoria autocritica’. Ma la mozione non passò, perché gli opposti nazionalismi vedevano entrambi come fumo negli occhi la possibilità di trasformare quelle colonne in un monito permanente. Per gli uni andavano soltanto abbattute, per gli altri dovevano rimanere tali e quali al loro posto. Dopo una serie di attentati, il Monumento venne addirittura recintato, tanto da accrescere il senso di separazione.
    La trasformazione auspicata da Langer si è realizzata solo ora con la creazione di un percorso espositivo permanente intitolato BZ ’18-’45. Un monumento, una città, due dittature , che si snoda nei locali sottostanti l’opera di Piacentini. (...)
    L’esposizione allestita nall cripta e nei corridoi sotterranei mi ha sorpreso. Pannello dopo pannello, video dopo video, sono ripercorsi i momenti della sua costruzione e la storia della città tra le due guerre mondiali, quando fu pesantemente condizionata dai due totalitarismi, quello fascista e quello nazista. Tuttavia il maggior intervento sul monumento non è tanto costituito dal percorso espositivo, quanto da un anello a led che cinge una delle colonne centrali. Sullo schermo nero circolare, spesso almeno mezzo metro, scorre rosso il titolo della mostra (BZ ’18-’45...), tradotto in tre lingue: italiano, tedesco e inglese.
    L’opera di Piacentini non è stata rimossa, ma questa sorta di vistoso ’anello al naso’ ha il potere di desacralizzarla, trasformandola in altro da sé. Tra la retorica del Monumento e gli occhi di chi lo guarda si insinua subito un terzo elemento che ne ribalta il senso profondo».

    (pp.218-220)

    #fascisme #WWI #première_guerre_mondiale #toponymie #Italie #langue #alterité #patriotisme #architecture_fasciste #urbanisme_fasciste #géographie_urbaine #Südtirol #Province_autonome_de_Bolzano #nationalisme #exposition

    ping @simplicissimus @reka

    • «A Bolzano li chiamano ancora ’relitti fascisti’. Sono tutti quei mausolei, palazzi, cimeli che ricordano il ventennio mussoliniano. Il relitto fascita per eccellenza è il monumento realizzato da #Marcello_Piacentini nel 1928 per celebrare la vittoria italiana nella Grande guerra e per rimarcare, com’è scritto in latino a caratteri cubitali sulla facciata, che ’hic patriae fines siste signa, hinc ceteros excoluimus lingua legibus artibus’. E, cioè, che non solo qui sono fissati i confini della patria, ma che proprio ’da qui’ educammo ’gli altri’ con la lingua, le leggi, le arti.
      Per decenni ’gli altri’, cioè la comunità germanofona cui il fascismo aveva impedito di usare la propria lingua, hanno visto nel monumento il simbolo più eclatante dell’usurpazione e dell’occupazione. Ed eclatante il monumento di Piacentino lo è davvero. Non solo perché, con grande dispendio di marmo bianco, s’alza in stile littorio fino a dominare un’ampia porzione dell’abitato, prioprio nel punto in cui era stata avviata la costruzione di un altro monumento, prontamente demolito, in memoria dei caduti del reggimento austriaco Kaiserjäger. Non solo perché appare del tutto fuori luogo rispetto al territorio circostante, al paesaggio, all’architettura tradizionale, con le sue quattordici colonne a forma di fascio che reggono un’imponente architrave. Ma anche perché è stato il cardine della mutazione urbainstica della città. Una mutazione imposta dal fascismo, che culmina, al termine di una serie di strade che ricordano i ’trionfi’ nazionali, nella piazza del Tribunale.
      Il Monumento è stato sempre percepito come la punta dell’iceberg di una frattura più ampia. D’altro canto, la destra italiana l’ha sempre difeso come un ’proprio’ simbolo, anche in età repubblicana. Così, benché a un certo punto la Südtiroler Volkspartei, il partito che rappresenta la minoranza tedesca e ladina e ha governato il processo di crescente autonomia della provincia, lo volesse buttare giù, è rimasto al suo posto. Ogni volta che gli attriti sono riemersi, ogni volta che il cammino verso l’autodeterminazione della provincia speciale è parso arrestarsi, ogni volta che le bombe hanno ripreso a esplodere, e sono state molte le bombe a esplodere in queste vallate tra gli anni sessanta e ottanta del Novecento, quelle funebri colonne littorie sono tornate al centro del buco nero delle reciproche incomprensioni.
      Nel 1979 fu #Alexander_Langer, leader della nuova sinistra, da sempre sostenitore della necessità di creare gruppi interetnici, tanto da aver fondato dieci anni prima una rivista che si chiamava ’Die Brücke’, cioè ’Il ponte’, a presentare in Consiglio provinciale una mozione in cui si chiedeva che il monumento diventasse un luogo di ’memoria autocritica’. Ma la mozione non passò, perché gli opposti nazionalismi vedevano entrambi come fumo negli occhi la possibilità di trasformare quelle colonne in un monito permanente. Per gli uni andavano soltanto abbattute, per gli altri dovevano rimanere tali e quali al loro posto. Dopo una serie di attenati, il Monumento venne addiritutra recintato, tanto da accrescere il senso di separazione.
      La trasformazione auspicata da Langer si è realizzata solo ora con la creazione di un percorso espositivo permanente BZ ’18-’45. Un monumento, una città, due dittature , che si snoda nei locali sottostanti l’opera di Piacentini. (...)

      L’esposizione allestita nella cripta e nei corridoi sotterranei mi ha sorpreso. Pannello dopo pannello, video dopo video, sono ripercorsi i momenti della sua costruzione e la storia della città tra le due guerre mondiali, quando fu pesantemente condizionata dai due totalitarismi, quello fascista e quello nazista. Tuttavia il maggior intervento sul monumento non è tatno costituito dal percorso espositivo, quanto da un anello a led che cinge una delle colonne centrali. Sullo schermo nero circolare, spesso almeno mezzo metro, scorre in rosso il titolo della mostra (BZ ’18-’45...), tradotto in tre lingue: italiano, tedesco e inglese.
      L’opera di Piacentini non è stata rimossa, ma questa sorta di vistoso ’anello al naso’ ha il potere di desacralizzarla, trasformandola in altro da sé. Tra la retorica del Monumento e gli occhi di chi lo guarda si insinua subito un terzo elemento che ne ribalta il senso più profondo»

      in: Alessandro Leogrande, La frontiera , 2017, pp. 218-220.

    • #Mussolini bas relief

      “The Mussolini Bas relief” in travertine marble is 36 m long, 5,5 m high and 50 cm deep. With these dimensions it is surely the biggest bas relief in Europe. It has been sculpted on 57 plates of marble of various dimensions and disposed on two rows on the pediment of the “Casa Littoria” (house of the lictor) that was the headquarters of the fascist party. The numerous figures and details on the bas relief represent and glorify various establishments in different stages of fascism, from the victory of the first world war to the march on Rome. At the centre the dictator, Benito Mussolini, is represented like a Roman emperor on a horse with his arm out in a Roman salute. Between the horses’ legs the words “Believe, Obey, Fight” are sculpted in large letters.
      The bas relief was finished, but never fully assembled, during the fascist regime. Some of the central plates, post-war, were held in a safety-deposit. During the following years after the end of the war the monuments that glorified fascism were destroyed and only in 1957 during a visit from the President of the Republic the Mussolini bas relief was completed.
      To date, all the attempts to destroy the Mussolini bas relief or safeguard it in a museum have failed for reasons linked to its political exploitation from the various parties and groups. A contest accepted by the South-Tyrolean government in 2011 has still not produced any results.

      https://www.sentres.com/en/mussolini-bas-relief
      #Hans_Piffrader

  • « Nous n’avons jamais eu la volonté de blanchir qui que ce soit » : l’IGPN défend son enquête après la mort de Steve Maia Caniço
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2019/08/05/nous-n-avons-jamais-eu-la-volonte-de-blanchir-qui-que-ce-soit-les-dirigeants

    Quand un civil est blessé ou meurt lors d’une opération de maintien de l’ordre, il est difficile d’identifier le policier ou les policiers responsables à l’origine des violences. Pour M. Chantreux, interrogé sur les enquêtes sur les « gilets jaunes » blessés, « des policiers de l’IGPN ont parfois visionné des centaines d’heures de vidéos pour parvenir à une authentification », ce qui pourrait « interroger sur le coût que ça représente pour le contribuable ».

    Il me semble qu’il n’y a pas besoin de milliers d’heurs de video surveillance pour connaitre le nom du commissaire, du prefet, du ministre ...

  • Siege Manual
    https://www.joedog.org/siege-manual

    Un outil (linux uniquement) de test de montée en charge d’un site/serveur web :

    Siege is an open source regression test and benchmark utility. It can stress test a single URL with a user defined number of simulated users, or it can read many URLs into memory and stress them simultaneously. The program reports the total number of hits recorded, bytes transferred, response time, concurrency, and return status.

    Le repo Git : https://github.com/JoeDog/siege
    Commande type :
    siege -c10 -t10S http://exemple.com
    NB : paquet debian disponible

    #siege #testeur #stress #serveur_web #charge #benchmark #apache #performance

  • Mark Zuckerberg : Facebook – Kongress 2:0 (http://www.zeit.de/digita...
    https://diasp.eu/p/7002100

    Mark Zuckerberg: Facebook – Kongress 2:0

    Zweimal trat Mark Zuckerberg vor dem US-Kongress auf. Zweimal wirkte er wie der Sieger. Wohl weil er merkte: Vor der US-Politik muss er sich vorerst nicht fürchten.

    #mark #zuckerberg #kongress #internet #facebook #us-kongress #uskongress #sieger #vor #us-politik #politik #uspolitik #news #bot #rss

  • Témoignage : Vent glacial sur Sarajevo

    Carnet de guerre d’un officier en première ligne lors du siège le plus long qu’ait connu une capitale à l’époque contemporaine, Vent glacial sur Sarajevo est un témoignage sans concession sur l’ambiguïté de la politique française durant le conflit en ex-Yougoslavie.

    Cette « capitale assiégée que nous n’avons pas su protéger », Guillaume Ancel la rejoint en janvier 1995 avec un bataillon de la Légion étrangère. Sarajevo est encerclée depuis déjà trois ans et sa population soumise aux tirs quotidiens des batteries d’artillerie serbes. L’équipe du capitaine Ancel a pour mission de guider les frappes des avions de l’OTAN contre elles. Des assauts sans cesse reportés, les soldats français recevant à la dernière minute les contre-ordres nécessaires pour que les Serbes ne soient jamais inquiétés. Sur le terrain, les casques bleus français comprennent qu’on ne leur a pas tout dit de leur mission et se retrouvent pris au piège.

    « Six mois d’humiliation » résume #Guillaume_Ancel qui dresse un constat sévère des choix faits par le gouvernement d’alors. En témoignant de l’opération à laquelle il a participé, il raconte ces hommes, ces situations, cette confusion et le désarroi qui, jour après jour, ronge ces soldats impuissants.

    Ancien officier de la #Force_d’Action_Rapide, saint-cyrien, Guillaume Ancel a participé notamment à l’intervention de l’ONU au Cambodge en 1992, à l’opération Turquoise en 1994, pendant le génocide des Tutsis au Rwanda, et aux missions en ex-Yougoslavie en 1995 et 1997. Il a quitté l’armée de terre en 2005 pour rejoindre le monde des entreprises.

    https://www.courrierdesbalkans.fr/Temoignage-Vent-glacial-sur-Sarajevo
    #France #Sarajevo #ex-yougoslavie #histoire #Bosnie #siège #livre #témoignage #guerre #conflit
    cc @ville_en

  • Après les élections législatives du 18 juin 2017, un #scrutin à la #proportionnelle s’impose plus que jamais...
    http://reformeraujourdhui.blogspot.com/2017/06/apres-les-elections-legislatives-du-18.html

    Avec 32,3% des voix exprimées au premier tour des élections législatives du 10 juin 2017 et seulement 15,4% des électeurs inscrits, La République en marche et le Modem obtiennent au second tour 350 #députés sur un total de 577, soit plus de 60% des sièges à l’Assemblée nationale. Un parti minoritaire dans le #pays mais largement majoritaire dans l’hémicycle, la France continue de se distinguer depuis 1958 avec son scrutin majoritaire uninominal à deux tours, véritable aberration politique qui écarte de toute #représentation parlementaire plusieurs millions d’électeurs... L’objectif fondamental de la proportionnelle est de réduire l’écart entre la part du vote national que reçoit un parti et sa part de sièges au parlement ; un parti important ou un petit parti devant obtenir à peu près un nombre de sièges (...)

    #circonscription #siège

  • Hungry, Thirsty and Bloodied in Battle to Retake Mosul From ISIS - The New York Times
    http://www.nytimes.com/2016/12/18/world/middleeast/iraq-mosul-islamic-state.html?emc=edit_th_20161219&nl=todaysheadlines&nlid=

    After two months, the battle to retake the Iraqi city of Mosul from the Islamic State has settled into a grinding war of attrition. The front lines have barely budged in weeks. Casualties of Iraqi security forces are so high that American commanders heading the United States-led air campaign worry that they are unsustainable. Civilians are being killed or injured by Islamic State snipers and growing numbers of suicide bombers.

    As the world watches the horrors unfolding in Aleppo, Syria, where government forces and allied militias bombed civilians and carried out summary executions as they retook the last rebel-held areas, a different tragedy is transpiring in Mosul. Up to one million people are trapped inside the city, running low on food and drinking water and facing the worsening cruelty of Islamic State fighters.

    #Mossoul #Irak #siège

  • Syrian Opposition Launches Second Operation to Break Aleppo Siege

    The Syrian armed opposition launched an offensive to break the regime’s siege of Aleppo City on October 28, marking the second major opposition counteroffensive to break the siege since its initial imposition on July 28. Opposition forces led by Jabhat Fatah al Sham (JFS) – successor of al Qaeda’s Syrian affiliate Jabhat al Nusra – and Salafi Jihadist group Ahrar al Sham successfully lifted the initial pro-regime siege of the city on August 6. Pro-regime forces with Russian air support, however, re-established the siege once again on September 4.


    http://iswresearch.blogspot.ch/2016/10/syrian-opposition-launches-second.html
    #Syrie #guerre #conflit #Alep #cartographie #visualisation #siège

  • #Syrie : à #Madaya assiégée, le désespoir des #enfants syriens malades ou blessés

    Depuis un mois, Yamane Ezzedine, un garçon de 10 ans souffrant d’une méningite, se tord de douleur devant ses parents impuissants dans la ville syrienne assiégée de Madaya. Il fait partie des enfants malades ou blessés que l’ONU appelle à évacuer d’urgence.

    http://www.courrierinternational.com/sites/ci_master/files/styles/image_original_765/public/afp/6f90d1275e0ff429b1265fa60f7932e2034b2d9c.jpg?itok=Xl-LslLC
    http://www.courrierinternational.com/depeche/syrie-madaya-assiegee-le-desespoir-des-enfants-syriens-malade
    #siège #enfance

  • In die Siegesallee bitte
    https://de.wikipedia.org/wiki/Siegesallee

    Haben sie heute wieder bis in die Puppen gefeiert ? Ganz schön viel Glück haben sie, ich sorge dafür, dass sie ganz schnell ihren Kater ausschlafen können. Vor hundert Jahren hätten sie noch selber durch die Puppen spazieren müssen, Kraftdroschken gab es da noch fast keine.

    Bis in die Puppen kennen sie nicht ? Ach so, sie sind erst seit zehn Jahren in Berlin, Opa war noch in Hannover ? Also mit den Puppen ist das so. Vor 120 Jahren hat Kaiser Wilhelm II., richtig, der mit dem Kanonenboot auf dem Tanganjikasee, also vor 121 Jahren hat der sich eine schicke Allee mit allen seinen Vorgängern in den Tiergarten bauen lasssen. Das waren dann die Puppen , die Statuen, zwischen Mitte und Moabit. Auf dem Weg nachts von der Feier in die Heia mußte man damals durch die Puppen wanken, wenn einen keiner fuhr. Daher kommt der Spruch.

    Ich als Taxifahrer muß die alle kennen, die Puppen , auch wenn die Siegesallee weg ist. Wieso ? Na weil nach fast allen eine Straße benannt ist, die Marmorfigürchen sind nur Kaisers Sahnehäubchen oben drauf. Réclame Royale hieß das. Wie heute, da ist Reklame auch nicht immer schön, nur weniger königlich.

    Sie glauben das nicht, na dann los, ich sage ihnen mal die Puppen mit und ohne Straße auf, nur so zum Spaß.

    Liste der Figurengruppen in der Berliner Siegesallee
    https://de.wikipedia.org/wiki/Liste_der_Figurengruppen_in_der_Berliner_Siegesallee

    1 Albrecht I. (1157–1170, 1. Markgraf von Brandenburg, auch Albrecht der Bär, Askanier)


    https://de.wikipedia.org/wiki/Albrecht_I._(Brandenburg))
    Albrechtstraße in Steglitz
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Albrechtstrasse-12165-12167-Berlin
    Albrechtstraße in Tempelhof
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Albrechtstrasse-12099-12103-Berlin
    Markgraf-Albrecht-Straße am Kudamm
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Markgraf-Albrecht-Strasse-10711-Berlin

    2 Otto I. (1170–1184, 2. Markgraf von Brandenburg, Askanier)

    3 Otto II. (1184–1205, 3. Markgraf von Brandenburg, Askanier)


    Pech gehabt, die Ottos haben heute keine eigenen Straßen.

    Die Ottostraße in Moabit wurde 1867 dem Zimmermann und Bauunternehmer Johann Karl Otto gewidmet.
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Ottostrasse-10555-Berlin
    Dafür teilen die sich den Askanierring in Spandau, den Askanischen Platz in Kreuzberg und das immer noch vorhandene Askanische Gymnasium, die ollen Askanier.
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Askanierring-13585-13587-Berlin
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Askanischer-Platz-10963-Berlin
    https://de.wikipedia.org/wiki/Askanisches_Gymnasium

    4 Albrecht II. (1205–1220, 4. Markgraf von Brandenburg, Askanier)


    Dito Albrecht der Zwote.

    5 Johann I. und Otto III. (1220–1267, fünfter und sechster Markgraf von Brandenburg, Askanier)


    Für die hat es auch irgendwie nicht zur Straße gereicht.

    6 Johann II. (1266–1281, Markgraf von Brandenburg, Mitregent seines Bruders Otto IV., Askanier)


    Die Askanier sind den Berlinern der Gründerzeit wohl doch zu weit weg. Sie nennen Straßen lieber nach Toten, die sich noch warm anfühlen.

    7 Otto IV. (mit dem Pfeil) (1267–1308, Markgraf von Brandenburg, Askanier)


    Nix Straße, Askanierschicksal.

    8 Waldemar (der Große) (1308–1319, Markgraf von Brandenburg, Askanier)


    Waldemarstraße in Pankow-Niederschönhausen
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Waldemarstrasse-13156-Berlin
    Die bekannte Waldemarstraße in Kreuzberg heißt nicht nach dem Askanier-Waldi sondern nach einem Tibetreisenden, dem Preußenprinzen Friedrich Wilhelm Waldemar, der 1849 in Münster als Folge seiner Indienreise das Zeitliche segnete.
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Waldemarstrasse-10179-10997-10999-Berlin

    9 Heinrich II. (das Kind) (1308–1319, Markgraf von Brandenburg, Askanier)


    Leider leider ist diesem Heinrich kein Straßengedenken gegönnt, denn der Kreuzberger Heinrichplatz heißt nach einem der vielen langweiligen Preußenprinzen aus dem neunzehnten Jahrhundert, Friedrich Heinrich Karl, Sohn Königs Friedrich Wilhelms II., General der Infanterie und Chef des zweiten ostpreußischen Infanterie-Regiments, Kommandeur des Hammschen Bataillons des vierten Garde-Landwehr-Regiments, Großmeister des Johanniterordens zu Sonneburg und Großmeister des Königlichen preußischen Johanniterordens. Kann man mit den ganzen Titeln problemlos vergessen, den Heinrichplatz-Heini.
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Heinrichplatz-10999-Berlin

    Irgendwann war Ende mit den Askaniern und die Wittelsbacher schmissen den Laden eine Weile.

    Zwei Straßen haben sie auch:
    Wittelsbacherstraße in Wilmersdorf
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Wittelsbacherstrasse-10707-Berlin
    Wittelsbacherstraße in Lichtenrade
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Wittelsbacherstrasse-12309-Berlin

    10 Ludwig I. (der Brandenburger) (1323–1351, Markgraf von Brandenburg, Wittelsbacher)


    Verdamp lang her , sacht der Kölsche. erinnere ich mich nicht mehr so genau. Keine Straße.

    11 Ludwig II. (der Römer) (1351–1365, Markgraf von Brandenburg, 1356–1365 (erster) Kurfürst von Brandenburg, Wittelsbacher)


    Auch schon ganz kalt.

    12 Otto V. (der Faule) (1365–1373, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg, Wittelsbacher)


    Dieser Otto war ein Bayer und hat deshalb keine Straße in Berlin. Nachträglich verpaßte man ihm den schönen Beinamen, der ihn den Professoren des Joachimthalschen Gymnasiums als Thema von Besinnungsaufsätzen geeignet erscheinen ließ.
    Die Beine der Hohenzollern
    http://www.berlinstory-verlag.de/programm/leseprobe/96-Legenden_um_Otto_den_Faulen.html

    Abgang der Wittelsbacher, Auftritt der Luxemburger

    Auch die kriegen ihre 1907 Straße in Berlin-Wedding:
    Luxemburger Straße im Wedding
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Luxemburger-Strasse-13353-Berlin
    ... wobei ... das Jahr der Widmung und die Lage der Straße am Rand des Belgischen Viertels nahelegen, daß die Stadtoberen mehr vom Namen des bald zu erobernden Nachbarstaates inspiriert waren als von den alten luxemburgischen Markgrafen.

    13 Karl IV. (Kaiser) (1373–1378, keine Titel, Luxemburger)


    Karlplatz in Lichterfelde an Ring-, Baseler Straße und Kadettenweg, möglicherweise nach dem askanischen Karl, vielleicht aber einfach nach dem Männernamen benannt.
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Karlplatz-12205-Berlin

    14 Sigismund (Kaiser) (1378–1397, 1411–1415, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg, römisch-deutscher Kaiser 1433–1437, Luxemburger)


    Als der adlige Bauspekulant und Immobilienpromoter Fürst Guido Henckel von Donnersmarck 1910 sein Entwicklungsprojekt Frohnau einweiht, sind die alten märkischen Herrscher willkommene Namensgeber für die Adresskarten der Villenbesitzer. So kommt auch Kaiser Sigismund zu seiner geschwungenen Allee mit dem hübschen Namen Sigismundkorso.

    Sigismundkorso in Berlin-Frohnau
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Sigismundkorso-13465-Berlin
    Die Sigismundstraße in Tiergarten hat nichts mit Kaiser Sigismund zu tun, die heißt nach einem Sohn des späteren Kaiser Friedrich III., Sigismund, Prinz von Preußen, der 1866 mit drei Jahren stirbt.

    Im Jahr 1415 ist Ende mit den Luxemburgern, weiter gehts mit den Hohenzollern.


    Hohenzollerndamm in Wilmersdorf
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Hohenzollerndamm-10713-10717-14199-Berlin
    Hohenzollernring in Spandau
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Hohenzollernring-13585-Berlin

    15 Friedrich I. (1415–1440, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg, Hohenzollern)


    Der erste der Hohenzollern in Berlin hat keine Gedenkstraße. Warum ?

    16 Friedrich II. (der Eisenzahn) (1440–1470, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg, Hohenzollern)


    Eisenzahnstraße am Kudamm
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Eisenzahnstrasse-10709-Berlin

    17 Albrecht Achilles (1470–1486, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg, Hohenzollern)


    Albrecht-Achilles-Straße am Kudamm
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Albrecht-Achilles-Strasse-10709-Berlin

    18 Johann Cicero (1486–1499, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg, Hohenzollern)


    Cicerostraße am Kudamm
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Cicerostrasse-10709-Berlin

    19 Joachim I. (Nestor) (1499–1535, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg, Hohenzollern)


    Nestorstraße am Kudamm
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Nestorstrasse-10709-10711-Berlin

    20 Joachim II. (Hektor) (1535–1571, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg, Hohenzollern)


    Hektorstraße am Kudamm
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Hektorstrasse-10711-Berlin
    Kurfürstendamm
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Kurfuerstendamm-10707-10709-10711-Berlin
    Der Kurfürstendamm war seit dem ollen Hektor der Knüppeldamm von Berlin zum 1542 erbauten Jagdschloß Grunewald.

    21 Johann Georg (1571–1598, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg, Hohenzollern)


    Johann-Georg-Straße am Kudamm
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Johann-Georg-Strasse-10709-Berlin

    22 Joachim Friedrich (1598–1608, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg, seit 1605 Regent des Herzogtums Preußen, Hohenzollern)


    Joachim-Friedrich-Straße am Kudamm
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Joachim-Friedrich-Strasse-10711-Berlin
    Joachimstraße in Mitte
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Joachimstrasse-10119-Berlin

    23 Johann Sigismund (1608–1619, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg; Herzog und Co-Regent in Preußen, Hohenzollern)


    Johann-Sigismund-Straße am Kudamm
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Johann-Sigismund-Strasse-10711-Berlin

    24 Georg Wilhelm (1619–1640, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg; Herzog in Preußen, Hohenzollern)


    Georg-Wilhelm-Straße am Kudamm (Halensee)
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Georg-Wilhelm-Strasse-10711-Berlin

    25 Friedrich Wilhelm (der Große Kurfürst) (1640–1688, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg; Herzog in Preußen, Hohenzollern)


    Kurfürstenstraße in Lichterfelde-Ost, wobei die Straße wahrscheinlich die Billigausführung für alle Kurfürsten gemeinsam war, eine virtuelle Siegesallee würde man sowas heute nennen.
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Kurfuerstenstrasse-12249-Berlin
    Wer sich den Großen Kurfürst heute ansehen will, fährt zum Schloß Charlottenburg, da steht er im Hof rum, auf seinem Gaul und aus Blech.

    26 Friedrich I. (Preußen), Friedrich III. (Brandenburg) (1688–1713 als Markgraf und Kurfürst von Brandenburg sowie in Preußen bis 1701 als Herzog, dann bis 1713 als König im Gesamtstaat, Hohenzollern)


    Friedrichstraße in Kreuzberg und Mitte
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Friedrichstrasse-10117-10969-Berlin

    27 Friedrich Wilhelm I. (Soldatenkönig) (1713–1740, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg, König in Preußen, Hohenzollern)


    Wilhelmstraße in Kreuzberg und Mitte
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Wilhelmstrasse-10117-10963-Berlin

    28 Friedrich II. (der Große) (1740–1786, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg, König in Preußen, Hohenzollern)
    https://de.wikipedia.org/wiki/Datei:Friedrich_II._(Preussen)_Siegesallee_group28.JPG
    Der Große Friedrich wollte mit Berlin nichts zu tun haben. Dem Berliner Stadtschloß entfloh er wie Ludwig der XIV. dem Louvre und baute sich in Potsdam sein Popelversailles namens Sorjenlos und weil er kaum Deutsch konnte, hieß das dann Sans Souci. Alles was mit Fridericus Rex zu tun hat, spielt sich ganz weit weg von Berlin ab und dafür gibt es keine Straße. Jawoll.
    Obwohl es nicht paßt hat man ihm dann doch ein Denkmal Unter den Linden hingestellt, nochmal Blech mit Pferd, wie man das Mitte des Neunzehnten so machte.

    29 Friedrich Wilhelm II. (Der dicke Lüderjahn) (1786–1797, Markgraf und Kurfürst von Brandenburg, König von Preußen, Hohenzollern)


    Nur fressen, rumhuren und den Spiritisten geben macht beleibt aber nicht beliebt. So gibts auch keine Straße, selbst wenn man König und Kurfürst ist. So wird man höchstens zum unbekanntesten Hohenzollern des 18. Jahrhunderts. Klappt prompt, ich kenne nicht eine Straße, die direkt oder indirekt mit diesem Friedrich Wilhelm zu tun hat. Aber eine Skulptur in der Puppenallee mußte einfach sein.

    30 Friedrich Wilhelm III. (1797–1840, bis 1806 Markgraf und Kurfürst von Brandenburg, König von Preußen, Hohenzollern)


    Man kennt ihn vor allem als Mann der preußischen Ikone Königin Luise, die Schadow gemeinsam mit ihrer Schwester Friederike stehend als Prinzessinnengruppe und Rauch als Schlafende für ihren Sarkophag porträtierten.

    In seine Regentschaft fielen die Niederlage gegen Napoleon, die Befeiungskriege und die ersten Reformen Preußens auf dem Weg in das Industriezeitalter.
    Friedrich-Wilhelm-Platz in Friedenau
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Friedrich-Wilhelm-Platz-12161-Berlin
    Kaiser-Friedrich-Straße in Charlottenburg
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Kaiser-Friedrich-Strasse-10585-10627-Berlin
    Friedrichstraße in Lichterfelde-West
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Friedrichstrasse-12205-Berlin
    Friedrichstraße in Spandau
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Friedrichstrasse-13585-Berlin

    31 Friedrich Wilhelm IV. (1840–1861, König von Preußen, Hohenzollern)


    Irgenwie wurde er vergessen, der Romantiker auf dem Thron. Keine Straße und romantisch war er eigentlich auch nicht. Zitat: „zum Abschied die Wahrheit: Gegen Demokraten helfen nur Soldaten.“ Die Berliner Bürger liebten ihn und seinen ollen Papa Wrangel, obwohl der 1848 die Aufständischen Unter den Linden von der Kavallerie niederreiten ließ.
    Also keine Straße, dafür hat gefühlt die Hälfte aller Straßennamen Berlins irgendwie mit ihm zu tun.

    32 Wilhelm I. (1861–1888 als König von Preußen, 1871–1888 deutscher Kaiser, Hohenzollern)


    Friedrich-Wilhelm-Straße in Tempelhof
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Friedrich-Wilhelm-Strasse-12099-12103-Berlin

    33 Zwei ergänzende Gruppen am Brandenburger Tor

    33.1 Friedrich III. (1888, 99 Tage nach dem Tod Wilhelms I., König von Preußen und deutscher Kaiser, Hohenzollern)


    Nach 99 Tagen ist alles vorbei, zumindest für diesen wackeren Hohenzollern. Der zweite Kaiser des Jahres 1888 zieht kurz nach Übernahme der Amtsgeschäfte in die Ewigen Jagdgründe um, und der etwas behinderte Flottenfetischist Wilhelm II. übernimmt das Ruder.
    Dem 99-Tage-Kaiser Friedrich III. sind zwei Berliner Straßen gewidmet.
    Friedrichstraße in Lichterfelde-West
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Friedrichstrasse-12205-Berlin
    Friedrichstraße in Spandau
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Friedrichstrasse-13585-Berlin

    33.2 Kaiserin Friedrich (1888, 99 Tage nach dem Tod Wilhelms I., Kaiserin; Königin von Preußen; als Victoria von Großbritannien und Irland Princess Royal)


    Victoriastraße (1876 bis 1888)
    http://www.berlingeschichte.de/strassen/bez09h/v64.htm

    Victoria von Großbritannien und Irland lebte von 1840 bis 1901 und war im Drei-Kaiser-Jahr 1888 die 99-Tage-Kaiserin an der Seite ihren Mannes Friedrichs III. Warum man ihr die Straße im Todesjahr ihres Mannes weggenommen hat, weiß der Historiker-Teufel. Dafür bleiben ihr noch heute
    die Viktoriastraße in Tempelhof
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Viktoriastrasse-12105-Berlin
    die Viktoriastraße in Lichterfelde-West
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Viktoriastrasse-12203-Berlin
    mit dem Viktoriaplatz
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Viktoriaplatz-12203-Berlin
    die Viktoriastraße in Pankow / Französisch Buchholz
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Viktoriastrasse-13127-Berlin
    und das Viktoriaufer in der Altstadt-Spandau
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Viktoriaufer-13597-Berlin
    Vier lebendige Straße und noch mehr im virtuellen Stadtgedächtnis, das macht ein ganz schön fettes Gedenken für 99 Tage Regierungszeit, fast so gut wie die Bundespräsi-Apanage zum kurzfristigen Wulffabdanken 2012.

    Wilhelm II.


    Der Puppenallee-Auftraggeber Kriegskaiser Wilhelm II. hat auch noch seine Straße, nämlich den Kaiserdamm in Charlottenburg. 1967 war der auf Betreiben der CDU in Ademauerdamm umbenannt und, weil die Berliner das überhaupt nicht komisch fanden, 1968 wieder in Kaiserdamm rückbenannt worden. Wir woll unsan ollen Kaisa Willem wiedaham ... https://berlin.kauperts.de/Strassen/Kaiserdamm-14057-Berlin

    1918 will der Pazifist Hans Paasche die Puppen sprengen lassen, daraus wird aber nichts, dafür liebt Berlin seine Puppen viel zu sehr, auch wenn den Kaiser erstmal keiner mehr will. Das erledigt 27 Jahre später die Rote Armee, aber das ist eine andere Geschichte.
    https://de.wikipedia.org/wiki/Hans_Paasche
    Hans Paasche hat keine Straße, aber die Werkstatt der Kulturen will den Kolonialisten aus der Wissmannstraße weg haben und will lieber den Dichter und Kriesgegener in der Adresse führen.
    http://www.werkstatt-der-kulturen.de/download/file/location/kooperationen/wissmannstrasse/PM_Umbenennung.pdf

    Unser aller Tucholsky ist 1918 jedenfalls gegen die Sprengung der Püppchen.

    Bruch heißt Tuchos das Gedicht dazu.

    Was aber wird nun aus der Siegsallee?
    Wird man dieselbe, weil zu royalistisch,
    zu autokratisch und zu monarchistisch,
    abfahren in den Neuen See?

    Läßt man bei jedem Denkmal die Statur?
    und setzt nur neue Köpfe auf die Hälse?
    Nun, sagen wir mal, den von Lüders Else
    und Brutus Molkenbuhr?

    Weckt man den schönen, weißen Marmor ein?
    Vor langen Jahren, damals, im Examen,
    wußt ich, wie alle nach der Reihe kamen ...
    Soll das umsonst gewesen sein?

    Und sie ist schön! – Laß uns vorübergehen
    und lächeln – denn wir wissen ja Bescheid.
    Ich glaub, wir lassen still die Puppen stehen
    als Dokumente einer großen Zeit.

    Das Schicksal der Siegesallee wird von den deutschen Niederlagen der folgenden fünfzig Jahre bestimmt.

    Zitadelle Spandau zeigt Denkmäler
    http://enthuellt-berlin.de/kunde/enthuellt/pages/iframeContentBastler?source=e790&lang=ger

    27. Januar 1895
    Kaiser Wilhelms II. beschließt in der Siegesallee im Tiergarten „Marmor-Standbilder der Fürsten Brandenburgs und Preußens als Geschenk an die Stadt Berlin aufzustellen.

    22. März 1898 – 18. Dezember 1901
    Enthüllung der 32 Denkmalgruppen der Siegesallee. Eine Gruppe bestand jeweils aus einem Herrscherstandbild flankiert von 2 Büsten, die je einen bedeutenden Mann aus der Zeit des Herrschers darstellen. Sie wurden von einer halbrunden Bank eingefaßt.

    14. Juni – 22. September 1938
    Abbruch und Wiederaufbau der Denkmalanlage in der Großen Sternallee im Tiergarten als „Neue Siegesallee“. Die Denkmäler mussten der von Albert Speer geplanten gigantischen Nord-Süd-Achse der Hauptstadt „Germania“ weichen.

    Zweiter Weltkrieg
    Starke Kriegsschäden an den Denkmalgruppen. 4 Standbilder und 8 Büsten werden völlig zerstört.

    7. Juli 1947
    Der Magistrat zu Berlin beschließt den Abbruch der Denkmäler der Siegesallee.

    11. Mai – 25. August 1950
    Abbruch der Reste der Siegesallee. 28 Standbilder und 52 Büsten werden am Meißnerflügel der Ruine des Schlosses Bellevue abgestellt.

    September 1954
    26 Standbilder und der Großteil der Büsten werden am Südwestflügel des Schlosses Bellevue vergraben. Die Standbilder Albrecht der Bär und König Friedrich Wilhelm IV. sowie die nicht vergrabenen Büsten wurden später auf die Zitadelle Spandau gebracht. Einige Büsten finden anderweitig Aufstellung

    20. November 1978
    Die Siegesalleefiguren und -büsten werden im Zuge der Aktion des Berliner Senats „Rettung der Denkmäler“ ausgegraben und ab 1979 im Lapidarium, dem ehemaligen Pumpwerk, in Kreuzberg aufgestellt.

    Mai 2009
    Transport der Standbilder und Büsten der Siegesallee auf die Zitadelle in Vorbereitung der neuen Dauerausstellung Ausstellung „Enthüllt. Berlin und seine Denkmäler“ ab 2016 im ehemaligen Proviantmagazin.

    Der Wikipedia-Eintrag erzählt von der letzten Niederlage der Siegesallee. Nach dem Untergang Hitlerdeutschlands errichtet die Sowjetunion an Stelle der wilhelminischen Siegesallee ihr zentrales Berliner Denkmal für die im Kampf gegen die Naziarmeen gefallenen Rotarmisten.

    1947 dienten die stark beschädigten und noch vorhandenen Figuren für den Film Berliner Ballade als Kulisse. Der Kriegsheimkehrer Otto Normalverbraucher (gespielt von Gert Fröbe) spaziert hier durch die Trümmer Berlins, legt eine Rast bei der Siegesallee ein und salutiert reflexartig vor einigen Figuren. Kurze Zeit später, noch im selben Jahr, ordnete die Alliierte Kommandantur die Einebnung der Allee an. Auf der Trasse der ehemaligen Allee, an der Kreuzung der Siegesallee mit der Ost-West-Achse (Straße des 17. Juni) ließ die Rote Armee 1945 exakt mittig das Sowjetische Ehrenmal errichten, das deren Verlauf gezielt abriegelte. Die Trasse im Park wurde eingeebnet und durch Bepflanzung unkenntlich gemacht. Seit 2006 wurde der exakte Verlauf rekonstruiert und ist als Fußweg zwischen der Straße des 17. Juni und dem Kemperplatz begehbar.

    Berliner Ballade - Siegesallee bei 4:24
    https://www.youtube.com/watch?v=WS6FUXluF9g


    https://de.wikipedia.org/wiki/Berliner_Ballade

    –---

    Die Geschichte des deutschen Kanonenboots SMS Graf Goetzen auf dem Tanganjikasee
    https://sarahpaulus33.wordpress.com/2011/11/28/daten-und-informationen-zur-mv-liemba-fruher-sms-graf-goetz
    Liemba (Schiff)
    https://de.wikipedia.org/wiki/Liemba_(Schiff)

    Bereedert wird das Schiff seit 1977 von der Tanzania Railways Corporation (TRC). ... Die Liemba ist heute das einzige große Passagierschiff, das regelmäßig auf dem See verkehrt.

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