• Ekene si aggiudica la gestione del Cpr di via Corelli a Milano

    La cooperativa sociale subentrerà all’amministratore giudiziario nominato a fine dicembre 2023 dalla Procura di Milano, che sul Centro per il rimpatrio milanese ha aperto un’inchiesta per malagestione. Vanta una lunga e discussa esperienza nella gestione della detenzione amministrativa: dal 2019 gestisce il Cpr di #Gradisca_d’Isonzo e dal 2022 quello di #Macomer.

    Sarà Ekene il nuovo ente gestore del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di via Corelli a Milano. La cooperativa sociale con sede a Battaglia Terme, in provincia di Padova, si è aggiudicata per circa tre milioni di euro il bando indetto dalla prefettura milanese per la gestione dei 48 posti disponibili.

    La struttura da fine dicembre 2023 è sotto il controllo di un amministratore giudiziario a seguito dell’inchiesta della Procura di Milano per presunta malagestione, con gravi conseguenze sulla salute dei trattenuti, della Martinina Srl, precedente ente gestore. A Ekene, che vanta una lunga e per certi versi discussa esperienza nel settore, spetta il compito di subentrare alla gestione del centro, come detto ancora sotto amministrazione giudiziaria.

    Nella gara indetta dalla prefettura di Milano la cooperativa ha battuto la concorrenza della Sanitalia cooperativa sociale service che gestisce alcuni centri di accoglienza per richiedenti asilo in Piemonte. Al 26 agosto l’ufficio territoriale del Viminale non ha pubblicato i documenti di gara e non è possibile conoscere per quali motivi e, soprattutto, con quale ribasso, la cooperativa si sia aggiudicata la gara. L’appalto, con importo a base d’asta del valore di 7,7 milioni di euro è stato aggiudicato alla cooperativa veneta per circa tre milioni di euro per i primi due anni di gestione, a cui potrà aggiungersi una proroga contrattuale di un anno, come stabilito dal nuovo schema di capitolato.

    Ekene non è nuova nella gestione di queste strutture. La presidente del consiglio di amministrazione è #Chiara_Felpati, moglie di #Simone_Borile, rinviato a giudizio per omicidio colposo per la morte di #Vakhtang_Enukidze all’intero del Cpr di Gradisca d’Isonzo (GO), in gestione all’ente padovano da ormai cinque anni. Dal 2021 fino al settembre 2024, poi, la cooperativa è titolare dell’appalto indetto dalla prefettura di Nuoro per la gestione del Cpr di Macomer.

    In entrambe le gare, come raccontato nella nostra inchiesta “Cpr fuori controllo”, Ekene avrebbe allegato alle sue offerte documenti contraffatti e informazioni non veritiere, soprattutto con riferimento ai protocolli siglati con enti del territorio per svolgere attività culturali e ricreative all’interno delle strutture. Il Cpr di Macomer dovrebbe passare in gestione a Officine sociali a partire da settembre: nella gara indetta dalla prefettura di Nuoro a inizio maggio 2024 Ekene si è classificata infatti al terzo posto, presentando l’offerta tecnica -ovvero la proposta della cooperativa su “come” gestire la struttura- più bassa delle tre in gara (54 punti sui 70 disponibili).

    Secondo l’ultimo bilancio disponibile, il fatturato di Ekene è cresciuto da 3,2 milioni di euro nel 2021 a 4,1 nel 2022 grazie alle tre attività che svolge la cooperativa: “accoglienza ed integrazione richiedenti asilo, servizi educativi e culturali e preparazione pasti per conto terzi”. È nata come diretta emanazione di Edeco, già Ecofficina, a sua volta nata dalla società Padova Tre, che si occupa di rifiuti ed è fallita nel 2017 lasciando un buco di 30 milioni di euro. Il trait d’union tra questi enti è Simone Borile. Edeco ed #Ecofficina si sono poi guadagnate l’appellativo di “coop pigliatutto” per aver dominato il mercato dell’accoglienza dei richiedenti asilo in Veneto. Non senza problemi. La cooperativa è stata al centro di una lunga inchiesta della Procura di Padova per la malagestione di alcuni centri di accoglienza che si è poi conclusa a processo con assoluzione (per Felpati e Borile) su due capi d’accusa, relativa alla frode in pubbliche forniture, mentre sulle altre accuse è intervenuta la prescrizione. La nuova “veste” della #Edeco, Ekene, è così tornata alla ribalta. Attualmente la cooperativa gestisce diversi centri di accoglienza tra Padova, Rovigo e Venezia.

    La cooperativa subentra così nella gestione di uno dei centri più discussi e problematici. Non solo per il caldo estivo, che ha costretto i trattenuti, come raccontato su Altreconomia, a dormire all’addiaccio in carenti condizioni igienico-sanitarie, ma soprattutto perché anche durante il periodo dell’amministrazione giudiziaria non sono cessate le denunce sulle condizioni di vita dei trattenuti. Le stesse definite “disumane” dalla Procura di Milano che a fine dicembre 2023 ne aveva disposto il commissariamento. Oggi, i vertici della Martinina Srl, tra cui Alessandro Forlenza, sono rinviati a giudizio per frode in pubbliche forniture. Sia per la mancata attuazione di quanto previsto dal contratto, sia per i documenti falsi allegati nell’offerta tecnica presentata alla prefettura di Milano. Sette su dieci protocolli siglati con enti del territorio per svolgere attività all’interno del Cpr erano falsi. Come successo, su almeno un altro centro, Macomer, anche nel caso di Ekene.

    E su questo aspetto il nuovo capitolato del ministero dell’Interno prevede due importanti novità. Il Viminale chiede infatti ai partecipanti di allegare una “dichiarazione in cui il concorrente indica le parti dell’offerta coperte da riservatezza e spiega le ragioni per le quali tali parti sono da considerare segreti tecnici/commerciali” e prevede la necessaria previa “approvazione della prefettura” dei protocolli stipulati dall’ente gestore e inseriti nelle proposte migliorative. Meglio prevenire che curare.

    https://altreconomia.it/ekene-si-aggiudica-la-gestione-del-cpr-di-via-corelli-a-milano

    #Ekene #via_Corelli #CPR #détention_administrative #rétention #privatisation #Italie #Milan #asile #migrations #réfugiés

  • Un anarchiste argentin au bagne, Simón Radowitzky
    https://www.partage-noir.fr/un-anarchiste-argentin-au-bagne-simon-radowitzky

    Suite à la répression de la révolution de 1905, le jeune anarchiste juif #Simón_Radowitzky quitte la Russie pour l’Argentine. Traumatisé par les pogroms et la répression brutale cita a fuis, il organise un attentat ayant pour cible le chef de la police de Buenos Aires. #Gavroche_n°164_-_Octobre-Décembre_2010

    / Simón Radowitzky, #Argentine, Archives Autonomies , #Gavroche_-_Revue_d'histoire_populaire, FORA , Révolution espagnole (1936-1939), #CNT

    #Archives_Autonomies_ #FORA_ #Révolution_espagnole_1936-1939_
    https://www.partage-noir.fr/IMG/pdf/gavroche-n164.pdf

  • Lettre ouverte : #Simone_Weil et les anarchistes
    https://www.partage-noir.fr/lettre-ouverte-simone-weil-et-les-anarchistes

    Dans son supplément littéraire du 24 mars [1988], Libération publiait un texte de trois pages de M. Robert Maggiori sur la philosophe Simone Weil, sous le titre : L’Ange rouge. Mystique et révoltée, morte à 34 ans en 1943. Simone Weil a illuminé la philosophie. Cela à propos de l’édition des œuvres com­plètes de Simone Weil. Ce texte, notamment sur l’engagement de Simone Weil dans la guerre d’Espagne aux côtés des anarchistes, méritait quelques précisions et rectifications qui ont fait l’objet d’une lettre de Lucien Feuillade en date du 27 mars à la rédaction de Libération. Cette lettre a valu à l’auteur une carte de M. Maggiori, avec ses remerciements pour les compléments d’information sur Simone Weil. Mais il n’y est pas question d’une publica­tion par Libération. Voici donc le texte de la lettre en (...)

    #Le_Monde_Libertaire #Louis_Mercier-Vega #CNT #Révolution_espagnole_1936-1939 #Mohamed_Saïl #François-Charles_Carpentier
    https://www.partage-noir.fr/IMG/pdf/ml0706_1988-5-mai.pdf

    • Un ouvrage où est évoqué la présence de Simone Weil, pendant la guerre d’Espagne, aux côtés des anarchistes :
      Antoine Gimenez & les Giménologues
      Les Fils de la nuit
      Souvenirs de la guerre d’Espagne. 19 juillet 1936 – 9 février 1939. - Libertalia

      https://editionslibertalia.com/catalogue/ceux-d-en-bas/les-fils-de-la-nuit

      J’avoue que ce livre m’a laissé quelques malaises par le mélange des genres – récit historique et fantasmes érotiques – mais je garde quand même un bon souvenir de ce témoignage, car on arrive à faire assez facilement le tri.

      Sinon, la fin de l’article du Monde libertaire où il est question de « l’amitié entre Nétchaïev et Bakounine » me semble pour le moins surprenante.

      Sauf erreur de ma part, il y a un consensus parmi les anarchistes pour reconnaître que Nétchaïev, loin d’avoir été un ami de Bakounine, a abusé de la confiance de ce dernier, notamment sur l’affaire de la traduction du Capital (voir à ce sujet le volume idoine de l’œuvre complète de Bakounine). Cette affaire ayant été instrumentalisée, comme on le sait, au moment du « congrès de la Haye ».

      De plus, l’histoire de la photo de Nétchaïev sur le bureau de Camus, j’ai beau essayer de l’imaginer, mais, honnêtement, ça le fait pas.

      Ceci étant, l’auteur évoque un souvenir datant de 1950. À ce moment-là, on n’avait pas encore connaissance de tous les écrits de Bakounine, y compris parmi les anarchistes. Ceci expliquerait cela ?

      En tous cas merci pour cette évocation de la mémoire de Simone Weil.

  • #Chowra_Makaremi : « Le #viol devient le paradigme de la loi du plus fort dans les #relations_internationales »

    En #Ukraine, Poutine revendique de faire la guerre au nom du genre. En #Iran, le régime réprime implacablement la révolution féministe. Dans d’autres pays, des populistes virilistes prennent le pouvoir. Une réalité que décrypte l’anthropologue Chowra Makaremi.

    IranIran, Afghanistan, invasion russe en Ukraine, mais aussi les discours des anciens présidents Donald Trump ou Jair Bolsonaro ou du chef de l’État turc, Recep Tayyip Erdogan : tous ont en commun de s’en prendre aux #femmes, comme l’explique l’anthropologue Chowra Makaremi.

    L’autrice de Femme ! Vie ! Liberté ! Échos du soulèvement en Iran (La Découverte, 2023) fait partie des chercheuses sollicitées par Mediapart pour #MeToo, le combat continue, l’ouvrage collectif publié récemment aux éditions du Seuil et consacré à la révolution féministe qui agite le monde depuis l’automne 2017 et le lancement du fameux mot-clé sur les réseaux sociaux. Depuis, toutes les sociétés ont été traversées de débats, de controverses et de prises de conscience nouvelles. Entretien.

    Mediapart : « Que ça te plaise ou non, ma jolie, il va falloir supporter. » Cette phrase a été prononcée le 7 février 2022 par le président russe, #Vladimir_Poutine, devant Emmanuel Macron. Elle était adressée à l’Ukraine et à son président, Volodymyr Zelensky, qui venait de critiquer les accords de Minsk, signés en 2015 pour mettre fin à la guerre dans le Donbass. Quelle lecture en faites-vous ?

    Chowra Makaremi : Le viol devient le paradigme de la #loi_du_plus_fort dans les relations internationales. La philosophe #Simone_Weil souligne dans un texte combien la #guerre relève de la logique du viol, puisque sa matrice est la #force qui, plus que de tuer, a le pouvoir de changer l’être humain en « une #chose » : « Il est vivant, il a une âme ; il est pourtant une chose. [L’âme] n’est pas faite pour habiter une chose ; quand elle y est contrainte, il n’est plus rien en elle qui ne souffre violence », écrit-elle.

    Cette comptine vulgaire de malfrats que cite #Poutine dit la culture criminelle qui imprègne sa politique. Elle me fait penser à ce que l’anthropologue Veena Das nomme la dimension voyou de la souveraineté étatique : la #truanderie comme n’étant pas seulement un débordement illégitime du pouvoir mais, historiquement, une composante de la #souveraineté, une de ses modalités.

    On le voit avec le pouvoir de Poutine mais aussi avec ceux de #Narendra_Modi en #Inde (dont parle Veena Das), de #Donald_Trump aux #États-Unis, de #Jair_Bolsonaro au #Brésil, de #Recep_Tayyip_Erdogan en #Turquie. Quand Poutine a dit sa comptine, personne n’a quitté la salle, ni Emmanuel Macron ni la presse, qui a cherché, au contraire, à faire parler la symbolique de cette « remarque ». Tout le réseau de sens et de connexions qui permet à cette cruelle boutade de tenir lieu de discours guerrier intuitivement compréhensible et audible montre que le type d’#outrage dont elle relève est une #transgression qui appartient, à la marge, à l’#ordre.

    On parle de la #masculinité_hégémonique au pouvoir avec Poutine, mais elle fait écho à celle de nombreux autres chefs d’État que vous venez de citer. Quelles sont les correspondances entre leurs conceptions de domination ?

    Il n’y a pas, d’un côté, les théocraties comme l’Iran et l’Afghanistan, et, de l’autre, les populismes virilistes de Trump, Erdogan, Bolsonaro, qui s’appuient sur des « #paniques_morales » créées par la remise en cause des rôles traditionnels de #genre, pour s’adresser à un électorat dans l’insécurité. Bolsonaro, très lié à l’armée et à l’Église, s’est appuyé sur je ne sais combien de prêcheurs pour mener sa campagne. Dimension religieuse que l’on retrouve chez Poutine, Modi, Erdogan.

    La #religion est un des éléments fondamentaux d’un #pouvoir_patriarcal très sensible à ce qui peut remettre en question sa #légitimité_symbolique, sa #domination_idéologique, et dont la #puissance est de ne pas paraître comme une #idéologie justement. Cette bataille est menée partout. Il y a un même nerf.

    Quand l’anthropologue Dorothée Dussy parle de l’inceste et de sa « fonction sociale » de reproduction de la domination patriarcale, son analyse est inaudible pour beaucoup. C’est ainsi que fonctionne l’#hégémonie : elle est sans pitié, sans tolérance pour ce qui peut en menacer les ressorts – et du même coup, en cartographier le pouvoir en indiquant que c’est là que se situent les boulons puisque, précisément, la puissance de l’hégémonie est dans l’invisibilité de ses boulons.

    Si on prend le #droit_de_disposer_de_son_corps, en Occident, il s’articule autour de la question de la #santé_contraceptive et du #droit_à_l’avortement et dans les mondes musulmans, autour de la question du #voile. De façon troublante, une chose est commune aux deux situations : c’est le viol comme la vérité des rapports entre genres qui organise et justifie la #contrainte sur les femmes à travers leur #corps.

    En Occident, le viol est le cas limite qui encadre juridiquement et oriente les discussions morales sur l’#avortement. Dans les sociétés musulmanes, la protection des femmes – et de leur famille, dont elles sont censées porter l’honneur – contre l’#agression_masculine est la justification principale pour l’obligation du voile. Il y a de part et d’autre, toujours, cet impensé du #désir_masculin_prédateur : un état de nature des rapports entre genres.

    C’est ce qu’assènent tous les romans de Michel Houellebecq et la plupart des écrits du grand Léon Tolstoï… « L’homme est un loup pour l’homme, et surtout pour la femme », dit un personnage du film Dirty Dancing. Cette population définie par ces rapports et ces #pulsions, il s’agit de la gouverner à travers l’#ordre_patriarcal, dont la domination est posée dès lors comme protectrice.

    L’Iran et l’#Afghanistan figurent parmi les pays les plus répressifs à l’encontre des femmes, les régimes au pouvoir y menant un « #apartheid_de_genre ». Concernant l’Afghanistan, l’ONU parle même de « #crime_contre_l’humanité fondé sur la #persécution_de_genre ». Êtes-vous d’accord avec cette qualification ?

    Parler pour la persécution de genre en Afghanistan de « crime contre l’humanité » me semble une avancée nécessaire car elle mobilise les armes du #droit pour désigner les #violences_de_masse faites aux femmes et résister contre, collectivement et transnationalement.

    Mais il me paraît tout aussi important de libérer la pensée autour de la #ségrégation_de_genre. À la frontière entre l’Iran et l’Afghanistan, au #Baloutchistan, après la mort de Jina Mahsa Amini en septembre 2022, les femmes sont sorties dans la rue au cri de « Femme, vie, liberté », « Avec ou sans le voile, on va vers la révolution ». Dans cette région, leur place dans l’espace public n’est pas un acquis – alors qu’il l’est à Téhéran – et elles se trouvent au croisement de plusieurs dominations de genre : celle d’un patriarcat traditionnel, lui-même dominé par la puissance étatique centrale, iranienne, chiite.

    Or, en participant au soulèvement révolutionnaire qui traversait le pays, elles ont également renégocié leur place à l’intérieur de ces #dominations_croisées, chantant en persan, avec une intelligence politique remarquable, le slogan des activistes chiliennes : « Le pervers, c’est toi, le salopard, c’est toi, la femme libérée, c’est moi. »

    C’est en écoutant les femmes nommer, en situation, la #ségrégation qu’on saisit le fonctionnement complexe de ces #pouvoirs_féminicides : en saisissant cette complexité, on comprend que ce n’est pas seulement en changeant des lois qu’on les démantèlera. On se trouve ici aux antipodes des #normes_juridiques, lesquelles, au contraire, ressaisissent le réel dans leurs catégories génériques. Les deux mouvements sont nécessaires : l’observation en situation et le #combat_juridique. Ils doivent fonctionner ensemble.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/040124/chowra-makaremi-le-viol-devient-le-paradigme-de-la-loi-du-plus-fort-dans-l

  • La force... fait de l’homme une chose au sens le plus littéral, car elle en fait un cadavre. Il y avait quelqu’un, et, un instant plus tard, il n’y a personne.

    L’Iliade ou le poème de la force, Simone WEIL, 1939 – #livre_audio
    https://www.youtube.com/watch?v=XVovXshqQUI

    chez l’éclat

    Quelle est-elle cette force « devant quoi la chair des hommes se rétracte » ? Paru dans les Cahiers du Sud en 1941, L’Iliade ou le poème de la force participe à la fois de l’essai savant, du traité politique et métaphysique et du texte poétique. En pleine débâcle française, cette réflexion sur la première grande épopée de l’Occident s’adresse à ceux et celles qui ont résisté et résistent encore à la soumission, et nous rappelle que tout vainqueur sera vaincu à son tour s’il s’agenouille devant la force.

    en pdf https://teuwissen.ch/imlift/wp-content/uploads/2013/07/Weil-L_Iliade_ou_le_poeme_de_la_force.pdf

    #force #philosophie #histoire #Simone_Weil

    • On illumine la tour Eiffel aux couleurs d’Israël. Jamais la Palestine n’a eu cet honneur, alors que je peux vous rappeler une bonne dizaine d’épisodes avec plus de 500 morts palestiniens en deux jours. Des grand-mères et des enfants palestiniens massacrés, il y en a eu ! Les grand-mères israéliennes ne sont pas les premières, et croyez que mon cœur saigne pour elles ! Mais à ce niveau-là, ce n’est même plus du deux poids deux mesures : c’est tout simplement indécent. »

    • “Terrorisme” ou “résistance” ?

      « Les mots sont importants. Les actes commis par le #Hamas sur les civils sont des crimes de guerre. On parle de tuer des civils, de massacrer des enfants devant les yeux de leurs parents. Malheureusement, toutes les résistances au colonialisme se sont rendues coupables de telles exactions. Ce qui s’est passé samedi 7 octobre est une sorte de grand attentat-suicide collectif. Les combattants du Hamas, qui sont des kamikazes, savent qu’ils vont mourir et que leurs familles vont payer très cher.

      Pour en arriver là, il faut clairement avoir été soumis à un haut niveau d’endoctrinement religieux, mais aussi être dans un désespoir inouï. Pour la plupart, ils sont très jeunes et constituent un réservoir inépuisable. Je n’ai vraiment aucune sympathie pour leurs leaders, ni pour les moyens qu’ils emploient, ni pour le projet de société terrible qu’ils offrent aux Palestiniens, mais il faut bien comprendre que le réservoir de chair à canon qui compose les rangs des combattants du Hamas ne se tarira que si la politique d’Israël à l’égard de la Palestine change. »

    • Et maintenant ?

      « On ne peut pas vraiment savoir ce qui va se passer. Israël, c’est neuf millions d’habitants, une petite société. Quand on a d’un coup presque mille morts, qu’on est face à un tel degré d’horreur dans le crime, il est logique que la sidération l’emporte dans un premier temps. Le réflexe normal est un sentiment d’union nationale. Mais je lis depuis deux jours dans la presse israélienne des choses qui seraient inimaginables dans la presse française. Beaucoup de commentateurs israéliens sont absolument furieux, exigent la démission du gouvernement et disent, ce qui est vrai, qu’une des raisons pour lesquelles il y a eu tellement de morts est qu’il y avait très peu de soldats pour garder la frontière. Pour schématiser, l’armée israélienne est devenue une police de protection des colons. Des bataillons entiers sont employés à sécuriser des petites colonies de dix, quinze, vingt familles qui ne cessent de proliférer en Cisjordanie. Même les familles des kidnappés, qui ont donné hier une conférence de presse, sont très en colère contre le gouvernement. Donc un sentiment d’union nationale, oui, mais certainement pas autour de Netanyahou, dont cette attaque marque sans doute le début de la fin politique.

      Côté palestinien, vous aurez du mal à trouver des gens qui condamnent complètement les actes du Hamas et ce même si ce sont des opposants très affirmés à l’islam politique. Une chose est sûre : si les Palestiniens n’accèdent pas à un minimum de liberté, d’indépendance et de dignité, alors le pire est encore devant nous. »

    • https://lundi.am/La-nausee

      La révolution ainsi que la libération palestinienne sont nécessaires, et non pas de manière abstraite. Oui, la guerre, c’est sale, oui il y a du sang, des injustices, des “dommages collatéraux” AKA la mort d’innocents.

      Mais le Hamas joue mal. Il dessert la cause palestinienne, montrant un visage de terreur et de haine à la communauté internationale. Il désolidarise quand la solidarité envers le peuple palestinien est plus que jamais nécessaire. C’est l’enfer tout bonnement qui attend les Gazaouis cette semaine.

      La lutte décoloniale est aussi une lutte médiatique. Les images que j’ai vues et qui désormais hantent ma mémoire comme un cauchemar ineffable sont injustifiables. Ni au nom de la libération palestinienne, ni au nom de la révolution, je ne peux adouber ce que j’ai vu et continuer à porter le nom d’Homme.
      La vision de la barrière de sécurité passée au bulldozer est une réjouissance, une véritable évasion de prison. Les postes de police brûlés, les bases militaires saisies. Bien, il y a cohérence, les oppressés de toujours s’en prennent à l’oppresseur, ses institutions, son armée et sa police.

      Le reste est insupportable, tout bonnement. Entrer dans les foyers, tirer à bout portant sur des familles entières, violer des femmes sur les cadavres de leurs amis pour ensuite les exécuter ou parader, le corps nu et humilié, comme un trophée de guerre tandis qu’une foule en délire crache dessus. J’ai envie de vomir. Voilà que les “freedom fighters” s’abaissent au niveau de l’oppresseur, et peut-être même, s’enfoncent dans des ténèbres plus épaisses encore.

      Que ceux qui scandent que : ce sont de toute façon des colons, qu’ils n’avaient qu’à pas aller à une fête à la frontière de la prison à ciel ouvert qu’est #Gaza se posent la question ; tous ceux qui vont se coucher dans leur lit le soir alors qu’il y a sans-abris et réfugiés qui dorment au pied de leurs immeubles, méritent-ils la mort ? Ceux qui passent en sifflant devant les murs de nos prisons, songeant à leur crush, méritent-ils la mort ? Où commence la culpabilité ? Et ne sommes-nous pas tous coupables ?

    • Mais le Hamas joue mal

      Bon, pour moi ça sonne un peu comme « daesh joue mal », à un moment donné faut comprendre que le Hamas est un mouvement islamiste (et sûrement pas « décolonial »), qui souhaite l’anéantissement d’Israël (et probablement des juifs en général), c’est le pendant de Netenyahu, c’est juste qu’il y en a un qui a des mitraillettes et roquettes tandis que l’autre a des tanks et des missiles. Je comprends mieux l’incompréhension de certaines personnes si elles pensaient que le Hamas était un mouvement de « freedom fighters »...

    • https://lundi.am/L-instant

      Aujourd’hui être Musulman ou Juif en France, c’est le même cauchemar. La même peur en circulant dans l’espace public, la même violence contre nos deuils. La même instrumentalisation par l’extrême-droite. Nous sommes des minorités honnies, essentialisées, réduites à deux pôles dans un conflit territorial que les médias tentent de dépeindre comme civilisationnel. Nous sommes des gens qui souhaitent vivre, on compte nos morts en se demandant combien il en faudra encore pour que ça cesse. Nous ne sommes ni le gouvernement Israélien, ni le Hamas. « Sioniste », « Islamiste », « colon », « terroriste », tous ces termes qui nous écrasent et nous musèlent sont issus d’une même logique d’effacement de nos singularités et de déshumanisation. À qui cela profite de nous monter les uns contre les autres et qu’on s’entre déchire ? À ceux qui veulent nous appeler « barbares » ou bien « fourbes marionnettistes ». C’est contre eux que nous devons nous allier au lieu d’attendre de voir à qui ils jetteront la première pierre, le premier os. « Diviser pour mieux régner » est une tactique vieille comme le monde. Elle a déjà été employée par la France coloniale, avec succès.

  • Il sistema delle “coop pigliatutto”

    Per anni hanno dominato il settore dell’accoglienza in Veneto prima di sbarcare nella detenzione amministrativa. Oggi gestiscono due Cpr, tra cui quello di Gradisca d’Isonzo, dove dalla sua riapertura sono morte quattro persone

    Il 16 dicembre del 2019 il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, riapre, a sei anni dalle proteste che hanno portato alla sua chiusura. Tra i primi trattenuti del nuovo corso, c’è un gruppo di circa settanta persone provenienti dal centro di Bari, dove sono stati bruciati tre degli ultimi quattro moduli rimasti dopo le proteste dei mesi precedenti. Bibudi Anthony Nzuzi è tra coloro che sono stati trasferiti «di punto in bianco», dice, in Friuli. L’accoglienza non è stata delle migliori: «Pioveva, faceva freddo, ci siamo ritrovati i poliziotti in tenuta antisommossa. Non avevamo materassi, non c’erano coperte, non avevamo niente per poterci vestire. Ci siamo ritrovati a dormire al freddo perché non c’era il riscaldamento», racconta.

    Nzuzi è nel Cpr friulano anche tra il 17 e il 18 gennaio 2020, quando muore un trattenuto georgiano di 37 anni, Vakhtang Enukidze. I poliziotti di cui parla Nzuzi stanno sedando una protesta. «Hanno inizialmente pestato tutti, solo che lui [Vakhtang Enukidze] era caduto – racconta – ma continuavano a pestarlo e gli altri ragazzi si sono buttati addosso ai poliziotti e l’hanno tirato via».

    Nzuzi si trova nello stesso reparto di Enukidze ma in un’altra cella. «La sera lui [Vakhtang Enukidze] lamentava dolori, non si sentiva bene – ricorda, ripensando ai momenti dopo che la polizia ha lasciato il Cpr -. È andato a dormire e non si è più risvegliato». Questa versione è stata confermata da alcune testimonianze raccolte dal deputato Riccardo Magi durante due visite ispettive subito dopo il decesso. Non dagli investigatori, però.

    –—

    L’inchiesta in breve

    - Ekene nasce nel 2017 come diretta emanazione di Ecofficina ed Edeco, enti che hanno dominato il mercato dell’accoglienza in Veneto guadagnandosi l’appellativo di “coop pigliatutto”
    - A gestirla è Simone Borile, imprenditore padovano che proviene dal business dei rifiuti. Sebbene non compaia mai nella visura camerale, viene considerato dagli inquirenti di Venezia “amministratore di fatto” delle cooperative
    - Nel 2016, Ecofficina-Edeco si aggiudica due centri di accoglienza, a Cona e Bagnoli. Per la gestione dei due hub, sono nati due processi paralleli a Padova e Venezia, dove sono indagati alcuni funzionari delle due prefetture e i vertici della cooperativa, tra cui Simone Borile. Le accuse, a vario titolo, sono di frode nell’esecuzione del contratto, inadempimento e frode degli obblighi contrattuali, rivelazioni di segreto d’ufficio
    - Con la liquidazione di Edeco nasce Ekene, che segna l’ingresso nel mondo della detenzione amministrativa con l’aggiudicazione dei Cpr di Gradisca d’Isonzo, in Friuli-Venezia Giulia, e Macomer, in Sardegna
    – Dalla sua riapertura nel gennaio 2019, nel Cpr friulano sono morte quattro persone. Borile è indagato per omidicio colposo per il decesso di Vakhtang Enukidze, lasciato secondo l’accusa per nove ore senza soccorsi
    – Nell’ottobre 2022, la cooperativa veneta ha vinto la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Dopo sette mesi la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici

    –—

    A seguito della morte di Enukidze, la procura di Gorizia ha cominciato a indagare. L’autopsia sul deceduto ha stabilito come causa della morte un edema polmonare e cerebrale dovuto non a un pestaggio, ma a un cocktail di farmaci e stupefacenti. Così a essere riviati a giudizio con l’accusa di omicidio colposo sono stati il direttore del centro, Simone Borile, e il centralinista che era di turno quel giorno. La cooperativa che ha in gestione il Cpr si chiama Ekene. È nata dalle ceneri di Ecofficina ed Edeco, conosciute in Veneto come “coop pigliatutto”, per aver dominato per anni la gestione dell’accoglienza in tutta la regione.

    Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Enukidze è stato lasciato senza soccorso per diverse ore, nonostante le richieste di aiuto degli altri trattenuti, prima di essere trasferito in ospedale, dove è morto alle 15:37. La sorella, Asmat, ricorda l’ultima telefonata in cui percepiva una voce diversa: «Sembrava che avesse bevuto. Aveva dei dolori e gli avevano dato qualcosa per calmarlo, un antidolorifico. Stava talmente male che non riusciva nemmeno ad andare all’udienza. Mi diceva di contattare l’ambasciata georgiana, per farlo uscire dal Cpr», racconta. Simone Borile, raggiunto al telefono da IrpiMedia, ha una versione diversa dei fatti: «È stato soccorso immediatamente, appena c’è stata la chiamata», il problema «riguarda il mancato funzionamento del sistema di chiamata. Niente a che vedere con il mancato soccorso».
    L’ascesa di Ecofficina tra le coop dell’accoglienza

    Borile ha cominciato a lavorare con i migranti dai tempi di Ecofficina Educational, cooperativa con sede a Battaglia Terme, in provincia di Padova, fondata il 2 agosto 2011. Il direttore del Cpr di Gradisca non appare nella visura camerale in quanto sarebbe stato un semplice consulente esterno. Gli inquirenti di Venezia e Padova che indagheranno sulla società, sosterranno tuttavia che sia lo stesso Borile l’amministratore di fatto delle “coop pigliatutto”.

    I legami tra Borile e i vertici di Ecofficina sono però evidenti: vicepresidente della cooperativa è la moglie Sara Felpati mentre il presidente del consiglio di amministrazione è Gaetano Battocchio, coinvolto con lui nel processo per bancarotta della società di gestione dei rifiuti della Bassa Padovana, Padova Tre srl, ma poi assolto, al contrario di Borile che a marzo 2023 è stato uno dei due condannati in primo grado a quattro anni e otto mesi per peculato perché avrebbe trattenuto illegalmente un importo di oltre tre milioni di euro.

    È nel dicembre 2014 che per la prima volta il nome di Ecofficina viene accostato a un caso di frode nelle pubbliche forniture e maltrattamenti sugli ospiti. Il processo che ne è scaturito si chiuderà otto anni e mezzo dopo, il 12 luglio 2023, con l’assoluzione dei vertici della cooperativa perché il fatto non sussiste.

    Durante gli anni passati a processo, Ecofficina Educational – che nel 2015 ha ceduto parte dell’azienda a un’altra cooperativa, Ecofficina Servizi – si aggiudica diversi appalti per l’accoglienza migranti in particolare nella provincia di Padova, con un monopolio che comprende l’ex Caserma Prandina di Padova, l’Hotel Maxim’s a Montagnana, lo Sprar del comune di Due Carrare e l’accoglienza di più di 700 migranti nelle province di Venezia, Vicenza e Rovigo.

    Nel caso dello Sprar di Due Carrare, uno dei requisiti fondamentali per partecipare era aver svolto in modo continuativo, e per almeno due anni, l’attività di accoglienza. A gennaio 2016, la cooperativa ha depositato una dichiarazione attestante una convenzione con la Prefettura di Padova che provava l’inizio dell’attività il 6 gennaio 2014, nonostante Ecofficina fosse entrata nel settore solo nel maggio dello stesso anno. Grazie alla documentazione falsa, secondo l’ipotesi degli inquirenti di Padova, Ecofficina avrebbe ottenuto l’aggiudicazione provvisoria delle gare per la gestione di centri di accoglienza. Il processo che è scaturito dall’indagine è ancora in corso, riporta il Mattino di Padova. IrpiMedia non ha ricevuto alcuna risposta a domande di chiarimento rivolte via email alla cooperativa su questo e su altri temi.

    –—

    Cpa, Cas, Sai: le sigle dell’accoglienza

    In Italia il sistema di accoglienza dovrebbe svilupparsi su due binari: a un primo livello ci sono i Centri di prima accoglienza (Cpa) e gli hotspot, e a un secondo il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), strutture gestite dagli enti locali su base volontaria, che dovrebbero rappresentare il sistema ordinario. I Centri di accoglienza straordinaria (Cas), invece, dovrebbero essere individuati e istituiti dalle prefetture nel caso in cui i posti negli altri centri fossero esauriti. La maggior parte delle persone che arrivano sul territorio però sono accolte nei Cas, sintomo di una gestione perennemente emergenziale del fenomeno. In base ai dati del rapporto di Actionaid Centri d’Italia del 2022, i posti nei Cas, dove è ospitato oltre il 65% delle persone, e nei Cpa sono infatti quasi 63 mila, a fronte dei 34 mila posti del Sai.

    I centri di prima accoglienza e gli hotspot sono invece strutture nate per identificare, fotosegnalare e assistere dal punto di vista sanitario le persone appena arrivate in Italia. Dovrebbero fornire anche le prime informazioni legali per la richiesta di protezione internazionale.

    Nel Sai – prima conosciuto come Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) e prima ancora come Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) – i servizi assicurati sono solitamente superiori rispetto agli altri centri e mirano ad accompagnare le persone accolte nei loro percorsi di vita e di autonomia: oltre al vitto e all’alloggio, sono infatti assicurate assistenza legale, mediazione linguistica, orientamento lavorativo, insegnamento della lingua italiana, assistenza psicosociale.

    A parte alcune categorie di soggetti, come i minori stranieri non accompagnati, il decreto firmato il 10 marzo 2023 dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha escluso i richiedenti asilo dalla possibilità di essere accolti nel sistema ordinario, riservando loro i pochi servizi di base garantiti dal Cas, ulteriormente ridotti: l’assistenza materiale, sanitaria e linguistica, vitto e alloggio, eliminando i servizi di assistenza psicologica, i corsi di italiano e l’orientamento legale.

    –—

    Gli anni di Edeco

    Dopo le vicende di Ecofficina, la cooperativa cambia nome. Spunta dunque un nuovo attore nel mercato dell’accoglienza in Veneto: Edeco. I vertici però rimangono invariati. La cooperativa inizia a partecipare ai bandi per la gestione dell’accoglienza a partire dal 2016, quando il suo organigramma si arricchisce di nuove figure. Tra queste, Annalisa Carraro, che con Battocchio, Felpati e Borile sarà imputata nel processo di Venezia. Quell’anno in Italia il numero dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) cresce di quasi il doppio rispetto all’anno precedente, con 137 mila strutture dove si concentra il 78% dei richiedenti asilo. In particolare, in Veneto questa tendenza si affianca alla resistenza degli amministratori locali verso il sistema di accoglienza diffusa rappresentato dagli Sprar (oggi Sai).

    È in questo contesto che nascono centri come la tendopoli nell’ex base militare di Cona, in provincia di Venezia, gestita provvisoriamente da Ecofficina fino al luglio del 2016. Quel mese sarà proprio Edeco, in un raggruppamento temporaneo d’imprese con Ecos e Food Service, ad aggiudicarsi il nuovo appalto.

    Le denunce sulle condizioni interne emergono già dal giugno dello stesso anno, quando alcune associazioni effettuano una visita al centro evidenziando il sovraffollamento e la carenza dei servizi essenziali. Le proteste successive dei richiedenti asilo spingono il presidente della Confcooperative del Veneto, Ugo Campagnaro, a prendere la decisione di sospendere Ecofficina-Edeco con queste motivazioni: «Non esiste una legge che impedisca di ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza […]. Si tratta invece di un modello che guarda soprattutto al business».

    I problemi diventano evidenti quando a gennaio 2017 Sandrine Bakayoko, 25enne ivoriana ospite del centro di Cona, muore per trombosi polmonare. Questo episodio porterà ad alcuni lavori di ristrutturazione e alla riduzione degli ospiti da 1.600 a 1.000, misure comunque non sufficienti a evitare la protesta dei richiedenti asilo, che a novembre si mettono in marcia verso Venezia per ottenere un incontro con il prefetto di Venezia, che alla fine deciderà di spostarli in altre strutture, scrive Internazionale.

    Due anni più tardi la Procura di Venezia chiede il rinvio a giudizio per i vertici di Ecofficina-Edeco. Borile, sempre “amministratore di fatto” a quanto afferma l’accusa, e i suoi colleghi avrebbero impiegato un numero di operatori inferiore agli obblighi contrattuali, un’inadempienza che sarebbe stata coperta dai trasferimenti di personale dall’altro grande centro gestito dalla cooperativa, quello di Bagnoli, in provincia di Padova, e dalla falsificazione dei documenti, che avrebbero fatto apparire un numero di operatori superiore. Inoltre, l’impiego di medici e infermieri con turni e orari inferiori rispetto a quanto previsto dal capitolato d’appalto avrebbe procurato un ingiusto profitto di oltre 200 mila euro. Tutto questo sarebbe stato possibile anche grazie alle informazioni fornite dalla Prefettura. Secondo quanto emerge da alcune intercettazioni contenute nelle carte processuali, ex prefetti e funzionari avrebbero preannunciato e in alcuni casi concordato con i responsabili della cooperativa l’orario e la data delle visite ispettive. Una prassi che avrebbe permesso a Ecofficina-Edeco di organizzarsi in anticipo per coprire eventuali falle.

    Per questo motivo, la giudice per le indagini preliminari ha accolto le richieste di rinvio a giudizio, tra gli altri, anche nei confronti dell’ex prefetto pro tempore di Venezia Domenico Cuttaia e dell’allora vice prefetto vicario Vito Cusumano per rivelazione di segreto d’ufficio.

    Raggiunto al telefono, Simone Borile ha commentato in questo modo: «Non si trattava di ispezioni, ma esclusivamente di una visita di cortesia». Il processo è ancora in primo grado, in fase dibattimentale: nell’ultima udienza, un’ex operatrice ha raccontato che era il personale a firmare il foglio presenze per conto dei richiedenti asilo, in modo da poter ricevere dalla Prefettura la quota diaria per ogni persona accolta, riporta Il Gazzettino.

    Un processo molto simile si sta svolgendo a Padova sulla gestione del Cas di Bagnoli. Tra gli imputati ci sono ancora una volta Sara Felpati, Simone Borile, Gaetano Battocchio, oltre all’ex viceprefetto Pasquale Aversa, il vicario Alessandro Sallusto e una funzionaria della Prefettura. Le accuse a vario titolo sono di turbativa d’asta, frode nelle forniture pubbliche, truffa, concussione per induzione, rivelazione di segreti d’ufficio e falso ideologico. Secondo l’accusa, grazie ai contatti con la Prefettura, Borile, Battocchio e Felpati avrebbero ottenuto informazioni sui concorrenti, partecipando a un bando su misura per Edeco. Anche in questo caso viene contestata la presenza di personale in numero inferiore rispetto al capitolato d’appalto e le chiamate di preavviso della Prefettura prima di alcune ispezioni per permettere alla cooperativa di farsi trovare in regola.
    I danni delle indagini

    Le indagini finiscono per danneggiare la “coop pigliatutto” che alla fine del 2018, anno di chiusura delle strutture di Cona e Bagnoli, avvia una procedura di licenziamento collettivo per 57 lavoratori, a cui se ne aggiungono 71 in scadenza di contratto. Si tratta di addetti alle pulizie e custodia, operai, insegnanti, tecnici, psicologi, educatori che riducono sensibilmente la rosa di Edeco, composta fino ad allora da 228 dipendenti. Nel 2020, Edeco inizia il processo di liquidazione, ma comincia a prendere nuova forma, sempre con lo stesso sistema: la creazione di nuove cooperative.

    Questa volta sono due le cooperative che prendono il testimone di Edeco, segnando l’ingresso nel mondo del trattenimento dei cittadini stranieri: Ekene e Tuendelee. La prima è dedicata quasi esclusivamente alla gestione dei Cpr, la seconda all’attività principale di «pulizia generale (non specializzata) di edifici», oltre a servizi educativi e socio-sanitari come le «attività di prima accoglienza per cittadini stranieri».

    Simone Borile, che di nuovo non compare nelle visure camerali, ha giustificato così a La Nuova Venezia la necessità di creare nuovi soggetti: «Era impossibile continuare a lavorare a causa del danno reputazionale che abbiamo subito». Le stesse persone coinvolte nei processi di Padova e Venezia sono presenti anche nei nuovi organigrammi, come Sara Felpati, prima presidente del Cda di Ekene, ruolo passato poi alla sorella Chiara, e Annalisa Carraro, ex consigliera di Edeco, che oggi ricopre il ruolo di vicepresidente di Ekene e di consigliera in Tuendelee.

    Le controversie del passato non hanno quindi impedito l’aggiudicazione di nuove strutture: nell’agosto del 2019 Edeco ottiene in gestione il Cpr di Gradisca d’Isonzo, poi ceduto due anni dopo a Ekene, e nel dicembre 2021 quello di Macomer. In Friuli, la cooperativa si aggiudica una gara da quasi cinque milioni di euro, grazie al ribasso dell’11,9% rispetto alla base d’asta, dopo l’esclusione delle prime quattro società in graduatoria. Ekene a marzo 2023 vince anche un ricorso al Tar per ottenere la gestione di un centro di accoglienza a Oderzo, nel trevigiano, nell’ex caserma Zanusso.

    Ekene ha poi preso in gestione il Cpr di Macomer dopo l’aggiudicazione della gara del 2021. In una visita, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha riportato criticità simili a quelle emerse nella struttura friulana, come la violazione del diritto alla salute, all’informazione normativa e alla corrispondenza, poiché «neanche i difensori possono contattare i loro assistiti in caso di comunicazioni urgenti se non attraverso il filtro del gestore», si legge nel rapporto. Inoltre, secondo Asgi la visita medica è spesso assente o viene fatta in modo superficiale.

    La cooperativa veneta ha poi vinto, nell’ottobre 2022, la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Ma dopo sette mesi, a maggio 2023, la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici: nel decreto di esclusione si riconosce esplicitamente Ekene come diretta emanazione di Edeco. Ricordando i gravi reati contestati nei procedimenti penali in corso, la Prefettura afferma di non poter «valutare favorevolmente l’integrità e l’affidabilità dell’operatore economico». Considerazioni diverse rispetto a quelle della Prefettura di Gorizia, che ha permesso a Simone Borile di mantenere il ruolo di direttore del centro di Gradisca d’Isonzo.

    L’imputazione di Borile per omicidio colposo, secondo i verbali della nuova gara indetta dalla Prefettura di Gorizia per la gestione del Cpr, «può avere rilievo solo al fine di considerare l’affidabilità dell’operatore economico sotto la cui gestione è occorso l’evento morte», dato che Borile non ricopre alcun incarico formale in Ekene. Nella stessa gara, la cooperativa Badia Grande è stata esclusa per il rinvio a giudizio del rappresentante legale per diversi reati, tra cui frode nelle pubbliche forniture per la gestione dei Cpr di Trapani e Bari. Dai verbali della prefettura disponibili in rete risulta che la posizione della cooperativa veneta sia ancora in fase di valutazione.
    Morire di Cpr a Gradisca d’Isonzo

    Dalla riapertura del 2019 ad oggi sono morti quattro trattenuti al Cpr di Gradisca d’Isonzo. Dopo Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, cittadino albanese di 28 anni, è morto per overdose da metadone quattro giorni dopo essere entrato nel centro, il 10 luglio 2020, in una cella di isolamento, dove si trovava con altre cinque persone per il periodo di quarantena. Andrea Guadagnini, avvocato di Turia, ha scoperto della sua morte proprio in sede di convalida del trattenimento ed esprime perplessità sulla provenienza di quella sostanza. Altre due persone si sono poi tolte la vita nella struttura: Anani Ezzedine era un cittadino tunisino di 44 anni. Anche lui in isolamento per il periodo di quarantena, si è suicidato nella sua cella nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2021. Arshad Jahangir, un ragazzo 28enne di origine pakistana, si è suicidato il 31 agosto 2022 in camera un’ora dopo essere entrato nel Cpr.

    «È chiaro che per noi i Cpr debbano essere chiusi, ma nel frattempo volevamo instaurare delle prassi virtuose per agevolare la tutela dei diritti dei detenuti», afferma Eva Vigato, che insieme ad altre due colleghe, tra dicembre 2019 e novembre 2020 ha svolto il servizio di assistenza legale per l’ente gestore. Sostiene che anche per lei fosse molto difficile intervenire: i diritti dei trattenuti nei Cpr non sono delineati da una legge, ma da un semplice regolamento ministeriale, di cui non possono essere contestate le violazioni.

    https://www.youtube.com/watch?v=xq-OrG9-V7c&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    «Sono successe delle cose che ci hanno sconvolto», ricorda l’avvocata Vigato. Dopo la morte di Vakhtang Enukidze, Vigato e le sue colleghe hanno assistito a un’altra serie di irregolarità: «Abbiamo deciso di tener duro e ci siamo date come limite la Convenzione di Ginevra – spiega -. Di fronte a una violazione del trattato internazionale avremmo sporto denuncia».

    L’occasione si è presentata a novembre 2020: le legali si sono rese conto che dal Cpr transitavano cittadini tunisini senza che venisse registrato il loro ingresso nel sistema e senza che riuscissero a incontrarli e a informarli dei loro diritti, tra cui la richiesta di asilo, tutelata proprio dalla Convenzione di Ginevra. Le avvocate avevano dunque incaricato formalmente i mediatori di informare i trattenuti della possibilità di chiedere protezione internazionale e di metterlo per iscritto. In risposta, l’ente gestore ha deciso di diminuire le ore di ufficio legale, portando l’avvocata a inviare una segnalazione per denunciare la violazione della Convenzione di Ginevra alla Prefettura e al Garante nazionale. Ha risposto «il prefetto in persona – racconta Vigato – dicendo che non c’era nulla di irregolare ravvisabile nell’operato. Mi domando come abbia fatto, in così pochi giorni e senza un serio controllo, ad affermare una cosa del genere». La sera stessa Edeco ha rimosso Vigato e le sue colleghe dall’incarico.

    Nella segnalazione inviata alle autorità, Vigato ha evidenziato la violazione di molteplici diritti, tra cui quello alla salute e all’assistenza legale. Sostiene ci fosse un abuso di medicine nella struttura: «A un certo punto ci siamo rese conto che non c’era un controllo reale sui farmaci e potevano essere utilizzati anche in modo improprio dai detenuti». Le legali spesso non riuscivano ad accedere alle informazioni sanitarie e, in alcuni casi, non veniva caricato il resoconto delle visite, soprattutto quelle psicologiche. «L’impressione che è uscita sia dal processo Edeco sia dalla mia esperienza nel Cpr – conclude Vigato – è che ci sia una sorta di soluzione di comodo tra l’ente gestore e l’istituzione, per cui va bene così».

    –—

    La storia di Anthony

    Bibudi Anthony Nzuzi è nato in Libano, da genitori congolesi, nel 1983, in piena guerra civile. «Era la fase del bombardamento massiccio», racconta, ma dopo cinque anni «la situazione era diventata veramente insostenibile». Per questa ragione, sua madre ha deciso di mandare i figli fuori dal Paese: due dei tre fratelli più grandi sono emigrati in Congo Brazzaville, ma lui, il più piccolo, è rimasto con lei. Poi sono fuggiti insieme in Siria e, visto che il conflitto si stava avvicinando, in Turchia, ad Ankara e a Istanbul.

    Infine, hanno deciso di venire in Italia per ricongiungersi con il fratello maggiore, che si trovava nel Paese da diversi anni. «Nel 1998 mia madre, dopo anni di duro lavoro, è riuscita a riunire tutta la famiglia qui a Jesi, nelle Marche», dice Anthony, che ha poi studiato come perito elettrotecnico, mentre uno dei fratelli ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008 con l’Italia nella disciplina delle arti marziali.

    Anthony vive quindi in Italia da quasi trent’anni e ha conosciuto il mondo dei Cpr «per un errore», racconta: «Vivevo a Modena e mi sono fidato di una persona, sbagliando. Mi sono trovato a dover scontare una pena di 11 mesi e 29 giorni in carcere». Mentre era recluso gli è scaduto il permesso di soggiorno senza, sostiene, che gli fosse data la possibilità di rinnovarlo. «A luglio mi è arrivato il foglio di via e il 10 ottobre a mezzanotte sono venuti a prendermi in cella, mi hanno fatto preparare tutte le mie cose perché dovevano espatriarmi in Congo». Ma dopo essere stato trasferito a Fiumicino alle quattro di mattina e alcune ore di attesa, il volo non è partito ed è stato riportato in cella.

    Uscito dal carcere, dopo uno sconto di pena per buona condotta, ha potuto passare un giorno con la famiglia per poi essere recluso in un Cpr. «Era l’unico modo per me per rimanere in Italia – racconta con commozione – non è facile, ma sono riuscito ad andare avanti». È stato portato al Cpr di Bari, ma per la sua avvocata, che esercita nelle Marche, era diventato difficile seguirlo.

    Dopo pochi giorni le condizioni nel centro pugliese erano già critiche: cibo ammuffito, carenze igieniche e, secondo Anthony, negli altri moduli la situazione era anche peggiore. Per questo sono iniziate rivolte interne che hanno reso inagibile la struttura, andata a fuoco. «La mattina dell’incendio ci siamo ritrovati caricati su dei pullman e portati a Gorizia – dice – di punto in bianco».

    Anthony considera il carcere molto meglio del Cpr: «Hai una vita dignitosa, per quanto è possibile. Sei detenuto, ma comunque hai la tua dignità. Nel Cpr ti tolgono tutto, o almeno ci provano». E aggiunge: «Se arrivo a dire una cosa del genere significa che stavo meglio in carcere per davvero. I primi giorni a Gradisca abbiamo patito il freddo, il cibo arrivava gelato e crudo. Non è stato per niente facile».

    Grazie all’assistenza legale della sua avvocata è riuscito a uscire, ma se fosse stato rimpatriato nel Paese di origine dei suoi genitori, dove lui non è mai stato, avrebbe dovuto arrangiarsi senza soldi: «Non mi hanno dato un euro quando sono arrivato in aeroporto», spiega. Anthony rischiava di essere rimpatriato in Congo, dove ha alcuni parenti, «ma non so neanche dove siano, come si chiamino o come contattarli». E, oltre ad avere sempre avuto i documenti in regola, già prima di entrare nel Cpr, aveva un figlio di nazionalità italiana.

    «Metà delle persone che trovi nel Cpr – conclude Anthony – hanno semplicemente voglia di trovare un futuro. Magari c’è chi vorrebbe veramente lavorare, ma non ha possibilità perché lo trattano come un cane. Dagli la possibilità di dimostrarti che può rimanere nel tuo Paese. Non ne vuole tante, gliene basta una».

    –—

    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-coop-ekene-gradisca-isonzo-macomer

    ici aussi : https://seenthis.net/messages/1016060

    #accueil #rétention #détention_administrative #asile #migrations #réfugiés #sans-papiers #business #Gradisca_d'Isonzo #Italie #CPR #Vakhtang_Enukidze #Enukidze #Simone_Borile #Ecofficina-Edeco #Ecofficina #Edeco #Cona #Bagnoli #Ekene #Macomer #coopérative #Ecofficina_Educational #Sara_Felpati #Gaetano_Battocchio #Ecofficina_Servizi #Due_Carrare #CPA #CAS #SAI #centri_di_prima_accoglienza #Sistema_di_accoglienza_e_integrazione #Centri_di_accoglienza_straordinaria #Edeco #Annalisa_Carraro #Ecos #Food_Service #Sandrine_Bakayoko #Tuendelee #Oderzo #caserma_Zanusso #Caltanissetta #Badia_Grande

  • Progetto Zinco Gorno

    La vidéo commence avec la voix-off d’un vieux monsieur (#Sergio_Fezzioli, ex mineur), qui dit comment c’était beau quand la minière était ouverte. Et que depuis qu’elle est fermée, il n’y a maintenant qu’un « silence profond ».
    « J’ai beaucoup cru dans la minière », dit-il, et il ne pensait pas qu’un jour ils allaient les ré-ouvrir...

    Le maire de Oltre il Colle, Valerio Carrara, dit que la municipalité est née « sur les minières », jusqu’à il y a 30-40 où elles fonctionnaient encore « parfaitement ». A l’époque, Oltre il Colle avait environ 2000 habitants, puis depuis la fermeture des mines (1984), la commune a connu un dépeuplement.

    #Giampiero_Calegari, maire de Gorno :


    Il explique que Gorno est jumelée (depuis 2003) avec la commune de #Kalgoorlie (#Kalgoorlie-Boulder), en #Australie, ville minière :
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Kalgoorlie

    Le jumelage a été fait car par le passé beaucoup d’habitants du Gorno ont émigré en Australie pour travailler dans les minières d’or.
    Le maire dit que quand ils ont été en Australie pour le jumelage, en 2003, « nous ne pensions pas à ce futur industriel à Gorno ». « Cela semble un signe du destin que nous sommes allés en Australie pour se souvenir de nos mineurs qui ont travaillé dans les minière d’or et maintenant l’Australie vient à Gorno pour faire quelque chose d’intéressant », dit le maire. « Nous avons le passé, le présent et le futur. Pour le futur nous avions un gros point d’interrogation et aujourd’hui on essaie d’interpréter ce point d’interrogation, de le transformer en une proposition. Nous sommes convaincus que ça apportera des bénéfices à notre petite commune ».

    Selon le maire de Oltre il Colle, la population a perçu le projet de manière positive, car depuis 2 ans qu’ils sont en train de préparer la réouverture des mines « ils ont apporté des retombées économiques importantes »

    #Marcello_de_Angelis, #Energia_Minerals_Italia


    de Angelis dit que Energia Minerals ont été « complètement adoptés par les gens du lieu », car ils sont « très très cordiaux » et car « ils voient les possibilités de développement de ces vallées ».
    A Gorno « on fait quelque chose qui est très compatible avec l’#environnement ». Il vante des technologies « éco-compatibles ».

    Le directeur des « opérations », l’ingénieur #Graeme_Collins


    Collins explique qu’il est difficile de trouver des collaborateurs italiens, car cela fait longtemps que les minières ont été fermées en Italie. Et que pour l’heure ils comptent sur du personnel qui vient notamment d’Angleterre et d’Allemagne, mais que dans le futur c’est leur intention de « monter une opération qui sera gérée totalement par du personnel italien ».

    #Simone_Zanin :

    Le maire de Oltre il Colle explique comment la rencontre avec tous (il souligne le « tous ») les dirigeants de Energia Minerals a été positive : des gens très sérieux, très déterminés, très pragmatiques. « Ils sont entrés en syntonie avec notre manière de vivre ». Et l’administration a vu immédiatement les potentialités : les places de travail.

    https://vimeo.com/202730506

    La vidéo existe aussi en anglais :
    https://vimeo.com/202722268

    #Oltre_il_Colle #mines #extractivisme #Italie #Alpes #montagne #Gorno #zinc #Valerio_Carrara #Lombardie #histoire #tradition #Energia_Minerals #Zorzone #technologie #impact_environnemental #plomb

    –—

    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • L’affare CPR, un sistema che fa gola a detrimento dei diritti

    Sono 56 i milioni di euro previsti complessivamente, nel periodo 2021-2023, dagli appalti per affidare la gestione dei #Centri_di_Permanenza_per_il_Rimpatrio (CPR) ai soggetti privati. Costi da cui sono esclusi quelli relativi alla manutenzione delle strutture e del personale di polizia. Cifre che fanno della detenzione amministrativa una filiera molto remunerativa che, non a caso, ha attratto negli ultimi anni gli interessi economici di grandi multinazionali e cooperative. La privatizzazione della gestione è, infatti, uno degli aspetti più controversi di questa forma di detenzione senza reato e ne segna un ulteriore carattere di eccezionalità: il consentire che su quella privazione della libertà personale qualcuno possa trarne profitto.

    Ad illustrare questa situazione è la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD), che questa mattina a Roma ha presentato un nuovo rapporto sul tema, intitolato “L’affare CPR. Il profitto sulla pelle delle persone migranti”, all’interno del quale grande attenzione è stata dedicata alle multinazionali #Gepsa e #ORS, alla società #Engel s.r.l. e alle Cooperative #Edeco-Ekene e #Badia_Grande che hanno contribuito, negli anni recenti, a fare la storia della detenzione amministrativa in Italia.

    Una storia tutt’altro che nobile fatta di sistematiche violazioni dei diritti delle persone detenute, con la possibilità per gli enti gestori di massimizzare -in maniera illegittima- i propri profitti anche a causa della totale assenza di controlli da parte delle pubbliche autorità. Nel Rapporto, infatti, si dà ampio spazio alla denuncia delle condizioni di detenzione che rischiano di configurarsi come inumane e degradanti e alla strutturale negazione dei diritti fondamentali dei detenuti. Il diritto alla salute, alla difesa, alla libertà di corrispondenza non sono, infatti, tutelati all’interno dei CPR: luoghi brutali che consentono ai privati di speculare sulla pelle dei reclusi, grazie anche alla totale assenza di vigilanza da parte del pubblico.

    “Da sempre questi centri – ha dichiarato Arturo Salerni, presidente di CILD – hanno rappresentato un buco nero per l’esercizio dei diritti da parte delle persone trattenute. Essi rappresentano un buco nero anche sotto il profilo delle modalità e dell’entità della spesa, a carico dell’erario, a fronte delle gravi carenze nella gestione e delle condizioni in cui si trovano a vivere i soggetti che incappano nelle maglie della detenzione amministrativa, ovvero della privazione della libertà in assenza di qualunque ipotesi di reato. Il proposito del governo di aumentarne il numero è il frutto di scelte dettate da un approccio tutto ideologico che non trova fondamento nell’analisi del fenomeno. L’esperienza degli ultimi 25 anni, a prescindere dalla gestione pubblica o privata dei centri, ci dice che bisogna guardare a forme alternative e non coercitive per affrontare la questione delle presenze irregolari sul territorio nazionale, che bisogna accompagnare le persone in percorsi di regolarizzazione e di emersione, cancellando l’obbrobrio della detenzione senza reato”.

    https://cild.eu/blog/2023/06/08/laffare-cpr-un-sistema-che-fa-gola-a-detrimento-dei-diritti

    Une #carte localisant les lieux de rétention administrative en Italie :


    #cartographie

    Pour télécharger le rapport :
    https://wp-buchineri.cild.eu/wp-content/uploads/2023/06/ReportCPR_2023.pdf

    #rapport #CPR #CILD #détention_administrative #rétention #business #privatisation #Italie #multinationales #coopératives #profits #droits_humains #CIE

    –—

    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

    • “L’affar€ CPR”: un rapporto di CILD mette alla sbarra gli enti gestori

      Il profitto sulla pelle delle persone migranti

      Nel giugno scorso la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) ha pubblicato un accurato rapporto dal titolo “L’affar€ CPR: il profitto sulla pelle delle persone migranti” 1, che analizza la gestione dei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) italiani da parte delle principali cooperative e imprese private che ne detengono o ne hanno detenuto l’appalto, vincendo i diversi bandi di gara istituiti dalle prefetture.

      Introdotta formalmente nel 1998 2 la detenzione amministrativa in Italia prevedeva inizialmente la facoltà per i questori, qualora non fosse possibile eseguire immediatamente l’espulsione delle persone extracomunitarie, di disporne il trattenimento per un massimo di 20 giorni (prorogabile di ulteriori 10) all’interno dei CPTA, Centri di Permanenza Temporanea e di Assistenza.

      Nel 2008 3, i CPTA diventano Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), e, nel 2009 4, i termini massimi di trattenimento vengono estesi a 180 giorni, per poi venire portati a 18 mesi nel 2011 5. Nel 2017 6, la c.d legge Minniti-Orlando ha ulteriormente modificato la denominazione di tali centri, rinominandoli Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR). Infine, il decreto Lamorgese del 2020 ha emendato alcune disposizioni, riducendo i termini massimi di trattenimento a 90 giorni per cittadini stranieri il cui paese d’origine ha sottoscritto accordi in materia di rimpatri con l’Italia 7.

      Inizialmente, i CPTA erano gestiti dall’ente pubblico Croce Rossa Italiana, e già all’ora diverse organizzazioni della società civile avevano denunciato le pessime condizioni di trattenimento, l’inadeguatezza delle infrastrutture e il sovraffollamento. In seguito al “pacchetto sicurezza” varato dal Ministro Maroni nel 2008, la situazione si aggrava, con la progressiva tendenza dello Stato a cercare di contenere i costi il più possibile. Così, diverse cooperative iniziano a partecipare ai bandi di gara, proponendo offerte a ribasso ed estromettendo la Croce Rossa. Infine, dal 2014, non solo le cooperative ma anche grandi multinazionali che già gestiscono centri di trattenimento in tutta Europa, iniziano a presentarsi e vincere i diversi bandi per l’assegnazione della gestione dei CPR.

      Multinazionali che si aggiudicano gare d’appalto proponendo ribassi aggressivi, a totale discapito dei diritti umani delle persone trattenuti. L’esempio più lampante è l’assistenza sanitaria, in quanto nei CPR, non è il SSN ad esserne competente, bensì l’ente gestore. Infine, nel triennio 2021-2023, le prefetture competenti hanno bandito gare d’appalto per la gestione dei 10 CPR presenti in Italia, complessivamente, per 56 milioni di euro, da sommare al costo del personale di polizia e la manutenzione delle strutture.

      Tra le principali imprese messe alla sbarra dal Report di CILD ci sono:

      Gruppo ORS (Organisation for Refugees Services). Multinazionale con sede a Zurigo, gestisce oltre 100 strutture di accoglienza e detenzione tra Svizzera, Austria, Germania e Italia. Sebbene risulti iscritta nel registro delle imprese dal 2018, ha iniziato la sua attività economica in Italia solo nel 2020. Nel 2019, si aggiudica l’appalto per la gestione del CPR di Macomer, in Sardegna (sebbene risultasse ancora “inattiva”). Nel 2020, gestisce il Cas di Monastir (Sardegna), due centri d’accoglienza a Bologna nel 2021, alcuni Cas a Milano, il CPR di Roma (Ponte Galeria) e quello di Torino.

      Nel centro di Macomer, personale medico ha denunciato l’assenza di interventi da parte delle autorità competenti in seguito a diversi episodi che hanno visto i trattenuti mettere a rischio la propria sicurezza. Inoltre, a più riprese è stata riportata l’impossibilità di effettuare ispezioni all’interno del centro da parte del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Infine, un’avvocata che seguiva diversi clienti trattenuti, ha denunciato la sporcizia e l’inadeguatezza delle visite mediche di idoneità, che ha portato, tra l’altro, al trattenimento di soggetti affetti da gravi forme di diabete e soggetti sottoposti a terapia scalare con metadone, condizioni incompatibili con la detenzione amministrativa.

      Nel CPR di Roma è stata più volte denunciata l’insufficienza di personale, l’inadeguatezza dei locali di trattenimento (per esempio, l’assenza di luce naturale) e l’assenza della possibilità, per le persone recluse, di svolgere qualsiasi attività ricreativa. Anche a Torino, la delegazione CILD in visita ha riportato l’illegittimo trattenimento di persone soggette a terapia scalare con metadone, alto tasso di autolesionismo e abuso di psicofarmaci e tranquillanti somministrati.

      Cooperativa EKENE. Cooperativa sociale padovana che nel corso degli ultimi 10 anni ha spesso cambiato nome (nata come Ecofficina, poi Edeco 8 e infine Ekene), in quanto spesso al centro di inchieste giornalistiche, interrogazioni parlamentari e procedimenti giudiziari legati ad una cattiva gestione di alcuni centri d’accoglienza, come lo SPRAR di Due Carrare (Padova), dove la Procura di Padova aveva aperto un’indagine per truffa e falso in atto pubblico, tramutatasi in una maxi indagine estesasi ad alcuni vertici della Prefettura di Padova, per gare truccate e rivelazioni di segreto d’ufficio.

      Nel 2016, diversi giornalisti e ricercatori avevano ripetutamente denunciato il sovraffollamento e la malnutrizione di diversi centri in gestione alla cooperativa, come l’ex Caserma Prandina, il centro di Bagnoli e Cona (VE), dove, nel 2017, la donna venticinquenne Sandrine Bakayoko è morta per una trombosi polmonare, quando all’interno del centro erano ospitate più di 1.300 persone, in una situazione di sovraffollamento e forte carenza di personale. Nel 2016, è stata espulsa da Confcooperative Veneto, con l’accusa di gestire l’accoglienza seguendo un modello che guardava al business a discapito della qualità dei servizi.

      Tuttavia, nel 2019 si aggiudica l’appalto del CPR di Gradisca d’Isonzo, a Gorizia in FVG, un appalto da circa 5 milioni di euro per un anno, attualmente in proroga tecnica. Dalla riapertura nel 2019, il CPR di Gradisca è quello dove si sono verificati più decessi. Dal 2019, quattro persone sono decedute, due per complicazioni in seguito all’abuso di farmaci, e due suicidi. Ciò mette in risalto la malagestione delle visite di idoneità all’ingresso, nonché l’inadeguatezza delle condizioni di trattenimento. Inoltre, diversi avvocati hanno denunciato la difficoltà nello svolgere colloqui coi trattenuti, e come le persone trattenute non venissero nemmeno informate del diritto a fare domanda d’asilo una volta entrate in Italia.
      Nel dicembre 2021 Ekene si aggiudica anche la gestione del CPR di Macomer.

      ENGEL ITALIA S.R.L. Società costituita nel 2012 con sede legale a Salerno. Nata come ente gestore nel settore alberghiero, presto inizia ad occuparsi di strutture d’accoglienza per persone richiedenti asilo nella zona di Capaccio-Paestum. Sebbene sia una società fallibile dal 2020, è riuscita ad ottenere la gestione del CPR di Palazzo San Gervasio (Basilicata) e Via Corelli (Milano), grazie alla cessione di un ramo dell’azienda ad una società terza, Martinina s.r.l, con la stessa persona come amministratrice unica.

      Già nel 2014, Engel era stata al centro della cronaca per la discutibile gestione del centro di accoglienza di Capaccio-Paestum, dove agli ospiti non venivano erogati beni di prima necessità come cibo e vestiti. Era stata denunciata anche l’assenza di corsi d’italiano e l’irregolarità nell’erogazione del pocket money. Inoltre, molti ospiti avevano denunciato abusi e maltrattamenti all’interno del centro.

      Nel 2018 Engel si aggiudica l’appalto del CPR di Palazzo San Gervasio, con un ribasso sul prezzo d’asta del 28,60%, che ha gestito fino al marzo 2023. Fin da subito, il Garante nazionale per le persone private della libertà, in seguito ad una visita al centro, ne aveva denunciato le pessime condizioni: assenza di locali comuni, trattenuti costretti a consumare i pasti in piedi, e la presenza di solo tre docce comuni. Gli ambienti di pernotto, privi di un sistema di isolamento, risultavano caldissimi d’estate e molto freddi d’inverno.

      Sebbene il centro sia stato chiuso a metà del 2020 per lavori e riaperto a febbraio 2021, secondo CILD le condizioni continuerebbero ad essere critiche. Continua a mancare un locale mensa, e in stanze da 25mq sono ospitate fino ad 8 persone. Inoltre, anche per Palazzo San Gervasio è stata denunciata l’inadeguatezza delle visite di idoneità al trattenimento e la difficoltà per i trattenuti di avere accesso alla corrispondenza coi propri avvocati.

      Anche nel CPR di Milano, per il quale Engel ha ottenuto l’appalto nel 2021 e nel 2022, sono state denunciate le terribili condizioni dei locali, e l’incredibile numero di gabbie e reti di ferro, che danno l’impressione di isolamento estremo, non solo dall’esterno ma anche dal personale all’interno del centro. Anche il cibo e i letterecci erogati risultano di pessima qualità.

      GEPSA. Multinazionale francese che dal 2011 inizia ad investire in Italia nel campo dell’accoglienza, si aggiudica diversi appalti proponendo una strategia aggressiva, con un ribasso sulle basi d’asta dal 20% al 30%. Dal 2014 al 2017 gestisce il CIE di Ponte Galeria, dal 2014 al 2017 il CIE di Milano e dal 2015 al 2022 il CIE di Torino. Dal 2011 al 2014 avrebbe dovuto gestire anche il CIE e CARA di Gradisca d’Isonzo, ma l’aggiudicazione è stata annullata dal TAR del Friuli-Venezia Giulia per la mancanza di requisiti adeguati delle imprese facenti parti della rete.

      Del CPR di Torino, era stata denunciata l’eccessiva militarizzazione e la carenza di personale civile, nonché l’assenza di relazioni tra trattenuti ed operatori, che non entravano quasi mai nelle aree di detenzione. In particolare, Il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, in seguito ad una visita al centro, aveva denunciato come i trattenuti fossero costantemente sorvegliati da personale militare, che stavano letteralmente in mezzo tra trattenuti ed operatori, con funzioni di sorveglianza, ma senza interagire coi primi. Sempre nel CIE di Torino, sono stati riportati numerosi casi di malasanità, assenza di personale medico e la presenza di locali per l’isolamento dei trattenuti, che, secondo ASGI, poteva protrarsi fino a 5 mesi, in maniera del tutto arbitraria e illegittima.
      Durante gli anni della gestione Gepsa, nel CPR di Torino si sono verificate due morti e numerosi casi di autolesionismo e rivolta.

      BADIA GRANDE. Cooperativa sociale fondata nel febbraio 2007, con sede legale a Trapani, e presto si impone come colosso nel settore dell’accoglienza migranti nel Sud d’Italia, vincendo numerose gare d’appalto, soprattutto nel siciliano. Dal 2018 al 2022 gestisce il CPR di Bari-Palese e dal 2019 al 2020 quello di Trapani Milo. Nel 2021, diverse fonti giornalistiche denunciano la mala gestione del CPR di Bari, e diverse personalità dipendenti della cooperativa vengono rinviate a giudizio per casi di frode nell’esecuzione del contratto d’affidamento, in particolare nell’assistenza sanitaria e le misure di sicurezza sul lavoro.

      Anche per la gestione del CPR di Trapani la cooperativa viene indagata per frode nelle pubbliche forniture e truffa. Inoltre, in una visita nel 2019, il Garante nazionale riscontra l’assenza di vetri in molte finestre, assenza di porte e separatori che garantiscano la privacy nell’accesso ai servizi igienici, e l’assenza di locali per il consumo dei pasti, che i trattenuti sono obbligati a consumare sui letti o in piedi.

      Il rapporto si conclude con un’accurata riflessione sull’istituto della detenzione amministrativa, e su come ciò si sia dimostrata terreno fertile per “una pericolosissima extraterritorialità giuridica”, in cui non trovano applicazione neanche quei principi costituzionali che dovrebbero considerarsi inderogabili”. Infine, CILD sostiene che, sebbene la detenzione amministrativa abbia progressivamente creato un sistema che consente ad enti privati di “fare profitto sulla pelle delle persone detenute”, la soluzione non sarebbe la gestione dei CPR da parte del settore pubblico, bensì il superamento del sistema della detenzione amministrativa, da collocare in un quadro più ampio di gestione del fenomeno migratorio attraverso politiche più aperte verso la regolarizzazione degli ingressi, per motivi di lavoro, familiari o di protezione internazionale.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/laffare-cpr-un-rapporto-di-cild-mette-alla-sbarra-gli-enti-gestori

    • Le prefetture non controllano i Cpr. Inchiesta su appalti e gestione

      Dall’esame delle offerte di gara presentate da diversi enti gestori dei centri per il rimpatrio emergono carte false o promesse inverosimili. Da Nord a Sud, il monitoraggio pubblico latita. Mentre si vuole esportare il modello in Albania.

      Protocolli falsi o palesemente inverosimili negli appalti milionari indetti dalle prefetture per la gestione dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Dai corsi di chitarra e computer al bricolage fino ai gruppi di lettura: sono alcune delle promesse irrealizzabili che gli enti gestori di alcuni Cpr italiani hanno indicato nero su bianco per aggiudicarsi le gare pubbliche. Con il benestare (e il mancato controllo) prefettizio.

      “Un quadro estremamente preoccupante considerando che questi appalti intaccano diritti fondamentali delle persone”, spiega la professoressa Nicoletta Parisi, ex membro dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) che ha analizzato i documenti inediti ottenuti tramite accesso civico da Altreconomia. Per il Governo Meloni, invece, un modello da replicare anche in Albania. A #Gjader, stando agli annunci del governo, entro il 20 maggio sarà operativo un Cpr da 144 posti.

      Emblematico è il caso di Ekene, ente che gestisce i Cpr di #Macomer (NU) e #Gradisca_d’Isonzo (GO). Nell’offerta tecnica – quel documento in cui si illustra come verrà gestito il centro- presentata il 18 novembre 2019 per la struttura friulana, la cooperativa promette di realizzare spettacoli, attività di bricolage e pittura per gli “ospiti”. Offre la “presenza di console per videogiochi” e di “interazione con la comunità dei gamer” con la possibilità di incontri alla “fiera dell’elettronica di Pordenone”. E poi gruppi di lettura e cineforum organizzati con l’assessorato alla Cultura di Gradisca che avrebbe dovuto anche favorire l’esposizione delle “tele dipinte a mano dagli ospiti”.

      “Ekene ci aveva contattato per collaborare su un’altra struttura del territorio e noi non avevamo assentito -spiega la sindaca, Linda Tomasinsig-. Non ci hanno mai scritto per il Cpr né poi contattato per realizzare queste attività”. Ma proprio sull’efficienza “degli accordi con soggetti istituzionali volti alla realizzazione di iniziative ricreative, sociali e religiose”, si legge nei documenti di gara, la cooperativa ha ottenuto il punteggio più alto tra i concorrenti.

      Ekene, che non ha risposto alle nostre richieste di chiarimento, gestisce il centro di Gradisca dal 18 novembre 2019 e oggi è alla terza “proroga tecnica”: la nuova gara d’appalto è ancora aperta dal 22 febbraio 2022. Intanto, dal gennaio 2020 a oggi, nella struttura sono morte quattro persone. La prefettura scrive ad Altreconomia di aver svolto una sola ispezione a inizio febbraio 2023. Il risultato? “Gli esiti non sono tutt’oggi ancora consolidati in un documento finale”. Anche in Sardegna i controlli sono pochi.

      La prima ispezione della prefettura di Nuoro nel Cpr di #Macomer è del 23 febbraio 2023, a tre anni dalla sua apertura. A quell’accesso ne è seguito solo un altro, il 17 gennaio 2024: nel verbale si dà conto dello svolgimento nel centro di attività ricreativa e dell’utilizzo di “colori a tempera, ‘das’ e palloni”. “Da quanto ho visto non succede niente di tutto questo”, spiega la deputata di Alleanza Verdi-Sinistra Francesca Ghirra, che a fine marzo di quest’anno ha visitato la struttura con l’associazione Naga e la rete Mai più lager-No ai Cpr. La prefettura elenca tra le attività svolte anche “esami universitari con Uni Sassari”. L’ateneo ha scritto ad Altreconomia di non avere avuto alcun contatto con la struttura.

      La cooperativa Ekene promette però nell’offerta tecnica corsi di formazione oltre che “attività ludico-ricreative e laboratoriali” e presenta protocolli siglati con quattro associazioni per realizzarle. La prima è la “#World_Promus” di Catania, con un codice fiscale che risulta inesistente. E poi altri tre enti con sede però nel padovano: #Tuendelee (molto vicina alla stessa Ekene), l’#International_online_university e l’associazione #Spes, con il compito di fare una presunta informativa sui rimpatri volontari. Quella che dovrebbe essere la rappresentante legale (Spes non compare in nessuno dei diversi elenchi di associazioni consultati online) dichiara di non aver mai svolto attività nella struttura.

      Nell’offerta tecnica di Macomer lo stretto legame con Padova e il Cpr di Gradisca è forte. Quasi tutto il personale individuato per essere operativo nella struttura sarda risulterebbe infatti residente in Veneto. E alcuni nomi tornano in entrambi documenti presentati da Ekene sia a #Nuoro sia a #Gorizia nel 2019: quelli del medico e del responsabile del magazzino. Che è #Roberto_La_Rosa, rinviato a giudizio per omicidio colposo insieme all’ex rappresentante legale di Ekene #Simone_Borile, a seguito della morte di #Vakhtang_Enukidze, avvenuta nel Cpr friulano il 18 gennaio 2020.

      Il ministro dell’Interno #Matteo_Piantedosi ha dichiarato il 19 febbraio 2024 che ci sono “sistemi di monitoraggio continui rispetto alle condizioni basilari di vita nei Cpr” e che “il richiedente asilo non è previsto che sia trattenuto all’interno delle strutture”. Secondo i dati forniti ad Altreconomia dallo stesso ministero dell’Interno, invece, sono 256 i richiedenti protezione internazionale reclusi tra gennaio 2023 e febbraio 2024.

      Anche i nomi delle aziende individuate per fornire i pasti ritornano in entrambe le offerte tecniche: contattate da Altreconomia, però, hanno spiegato che non coprono la Sardegna o non hanno forniture attive a Macomer. La #Vi&Vi Srl, addirittura, è fallita a inizio 2022. “Questa distanza geografica rilevabile dagli atti -spiega Maria Teresa Brocchetto, avvocata amministrativista e socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)- così come l’impossibilità materiale della prestazione offerta sollevano gravi dubbi sull’effettiva capacità di controllo di ciò che avviene nel centro sardo, sulla qualità delle forniture e sulle connesse responsabilità”.

      Spostandosi a #Bari, invece, l’ente #La_Mano_di_Francesco_Ets, con sede a Favara (AG), scrive nell’offerta tecnica che “per le peculiarità che caratterizzano il Cpr” sono stati coinvolti “enti selezionati con cura per la loro serietà ed affidabilità”. Su 14 protocolli presentati alla prefettura, dieci riguardano associazioni che operano a quasi 700 chilometri da Bari, soprattutto nell’agrigentino, dove si trova la ha sede dell’ente gestore.

      Uno prevede lo sviluppo di “attività riparative a favore della collettività”, sottoscritto con l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna del ministero della Giustizia. E poi c’è l’azienda #Cyan_Developer di Taranto per corsi di computer. “Non conosco l’ente gestore e non ho firmato protocolli”, dichiara il titolare #Angelo_Cimino. Altreconomia non ha potuto verificare la veridicità degli altri accordi perché la prefettura ha inviato solo i quattro “ritenuti pertinenti al servizio oggetto di gara”.

      “La stazione appaltante non può selezionare solo alcuni elementi dell’offerta tecnica perché è come se la modificasse -sottolinea Parisi, ex membro dell’Anac-. Se uno fosse effettivamente falso, non si può escludere che l’intera offerta diventi inammissibile”. Anche la pertinenza di quelli che abbiamo potuto consultare è problematica.

      Il primo è semplicemente la ricevuta dell’invio della pec con la quale #La_Mano_di_Francesco aveva richiesto la collaborazione dell’Asl (che ci ha confermato di non aver siglato alcun accordo), il secondo riguarda l’#Efal_Salento per “attività di formazione e aggiornamento professionale”. L’accordo è a firma dell’ex presidente #Gregorio_Dell’Anna, ma #Sandro_Renis, che ricopre la carica da fine febbraio 2023, dichiara ad Altreconomia di essere all’oscuro di tutto.

      Una terza associazione, #Anas_Puglia, avrebbe dovuto realizzare attività “di promozione di politiche dell’immigrazione”. Il referente #Luigi_Favia dichiara che non è mai entrato nel Cpr. Infine, “#Avetrana_Soccorso” doveva svolgere “attività di trasporto sanitario”. Ma la sede dell’associazione è in provincia di Taranto, a quasi due ore d’auto da Bari. Dell’unica ispezione della prefettura nel centro dall’insediamento del nuovo gestore, avvenuto il 6 novembre 2023, “gli esiti sono ancora in via di definizione”.

      Nel Cpr di Trapani, dove per la Corte europea dei diritti dell’uomo le condizioni di vita sono “degradanti”, la prefettura ha svolto una sola visita ispettiva il 29 agosto 2023

      A Trapani, invece, #Consorzio_Hera e #Vivere_Con, attuali enti gestori del Cpr, hanno allegato più di 50 protocolli all’offerta tecnica, esaminati da Altreconomia insieme all’Asgi e alla Clinica legale migrazioni e diritti dell’Università di Palermo. Sono previste attività sportive “per eliminare le barriere di genere e la segregazione dei migranti trattenuti” aumentando “autopercezione e immagine di sé” ma almeno due accordi presenterebbero date incompatibili con le sottoscrizioni: quello siglato nel 2021 con l’#Asd_Pallavolo ‘95 Mazara del Vallo porta la firma di un presidente che si era dimesso tre anni prima. Idem, da riscontri online, sull’Asd Mazara calcio.

      Altri protocolli, invece, siglati per attività in Cas e Sprar sono stati usati anche per il Cpr. “Un aspetto che la prefettura avrebbe dovuto verificare in sede di gara”, sottolinea Parisi. Un problema che ritorna anche con le attività ludiche. Viene previsto un corso di chitarra acustica per “24 incontri dalla durata di un’ora e mezza circa” ma l’unica associazione, tra quelle firmatarie dei protocolli, che li prevede espressamente è “#L’arrotino_e_l’ombrellaio”: nell’accordo non si cita il Cpr e il rappresentante conferma di non esserci mai entrato.

      Le ispezioni svolte in nove Cpr, secondo quanto riferito dalle prefetture, sono state 33. Il 30% a Palazzo San Gervasio (11 nel periodo 2019-2024), a seguire Milano (sei tra il 2020 e il 2023), Bari (sei tra il 2022 e il 2023), Roma (tre, 2022-agosto 2023). Due a Macomer (2020-2024) e Caltanissetta (2023). Solo una a Brindisi (2023-2024), Trapani e Gradisca d’Isonzo (non specificato il periodo). Di queste, sono stati inviati ad Altreconomia e Asgi 24 verbali

      Lo stesso vale per l’assistenza religiosa: suor #Alessandra_Martin è la direttrice dell’associazione #Casa_della_Comunità_Speranza, che compare in uno dei protocolli (senza data): “Sono la presidente da sei anni e non ho mai visto quel documento -spiega-. Il paradosso è che nel 2023 ho chiesto per due volte alla prefettura di entrare nel Cpr senza poterlo fare”.

      Ancor più eclatante l’accordo con la #Parrocchia_Maria_SS_Ausiliatrice di Trapani: il parroco, monsignor #Antonino_Adragna, sarebbe andato in pensione cinque mesi prima della firma avvenuta nel dicembre 2021. Gli enti gestori non hanno risposto alle nostre richieste relative a quali attività si svolgano nel centro. Nel Cpr in cui le condizioni di vita erano “degradanti” -parole dei giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo dello scorso 7 febbraio- la prefettura ha svolto una sola visita ispettiva il 29 agosto 2023.

      Dal Cpr di Trapani è stato trasferito in quello di Roma #Ousmane_Sylla, 22enne guineano morto suicida il 5 febbraio 2024. Il centro è gestito da #Ors_Italia Srl che, per la mancata applicazione delle attività previste dai protocolli, è stata multata di 23mila euro dalla prefettura a seguito di un’ispezione del 16 novembre 2023.

      Un sistema che fa acqua da tutte le parti. Con la propaganda governativa che si scioglie di fronte ai numeri: a gennaio 2024 sono appena 462 le persone transitate nei Cpr (a gennaio 2023 erano stati 559). Quasi il 50% è di origine tunisina. Impressionante: benché nei centri l’anno scorso siano transitate persone di 45 cittadinanze e i tunisini rappresentino poco più del 10% degli sbarchi del 2023, una persona trattenuta su due proviene dalla Tunisia -spiega l’avvocato Maurizio Veglio-. Sempre di più lo Stato bersaglio delle politiche repressive e liberticide dell’Italia”.

      Non ci sono stati inviati i documenti relativi alle gare di #Brindisi e #Palazzo_San_Gervasio (PZ). I rispettivi enti gestori - #Consorzio_Hera (già analizzata su Trapani) e #Officine_Sociali (in gara anche a #Gorizia in cordata con #Martinina_Srl, sotto indagine per la gestione dei Cpr di #Potenza e #Milano, di cui a metà aprile è stata annunciata la temporanea chiusura)- ritengono che l’invio possa ledere il know how aziendale. “Stiamo predisponendo il ricorso al Tar per ottenerli -spiega l’avvocato Nicola Datena-. Visto il quadro preoccupante, la trasparenza è il minimo”. Le due cooperative sono ancora in gara, a metà aprile, per aggiudicarsi gli oltre 150 milioni di euro per la gestione dei centri in Albania. Vite in appalto, senza controllo, anche oltre il mar Adriatico.

      https://altreconomia.it/le-prefetture-non-controllano-i-cpr-inchiesta-su-appalti-e-gestione

      #sous-traitance #statistiques #2024

  • 🛑 ✊ ★ ♀ #Retraites #Féminisme #Anticapitalisme #RéformedesRetraites #NonALaReformeDesRetraites #grèves #GrèveGénérale #GreveGeneraleIllimitee #Grève7mars... #8mars #GrèveFéministe... #Simone_Weil

    « Nous vivons dans un monde dans lequel rien n’est à la mesure de l’Homme »

    🛑 Pour Simone Weil, « la grève est une joie pure »

    Les blocages contre la réforme des retraites sont l’occasion de (re)découvrir la pensée de Simone Weil. Pionnière de l’écologie, elle défendait ardemment la grève, notamment le mouvement de 1936, auquel elle participa (...)

    ▶️ Lire le texte complet…

    ▶️ https://reporterre.net/Pour-Simone-Weil-la-greve-est-une-joie-pure

  • #Révolution #URSS #FascismeRouge #domination #dictature #totalitarisme #bolchevisme #Lénine #Trotsky #Staline #Cronstadt #persécution #répression #crime

    #anarchisme #conseillisme #émancipation #Voline #EmmaGoldman #SimoneWeil #CorneliusCastoriadis #OttoRühle #HannahArendt...

    ★ LES RÉVOLUTIONNAIRES CONTRE LE FASCISME ROUGE... - Socialisme libertaire

    On ne saurait accuser tous les révolutionnaires d’avoir trempé dans les crimes de Lénine, Staline et leurs continuateurs : tout au long du XXe siècle, des minorités existèrent au sein du mouvement ouvrier, qui non seulement dénoncèrent l’imposture du « socialisme réellement existant », mais tentèrent d’en tirer des leçons pour la critique sociale et l’émancipation des classes dominées (...)

    ▶️ Lire le texte complet…

    ▶️ https://www.socialisme-libertaire.fr/2022/11/les-revolutionnaires-contre-le-fascisme-rouge.html

  • #Simone_Weil #Marx #Engels #marxisme...

    🛑 SUR LES CONTRADICTIONS DU MARXISME par Simone Weil (1934)...

    « À mes yeux, ce ne sont pas les événements qui imposent une révision du marxisme, c’est la doctrine de Marx qui, en raison des lacunes et des incohérences qu’elle renferme, est et a toujours été très au-dessous du rôle qu’on a voulu lui faire jouer ; ce qui ne signifie pas qu’il ait été élaboré alors ou depuis quelque chose de mieux. Ce qui me fait exprimer un jugement si catégorique, et si propre à déplaire, c’est le souvenir de mon expérience propre (...) »

    ▶️ Lire le texte complet…

    ▶️ https://www.socialisme-libertaire.fr/2018/01/sur-les-contradictions-du-marxisme.html

  • Chine : le miroir rouge se réveille-t-il ? - Contrepoints
    https://www.contrepoints.org/2022/12/03/444805-chine-le-miroir-rouge-se-reveille-t-il

    Jean-Pierre Chamoux

    Si l’avenir s’écrit effectivement en Chine, il est important que les Occidentaux qui n’en sont pas conscients le découvrent avant qu’un pareil garrot leur soit imposé.

    image amazon https://www.amazon.com/Red-Mirror-Lavenir-Soci%C3%A9t%C3%A9-num%C3%A9rique/dp/237662021X
    La liberté d’expression n’est pas gratuite !

    Publié le 3 décembre 2022

    Lors de la parution française en avril 2021 de Red Mirror, essai assorti d’un reportage photographique original sur les rues chinoises, j’avais déjà souligné le sens profond de cet ouvrage d’un journaliste italien, Simone Pieranni, illustré par Gilles Sabrié, un photographe qui vit à Pékin.

    Ces deux auteurs décrivent par le récit et par l’image la vie des gens ordinaires qui peuplent les mégalopoles chinoises. Ce sont les mêmes qui manifestent aujourd’hui en Chine contre le fol maintien d’un confinement assassin pour les malheureux habitants de ce gigantesque pays. Leur soulèvement spontané est un refus naturel de ce que dévoilait ce petit livre publié sous une couverture rouge « à la Mao » par un éditeur de Caen qui le ressort ces jours-ci grâce à l’actualité dramatique qui nous vient de Chine.

    Cet ouvrage, très bien traduit par Fausto Guidice, est instructif si l’on sait lire entre ses lignes.

    Ce que j’en avais dit en avril 2021 permet de comprendre ce qui secoue profondément la Chine d’aujourd’hui : la population chinoise n’en peut plus d’être parquée comme du bétail dans des conditions infernales ; elle étouffe sous une chape de plomb et elle refuse enfin l’emprisonnement généralisé qui lui est imposé sous prétexte de contenir un virus que l’on a pas su maîtriser !

    Red Mirror aborde en quatre chapitres autant de caractéristiques de la société chinoise actuelle.

    L’omniprésence du réseau social Wechat qui encadre et accompagne la vie quotidienne des chinois.
    La politique des « villes intelligentes » très denses où s’entassent des travailleurs venus des campagnes pour fournir à l’usine du monde une main-d’œuvre que l’on espérait servile.
    Une industrie (comme Foxcomm dont les ouvriers se révoltent ces jours-ci) qui fournit à la planète entière équipements, infrastructures et services indispensables à l’ère du numérique.
    Une cité collectiviste construite par une ingénierie sociale qui évoquent l’utopique prison panoptique imaginée par les frères Jeremy et Samuel Bentham (1791), cité dont le crédit social fut conçu et qui est gérée par le Parti communiste chinois.

     
    Rôle du « crédit social »

    Largement dévoilé par la propagande chinoise, ce système de bons et mauvais points devait assurer, dit Pieranni, non seulement la cohésion de la Chine moderne mais l’aider à dominer le monde contemporain (chap. 5) !

    Ses tenants et aboutissants se découvrent à chaque page de ce récit qui associe curieusement cette surveillance sociale à une pratique millénaire méconnue par les Occidentaux : la baojia, un encadrement communautaire des familles chinoises qui n’aurait donc été que l’antécédent médiéval du crédit social actuel (p. 144) !

    Théorisée en 1957 par Mao dans la section IV de son Petit livre rouge, la dialectique entre l’ordre et le chaos s’inscrirait donc dans le prolongement de la Chine impériale…

     
    On peut regretter… 

    Cet ouvrage témoigne d’une belle indulgence envers les intentions et les agissements de la puissance publique chinoise qui n’a jamais hésité ni sur les moyens ni sur la brutalité nécessaires pour mâter son peuple, surtout lorsqu’il réagit aux actes suicidaires comme l’est ce confinement à outrance que l’auteur condamnerait, je suppose, très vivement s’il le relevait dans un pays occidental !

    Corrélativement, ce texte use de force litotes pour situer (et pour finalement admettre) ce crédit social qui traite les hommes comme des « chiens de Pavlov » et que l’autorité communiste tient à sa botte, au grand dam des individus conscients comme le furent les étudiants de Hong Kong qui n’ont plus désormais d’autre choix que de se soumettre ou de partir depuis que leur territoire est repris en mains par Pékin.

    Ils en ont payé le prix comme risquent aussi de le faire les foules de Shangaï ou de Wuhan qui se rebellent actuellement contre l’enfermement qu’on leur impose depuis deux ans et plus (cf. p. 134 sq. par ex.) !

     
    L’avenir s’écrit-il en Chine ?

    En quelques mots, si l’avenir s’écrit effectivement en Chine, comme l’annonce l’auteur, si le crédit social se poursuit effectivement dans la veine d’une tradition millénaire, il est important que les Occidentaux qui n’en sont pas conscients le découvrent avant qu’un pareil garrot leur soit imposé !

    Lu avec attention et un minimum d’esprit critique, ce petit livre devrait les dessiller : deux brèves citations suffisent pour le comprendre :

    « En Chine, le smartphone, c’est Wechat. Et Wechat sait tout sur tout le monde ! » (p.12)

    « Le crédit social […] c’est l’État qui juge tous les citoyens [car] la Chine ne veut pas seulement réglementer les personnes mais aussi l’environnement dans lequel elles vivent » ! (p. 143 )

     
    Deux mots sur les auteurs

    Journaliste au quotidien italien Il Manifesto créé en 1969 par des dissidents du Parti communiste italien, Simone Pieranni a vécu sept ans en Chine où il avait créé l’agence China Files. Le photographe Gilles Sabrié a illustré de grands quotidiens (Le Monde, The Guardian, Wall Steet Journal…) et de nombreux magazines (Time, Geo, Spiegel, L’expresso etc.).

     

    Simone Pieranni : Red Mirror L’avenir s’écrit en Chine, Traduit de l’italien et assorti d’un reportage photographique de Gilles Sabrié, C & F éditions, Caen, 2022, 184 pages.

    #Red_Mirror #Simone_Pieranni

  • #Sulla_loro_pelle”, l’inchiesta sui CPR che ha vinto il Premio Morrione
    Un documentario di #Marika_Ikonomu#Alessandro_Leone#Simone_Manda

    Ha vinto l’undicesima edizione del Premio Roberto Morrione per il giornalismo investigativo, l’inchiesta “Sulla loro pelle” di Marika Ikonomu, Alessandro Leone, Simone Manda (tutor Sacha Biazzo di Fanpage.it) che ha investigato l’opacità della gestione privata dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio e le ripercussioni sui diritti basilari delle persone migranti.

    «L’inchiesta “Sulla loro pelle” dà voce agli ultimi con equilibrio e forza narrativa attraverso immagini e testimonianze, con maturità professionale e attenzione al linguaggio visivo e narrativo. Un lavoro toccante, di attualità, sempre più necessario, che tiene accesa l’attenzione su un tema, quello dei Centri di Permanenza per i Rimpatri, veri e propri luoghi di detenzione di cui si parla sempre troppo poco» sono le motivazioni della giuria.

    I Cpr sono appunto luoghi di detenzione amministrativa destinati al rimpatrio delle persone migranti. Anche se non sono ufficialmente delle carceri, le condizioni di vita e le morti avvenute al loro interno hanno portato società civile e associazioni a denunciare ripetutamente violazioni dei diritti umani. Sulla loro pelle affronta le problematiche di questo sistema: dai rapporti tra i privati gestori e le prefetture, a chi dentro quelle strutture ha perso la propria vita, dando voce al racconto di lavoratori e reclusi.

    https://www.meltingpot.org/2022/11/sulla-loro-pelle-linchiesta-sui-cpr-che-ha-vinto-il-premio-morrione

    https://www.youtube.com/watch?v=hb5XBVFUzDY


    #film #film_documentaire #documentaire #CPR #rétention #détention_administrative #Italie #asile #migrations #réfugiés #déboutés #sans-papiers

  • Las estatuas más incómodas de América

    En años recientes, conquistadores, militares y caudillos han sido bajados de sus pedestales por manifestantes o por los mismos gobiernos, que enfrentan un debate creciente sobre los símbolos y deben definir qué hacer con los monumentos antiguos, qué representan y qué lugar les corresponde

    En marzo de 2011, durante una visita oficial a la Argentina, el entonces presidente Hugo Chávez vio la estatua que se levantaba detrás de la Casa Rosada y preguntó: “¿Qué hace ahí ese genocida?”. Era una escultura de Cristóbal Colón de unos seis metros de alto y 38 toneladas, hecha en mármol de Carrara, ubicada allí desde hacía casi un siglo. “Colón fue el jefe de una invasión que produjo no una matanza, sino un genocidio. Ahí hay que poner un indio”, dijo Chávez. Para los funcionarios que lo acompañaban, ciudadanos de un país donde aún se repite que los argentinos descienden de los barcos, aquella figura tal vez nunca había resultado incómoda hasta ese momento. Pero tomaron nota de sus palabras.

    El comentario de Chávez no solo fue disparador de la remoción del monumento dedicado al marino genovés en Buenos Aires —una medida que tomó el Gobierno de Cristina Kirchner en 2013 y desató una larga polémica y una batalla judicial con la comunidad italiana—, sino también el síntoma de una época en que las sociedades de América, y algunos de sus dirigentes, empezaban a poner en discusión de forma más o menos central los símbolos que han dominado los espacios urbanos durante décadas. A veces manifestación de impotencia, a veces demagogia, a veces el descubrimiento repentino de una forma de mostrar la historia y de una resistencia que ya estaban allí desde hacía bastante tiempo, pero en los márgenes.

    “Las estatuas hablan siempre de quien las colocó”, escribió en 2020 el autor peruano Marco Avilés, columnista del Washington Post, después de una serie de ataques a monumentos confederados y a figuras de Cristóbal Colón durante las protestas antirracistas en Estados Unidos. En su texto, Avilés cuenta sobre el derribo a martillazos de una escultura del conquistador Diego de Mazariegos en San Cristóbal de las Casas, México, en octubre de 1992. Aquella estatua había sido emplazada 14 años antes frente a la Casa Indígena por orden del alcalde, para celebrar un aniversario de fundación de la ciudad. “Consultar a las personas indígenas o negras no es una costumbre muy extendida entre las élites que ahora gobiernan América Latina, y era peor hace cuatro décadas”, escribe Avilés.

    Bajar o dañar monumentos no es algo nuevo, pero desde finales de 2019, cuando las protestas en Chile marcaron el inicio de una ola de estallidos sociales en todo el continente, dejó de ser un gesto extremo, marginal, y pasó a ser una especie de corriente revisionista febril que recorría la región a martillazos. Y un desafío esperado. En Santiago, la escultura del general Baquedano —militar que participó en las campañas contra los mapuche y es considerado un héroe de la Guerra del Pacífico— se convirtió en ícono de la revuelta ciudadana. Fue pintada y repintada, embanderada, convertida en blanco y en proclama: la más notable de los más de mil monumentos dañados esos meses. En Ciudad de México, la estatua de Cristóbal Colón que estaba en el Paseo de la Reforma —la avenida más importante de la ciudad— fue retirada con rapidez la noche del 10 de octubre de 2020, ante el rumor de que algunos grupos planeaban destruirla el 12 de octubre. Ese mismo año comenzó en Colombia una serie de derribos de estatuas que llegó a su punto máximo durante el Paro Nacional de 2021, cuando bajaron la escultura del conquistador Sebastián de Belalcázar en Cali y siguieron con Gonzalo Jiménez de Quesada en Bogotá —fundador de la ciudad—, Cristóbal Colón, Isabel la Católica y hasta Simón Bolívar.

    Durante los últimos dos años, la pandemia permitió mitigar por momentos el fuego de la protesta social en el continente y ofreció un respiro a los monumentos, pero la crisis sanitaria ha dejado de ocupar un lugar central en la vida pública y los asuntos pendientes vuelven a salir a flote. Este mes, la alcaldía de Cali ha decidido restituir —y resignificar— la estatua de Belalcázar, y Chile ha reinstalado la estatua de Manuel Baquedano, ya restaurada, en el Museo Histórico Militar, aunque no está claro su destino final. Mientras el aumento en el costo de vida vuelve a caldear los ánimos en las calles de la región, y un nuevo 12 de octubre se acerca, la discusión sobre cómo y con qué símbolos se recuerda la historia propia en las ciudades de América sigue abierta.

    México y Argentina: un Colón en el armario

    En 2013, dos años después de la visita de Hugo Chávez a la capital argentina, el Gobierno de Cristina Kirchner finalmente retiró la estatua de Cristóbal Colón de su sitio y la reemplazó por una de Juana Azurduy, heroína de la independencia que luchó contra la monarquía española por la emancipación del Virreinato del Río de la Plata.

    El cambio levantó ampollas en la colectividad italiana en el país. Sus miembros recordaron que habían sido ellos los donantes de la estatua de Colón hacía más de un siglo y exigieron un nuevo emplazamiento a la altura del personaje. El proceso no fue sencillo. Colón estuvo a la intemperie durante más de dos años, repartido en múltiples fragmentos y preso de un arduo debate político. La oposición criticaba lo que consideraba una decisión desafectada de la historia; el Gobierno se escudaba en el revisionismo histórico y en la necesidad de respetar la memoria de los pueblos originarios.

    El Colón de mármol terminó de encontrar un sitio en 2017. El Gobierno levantó un pedestal en la costanera norte del Río de la Plata, entre pescadores, caminantes y puestos de comida que los fines de semana se llenan de gente. La estatua mira desde entonces hacia Europa, como lo hacía antes del traslado, con el rostro atento a las olas y abierto a las tormentas. Un sitio solo apto para marinos.

    Fue también un gobierno progresista el responsable de remover la estatua de Cristóbal Colón instalada en el Paseo de la Reforma de Ciudad de México, pero la medida no fue convertida en un gesto épico, sino en uno de evasión; una forma de evitar un problema: el 10 de octubre de 2020, dos días antes de la conmemoración de la llegada del genovés a América, las autoridades de la ciudad hicieron quitar la escultura de bronce. La versión extraoficial es que lo hicieron para que el Colón no fuera destruido por manifestantes el 12 de octubre. Sin embargo, semanas después, se anunció que la figura estaba resguardada en una bodega donde iban a intervenirla para su conservación, y que después de estos trabajos sería reubicada en otro sitio.

    Estas decisiones abrieron el debate sobre la pertinencia de la estatua en el siglo XXI. Los grupos que protestaban contra Colón aseguraban que se trataba de “un homenaje al colonialismo” y que su relevancia debía ser revisada. Su retiro coincidió con la conmemoración de los 500 años de la caída de Tenochtitlan ante los conquistadores españoles. A diferencia de lo que ocurrió en Argentina, no existieron reclamos a favor de conservar la estatua en la principal avenida de la capital mexicana, pero su destino siguió siendo una incógnita.

    El próximo mes se cumplirán dos años desde que la figura de Colón — que fue instalada en 1875— fuera retirada de las calles. “Se le dará un lugar, no se trata de esconder la escultura”, dijo el año pasado la jefa de Gobierno de la ciudad, Claudia Sheinbaum, sobre su reubicación. La glorieta que Colón ocupaba ahora alberga el Monumento de las Mujeres que Luchan, una improvisada manifestación de diversos grupos feministas que se han apropiado del sitio para protestar contra la violencia machista. El Gobierno tenía planes de instalar otro tipo de escultura, pero los planes permanecen frustrados hasta ahora.
    Chile y Colombia, de las calles a los museos

    En septiembre de 2020 en Popayán, capital del departamento colombiano del Cauca y una de las ciudades más poderosas del virreinato de la Nueva Granada, un grupo de indígenas de la comunidad misak derribó una estatua ecuestre del conquistador español Sebastián de Belalcázar que había sido ubicada en el lugar de un cementerio precolombino, por lo que era vista como una humillación. Lo hicieron tres meses después de que el Movimiento de Autoridades Indígenas del Sur Occidente difundiera un comunicado en el que los llamados Hijos del Agua o descendientes del Cacique Puben escenificaron un “juicio” a Belalcázar.

    Medio año después, cuando el país se sacudía por las protestas sociales en medio de un paro nacional, de nuevo un grupo misak del movimiento de Autoridades Indígenas del Sur Occidente derribó la estatua de Belalcázar en Cali, la tercera ciudad del país, cerca de Popayán. “Tumbamos a Sebastián de Belalcázar en memoria de nuestro cacique Petecuy, quien luchó contra la corona española, para que hoy sus nietos y nietas sigamos luchando para cambiar este sistema de gobierno criminal que no respeta los derechos de la madre tierra”, explicaron entonces. Diez días después, tras llegar a Bogotá, derribaron la estatua del fundador de la ciudad, Gonzalo Jiménez de Quesada. Y, de forma menos debatida y visible, cayeron también un conjunto de estatuas de Cristóbal Colón e Isabel la Católica, y una estatua ecuestre de Simón Bolívar.

    Esos monumentos y acciones han dejado tras sí una estela de reflexiones y unos dilemas de política pública que se han resuelto de manera diferente, como parte de un proceso de discusión del significado de la conquista en un país mayoritariamente mestizo. En Cali, un decreto ordenó reinstalar la estatua con una placa que debe reconocer a “las víctimas de la conquista española”. Bogotá ha optado por llevar las figuras derribadas a los museos, dejando visible los efectos de las caídas, para así dejar abierto el debate.

    Preservar las marcas de guerra en las esculturas parece una forma hábil de conciliar los significados múltiples que adquiere un monumento intervenido o derribado durante una protesta social, pero no es aplicable a cualquier escala. En Chile, en los cuatro meses siguientes a octubre de 2019, 1.353 bienes patrimoniales sufrieron algún tipo de daño a lo largo del país, según un catastro del Consejo de Monumentos Nacionales. Decenas de ellos se perdieron por completo, se retiraron o se reemplazaron.

    La extracción más simbólica debido a su ubicación en el epicentro de las revueltas fue la escultura del General Manuel Baquedano. La obra de bronce erigida hace casi un siglo en la Plaza Italia de Santiago fue removida de su sitio en marzo de 2021 después de que un grupo intentase cortar las patas del caballo sobre el que posa el militar. Tras una exhaustiva labor de restauración, la escultura ha sido reinstalada esta semana en el Museo Histórico y Militar (MHN) por solicitud del Ejército. Las otras seis piezas que conforman el conjunto escultórico, también seriamente dañadas, están almacenadas en el museo a la espera de ser restauradas.

    Atacar esculturas fue una práctica habitual durante las manifestaciones. En la mayoría de los casos fueron rayadas con proclamas, pero en los más extremos llegaron a destruir monumentos, principalmente de figuras de la colonización europea o militares chilenos. En el centro de la ciudad norteña de Arica, por ejemplo, destruyeron un busto de Cristóbal Colón elaborado con mármol, donado por la Sociedad Concordia Itálica en 1910, en el centenario de la independencia chilena. El municipio se encargó de resguardar los pedazos. En La Serena, 400 kilómetros al norte de Santiago, derribaron y quemaron una estatua del conquistador español Fracnisco de Aguirre, que luego fue reemplazada por la de una mujer diaguita amamantando a un bebé.
    Estados Unidos: contra confederados y colonialistas

    Las estatuas que se consideran símbolos del esclavismo y el racismo llevan décadas provocando polémica en Estados Unidos, pero en los últimos años la batalla sobre los símbolos se ha recrudecido. En 2017, la decisión de Charlottesville de retirar la estatua del general confederado Robert E. Lee llevó a movilizarse hasta allí a cientos de neonazis y supremacistas blancos con antorchas, y generó a su vez una contraprotesta de los habitantes de la ciudad. Una mujer de 32 años murió arrollada por el coche de un neonazi. Tras los disturbios, y la respuesta equidistante de Trump, decenas de placas y estatuas en homenaje al general Lee y otros destacados miembros del bando confederado, que defendía la esclavitud en la Guerra Civil, fueron derribadas, dañadas o retiradas. La de Charlottesville fue retirada cuatro años después de la revuelta supremacista.

    Esa llama reivindicativa contra el racismo institucionalizado se reavivó en la primavera de 2020 tras la muerte de George Floyd en Mineápolis a manos de la policía. Una estatua del presidente confederado Jefferson Davis fue derribada en Richmond (Virginia), y también en esa ciudad, que fue capital confederada durante la guerra, fueron atacadas estatuas de los generales J. E. B. Stuart, Stonewall Jackson y el propio Lee. Monumentos confederados en Alabama, Luisiana, Carolina del Norte y Carolina del Sur, entre otros, fueron derribados o pintados también.

    Especialmente en esa última oleada, las protestas han puesto en el punto de mira las estatuas en memoria de quienes consideran artífices del colonialismo. Una manifestación contra el racismo derribó en junio de 2020 en San Francisco una estatua de Fray Junípero Serra, fundador de las primeras misiones de California. También la de Los Ángeles fue derribada por activistas indígenas. Pero el más señalado por esa reivindicación contra el colonialismo fue y sigue siendo Cristóbal Colón, pese a que no pisó Norteamérica. También en junio de 2020, la estatua de Colón en Boston fue decapitada; la de Richmond (Virginia), fue arrancada y arrojada a un lago; la de Saint Paul (capital de Minnesota), fue derribada y la de Miami, llena de pintadas de protesta por parte del movimiento Black Lives Matter.
    Un nuevo sujeto social: los realistas peruanos

    En el Perú, Cristóbal Colón aún conserva su cabeza. No ha sido tumbado por sogas ni ha ido a parar a algún depósito. Pero cada 12 de octubre se discute si su estatua de mármol, inaugurada hace dos siglos, debe permanecer oronda en el Centro de Lima, con una mujer indígena a sus pies.

    Vladimir Velásquez, director del proyecto cultural Lima antigua, sostiene que el descontento ciudadano hacia el navegante genovés se ha manifestado en un ataque simbólico. “La escultura más vandalizada del Centro Histórico es la de Colón. No la han destruido de un combazo, pero en varias ocasiones le han rociado de pintura roja, aludiendo a los charcos de sangre que se desataron en la época colonial”, dice.

    En octubre de 2020, cincuenta activistas enviaron un pedido formal a la Municipalidad de Lima para que la estatua de Cristóbal Colón sea retirada y llevada a un museo. “No estamos a favor que se destruya, pero sí que se le dé una dimensión histórica. Debería construirse un lugar de la memoria sobre el coloniaje”, dice el abogado Abel Aliaga, impulsor de la moción. La respuesta municipal le llegó por correo electrónico el 4 de mayo de este año. Fue breve y contundente: es intocable por ser considerada Patrimonio Cultural de la Nación.

    En octubre del año pasado, sin embargo, sucedió un hecho inédito: al pie del monumento se plantó un grupo de manifestantes, autodenominados realistas, con escudos de madera pintados con el Aspa de Borgoña, símbolo de la monarquía española. El grupo llamado Sociedad Patriotas del Perú, que ha defendido el supuesto fraude a la candidata Keiko Fujimori en las últimas elecciones presidenciales, se enfrentó a los activistas decoloniales. No pasó a mayores, pero hubo tensión. Hay un debate ideológico debajo de la alfombra que amenaza con salir a la luz el próximo 12 de octubre.

    https://elpais.com/internacional/2022-09-25/las-estatuas-mas-incomodas-de-america.html

    #monuments #statue #colonialisme #toponymie #toponymie_politique #Amérique_latine #Christophe_Colomb #Colomb #Mexique #Chili #Manuel_Baquedano #Argentine #Colombie #Popayán #Sebastián_de_Belalcázar #Belalcázar #Cali #Gonzalo_Jiménez_de_Quesada #Simón_Bolívar #Isabelle_la_catholique #Mujeres_Creando #résistance #Arica #USA #Etats-Unis #Charlottesville #Robert_Lee #Jefferson_Davis #Richmond #Stonewall_Jackson #Stuart #Boston #Miami #Black_Lives_Matter (#BLM) #Lima #Pérou

    ping @cede

  • Dombrance déterre Mitterrand pour un clip qui croit aux forces de l’esprit socialiste – #Gonzaï
    http://gonzai.com/dombrance-deterre-mitterrand-pour-un-clip-qui-croit-aux-forces-de-lesprit-so

    Question : qu’ont en commun Elli & Jacno, Anne Sinclair, Jean-Michel Jarre, Harlem Désir, la Dictée magique, Stade 2 et Donkey Kong ? Ils sont tous nés dans les années 80, sous le règne de François la grenouille. Et accessoirement, ils sont tous à l’honneur dans le clip #Mitterrand de Dombrance, co-produit par l’INA, avec à la clef des images d’archives permettant de retracer assez précisément les années gauche caviar & Minitel.

    https://www.youtube.com/watch?v=8MvpuJPvV4s&t=24s


    #musique&politique

  • Italian fascists quoting #Samora_Machel and #Sankara

    The use of Marxist-inspired arguments, often distorted, to support racist or nationalist political positions, is known as “rossobrunismo” (red-brownism) in Italy.

    Those following immigration politics in Europe, especially Italy, may have noticed the appropriation of the words of Marxist and anti-imperialist heroes and intellectuals by the new nationalist and racist right to support their xenophobic or nationalist arguments. From Samora Machel (Mozambican independence leader), Thomas Sankara (Burkinabe revolutionary), Che Guevara, Simone Weil (a French philosopher influenced by Marxism and anarchism), to Italian figures like Sandro Pertini an anti-fascist partisan during World War II, later leader of the Socialist Party and president of the Italian republic in the 1980s, or Pier Paolo Pasolini (influential communist intellectual).

    The use of Marxist-inspired arguments, often distorted or decontextualized, to support racist, traditionalist or nationalist political positions, is referred to as rossobrunismo (red-brownism) in Italy.

    In Italy it got so bad, that a group of writers—some gathered in Wu Ming collective—made it their work to debunk these attempts. They found, for example, that a sentence shared on several nationalist online pages and profiles—attributed to Samora Machel—that condemned immigration as a colonial and capitalist tool to weaken African societies, was fake news.

    It also contaminated political debate beyond the internet: During his electoral campaign, Matteo Salvini, leader of the anti-immigration party Lega and current minister for internal affairs in Italy’s government, explicitly mentioned the Marxist concept of “reserve army of labor” to frame the ongoing migration across the Mediterranean as a big conspiracy to import cheap labor from Africa and weaken Italy’s white working class. As for who benefits from cheap, imported labor (as Afro-Italian activists Yvan Sagnet and Aboubakar Soumahoro have pointed out), Salvini says very little.

    The typical representative of red-brownism is Diego Fusaro, a philosopher who first became known, about a decade ago, for a book on the revival of Marxism in contemporary political thought. More recently, he promoted through his social media profiles and collaborations with far-right webzines like Il Primato Nazionale (published by neo-fascist party Casa Pound), a confused version of an anti-capitalist critique aggressively targeting not only the liberal left, but also feminist, LGBT, anti-racist activists and pro-migrant organizations. Fusaro has theorized that immigration is part of a “process of third-worldization” of Europe, where “masses of new slaves willing to do anything in order to exist, and lacking class consciousness and any memory of social rights” are deported from Africa. As if collective action, social movements and class-based politics never existed south of the Sahara.

    Yet, the appropriation of pan-Africanist thinkers and politicians like Machel and Sankara brings this kind of manipulation to a more paradoxical level. What could motivate the supporters of a xenophobic party, whose representatives have in the past advocated ethnic cleansing, used racial slurs against a black Italian government minister, or campaigned for the defense of the “white race,” to corroborate their anti-immigration stance through (often false) quotations by Machel or Sankara?

    To make this sense of this, it is useful to consider the trajectory of Kemi Seba, a Franco-Beninese activist who has sparked controversies in the French-speaking world for quite some time, and has only recently started to be quoted in Italian online discussions and blogs.

    Initially associated with the French branch of the American Nation of Islam, Kemi Seba has been active since the early 2000s in different social movements and his own associations, all positioned across the spectrum of radical Afrocentrism. In the polarized French debate, traditionally wary of even moderate expressions of identity politics, Kemi Seba’s radical statements predictably created public outcry and earned him the accusations of racial hatred—for which he has been repeatedly found guilty. An advocate of racial separatism (or ethno-differentialisme, as he defined it), he has quoted among his sources Senegalese historian Cheikh Anta Diop, from whom he took inspiration for his “kemetic” ideology claiming a black heritage for ancient Egyptian culture, and Marcus Garvey, whose ideas he reformulated in his call for all the black people living in France and in Europe to return to the African motherland—while classifying those remaining as “traitors.”

    While one would expect white oppressors to be his main target, Kemi Seba’s vehement attacks have often been directed toward other black activists and personalities living in France, accusing them of promoting integration or collaborating with the white system (and often qualifying them as macaques, monkeys, or as nègres-alibis, “negroes-alibis”). In recent years, however, he has declared he would abandon his initial supremacist positions to embrace a broader pan-African stance, and moved his main residence first to Senegal, later to Benin. Now addressing a predominantly West African audience, he has co-opted personalities, such as the late Burkinabe president and revolutionary Thomas Sankara—still the most powerful political reference for the youth in Francophone Africa—among his claimed sources of inspiration. He has also endorsed the struggle against the CFA France—an ongoing critical reflection that was started by the work of economists such as Ndongo Samba Sylla and Kako Nubupko, well before Seba started campaigning about the issue. In August 2017, he burned a CFA banknote in public in Dakar—an illegal act under the Senegalese law—and was briefly detained before being deported from the country.

    The ambiguous relationship between Kemi Seba’s ideology and the far right has a long history, especially in France. Understandably, his initial racial separatism and his call for a voluntary repatriation of all blacks to Africa constituted an appealing counterpart for French white racists committed to fight the possibility of a multiracial and multicultural France. Kemi Seba, on his side, repeatedly hinted at possible collaborations with white nationalists: in 2007, he declared:

    My dream is to see whites, Arabs and Asians organizing themselves to defend their own identity. We fight against all those monkeys (macaques) who betray their origins. (…) Nationalists are the only whites I like. They don’t want us, and we don’t want them.

    Some years later, in 2012, commenting the electoral growth of Greek neo-nazi party Golden Dawn in a radio program, he argued:

    I want people to understand that today there is nothing to win by remaining in France, and everything to win by remaining in Africa. And the best solution for this… unfortunately, black people only awaken when they realize that they are in danger, when they are slapped in the face. (…) Black people are unfortunately slow on the uptake, they understand only when there is bestiality, brutality. So, maybe, if we had a movement similar to Greece’s Golden Dawn, established in France, and if they threw black people in the sea, if they raped some, then maybe someone would understand that it is not so nice to remain in France and would return to their fucking country, to their motherland the African continent.

    His supporters later qualified his statements as simple provocations, but Seba continued to be a favorite guest and interlocutor for far-right groups. For example, the webzine Egalité et Reconciliation, founded by Alain Soral—a well-known personality of French red-brownism who shifted from his juvenile communist engagement to later support for Front National and has been condemned for homophobic and anti-Semitic statements—has often provided a platform for Seba’s declarations. In 2006, Seba praised young white nationalist activists in a long interview with Novopress, an online publication by Bloc Identitaire. The latter is a white nationalist movement which works to popularize the conspiracy theory of the “great replacement”—an alleged plan of “reverse colonialism” to replace demographically the white majority in Europe with non-white migrants and which inspired anti-semitic white nationalists in the US. Bloc Identitaire recently formed extra-legal patrols in order to stop asylum seekers from crossing the border between Italy and France.

    In 2008, Seba’s association organized a tiny demonstration against French military presence abroad with Droite Socialiste, a small group whose members were later involved in shootings and found guilty of illegal possession of weapons and explosive material. Their hideout was also full of Adolf Hitler’s books and other neo-Nazi propaganda.

    Relatively unknown until recently on the other side of the Alps, Seba has made his appearance on Italian websites and Facebook profiles in recent months. Since Lega’s promotion to national government in coalition with the Five Star Movement, the country has become the avant-garde of an attempt to connect different reactionary political projects—rossobrunismo, anti-EU and anti-global sovranismo (nationalism), white nationalism, neo-Fascism and others—and has attracted the attention of globally known ideologues, such as Trump’s former counselor Steve Bannon and pro-Putin populist philosopher Alexander Dugin (who, not by chance, organized a meeting with Seba in December 2017). Small webzines like Oltre la Linea and L’Intellettuale Dissidente, which following Dugin’s example mix pro-Putin positions with an anti-liberal critique and traditionalist nostalgia, inspiring attacks against feminism, anti-racism and “immigrationism.” Collectively, they have dedicated space to Seba’s ideas and interviewed him, profiting from his visit to Rome in July 2018.

    Invited by a group of supporters in Italy, Seba visited a center hosting asylum seekers and gave a speech where, amidst launching broadsides against the EU and African elites who are impoverishing Africa (thus forcing young people to try their luck as migrants in Europe), he slipped in a peculiar endorsement to Italy’s xenophobic minister of internal affairs:

    Matteo Salvini [he then asked people in the audience who started booing when they heard the name to let him finish] defends his people, but he should know that we will defend our people too!

    He repeated this sentiment in an interview published later on a nationalist blog. Seba basically endorsed the ongoing anti-NGO campaign voiced by representatives of the Italian government. The interviewer suggested to Seba:

    Salvini’s battle against boats owned by NGOs, which transport migrants from Lybian shores to Italian harbors, sometimes funded by Soros’ Open Society, reflects your [Kemi Seba’s] same struggles for the emancipation from those Western humanitarian associations that operate in the African continent and enclose you all in a permanent state of psychological and moral submission.

    “Yes, I realize this very well, we have the same problem,” replied Seba.

    Attacks against the NGOs organizing rescue operations in the Mediterranean have multiplied in the Italian political debate since last year. The Five Star Movement started a campaign against what they called the “sea taxis” and the previous government tried to force them to sign a code of conduct imposing the presence of police personnel on their boats. NGOs have been alternatively accused of complicity with Libyan smugglers (but neither the investigation of a parliamentary committee, nor judges in different Sicilian courts, could find evidence for this allegation).

    More broadly, a dysfunctional regime governing migration flows, and the bungled reception of asylum seekers, allows such positions to take root in the Italian political sphere. What is often obscured, though, is that such a dysfunctional regime was originated by the restrictive policies of the Italian government and the European Union, through the abandonment of a state-sponsored rescue program and the externalization of border control to Libya (where media reported the dehumanizing treatment reserved to Sub-Saharan migrants) and other third countries.

    Echoing Seba, Italian right-wing bloggers and opinion-makers make increasing use of anti-imperialist quotations—for example, by Thomas Sankara—to fuel this anti-NGO backlash and denounce the plundering of Africa’s wealth and resources by multinational corporations in consort with venal governments, abetted by the development industry. By the right’s bizarre logic, stopping migration flows to Europe would be a part of the same coordinated strategy to reverse Africa’s impoverishment by Europe. This use not only overlooks the fact that African migration to Europe is a tiny portion of the massive migration flows taking place across the whole planet, but also that intra-African migration is significantly more common.

    It also distorts Thomas Sankara’s critical views of development, which he formulated at a time when aid mainly consisted of bilateral contributions and loans from international financial institutions, rather than NGO-sponsored interventions. And, ultimately, it generates confusion between the critique of the classical development sector—which is fundamental and has been developed for a long time by dependency theory and other schools of critical scholarship—and an analysis of the rescue sector: indeed, most NGOs currently operating in the Mediterranean are associations created in the last few years with the explicit goal of reducing mortality along the Libyan or the Aegean routes. They have never participated in development projects in sub-Saharan Africa.

    What would Samora Machel and Thomas Sankara think today of the so-called “refugee crisis” and of the populist and xenophobic reactions it has provoked all over Europe? White nationalists think that they would be on their side. But what we know from their writings is that their revolutionary politics was never based on an exclusionary form of nationalism, let alone on racial separatism. Rather, it was associated with an analysis of the production of material inequalities and exploitation at the global level, and with class-based internationalism.

    This is clearly articulated in many speeches pronounced by Sankara, for example in his frequently quoted intervention on foreign debt at the African Union summit in July 1987 (a few months before he was murdered), where he declared that “by refusing to pay, we do not adopt a bellicose attitude, but rather a fraternal attitude to speak the truth. After all, popular masses in Europe are not opposed to popular masses in Africa: those who want to exploit Africa are the same who exploit Europe. We have a common enemy.”

    While many representatives of red-brownism and the new right would probably declare that they subscribe to this principle on paper, most of them are currently engaged in defusing any possibility of a class-based critique of capitalism, to which they prefer sovranismo and its emphasis on renewed national sovereignties. Furthermore, they are more or less directly legitimizing the action of a government that capitalizes on the anxieties of the white majority and of the impoverishment of middle and lower classes, building a consensus around xenophobia, racial discrimination and policies of strict border control, no matter the consequences. The creative use, made by the African youth, of Sankara’s thought in reclaiming and obtaining political change, such as in the Burkinabe revolution in 2014, is a demonstration of the legacy of his thinking as an effective tool for emancipatory struggles—a precious legacy that anti-racists should protect from the re-appropriation and manipulation attempted by the European racist right.

    https://africasacountry.com/2018/09/twisting-pan-africanism-to-promote-anti-africanism
    #Italie #fascisme #marxisme #rossobrunismo #racisme #nationalisme #anti-impérialisme #Thomas_Sankara #Che_Guevara #Simone_Weil #Sandro_Pertini #Pier_Paolo_Pasolini #rouge #brun #Salvini #Matteo_Salvini #Diego_Fusaro #Casa_Pound #extrême_droite #extrême_gauche
    ping @cede @isskein

    • Il rossobrunismo

      Perché anche un giornalista noto come Andrea Scanzi [1] si è soffermato sul tema del rossobrunismo, descrivendolo peraltro impropriamente come un neologismo? Approfittiamone per fare chiarezza da un punto di vista marxista sul tema, già trattato tangenzialmente in altre occasioni, come ad esempio nel passo seguente [2]:

      «si è assistito in effetti anche a questa sottile strategia messa in atto negli ultimi anni in Italia: alcuni settori della “sinistra”, al fine di legittimare il prosieguo di un eclettismo ideologico “liberal”, hanno iniziato a tacciare di rossobrunismo tutti coloro che ponevano la contraddizione antimperialista come la contraddizione principale.

      Ci sono cioè settori della “sinistra” che si presentano come “progressisti”, talvolta perfino come “comunisti”, ma alla prova dei fatti utilizzano la questione antifascista come prioritaria su ogni altro aspetto (antimperialismo, anticapitalismo, lotta di classe), approdando spesso e volentieri ad una posizione morbida, se non conciliante, con il PD, con il centro-sinistra e con le strutture e sovrastrutture imperialiste (prime tra tutte NATO, UE, euro), in nome dell’unità contro le “destre”.»

      ORIGINE STORICA E POLITICA

      Negli anni ’70 si diceva “nazimaoista” quel settore del radicalismo di destra che univa suggestioni nazionaliste e sociali ad una lettura spiritualista dell’esperienza maoista e stalinista.

      Un ulteriore precedente storico-politico è il concetto di “nazional-bolscevico” o “nazional-comunista”, nato in Germania nel primo dopoguerra e usato sia da una branca dell’estrema destra rivoluzionario-conservatrice sia dai marxisti del KAPD di Amburgo, fautori entrambi di una convergenza strategica fra nazionalisti rivoluzionari e comunisti contro il “nuovo ordine europeo” uscito a Versailles. Da notare che il KAPD fu poi criticato da Lenin per questa strategia.

      Il termine “rossobruno” invece, come viene spiegato da Matteo Luca Andriola nella nuova edizione de La Nuova Destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoist [3], nasce nel 1992 in Russia coniato dai giornalisti vicini all’entourage di Boris El’cin per screditare Gennadij Zjuganov, leader comunista russo a capo del Fronte di salvezza nazionale, coalizione patriottica antiliberista guidata dal PCFR a cui si aggregheranno piccoli soggetti patriottici e nazionalisti fra cui il piccolo Fronte nazionalbolscevico il cui leader era Eduard Limonov [4] e l’ideologo l’eurasiatista Aleksandr Dugin.

      ACCUSATORI E ACCUSATI ODIERNI

      Oggi, in Italia, assistiamo ad una deconcettualizzazione del termine e al suo uso spregiudicatamente propagandistico. Rossobruno è etichetta dispregiativa con cui liberali, libertari e “ex comunisti” convertitisi al globalismo e all’atlantismo delegittimano nel dibattito democratico i marxisti-leninisti, i socialisti internazionalisti [5] e la sinistra sovranista costituzionale [6].

      Di fatto le principali derive revisioniste del nostro tempo (apertura all’identity politics di stampo americano, al cosmopolitismo senza radici e all’immigrazionismo borghese, utopie di “riforma dell’Unione Europa dall’interno” e anacronistici “fronti popolari” con la sinistra borghese) vengono giustificate proprio con il pretesto della lotta al rossobrunismo.

      I rossobruni veri e propri quindi non esistono? Esistono sì, e non sono pochi, ma il conflitto di cui sopra li riguarda solo saltuariamente e incidentalmente. Il conflitto vero, infatti, è quello tra marxisti/socialisti e sinistra neoliberale/antimarxista (ovvero la sinistra oggi rappresentata in Parlamento, e anche una parte di quella extraparlamentare).

      LA DEFINIZIONE DI FUSARO

      Diego Fusaro [7] ha definito pubblicamente così il rossobrunismo:

      «Rossobrunismo è la classificazione di ogni possibilità di resistere al mondialismo, mentre l’unica resistenza possibile può scaturire solo da una dinamica di deglobalizzazione, difesa nazionale e risovranizzazione dell’economia. Rossobruno è chiunque che, consapevole che l’antagonismo odierno si basi sulla verticale contrapposizione tra servi e signori e non su vane divisioni orizzontali, oggi rigetti destra e sinistra. Pertanto, viene bollato come gli estremi di esse. Oggi chiunque propugni un’economia di mercato sovrana, viene automaticamente chiamato Rossobruno. La classe dirigente è tale non soltanto in termini economici e sociali, ma anche e soprattutto nella concezione simbolica del linguaggio. Previa una neolingua del modernismo postmoderno, il pensiero unico politicamente corretto, viene demonizzata ogni possibilità del “Pensare altrimenti”, di dissentire dal pensiero unico. Ci convincono così a orientarci come masse che legittimano il loro dominio. Dissentire da ciò è il reato di Rossobrunismo.»

      Ci sono elementi di verità in questa analisi, ma l’esposizione è carente, inadeguata e imprecisa; tanto meno sono condivisibili e accettabili la collaborazione con alcuni settori del nazifascismo italiano [8] e le conclusioni politiche di Fusaro: avere «idee di sinistra e valori di destra» [9].

      FASCISMO & ANTIFASCISMO, DESTRA & SINISTRA

      Nell’Introduzione teorico-politica al marxismo-leninismo di In Difesa del Socialismo Reale non ho affrontato direttamente il tema del rossobrunismo, per quanto la questione sia posta in maniera abbastanza chiara al lettore attento nel paragrafo “Il nesso strutturale tra fascismo e imperialismo”, che vado a riportare integralmente:

      «Alcuni di questi attacchi inconsulti odierni riguardano ad esempio la questione posta da alcuni intellettuali autodefinitisi marxisti secondo cui occorrerebbe rinnegare la dicotomia fascismo/antifascismo in nome della costruzione di un fronte comune antimperialista e anticapitalista. Questi assunti partono dal giusto assunto che dopo il 1991 e la ripresa di egemonia delle teorie socialdemocratiche (con evidenti e grossolani cedimenti all’ideologia liberista) all’interno delle organizzazioni progressiste, le “destre” e le “sinistre”, così come sono percepite a livello popolare, abbiano sostanzialmente messo in pratiche le stesse politiche (reazionarie), giungendo ad esempio in Italia a rafforzare l’idea che tutta la politica non sia altro che un gioco di corrotti e delinquenti (la questione insomma della cosiddetta “antipolitica” e della “casta”).

      È evidente che analizzando gli ultimi 20-30 anni le sinistre socialdemocratiche siano sempre più assimilabili alle destre popolari, all’insegna di una comune accettazione del sistema capitalistico imperialista. Da tutto ciò potrebbe anche scaturire una riflessione utile sull’utilità o meno per un’organizzazione comunista di utilizzare una parola sempre più logora e deturpata come “sinistra”, ormai forse perfino più bistrattata di termini considerati vetusti (ma sempre più sconosciuti per le giovani generazioni) come “socialista” o “comunista”.

      Da ciò non deve derivare però la caduta del concetto ontologico di destra e sinistra nato con la Rivoluzione Francese, che sanciva in maniera storica la differenza antropologica tra reazionari e progressisti, tra conservatori e rivoluzionari, tra chi in definitiva guarda al bene del proprio orticello e chi invece volge lo sguardo all’interesse di tutta l’umanità.

      Questa è la stessa differenza sostanziale che vige tra fascismo e antifascismo: il primo è un’ideologia reazionaria, nazionalista e xenofobo-razzista che nulla può avere a che vedere con chi si professa comunista, il quale invece pone l’internazionalismo e quindi l’antirazzismo come uno dei suoi fondamenti necessari e costituenti verso la lotta al Capitale.

      C’è però anche un altro motivo ben più evidente che rende questa alleanza non solo impossibile ma inconcepibile. Ciò risiede nel fatto che il capitalismo ed il fascismo altro non sono che due facce della stessa medaglia. Lo insegna la storia del movimento operaio. Non è un caso che la XIII sessione plenaria del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista definisse il fascismo al potere come “la dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario”.

      Il fascismo non è altro quindi che una mostruosa creatura partorita e sostenuta nei momenti di crisi dalla stessa borghesia per i suoi obiettivi. Gramsci lo spiega assai bene:

      “Il ‘fascismo’ è la fase preparatoria della restaurazione dello Stato, cioè di un rincrudimento della reazione capitalistica, di un inasprimento della lotta capitalistica contro le esigenze piú vitali della classe proletaria. Il fascismo è l’illegalità della violenza capitalistica: la restaurazione dello Stato è la legalizzazione di questa violenza.”

      Questo è il motivo che rende chiaro a Gramsci il fatto che “la liquidazione del fascismo deve essere la liquidazione della borghesia che lo ha creato”.

      Impossibile quindi essere antifascisti senza essere anticapitalisti, come riuscì a sentenziare in maniera quasi poetica Bertolt Brecht:

      “Coloro che sono contro il fascismo senza essere contro il capitalismo, che si lamentano della barbarie che proviene dalla barbarie, sono simili a gente che voglia mangiare la sua parte di vitello senza però che il vitello venga scannato. Vogliono mangiare il vitello, ma il sangue non lo vogliono vedere. Per soddisfarli basta che il macellaio si lavi le mani prima di servire la carne in tavola. Non sono contro i rapporti di proprietà che generano la barbarie, ma soltanto contro la barbarie. Alzano la voce contro la barbarie e lo fanno in paesi in cui esistono bensì gli stessi rapporti di proprietà, ma i macellai si lavano ancora le mani prima di servire la carne in tavola.”

      Ma nell’epoca in cui il capitalismo è nella sua fase imperialistica come si può quindi predicare l’unione con i fascisti che dell’imperialismo rappresentano l’agente più terribile? Non val la pena approfondire ulteriormente tale questione posta da settori dell’intellettualità che evidentemente nulla hanno a che spartire con il marxismo.»

      IL ROSSOBRUNISMO COME USCITA DAL CAMPO DEL COMUNISMO

      C’è un confine nella normale dialettica interna al campo comunista. Non si possono accettare pensieri nazionalisti, razzisti o in qualche pur morbida maniera “esclusivisti”. Non si può cioè pensare che i diritti debbano essere riservati eternamente solo ad alcune comunità umane, andando ad escluderne altri per criteri di etnia, religione, lingua, sesso, ecc.

      Ci sono ragioni accettabili per considerare comunista solo chi utilizza e coniuga opportunamente le categorie di patriottismo, internazionalismo, materialismo storico (e dialettico), lotta di classe, imperialismo, ecc.

      Partendo dal patrimonio (per quanto ormai semi-sconosciuto e assai scarsamente condiviso, quantomeno in Italia) del marxismo-leninismo, si può discutere su alcuni questioni tattiche, strategiche e di teoria ancora insolute; queste non sono poche e riguardano anche la dialettica e la concretizzazione dei diritti sociali e civili, oltre che le differenti caratterizzazioni nazionali al socialismo. Su questi temi i comunisti nel resto del mondo (cinesi, cubani, coreani, portoghesi, ecc.) sono molto più avanzati di noi italiani, che scontiamo ancora il retaggio dell’eurocomunismo.

      Tra i temi strategici del dibattito troviamo quelli del potere politico ed economico. Il rossobruno rifiuta la lotta di classe e considera prioritario non l’obiettivo del miglioramento sociale della classe lavoratrice, ma la difesa strategica della sovranità nazionale in un’ottica corporativa e interclassista. In questa ottica non c’è un nesso tra la sovranità nazionale e quella popolare. Si arriva così a elaborare concetti ambigui come «economia di mercato sovrana», in continuità con il mantenimento di un regime borghese. Il rossobruno insomma non propone la presa del potere politico ed economico da parte della classe lavoratrice ma nei casi migliori si limita a proporre una moderna “aristocrazia borghese” illuminata, che non mette in discussione il controllo sociale e politico dei mezzi di produzione dell’attuale classe dominante. Il “welfare state” non è implicito per il rossobruno, così come in generale alcuna forma di regime sociale avanzato. Qualora vi sia tale rivendicazione, essa non cessa di essere ambigua se non accompagnata dalla messa in discussione della struttura imperialista del proprio Paese.

      Ben diverso è il discorso del “socialismo di mercato”, ossia di un regime in cui il potere politico resta saldamente in mano alla classe lavoratrice organizzata dalla sua avanguardia, il partito comunista. Il potere economico viene in questo caso spartito consapevolmente e in spazi più o meno limitati con la borghesia nazionale non come obiettivo strategico, bensì tattico, con lo scopo di sviluppare le forze di produzione, creando ricchezza sociale che, seppur redistribuita in maniera inizialmente diseguale, è una delle condizioni concrete per il futuro passaggio al socialismo.

      Dietro la normale dialettica del dibattito democratico interno al campo marxista-leninista c’è sempre il pericolo del revisionismo, come mostra la crescita di certe correnti reazionarie nei partiti comunisti della seconda metà del ‘900: si pensi all’ala migliorista nel PCI, o alle correnti riformiste e nazionaliste rafforzatesi nel PCUS dagli anni ’70. Tale pericolo è ancora più accentuato oggi, sia per la fase di sbandamento ideologico (soprattutto europeo) conseguente al crollo del muro di Berlino, sia per i rischi insiti nel socialismo di mercato, che come abbiamo visto consentono in forme e modalità variegate il ripristino di alcuni elementi di un’economia capitalistica, con tutte le conseguenze moralmente corruttrici del caso. Il passaggio però non è automatico, ed in ultima istanza è il potere politico che ha l’ultima parola, il che ripropone il tema dell’adeguatezza ideologica del Partito come guida della classe lavoratrice.

      SUI REGIMI NAZIONALISTI DEL “TERZO MONDO”

      Un ulteriore tema di riflessione è dato da uno scambio di battute avuto con Francesco Alarico della Scala, uno dei maggiori esperti italiani della Repubblica Popolare Democratica di Corea, il quale mi ha messo in guardia da una semplificazione nell’uso del termine “nazionalismo”:

      «Nonostante i suoi ovvi limiti di classe, il nazionalismo borghese può svolgere e ha svolto una funzione progressiva nei paesi colonizzati o in genere asserviti all’imperialismo straniero, mentre ha un ruolo completamente reazionario solo nelle metropoli imperialiste.

      Proprio questo è il caso di Hitler e Mussolini, da te citati, che agirono in contesti dove la rivoluzione proletaria era, se non proprio all’ordine del giorno, una concreta possibilità che terrorizzava le classi sfruttatrici, e quindi assolsero non una funzione progressiva (di liberazione nazionale) ma regressiva (di contenimento e repressione della spinta rivoluzionaria delle masse lavoratrici), peraltro favoriti in ciò dal fatto che il movimento comunista dell’epoca non aveva saputo levare per primo la bandiera degli interessi nazionali e unire il destino della nazione alla causa del socialismo – come più volte osservato da Lenin e Stalin e contrariamente a quanto accadde vent’anni dopo.

      In altre realtà (Libia di Gheddafi, Egitto di Nasser, Iraq di Saddam, Siria degli Assad, ecc.) regimi molto diversi ma che comunque si richiamavano ad analoghe dottrine corporativiste hanno dato vita ad esperimenti molto interessanti, di fronte ai quali che fare: preoccuparsi per le deviazioni rossobrune che potrebbero veicolare oppure riconoscere la loro funzione storica positiva e il loro contributo alla diffusione degli ideali socialisti sia pur non rigorosamente marxisti?

      I comunisti coreani sono di questo secondo avviso, e da sempre intrattengono buoni rapporti con alcune forze nazionaliste non solo in patria e nel mondo post-coloniale ma anche in Giappone, in Europa e in America, e per questo incorrono spesso in accuse di “rossobrunismo” o di fascismo vero e proprio. Nondimeno la loro posizione è la più conforme alle tradizioni del movimento comunista mondiale intese in modo non folcloristico e nominale.»

      Al suo intervento stimolante ho risposto nella seguente maniera:

      «Tutte le realtà che possiamo definire “nazionaliste progressive”, quelle che hai citato ne sono esempi, sono alleate del movimento comunista nella lotta contro l’imperialismo internazionale, ma non le considero modelli marxisti-leninisti, seppur varianti nazionali del socialismo rispettabili per i differenti contesti.

      Per quanto riguarda l’Italia credo che la soluzione resti uno sviluppo diverso del marxismo-leninismo, che non apra a tali versioni eclettiche che sono adatte per Paesi molto diversi da noi per cultura, società, economia, ecc.

      È sbagliato comunque ritenerli rossobruni, così come bollare di rossobrunismo i comunisti che collaborino con loro in ambito nazionale o internazionale. Credo però che loro stessi sarebbero d’accordo a non considerarsi parte del movimento comunista internazionale.

      Sono d’accordo con te comunque che i maggiori pericoli ideologici vengano da altri fronti, ma proprio perché il nemico è ancora forte non bisogna dare il minimo argomento ai suoi attacchi, evitando di fare errori (o provocazioni) come quelle dell’ultimo Preve che è arrivato a dare indicazioni di voto per la Le Pen.»

      NON È MEGLIO RIGETTARE IL TERMINE ROSSOBRUNISMO?

      No. La storia [10] ci ha mostrato che le classi reazionarie hanno sempre cercato di infiltrare i movimenti rivoluzionari, talvolta pianificando a tavolino strategie culturali per introdurre elementi revisionisti e degeneratori nel campo culturale proletario. Questo vale chiaramente in particolar modo per il marxismo e il movimento comunista, che sono stati e sono tuttora il nemico principale dell’imperialismo.

      La borghesia dispone infatti dei mezzi politici, economici e mediatici per fomentare ad arte delle “deviazioni” politico-ideologiche, introducendo modelli “riformisti” o “rossobruni”, intendendo per questi ultimi, come abbiamo visto, delle teorie ibride tra socialismo e nazionalismo borghese che costituiscono forme degenerative della teoria rivoluzionaria in grado di confondere larghi strati della classe lavoratrice, sfruttando parole d’ordine e slogan solo apparentemente rivoluzionari. In questa maniera sono riusciti a “sfondare” casi famosi come Mussolini e Hitler, due esempi classici in tal senso, visto l’enorme sostegno che hanno ottenuto dal mondo industriale.

      La categoria di “rossobruno” è quindi valida tutt’oggi? Si. Pur essendo nata in un contesto borghese, essa esprime una posizione politica che per anni è stata respinta, seppur con altri termini, dal movimento comunista internazionale. Oggi resta valida in questa accezione, come arma ideologica a disposizione del movimento operaio, tenendo conto però che nella confusione ideologica in cui versa attualmente il movimento comunista, specie quello italiano, tale categoria è stata fatta propria dai think tank della borghesia liberale per delegittimare paradossalmente soprattutto i comunisti.

      Il che non deve stupire troppo, dato che la borghesia liberale è già riuscita a conquistare la categoria analitica della “sinistra”, bollando i comunisti prima come “estrema sinistra” (anni ’90 e inizio ’00), poi, negli ultimi tempi, di fronte ad alcuni nuovi fermenti teorico-politici che rischiano di incrinare la narrazione del totalitarismo liberale, come “rossobruna”.

      Per queste ragioni credo che in alcuni casi sia utile mantenere la categoria di rossobrunismo, specie laddove ci siano dei casi palesi di revisionismo anticomunista. Occorre insomma sempre mantenere la guardia imparando a muoversi in questo «mondo grande e terribile» (cit. Gramsci).

      NOTE

      [1] A. Scanzi, L’ossessione “rossobruna”: come etichettare il nemico, Ilfattoquotidiano.it, 31 dicembre 2018, disp. su https://infosannio.wordpress.com/2019/01/01/andrea-scanzi-lultimo-insulto-della-sinistra-a-chi-non-vota-be.

      [2] A. Pascale, Risposta alle accuse di Iskrae su Berlinguer e rossobrunismo, Intellettualecollettivo.it, 30 dicembre 2018, disp. su http://intellettualecollettivo.it/risposta-alle-accuse-di-iskrae-su-berlinguer-e-rossobrunismo.

      [3] La nuova edizione, riveduta, ampliata e corretta, è in uscita per le Edizioni Paginauno.

      [4] Un personaggio diventato famoso grazie al bel libro E. Carrère, Limonov, Adelphi, 2012.

      [5] F. Chernov, Il cosmopolitismo borghese e il suo ruolo reazionario, Bol’ševik, n° 5, 15 Marzo 1949, disp. su http://intellettualecollettivo.it/la-lotta-mondiale-contro-limperialismo-cosmopolita.

      [6] V. Giacché, Per una sovranità democratica e popolare. Cioè costituzionale. L’ultimo libro di Alessandro Somma: “Sovranismi”, Marx21.it, 3 gennaio 2019, disp. su https://www.marx21.it/index.php/internazionale/europa/29467-vladimiro-giacche-per-una-sovranita-democratica-e-popolare-cioe-costitu.

      [7] C. Fantuzzi, Fusaro: “Rossobrunismo e Interesse Nazionale: Armi Culturali Contro il Capitalismo mondialista”, Ticinolive.ch, 30 marzo 2017, disp. su http://www.ticinolive.ch/2017/03/30/fusaro-rossobrunismo-interesse-nazionale-armi-culturali-capitalismo-mondi.

      [8] Si veda ad esempio l’intervista al leader di Casapound Di Stefano sul sito dell’associazione culturale di Fusaro: A. Pepa, Di Stefano: “fascismo e antifascismo? Non c’è nessuna guerra civile in atto: è una truffa montata ad arte per distrarci”, Interessenazionale.net, 1 marzo 2018, disp. su https://www.interessenazionale.net/blog/di-stefano-fascismo-e-antifascismo-non-c-nessuna-guerra-civile-a.

      [9] D. Fusaro, Il vero rivoluzionario: idee di sinistra, valori di destra, Diegofusaro.com, 5 giugno 2018, disp. su https://www.diegofusaro.com/idee-sinistra-valori-destra.

      [10] Su questo non posso che rimandare alle ricerche presentate in A. Pascale, In Difesa del Socialismo Reale e del Marxismo-Leninismo, Intellettualecollettivo.it, 15 dicembre 2017, disp. su http://intellettualecollettivo.it/scarica-in-difesa-del-socialismo. Ulteriori elementi sono aggiunti nel volume A. Pascale, Il totalitarismo liberale. Le tecniche imperialiste per l’egemonia culturale, La Città del Sole, Napoli 2019.

      https://www.marx21.it/storia-teoria-e-scienza/marxismo/il-rossobrunismo

    • Rossobruni. Le prospettive dell’unione tra le frange più estreme della nostra politica.

      I l 28 aprile 2017, pochi giorni dopo il primo turno delle elezioni presidenziali francesi, Marine Le Pen ha rotto gli indugi: “Mi rivolgo agli elettori della France Insoumise (il partito di estrema sinistra del candidato Jean-Luc Mélenchon, nda) per dire loro che oggi bisogna fare muro contro Emmanuel Macron: un candidato agli antipodi rispetto a quello che hanno sostenuto al primo turno”. Più che una mossa della disperazione, si è trattata di una mossa logica, seguita a una campagna elettorale che la leader del Front National ha condotto nelle fabbriche, nelle periferie, tra i piccoli agricoltori. E che soprattutto l’ha vista prevalere nel voto operaio, dove ha conquistato il 37% (laddove Mélenchon si è invece fermato al 24%).

      Il tentativo della candidata dell’estrema destra di accreditarsi presso l’estrema sinistra era anche una logica conseguenza delle tante somiglianze, già più volte sottolineate, tra il suo programma e quello di Mélenchon: abrogazione della legge sul lavoro targata Hollande, ritorno dell’età pensionabile a 60 anni, innalzamento del salario minimo (pur se con misure diverse), no alla privatizzazione delle aziende pubbliche, protezionismo fiscale sotto forma di tasse sulle importazioni, rinegoziazione dei trattati europei e uscita dalla NATO.

      Lo sfondamento a sinistra, però, non ha funzionato: secondo l’istituto sondaggistico francese IFOP, solo il 13% degli elettori di Mélenchon ha deciso di votare Le Pen (percentuale comunque degna di nota), mentre la metà esatta si è rassegnata a votare per il liberista Macron (vincitore delle presidenziali) e il 37% si è rifugiato nell’astensionismo. Lo steccato ideologico destra/sinistra – seppur ammaccato – ha retto, facendo naufragare i sogni di gloria di Marine Le Pen e rendendo vani i suoi tentativi, che ormai durano da anni, di definirsi “né di destra né di sinistra” (stessa definizione utilizzata in campagna elettorale da Macron e che si sente spesso anche in Italia, mostrando come la corsa post-ideologica appartenga un po’ a tutti).

      Ma è proprio il fatto che Marine Le Pen abbia avuto la forza di rivolgersi direttamente all’estrema sinistra – senza timore di alienarsi la base elettorale – a dimostrare quanto sia ammaccata la divisione destra/sinistra. D’altra parte, è stato davvero politicamente più coerente che il voto di Mélenchon sia andato in larga parte al liberista Macron (che tra gli operai si è fermato al 16%)? Macron si può davvero considerare un candidato di sinistra? Su alcuni temi – come l’ambientalismo (sul quale si è speso molto) e i diritti civili – la risposta è senz’altro positiva; ma sul piano economico è difficile giudicare di sinistra chi ha in programma un taglio della spesa pubblica di sessanta miliardi di euro l’anno e la riduzione dal 33% al 25% delle imposte sulle società.

      Dal punto di vista economico, la collocazione più naturale di Macron è in quel liberalismo (o neo-liberalismo) al quale possiamo ricondurre buona parte dei candidati moderati che hanno imperversato per l’Europa in questi ultimi anni.

      Il fatto che Marine Le Pen si sia rivolta direttamente all’estrema sinistra – senza timore di alienarsi la base elettorale – dimostra quanto sia ammaccata la divisione destra/sinistra.

      Il campo liberale attraversa aree ben precise della destra e della sinistra ed è, in fin dei conti, quell’area alla quale Silvio Berlusconi (che agli esordi della sua carriera politica proponeva la “rivoluzione liberale”) si è sempre riferito con il termine “moderati”. La provenienza, ovviamente, conta e le differenze restano, ma sono superabili senza eccessivi traumi, come dimostra la pacifica convivenza delle numerose “grandi coalizioni” che negli anni hanno attraversato (notoriamente) Italia, Spagna e Germania, ma anche Austria, Belgio, Finlandia, Grecia, Irlanda e altri ancora. Grandi coalizioni spesso rese necessarie dal rifiuto delle ali estreme dello scacchiere politico di unirsi ai grandi partiti moderati della loro area (diversa, ma non troppo, la tripolare situazione italiana in cui il populista M5S rifiuta ogni apparentamento rendendo di fatto obbligatorie, nel quadro proporzionale, le larghe intese).

      E poco importa che i moderati di destra e di sinistra abbiano ancora le loro differenze: perché se i primi sono più duri su immigrazione e sicurezza, e i secondi (dovrebbero essere) più coraggiosi su diritti civili e ambientalismo, la decennale crisi economica ha concentrato tutta l’attenzione sui temi dell’economia e del lavoro. Così, i liberali di destra e di sinistra hanno avuto gioco facile a unirsi (o addirittura a fondersi, com’è il caso di En Marche di Macron) in nome dell’Europa e del liberismo economico.

      Un’unione di fatto che rende più facile la vittoria politica ma che viene pagata a caro prezzo in termini elettorali: le forze moderate si sono ormai alienate le simpatie delle classi più disagiate e vedono i loro consensi complessivi contrarsi elezione dopo elezione. In Italia, le due uniche formazioni che si possono considerare a tutti gli effetti liberali (Partito Democratico e PDL/Forza Italia) sono passate dai 25,6 milioni di voti complessivi del 2008 ai 15,9 milioni del 2013. Se si votasse oggi (considerando i sondaggi e l’astensione prevista) non andrebbero oltre i 13,7 milioni.

      Situazione non troppo dissimile in Francia: i due grandi partiti (UMP/Les Républicains e PSF) che solo cinque anni fa mettevano assieme venti milioni di voti, oggi sono scesi a 9 milioni. Unendo tutte le forze definibili (con qualche forzatura) come liberali, si scopre che il trio Hollande/Sarkozy/Bayrou, nel primo turno del 2012, aveva conquistato 23,1 milioni di voti; il trio Hamon/Macron/Fillon si ferma a 18 milioni. Tutti voti raccolti dalle ali estreme e “populiste” di Le Pen (quasi un milione e mezzo di voti in più) e di Mélenchon (oltre 3 milioni di voti in più).

      Le forze moderate si sono ormai alienate le simpatie delle classi più disagiate e vedono i loro consensi complessivi contrarsi elezione dopo elezione.

      I due turni di elezioni legislative francesi seguiti alle presidenziali hanno ampiamente sgonfiato il Front National (che ha preso solo il 13% dei voti al primo turno e conquistato otto seggi al secondo), così come la France Insoumise di Mélenchon (meno 8 punti percentuali, nel primo turno, rispetto alle presidenziali) e anche il partito Repubblicano di Fillon (che ha lasciato per strada cinque punti). L’unico a conquistare voti è stato En Marche di Macron (assieme agli alleati MoDem), salito al 32% e in grado di conquistare la maggioranza assoluta.

      Questa inversione di tendenza rispetto alle presidenziali, però, non deve essere fraintesa con un cambiamento sostanziale della dinamica in atto. E non solo perché, per fare un esempio, già nel 2012 il Front National era ampiamente sceso nei consensi nel passaggio tra le presidenziali e le legislative (dal 18% al 13%; il che non gli ha comunque impedito di diventare primo partito nelle seguenti Europee, elezioni fondamentali ai fini del nostro discorso), ma soprattutto perché la struttura stessa delle elezioni francesi è pensata affinché le legislative rafforzino il presidente appena eletto (e quindi in piena luna di miele), aiutandolo a conquistare una salda maggioranza parlamentare che lo aiuti a governare con stabilità (allo stesso modo, non si deve dare eccessivo peso ai risultati delle recenti amministrative italiane: elezioni in cui i temi fondamentali di oggi – Europa, immigrazione e politiche del lavoro – hanno un peso secondario se non irrilevante, rispetto a questioni di pubblica amministrazione locale, e in cui è quindi possibile riproporre con successo i vecchi schemi).

      I dati del primo turno delle presidenziali francesi (quelli che meno subiscono distorsioni), confermano quanto visto (pur nelle sue particolarità) anche nel referendum costituzionale italiano e (in maniera più controversa) nel referendum sulla Brexit: i partiti liberali sono ormai appannaggio degli “ottimisti”, di chi guadagna mediamente bene o comunque è soddisfatto della propria posizione sociale o delle prospettive che vede davanti a sé. Ma dieci anni di crisi economica hanno ingrossato enormemente le fila dei pessimisti e degli arrabbiati che, anno dopo anno, stanno ampliando gli spazi elettorali dei partiti populisti, di destra o sinistra che siano.

      Stando così le cose, non è per niente stupefacente che Marine Le Pen si rivolga agli elettori di estrema sinistra: il nemico non è più nel campo opposto, ma al centro. L’avversario non è la sinistra radicale, ma il liberalismo; la frattura politica fondamentale oggi è l’Europa governata dall’establishment. Per Marine Le Pen, “il nemico del mio nemico è mio alleato”. Tanto più se, lungo la strada, si scopre che ci sono anche parecchi aspetti che uniscono le due estremità: l’anti-atlantismo e l’anti-capitalismo (da sempre), e poi l’importanza della sovranità nazionale (riscoperta da parte della sinistra), la contrarietà all’euro e anche il problema dell’immigrazione (visto da sinistra, in chiave marxista, come “esercito industriale di riserva” del grande capitale); tutto condito da una consistente spruzzata di complottismo.

      Le due estremità sono unite da diversi aspetti: l’anti-atlantismo e l’anti-capitalismo, la contrarietà all’euro, l’importanza della sovranità nazionale e il problema dell’immigrazione.

      Tra i vari punti di contatto tra destra e sinistra populiste, il più interessante è quello della sovranità nazionale. Quando e perché la sinistra radicale, da sempre legata a concetti internazionalisti, ha riscoperto il valore della nazione? “Che la sovranità dello stato-nazione sia precondizione (…) del proprio stesso essere cittadini appartenenti a una comunità politica capace di decidere per il proprio futuro e per gli assetti e le strutture economico-sociali che si vogliono prevalenti, è cosa così ovvia che non dovrebbe neanche essere detta”, si legge sul sito Comunismo e Comunità. “Che la sinistra italiana sia stata fagocitata dall’ideologia ‘globalista’ e ‘unioneuropeista’ da ormai più di vent’anni, scambiando forse l’internazionalismo con la globalizzazione capitalistica e la tecnocrazia sovranazionale, è una tragedia storica i cui frutti si sono ampiamente manifestati da tempo”.

      Sulla questione della sovranità nazionale si sofferma anche un comunista duro e puro come Marco Rizzo: “Siamo assolutamente contrari all’Europa unita. Molti dicono che bisogna riformare questa Europa, che bisogna creare un’unione politica e non solo economica, ma noi pensiamo che l’Unione non sia riformabile, perché frutto di un progetto preciso che risponde agli interessi del Grande Capitale. Mettiamocelo in testa, questa è l’Europa delle grandi banche, dei grandi capitali e non sarà mai l’Europa dei popoli”. In chiusura, come salta all’occhio, Rizzo utilizza le stesse identiche parole sentite più volte da Matteo Salvini o Giorgia Meloni.

      Ovviamente, riviste online come Comunismo e Comunità o personaggi politici come Marco Rizzo sono dei punti di riferimento ascoltati solo da una sparuta minoranza di elettorato, insignificante dal punto di vista numerico. Eppure, discorsi simili sulla sovranità si possono sentire da figure più mainstream come Stefano Fassina, ex PD (oggi Sinistra Italiana) e soprattutto ex viceministro dell’Economia. Sostenitore a corrente alternata dell’uscita dall’euro, il deputato ha dichiarato in una lettera al Corriere che gli ostacoli insuperabili della moneta unica e dell’unione vanno ricercati nei “caratteri profondi, morali e culturali dei popoli europei e gli interessi nazionali degli Stati”.

      Se per la sinistra alternativa le radici dell’anti-europeismo vanno cercate nella sovranità popolare, come opposizione alla “tecnocrazia sovranazionale”; per la destra radicale, le ragioni per recuperare la sovranità perduta trovano nell’identità nazionale parte integrante del suo DNA. La cosa più importante, però, è che la ricetta è la stessa: uscire dall’euro e recuperare il controllo monetario. E così, oltre al comune nemico del liberalismo e del capitalismo, a unire le categorie alternative della politica europea troviamo anche uno degli aspetti più importanti dei nostri giorni: il rifiuto della moneta unica e del progetto europeo tout court.

      Con l’avvento di una generazione meno legata ai vecchi schemi ideologici, il superamento della dicotomia destra/sinistra potrebbe portare alla nascita di movimenti capaci di sintetizzare forze politiche oggi opposte.

      Ovviamente, sottolineare i punti di contatto non significa in alcun modo ritenere che estrema destra ed estrema sinistra siano uguali, ma solo che le tendenze storiche e politiche della nostra epoca, il graduale superamento della dicotomia destra/sinistra in direzione europeismo/populismo, l’avvicinamento delle forze liberali e moderate di destra e di sinistra potrebbero, con l’avvento di una nuova generazione meno legata ai vecchi schemi ideologici, portare alla nascita di movimenti in grado di fare una sintesi di forze politiche che oggi sono obbligate a guardarsi in cagnesco.

      “La convergenza al centro contro i populismi non può durare in eterno”, scrivono su Internazionale i ricercatori Marta Fana e Lorenzo Zamponi. Non è detto: potrebbe durare in eterno se i populismi di destra e di sinistra si uniranno a loro volta in ottica anti-liberale, dando ufficialmente forma a ciò che finora è rimasto più che altro un vagheggiamento limitato alle zone più estreme della politica europea (ma non in Italia, come vedremo più avanti): il rossobrunismo.

      D’altra parte, perché mai le due ali estreme dovrebbero continuare a restare separate, consegnandosi a inevitabile sconfitta? Il rossobrunismo, allora, si configurerebbe come la necessità di fare blocco contro la fusione delle forze liberali (Macron, in questo, è davvero un precursore). Le richieste di un “populismo di sinistra” da una parte e dall’altra di una “destra che deve diventare sempre più di sinistra” (come ebbe a dire l’ex Alleanza Nazionale Roberta Angelilli, in gioventù vicina a Terza Posizione), potrebbero (il condizionale è d’obbligo) sfociare tra qualche tempo nel proliferare di forze unitarie anti-establishment che, lungi dal definirsi rossobrune, potrebbe però attingere indifferentemente agli elettorati che oggi si rivolgono all’estrema destra e all’estrema sinistra.

      L’alternativa, comunque, esiste, ed è oggi incarnata dalla politica britannica che – dopo una lunga parentesi liberale (incarnata, in tempi recenti dalla segreteria del Labour di David Milliband e da David Cameron alla guida dei conservatori) – è tornata su posizioni più tradizionali, dando il partito laburista in mano a Jeremy Corbyn e il partito conservatore in mano alla securitaria Theresa May. Un ritorno all’antico che ha immediatamente cancellato l’UKIP (orfano di Nigel Farage), i cui elettori, stando a quanto scrive il Guardian, si sono rivolti in massa ai laburisti rossi di Corbyn.

      La lezione britannica – che potrebbe far riflettere profondamente chi continua a ritenere valido il mantra del “si vince al centro” – non è l’unico ostacolo che deve fronteggiare il rossobrunismo, una definizione che viene solitamente considerata come un insulto. Lo dimostra il fatto che tutte le figure ritenute appartenenti a questa galassia (da Stefano Fassina ad Alberto Bagnai, da Giulietto Chiesa allo scomparso Costanzo Preve e tanti altri ancora) rifiutano sdegnosamente l’etichetta.

      Perché le due ali estreme dovrebbero continuare a restare separate, consegnandosi alla sconfitta? Il rossobrunismo si configurerebbe come la necessità di fare blocco contro la fusione delle forze liberali.

      Esiste una sola eccezione: Diego Fusaro. Per quanto si tratti di un personaggio spesso criticato (se non sdegnato) da larga parte del mondo intellettuale italiano, può essere interessante vedere come lui stesso – ormai diventato, di fatto, il volto pubblico del rossobrunismo – inquadri il problema: “Rossobruno è chiunque – consapevole che l’antagonismo odierno si basi sulla verticale contrapposizione tra servi e signori e non su vane divisioni orizzontali – oggi rigetti destra e sinistra”, ha spiegato in un’intervista. “Oggi chiunque propugni un’economia di mercato sovrana, viene automaticamente chiamato rossobruno. (…) Rossobruno è colui che critica il capitale, che vuole una riorganizzazione in termini di sovranità e si pone in contrasto al capitalismo”.

      Non è una storia nuova, anzi: basti rievocare le origini di sinistra del primo fascismo italiano, la composizione ricca di ex socialisti ed ex comunisti delle SA tedesche o le idee del sovietico Karl Radek, secondo il quale era necessaria un’unione dei comunisti con i nazisti in funzione “anti-pace di Versailles” (ma ci sarebbero tantissime altre personalità “rossobrune ante litteram” da scovare nei primi decenni del Ventesimo secolo). I veri precursori del rossobrunismo, però, possono essere identificati in quei gruppi extraparlamentari che all’epoca della contestazione venivano etichettati come nazimaoisti – oggi passano sotto il nome di comunitaristi – e che sono il vettore principale attraverso il quale nei movimenti di estrema destra come Forza Nuova o CasaPound è entrata la spiccata attenzione per le questioni sociali. “Oggi, scomparso il problema politico del socialismo, questi si sono confusi con la retorica anti-globalizzazione”, si legge sul sito antagonista di sinistra Militant. “Hanno iniziato a usare linguaggi a noi affini e a dotarsi di una simbologia para-socialista che li rende facilmente fraintendibili”.

      Abbiamo quindi una sinistra che accoglie elementi di destra (sovranismo e critica nei confronti dell’immigrazione) e una destra che sposa battaglie di sinistra (l’attenzione al sociale e anche l’ambientalismo, come dimostra la fascinazione nei confronti della “decrescita felice” di Serge Latouche). A questi aspetti possiamo unire alcune radici storiche comuni e soprattutto la convergenza al centro del comune nemico (le forze liberali) che potrebbe costringerli a un’unione futura.

      E allora, perché tutto ciò non avviene? Perché la Le Pen riesce a sfondare tra gli operai (così come fa Salvini) ma non è in grado di raccogliere i voti di chi si considera di sinistra? Probabilmente, perché lo steccato ideologico destra/sinistra non può essere superato, per definizione, da forze che hanno le loro radici antiche proprio in questa divisione.

      Una vera forza anti-liberale capace di raccogliere voti da entrambi i lati degli schieramenti (contribuendo al consolidamento della nuova frattura establishment/populismo) e fare così concorrenza all’unione delle forze liberali (divise da steccati più facilmente aggirabili) può sorgere solo in chiave post-ideologica. In questo senso, è un’impresa che non può riuscire al Front National come non può riuscire a Syriza, forze troppo legate alla tradizione. Può però riuscire, e infatti sta riuscendo, a un partito nato già post-ideologico come il Movimento 5 Stelle.

      Una vera forza anti-liberale capace di raccogliere voti da entrambi i lati degli schieramenti può sorgere solo in chiave post-ideologica.

      Il movimento fondato da Beppe Grillo potrebbe cadere vittima delle sue enormi e vaste contraddizioni – e anche, come si è intravisto nelle ultime amministrative, di una classe politica spesso non all’altezza – ma oggi come oggi conserva un enorme vantaggio su tutti gli altri: è l’unica vera forza populista e anti-liberale non più definibile con le vecchie categorie, ma già definibile con le nuove. Una forza capace di unire temi sociali, ambientalismo, durezza nei confronti dell’immigrazione (fino a opporsi, di fatto, alla legge sullo ius soli), critica all’establishment e ai poteri forti, derive complottiste, ritorno alla lira e pure una certa fascinazione geopolitica per l’uomo forte Vladimir Putin (aspetto che farebbe la gioia del rossobruno nazional-bolscevico Aleksandr Dugin, teorico dell’euroasianesimo).

      Se le forze rossobrune “vere” (come i comunitaristi) sono confinate nelle nicchie più nascoste della politica italiana; se chi propugna il superamento della destra e della sinistra deve costantemente fare i conti con il passato (come Marine Le Pen e, in parte, la Lega Nord), ecco che l’unione dell’elettorato di destra e di sinistra radicale in nome del populismo e della rabbia nei confronti dei liberali, legati inestricabilmente ai poteri forti, può riuscire a chi, come il M5S, non deve scontare un passato ideologico e può contare su una percentuale elevatissima (42%) di elettori che si considerano “esterni” alle vecchie categorie politiche.

      E allora, chiariamo una cosa: utilizzare l’etichetta “rossobrunismo” è utile perché fa subito capire di che cosa si sta parlando; allo stesso tempo, però, non si può fare riferimento ai vecchi steccati ideologici per individuare il futuro della politica alternativa. Il rossobrunismo è ancorato fin dal nome a categorie che stiamo consegnando alla storia. È improbabile la nascita di un partito che includa Stefano Fassina e Giorgia Meloni, o Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, insieme in nome di ciò che li unisce e al netto di ciò che li divide. L’unione in chiave post-ideologica delle ali estreme dell’elettorato potrebbe però diventare realtà grazie a movimenti populisti post-ideologici che mettano in primo piano quegli stessi aspetti che accomunano la destra radicale e la sinistra alternativa, senza minimamente doversi curare del retaggio storico-politico.

      Il Movimento 5 Stelle è la prima forza di questo tipo, capace di unire il populismo di destra e di sinistra e di dimostrare quali siano le potenzialità elettorali di un progetto simile. Per questa ragione è assurdo il dibattito sul “M5S di destra e di sinistra”. Il Movimento 5 Stelle è oltre le vecchie categorie ed è già legato alle nuove, trovandosi così in posizione di netto vantaggio sulle vecchie forze radicali. Chiamarlo rossobrunismo può essere comodo, ma è un termine che lega al passato ciò che invece guarda al futuro.

      https://www.iltascabile.com/societa/rossobruni

  • #John_Creaghe (1841-1920)
    https://www.partage-noir.fr/john-creaghe-1841-1920

    Ce médecin irlandais vécut aux États-Unis, puis s’installa en Angleterre pour soigner les ouvriers. Il collabore à la fondation de La Protesta Humana, avant de rejoindre l’équipe de Regeneración. #Itinéraire_-_Une_vie,_une_pensée n°9/10 : « Ricardo Flores Magón »

    / [Source : @narlivres], Itinéraire - Une vie, une pensée, John Creaghe, #Simón_Radowitzky, FORA

    #Itinéraire_-_Une_vie,une_pensée_n°9/10 :« Ricardo_Flores_Magón » #[Source :_@narlivres] #FORA_
    https://www.partage-noir.fr/IMG/pdf/itineraire_magon2.pdf

  • China’s Expanding Surveillance State : Takeaways From a NYT Investigation - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2022/06/21/world/asia/china-surveillance-investigation.html

    Un article doublé d’une extraordinaire vidéo montrant l’étendue de la surveillance en Chine.
    Basé sur les données de China Files, l’agence de presse fondée par Simone Pieranni, c’est un excellent complément à son livre Red Mirror (https://cfeditions.com/red-mirror)

    By Isabelle Qian, Muyi Xiao, Paul Mozur and Alexander Cardia
    Published June 21, 2022Updated July 26, 2022
    查看本文中文版

    China’s ambition to collect a staggering amount of personal data from everyday citizens is more expansive than previously known, a Times investigation has found. Phone-tracking devices are now everywhere. The police are creating some of the largest DNA databases in the world. And the authorities are building upon facial recognition technology to collect voice prints from the general public.

    The Times’s Visual Investigations team and reporters in Asia spent over a year analyzing more than a hundred thousand government bidding documents. They call for companies to bid on the contracts to provide surveillance technology, and include product requirements and budget size, and sometimes describe at length the strategic thinking behind the purchases. Chinese laws stipulate that agencies must keep records of bids and make them public, but in reality the documents are scattered across hard-to-search web pages that are often taken down quickly without notice. ChinaFile, a digital magazine published by the Asia Society, collected the bids and shared them exclusively with The Times.

    This unprecedented access allowed The Times to study China’s surveillance capabilities. The Chinese government’s goal is clear: designing a system to maximize what the state can find out about a person’s identity, activities and social connections, which could ultimately help the government maintain its authoritarian rule.

    Here are the investigation’s major revelations.

    #Red_Mirror #Chine #Surveillance #Simone_Pieranni #Vidéo

  • #Simon_Springer : « A un moment donné, il faut juste dire "#fuck !" au #néolibéralisme dont la fonction première est de créer des #inégalités »

    Pour cet activiste du quotidien, lire #Kropotkine et #Reclus, c’est revenir aux sources de la géographie comme de l’#anarchisme. La #géographie_radicale propose de penser toutes les histoires, en s’éloignant du seul point de vue anthropocentrique. Cela inclut l’histoire des animaux, des plantes… Et surtout la prise en compte des #interactions et des #coopérations.

    L’affiche ressemble à s’y méprendre à celle de la tournée d’un groupe de hard rock. Si Simon Springer est bien fan de ce genre musical, les 28 dates du tour d’Europe qu’il a honorées avant l’été ont invité le public non pas à des concerts, mais à des conférences autour de son dernier ouvrage, Pour une géographie anarchiste (Lux éditeur, 2018). Professeur depuis 2012 à l’université de Victoria, au Canada, il rejoindra en septembre l’université de Newcastle, en Australie. Géographe radical, spécialiste de la pensée anarchiste et du Cambodge, Simon Springer se présente comme athée, végan, pacifiste, « straight edge » (sous-culture punk qui bannit la consommation de psychotropes) et « super-papa ». Cet activiste du quotidien revient pour Libération sur la nécessité d’une lutte à petits pas afin d’enrayer toute forme de domination.

    Qu’est-ce qu’est une géographie anarchiste ?

    Les systèmes de hiérarchie et de domination qui structurent nos vies découlent d’un apprentissage. Devenir anarchiste, c’est les désapprendre. J’ai trois enfants, qui détiennent de manière inhérente beaucoup de valeurs anarchistes. Ce sont mes plus grands professeurs. La géographie est un champ très vaste qui va de la géographie physique à la géographie humaine. Si vous revenez à Pierre Kropotkine et Elisée Reclus, aux sources de la géographie comme de l’anarchisme, il n’y a pas de séparation claire. Doreen Massey, une géographe radicale britannique, considère que la géographie raconte l’histoire, les histoires. Il s’agit de penser toutes les histoires collectées, pas uniquement d’un point de vue anthropocentrique. Cela inclut l’histoire des animaux, des plantes, et toutes les interconnexions qui font de la Terre ce qu’elle est.

    On ne conçoit pas l’espace de manière générale, mais de manières particulières, au pluriel. Doreen Massey considère que les lieux forment des constellations, comme un squelette des interconnexions que nous expérimentons. Cet ensemble de relations sociales, politiques et économiques est en évolution permanente. Il y a la grande histoire, et il y a le canevas des petites histoires. Rien n’est figé, accompli.
    En quoi l’anarchisme et ses idées permettent-ils de repenser notre rapport à l’espace et aux histoires des uns et des autres ?

    L’anarchisme est une manière d’être au monde, une question de liberté, d’émancipation. Dès lors qu’il y a une forme de hiérarchie, il y a un positionnement critique à avoir, et pas uniquement au sujet des relations que les humains ont entre eux. La pensée des Lumières a longtemps positionné l’homme au sommet de l’évolution des espèces. Chez Kropotkine et Reclus, dès le XIXe siècle, il s’agit de lui redonner une juste place : non pas supérieur, mais simplement existant aux côtés des autres espèces vivantes. Kropotkine pensait la mutualisation, la collaboration et la réciprocité à l’échelle de l’évolution entière. Afin de s’opposer au darwinisme, interprété comme une nécessaire compétition et la suprématie d’une espèce sur une autre, il souligne qu’un autre pan de la pensée de Darwin met en avant l’interdépendance des êtres vivants. Le processus d’évolution est lié à cela : certaines espèces survivent uniquement en vertu des liens qu’elles ont avec d’autres. Cette perspective permet de réimaginer la notion de survie, en réorientant la lecture de Darwin de la seule compétition à la coopération. L’anarchisme est aussi une question d’association volontaire et d’action directe. La première relève du choix, du libre arbitre, la seconde en découle : nous n’avons pas besoin d’attendre que des leaders élus, qu’une avant-garde, que quelqu’un d’autre nous autorise à repenser nos vies si nous avons envie de le faire. Selon Doreen Massey, il s’agit d’influer sur l’histoire, sur les histoires, pour qu’elles correspondent plus à nos désirs, nos intérêts et nos besoins.
    En quoi cette pensée peut-elle être actuelle ?

    Oppression raciale, violence d’Etat, violence capitalistique : les formes de violence dues aux hiérarchies se multiplient et se perpétuent aujourd’hui. L’anarchisme est beaucoup plus large que le proudhonisme originel. Il ne s’agit pas seulement d’une remise en cause de l’Etat, de la propriété, mais de toutes les formes de domination, en terme de genres, de sexualités, de races, d’espèces. L’anarchisme doit contribuer à forger une autre forme d’imagination, plus large, à mettre en avant les connexions entre les êtres plutôt que de leur assigner des étiquettes.
    Vous avez écrit un pamphlet intitulé « Fuck neoliberalism » (1), littéralement, « emmerdons le néolibéralisme »…

    A un moment donné, il faut juste dire « fuck it ! » [« merde ! », ndlr]. Car on a beau étudier dans le détail le fait que le marché avantage certains et en désavantage d’autres, un grand nombre de gens continueront de ne pas se sentir concernés. Donc il faut dire stop et s’atteler à renverser la tendance. Le capitalisme est fondé sur la domination, sa fonction première est de produire des inégalités. Dans ce système, certains réussissent, les autres restent derrière. En tant qu’universitaires, combien d’articles devrons-nous encore écrire pour dénoncer ses méfaits à tel endroit ou sur telle population ?

    C’est une provocation pour attirer l’attention sur le problème plutôt que de continuer à tourner autour. C’est le texte le plus lu de ma carrière. Il porte un message profondément anarchiste. Or, la réponse à cet article a été massivement positive dans le monde universitaire. Peut-être car le terme d’« anarchisme » n’apparaît jamais. La plupart des gens qui ont intégré des principes anarchistes à leur vie quotidienne ne l’identifient pas nécessairement comme tel. La coopération, la réciprocité, l’aide mutuelle, tout le monde les pratique chaque jour avec ses amis, sa famille. Lancer un jardin partagé, rester critique face à ses professeurs, interroger l’individualisme qui va de pair avec le néolibéralisme, cela fait partie d’une forme d’éthique de la vie en communauté. Nous sommes tous coupables - moi compris - de perpétuer le système. L’un des piliers du néolibéralisme est cette volonté de se focaliser sur l’individu, qui entraîne une forme de darwinisme social, les « tous contre tous », « chacun pour soi ».
    Vous évoquez un activisme de la vie quotidienne. Quel est-il ?

    L’activisme ne se résume pas à être en tête de cortège, prêt à en découdre avec la police. Il passe par des gestes très quotidiens, ce peut être de proposer à vos voisins de s’occuper de leurs enfants un après-midi. A Victoria, il existe un groupe de « mamies radicales » qui tricotent des vêtements pour les sans-abri. Mieux connaître ses voisins, aider quelqu’un à traverser la route, lever les yeux de nos téléphones ou débrancher notre lecteur de musique et avoir une conversation avec les gens dans le bus ou dans la rue : ces choses très simples font peser la balance dans l’autre sens, permettent de court-circuiter l’individualisme exacerbé produit par le néolibéralisme. Si vous vous sentez de manifester contre le G20, très bien, mais il faut également agir au quotidien, de manière collective.

    Une des meilleures façons de faire changer les gens d’avis sur les migrants est de leur faire rencontrer une famille syrienne, d’engager un échange. Frôler leur situation peut être le moyen de réhumaniser les réfugiés. Cela implique d’avoir un espace pour enclencher cette conversation, un lieu inclusif, libre des discours haineux. En s’opposant au nationalisme, l’anarchisme encourage le fait de penser le « non-nationalisme », de regarder au-delà des réactions épidermiques, d’élargir le cercle de nos préoccupations et notre capacité à prendre soin de l’autre, à se préoccuper de l’humanité entière.
    Cet ethos permet-il de lutter contre la violence institutionnelle ?

    Je me considère pacifiste, mais ça ne veut pas dire que les gens ne devraient pas s’opposer, lutter, pratiquer l’autodéfense. Pour moi, l’anarchisme est fondamentalement non-violent - un certain nombre d’anarchistes ne sont pas d’accord avec cela. Un système de règles et de coercition est intrinsèquement violent. L’Etat revendique le monopole de cette violence. Quand des groupes d’activistes, d’anarchistes ou n’importe qui s’opposent à l’Etat, c’est un abus de langage d’appeler cela de la violence. C’est un moyen pour l’autorité de discréditer la dissidence. Si l’Etat revendique le monopole de la violence, acceptons-le en ces termes. La violence est répugnante, vous en voulez le monopole ? Vous pouvez l’avoir. Mais alors n’appelez pas « violence » notre réponse. Le but d’un anarchiste, d’un activiste, ce n’est pas la domination, la coercition, mais la préservation de son intégrité, la création d’une société meilleure, de plus de liberté. L’autodéfense n’est pas de la violence.
    D’une certaine façon, un Black Bloc ne serait pas violent, selon vous ?

    Chaque Black Bloc, dans un contexte donné, peut être motivé par de nombreuses raisons. Mais de manière générale, je ne crois pas que son objectif soit la violence. La première raison pour laquelle le Black Bloc dissimule son visage, c’est parce qu’il ne s’agit pas d’intérêts individuels, mais d’un mouvement collectif. La majorité des médias parle du Black Bloc uniquement en terme de « violence », or c’est d’abord une forme de résistance, d’autodéfense, non pas uniquement pour les individus qui forment à un moment le Black Bloc, mais une autodéfense de la communauté et de la planète sur laquelle nous vivons. Qu’est-ce que va changer, pour une banque, une vitrine brisée, très vite remplacée ? Condamner la violence des Black Blocs, ça permet d’occulter la violence de la police, vouée à la domination, la coercition, la suppression de la liberté de certains individus dans le seul but de préserver la propriété d’une minorité puissante.

    (1) « Fuck le néolibéralisme », revue Acme, 2016, en libre accès sous Creative Commons sur www.acme-journal.org

    https://www.liberation.fr/debats/2018/08/20/simon-springer-a-un-moment-donne-il-faut-juste-dire-fuck-au-neoliberalism

    #géographie_anarchiste #hiérarchie #domination #histoire #histoires #espace #liberté #émancipation #mutualisation #réciprocité #collaboration #darwinisme #compétition #interdépendance #survie #association_volontaire #action_directe #choix #libre_arbitre #violence #imagination #fuck #fuck_it #capitalisme #domination #aide_mutuelle #individualisme #darwinisme_social #chacun_pour_soi #tous_contre_tous #activisme #résistance #non-nationalisme #nationalisme #pacifisme #autodéfense #non-violence #dissidence #monopole_de_la_violence #coercition #Black_Bloc #violence_institutionnelle

    • Pour une géographie anarchiste

      Grâce aux ouvrages de David Harvey, Mike Davis ou même Henri Lefebvre, on connaît aujourd’hui la géographie radicale ou critique née dans le contexte des luttes politiques des années 1960 aux États-Unis et qui a, comme le disait Harvey, donné à Marx « la dimension spatiale qui lui manquait ». Dans ce livre, Simon Springer enjoint aux géographes critiques de se radicaliser davantage et appelle à la création d’une géographie insurrectionnelle qui reconnaisse l’aspect kaléidoscopique des espaces et son potentiel émancipateur, révélé à la fin du XIXe siècle par Élisée Reclus et Pierre Kropotkine, notamment.

      L’histoire de l’humanité est une longue suite d’expériences dans et avec l’espace ; or aujourd’hui, la stase qui est imposée à ces mouvements vitaux, principalement par les frontières, menace notre survie. Face au désastre climatique et humain qui nous guette, il est indispensable de revoir les relations que nous entretenons avec le monde et une géographie rebelle comme celle que défend Springer nous libérerait du carcan de l’attentisme. Il faut se défaire une bonne fois pour toutes des géographies hiérarchiques qui nous enchaînent à l’étatisme, au capitalisme, à la discrimination et à l’impérialisme. « La géographie doit devenir belle, se vouer entièrement à l’émancipation. »

      https://luxediteur.com/catalogue/pour-une-geographie-anarchiste

      #livre