• Rapporto Migrantes : +87% dei giovani italiani che « emigrano ». Mattarella : « Serve una riflessione »"

    Il rapporto «Italiani nel Mondo» presentato oggi dice che, nonostante la pandemia, la mobilità italiana è cresciuta. Mattarella: «Chi lascia il nostro Paese lo fa per necessità e non per libera scelta, non trovando in Italia un’occupazione adeguata»

    L’onda lunga della pandemia ha frenato la mobilità italiana, ma non ha impedito ai giovani italiani di partire e segnare una percentuale alta nella cosiddetta «fuga dei cervelli» con un + 87%. Italiani partiti soprattutto dal Nord Italia alla volta prevalentemente dell’Europa, mentre è noto che gli italiani del Sud affollano poi gli spazi lasciati vuoti al Nord.

    A sottolineare la tendenza è il «Rapporto Italiani nel Mondo» della Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana, giunta alla sua XVII edizione.

    "Il triplice rifiuto percepito dai giovani italiani, anagrafico, territoriale e di genere, incentiva il desiderio di estero e soprattutto lo fa mettere in pratica. Dal 2006 al 2022 la mobilità italiana è cresciuta dell’87% in generale, del 94,8% quella femminile, del 75,4% quella dei minori e del 44,6% quella per la sola motivazione «espatrio».

    "Una mobilità giovanile che cresce sempre più - spiega il dossier - perchè l’Italia ristagna nelle sue fragilità, e ha definitivamente messo da parte la possibilità per un individuo di migliorare il proprio status durante il corso della propria vita accedendo a un lavoro certo, qualificato e abilitante (ascensore sociale); continua a mantenere i giovani confinati per anni in «riserve di qualità e competenza» a cui poter attingere, ma il momento non arriva mai. Il tempo scorre, le nuove generazioni diventano mature e vengono sostituite da nuove e poi nuovissime altre generazioni, in un circolo vizioso che dura da ormai troppo tempo".

    «In questa situazione, già fortemente compromessa - si legge ancora -, la pandemia di Covid-19 si è abbattuta con tutta la sua gravità rendendo i giovani italiani una delle categorie più colpite dalle ricadute sociali ed economiche». "È da tempo - annota ancora il rapporto - che i giovani italiani non si sentono ben voluti dal proprio paese e dai propri territori di origine, sempre più spinti a cercar fortuna altrove. La via per l’estero si presenta loro quale unica scelta da adottare per la risoluzione di tutti i problemi esistenziali (autonomia, serenità, lavoro, genitorialità, ecc.).

    «E così ci si trova di fronte a una Italia demograficamente in caduta libera». Per quanto riguarda i dati, "al 1° gennaio 2022 i cittadini italiani iscritti all’Aire sono 5.806.068, il 9,8% degli oltre 58,9 milioni di italiani residenti in Italia. Mentre l’Italia ha perso in un anno lo 0,5% di popolazione residente (-1,1% dal 2020), all’estero è cresciuta negli ultimi 12 mesi del 2,7% che diventa il 5,8% dal 2020. In valore assoluto si tratta di quasi 154 mila nuove iscrizioni all’estero contro gli oltre 274 mila residenti «persi» in Italia".

    «Il Rapporto fornisce anche quest’anno una fotografia di grande interesse dei flussi migratori che interessano i nostri connazionali», ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel messaggio inviato al presidente della Fondazione Migrantes, monsignor Gian Carlo Perego.

    «A partire sono principalmente i giovani - e tra essi giovani con alto livello di formazione - per motivi di studio e di lavoro. Spesso non fanno ritorno, con conseguenze rilevanti sulla composizione sociale e culturale della nostra popolazione. Partono anche pensionati e intere famiglie», osserva il Capo dello Stato.

    “Il fenomeno di questa nuova fase dell’emigrazione italiana non può essere compreso interamente all’interno della dinamica virtuosa dei processi di interconnessione mondiale, che richiedono una sempre maggiore circolazione di persone, idee e competenze. Anzitutto perché il saldo tra chi entra e chi esce rimane negativo, con conseguenze evidenti sul calo demografico e con ricadute sulla nostra vita sociale. Ma anche perché in molti casi chi lascia il nostro Paese lo fa per necessità e non per libera scelta, non trovando in Italia una occupazione adeguata al proprio percorso di formazione e di studio”.

    E conclude il capo dello Stato «Il nostro Paese, che ha una lunga storia di emigrazione, deve aprire una adeguata riflessione sulle cause di questo fenomeno e sulle possibili opportunità che la Repubblica ha il compito di offrire ai cittadini che intendono rimanere a vivere o desiderano tornare in Italia».

    Il rapporto sottolinea peraltro come quella di oggi sia «una Italia interculturale - si legge nel dossier -in cui l’8,8% dei cittadini regolarmente residenti sono stranieri (in valore assoluto quasi 5,2 milioni), mentre il 9,8% dei cittadini italiani risiedono all’estero (oltre 5,8 milioni)».

    «Negli ultimi difficili anni di limitazione negli spostamenti a causa della pandemia, di recessione economica e sociale, di permanenza di una legge nazionale per l’immigrazione sorda alle necessità del tessuto lavorativo e sociodemografico italiano, la comunità dei cittadini italiani ufficialmente iscritti all’anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) ha superato la popolazione di stranieri regolarmente residenti sul territorio nazionale».

    https://www.rainews.it/articoli/2022/11/rapporto-migrantes-+87-dei-giovani-italiani-emigrano-mattarella-spesso-non-f
    #émigration #Italie #migrations #solde_migratoire #statistiques #Italie #2022 #rapport #chiffres #démographie

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    ajouté à la métaliste « Les Italiens quittent en masse leur pays, mais on n’en parle pas... »
    https://seenthis.net/messages/762801

    • Rapporto Italiani nel Mondo #Migrantes, mobilità italiana: convivere e resistere nell’epoca delle emergenze globali

      Si era soliti affermare che l’Italia da paese di emigrazione si è trasformato negli anni in paese di immigrazione: questa frase non è mai stata vera e, a maggior ragione, non lo è adesso perché smentita dai dati e dai fatti. Dall’Italia non si è mai smesso di partire e negli ultimi difficili anni di limitazione negli spostamenti a causa della pandemia, di recessione economica e sociale, di permanenza di una legge nazionale per l’immigrazione sorda alle necessità del tessuto lavorativo e sociodemografico italiano, la comunità dei cittadini italiani ufficialmente iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE) ha superato la popolazione di stranieri regolarmente residenti sul territorio nazionale.

      Una Italia interculturale in cui l’8,8% dei cittadini regolarmente residenti sono stranieri (in valore assoluto quasi 5,2 milioni), mentre il 9,8% dei cittadini italiani risiedono all’estero (oltre 5,8 milioni) afferma oggi iol Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes presentato a Roma.

      In generale, la popolazione straniera in Italia è più giovane di quella italiana. I ragazzi nati in Italia da genitori stranieri (“seconde generazioni” in senso stretto) sono oltre 1 milione: di questi, il 22,7% (oltre 228 mila) ha acquisito la cittadinanza italiana. Se ad essi si aggiungono i nati all’estero (245 mila circa) e i naturalizzati (quasi 62 mila), la compagine dei ragazzi con background migratorio supera 1,3 milioni e rappresenta il 13,0% del totale della popolazione residente in Italia con meno di 18 anni. Una popolazione “preziosa” vista la situazione demografica ogni anno più critica vissuta dall’Italia, caratterizzata da inesorabile denatalità e accanito invecchiamento e considerando il fatto che tra i sogni di queste nuove generazioni vi è sempre più presente quello di vivere in altri paesi del mondo: il 59% degli alunni stranieri delle scuole secondarie, infatti, vorrebbe da grande spostarsi all’estero, un dato molto più alto rispetto ai loro compagni italiani (42%). Per gli stranieri assume rilevanza anche il paese di nascita (proprio o dei propri genitori), che verrebbe scelto come destinazione di vita una volta adulti dall’11,6%. Il 47,7%, però, sceglierebbe un paese diverso sia dall’Italia sia dal paese di origine e gli Stati Uniti sono la meta più desiderata in assoluto.

      Fino a quando l’estero rimane per i giovani e i giovanissimi attualmente residenti in Italia un desiderio, il problema, per il nostro Paese, resta poco grave e circoscritto; la storia nazionale, però, insegna che la mobilità è qualcosa di strutturale per l’Italia e il passato più recente ha visto e vede proprio le nuove generazioni sempre più protagoniste delle ultime partenze. D’altronde non potrebbe essere altrimenti

      considerando quanto la mobilità sia entrata a far parte pienamente dello stile di vita, tanto nel contesto formativo e lavorativo quanto in quello esperienziale e identitario.

      L’Italia sempre più transnazionale

      L’attuale comunità italiana all’estero è costituita da oltre 841 mila minori (il 14,5% dei connazionali complessivamente iscritti all’AIRE) moltissimi di questi nati all’estero, ma tanti altri partiti al seguito delle proprie famiglie in questi ultimi anni. Ai minori occorre aggiungere gli oltre 1,2 milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni (il 21,8% della popolazione complessiva AIRE, che arriva a incidere per il 42% circa sul totale delle partenze annuali per solo espatrio).

      Non bisogna dimenticare, infine, tutti quelli che partono per progetti di mobilità di studio e formazione – che non hanno obbligo di registrazione all’AIRE e chi è in situazione di irregolarità perché non ha ottemperato all’obbligo di legge di iscriversi in questo Anagrafe.

      Una popolazione giovane, dunque, che parte e non ritorna, spinta da un tasso di occupazione dei giovani in Italia tra i 15 e i 29 anni pari, nel 2020, al 29,8% e quindi molto lontano dai livelli degli altri paesi europei (46,1% nel 2020 per l’UE-27) e con un divario, rispetto agli adulti di 45-54 anni, di 43 punti percentuali. I giovani occupati al Nord, peraltro, sono il 37,8% rispetto al 30,6% del Centro e al 20,1% del Mezzogiorno. Al divario territoriale si aggiunge quello di genere: se i ragazzi residenti al Nord risultano i più occupati con il 42,2%, le ragazze della stessa fascia di età ma residenti nel Mezzogiorno non superano il 14,7%.

      Il triplice rifiuto percepito dai giovani italiani – anagrafico, territoriale e di genere – incentiva il desiderio di estero e soprattutto lo fa mettere in pratica. Dal 2006 al 2022 la mobilità italiana è cresciuta dell’87% in generale, del 94,8% quella femminile, del 75,4% quella dei minori e del 44,6% quella per la sola motivazione “espatrio”.

      Una mobilità giovanile che cresce sempre più perché l’Italia ristagna nelle sue fragilità; ha definitivamente messo da parte la possibilità per un individuo di migliorare il proprio status durante il corso della propria vita accedendo a un lavoro certo, qualificato e abilitante (ascensore sociale); continua a mantenere i giovani confinati per anni in “riserve di qualità e competenza” a cui poter attingere, ma il momento non arriva mai. Il tempo scorre, le nuove generazioni diventano mature e vengono sostituite da nuove e poi nuovissime altre generazioni, in un circolo vizioso che dura da ormai troppo tempo.

      In questa situazione, già fortemente compromessa, la pandemia di Covid-19 si è abbattuta con tutta la sua gravità rendendo i giovani italiani una delle categorie più colpite dalle ricadute sociali ed economiche.

      La presa di coscienza di quanto forte sia stato il contraccolpo subito dai giovani e dai giovanissimi, già in condizioni di precarietà e fragilità, in seguito all’esplosione dell’epidemia mondiale, è stata al centro della creazione e formalizzazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e di diverse politiche adottate a livello europeo. Le azioni del PNRR sono volte a recuperare il potenziale delle nuove generazioni e a costruire un ambiente istituzionale e di impresa in grado di favorire il loro sviluppo e il loro protagonismo all’interno della società. Il PNRR è, detto in altri termini, un punto da cui ricominciare per pensare e programmare un futuro diverso, che risponda e valorizzi i giovani, le loro capacità e le loro competenze rispondendo anche ai loro desideri e alle loro attese.

      L’Italia fuori dall’Italia

      È da tempo che i giovani italiani non si sentono ben voluti dal proprio Paese e dai propri territori di origine, sempre più spinti a cercar fortuna altrove. La via per l’estero si presenta loro quale unica scelta da adottare per la risoluzione di tutti i problemi esistenziali (autonomia, serenità, lavoro, genitorialità, ecc.). E così ci si trova di fronte a una Italia demograficamente in caduta libera se risiede e opera all’interno dei confini nazionali e un’altra Italia, sempre più attiva e dinamica, che però guarda quegli stessi confini da lontano.

      Al 1° gennaio 2022 i cittadini italiani iscritti all’AIRE sono 5.806.068, il 9,8% degli oltre 58,9 milioni di italiani residenti in Italia. Mentre l’Italia ha perso in un anno lo 0,5% di popolazione residente (-1,1% dal 2020), all’estero è cresciuta negli ultimi 12 mesi del 2,7% che diventa il 5,8% dal 2020. In valore assoluto si tratta di quasi 154 Non c’è nessuna eccezione: tutte le regioni italiane perdono residenti aumentando, però, la loro presenza all’estero. La crescita, in generale, dell’Italia residente nel mondo è stata, nell’ultimo anno, più contenuta, sia in valore assoluto che in termini percentuali, rispetto agli anni precedenti.

      Il 48,2% degli oltre 5,8 milioni di cittadini italiani residenti all’estero è donna (2,8 milioni circa in valore assoluto). Si tratta, soprattutto, di celibi/nubili (57,9%) o coniugati/e (35,6%). I/le divorziati/e (2,7%) hanno superato i/le vedovi/e (2,2%). Da qualche anno si registrano anche le unioni civili (circa 3 mila).

      I dati sul tempo di residenza all’estero indicano che il revival delle partenze degli italiani non è recentissimo, ma risale alla profonda crisi vissuta nel 2008-2009 dal nostro Paese. Infatti, il 50,3% dei cittadini oggi iscritti all’AIRE lo è da oltre 15 anni e “solo” il 19,7% è iscritto da meno di 5 anni. Il resto si divide tra chi è all’estero da più di 5 anni ma meno di 10 (16,1%), e chi lo è da più di 10 anni ma meno di 15 (14,3%).

      La presenza italiana nel mondo cresce, lo si è detto, ma la crescita avviene attraverso elementi esogeni ed endogeni. Tra gli elementi esogeni il più importante e più discusso, a seguito dei profondi cambiamenti del nostro Paese, dovuti a quasi 50 anni di immigrazione e a causa della legge n. 91 del 1992 oggi distante dalla realtà interculturale del Belpaese, è l’acquisizione di cittadinanza: i cittadini italiani iscritti all’AIRE per acquisizione della cittadinanza dal 2006 al 2022 sono aumentati del 134,8% (in valore assoluto si tratta di poco più di 190 mila italiani; erano quasi 81 mila nel 2006). L’elemento endogeno per eccellenza è, invece, la nascita all’estero dei cittadini italiani, ovvero figlie e figli che si ritrovano a venire al mondo da cittadini italiani che risiedono già oltreconfine e che, sempre da italiani, crescono e si formano lontano dall’Italia ma con un occhio rivolto allo Stivale. Gli italiani nati all’estero sono aumentati dal 2006 del 167,0% (in valore assoluto sono, oggi, 2.321.402; erano 869 mila nel 2006). Si tratta di italiani che restituiscono un volto ancora più composito del nostro Paese rendendolo interculturale e sempre più transnazionale, composto cioè da italiani che hanno origini diverse (nati e/o cresciuti in paesi lontani dall’Italia o nati in Italia in famiglie arrivate da luoghi lontani) e che si muovono con agilità tra (almeno) due paesi, parlando più lingue, abitando più culture.

      Gli oltre 5,8 milioni di italiani iscritti all’AIRE hanno, quindi, un profilo complesso: sono giovani (il 21,8% ha tra i 18 e i 34 anni), giovani adulti (il 23,2% ha tra i 35 e i 49 anni), adulti maturi (il 19,4% ha tra i 50 e i 64 anni), anziani (il 21% ha più di 65 anni, ma di questi l’11,4% ha più di 75 anni) o minori (il 14,5% ha meno di 18 anni).

      Oltre 2,7 milioni (il 47,0%) sono partiti dal Meridione (di questi, 936 mila circa, il 16%, dalla Sicilia o dalla Sardegna); più di 2,1 milioni (il 37,2%) sono partiti dal Nord Italia e il 15,7% è, invece, originario del Centro Italia.

      Il 54,9% degli italiani (quasi 3,2 milioni) sono in Europa, il 39,8% (oltre 2,3 milioni) in America, centro-meridionale soprattutto (32,2%, più di 1,8 milioni).

      Gli italiani sono presenti in tutti i paesi del mondo. Le comunità più numerose sono, ad oggi, quella argentina (903.081), la tedesca (813.650), la svizzera (648.320), la brasiliana (527.901) e la francese (457.138).

      https://www.migrantes.it/rapporto-italiani-nel-mondo-migrantes-mobilita-italiana-convivere-e-resist

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      synthèse en pdf:
      https://www.migrantes.it/wp-content/uploads/sites/50/2022/11/Sintesi_RIM2022.pdf

    • Il monologo di #Crozza su migranti e Mimmo Lucano: “Dovremmo accoglierli a braccia aperte, la vera emergenza sono gli italiani che scappano”

      Nella nuova puntata di Fratelli di Crozza, in onda in prima serata sul Nove e in streaming su Discovery+, Maurizio Crozza riflette su alcuni dati allarmanti che segnalano la fuga degli italiani dal nostro Paese: “Negli ultimi anni se n’è andato un italiano su dieci. Gli stranieri in Italia sono 5,2 milioni e gli italiani all’estero sono 5,8 milioni. Sono più quelli che sono andati di quelli che sono arrivati. E il governo non vuol far scendere gli stranieri dalle navi? Ma bisognava andar lì ad accoglierli con le collane di fiori come in Polinesia. L’emergenza non è l’invasione è l’evasione”.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/11/12/il-monologo-di-crozza-su-migranti-e-mimmo-lucano-dovremmo-accoglierli-a-braccia-aperte-la-vera-emergenza-sono-gli-italiani-che-scappano/6871062

      #Maurizio_Crozza

  • Les frontières se ferment donc la population étrangère augmente…

    À fin décembre 2020, 2’151’854 ressortissants étrangers résidaient en #Suisse. Le Secrétariat d’Etat aux migrations vient de révéler à ce sujet un drôle de paradoxe : alors qu’en 2020, l’#immigration a diminué de 2,6 % par rapport à 2019, la #population_étrangère a augmenté nettement plus rapidement qu’auparavant : +40’442 [+1.9%] en 2020 contre +30’243 [+1.5%] en 2019.

    Si la diminution de l’immigration durant cette année « COVID » s’explique aisément par les restrictions d’entrée mises en place par la Suisse et surtout par le manque de perspectives économiques liées à la pandémie, comment expliquer la croissance accélérée de la population étrangère ? La réponse est simple : de nombreuses personnes déjà présentes en Suisse ont renoncé à quitter le pays, tant et si bien que l’#émigration (les départs) a fortement diminué (-12.1%)[1]. On peut grosso modo considérer que 10’000 personnes étrangères ont ainsi décidé (ou été contraintes) de rester en Suisse l’an passé alors qu’elles seraient parties en temps normal. L’inquiétude de ne pouvoir revenir a joué un rôle, de même que les incertitudes sur les perspectives à l’étranger[2].

    Le solde migratoire de la Suisse (arrivées moins départs) a donc augmenté malgré les restrictions d’entrée !

    S’il surprend à première vue, ce paradoxe est bien connu des géographes et autres migratologues sous le nom de « #net_migration_bounce » (#rebond_du_solde_migratoire). Il avait été mis en évidence de manière spectaculaire il y quelques années par une étude sur les politiques de #visas de 34 pays. Il en ressortait que lorsqu’un pays d’immigration se montre très restrictif en matière d’entrées, ces dernières diminuent, certes, mais les personnes qui parviennent à obtenir le précieux sésame ne repartent plus, de peur de ne pas pouvoir entrer à nouveau[3]. Un résultat similaire ressort d’une étude sur les politiques d’immigration de la France, de l’Italie et de l’Espagne vis-à-vis des Sénégalais entre 1960 et 2010[4]. Ces derniers se sont avérés d’autant plus enclins à retourner au Sénégal que les politiques d’entrée en Europe ont été ouvertes. A l’inverse, le resserrement des conditions d’entrée a poussé les expatriés à le rester.

    L’année 2020 reste exceptionnelle, mais la leçon générale à tirer du paradoxe de la fermeture des frontières est que loin d’être statique, la population issue de la migration est – tout au moins pour partie – en constant mouvement. Il est loin le temps où une migration se faisait de manière définitive et pour toute une vie[5]. Beaucoup de gens arrivent, beaucoup de gens partent, et parfois reviennent ! C’est aussi cette réalité que les politiques d’accueil doivent prendre en compte.

    [1] Pour être complet, il y a lieu de tenir compte aussi des naturalisations et des décès (qui font diminuer la population étrangère) et des naissances (qui la font augmenter). L’évolution de ces facteurs a toutefois joué un rôle plus faible que le solde migratoire dans l’évolution de 2020.

    [2] Après le relâchement des contraintes de mobilité de la deuxième moitié 2020, le quatrième trimestre de l’année a d’ailleurs vu l’émigration reprendre son rythme habituel.

    [3] Czaika, M., and H. de Haas. 2017. The Effect of Visas on Migration Processes. International Migration Review 51 (4):893-926.

    [4] Flahaux, M.-L. 2017. The Role of Migration Policy Changes in Europe for Return Migration to Senegal. International Migration Review 51 (4):868-892.

    [5] On notera que dans des pays plus marqués par des migrations « traditionnelles » de longue durée et par moins de mobilité, le paradoxe que nous venons de relever pour la Suisse ne semble pas s’être manifesté. On peut faire l’hypothèses que ce soit le cas du Canada https://www.bnnbloomberg.ca/closed-borders-halt-canada-s-population-growth-during-pandemic-1.150097

    https://blogs.letemps.ch/etienne-piguet/2021/02/05/les-frontieres-se-ferment-donc-la-population-etrangere-augmente

    #fermeture_des_frontières #migrations #démographie #paradoxe #solde_migratoire #frontières

    ping @isskein @karine4

  • Morts par la France - les arènes
    http://www.arenes.fr/livre/morts-par-la-france

    LʼHistoire est une compagne de voyage intransigeante et parfois impitoyable… Elle vous fait prendre des chemins escarpés, des sentiers semés de pièges, dʼembûches et de déceptions. Celle que je mʼapprête à vous raconter a été trop longtemps dissimulée. Enfouie sous des tonnes de mensonges, sous des tombereaux dʼhypocrisie. Mais la vérité est comme la vie, elle trouve toujours un chemin. »

    Le 1er décembre 1944, à #Thiaroye, au #Sénégal, lʼarmée coloniale française ouvre le feu et assassine des centaines de soldats « indigènes », anciens prisonniers de guerre. Depuis, lʼÉtat français ment sur cet épisode tragique en niant ce meurtre de masse. Armelle Mabon, historienne, se bat depuis vingt ans pour rétablir la vérité.

    Morts par la France rend hommage à ces soldats oubliés et tente de réhabiliter leur honneur bafoué.

    #bd

  • À Montpellier, des télés ont été soldées à 30€, provoquant une cohue dans le supermarché d’Odysseum :
    – Montpellier : à Géant Casino Odysseum, des télés en solde à 30 € provoquent une pagaille monstre
    https://www.midilibre.fr/2020/01/09/montpellier-les-clients-se-rebellent-a-la-caisse-du-supermarche-casino,865
    – Montpellier : Géant Casino affiche par erreur des écrans plats à 30 euros, la police doit évacuer le supermarché
    http://www.leparisien.fr/economie/montpellier-geant-casino-affiche-par-erreur-des-ecrans-plats-a-30-euros-l
    – Un hypermarché vend (par erreur) des télés à 30 euros : la police intervient pour évacuer le magasin
    https://www.bfmtv.com/economie/un-hypermarche-vend-par-erreur-des-teles-a-30-euros-la-police-intervient-pour

    Mais non, en fait, peut-être que les téléviseurs étaient affichés à… 40 euros :
    – Ruée sur les télés à 40 euros à Montpellier : le magasin plaide l’erreur d’affichage
    https://www.lindependant.fr/2020/01/09/ruee-sur-les-teles-a-40-euros-a-montpellier-le-magasin-plaide-lerreur-d
    – Des télévisions à 40 € à cause d’une erreur d’affichage : le supermarché pris d’assaut
    https://www.lemessager.fr/3700/article/2020-01-09/des-televisions-40-eu-cause-d-une-erreur-d-affichage-le-supermarche-pris-

    Parce qu’« en vrai », le vrai prix aurait dû être de 300 euros :
    – Télés à 30 € au lieu de 300 € : les raisons de la pagaille au Géant Casino
    https://www.ladepeche.fr/2020/01/10/teles-a-30-au-lieu-de-300-les-raisons-de-la-pagaille-au-geant-casino,86520

    ou plus précisément 307,99€ :
    – « un affichage de prix erroné (30,99 euros au lieu de 307,99 €) de téléviseurs au Géant Casino d’Odysseum Montpellier »
    https://www.midilibre.fr/2020/01/09/bug-informatique-sur-laffichage-des-prix-sur-le-hi-fi-et-lelectromenager-c

    D’ailleurs c’est expliqué par l’algorithme :
    – « Ils étaient persuadés de pouvoir réaliser une bonne affaire en achetant un écran plat pour 30,99€ au lieu de 307,99€. En cause : une erreur d’affichage sur les étiquettes numérique qui empechait le chiffre avant la virgule d’apparaître. »
    https://www.laprovence.com/actu/en-direct/5837659/un-tele-affichee-a-30€-provoque-des-debordements-dans-plusieurs-magasins-geant-casino.html

    Ah mais oups, c’est pas 307,99, c’est 309,90 :
    – « Il faut dire que des écrans plats étaient proposés au prix de… 30,99 euros au lieu de 309,90 euros ! »
    https://www.charentelibre.fr/2020/01/09/grosse-pagaille-pour-des-teles-soldees-par-erreur-a-30-euros,3541749.p

    C’est embêtant ces deux euros d’incertitude. Allez, on va te faire un arrondi au plus proche : « autour de 400 euros » :
    – « La virgule des étiquettes électroniques aurait notamment été déplacée, faisant baisser le prix de téléviseurs initialement affichés autour de 400,00 euros à près de 40,00 euros, soit une promotion de plus de 90% »
    https://www.rtl.fr/actu/justice-faits-divers/geant-casino-a-montpellier-un-bug-reductions-police-7799862343

    ou plutôt (pardon, les chiffres vous savez…) 430 euros :
    – « Le modèle 55 pouces de Philips était affiché en rayon à 30 euros, au lieu de 430. »
    http://www.leparisien.fr/economie/montpellier-geant-casino-affiche-par-erreur-des-ecrans-plats-a-30-euros-l

    (mais alors le bug ?)

    enfin, soyons précis : 439,99 euros :
    – « Des clients attirés, le premier jour des soldes, par un affichage de prix erroné (30,99 euros au lieu de 439,99 euros !) de téléviseurs dans un Géant Casino »
    https://www.bfmtv.com/economie/un-hypermarche-vend-par-erreur-des-teles-a-30-euros-la-police-intervient-pour
    – « En cause, un imbroglio autour du prix de certains téléviseurs 55 pouces, affiché à 30,99 euros au lieu de plus de 439,99 euros. »
    https://www.sudouest.fr/2020/01/09/montpellier-des-ecrans-plats-affiches-a-30-euros-au-lieu-de-400-la-police-f

    en fait, non, on va dire « 500 » (et là, on a une témoin au téléphone, alors on peut pas se tromper) :
    – Au Géant Casino de Montpellier, des télés affichées à 30 euros au lieu de 500 provoquent la pagaille
    https://www.youtube.com/watch?v=-Kn2PFFFeQ0

    c’est confirmé par Capital, qui s’y connaît en, euh, capital :
    – « Les appareils de la marque Phillipps étaient en effet affichés au prix de 30 euros, au lieu des 500 qu’ils coûtent habituellement. »
    https://www.capital.fr/entreprises-marches/les-clients-se-precipitent-sur-des-televiseurs-a-30-euros-la-police-intervie
    avec cette précision typique du spécialiste du, euh, capitalisme qui maîtrise les mathématiques :
    « Une réduction de 470 euros que le magasin a refusé d’accorder à ses clients. »

    ou peut-être « plus de » 500 euros :
    – « sans pouvoir passer en caisse où le prix affichait dépassait les 500 euros. »
    https://www.lindependant.fr/2020/01/09/ruee-sur-les-teles-a-40-euros-a-montpellier-le-magasin-plaide-lerreur-d

    mais en fait, non, on a une personne qui était dans la magasin, cette fois on ne peut pas se tromper : 700 euros !
    – « L’auteure du tweet, Anne-Sophie, a vécu la scène hier soir. “J’y étais par hasard, pour acheter une machine à café, et j’ai commencé à remarquer que des gens portaient plusieurs cartons de télés, raconte-t-elle, alors j’ai voulu vérifier et effectivement elle étaient vendues au prix de 31 euros au lieu de 700”. »
    https://www.francebleu.fr/infos/faits-divers-justice/les-clients-d-un-supermarche-de-montpellier-s-arrachent-les-televiseurs-l

    Je sais bien que les journalistes sont notoirement fâchés avec les chiffres, mais là, c’est assez épatant : d’où sortent ces chiffres ? Quand tu ponds 10 dépêches par jour en recopiant des conneries sur Twitter, tu fais quoi, tu te sors les chiffres du cul, et ensuite tu fais des règles de trois (« plus 90% de réduction ») et des soustractions (« une réduction de 470 euros ») pour faire mine de valider ta source ?

    (Je passe sur les qualifications de l’événement, qui passe de « des clients mécontents » à « bousculade » pour finir en quasi-émeute, parce que sinon j’y passe la journée…)

    • C’est pas l’aspect faux des chiffres qui me chagrine, d’où le fait que le factchecking n’est pas vraiment la question ici, parce que c’est une info totalement anecdotique et inintéressante.

      Ce qui m’épate, c’est que :

      – à partir d’un nombre extrêmement limité de sources, on obtient un nombre invraisemblable de chiffres différents ; c’est assez stupéfiant tout de même : il doit y avoir un ou deux tweets, éventuellement une dépêche d’agence, et il sort une bonne dizaine de chiffres différents ; c’est assez magique, je trouve…

      – plus intéressant pour moi : comment à partir de ces chiffres totalement approximatifs (et, encore une fois : pourquoi pas, vu que l’information n’a pas grand intérêt), on met tout de même en place des éléments de langage destinés à crédibiliser l’information, « comme si » on avait bossé sérieusement. Et donc des chiffres donnés avec une précision au centime près (« 439,99 », ou « 307,99 », ou « 309,90 »…), des calculs de taux de réduction (« 90% », « 470 euros »…), de citation de « sources » (une dame au téléphone, un témoin cité, etc.), photo d’une étiquette fautive, alors qu’en gros, à la base, tout le monde a brodé sur une anecdote qui circule sur Facebook et qu’on a intégré un chiffre farfelu.

    • Je comprends bien, mais ce faisant tu jettes l’opprobre sur toute une profession, alors qu’il y a (peut-être !?) un·e de ces journalistes qui avait le bon chiffre :)

    • Note que je dispose d’un téléphone qui me permettrait de faire le faquecheqingue. Manque la motivation.

  • Il rapporto Istat sull’immigrazione : « Più italiani emigrati, meno arrivi dall’Africa »

    Sono 816mila quelli che si sono trasferiti all’estero negli ultimi 10 anni, in calo del 17% chi viene dal continente africano.

    Gli italiani emigrati
    Nel decennio 1999-2008 gli italiani che hanno trasferito la residenza all’estero sono stati complessivamente 428 mila a fronte di 380 mila rimpatri, con un saldo negativo di 48 mila unità. Dal 2009 al 2018 si è registrato un significativo aumento delle cancellazioni per l’estero e una riduzione dei rientri (complessivamente 816 mila espatri e 333 mila rimpatri); di conseguenza, i saldi migratori con l’estero dei cittadini italiani, soprattutto a partire dal 2015, sono stati in media negativi per 70 mila unità l’anno.

    La regione da cui emigrano più italiani, in valore assoluto, è la Lombardia con un numero di cancellazioni anagrafiche per l’estero pari a 22 mila, seguono Veneto e Sicilia (entrambe oltre 11 mila), Lazio (10 mila) e Piemonte (9 mila). In termini relativi, rispetto alla popolazione italiana residente nelle regioni, il tasso di emigratorietà più elevato si ha in Friuli-Venezia Giulia (4 italiani su 1.000 residenti), Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta (3 italiani su 1.000), grazie anche alla posizione geografica di confine che facilita i trasferimenti con i paesi limitrofi. Tassi più contenuti si rilevano nelle Marche (2,5 per 1.000), in Veneto, Sicilia, Abruzzo e Molise (2,4 per 1.000). Le regioni con il tasso di emigratorietà con l’estero più basso sono Basilicata, Campania e Puglia, con valori pari a circa 1,3 per 1.000.

    A un maggior dettaglio territoriale, i flussi di cittadini italiani diretti verso l’estero provengono principalmente dalle prime quattro città metropolitane per ampiezza demografica: Roma (8 mila), Milano (6,5 mila), Torino (4 mila) e Napoli (3,5 mila); in termini relativi, tuttavia, rispetto alla popolazione italiana residente nelle province, sono Imperia e Bolzano (entrambe 3,6 per 1.000), seguite da Vicenza, Trieste e Isernia (3,1 per 1.000) ad avere i tassi di emigratorietà provinciali degli italiani più elevati; quelli più bassi si registrano invece a Parma e Matera (1 per 1.000).

    Nel 2018 il Regno Unito continua ad accogliere la maggioranza degli italiani emigrati all’estero (21 mila), seguono Germania (18 mila), Francia (circa 14 mila), Svizzera (quasi 10 mila) e Spagna (7 mila). In questi cinque paesi si concentra complessivamente il 60% degli espatri di concittadini. Tra i paesi extra-europei, le principali mete di destinazione sono Brasile, Stati Uniti, Australia e Canada (nel complesso 18 mila).

    Gli spostamenti interni
    Si continua a spostarsi per i lavoro dal Sud verso il Settentrione e il Centro Italia e il fenomeno è in lieve aumento. Secondo il rapporto Istat sulle iscrizioni e cancellazioni anagrafiche della popolazione residente | nel 2018, sono oltre 117 mila i movimenti da Sud e Isole che hanno come destinazione le regioni del Centro e del Nord (+7% rispetto al 2017). A soffrire sono soprattutto Sicilia e Campania, che nel 2018 perdono oltre 8.500 residenti italiani laureati di 25 anni e più per trasferimenti verso altre regioni.

    https://www.repubblica.it/cronaca/2019/12/16/news/il_rapporto_istat_sulle_migrazioni_piu_italiani_emigrati_meno_arrivi_dall_africa_-243613030/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T1

    #chiffres #migrations #émigration #solde_migratoire #statistiques #Italie #2018 #Italie

    voir aussi la métaliste ici sur des statistiques antérieures à 2018 (2014, 2015,2016) et pour 2019 :
    https://seenthis.net/messages/762801

  • #Suisse : La population a progressé moins fortement en #2018

    À fin 2018, la population de la Suisse a atteint 8 542 300 habitants, soit 58 200 personnes (+0,7%) de plus qu’en 2017. La #croissance_démographique reste sous la barre de 1%, soit une progression comparable à celles du début des années 2000. Le #solde_migratoire et l’accroissement naturel sont en baisse. Tels sont les résultats provisoires de la statistique de la population et des ménages de l’Office fédéral de la statistique (OFS).

    La population est passée de 8 484 100 personnes en 2017 à 8 542 300 en 2018 (+0,7%). Tous les cantons voient leur population augmenter, à l’exception de Neuchâtel et du Tessin. Ce dernier affiche un excédent de décès, alors que la diminution de population dans le canton de Neuchâtel découle d’un excédent de départs vers d’autres cantons. Schwyz enregistre l’accroissement de population le plus important, soit 1,2% de plus sur une année.

    Le solde migratoire reste le principal facteur de croissance

    En 2018, la Suisse a enregistré 171 700 immigrations, soit une légère augmentation de 0,4% par rapport à 2017, dont 24 000 arrivées de Suisses et 147 600 de ressortissants étrangers. Le nombre des émigrations progresse de 0,9% et s’élève à 126 200. Cette valeur se décompose en 31 800 départs de Suisses et 94 400 de ressortissants étrangers. Le solde migratoire continue à baisser (–1,0%) et s’élève à 45 500 personnes. Schwyz et Zürich sont les cantons qui présentent les soldes migratoires – international et interne – les plus importants par rapport à leur population.

    Le deuxième facteur de croissance est l’accroissement naturel de la population, c’est-à-dire la différence entre les naissances et les décès. Il s’établit provisoirement à 18 600, soit 8,9% de moins qu’en 2017. Fribourg est le canton qui présente le plus fort accroissement naturel. Le Tessin affiche l’excédent de décès le plus important.

    Croissance moins rapide de la population étrangère

    La Suisse compte 8 542 300 habitants, dont 6 395 300 ressortissants suisses (74,9%) et 2 147 000 ressortissants étrangers (25,1%). La population suisse s’accroît de 37 600 personnes, soit 0,6% de plus que l’année précédente. La population résidante permanente étrangère progresse de 20 600 personnes, soit 1,0% de plus qu’en 2017. Le taux d’accroissement est stable chez les Suisses depuis 2014. Chez les étrangers, il est en diminution depuis 2016.

    Le canton de Genève enregistre la plus forte proportion de population étrangère, soit 40%. Le nombre de ressortissants étrangers a progressé de 0,6%, passant de 198 600 en 2017 à 199 800 en 2018. Appenzell Rhodes-Intérieures affiche la part d’étrangers la plus faible, soit 11%. Leur nombre a diminué de 0,7% pour atteindre 16 100 personnes.

    Une population vieillissante

    La population âgée est de plus en plus nombreuse. Elle est essentiellement constituée de femmes. Le nombre de personnes de 65 ans ou plus est passé de 1 550 400 en 2017 à 1 577 600 en 2018, soit 1,8% de plus.

    Les personnes de plus de 64 ans représentent 18% de la population alors que les jeunes âgés de 0 à 19 ans constituent 20%. Parmi ces seniors, on compte 80 hommes pour 100 femmes contre 102 hommes pour 100 femmes chez les 20-64 ans. Dans la population féminine, on constate que la part des 65 ans ou plus est déjà supérieure à celle des jeunes femmes (20,3% contre 19,3%). Chez les hommes, par contre, la proportion de seniors est toujours inférieure à celle des jeunes hommes (16,6% contre 20,7%). Le Tessin est le canton qui compte le pourcentage le plus élevé de personnes de plus de 64 ans (22,6%), Fribourg celui qui en compte le moins (15,7%).

    Le nombre de personnes âgées de 80 ans ou plus augmente de 2,2%, pour atteindre 443 900. Parmi les plus de 79 ans, on compte 61 hommes pour 100 femmes. Près de 1600 personnes ont 100 ans ou plus. Leur nombre progresse de 4,4% par rapport à 2017. Chez les centenaires, le rapport de masculinité s’élève à 20 hommes pour 100 femmes.

    https://www.bfs.admin.ch/bfs/en/home/news/press-releases.assetdetail.7926999.html
    #solde_naturel #démographie #statistiques #chiffres #vieillissement_de_la_population

  • Les Italiens quittent en masse leur pays, mais on n’en parle pas...

    Les chiffres du Sud de l’Italie :
    https://seenthis.net/messages/614955#message730529

    Les migrants quittent aussi l’Italie :
    https://seenthis.net/messages/614955#message658660

    Nel 2002, più italiani tornavano in Italia di quanti se ne andavano. Fino al 2010, bilancio quasi in pari.
    Oggi «perdiamo» quasi 80.000 italiani l’anno.


    https://twitter.com/emmevilla/status/1165202110377603072

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    Dal 2009 al 2018 si è registrato un significativo aumento delle cancellazioni per l’estero e una riduzione dei rientri (complessivamente 816 mila espatri e 333 mila rimpatri); di conseguenza, i saldi migratori con l’estero dei cittadini italiani, soprattutto a partire dal 2015, sono stati in media negativi per 70 mila unità l’anno.

    https://seenthis.net/messages/817181

    #chiffres #migrations #émigration #solde_migratoire #statistiques #Italie #métaliste #2018

    ping @simplicissimus @reka

  • Oui, la France est bien le seul pays d’Europe à utiliser des grenades explosives contre les manifestants
    https://rmc.bfmtv.com/emission/la-france-seul-pays-au-monde-a-utiliser-des-grenades-explosives-contre-le

    Cette grenade explosive s’appelle la GLI-F4. C’est celle-ci qui avait arraché la main d’un manifestant de la #ZAD de NDDL qui avait tenté de la ramasser en 2017. C’est cette même grenade qui avait blessé au pied, en août 2017, un manifestant à Bure en Lorraine.

    Une forte explosion

    Cette grenade a trois caractéristiques quand elle explose. Elle libère du gaz lacrymogène, elle provoque un bruit intense estimé à 165 décibels dans un rayon de cinq mètres. C’est, à titre de comparaison, plus fort qu’un avion au décollage qui produit environ 140 décibels. Surtout, elle provoque une forte explosion grâce à un explosif déjà présent dans une autre grenade, la OF-F1. Celle-ci était responsable de la mort de Rémi Fraisse en octobre 2014 à Sivens. Elle a été interdite depuis.

    Même les forces de l’ordre ont reconnu que cette grenade présente un risque. En 2014, les inspections générales de la police et de la gendarmerie ont reconnu dans un rapport que ces dispositifs étaient bien “susceptibles de mutiler ou de blesser mortellement un individu”. Et qu’elles constituaient "le dernier stade avant de devoir employer des armes à feu".

    Utilisée jusqu’à épuisement des stocks

    Si elle n’a pas été interdite, la #GLI-F4 pourrait l’être prochainement. Le 24 mai 2018, selon le bulletin officiel, le ministère de l’Intérieur a indiqué qu’il allait renouveler ses stocks de grenades, mais n’a pas commandé de nouvelles GLI F4. "Il a été décidé de ne plus fabriquer de cette grenade", a expliqué le ministère. Pourtant, celle-ci continuera d’être utilisée jusqu’à épuisement des stocks.

    Elle sera remplacée par la GM2L, qui existe déjà. Selon le ministère de l’Intérieur contient aussi un effet lacrymogène et assourdissant, mais n’a pas l’effet déflagrant de la GLI-F4.

    #Maintien_de_L'ordre

  • Proportion of migrants who return to country of birth significantly higher than first thought, study suggests

    Mexico-to-US route sees largest flow in past five years, but also biggest rate of return as study suggests 45 per cent of immigrants eventually return home.

    The new method, published in the journal Proceedings of the National Academy of Sciences, found that the higher level of migration can be explained by increases in return migration – back to a person’s country of birth – which was much higher than previously thought.

    Approximately 45 per cent of migrants returned to their home country in the studied period from 1990 to 2015. This appears to be particularly relevant for those displaced by conflict.

    “We estimate a rate of return migration that is significantly higher than other methods, but it is also supported by history,” Professor Raftery said.

    “For example, during the Rwandan genocide in 1994, more than a million migrants left the country, but most returned within three years after the conflict ended.”

    Mass migration is still mainly being driven by major world conflicts and events, the study suggests. The civil war in Syria accounted for two of the top three emigration drivers between 2010 and 2015 in the study with flows from Syria to Turkey and from Syria to Lebanon accounting for 1.5 million people and 1.2 million people respectively.

    https://www.independent.co.uk/news/world/politics/migration-refugee-syria-conflict-europe-mexico-conflict-study-a869845
    #statistiques #chiffres #retour_au_pays #solde_migratoire #migrations #émigration #immigration

    Sur la situation entre #Mexique et #Etats-Unis:

    It suggests that emigration from Mexico to the United States was the biggest flow between 2010 and 2015, accounting for 2.1 million people. However the US to Mexico also had the highest rate of return migration, accounting for 1.3 million people – four times the rate of return from the United Arab Emirates to India.

    #USA

    ping @simplicissimus @reka

    • L’article scientifique cité dans l’article de l’Independent :

      Estimation of emigration, return migration, and transit migration between all pairs of countries

      Despite the importance of international migration, estimates of between-country migration flows are still imprecise. Reliable record keeping of migration events is typically available only in the developed world, and the best existing methods to produce global migration flow estimates are burdened by strong assumptions. We produce estimates of migration flows between all pairs of countries at 5-year intervals, revealing patterns obscured by previous estimation methods. In particular, our estimates reveal large bidirectional movements in all global regions, with roughly one-quarter of migration events consisting of returns to an individual’s country of birth.

      https://www.pnas.org/content/early/2018/12/18/1722334116

  • Population dynamics in Italy


    #statistiques #chiffres #cartographie #visualisation #montagne #solde_migratoire #démographie #Italie #vieillissement_de_la_population #population_étrangère #étrangers #villes

    Diapositives présentées à ce colloque par Andrea Membretti, Martina Lolini et Elisa Ravazzoli.
    http://www.empowerse.eu/events/wg2-research-seminar-tackling-the-migration-and-refugee-challenge

    Ses cartes seront apparemment publiées dans un livre qui va sortir dans quelques semaines (en italien)... je vais ajouter ici la référence quand je l’aurai.

  • How many Migrants does the Swiss Pension System Need?

    The positive role exerted by migrants to decelerate the ageing population process of developed countries has been stressed by many studies. However, the actual number of migrants needed to sustain the pension systems and its effectiveness in the long-run often remains tacit. While assuming the increment of the retired population to be the only shock, this study undertakes an accounting exercise of the Swiss public pension scheme. A ceteris-paribus analysis articulates the alternative compensatory actions, such as the increase in public expenditure, workforce through migration, retirement age, GDP and productivity, required to face the aggravating situation of the first pillar of the Swiss pension system (AHV/#AVS) between 2014 and 2045. By taking advantage of the federal structure of Switzerland, the repercussions of specific compensatory actions adopted at the national level are evaluated for each canton. In general, even though a policy mix is the most desirable, immigration could by no means be a self-sufficient solution. In fact, if immigration would be the only compensatory action to maintain the AHV/AVS at its 2014 level, the Swiss foreign population should increase, by 2045, of an extra 110% after having controlled for evolution of migration flows and stocks.


    https://nccr-onthemove.ch/publications/how-many-migrants-does-the-swiss-pension-system-need
    #retraite #assurances_sociales #suisse #économie #migrations #démographie #vieillissement_de_la_population #solde_migratoire #solde_naturel #PIB #immigration #statistiques

  • Migrants : l’irrationnel au pouvoir ?

    Les dispositifs répressifs perpétuent le « problème migratoire » qu’ils prétendent pourtant résoudre : ils créent des migrants précaires et vulnérables contraints de renoncer à leur projet de retour au pays.
    Très loin du renouveau proclamé depuis l’élection du président Macron, la politique migratoire du gouvernement Philippe se place dans une triste #continuité avec celles qui l’ont précédée tout en franchissant de nouvelles lignes rouges qui auraient relevé de l’inimaginable il y a encore quelques années. Si, en 1996, la France s’émouvait de l’irruption de policiers dans une église pour déloger les grévistes migrant.e.s, que de pas franchis depuis : accès à l’#eau et distributions de #nourriture empêchés, tentes tailladées, familles traquées jusque dans les centres d’hébergement d’urgence en violation du principe fondamental de l’#inconditionnalité_du_secours.

    La #loi_sur_l’immigration que le gouvernement prépare marque l’emballement de ce processus répressif en proposant d’allonger les délais de #rétention administrative, de généraliser les #assignations_à_résidence, d’augmenter les #expulsions et de durcir l’application du règlement de #Dublin, de restreindre les conditions d’accès à certains titres de séjour, ou de supprimer la garantie d’un recours suspensif pour certain.e.s demandeur.e.s d’asile. Au-delà de leur apparente diversité, ces mesures reposent sur une seule et même idée de la migration comme « #problème ».

    Cela fait pourtant plusieurs décennies que les chercheurs spécialisés sur les migrations, toutes disciplines scientifiques confondues, montrent que cette vision est largement erronée. Contrairement aux idées reçues, il n’y a pas eu d’augmentation drastique des migrations durant les dernières décennies. Les flux en valeur absolue ont augmenté mais le nombre relatif de migrant.e.s par rapport à la population mondiale stagne à 3 % et est le même qu’au début du XXe siècle. Dans l’Union européenne, après le pic de 2015, qui n’a par ailleurs pas concerné la France, le nombre des arrivées à déjà chuté. Sans compter les « sorties » jamais intégrées aux analyses statistiques et pourtant loin d’être négligeables. Et si la demande d’asile a connu, en France, une augmentation récente, elle est loin d’être démesurée au regard d’autres périodes historiques. Au final, la mal nommée « #crise_migratoire » européenne est bien plus une crise institutionnelle, une crise de la solidarité et de l’hospitalité, qu’une crise des flux. Car ce qui est inédit dans la période actuelle c’est bien plus l’accentuation des dispositifs répressifs que l’augmentation de la proportion des arrivées.

    La menace que représenteraient les migrant.e.s pour le #marché_du_travail est tout autant exagérée. Une abondance de travaux montre depuis longtemps que la migration constitue un apport à la fois économique et démographique dans le contexte des sociétés européennes vieillissantes, où de nombreux emplois sont délaissés par les nationaux. Les économistes répètent qu’il n’y a pas de corrélation avérée entre #immigration et #chômage car le marché du travail n’est pas un gâteau à taille fixe et indépendante du nombre de convives. En Europe, les migrant.e.s ne coûtent pas plus qu’ils/elles ne contribuent aux finances publiques, auxquelles ils/elles participent davantage que les nationaux, du fait de la structure par âge de leur population.

    Imaginons un instant une France sans migrant.e.s. L’image est vertigineuse tant leur place est importante dans nos existences et les secteurs vitaux de nos économies : auprès de nos familles, dans les domaines de la santé, de la recherche, de l’industrie, de la construction, des services aux personnes, etc. Et parce qu’en fait, les migrant.e.s, c’est nous : un.e Français.e sur quatre a au moins un.e parent.e ou un.e grand-parent immigré.e.

    En tant que chercheur.e.s, nous sommes stupéfait.e.s de voir les responsables politiques successifs asséner des contre-vérités, puis jeter de l’huile sur le feu. Car loin de résoudre des problèmes fantasmés, les mesures, que chaque nouvelle majorité s’est empressée de prendre, n’ont cessé d’en fabriquer de plus aigus. Les situations d’irrégularité et de #précarité qui feraient des migrant.e.s des « fardeaux » sont précisément produites par nos politiques migratoires : la quasi-absence de canaux légaux de migration (pourtant préconisés par les organismes internationaux les plus consensuels) oblige les migrant.e.s à dépenser des sommes considérables pour emprunter des voies illégales. La #vulnérabilité financière mais aussi physique et psychique produite par notre choix de verrouiller les frontières est ensuite redoublée par d’autres pièces de nos réglementations : en obligeant les migrant.e.s à demeurer dans le premier pays d’entrée de l’UE, le règlement de Dublin les prive de leurs réseaux familiaux et communautaires, souvent situés dans d’autres pays européens et si précieux à leur insertion. A l’arrivée, nos lois sur l’accès au séjour et au travail les maintiennent, ou les font basculer, dans des situations de clandestinité et de dépendance. Enfin, ces lois contribuent paradoxalement à rendre les migrations irréversibles : la précarité administrative des migrant.e.s les pousse souvent à renoncer à leurs projets de retour au pays par peur qu’ils ne soient définitifs. Les enquêtes montrent que c’est l’absence de « papiers » qui empêche ces retours. Nos politiques migratoires fabriquent bien ce contre quoi elles prétendent lutter.

    Les migrant.e.s ne sont pas « la #misère_du_monde ». Comme ses prédécesseurs, le gouvernement signe aujourd’hui les conditions d’un échec programmé, autant en termes de pertes sociales, économiques et humaines, que d’inefficacité au regard de ses propres objectifs.

    Imaginons une autre politique migratoire. Une politique migratoire enfin réaliste. Elle est possible, même sans les millions utilisés pour la rétention et l’expulsion des migrant.e.s, le verrouillage hautement technologique des frontières, le financement de patrouilles de police et de CRS, les sommes versées aux régimes autoritaires de tous bords pour qu’ils retiennent, reprennent ou enferment leurs migrant.e.s. Une politique d’#accueil digne de ce nom, fondée sur l’enrichissement mutuel et le respect de la #dignité de l’autre, coûterait certainement moins cher que la politique restrictive et destructrice que le gouvernement a choisi de renforcer encore un peu plus aujourd’hui. Quelle est donc sa rationalité : ignorance ou électoralisme ?

    http://www.liberation.fr/debats/2018/01/18/migrants-l-irrationnel-au-pouvoir_1623475
    Une tribune de #Karen_Akoka #Camille_Schmoll (18.01.2018)

    #irrationalité #rationalité #asile #migrations #réfugiés #préjugés #invasion #afflux #répression #précarisation #vulnérabilité #France #économie #coût

    –—

    ajouté à la métaliste sur le lien entre #économie (et surtout l’#Etat_providence) et la #migration... des arguments pour détruire l’#idée_reçue : « Les migrants profitent (voire : viennent POUR profiter) du système social des pays européens »... :

    https://seenthis.net/messages/971875

    • Karine et Camille reviennent sur l’idée de l’économie qui ne serait pas un gâteau...
      #Johan_Rochel a très bien expliqué cela dans son livre
      Repenser l’immigration. Une boussole éthique
      http://www.ppur.org/produit/810/9782889151769

      Il a appelé cela le #piège_du_gâteau (#gâteau -vs- #repas_canadien) :

      « La discussion sur les bienfaits économiques de l’immigration est souvent tronquée par le piège du gâteau. Si vous invitez plus de gens à votre anniversaire, la part moyenne du gâteau va rétrécir. De même, on a tendance à penser que si plus de participants accèdent au marché du travail, il en découlera forcément une baisse des salaires et une réduction du nombre d’emplois disponible.
      Cette vision repose sur une erreur fondamentale quant au type de gâteau que représente l’économie, puisque, loin d’être de taille fixe, celui-ci augmente en fonction du nombre de participants. Les immigrants trouvant un travail ne osnt en effet pas seulement des travailleurs, ils sont également des consommateurs. Ils doivent se loger, manger, consommer et, à ce titre, leur présence stimule la croissance et crée de nouvelles opportunités économiques. Dans le même temps, cette prospérité économique provoque de nouvelles demandes en termes de logement, mobilité et infrastructure.
      L’immigration n’est donc pas comparable à une fête d’anniversaire où la part de gâteau diminuerait sans cesse. La bonne image serait plutôt celle d’un repas canadien : chacun apporte sa contribution personnelle, avant de se lancer à la découverte de divers plats et d’échanger avec les autres convives. Assis à cette table, nous sommes à la fois contributeurs et consommateurs.
      Cette analogie du repas canadien nous permet d’expliquer pourquoi un petit pays comme la Suisse n’a pas sombré dans la pauvreté la plus totale suite à l’arrivée de milliers d’Européens. Ces immigrants n’ont pas fait diminuer la taille du gâteau, ils ont contribué à la prospérité et au festin commun. L’augmentation du nombre de personnes actives sur le marché du travail a ainsi conduit à une forte augmentation du nombre d’emplois à disposition, tout en conservant des salaires élevés et un taux de chômage faible.
      Collectivement, la Suisse ressort clairement gagnante de cette mobilité internationale. Ce bénéfice collectif ’national’ ne doit cependant pas faire oublier les situations difficiles. Les changements induits par l’immigration profitent en effet à certains, tandis que d’autres se retrouvent sous pression. C’est notamment le cas des travailleurs résidents dont l’activité ou les compétences sont directement en compétition avec les nouveaux immigrés. Cela concerne tout aussi bien des secteurs peu qualifiés (par exemple les anciens migrants actifs dans l’hôtellerie) que dans les domaines hautement qualifiés (comme le management ou la recherche).
      Sur le plan éthique, ce constat est essentiel car il fait clairement apparaître deux questions distinctes. D’une part, si l’immigration profite au pays en général, l’exigence d’une répartition équitable des effets positifs et négatifs de cette immigration se pose de manière aiguë. Au final, la question ne relève plus de la politique migratoire, mais de la redistribution des richesses produites. Le douanier imaginaire ne peut donc se justifier sous couvert d’une ’protection’ générale de l’économie.
      D’autre part, si l’immigration met sous pression certains travailleurs résidents, la question de leur éventuelle protection doit être posée. Dans le débat public, cette question est souvent présentée comme un choix entre la défense de ’nos pauvres’ ou de ’nos chômeurs’ face aux ’immigrés’. Même si l’immigration est positive pour la collectivité, certains estiment que la protection de certains résidents justifierait la mise en œuvre de politiques migratoires restrictives » (Rochel 2016 : 31-33)

    • People on the move : migration and mobility in the European Union

      Migration is one of the most divisive policy topics in today’s Europe. In this publication, the authors assess the immigration challenge that the EU faces, analyse public perceptions, map migration patterns in the EU and review the literature on the economic impact of immigration to reflect on immigration policies and the role of private institutions in fostering integration.

      http://bruegel.org/wp-content/uploads/2018/01/People_on_the_move_ONLINE.pdf
      #travail #économie #éducation #intégration #EU #UE #asile #invasion #afflux #préjugés #statistiques #chiffres

      Je copie-colle ici deux graphiques.

      Un sur le nombre de #immigrants comparé au nombre de #émigrants, où l’on voit que le #solde_migratoire (en pourcentage de la population) est souvent négatif... notamment en #France et en #Italie :

      Et un graphique sur les demandes d’asile :

    • The progressive case for immigration

      Whatever politicians say, the world needs more immigration, not less.

      “WE CAN’T restore our civilisation with somebody else’s babies.” Steve King, a Republican congressman from Iowa, could hardly have been clearer in his meaning in a tweet this week supporting Geert Wilders, a Dutch politician with anti-immigrant views. Across the rich world, those of a similar mind have been emboldened by a nativist turn in politics. Some do push back: plenty of Americans rallied against Donald Trump’s plans to block refugees and migrants. Yet few rich-world politicians are willing to make the case for immigration that it deserves: it is a good thing and there should be much more of it.

      Defenders of immigration often fight on nativist turf, citing data to respond to claims about migrants’ damaging effects on wages or public services. Those data are indeed on migrants’ side. Though some research suggests that native workers with skill levels similar to those of arriving migrants take a hit to their wages because of increased migration, most analyses find that they are not harmed, and that many eventually earn more as competition nudges them to specialise in more demanding occupations. But as a slogan, “The data say you’re wrong” lacks punch. More important, this narrow focus misses immigration’s biggest effects.

      Appeal to self-interest is a more effective strategy. In countries with acute demographic challenges, migration is a solution to the challenges posed by ageing: immigrants’ tax payments help fund native pensions; they can help ease a shortage of care workers. In Britain, for example, voters worry that foreigners compete with natives for the care of the National Health Service, but pay less attention to the migrants helping to staff the NHS. Recent research suggests that information campaigns in Japan which focused on these issues managed to raise public support for migration (albeit from very low levels).

      Natives enjoy other benefits, too. As migrants to rich countries prosper and have children, they become better able to contribute to science, the arts and entrepreneurial activity. This is the Steve Jobs case for immigration: the child of a Muslim man from Syria might create a world-changing company in his new home.

      Yet even this argument tiptoes around the most profound case for immigration. Among economists, there is near-universal acceptance that immigration generates huge benefits. Inconveniently, from a rhetorical perspective, most go to the migrants themselves. Workers who migrate from poor countries to rich ones typically earn vastly more than they could have in their country of origin. In a paper published in 2009, economists estimated the “place premium” a foreign worker could earn in America relative to the income of an identical worker in his native country. The figures are eye-popping. A Mexican worker can expect to earn more than 2.5 times her Mexican wage, in PPP-adjusted dollars, in America. The multiple for Haitian workers is over 10; for Yemenis it is 15 (see chart).

      No matter how hard a Haitian worker labours, he cannot create around him the institutions, infrastructure and skilled population within which American workers do their jobs. By moving, he gains access to all that at a stroke, which massively boosts the value of his work, whether he is a software engineer or a plumber. Defenders of open borders reckon that restrictions on migration represent a “trillion dollar bills left on the pavement”: a missed opportunity to raise the output of hundreds of millions of people, and, in so doing, to boost their quality of life.
      We shall come over; they shall be moved

      On what grounds do immigration opponents justify obstructing this happy outcome? Some suppose it would be better for poor countries to become rich themselves. Perhaps so. But achieving rich-world incomes is the exception rather than the rule. The unusual rapid expansion of emerging economies over the past two decades is unlikely to be repeated. Growth in China and in global supply chains—the engines of the emerging-world miracle—is decelerating; so, too, is catch-up to American income levels (see chart). The falling cost of automating manufacturing work is also undermining the role of industry in development. The result is “premature deindustrialisation”, a phenomenon identified by Dani Rodrik, an economist, in which the role of industry in emerging markets peaks at progressively lower levels of income over time. However desirable economic development is, insisting upon it as the way forward traps billions in poverty.

      An argument sometimes cited by critics of immigration is that migrants might taint their new homes with a residue of the culture of their countries of origin. If they come in great enough numbers, this argument runs, the accumulated toxins could undermine the institutions that make high incomes possible, leaving everyone worse off. Michael Anton, a national-security adviser to Donald Trump, for example, has warned that the culture of “third-world foreigners” is antithetical to the liberal, Western values that support high incomes and a high quality of life.

      This argument, too, fails to convince. At times in history Catholics and Jews faced similar slurs, which in hindsight look simply absurd. Research published last year by Michael Clemens and Lant Pritchett of the Centre for Global Development, a think-tank, found that migration rules tend to be far more restrictive than is justified by worries about the “contagion” of low productivity.

      So the theory amounts to an attempt to provide an economic basis for a cultural prejudice: what may be a natural human proclivity to feel more comfortable surrounded by people who look and talk the same, and to be disconcerted by rapid change and the unfamiliar. But like other human tendencies, this is vulnerable to principled campaigns for change. Americans and Europeans are not more deserving of high incomes than Ethiopians or Haitians. And the discomfort some feel at the strange dress or speech of a passer-by does not remotely justify trillions in economic losses foisted on the world’s poorest people. No one should be timid about saying so, loud and clear.

      https://www.economist.com/finance-and-economics/2017/03/18/the-progressive-case-for-immigration?fsrc=scn/fb/te/bl/ed/theprogressivecaseforimmigrationfreeexchange?fsrc=scn/tw/te/bl/ed/theprogressivecaseforimmigrationfreeexchange

    • #Riace, l’economia e la rivincita degli zero

      Premessa

      Intendiamoci, il ministro Salvini può fare tutto quello che vuole. Criminalizzando le ONG può infangare l’operato di tanti volontari che hanno salvato migliaia di persone dall’annegamento; può chiudere i porti ai migranti, sequestrarli per giorni in una nave, chiudere gli Sprar, ridurre i finanziamenti per la loro minima necessaria accoglienza; può togliere il diritto ai migranti di chiedere lo stato di rifugiato, può cancellare modelli di integrazione funzionanti come Riace, può istigare all’odio razziale tramite migliaia di post su facebook in una continua e ansiosa ricerca del criminale (ma solo se ha la pelle scura). Al ministro Salvini è permesso tutto: lavorare sulle paure delle persone per incanalare la loro frustrazione contro un nemico inventato, può persino impedire a dei pullman di raggiungere Roma affinché le persone non possano manifestare contro di lui. Può prendersela con tutti coloro che lo criticano, sdoganare frasi del cupo ventennio fascista, minacciare sgomberi a tutti (tranne che a casapound) e rimanendo in tema, può chiedere il censimento dei ROM per poterli cacciare. Può fare tutto questo a torso nudo, tramite una diretta facebook, chiosando i suoi messaggi ai suoi nemici giurati con baci e abbracci aggressivo-passivi, o mostrandosi sorridente nei suoi selfie durante le tragedie che affliggono il nostro paese. Al ministro Salvini è permesso di tutto, non c’è magistratura o carta costituzionale che tenga.

      Ma una cosa è certa: il ministro Salvini non può vietare alle persone di provare empatia, di fare ed essere rete, di non avere paura, di non essere solidale. E soprattutto, il ministro Salvini, non può impedirci di ragionare, di analizzare lo stato dell’arte tramite studi e ricerche scientifiche, capire la storia, smascherare il presente, per provare a proporre valide alternative, per un futuro più aperto ed inclusivo per la pace e il benessere delle persone.

      Tutto questo è lo scopo del presente articolo, che dedico a mio padre. Buona lettura.

      I migranti ci aiutano a casa nostra

      In un mio precedente post, sempre qui su Econopoly, ho spiegato -studi alla mano- come fosse conveniente, anche e soprattutto dal punto di vista economico, avere una politica basata sull’accoglienza: la diversità e la relativa inclusione conviene a tutti. Molti dei commenti critici che ho avuto modo di leggere sui social, oltre alle consuete offese degli instancabili haters possono riassumersi in un solo concetto: “gli altri paesi selezionano i migranti e fanno entrare solo quelli qualificati, mentre in Italia accogliamo tutti”. Premesso che non è così, che l’Italia non è l’unico paese ad offrire ospitalità a questo tipo di migranti, e che non tutte le persone disperate che raggiungono le nostre coste sono poco istruite, non voglio sottrarmi alla critica e voglio rispondere punto su punto nel campo di gioco melmoso e maleodorante da loro scelto. Permettetemi quindi di rivolgermi direttamente a loro, in prima persona.

      Prima di tutto mi chiedo come si possa sperare di attirare migranti “qualificati” se non riusciamo neanche a tenerci le nostre migliori menti. Il nostro problema principale è infatti l’emigrazione, non l’immigrazione: più di 250mila italiani emigrano all’estero, perché l’Italia non è più capace di offrire loro un futuro dignitoso. Ma tutto questo evidentemente non rientra tra le priorità del governo del cambiamento.

      Tolti i migranti “qualificati”, ci rimangono quindi quelli che gli anglosassoni definiscono “low skilled migrants”, e le obiezioni che i nostri amici rancorosi ci pongono sono sempre le stesse: “per noi sono solo un costo”, “prima gli italiani che non arrivano alla fine del mese”, “ospitateli a casa vostra”, e così via vanverando. Proviamo a rispondere con i numeri, con i dati, sempre che i dati possano avere ancora un valore in questo paese in perenne campagna elettorale, sempre alla ricerca del facile consenso. Correva l’anno 2016, un numero record di sbarchi raggiungeva le nostre coste e lo stato spendeva per loro ben 17,5 miliardi di spesa pubblica. Bene, prima che possiate affogare nella vostra stessa bava, senza che nessuna ONG possa venirvi a salvare, sappiate che gli introiti dello Stato grazie ai contributi da loro versati, nelle varie forme, è stato di 19,2 miliardi: in pratica con i contributi dei migranti lo stato ha guadagnato 1,7 miliardi di euro. Potete prendervela con me che ve lo riporto, o magari con il centro studi e ricerche Idos e con il centro Unar (del dipartimento delle pari opportunità) che questo report lo hanno prodotto, ma la realtà non cambia. Forse fate prima a cambiare voi la vostra percezione, perché dovremmo ringraziarli quei “low skilled migrants”, visto che con quel miliardo e sette di euro ci hanno aiutato a casa nostra, pagando -in parte- la nostra pensione, il nostro ospedale, la nostra scuola.

      Studi confermano che i migranti contribuiscono al benessere del paese ospitante

      Prima di andare avanti in questo discorso, vale la pena di menzionare un importante e imponente studio di Giovanni Peri e Mette Foged del 2016: i due autori hanno esaminato i salari di ogni singola persona in Danimarca per un periodo di ben 12 anni, nei quali vi era stato un forte afflusso di migranti. Il governo danese distribuì i rifugiati per tutto il territorio, fornendo agli economisti tutti i dati necessari per permettere a loro di analizzarli. Da questi dati emerse che i danesi che avevano i rifugiati nelle vicinanze, avevano visto i propri salari crescere molto più velocemente, rispetto ai connazionali senza rifugiati. Questo si spiega perché i low skilled migrants essendo poco istruiti, generalmente vanno a coprire quei lavori che non richiedono particolari competenze, permettendo -per contrasto- ai locali di specializzarsi nei lavori che invece sono meglio pagati, perché più produttivi.

      Quando i migranti non convengono e sono solo un costo

      Tuttavia i migranti, per poter versare i propri contributi allo stato, devono -ovviamente- essere messi in grado di lavorare. Non sto dicendo che si debba trovare loro un lavoro, perché sono capaci di farlo da soli, ma semplicemente di dare a loro i necessari permessi burocratici per poter vivere, lavorare, consumare, spendere. Questo alimenterebbe un mercato del lavoro -che molti italiani ormai disdegnano- e aumenterebbe l’indotto delle vendite di beni di consumo ai “nostri” piccoli commercianti italiani e non.

      “Potrebbe sembrare controintuitivo, ma i paesi che hanno politiche più severe e restrittive nei confronti dei rifugiati, finiscono per avere un costo maggiore per il mantenimento dei migranti”, afferma Erik Jones, professore alla Johns Hopkins University School. Quindi paradossalmente (ma neanche tanto), più rinchiudiamo i migranti nei centri di accoglienza senza permettere a loro di avere una vita e un lavoro, più sale il loro costo a spese dei cittadini italiani.

      Le conseguenze del decreto sicurezza

      Stranamente è proprio questa la direzione che il ministro Salvini ha deciso di intraprendere con il suo “decreto sicurezza”: togliendo lo SPRAR ai migranti e rendendo più difficoltosa la possibilità di richiedere asilo, verrà impedito a loro di integrarsi nel tessuto sociale del nostro paese, di lavorare, di produrre ricchezza. Insomma questo decreto finiranno per pagarlo caramente gli italiani, che per il ministro Salvini, sarebbero dovuti “venire prima” (forse intendeva alla cassa).

      Non è un caso se al momento in cui scrivo città come Torino, Bergamo, Bologna e Padova hanno espresso forti preoccupazioni nel far attuare il cosiddetto “decreto sicurezza” firmato da Salvini. Il fatto che a Torino governi il m5s che siede nei banchi di governo insieme al ministro degli interni, ha provocato non pochi mal di pancia dentro la maggioranza e conferma quanto questo decreto sia in realtà molto pericoloso per gli italiani stessi. «Io capisco che siamo in campagna elettorale permanente – ha concluso Sergio Giordani ma non si possono prendere decisioni sulla pelle delle persone. Che si scordino di farlo su quella dei padovani», ha affermato il sindaco di Padova. Non è un lapsus, ha proprio detto “sulla pelle dei padovani”, non dei migranti.

      Perché il modello Riace ha funzionato

      Un interessante studio, diretto dal Prof. Edward Taylor, per la Harvard Business Review, ci spiega quali sono le giuste modalità che permettano ai migranti di sostenere l’economia del paese ospitante, e lo fa spiegandoci due importanti lezioni che ha imparato dopo aver studiato attentamente i costi economici e i benefici di tre campi in Rwanda gestiti dall’UNCHR:
      1. Give cash, not food. La prima lezione imparata è quella di fornire direttamente i soldi ai migranti per comprarsi il cibo e di non dare a loro direttamente il cibo. Questo serve ad alimentare il mercato locale, aiutando in un’ottica win-win i contadini locali e i piccoli commercianti del posto
      2. Promote long-term integration. La seconda lezione imparata che ci spiega il prof. Edward Taylor, riguarda il necessario tempo di integrazione che si deve concedere ai migranti, al fine di permettere un importante ritorno economico al paese ospitante: in poche parole i migranti devono avere il tempo di sistemarsi, di creare una forza lavoro locale, di integrarsi nel tessuto sociale del luogo ospitante

      Quando ho letto questo studio non ho potuto fare altro che pensare all’esperienza di Riace, considerata giustamente un modello vincente di integrazione, diventato famoso in tutto il mondo: infatti quello che consiglia il Prof Taylor è esattamente ciò che ha fatto il sindaco Domenico Lucano nel suo paese! La ricetta è talmente la stessa, che ad un certo punto ho pensato di aver letto male e che il Prof. Taylor si riferisse, in realtà, all’esperienza del paesino calabrese, non a quella del Rwanda.

      Per quanto riguarda il primo punto, il sindaco Lucano si è dovuto inventare una moneta locale per permettere ai migranti di essere indipendenti e di spenderli nel territorio ospitante, promuovendo ed aiutando l’economia dell’intero paese; per quanto riguarda il secondo punto, Lucano ha trasformato la natura dei fondi dello SPRAR, che in realtà prevedono una sistemazione del migrante in soli sei mesi, in una integrazione a medio e lungo termine. Per permettere ai migranti di ritornare un valore (anche economico), è necessario del tempo, ed è obiettivamente impossibile immaginarlo fattibile nel limite temporale dei sei mesi. E’ importante sottolineare come le accuse che gli vengono mosse dalla magistratura, che gli sta attualmente impedendo di tornare nella sua Riace, nascano proprio da questo suo approccio ben descritto nelle due lezioni del Prof. Taylor. Altro concetto importante da ribadire è che all’inizio, il sindaco Lucano, si è mosso in questa direzione principalmente per aiutare i suoi compaesani italiani, visto che il paese si stava spopolando. Ad esempio, l’asilo era destinato a chiudere, ma grazie ai figli dei migranti questo non è accaduto.

      Tutto questo mi ha fatto pensare al sindaco di Riace, come ad un vero e proprio manager illuminato, oltre che ad una persona di una generosità smisurata, non certamente ad un criminale da punire ed umiliare in questo modo.

      Lunga vita a Riace (grazie alla rete)

      Dovremmo essere tutti riconoscenti al sindaco Riace, ma non solo esprimendogli solidarietà con le parole. Ho pertanto deciso di concludere questo articolo con delle proposte concrete che possano aiutare Lucano, i riacesi e i migranti che vi abitano. Ognuno può dare il proprio “give-back” al Sindaco Lucano, in base al proprio vissuto, ai propri interessi, alle proprie competenze. Ad esempio, per il lavoro che faccio, a me viene facile pensare che la Digital Transformation che propongo alle aziende possa aiutare in modo decisivo Riace e tutte le “Riaci del mondo” che vogliano provare ad integrare e non a respingere i migranti. Penso ad esempio che Riace meriti una piattaforma web che implementi almeno tre funzioni principali:
      1. Funzione divulgativa, culturale. E’ necessario far conoscere le storie delle persone, perché si è stranieri solo fino a quando non ci si conosce l’un l’altro. Per questo penso, ad esempio, ad una web radio, magari ispirata all’esperienza di Radio Aut di Peppino Impastato, visto che Mimmo lo considera, giustamente, una figura vicina alle sue istanze. Contestualmente, sempre attraverso la piattaforma web farei conoscere, tramite dei video molto brevi, le storie e le testimonianze dei singoli migranti
      2. Funzione di sostentamento economico. Ogni migrante infatti potrebbe avere un profilo pubblico che potrebbe permettere a tutti noi non solo di conoscere la sua storia ma anche di aiutarlo economicamente, comprando i suoi prodotti, che possano essere di artigianato o di beni di consumo come l’olio locale di Riace. Insomma, una piattaforma che funzionerebbe da e-commerce, seppur con una forte valenza etica. Infatti il “made in Riace”, potrebbe diventare un brand, la garanzia che un commercio equo e solidale possa essere veramente possibile, anche in questo mondo
      3. Funzione di offerta lavoro. La piattaforma potrebbe ospitare un sistema che metta in comunicazione la domanda con l’offerta di lavoro. Penso ai tanti lavori e lavoretti di cui la popolazione locale potrebbe avere bisogno, attratta magari dai costi più bassi: il muratore, l’elettricista, l’idraulico, etc. Per non parlare di professioni più qualificanti, perché spesso ad imbarcarsi nei viaggi della speranza ci sono anche molti dottori e professionisti

      Ed infine, sempre grazie alla rete, i migranti di un paesino sperduto come Riace, potrebbero tenere lezioni di inglese e francese, tramite skype, a milioni di italiani (che ne hanno veramente bisogno). Credo infine che -rimanendo in tema- potrebbero nascere a Riace, come in tanti altri paesi del nostro belpaese, anche dei laboratori di informatica visto che attualmente moltissime società per trovare un programmatore disponibile sono costrette a cercarlo fuori Italia, data la spropositata differenza tra la domanda e l’offerta in questo settore in continua evoluzione.

      Se al sindaco Lucano interessa, il mio personale give-back è tutto e solo per lui.

      Conclusioni

      Il ministro Salvini, che può tutto, ha definito il sindaco di Riace “uno zero”, pensando di offenderlo ma è evidente che non lo conosce affatto. Come non conosce affatto le dinamiche della rete, nonostante il suo entourage social si vanti di aver creato il profilo pubblico su facebook con più followers. Ma é proprio questo lo sbaglio di fondo, il grande fraintendimento: la rete non è mai stata pensata in ottica di “followers e following”, questa è una aberrazione dei social network che nulla ha a che fare con la rete e le sue origini. La rete è nata per condividere, collaborare, comunicare, contaminare. Ricordiamoci che grazie alla rete, in pochissimi giorni, si sono trovati i fondi per permettere ai figli dei migranti di usufruire della mensa scolastica dei propri bambini, che leghista di Lodi gli aveva tolto. Siamo tutti degli zero, ministro Salvini, non solo il sindaco Riace. Ma lei, sig. ministro, non ha minimamente idea di cosa siano capace di fare gli zero, quando si uniscono con gli uni, se lo faccia dire da un informatico. La rete è solidale by design.

      https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2018/11/11/riace-economia-rivincita-degli-zero/?refresh_ce=1

    • L’immigration rapporte 3 500 euros par individu chaque année

      D’après un rapport de l’OCDE dévoilé par La Libre Belgique, l’immigration « rapporterait » en moyenne près de 3.500 euros de rentrées fiscales par individu par an . Toutefois, l’insertion d’une partie d’entre eux ferait toujours l’objet de discrimination : un véritable gâchis pour les économistes et les observateurs.

      https://www.levif.be/actualite/belgique/l-immigration-rapporte-3-500-euros-par-individu-chaque-annee/article-normal-17431.html?cookie_check=1545235756

      signalé par @kassem :
      https://seenthis.net/messages/745460

    • The progressive case for immigration. Whatever politicians say, the world needs more immigration, not less

      “WE CAN’T restore our civilisation with somebody else’s babies.” Steve King, a Republican congressman from Iowa, could hardly have been clearer in his meaning in a tweet this week supporting Geert Wilders, a Dutch politician with anti-immigrant views. Across the rich world, those of a similar mind have been emboldened by a nativist turn in politics. Some do push back: plenty of Americans rallied against Donald Trump’s plans to block refugees and migrants. Yet few rich-world politicians are willing to make the case for immigration that it deserves: it is a good thing and there should be much more of it.

      Defenders of immigration often fight on nativist turf, citing data to respond to claims about migrants’ damaging effects on wages or public services. Those data are indeed on migrants’ side. Though some research suggests that native workers with skill levels similar to those of arriving migrants take a hit to their wages because of increased migration, most analyses find that they are not harmed, and that many eventually earn more as competition nudges them to specialise in more demanding occupations. But as a slogan, “The data say you’re wrong” lacks punch. More important, this narrow focus misses immigration’s biggest effects.

      Appeal to self-interest is a more effective strategy. In countries with acute demographic challenges, migration is a solution to the challenges posed by ageing: immigrants’ tax payments help fund native pensions; they can help ease a shortage of care workers. In Britain, for example, voters worry that foreigners compete with natives for the care of the National Health Service, but pay less attention to the migrants helping to staff the NHS. Recent research suggests that information campaigns in Japan which focused on these issues managed to raise public support for migration (albeit from very low levels).

      Natives enjoy other benefits, too. As migrants to rich countries prosper and have children, they become better able to contribute to science, the arts and entrepreneurial activity. This is the Steve Jobs case for immigration: the child of a Muslim man from Syria might create a world-changing company in his new home.

      Yet even this argument tiptoes around the most profound case for immigration. Among economists, there is near-universal acceptance that immigration generates huge benefits. Inconveniently, from a rhetorical perspective, most go to the migrants themselves. Workers who migrate from poor countries to rich ones typically earn vastly more than they could have in their country of origin. In a paper published in 2009, economists estimated the “place premium” a foreign worker could earn in America relative to the income of an identical worker in his native country. The figures are eye-popping. A Mexican worker can expect to earn more than 2.5 times her Mexican wage, in PPP-adjusted dollars, in America. The multiple for Haitian workers is over 10; for Yemenis it is 15 (see chart).

      No matter how hard a Haitian worker labours, he cannot create around him the institutions, infrastructure and skilled population within which American workers do their jobs. By moving, he gains access to all that at a stroke, which massively boosts the value of his work, whether he is a software engineer or a plumber. Defenders of open borders reckon that restrictions on migration represent a “trillion dollar bills left on the pavement”: a missed opportunity to raise the output of hundreds of millions of people, and, in so doing, to boost their quality of life.
      We shall come over; they shall be moved

      On what grounds do immigration opponents justify obstructing this happy outcome? Some suppose it would be better for poor countries to become rich themselves. Perhaps so. But achieving rich-world incomes is the exception rather than the rule. The unusual rapid expansion of emerging economies over the past two decades is unlikely to be repeated. Growth in China and in global supply chains—the engines of the emerging-world miracle—is decelerating; so, too, is catch-up to American income levels (see chart). The falling cost of automating manufacturing work is also undermining the role of industry in development. The result is “premature deindustrialisation”, a phenomenon identified by Dani Rodrik, an economist, in which the role of industry in emerging markets peaks at progressively lower levels of income over time. However desirable economic development is, insisting upon it as the way forward traps billions in poverty.

      An argument sometimes cited by critics of immigration is that migrants might taint their new homes with a residue of the culture of their countries of origin. If they come in great enough numbers, this argument runs, the accumulated toxins could undermine the institutions that make high incomes possible, leaving everyone worse off. Michael Anton, a national-security adviser to Donald Trump, for example, has warned that the culture of “third-world foreigners” is antithetical to the liberal, Western values that support high incomes and a high quality of life.

      This argument, too, fails to convince. At times in history Catholics and Jews faced similar slurs, which in hindsight look simply absurd. Research published last year by Michael Clemens and Lant Pritchett of the Centre for Global Development, a think-tank, found that migration rules tend to be far more restrictive than is justified by worries about the “contagion” of low productivity.

      So the theory amounts to an attempt to provide an economic basis for a cultural prejudice: what may be a natural human proclivity to feel more comfortable surrounded by people who look and talk the same, and to be disconcerted by rapid change and the unfamiliar. But like other human tendencies, this is vulnerable to principled campaigns for change. Americans and Europeans are not more deserving of high incomes than Ethiopians or Haitians. And the discomfort some feel at the strange dress or speech of a passer-by does not remotely justify trillions in economic losses foisted on the world’s poorest people. No one should be timid about saying so, loud and clear.

      https://www.economist.com/finance-and-economics/2017/03/18/the-progressive-case-for-immigration?fsrc=scn/tw/te/bl/ed
      #USA #Etats-Unis

    • Migrants contribute more to Britain than they take, and will carry on doing so. Reducing immigration will hurt now, and in the future

      BRITAIN’S Conservative Party has put reducing immigration at the core of its policies. Stopping “uncontrolled immigration from the EU”, as Theresa May, the prime minister, put it in a speech on September 20th, appears to be the reddest of her red lines in the negotiations over Brexit. Any deal that maintains free movement of people, she says, would fail to respect the result of the Brexit referendum.

      In her “Chequers” proposal, Mrs May outlined her vision of Britain’s future relationship with the block, which would have placed restrictions on immigration from the EU. But the block rejected it as unworkable, and the stalemate makes the spectre of a chaotic Brexit next March without any agreement far more likely.

      Even if she were to manage to reduce migration significantly, however, Mrs May’s successors might come to regret it. According to the government’s latest review on immigration, by the Migration Advisory Committee (MAC), immigrants contribute more to the public purse on average than native-born Britons do. Moreover, European newcomers are the most lucrative group among them. The MAC reckons that each additional migrant from the European Economic Area (EEA) will make a total contribution to the public purse of approximately £78,000 over his or her lifetime (in 2017 prices). Last year, the average adult migrant from the EEA yielded £2,370 ($3,000) more for the Treasury than the average British-born adult did. Even so, the MAC recommended refining the current immigration system to remove the cap on high-skilled migrants and also said that no special treatment should be given to EU citizens.

      With Britain’s population ageing, the country could do with an influx of younger members to its labour force. If net migration were reduced to the Tories’ target of fewer than 100,000 people per year by 2030, every 1,000 people of prime working age (20-64) in Britain would have to support 405 people over the age of 65. At the present level of net migration, however, those 1,000 people would have to support only 389. This gap of 16 more pension-aged people rises to 44 by 2050. The middle-aged voters who tend to support the Conservatives today are the exact cohort whose pensions are at risk of shrinking if their desired immigration policies were put into practice.

      https://www.economist.com/graphic-detail/2018/09/26/migrants-contribute-more-to-britain-than-they-take-and-will-carry-on-doing-so?fsrc=scn/tw/te/bl/ed/migrantscontributemoretobritainthantheytakeandwillcarryondoingsodailychar
      #UK #Angleterre

    • Étude sur l’impact économique des migrants en Europe : « Les flux migratoires sont une opportunité et non une charge »

      Pour #Ekrame_Boubtane, la co-auteure de l’étude sur l’impact positif de la migration sur l’économie européenne (https://seenthis.net/messages/703437), « les flux migratoires ont contribué à améliorer le niveau de vie moyen ».

      Selon une étude du CNRS, les migrants ne sont pas une charge économique pour l’Europe. L’augmentation du flux de migrants permanent produit même des effets positifs. C’est ce que démontre Ekrame Boubtane, économiste, maître de conférence à l’Université Clermont Auvergne, co-auteure de l’étude sur l’impact positif de la migration sur l’économie européenne.

      Cette étude intervient alors que la Hongrie, dirigée par Viktor Orban, met en place une nouvelle loi travail qui autorise les employeurs à demander à leurs salariés 400 heures supplémentaires par an, payées trois ans plus tard. Cette disposition, adoptée dans un contexte de manque de main d’oeuvre, est dénoncée par ses opposants comme un « droit à l’esclavage » dans un pays aux salaires parmi les plus bas de l’UE

      500 000 Hongrois sont partis travailler à l’Ouest ces dernières années, là où les salaires sont deux à trois fois plus élevés. La nouvelle loi travail portée par le gouvernement hongrois est-elle une solution au manque de main d’oeuvre dans le pays selon vous ?

      Ekrame Boubtane : C’est un peu curieux de répondre à un besoin de main d’oeuvre en remettant en cause les droits des travailleurs qui restent en Hongrie. Je pense que c’est un mauvais signal qu’on envoie sur le marché du travail hongrois en disant que les conditions de travail dans le pays vont se détériorer encore plus, incitant peut-être même davantage de travailleurs hongrois à partir dans d’autres pays.

      Ce qui est encore plus inquiétant, c’est que le gouvernement hongrois a surfé politiquement sur une idéologie anti-immigration [avec cette barrière à la frontière serbe notamment où sont placés des barbelés, des miradors...] et aujourd’hui il n’a pas une position rationnelle par rapport au marché du travail en Hongrie. Proposer ce genre de mesure ne semble pas très pertinent du point de vue de l’ajustement sur le marché du travail.

      En Hongrie, six entreprises sur dix sont aujourd’hui en situation de fragilité. La pénurie de main d’oeuvre dans certains secteurs en tension pourrait-elle être compensée par l’immigration aujourd’hui ?

      Je suppose que la législation hongroise en matière de travail est très restrictive pour l’emploi de personnes étrangères, mais ce qu’il faut aussi préciser c’est que les Hongrois qui sont partis travailler dans les autres pays européens n’ont pas forcément les qualifications ou les compétences nécessaires dans ces secteurs en tension. Ce sont des secteurs (bâtiment, agroalimentaire) qui ont besoin de main d’oeuvre. Ce sont des emplois relativement pénibles, payés généralement au niveau minimum et qui ne sont pas très attractifs pour les nationaux.

      Les flux migratoires sont une source de main d’oeuvre flexible et mobile. L’Allemagne comme la France ont toujours eu un discours plutôt rationnel et un peu dépassionné de la question migratoire. Je pense à une initiative intéressante en Bretagne où le secteur agroalimentaire avait des difficultés pour pourvoir une centaine de postes. Le pôle emploi local n’a pas trouvé les travailleurs compétents pour ces tâches-là. Le Conseil régional Bretagne et Pôle Emploi ont donc investi dans la formation de migrants, principalement des Afghans qui venaient d’avoir la protection de l’Ofpra [Office français de protection des réfugiés et apatrides]. Ils les ont formés, et notamment à la maîtrise de la langue, pour pourvoir ces postes.

      Les flux migratoires peuvent donc être une chance pour les économies européennes ?

      C’est ce que démontrent tous les travaux de recherches scientifiques. Lorsque l’on va parler de connaissances ou de savoir plutôt que d’opinions ou de croyances, les flux migratoires dans les pays européens sont une opportunité économique et non pas une charge. Lorsqu’on travaille sur ces questions-là, on voit clairement que les flux migratoires ont contribué à améliorer le niveau de vie moyen ou encore le solde des finances publiques.

      On oublie souvent que les migrants - en proportion de la population - permettent de réduire les dépenses de retraite donc ils permettent de les financer. Généralement on se focalise sur les dépenses et on ne regarde pas ce qui se passe du côté des recettes, alors que du côté des recettes on établit clairement que les migrants contribuent aussi aux recettes des administrations publiques et donc, finalement, on a une implication des flux migratoires sur le solde budgétaire des administrations publiques qui est positif et clairement identifié dans les données.

      https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/migrants/etude-sur-l-impact-economique-des-migrants-en-europe-les-flux-migratoir

    • Une étude démontre que les migrants ne sont pas un fardeau pour les économies européennes

      Le travail réalisé par des économistes français démontre qu’une augmentation du flux de migrants permanents à une date donnée produit des effets positifs jusqu’à quatre ans après.

      Une étude réalisée par des économistes français et publiée dans le magazine Sciences advences, mercredi 20 juin, démontre que les migrants ne sont pas un fardeau pour les économies européennes. Les trois chercheurs du CNRS, de l’université de Clermont-Auvergne et de Paris-Nanterre se sont appuyés sur les données statistiques de quinze pays de l’Europe de l’Ouest, dont la France. Les chercheurs ont distingué les migrants permanents des demandeurs d’asile, en situation légale le temps de l’instruction de leur demande et considérés comme résidents une fois leur demande acceptée.

      Pendant la période étudiée entre 1985 et 2015, l’Europe de l’Ouest a connu une augmentation importante des flux de demandeurs d’asile à la suite des guerres dans les Balkans et à partir de 2011, en lien avec les Printemps arabes et le conflit syrien. Les flux de migrants, notamment intracommunautaires, ont eux augmenté après l’élargissement de l’Union européenne vers l’Est en 2004.
      Une hausse du flux de migrants produits des effets positifs

      L’étude démontre qu’une augmentation du flux de migrants permanents à une date donnée produit des effets positifs jusqu’à quatre ans après : le PIB par habitant augmente, le taux de chômage diminue et les dépenses publiques supplémentaires sont plus que compensées par l’augmentation des recettes fiscales. Dans le cas des demandeurs d’asile, les économistes n’observent aucun effet négatif. L’impact positif se fait sentir au bout de trois à cinq ans, lorsqu’une partie des demandeurs obtient l’asile et rejoint la catégorie des migrants permanents.

      « Il n’y a pas d’impacts négatifs. Les demandeurs d’asile ne font pas augmenter le chômage, ne réduisent pas le PIB par tête et ils ne dégradent pas le solde des finances publiques. Il y a des effets positifs sur les migrations qui sont un petit peu polémiques parce que tout le monde n’y croit pas. Ce qui est intéressant, c’est de voir que cela ne dégrade pas la situation des finances publiques européennes » a expliqué, jeudi 21 juin sur franceinfo, Hippolyte d’Albis, directeur de recherche au CNRS, professeur à l’École d’économie de Paris et co-auteur de l’étude sur l’impact des demandeurs d’asile sur l’économie.
      Investir pour rapidement intégrer le marché du travail

      « Trente ans d’accueil de demandeurs d’asile dans les quinze principaux pays d’Europe nous révèlent qu’il n’y a pas eu d’effets négatifs, explique Hippolyte d’Albis. Evidemment il y a un coût, ces personnes vont être logées, parfois recevoir une allocation, mais cet argent va être redistribué dans l’économie. Il ne faut pas voir qu’un côté, nous on a vu le côté des impôts et on a vu que ça se compensait. L’entrée sur le marché du travail, donc la contribution à l’économie va prendre du temps et ce n’est pas efficace. Il vaut mieux investir pour qu’il puisse rapidement intégrer le marché du travail. »

      En 2015, un million de personnes ont demandé l’asile dans l’un des pays de l’Union européenne selon le Haut-commissariat des Nations unies pour les réfugiés, ce qui est un record. Les chercheurs estiment donc qu’il est peu probable que la crise migratoire en cours soit une charge économique pour les économies européennes. Elle pourrait être au contraire une opportunité.

      https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/migrants/une-etude-demontre-que-les-migrants-ne-sont-pas-un-fardeau-pour-les-eco

    • L’impact économique positif des réfugiés sur les économies européennes

      En cette journée mondiale des réfugiés, la Bulle Economique s’intéresse à leur impact économique dans les pays d’Europe. Une étude récente montre qu’ils sont loin d’être un « fardeau ». Au contraire.

      Dans un récent tweet, la présidente du Rassemblement National se scandalisait de lire que les comptes de la Sécurité sociale allaient être sérieusement grevés par les mesures destinées aux gilets jaunes. « Incroyable de lire ça, écrit Marine Le Pen, et l’AME ça ne creuse pas le trou de la Sécu ? »

      L’AME, c’est l’Aide Médicale d’Etat, proposée aux étrangers en situation irrégulière pour leur permettre d’accéder aux soins, et abondé non pas par le budget de la sécurité sociale, mais par celui de l’Etat. Une erreur rapidement pointée du doigt par des députés, qui ont ironiquement proposé à Marine Le Pen de s’intéresser de plus près à ces deux budgets discutés tous les ans au Parlement.

      Mais au delà de cette question démagogique proposée au détour d’un tweet, la présidente du parti d’extrême droite réutilise l’argument de l’impact économique soi disant trop lourd qu’auraient les réfugiés sur les finances publiques de la France. Argument remis en cause par trois économistes du CNRS dont les travaux ont été publiés il y a un an tout juste dans la revue Sciences. Une étude à retrouver en cliquant ici.
      Un regard macro-économique

      Hippolyte d’Albis, Ekrame Boubtane et Dramane Coulibaly ont appliqué aux flux migratoires des réfugiés, les méthodes traditionnellement utilisées pour mesurer l’impact macro-économique des politiques structurelles. Ils l’ont fait pour 15 pays européens depuis 1985 jusqu’en 2015, des données statistiques qui permettent de mesurer l’effet de ces flux sur les finances publiques, le PIB par habitant et le taux de chômage. On parle ici de personnes ayant fait une demande d’asile, et présentes sur le territoire le temps de l’instruction de cette demande. Période pendant laquelle ils n’ont pas le droit de travailler. Soit, pour la France une moyenne de 20 000 entrées sur le territoire par an environ, contre 200 000 migrations de travail légales.

      Au total ces 30 ans de données statistiques font apparaître que les dépenses publiques causées par ces réfugiées sont plus que compensées par les gains économiques induits par ces mêmes réfugiés. Les auteurs font ainsi valoir que les chocs d’immigration comme a pu en connaitre l’Europe au moment de ce qu’on a appelé la crise des réfugiés, dont le pic a été atteint en 2015, ces chocs ont eu des effets positifs : ils ont augmenté le PIB par habitant, ont réduit le taux de chômage, et amélioré les finances publiques.

      S’il est vrai qu’ils induisent des dépenses publiques supplémentaires pour les accueillir, les accompagner ou les soigner le cas échéant, ce qu’ils rapportent en revenus supplémentaires, notamment fiscaux, compensent, parfois largement, leur coût. Cet impact globalement positif dure longtemps : parfois 3 à 7 années après leur arrivée, selon les auteurs de l’étude.

      Les auteurs, mais aussi d’autres chercheurs dans d’autres études qui vont dans le même sens (notamment cette étude de Clemens, Huang et Graham qui montre que les réfugiés peuvent être d’une immense contribution économique dans les pays dans lesquels ils s’installent) font remarquer que plus les états investissent tôt dans l’accueil, la formation et l’accompagnement des réfugiés, meilleure sera leur intégration et leur bénéfice économique final.
      L’Europe de mauvaise volonté

      Ce qui ressort de cette étude, c’est que l’Europe peut tout à fait se permettre d’accueillir ces demandeurs d’asile, car leur flux est quoiqu’on en dise très limité, comparé par exemple aux afflux de populations réfugiées qu’ont à supporter des pays comme le Jordanie ou le Liban.

      Le Liban dont les 4 millions d’habitants ont vu affluer un million et demi de réfugiés syriens. Les conséquences de ce « choc d’immigration » ( et dans ce cas l’expression est juste) pour un petit Etat comme le Liban, sont très différentes : le taux de chômage a augmenté, la pauvreté s’est répandue, notamment à cause d’une plus grande concurrence sur le marché du travail selon le FMI, la croissance a ralenti, quand la dette du Liban s’est alourdie à 141 % du PIB. A tel point que la communauté internationale s’est engagée à soutenir l’économie libanaise, qui a supporté, à elle seule, la plus grande partie du flux de réfugiés syriens.

      Rien que pour cela, constate l’un des auteurs de l’étude du CNRS, l’Europe, qui fournit un quart du PIB mondial, devrait modérer ses discours parfois alarmistes. En parlant de « crise des réfugiés », elle accrédite le fait que leur afflux serait un danger économique, s’exonérant par là d’autres impératifs, humanitaires et moraux.*

      https://www.franceculture.fr/emissions/la-bulle-economique/limpact-economique-positif-des-refugies-sur-les-economies-europeennes

    • La « crise migratoire », une opportunité économique pour les pays européens

      S’il est une question qui divise nombre d’Etats européens depuis plusieurs années, c’est bien celle de l’accueil des migrants, à l’aune de l’impact économique des flux migratoires, objet de nombreux désaccords, voire de fantasmes. Alors, qu’en est-il réellement ? Une récente étude orchestrée notamment par le CNRS vient tordre le cou aux clichés, montrant qu’une augmentation de flux de migrants permanents est synonyme d’augmentation de PIB par habitant et de diminution du taux de chômage.

      L’accueil des migrants et leur intégration constitue-t-il une charge pour les économies européennes ? La réponse est non, selon une étude réalisée notamment par #Hippolyte_d’Albis, directeur de recherches au CNRS (centre national de la recherche scientifique). Dans cette étude effectuée avec ses collègues #Ekrame_Boubtane, enseignant-chercheur à l’Université de Clermont-Auvergne et #Dramane_Coulibaly, enseignant-chercheur à l’Université de Paris-Nanterre, l’accent est mis sur les impacts macro-économiques de l’immigration en Europe et en France de 1985 à 2015.

      « L’essentiel de l’économie repose sur l’interaction entre les gens »

      Leur travail suggère que l’immigration non européenne a un effet positif sur la #croissance_économique, et cela se vérifie plus particulièrement encore dans le cas de la migration familiale et féminine.

      En 2015, plus d’un million de personnes ont demandé l’asile dans l’un des pays de l’Union européenne, ce qui en fait une année record. Des arrivées qui ont provoqué nombre d’interprétations et de fantasmes.

      Pour y répondre, des études s’étaient déjà penchées sur la question. Mais, avec celle qui nous intéresse, le modus operandi est nouveau. Il diffère en effet des approches classiques : ces dernières comparent les #impôts payés par les immigrés aux transferts publics qui leur sont versés, mais ne tiennent pas compte des interactions économiques. « Pour évaluer l’immigration, les méthodes sont souvent d’ordre comptable. Mais l’essentiel de l’économie est fait d’interactions entre les gens. Nous souhaitions intégrer cette approche dans l’évaluation », explique Hippolyte d’Albis.

      Quid du mode opératoire ?

      Les chercheurs ont eu recours à un modèle statistique introduit par Christopher Sims, lauréat en 2011 du prix de la Banque de Suède en sciences économiques en mémoire d’Alfred Nobel. Très utilisé pour évaluer les effets des politiques économiques, il laisse parler les données statistiques en imposant très peu d’a priori et permet d’évaluer les effets économiques sans imposer d’importantes restrictions théoriques.

      Les données macroéconomiques et les données de flux migratoires utilisées proviennent d’Eurostat et de l’OCDE, pour concerner quinze pays d’Europe de l’Ouest, dont l’Allemagne, l’Autriche, l’Espagne, la France, l’Italie et le Royaume-Uni.

      Les chercheurs ont distingué les flux des demandeurs d’asile de ceux des autres migrants. Ils ont évalué les flux de ces derniers par le solde migratoire, qui ne prend pas en compte les demandeurs d’asile.

      Les flux de demandeurs d’asile concernent des personnes en situation légale le temps de l’instruction de leur demande dans le pays d’accueil, qui ne les considérera comme résidents que si leur demande d’asile est acceptée.
      Augmentation du PIB par habitant, diminution du taux de chômage…

      L’étude montre qu’un accroissement de flux de migrants permanents (hors demandeurs d’asile) à une date donnée produit des #effets_positifs jusqu’à quatre ans après cette date : le #PIB par habitant augmente, le taux de #chômage diminue.

      Ainsi, en Europe de l’Ouest, avec un migrant pour 1.000 habitants, le PIB augmente immédiatement de 0,17 % par citoyen. Un pourcentage qui monte jusqu’à 0,32 % en année 2. Le #taux_de_chômage, lui, baisse de 0,14 points avec un effet significatif jusqu’à trois ans après.

      En résumé, les #dépenses_publiques supplémentaires entraînées par l’augmentation du flux de migrants permanents s’avèrent au final bénéfiques. Les dépenses augmentent, mais elles sont plus que compensées par l’augmentation des #recettes_fiscales. Dans le cas des demandeurs d’asile, aucun effet négatif n’est observé et l’effet devient positif au bout de trois à cinq ans, lorsqu’une partie des demandeurs obtient l’asile et rejoint la catégorie des migrants permanents.

      Comment expliquer cela ? Les demandeurs d’asile rentrent plus tardivement sur le #marché_du_travail, car ils n’y sont généralement pas autorisés lorsque leur demande d’asile est en cours d’instruction. Leur impact semble positif lorsqu’ils obtiennent le statut de résident permanent.

      Et Hippolyte d’Albis d’insister : « les résultats indiquent que les flux migratoires ne sont pas une charge économique sur la période étudiée. En moyenne, pour les quinze pays européens considérés, nous identifions des effets positifs des flux migratoires ».

      De l’urgence de réorienter le débat

      Evidemment, l’#accueil a un #coût, rappelle le chercheur. Mais, l’accueil des demandeurs d’asile n’a pas dégradé la situation financière des Etats. Cela corrobore une intuition de l’Histoire, pour Hippolyte d’Albis. « Les économies ont toujours été fortement impactées par des guerres, des crises financières ou autres… Mais historiquement, les migrations n’ont jamais détruit les économies des pays riches. C’est une fausse idée de croire cela. Certes, il y a beaucoup d’enjeux autour des migrations. Mais nous avons envie de dire aux gouvernements de se concentrer sur les questions diplomatiques et territoriales, sans s’inquiéter d’hypothétiques effets négatifs sur l’économie ».

      En résumé, « la crise migratoire en cours pourrait être une opportunité économique pour les pays européens ». Y compris dans l’Hexagone où les effets bénéficient aux revenus moyens, et ce, bien que l’immigration en France ait une caractéristique particulière : 50 % du flux migratoire est d’ordre familial. 25 % de personnes viennent pour étudier et 10 % pour le travail.

      https://guitinews.fr/data/2019/10/29/la-crise-migratoire-une-opportunite-economique-pour-les-pays-europeens

      –-------------

      L’étude dont on parle dans cet article :
      Macroeconomic evidence suggests that asylum seekers are not a “burden” for Western European countries

      This paper aims to evaluate the economic and fiscal effects of inflows of asylum seekers into Western Europe from 1985 to 2015. It relies on an empirical methodology that is widely used to estimate the macroeconomic effects of structural shocks and policies. It shows that inflows of asylum seekers do not deteriorate host countries’ economic performance or fiscal balance because the increase in public spending induced by asylum seekers is more than compensated for by an increase in tax revenues net of transfers. As asylum seekers become permanent residents, their macroeconomic impacts become positive.

      https://advances.sciencemag.org/content/4/6/eaaq0883.full

    • The Death of Asylum and the Search for Alternatives

      Une réflexion à partir du livre de Hansen: "A Modern Migration Theory. An Alternative Economic Approach to Failed EU Policy"

      Hansen documents what happened next in Sweden. First, the Swedish state ended austerity in an emergency response to the challenge of hosting so many refugees. As part of this, and as a country that produces its own currency, the Swedish state distributed funds across the local authorities of the country to help them in receiving the refugees. And third, this money was spent not just on refugees, but on the infrastructure needed to support an increased population in a given area – on schools, hospitals, and housing. This is in the context of Sweden also having a welfare system which is extremely generous compared to Britain’s stripped back welfare regime.

      https://seenthis.net/messages/912640

    • Les demandeurs d’asile ne sont pas un « fardeau » pour les économies européennes

      L’arrivée de demandeurs d’asile entraîne-t-elle une dégradation des performances économiques et des finances publiques des pays européens qui les accueillent ? La réponse est non, selon des économistes du CNRS, de l’Université Clermont-Auvergne et de l’Université Paris-Nanterre 1, qui estiment un modèle statistique dynamique à partir de 30 ans de données de 15 pays d’Europe de l’Ouest. Au contraire, l’impact économique tend à être positif lorsqu’une partie d’entre eux deviennent résidents permanents. Cette étude est publiée dans Science Advances le 20 juin 2018.

      Plus d’un million de personnes ont demandé l’asile dans l’un des pays de l’Union européenne en 2015, ce qui en fait une année record. Quel est l’impact économique et fiscal des flux migratoires ? Cette étude n’est pas la première à se pencher sur la question 2, mais la méthode utilisée est nouvelle. En effet, les approches traditionnelles sont principalement comptables : elles comparent les impôts payés par les immigrés aux transferts publics qui leur sont versés mais ne tiennent pas compte des interactions économiques 3.

      Les chercheurs ont eu recours à un modèle statistique introduit par Christopher Sims, lauréat en 2011 du prix de la Banque de Suède en sciences économiques en mémoire d’Alfred Nobel. Très utilisé pour évaluer les effets des politiques économiques, il laisse parler les données statistiques en imposant très peu d’a priori. Les données macroéconomiques et les données de flux migratoires utilisées proviennent d’Eurostat et de l’OCDE et concernent 15 pays d’Europe de l’Ouest : Allemagne, Autriche, Belgique, Danemark, Espagne, Finlande, France, Irlande, Islande, Italie, Norvège, Pays-Bas, Portugal, Royaume-Uni et Suède.

      Les chercheurs ont distingué les flux de demandeurs d’asile de ceux des autres migrants. Ils ont évalué les flux de ces derniers par le solde migratoire, qui ne prend pas en compte les demandeurs d’asile. Les flux de demandeurs d’asile concernent des personnes en situation légale le temps de l’instruction de leur demande dans le pays d’accueil, qui ne les considèrera comme résident que si leur demande d’asile est acceptée.

      Au cours de la période étudiée (1985-2015), l’Europe de l’Ouest a connu une augmentation importante des flux de demandeurs d’asile suite aux guerres dans les Balkans entre 1991 et 1999 et à partir de 2011 à la suite des Printemps arabes et du conflit syrien. D’autre part, les flux de migrants, notamment intracommunautaires, ont augmenté après l’élargissement de l’UE vers l’est en 2004. Autant d’occasions de tester les conséquences d’une augmentation non anticipée des flux migratoires sur le PIB par habitant, le taux de chômage et les finances publiques.

      Les chercheurs montrent qu’une augmentation de flux de migrants permanents (c’est-à-dire hors demandeurs d’asile) à une date donnée produit des effets positifs jusqu’à quatre ans après cette date : le PIB par habitant augmente, le taux de chômage diminue et les dépenses publiques supplémentaires sont plus que compensées par l’augmentation des recettes fiscales. Dans le cas des demandeurs d’asile, aucun effet négatif n’est observé et l’effet devient positif au bout de trois à cinq ans, lorsqu’une partie des demandeurs obtient l’asile et rejoint la catégorie des migrants permanents.

      Selon ces résultats, il est peu probable que la crise migratoire en cours soit une charge pour les économies européennes : au contraire, elle pourrait être une opportunité économique.

      https://www.cnrs.fr/fr/les-demandeurs-dasile-ne-sont-pas-un-fardeau-pour-les-economies-europeennes

  • Au-delà des idées préconçues

    https://indicators.nccr-onthemove.ch/au-dela-des-idees-preconcues/?lang=fr
    #Suisse

    3 vidéos...

    Idée préconçue #1
    « Les migrants, ils viennent pour profiter de la Suisse. »
    https://www.youtube.com/watch?time_continue=46&v=cFZywZz03FQ


    #préjugés #idées_reçues #migrations #Suisse #réfugiés #asile #migrants_économiques #économie #travail #éducation

    Idée préconçue #2 :
    « Les migrants, ils viennent de pays pauvres. »
    https://www.youtube.com/watch?v=UQfMN9fmx6M


    #migration_internationale #solde_migratoire #immigration #émigration

    Idée préconçue #3 :
    « Avec autant d’arrivées, il y aura bientôt plus de migrants que de Suisses. »
    https://www.youtube.com/watch?v=ennoIcsthAE


    #démographie #statistiques #chiffres #mobilité #migrations_circulaire

  • Bon ça se précise. En tout cas je suis en train de manger une copieuse salade de coquillettes : je suis dans les épreuves. Pour le service de presse spécial seenthis , j’aimerais recommencer l’expérience d’Une Fuite en Egypte dont je pense que nous gardons toutes et tous un bon souvenir ici. Donc si vous voulez faire partie de la double (possiblement triple) chaîne de distribution des exemplaires de service de presse, laissez un commentaire en ce sens sous ce billet. Et ensuite je me charge d’organiser la chaîne.

    Sinon, Raffut .

    En fiction, singulièrement cinématographique, l’intrigue avance avec des bottes de sept lieues. Quand les faits réels, eux, bien souvent se développent à une vitesse qui n’est pas perceptible à l’œil nu.

    En rentrant du travail, un père qui élève seul ses trois enfants apprend qu’Émile, son fils autiste, est à l’hôpital après avoir été frappé à un arrêt de bus. Que lui est-il vraiment arrivé ? A-t-il pu provoquer la violence dont il a été victime ? Et comment réagir face à cette épreuve qui vient chambouler la vie ordinaire d’une famille ?

    Dans ce roman autobiographique, dont le récit se concentre sur une seule semaine, Philippe De Jonckheere relate la façon dont, peu à peu, le déroulement des faits se reconstitue, et suit l’imbroglio des diverses procédures qu’il doit accomplir jusqu’à la confrontation au tribunal lors du procès en comparution immédiate intenté au jeune agresseur d’Émile.

    Il décrit aussi les affres et les questionnements qui l’habitent, les sentiments qui l’étreignent et qui évoluent, passant de la colère à l’empathie, de l’appréhension à l’indulgence, en essayant toujours de mettre de côté ses a priori pour comprendre où se situe la complexe vérité des paroles, des actes, et de leur incidence. À commencer par celle du « raffut », ce geste du rugby, sport que pratique Émile, et qui a son importance dans la dispute entre les jeunes garçons.

    Porté par une grande élégance stylistique, irrigué par une douceur et un humour subtils, ce livre profondément humaniste raconte l’histoire d’un cas de conscience, dans ce qu’il a de plus universel

    Euh vous aurez compris que ce n’est pas moi qui écris les quatrièmes de couverture, du coup je n’y coupe pas : #shameless_autopromo

    #raffut

  • Un accroissement des mobilités

    Selon le dernier bilan démographique (publié en janvier 2015), le solde migratoire de la France s’établit à + 33 000 personnes en 2013. Il était de + 112 000 en 2006. Ce solde résulte de mouvements migratoires entre la France et l’étranger de trois catégories de personnes qui vivent en France : celles qui sont nées en France, les immigrés et les personnes nées françaises à l’étranger. Les travaux présentés ici visent à quantifier l’ensemble de ces mouvements sur la période 2006 à 2013. Outre l’analyse du solde migratoire, réalisée habituellement par le rapprochement des données du recensement et des données de l’état civil, cette méthode présente une exploitation nouvelle des recensements successifs pour estimer les flux d’entrées sur le territoire et par déduction les flux des sorties.

    Les départs vers l’étranger des personnes nées en France se sont amplifiés depuis 2006, alors que leurs retours, moins nombreux, ont peu varié sur la période. Leur solde migratoire est ainsi négatif et a doublé sur la période : il est estimé à – 120 000 personnes en 2013 contre – 60 000 en 2006. Dans le même temps, le nombre d’entrées d’immigrés a progressé, mais à un rythme plus faible que leurs sorties du territoire, si bien que le solde migratoire des personnes immigrées, estimé à + 140 000 personnes en 2013, s’inscrit en léger recul par rapport à 2006 (+ 164 000). Enfin, les flux d’entrées et de sorties des personnes nées françaises à l’étranger sont plus faibles ; leur solde migratoire s’élève à + 13 000 en 2013.

    L’augmentation récente des sorties de personnes nées en France vient gonfler la présence française à l’étranger : en 2013, un peu moins de 3 millions et demi de personnes nées en France vivraient à l’étranger.

    https://www.insee.fr/fr/statistiques/1521331
    #migrations #immigration #émigration #France #statistiques #chiffres

    Paru en 2015, pour archivage

    • Le chiffre brut du #solde_migratoire fait partie des marronniers liés à la publication des résultats du recensement courant janvier.

      En cherchant ce mot clé sur le site de l’Insee (et en filtrant astucieusement, parce que leur nouveau moteur de recherche fournit des montagnes de résultats) je te propose p. ex. ces premières analyses, un peu après la publication brute.

      L’analyse des flux migratoires entre la France et l’étranger entre 2006 et 2015 (mars 2017)
      https://www.insee.fr/fr/statistiques/2593515
      ou
      Flux migratoires selon le lieu de naissance ou la nationalité en 2015 – Données annuelles de 2006 à 2015 (juin 2017)
      https://www.insee.fr/fr/statistiques/2861375

    • Mmmhhh... ok, merci @simplicissimus mais pourquoi du coup écrire dans le tableau « estimation » (arrghhh ! J’ai pas regardé le tableau, sorry !) pour ces deux années et pas dans les graphiques ?
      D’ailleurs, dans le tableau plus récent les estimations sont en pointillé, ce qui me semble bien plus clair et intelligent

    • Toujours regarder les sources, voire les méthodologies, surtout quand tu te poses ce genre de questions.

      D’où l’importance d’une #charte_graphique qui prévoie une représentation spécifique pour les estimations ou données provisoires. De ce point de vue, on ne peut que se féliciter, avec toi, du progrès que tu constates.

      Note que la charte doit aussi s’appliquer aux tableaux. De ce point de vue, la notation des données provisoires est toujours une question dont la réponse laisse insatisfait :
      – soit, comme ici, tu inclues un symbole dans la case du tableau ( (p), † ou tout autre renvoi à une note), ce qui embête l’utilisateur qui, derrière, va récupérer les données, p. ex. par un copier-coller
      – soit tu mets une colonne contenant le statut de la donnée, colonne dont l’utilisateur s’empressera de se débarrasser lors de sa récupération de données…

      Le statut de la donnée dans la chaîne de production est un « détail » qui ne trouve pas souvent sa place dans l’aval du traitement de données.

    • Ces statistiques sont très utiles pour contraster les propos de certains politiciens, pour ne pas le nommer... Voici Laurent Wauquiez dans toute sa splendeur :


      https://twitter.com/RMCinfo/status/953534401102610432

      Mon commentaire :

      Je conseille vivement à @laurentwauquiez de regarder avec attention les #statistiques publiées par @InseeFr. Et de se concentrer sur le #SoldeMigratoire, non pas uniquement sur l’#immigration. Pour l’aider dans cette quête, voici le lien : https://www.insee.fr/fr/statistiques/1521331

    • Les mauvais calculs de Claude Guéant

      En affirmant que la France accueille 200.000 immigrés par an, « l’équivalent d’une ville comme Rennes », le ministre de l’intérieur oublie de parler de ceux qui partent, rappelle Aurélie Windels, membre du collectif Cette France-là. Alors que le solde migratoire est en réalité minime.

      Grâce à Marine Le Pen et Claude Guéant, tout le monde sait maintenant que Rennes compte environ 200.000 habitants. A l’instar de la présidente du FN, le ministre de l’intérieur utilise lui aussi la onzième plus grande ville de l’Hexagone pour frapper les Français d’une image : celle de la masse d’immigrés légaux qui arrivent chaque année sur notre territoire. « Nous acceptons sur notre sol, chaque année, 200.000 étrangers en situation régulière. C’est l’équivalent d’une ville comme Rennes, c’est deux fois Perpignan. (...) Je dis que c’est trop », expliquait-il dimanche 27 novembre à Jean-Pierre Elkabbach qui lui demandait s’il n’était pas préférable « d’accepter une France métissée plutôt qu’une France monocolore ». Pour une donnée démographique exacte –il y a bien 206.194 habitants à Rennes–, celle à laquelle elle est comparée est bien plus contestable.

      En effet, tout comme il serait absurde d’évaluer la croissance démographique annuelle d’un pays en ne comptabilisant que les naissances, il ne suffit pas de raisonner en termes d’entrées pour jauger l’évolution de la population immigrée « sur notre sol ». Le nombre des étrangers qui entrent en France chaque année doit être rapporté à celui des sortants –non seulement les Français qui s’expatrient, mais également les migrants qui vont s’installer dans un pays tiers ou qui rentrent dans leur pays d’origine. Ces derniers, bien que le ministre ait toujours omis de les mentionner, existent bel et bien, et ils sont nombreux. Ainsi, l’Insee estime que le solde migratoire annuel est d’environ 100.000 personnes. De Rennes, nous voilà passés à Nancy.

      La mise sous silence des départs

      Hervé Le Bras, directeur de recherches à l’Ined, considère toutefois que l’estimation de l’Insee n’est guère fiable, dans la mesure où, en France, « on n’a aucun moyen de calculer les sorties ». Tandis que le volume des entrées légales est d’ordinaire mesuré par le nombre des titres de séjour délivrés au cours de l’année, celui des départs ne fait l’objet d’aucune enquête officielle. Il est estimé à partir des données disponibles, à savoir les naissances, les décès et les nouveaux immigrés autorisés à séjourner sur le territoire français, mais selon Hervé Le Bras, sa sous-estimation ne fait aucun doute. « Il y a des insuffisances de la statistique française qui, souvent, nous amènent vers de faux débats, déplore le démographe. Bien sûr, comme on présente en permanence les entrées et jamais les sorties, on a une sorte d’impression que ça s’accumule, mais ce n’est pas le cas » (1).

      Dans le cadre de ses recherches, en utilisant les informations fournies par les recensements, Hervé Le Bras a pu calculer que cinq ans après la délivrance de leur premier titre de séjour, seuls 60% des immigrés sont encore présents sur le territoire français. Mais également que l’immigration nette en France serait de l’ordre de 52.000 personnes par an, si ce n’est beaucoup moins, comme il l’explique dans une tribune publiée en 2008 et intitulée En France, le solde migratoire est en réalité quasiment nul. De Nancy, nous descendons donc à Fréjus, voire à Palavas-les-Flots.

      Une migration de plus en plus circulatoire

      Le travail du démographe Cris Beauchemin, spécialiste des migrations entre l’Afrique subsaharienne et l’Europe, confirme celui d’Hervé Le Bras. En étudiant le parcours des immigrés sénégalais, il a pu observer que, au bout de 10 ans, un tiers de ceux qui étaient partis dans un pays du « Nord » sont rentrés au Sénégal.

      Les chercheurs s’accordent à dire qu’au fil des décennies, le mode de migration aurait tendance à changer : bien souvent définitive auparavant, l’immigration devient de plus en plus circulatoire. La qualification croissante des migrants y est pour beaucoup. En France, par exemple, la part des immigrés diplômés de l’enseignement supérieur est passée, entre 1990 et 2007, de 12% à 25%, selon les chiffres de l’Insee. Elle a ainsi rejoint celle des natifs (29% en 2007). Ces migrants, à la recherche d’opportunités professionnelles, bougent plus facilement de pays en pays, s’établissant là où leurs compétences sont le mieux appréciées.

      Seulement, cette tendance naturelle à une plus grande circulation migratoire est mise à mal par les politiques migratoires mises en place dans les pays de destination. En effet, l’Ined arrive à un constat sans appel : le renforcement constant des politiques européennes de fermeture des frontières freine davantage les départs que les arrivées. Autrement dit, les migrants rentrent d’autant plus facilement dans leur pays d’origine qu’ils peuvent circuler librement. Les démographes ont fait apparaître qu’en France et dans les pays voisins, les migrations spontanées des étrangers regagnant leur pays étaient beaucoup plus nombreuses et plus rapides avant 2002 qu’aujourd’hui.

      Ce constat non seulement relativise l’idée selon laquelle les immigrés ne partiraient qu’à conditions d’y être forcés –les seuls départs scrupuleusement chiffrés sont ceux des étrangers reconduits à la frontière ou bénéficiaires d’une l’aide au retour–, mais elle remet plus généralement en cause l’efficacité de la politique d’immigration du gouvernement français.

      Non content de reprendre les formules de Marine Le Pen, Claude Guéant s’en attribue également les idées. Déterminé à ancrer dans la tête des électeurs qu’il y a trop d’immigrés en France et que ceux-ci sont à l’origine de tous leurs maux, il n’hésite pas à adapter les chiffres de manière à appuyer le plus sûrement possible sa thèse. Mais, au même titre que sa politique de durcissement des conditions de circulation a des effets pervers sur le nombre d’étrangers en France et leur durée de séjour, son glissement sans limite à droite rapportera bien moins sûrement des votes à son parti qu’à celui qu’il se plaît à imiter.

      https://blogs.mediapart.fr/edition/immigration-la-contre-expertise/article/071211/les-mauvais-calculs-de-claude-gueant

    • Encore (et toujours…) une affaire d’estimation provisoire. Les estimations des sorties sont provisoires pour les 2 dernières années publiées.

      Entre la publication en octobre 2015 (dernières données - provisoires - 2013) et celle en mars 2017 (dernières données 2015) l’estimation des sorties d’immigrés a été très fortement révisée : les estimations de 2015 les surestimant beaucoup.

      Apparemment, pas d’explications ou de commentaires à cette révision drastique.

      On peut d’ailleurs se poser s’il n’en va pas de même pour les 2 dernières valeurs (2014(p) et 2015(p)) de cette même série qui montrent une forte remontée (provisoire ?). L’Insee voit surestimerait-il de nouveau les retours au pays d’immigrés ?

  • Migranti, 2016: hanno cercato fortuna all’estero 285mila italiani. Più degli stranieri sbarcati sulla Penisola

    Le anticipazioni del Dossier 2017 del centro studi Idos. Se ne sono andati diplomati, laureati e dottori di ricerca nel cui percorso di studi lo Stato aveva investito quasi 9 miliardi, e la stima è per difetto. Due su tre non ritornano. Il danno è in parte compensato dai flussi d’ingresso degli immigrati: sono sempre di più quelli con alti livelli di istruzione.

    https://dirittiumani1.blogspot.ch/2017/07/migranti-2016-hanno-cercato-fortuna.html
    #Italie #solde_migratoire #migrations #émigration #immigration #statistiques #chiffres #2016

    • Lavoro, dal 2008 al 2015 mezzo milione di italiani fuggiti all’estero. E ora se ne vanno anche gli immigrati dell’Est Europa

      Partono soprattutto i giovani laureati, ma anche stranieri che non trovano più economicamente attraente il nostro Paese. Lo conferma il rapporto «Il lavoro dove c’è» dell’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro

      http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/06/21/lavoro-dal-2008-al-2015-mezzo-milione-di-italiani-fuggiti-allestero-e-ora-se-ne-vanno-anche-gli-immigrati-dellest-europa/3676861
      #2015

    • Se ne vanno giovani e laureati: la nostra vita di genitori nell’Italia dei figli lontani

      Nel 2015 sono partiti più di 100 mila, la metà hanno meno di 40 anni. Un terzo sono laureati. Ammaniti: il senso di colpa dei genitori.


      http://www.corriere.it/scuola/studiare-e-lavorare-all-estero/notizie/se-ne-vanno-giovani-laureati-nostra-vita-genitori-nell-italia-figli-lontani

    • Petit commentaire sur le #vocabulaire #terminologie...

      Pour les jeunes Tunisiens qui font la même chose que les jeunes Italiens, on parle de #émigration_clandestine :
      En Tunisie, le mal-être des jeunes se traduit par un pic d’émigration clandestine

      Hafedh a « vu la mort en face » en tentant d’émigrer clandestinement vers l’Europe, mais ce Tunisien de 26 ans n’a toujours qu’une idée en tête : reprendre la mer. En septembre, les départs ont connu un pic, reflétant un mal-être persistant chez les jeunes.


      https://www.courrierinternational.com/depeche/en-tunisie-le-mal-etre-des-jeunes-se-traduit-par-un-pic-demig
      #mots

    • Fuga dall’Italia, è emorragia di talenti: nel 2016 via 50mila giovani tra i 18 e i 34 anni

      Secondo il rapporto della fondazione Migrantes sono 5 milioni i connazionali residenti all’estero, +3,3% in un anno. Aumentano le partenze ’di famiglia’ e quelle degli under 35. Tra le mete più ricercate il Regno Unito e gli Emirati Arabi

      http://www.repubblica.it/cronaca/2017/10/17/news/emigrati_italiani_nel_mondo_rapporto_migrantes_record_fuga_all_estero-178
      #2016

    • L’Europa dei nuovi emigranti. In 18 milioni cambiano Stato

      Nicola Gatta ha iniziato il 2018 come aveva finito il 2017: mantenendo lo stipendio a zero per se stesso e tutti i suoi assessori. I risparmi servono per far salire il numero dei residenti del suo Comune dai 2.802 attuali, o almeno a evitare nuovi cali. Il sindaco offre duemila euro l’anno — sconti su tassa per i rifiuti, mensa scolastica o asilo nido dei figli — a qualunque famiglia europea decida di stabilirsi a Candela. La condizione è di non provenire da villaggi piccoli come Candela stessa: Gatta non vorrebbe mai spopolarli come è accaduto al suo Comune quando, in questi anni, centinaia di giovani se ne sono andati in Italia del Nord, Germania o Regno Unito.

      in Europa milioni di persone si stanno spostando sempre di più dai territori poveri di reddito e di opportunità — svuotandoli — verso le aree a densità sempre più alta di lavoro, conoscenze e reti sociali.

      In Europa invece la Grande recessione ha innescato una trasformazione del costume che prosegue con la ripresa: secondo Eurostat, nel 2016 vivevano in un altro Stato dell’Unione almeno 18 milioni di europei, il 12,5% più di due anni prima.

      Nel 2015 (ultimo anno registrato da Eurostat) si sono trasferite da un Paese europeo a un altro 1,46 milioni di persone, il 13% più di due anni prima. Gli espatriati europei, oltre il 3% della popolazione, sono la quarta o quinta nazione dell’area euro e a questi ritmi raddoppieranno in dieci anni.

      http://www.corriere.it/digital-edition/CORRIEREFC_NAZIONALE_WEB/2018/01/02/11/leuropa-dei-nuovi-emigranti-in-18-milioni-cambiano-stato_U43420152120325xhH

      #démographie #Italie #europe #dépopulation #migrations #politique_migratoire #attractivité #migrations_en_europe #inégalités #centre #périphérie #géographie_du_vide #géographie_du_plein #exode_rural #émigration #Italie #Bulgarie #Grèce #Roumanie #statistiques #chiffres #Allemagne

    • Oltre 250mila italiani emigrano all’estero, quasi quanti nel Dopoguerra

      Giambattista Vico parlava di corsi e ricorsi storici. Con questa formula il filosofo napoletano sintetizzava la capacità di certe situazioni di ripetersi nella vita degli essere umani. Il Dossier Statistico Immigrazione 2017 elaborato dal centro studi e ricerche Idos e Confronti registra una di queste situazioni: oggi gli emigrati italiani sono tanti quanti erano nell’immediato dopoguerra. In numero, oltre 250.000 l’anno. Corsi e ricorsi della storia, appunto.

      Prima il calo poi la crisi del 2008 e l’inversione di tendenza
      L’emigrazione degli italiani all’estero, dopo gli intensi movimenti degli anni ’50 e ’60, è andato ridimensionandosi negli anni ’70 e fortemente riducendosi nei tre decenni successivi, fino a collocarsi al di sotto delle 40.000 unità annue. Invece, a partire dalla crisi del 2008 e specialmente nell’ultimo triennio, le partenze hanno ripreso vigore e hanno raggiunto gli elevati livelli postbellici, quando erano poco meno di 300.000 l’anno gli italiani in uscita.

      Oltre 114mila persone sono andate all’estero nel 2015
      Sotto l’impatto dell’ultima crisi economica, che l’Italia fa ancora fatica a superare, i trasferimenti all’estero hanno raggiunto le 102.000 unità nel 2015 e le 114.000 unità nel 2016, mentre i rientri si attestano sui 30.000 casi l’anno.

      La fuga dei cervelli
      A emigrare - sottolinea il report - sono sempre più persone giovani con un livello di istruzione superiore. Tra gli italiani con più di 25 anni, registrati nel 2002 in uscita per l’estero, il 51% aveva la licenza media, il 37,1% il diploma e l’11,9% la laurea ma già nel 2013 l’Istat ha riscontrato una modifica radicale dei livelli di istruzione tra le persone in uscita: il 34,6% con la licenza media, il 34,8% con il diploma e il 30,0% con la laurea, per cui si può stimare che nel 2016, su 114.000 italiani emigrati, siano 39.000 i diplomati e 34.000 i laureati.

      Germania e Regno Unito le mete preferite
      Le destinazioni europee più ricorrenti sono la Germania e la Gran Bretagna; quindi, a seguire, l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera (in Europa dove si indirizzano circa i tre quarti delle uscite) mentre, oltreoceano, l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e il Venezuela.

      L’investimento (perso) da parte dello Stato
      Ogni italiano che emigra rappresenta un investimento per il paese (oltre che per la famiglia): 90.000 euro un diplomato, 158.000 o 170.000 un laureato (rispettivamente laurea triennale o magistrale) e 228.000 un dottore di ricerca, come risulta da una ricerca congiunta condotta nel 2016 da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” sulla base di dati Ocse.

      I flussi effettivi sono ancora più elevati
      A rendere ancora più allarmante il quadro tratteggiato da questo dossier è un’uteriore considerazione: i flussi effettivi sono ben più elevati rispetto a quelli registrati dalle anagrafi comunali, come risulta dagli archivi statistici dei paesi di destinazione, specialmente della Germania e della Gran Bretagna (un passaggio obbligato per chi voglia inserirsi in loco e provvedere alla registrazioni di un contratto, alla copertura previdenziale, all’acquisizione della residenza e così via).

      Il centro studi: i dati Istat vanno aumentati di 2,5 volte
      Il centro studi spiega che rispetto ai dati dello Statistisches Bundesamt tedesco e del registro previdenziale britannico (National Insurance Number), le cancellazioni anagrafiche rilevate in Italia rappresentano appena un terzo degli italiani effettivamente iscritti. Pertanto, i dati dell’Istat sui trasferimenti all’estero dovrebbero essere aumentati almeno di 2,5 volte e di conseguenza nel 2016 si passerebbe da 114.000 cancellazioni a 285.000 trasferimenti all’estero, un livello pari ai flussi dell’immediato dopoguerra e a quelli di fine Ottocento. Peraltro, si legge ancora nel dossier statistico, non va dimenticato che nella stessa Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero il numero dei nuovi registrati nel 2016 (225.663) è più alto rispetto ai dati Istat. Naturalmente, andrebbe effettuata una maggiorazione anche del numero degli espatriati ufficialmente nel 2008-2016, senz’altro superiore ai casi registrati (624.000).

      L’Ocse: Italia ottava in classifica
      Il problema dei tanti italiani che abbandonano l’Italia è stato segnalato qualche giorno fa anche dall’Ocse. Nell’ultimo report sui migranti l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici ha fatto presente che l’Italia è tornata a essere ai primi posti mondiali come Paese d’origine degli immigrati. Secondo l’Ocse, la Penisola è ottava nella graduatoria mondiale dei Paesi di provenienza di nuovi immigrati. Al primo posto c’è la Cina, davanti a Siria, Romania, Polonia e India. L’Italia è subito dopo il Messico e davanti a Viet Nam e Afghanistan, con un aumento degli emigrati dalla media di 87mila nel decennio 2005-14 a 154mila nel 2014 e a 171mila nel 2015, pari al 2,5% degli afflussi nell’Ocse. In 10 anni l’Italia è “salita” di 5 posti nel ranking di quanti lasciano il proprio Paese per cercare migliori fortune altrove.

      http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-06/oltre-250000-italiani-emigrano-all-estero-erano-300000-dopoguerra-09405

    • Il Sud Italia si sta svuotando. Questa è la migrazione che dovrebbe terrorizzarti.

      È piuttosto evidente che il pallino di questa era all’insegna del “cambiamento” siano gli immigrati e tutto ciò che li concerne. La gente è stanca, bisogna fermare l’invasione, c’è un complotto per sterminare la razza europea attraverso sbarchi di africani fannulloni, ladri e stupratori. Si arriva al punto di usare 177 persone come materiale di scambio per gare tra poteri forti e di arrestare a scopi di propaganda gli unici fautori di modelli virtuosi per un’idea di accoglienza e integrazione che non si basi né sullo sfruttamento né su una qualche forma di reclusione temporanea. In tutto ciò, sembra che le conversazioni da bar su quanto questi neri ci stiano rubando lavoro e identità – quelle stesse chiacchiere che portano il partito di Salvini al 33,5% – raramente tengano conto di un dato sull’emigrazione che invece sì, sta incidendo negativamente sul futuro dell’Italia. E non è l’emigrazione dal Continente nero su barconi carichi di delinquenti, ma quella fatta da ragazzi e ragazze con un regolarissimo biglietto Ryanair e una chat di gruppo su Whatsapp con i nuovi coinquilini.

      Il Sud dell’Italia si sta svuotando sempre di più dei suoi giovani, e questa tendenza non prospetta altro che una progressiva desertificazione di un’intera area del nostro Paese. Nei 7 anni della crisi, dal 2008 al 2015, il saldo migratorio netto è stato di 653mila unità: 478mila giovani di cui 133mila laureati, con le donne in misura maggiore rispetto agli uomini. A questi si accompagna una perdita di popolazione di 2 mila unità nella fascia di 0-4 anni in conseguenza al flusso di bambini che si trasferiscono con i genitori. E se l’idea di trovarsi in un inferno terrestre dove gli africani ci sostituiscono definitivamente con le loro barbarie viene visto come un pericolo in atto, non vedo come questa previsione non possa suscitare altrettanto sgomento, considerando anche che il piano Kalergi è un’invenzione, mentre lo spopolamento del Mezzogiorno, purtroppo, no.

      Che una migrazione interna all’Italia sia sempre esistita lo sappiamo tutti: trovare qualcuno al Sud che abbia almeno un parente che negli anni ’60 è andato a lavorare alla Fiat è piuttosto semplice, così come al Nord abbondano i cognomi meridionali e le estati “dai parenti di giù”. Ma allora era un fenomeno diverso, si trattava quasi sempre di poveri che cercavano lavoro nelle zone industrializzate d’Italia, e molto spesso anche all’estero. Capita ancora oggi di incontrare in spiagge del Sud intere famiglie dall’aspetto decisamente poco nord-europeo che alternano dialetto stretto a tedesco, francese o addirittura fiammingo, creando un cortocircuito sorprendente. Ma la questione dell’immigrazione al Nord oggi è diversa, perché non coinvolge più operai e contadini ma neo-diplomati in procinto di cominciare l’università o comunque giovani specializzati. È un campione sociale diverso da quello di sessant’anni fa e il rischio che ne consegue è inquietante: mentre prima anche chi rimaneva al Sud continuava comunque a fare figli, oggi il tasso di natalità è molto più basso. In pratica, c’è molta più gente che muore di quanta decida di mettere al mondo nuovi esseri umani. I giovani piuttosto che rimanere a studiare a casa propria preferiscono andare in una città dove il livello universitario è ritenuto più alto e soprattutto dove una volta laureati avranno un’effettiva prospettiva di lavoro, o quantomeno la speranza di una prospettiva, compresa quella di mettere su una famiglia. Nel frattempo, nelle regioni da cui se ne sono andati non c’è un ricambio generazionale sufficiente a garantire che questo fenomeno non implichi una vera e propria desertificazione. Le cavallette magari non arriveranno, ma i paesi fantasma sì.

      La questione non è tanto quella di biasimare la scelta di chi decide di andare a studiare in un’altra città, come a dire che si sta abbandonando la nave. Anzi, è un fenomeno comprensibile: a diciotto o diciannove anni volersi misurare con un posto diverso da casa propria, in un ateneo che offre qualcosa che altrove non c’è è una scelta che non ha nessun motivo per essere disapprovata. Avendo i mezzi familiari che lo consentono e l’entusiasmo della matricola che fa andare oltre alla perenne pila di piatti sporchi nel lavello della nuova casa in affitto, ben venga. Non è nemmeno un problema legato al fatto che si possano preferire delle città e dei modi di vivere diversi da quelli da cui si proviene, o che il paese sperduto tra le montagne dell’Appennino calabro stia stretto. Anche chi decide di rimanere in molti casi può farlo perché dispone di mezzi economici che glielo consentono, mascherando con un velo di sacrificio per la propria terra quello che in realtà è una semplice condizione di privilegio. Se vieni da una famiglia di avvocati ed erediti lo studio dei tuoi genitori, non è che tu stia compiendo chissà quale missione da martire nel restare, ed è normale che se hai già tutto pronto e apparecchiato per il futuro puoi goderti proprio quei vantaggi che ti offre il Meridione, tra sole, mare, costi della vita bassi e grandi abbuffate.

      Piuttosto, la questione riguarda l’idea di partenza che accompagna chi lascia il Meridione per cui è impossibile tornarvi, perché tanto chi lo trova il lavoro in una parte d’Italia in cui la disoccupazione è doppia rispetto al resto del Paese, in cui già si fa fatica. A perderci, come sempre, sono quei giovani che non hanno abbastanza mezzi in partenza da poter decidere dove stare, che lavoro fare. Ci si trova così davanti a un bivio per cui alla prospettiva di un non-futuro si accetta di vivere lontani dalla propria famiglia, dai propri amici storici che si sparpagliano tra le regioni più promettenti, accontentandosi di quegli incontri programmati per tutti nello stesso momento, e che si concludono sempre con il solito genere di domanda, “E a Pasqua scendi?”. Sì, è vero che c’è chi va via da casa propria anche per scappare da situazioni opprimenti, e trova nella città che lo accoglie una stabilità soddisfacente, una nuova vita molto più adatta alle proprie esigenze, ma – incredibile a dirsi – c’è anche chi vorrebbe fare il lavoro che ha sempre sognato nel posto dove è nato.

      Non si tratta dunque di qualche becero revanscismo neo-borbonico per cui “Viva il Sud, il mare e il sole”, ma semplicemente della realtà di un divario che dagli anni di Franchetti e Sonnino non è ancora stato colmato, un dislivello che priva chi nasce in queste regioni di un banale spazio di manovra esistenziale che dovrebbe essere consentito a chiunque. Che le colpe ricadano su diversi fattori, specialmente quelli interni al Meridione, è noto: sin dall’Ottocento le sue classi dirigenti hanno usato la scusa stessa dell’arretratezza per legittimare un immobilismo sociale, civile ed economico che si è nutrito di voto clientelare e criminalità organizzata. Ma che le conseguenze di questo dislivello si abbattano in particolare sui giovani è invece drammatico.

      Le statistiche Eurostat del 2017 danno un’idea più palpabile di questa situazione: la Calabria ha un tasso di disoccupazione giovanile del 55,6%, la Campania del 54,7%, la Sicilia – in calo rispetto all’anno precedente – del 52,9%. Per capirci meglio, il Nord Est ha un tasso del 20,6%. E così si alimenta quel circolo vizioso per cui meno si lavora, più università si trovano costrette a ridimensionare i costi, più giovani scappano via. I poli decentrati in Sicilia, ad esempio, se in un primo momento sembravano poter dare nuova vita a zone più esposte alla decrescita, adesso cominciano a chiudere per mancanza di fondi e costi troppi elevati, come il caso di Beni culturali e archeologia ad Agrigento, distaccamento dell’Università di Palermo. Quale posto migliore per studiare questo genere di materia se non in uno dei siti archeologici più importanti d’Europa. E invece, niente da fare.

      Tra le altre cose, c’è anche un altro paradosso che si verifica: come rileva un articolo di Limes, anche quando si parla di città in cui le cose funzionano discretamente bene, non si verifica nessun tipo di affluenza da altre zone d’Italia. È una spiegazione concreta alla frustrante sensazione con cui ho sempre avuto a che fare da quando vivo lontano dalla mia città d’origine. Sono nata e cresciuta a Catania, un centro mediamente grande dove nonostante tutti i suoi molteplici difetti si può stare anche molto bene, si può frequentare l’università, si possono prendere ogni giorno voli per qualsiasi aeroporto del mondo. Non è New York, ma non è nemmeno quel buco nero di degrado e tristezza che si è soliti immaginare quando si pensa alle città del Sud: in termini di vivibilità ha diversi vantaggi, dal clima alla varietà sia del patrimonio artistico che naturale, è una di quelle città che si definiscono “a misura d’uomo”, ha una sua economia. Quando sono andata via, l’ho fatto perché volevo misurarmi con qualcosa di diverso della mia cameretta con i poster dell’adolescenza ancora attaccati al muro, ma avrei potuto tranquillamente studiare anche a due passi da casa mia. Eppure, le uniche persone nate da Roma in su che si sono trasferite in questa città che ho conosciuto negli anni sono stranieri rimasti folgorati da qualche visione in stile Italienische Reise. Ma nonostante le eccezioni, è lecito chiedersi perché mai un giovane che ha la possibilità di vivere altrove dovrebbe scegliere di trasferirsi in quella metà di penisola in cui i treni ad alta velocità si trasformano in carri bestiame di fine Ottocento.

      In realtà, i motivi per cui varrebbe la pena tornare o trasferirsi possono esistere: personalmente, ad esempio, penso che grazie a internet e alla possibilità di un tipo di approccio al lavoro diverso che ci consente di intraprendere, l’idea di potersi creare un futuro in posti che non sono famosi per la loro sovrabbondanza di possibilità si fa in certi casi un po’ più concreta. Certo, non penso che il futuro di tutti quei minuscoli centri che si trovano tra una città e un’altra sia dei più rosei, come non credo che sia né saggio né realistico credere di poter arginare un fenomeno inarrestabile come l’afflusso nelle metropoli. Allo stesso tempo però, al di là delle infinite promesse di rinascita del Sud – non ultime quelle della fantasiosa Ministra del Sud Barbara Lezzi – e delle oggettive responsabilità dei suoi abitanti presenti ma soprattutto passati, ci sono dei vuoti professionali che potrebbero essere riempiti proprio da chi è andato a formarsi in zone economicamente più progredite. Ci sarebbero delle risorse gestibili in modo diverso da come è successo finora – come il turismo o l’agricoltura – che magari potrebbero dare spazio proprio a una parte di quei giovani che sono scappati via da una steppa desolata e arida. È una scelta audace, non lo nego, ma potrebbe essere l’unico modo sano per attivare un circolo virtuoso di progresso e crescita. Non so dire se esistano soluzioni davvero efficaci per fare sì che quella distanza atavica tra Nord e Sud si accorci fino a sparire, o se si tratti di un’anatema insanabile che porterà davvero allo svuotamento totale di una porzione enorme d’Italia, ma mi sento in diritto di affermare che il fatto che ancora oggi si vada via da un posto per necessità e non per scelta è inaccettabile, di qualsiasi “Meridione” del mondo si parli.

      Non tutti dunque hanno la fortuna di poter tornare da dove vengono e provare a investire per il proprio futuro, c’è chi una volta andato via non ha altra scelta se non quella di accettare questo compromesso. Quando però mi trovo a parlare con i miei coetanei che sono andati fuori per necessità, molto spesso sento la solita frase: “Io ci tornerei pure giù, ma poi cosa faccio?”. E me lo chiedo spesso pure io quando fantastico su un possibile futuro nella città dove sono nata e che mi piace, “Ma poi cosa faccio?”. Da qualche parte però si deve pur cominciare, e come prima cosa direi che sarebbe il caso di smetterla di lamentarci per chi cerca di migliorare la propria vita andando via dal suo Paese e renderci conto che succede pure a noi, con una forma e delle cause diverse, ma con una sostanza pressoché identica. Lasciare casa propria deve essere una scelta, non un’imposizione, da qualsiasi angolo del mondo si provenga. Quando sulla terra non ci sarà più acqua allora magari avrà senso spostarci tutti sulla luna, ma fino a quando l’acqua c’è e non la si vuole trovare per negligenza allora non c’è nessun motivo di andarsene. Io non credo che il Sud Italia sia ancora completamente a secco, anche se da molti anni ormai abbiamo lasciato i rubinetti aperti.


      https://thevision.com/attualita/sud-migrazione
      #Italie_du_sud

    • 28mila laureati se ne vanno ogni anno. E no, non è retorica: è la prima emergenza dell’Italia

      Sembra un problema da poco, è un disastro. Perché se i cervelli se ne vanno, non ne arrivano. E se non c’è un sistema a misura del talento, nessuno ha più incentivi a diventarlo. E se studiare non serve, non ha senso spendere in istruzione. Rimane solo una domanda: come si torna a crescere?

      Potremmo chiamarla la grande evasione: 28mila laureati hanno lasciato l’Italia nel 2017, il 4% in più rispetto al 2016. Lo dice l’Istat, nel suo report sulla mobilità interna e le migrazioni internazionali della popolazione residente, presentato ieri, 14 dicembre 2018. Eccovela, l’Italia dei cervelli in fuga, o dei suoi migranti economici, se preferite. E no, non è solo una retorica antipatica e snob. Al contrario, è il problema dei problemi del nostro Paese, il sintomo primo della nostra crisi senza sbocchi né vie d’uscita, la tessera del domino che cadendo, le fa crollare tutte.

      Lo è, banalmente, perché più cervelli se ne vanno, meno ne arrivano. Lo dice la logica, prima della sociologia: ognuno sta bene in mezzo ai suoi simili, e difficilmente un talento si sentirà attratto da un Paese che fa scappare le sue intelligenze. E infatti in Italia ci sono solo 500mila laureati stranieri, il 7% sul totale, contro il 10% della Francia, l’11% della Germania, il 17% del Regno Unito, tutti Paesi che hanno molti più laureati di noi.

      Lo è, di conseguenza, perché più laureati se ne vanno, meno gente decide di laurearsi. Anche in questo caso, tutto è perfettamente logico: se il mercato del lavoro italiano non assorbe i laureati e se I lavoratori sovraistruiti rispetto alle mansioni che svolgono sono il 20%, uno ogni cinque, che senso ha laurearsi? Domanda perfettamente legittima. La cui risposta sta nelle 65mila immatricolazioni in meno tra il 2000 e il 2015 e nel dato che ci vede all’ultimo posto come numero di laureati tra i 30 e 34 anni: 23,9% rispetto alla media Ue del 38%.

      Se a un Paese che non ha materie prime, risorse energetiche, riserve illimitate di capitali finanziari togli il capitale umano, il migliore che ha, come diavolo torna a crescere?

      Lo è, al pari, perché meno immatricolazion e meno laureati non risolvono il problema del mancato incrocio tra domanda e offerta di lavoro, semmai lo aggravano. Viva le eccezioni, ma se l’Italia è il Paese della produttività al palo, forse una parte del problema sta anche nel fatto che solo il 25% dei suoi manager d’impresa ha la laurea in tasca, contro una media europea del 54%. E pure nel fatto che nel nostro Paese i ricercatori sono due volte meno che in Francia e Regno Unito, tre volte meno rispetto alla Germania, nove volte meno rispetto al Giappone, tredici volte meno degli Stati Uniti d’America. Date laureati alle imprese, magari dategli pure il timone, e innoveranno le loro strategie, cambieranno strada, riconosceranno il talento e attrarranno i loro simili. Cacciateli fuori, e continuerete per la vostra strada mentre tutto attorno cambia, semplicemente perché non avete gli strumenti per intraprendere la strada nuova.

      Lo è, infine, perché tutto questo è uno spreco enorme di risorse. Perché il nostro petrolio si chiama capitale umano e siamo come una potenza petrolifera che regala il proprio oro nero anziché sfruttarlo per arricchirsi. C’è chi ha fatto i conti ed è arrivato a dire che l’Italia, facendo scappare i suoi cervelli, ha perso sinora 42,8 miliardi di investimenti privati - leggi: famigliari - in capitale umano. Cui si aggiungono circa 15 miliardi ogni anno di investimenti pubblici regalati ai Paesi in cui i nostri giovani cervelli vanno a lavorare. Roba da far venir voglia di smettere di investire nell’istruzione. E infatti, il governo del cambiamento, in legge di bilancio, ha messo sul piatto 7 miliardi per i pensionati, 9 miliardi per i sussidi di disoccupazione e niente per l’istruzione.

      Tutto torna. Peraltro, se il numero dei laureati continua a diminuire, e quei pochi scappano, nessuno ne chiederà mai conto, né in piazza, né nel segreto dell’urna. Rimane un solo dubbio: se a un Paese che non ha materie prime, risorse energetiche, riserve illimitate di capitali finanziari togli il capitale umano, il migliore che ha, come diavolo torna a crescere? Quando avete finito gli alibi, con calma, provate a rispondere.

      https://www.linkiesta.it/it/article/2018/12/15/cervelli-in-fuga-28mila-laureati-via-dall-italia-dati-istat/40449
      #2017

    • Talenti in fuga: come riportarli a casa?

      Nel nostro Paese, resta acceso il dibattito intorno alla migrazione giovanile e puntato il dito contro un mercato del lavoro incapace di rispondere alla domanda di occupazione.

      Ben venga questo dibattito. Ma attenzione ad un dato: le lancette del tempo non sono ritornate al 1876, quando ha avuto avvio quella che la storia ha conosciuto come la più massiccia emigrazione di italiani, conclusasi nel 1976 con 26 milioni di espatri.

      Ed infatti, se nel passato il nostro Paese ha esportato giovane manovalanza, oggi esporta in gran parte giovani cervelli.

      Secondo il rapporto Istat nel 2018, i migranti italiani con più di 24 anni, nel corso del 2016, ammontano a circa 54 mila unità e nella fascia di giovani dai 25 ai 39 anni, quasi il 30 per cento è in possesso di un titolo universitario o post-universitario.

      Le destinazioni europee più ricorrenti sono la Germania e la Gran Bretagna; quindi, a seguire, l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera mentre, oltreoceano, l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e il Venezuela.

      Si tratta in larga misura di manager, ricercatori, imprenditori. Secondo i dati della Commissione europea, dal 2005 al 2015, hanno lasciato l’Italia per andare a lavorare nel Regno Unito 1.632 architetti.

      Cosa significa tutto questo? Le risposte sono due.

      La prima che il nostro Paese è popolato da giovani altamente talentuosi, in grado di diventare – malgrado gli ostacoli del caso – brillanti professionisti. La seconda che il nostro mercato del lavoro non è in grado di offrire a tutti i “cervelli” occupazioni in linea con le competenze acquisite.

      Un dramma per alcuni versi, un’andatura fisiologica per altri. Un mercato del lavoro infatti, per funzionare, ha bisogno di “cervelli” ma anche di risorse dotate di professionalità tecniche. Come artigiani, tecnici, piu in generale esperti nei mestieri, e cosi via dicendo.

      A conforto di questa tesi militano almeno tre dati. In primo luogo, in Italia, secondo il sistema Excelsior di Unioncamere e ministero del Lavoro, si registrano quasi 100.000 offerte di lavoro che non trovano candidati e di cui una buona parte riguarda falegnami, panettieri, installatori di infissi, sarti, cuochi, operai metalmeccanici ed elettromeccanici, tecnici informatici e progettisti. In secondo luogo, che – come noto – molte di queste professioni sono occupate dai cittadini stranieri: nel 2016, hanno acquisito la cittadinanza italiana circa 201 mila persone. In terzo luogo, – e si tratta della prova “a contrario” – la Germania registra una bassa disoccupazione dei giovani che, quindi, difficilmente emigrano, perchè, grazie al grosso investimento nella formazione tecnica (Fachoberschule: istituto tecnico, Fachhochschule: tecnico superiore, Berufsfachschule: istituto professionale a tempo pieno), ha una geografia dei lavori ben distribuita tra professioni intellettuali e professioni tecniche.

      Ed allora, bisogna chiedersi: quale possibile soluzione per agevolare l’occupazione di chi ambisce a professioni intellettuali in un mercato del lavoro saturo rispetto ad esse? La risposta potrebbe essere: cavalcare il potere della rivoluzione tecnologica.

      Grazie alla possibilità di lavorare ininterrottamente connessi da remoto al luogo di lavoro per mezzo di sofisticati device, infatti, molte professioni intellettuali potranno essere svolte da un luogo qualsiasi, e dunque anche dal proprio Paese, senza necessità di emigrare verso quello estero che le offre.

      Si immaginino le potenzialità dello smart working che oggi consente di connettersi a distanza con il proprio posto di lavoro. Possono farlo un manager ma anche un imprenditore, ad esempio.

      Oppure, si immaginino le potenzialità del crowd work, il lavoro su piattaforma emblema della gig economy che consente ad un committente da una determinata parte del mondo di commissionare un lavoro, anche di natura intellettuale, ad un lavoratore/professionista dalla parte del mondo opposta. Ad esempio, in alcuni casi, non è difficile commissionare attraverso la piattaforma progetti di studio architettonico o di ricerca.

      Una vera e propria disintermediazione dei territori, dunque, che travalica i confini del mercato del lavoro nazionale, ne disegna uno globale e, di conseguenza, impone la costruzione di un diritto del lavoro di nuova matrice, posto che quello attuale è il riflesso di categorie come il luogo di lavoro, in via di estinzione.

      L’Organizzazione internazionale del lavoro, ad esempio, invita alla creazione di statuti di basilari garanzie in favore dei lavoratori, siano essi subordinati, autonomi, occasionali, su un posto o su un altro posto di lavoro, nel segno di quello che ha definito il decent work.

      In conclusione, deve riempirci di orgoglio essere diventato un Paese patria di molti talenti e ciò deve interrogarci su come creare le migliori condizioni perchè questi talenti possano operare in uno spazio più ampio, sul mercato globale, da uno uno più ristretto, quello domestico.

      L’obiettivo, in altri termini, deve essere quello di rendere il nostro Paese un importante hub dell’economia globale, al pari di Inghilterra, Germania e Stati Uniti, e di offrire ai nostri talenti i relativi posti di comando e non semplicemente quello di riportarli a casa.

      Solo allora, sarà valsa la pena di aver “ricucito” le distanze.

      https://www.agoefilo.info/2019/01/talenti-in-fuga-come-riportarli-a-casa

  • Intéressant, alors que depuis des années on crie #crise_migratoire... attention : arrivée massive de migrants... Il faut arrêter les flux migratoires... là, dans cet article, on dit le contraire : L’Espagne est en train de sortir de la crise économique, on le voit par le #solde_migratoire positif !

    Si seulement ce discours était un peu plus présent dans la presse !

    Espagne. Après sept ans de crise, le solde migratoire est à nouveau positif

    Pour la première fois depuis 2009, l’Espagne affiche un nombre d’immigrants supérieur au nombre d’émigrants. La population du pays, en chute depuis cinq ans, a même légèrement crû en 2016.


    http://www.courrierinternational.com/article/espagne-apres-sept-ans-de-crise-le-solde-migratoire-est-nouve
    #migrations #crise_économique #économie

    Je ne sais pas quel autre #tag utiliser pour retrouver cet article... si vous avez des idées...

  • Long-Term International Migration Flows to and from the UK

    This briefing provides an overview of Long-Term International Migration (LTIM) inflows (immigration), outflows (emigration), and the difference between the two (net migration) in the UK.

    http://www.migrationobservatory.ox.ac.uk/resources/briefings/long-term-international-migration-flows-to-and-from-the-u

    #émigration #immigration #migrations #statistiques #chiffres #UK #Angleterre #solde_migratoire #démographie #évolution

  • Démographie : un dynamisme français en trompe-l’oeil
    http://fr.myeurop.info/2016/01/26/demographie-un-dynamisme-francais-en-trompe-l-oeil-14474

    Daniel Vigneron

    Le bilan démographique de l’INSEE 2015 montre que l’accroissement naturel de la #population française reste le plus élevé d’Europe. Mais l’immigration permet à des pays comme l’Allemagne ou le #Royaume-Uni d’accroître davantage leur population. Et de façon plus efficace sur le plan économique.

    Il y a six jours, l’institut national de la statistique publiait son bilan démographique pour la #France en 2015. lire la (...)

    #EUROFOCUS #Allemagne #Espagne #Grèce #Irlande #Italie #Portugal #Roumanie #accroissement_naturel #croissance #émigration #espérance_de_vie #immigrés #migrations #RFI #solde_migratoire #taux_de_fécondité

    • L’espérance de vie a donc reculé en France pour la première fois depuis 1969.

      Depuis 2005, seuls 8 pays dans le monde ont vu ou voient leur espérance de vie reculer : l’Espagne, la Grèce,, le Portugal, la Syrie, la Tunisie, … l’Irak, la Libye et maintenant la France.

      Il n’aura pas échappé que sur ces 8 pays, 4 font partie de l’Union Européenne. Que la Grèce, l’Espagne et le Portugal sont en pleine débâcle, sacrifiés sur l’autel des intérêts de la préservation des patrimoines européens constitués. Que la France est le pays-pivot entre « l’Europe du sud » en perdition et le reste de l’union européenne des financiers.

  • Démographie : un dynamisme français en trompe-l’oeil
    http://fr.myeurop.info/2016/01/26/d-mographie-un-dynamisme-fran-ais-en-trompe-l-oeil-14474

    Daniel Vigneron

    Le bilan démographique de l’INSEE 2015 montre que l’accroissement naturel de la #population française reste le plus élevé d’Europe. Mais l’immigration permet à des pays comme l’Allemagne ou le #Royaume-Uni d’accroître davantage leur population. Et de façon plus efficace sur le plan économique.

    Il y a six jours, l’institut national de la statistique publiait son bilan démographique pour la #France en 2015. lire la (...)

    #EUROFOCUS #Allemagne #Espagne #Grèce #Irlande #Italie #Portugal #Roumanie #accroissement_naturel #croissance #émigration #espérance_de_vie #immigrés #migrations #RFI #solde_migratoire #taux_de_fécondité

  • Black Friday Gun Sales Soared, F.B.I. Data Shows

    Gun bargains were apparently a big draw on Black Friday. As news of a deadly standoff in Colorado Springs overshadowed America’s unofficial shopping holiday, the F.B.I. was busy processing about two firearm background checks per second.


    http://www.nytimes.com/2015/12/03/us/black-friday-gun-sales-soared-fbi-data-shows.html?_r=1
    #soldes #armes #USA #Etats-Unis

  • Nel 2014 in Italia per la prima volta più emigrati che immigrati: e Londra diventa la tredicesima città italiana

    Le anticipazioni del rapporto Idos: l’anno scorso i residenti all’estero sono aumentati di 155mila unità contro i 92mila nuovi residenti stranieri

    http://www.corriere.it/cronache/15_luglio_07/nel-2014-italia-la-prima-volta-piu-emigrati-che-immigrati-londra-diventa-tr
    #migration #solde_migratoire #statistiques #Italie #émigration #immigration #chiffres