• Il racconto dell’omicidio di #Agitu_Ideo_Gudeta evidenzia il razzismo democratico dei media italiani

    L’imprenditrice #Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa il 29 dicembre nella sua casa a #Frassilongo, in provincia di Trento. Da subito si è ipotizzato si trattasse dell’ennesimo femminicidio (72 donne dall’inizio del 2020), anche in ragione del fatto che in passato la donna era stata costretta a querelare un uomo per #stalking. In quell’occasione Gudeta aveva chiesto di considerare l’aggravante razziale, dato che l’uomo, un vicino di casa, la chiamava ripetutamente “negra”, ma il giudice aveva respinto la richiesta del suo avvocato. Il giorno successivo all’omicidio, il suo dipendente #Adams_Suleimani, – un uomo ghanese di 32 anni – ha confessato il crimine, aggravato dal fatto che l’ha violentata mentre era agonizzante. Il movente sarebbe un mancato pagamento.

    Gudeta era nata ad Addis Abeba, in Etiopia, 42 anni fa. Non era più una “ragazza”, come hanno scritto alcune testate. La sua prima permanenza in Italia risale a quando aveva 18 anni, per studiare nella facoltà di Sociologia di Trento. Era poi tornata in Etiopia, ma nel 2010 l’instabilità del Paese l’ha costretta a tornare in Italia. Nello Stato africano si è interrotto solo pochi giorni fa il conflitto tra il Fronte di Liberazione del Tigré e il governo centrale etiope – i tigrini sono una minoranza nel Paese, ma hanno governato per oltre trent’anni senza far cessare gli scontri tra etnie – cha ha causato violazioni dei diritti umani, massacri di centinaia di civili e una grave crisi umanitaria.

    Proprio le minacce dei miliziani del Fronte di Liberazione avevano spinto Agitu Ideo Gudeta a tornare in Italia. La donna aveva infatti denunciato le politiche di #land_grabbing, ossia l’accaparramento delle terre da parte di aziende o governi di altri Paesi senza il consenso delle comunità che le abitano o che le utilizzano per mantenersi. Per questo motivo il governo italiano le ha riconosciuto lo status di rifugiata. In Trentino, dove si era trasferita in pianta stabile, ha portato avanti il suo impegno per il rispetto della natura, avviando un allevamento di ovini di razza pezzata mochena, una specie autoctona a rischio estinzione, e recuperando alcuni ettari di terreni in stato di abbandono.

    Il caseificio che aveva aperto rivelava già dal nome – La capra felice – il suo credo ambientalista e il suo antispecismo, ricevendo riconoscimenti da Slow Food e da Legambiente per l’impegno promosso con la sua azienda e il suo negozio. Agitu Ideo Gudeta era un nome noto nel movimento antirazzista italiano, ma oggi viene usata – persino dai Verdi – per presentare il Trentino come terra di accoglienza, in un tentativo di nascondere la xenofobia di cui era oggetto. Le origini della donna e del suo assassino stupratore sono sottolineate da tutti e precedono la narrazione della violenza, mettendola in secondo piano, salvo evidenziarla in relazione alla provenienza dell’omicida, che per una volta non è un italiano, né un compagno o un parente.

    Alla “ragazza” è stata affibbiata in tutta fretta una narrazione comune a quella che caratterizza altre donne mediaticamente esposte, come le attiviste Greta Thunberg e Carola Rackete, la cooperante Aisha Romano o la giornalista Giovanna Botteri, basata su giudizi e attacchi basati perlopiù su fattori estetici. Razzismo, sessismo e classismo si mescolano in questa storia in cui la violenza – quella del vicino di casa, quella del suo assassino, quella del governo etiope – rischiano di rimanere sullo sfondo, in favore del Grande gioco dell’integrazione. A guidarlo è come sempre un trionfalismo tipico dei white saviour (secondo una definizione dello storico Teju Cole del 2012), come se esistesse un colonialismo rispettabile: insomma, in nome della tolleranza, noi italiani doc abbiamo concesso alla donna un riparo da un Paese povero, di una povertà che riteniamo irrimediabile. Usiamo ormai d’abitudine degli automatismi e un lessico che Giuseppe Faso ha definito razzismo democratico, in cui si oppongono acriticamente migranti meritevoli a migranti immeritevoli, un dualismo che sa vedere solo “risorse” o “minacce all’identità nazionale”.

    Così il protagonismo di Agitu Ideo Gudeta viene improvvisamente premiato, trasformando lei in una migrante-eroina e il suo aguzzino nel solito stupratore non bianco, funzionale solo al “Prima gli italiani”. Ma parlare di Agitu Ideo Gudeta in termini di “integrazione” è un insulto alla sua memoria. Considerarla un simbolo in questo senso conferma che per molti una rifugiata sarà rifugiata per sempre e che una “migrante” non è altro che una migrante. La nostra stampa l’ha fatto, suggerendo di dividere gli immigrati in buoni e cattivi, decorosi e indecorosi, e trattando i lettori come se fossero tutti incapaci di accogliere riflessioni più approfondite.

    Parallelamente però, un governo che come i precedenti accantona la proposta di legge sulla cittadinanza favorisce un racconto privo di sfumature, che rifiuta in nome di una supposta complessità non affrontabile nello sviscerare questo tema. Forse se avessimo una legge sulla cittadinanza al passo con i tempi, e non una serie di norme che escludono gli italiani di seconda generazione e i migranti, potremmo far finalmente progredire il ragionamento sulla cosiddetta convivenza e sulla coesione sociale ed esprimerci con termini più adeguati. Soprattutto chi è stato in piazza a gridare “Black Lives Matter”, “I can’t breathe” e “Say Their Names” oggi dovrebbe pretendere che la notizia di questo femminicidio venga data diversamente: in Trentino una donna di nome Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa e violentata. Era diventata un’imprenditrice di successo nel settore caseario dopo essersi opposta alle politiche di land grabbing in Etiopia. Era un’attivista e un’ambientalista molto conosciuta. Mancherà alla sua comunità.

    https://thevision.com/attualita/agitu-gudeta-razzismo

    #féminicide #racisme #Italie #meurtre #femmes #intersectionnalité #viol #réfugiés #accaparement_des_terres #Trentin #éleveuse #élevage #Pezzata_Mòchena #chèvrerie #chèvres #La_capra_felice #xénophobie
    #white_saviour #racisme_démocratique
    –-

    Le site web de la #fromagerie de Agitu Ideo Gudet :


    http://www.lacaprafelice.com

    –------------------

    NB :
    Grâce à une amie qui connaissait Agitu je viens de connaître une autre facette de cette histoire. Un drame dans le drame, dont je ne peux/veux pas parler ici.

    • Murdered Agitu Ideo Gudeta, an example of environmental preservation and female entrepreneurship in Italy.

      Agitu was found dead in her home in #Val_dei_Mocheni, Trentino, Italy. The entrepreneur and shepherdess from Ethiopia would turn 43 on January 1st.
      An employee of her company confessed the murder followed by rape.

      One of the main news in the Italian media, the murder of Agitu brought much indignation. Especially among women. In Italy, a woman is murdered every three days, according to a report from Eures.

      “When will this massacre of women end? When? Today, feminicide has extinguished the smile of a dear and sweet sister. Rest in peace Agitu. We will miss you a lot”, twitted the Italian writer with SomaIi origin Igiaba Sciego.

      Agitu, originally from Addis Ababa, was born into a tribe of nomadic shepherds. She went to Rome to study Sociology when she was 18 years old and returned to Ethiopia. However, she left her country again in 2010, fleeing threats for her commitment by denouncing “land grabbing” by multinationals.

      In Italy, in Valle dei Mocheni, Trentino, she began to preserve a goat species in extinction, the #Mochena goat.

      An example of female entrepreneurship, she set up the company “La capra felice” (The happy goat) producing cheeses and cosmetic products with goat’s milk.

      She has become an example of organic and sustainable production.

      Agitu’s work has been recognized throughout Italy, her story published in many medias, she attended different events and has been rewarded for her commitment to preserving goats and her production of organic products. One of the awards was the Slow Cheese Resistenza Casearia award, in 2015.

      It was not the first time that Agitu had her life under threat in the hands of men. She publicly denounced her neighbour for stalking, racially motivated threats and aggression. For months she was threatened by a man and one of the reasons was that she offered work and apprenticeship for refugees from African origins. “This neighbour does not like the colour of our skin and does what it can to create confusion,” she said at an interview.

      On December 29, her life was taken by a man who worked for her, shepherding her goats. According to him, for financial reasons. The man confessed to the crime and also revolted that he had committed rape after the attack. The man beat her in her head with a hammer. He was arrested.

      Agitu was found lifeless after friends called the police because they thought it was strange that she didn’t come to a meeting and didn’t answer the phone.

      The murder is a tragic end for a woman who brought so many good things into the world.

      Until when will we lose our sisters to violence?

      Rest in peace Agitu. We will never forget your legacy.

      https://migrantwomenpress.com/agitu-ideo-gudeta-murdered/amp/?__twitter_impression=true

      #montagne

    • Grâce à une amie qui connaissait Agitu je viens de connaître une autre facette de cette histoire. Un drame dans le drame, dont je ne peux/veux pas parler ici.

    • Le féminicide d’Agitu Ideo Gudeta choque l’Italie

      Ce 29 décembre, Agitu Ideo Gudeta, une réfugiée éthiopienne de 42 ans, a été retrouvée morte à son domicile, dans le nord de l’Italie, annonce La Repubblica. Elle était connue dans tout le pays grâce à son activité, couronnée de succès, d’éleveuse de chèvres et avait été à de nombreuses reprises médiatisée.

      Une célèbre bergère

      Selon le quotidien local Il Dolomiti, Agitu Gudeta était devenue « la bergère la plus célèbre des vallées du Trentin ». Et son histoire n’était pas banale. En 2010, elle avait dû fuir l’Éthiopie à cause de son activité de militante environnementaliste. Elle subissait des menaces de poursuites judiciaires et des menaces de mort car elle s’opposait à l’accaparement des terres par certaines multinationales.

      A 30 ans, toute seule dans un nouveau pays et dans la région réputée inhospitalière du Trentin, elle avait commencé une autre vie, avec ses 180 chèvres et sa propre entreprise prospère de fromages bio baptisée « La Capra Felice », la chèvre heureuse. Elle avait choisi de protéger une espèce rare, la chèvre Mochena, qui survit dans cette vallée isolée.
      Insultes et menaces racistes

      Avec sa réussite, c’est à d’autres menaces qu’elle avait dû faire face : des menaces et insultes racistes de la part de ses voisins. Elle avait été agressée physiquement également. Elle avait porté plainte contre l’un d’eux qui avait été condamné en janvier à 9 mois sous liberté conditionnelle.

      https://www.youtube.com/watch?v=CF0nQXrEJ30&feature=emb_logo

      https://www.rtbf.be/info/dossier/les-grenades/detail_le-feminicide-d-agitu-ideo-gudeta-choque-l-italie?id=10664383

    • Trentino, uccisa in casa Agitu Gudeta, la rifugiata etiope simbolo dell’integrazione

      Scappata dal suo Paese, aveva fondato l’azienda agricola «La capra felice» nella Valle dei Mocheni dove allevava animali a rischio di estinzione.

      L’hanno trovata senza vita all’interno della sua casa di Frassilongo (Trentino), colpita con violenza alla testa. Un omicidio, hanno confermato i carabinieri che nel tardo pomeriggio sono giunti sul posto, chiamati dai vicini e stanno lavorando per ricostruire l’accaduto.

      È finito così - forse con un colpo di martello - il sogno di Agitu Ideo Gudeta, pastora etiope che avrebbe compiuto 43 anni il giorno di Capodanno e che si era data l’obiettivo di salvare dall’estinzione (e anche dagli attacchi dell’orso) la capra mochena, una specie che sopravvive in una valle isolata della Provincia di Trento dove la donna aveva trovato casa.

      Ma il suo problema - aveva denunciato un paio di anni fa - più che gli orsi erano i vicini: «Mi insultano, mi chiamano brutta negra, dicono che me ne devo andare e che questo non è il mio posto» aveva denunciato ai carabinieri, raccontando anche pubblicamente la sua storia. Le indagini perà si concentrerebbero su un giovane africano dipendente dell’azienda ’La Capra Felice’. A quanto pare, l’uomo - che non è quello che l’aveva minacciata ed aggredita - avrebbe avuto dissidi con Agitu per motivi economici. A dare l’allarme ai carabinieri sono stati alcuni vicini a loro volta chiamati da un uomo con il quale la vittima aveva un appuntamento al quale non si era presentata.

      Sul caso delle minacce arrivò la solidarietà del presidente della giunta provinciale, all’epoca Ugo Rossi: «Il fatto che Agitu, da rifugiata, abbia avviato la sua attività agricola sul nostro territorio dimostra che il Trentino crede nell’accoglienza e nella solidarietà». Una storia di minacce e danneggiamenti, finita in tribunale con la condanna a 9 mesi per lesioni di un uomo del posto che aveva sempre liquidato la faccenda come una lite fra vicini: «Il razzismo non c’entra». La donna quindi aveva ripreso a girare i mercati del Trentino per vendere i prodotti realizzati con il latte delle sue cinquanta capre, con il furgone che sulla fiancata riportava il nome dell’azienda agricola: «La capra felice».

      Agitu Gudeta era fuggita in Italia nel 2010 e aveva ottenuto lo status di rifugiata e dopo qualche anno era riuscita ad avviare la sua azienda agricola a Frassilongo scommettendo sulle capre mochene. Nel 2017 aveva partecipato all’incontro «Donne anche noi», raccontando la sua storia di migrante arrivata in Italia. Originaria della capitale Addis Abeba, era stata costretta a lasciate l’Etiopia perché a causa del suo impegno contro l’accapparramento delle terre da parte di alcune multinazionali era stata oggetto di minacce di morte.

      https://www.repubblica.it/cronaca/2020/12/29/news/trentino_trovata_morta_agitu_gudeta_donna_42enne_simbolo_di_integrazione_

    • Tributes paid to Ethiopian refugee farmer who championed integration in Italy

      Agitu Ideo Gudeta, who was killed on Wednesday, used abandoned land to start a goat farming project employing migrants and refugeesTributes have been paid to a 42-year-old Ethiopian refugee and farmer who became a symbol of integration in Italy, her adopted home.

      Agitu Ideo Gudeta was attacked and killed, allegedly by a former employee, on her farm in Trentino on Wednesday.

      Gudeta had left Addis Ababa in 2010 after angering the authorities by taking part in protests against “land grabbing”. Once in Italy, she tenaciously followed and realised her ambition to move to the mountains and start her own farm. Taking advantage of permits that give farmers access to abandoned public land in depopulated areas, she reclaimed 11 hectares (27 acres) around an old barn in the Mòcheni valley, where she founded her La Capra Felice (The Happy Goat) enterprise.

      Gudeta started with a herd of 15 goats, quickly rising to 180 in a few years, producing organic milk and cheese using environmentally friendly methods and hiring migrants and refugees.

      “I created my space and made myself known, there was no resistance to me,” she told Reuters news agency that year.

      “Agitu brought to Italy the dream she was unable to realise in Ethiopia, in part because of land grabbing,” Gabriella Ghermandi, singer, performer, novelist and friend of Gudeta, told the Guardian. “Her farm was successful because she applied what she had learned from her grandparents in the countryside.

      “In Italy, many people have described her enterprise as a model of integration. But Agitu’s dream was to create an environmentally sustainable farm that was more than just a business; for her it also symbolised struggle against class divisions and the conviction that living in harmony with nature was possible. And above all she carried out her work with love. She had given a name to each one of her goats.”

      In a climate where hostility toward migrants was increasing, led by far-right political leaders, her success story was reported by numerous media outlets as an example of how integration can benefit communities.

      “The most rewarding satisfaction is when people tell me how much they love my cheeses because they’re good and taste different,” she said in an interview with Internazionale in 2017. “It compensates for all the hard work and the prejudices I’ve had to overcome as a woman and an immigrant.”

      Two years ago she received death threats and was the target of racist attacks, which she reported to police, recounting them on her social media posts.

      But police said a man who has confessed to the rape and murder of the farmer was an ex-employee who, they said, allegedly acted for “economic reasons”.

      The UN refugee agency said it was “pained” by Gudeta’s death, and that her entrepreneurial spirit “demonstrated how refugees can contribute to the societies that host them”.

      “Despite her tragic end, the UNHCR hopes that Agitu Ideo Gudeta will be remembered and celebrated as a model of success and integration and inspire refugees that struggle to rebuild their lives,” the agency said.

      “We spoke on the phone last week’’, said Ghermandi. “We spent two hours speaking about Ethiopia. We had plans to get together in the spring. Agitu considered Italy her home. She used to say that she had suffered too much in Ethiopia. Now Agitu is gone, but her work mustn’t die. We will soon begin a fundraising campaign to follow her plan for expanding the business so that her dream will live on.”

      Gudeta would have turned 43 on New Year’s Day.

      https://www.theguardian.com/global-development/2021/jan/01/tributes-paid-to-ethiopian-refugee-farmer-who-championed-integration-in

    • Dalla ricerca di eroi alla costruzione di progetti comunitari. Perché è importante cambiare narrazione

      Del bisogno di eroi

      La storia del passato, così come la cronaca quotidiana, pullula di storie di eroi che troneggiano nell’immaginario collettivo. Quello di eroi ed eroine è un bisogno antico, che riflette la necessità di costruire cognitivamente il mondo reale per mezzo di narrative che ci permettano di affidare ruoli e connotati chiari a singoli individui e gruppi sociali, soddisfacendo il nostro bisogno di certezze che affonda le radici tanto nella mitologia classica quanto nel pensiero cristiano e che sostengono la costruzione della nostra moralità culturale e senso dell’etica.

      Si tratta però di un bisogno che è ancora largamente presente nelle società contemporanee, a dispetto dei progressi indotti dal processo di formazione del diritto moderno, che ha portato a distinguere in maniera netta tra ciò che è lecito e ciò che lecito non è. Questo processo non è infatti riuscito, se non in astratto attraverso artifici teorici, a superare la dimensione individualistica (Pisani, 2019). Di qui il perdurare del bisogno di eroi, che continua a essere percepito come rilevante perché offre un’efficace e facile via di fuga. Consente, talvolta inconsapevolmente, di banalizzare situazioni e fenomeni complessi, interpretarli in maniera funzionale alla nostra retorica e giustificare l’inazione.

      Se l’obiettivo è però innescare profondi cambiamenti sociali all’insegna di una maggiore giustizia sociale e lotta alle profonde disuguaglianze del nostro tempo, allora non è di singoli eroi che si dovrebbe andare alla ricerca, ma di una diversa narrazione che faccia assegnamento sull’impegno autentico delle comunità. Comunità locali che sono sempre più chiamate a svolgere un ruolo rilevante nella costruzione sia di sistemi di welfare di prossimità, sia di nuovi modelli di produzione a larga partecipazione, in risposta a una pluralità di bisogni e sfide incompiute che spaziano dall’inclusione di persone vulnerabili fino alla gestione di beni comuni come la salute, il territorio, l’energia.[1]

      Quest’articolo prende le mosse da una convinzione di fondo. Nonostante il ruolo importante che svolgono nel generare benessere sociale, le comunità locali stentano ad essere riconosciute come protagoniste di un processo di cambiamento.

      Responsabile della loro scarsa visibilità e incisività non è solo l’insufficiente riconoscimento politico, ma anche una narrazione incoerente di cui si fanno sovente portatrici anche le organizzazioni di terzo settore che gli interessi delle comunità promuovono. Una narrazione spesso incentrata sul culto di singole personalità che, mettendo in ombra l’ancoraggio comunitario, rischia di incrinare l’impatto generativo del terzo settore.

      Dopo una riflessione sul perché bisognerebbe diffidare delle narrazioni idealizzate e sugli effetti del pathos degli eroi, l’articolo si sofferma su un caso specifico, quello di Agitu Ideo Gudeta, assassinata sul finire del 2020 da un suo collaboratore. Quindi, prendendo le mosse da questa drammatica vicenda, gli autori si soffermano sulle ragioni che farebbero propendere per la sostituzione degli eroi con progetti collettivi, sollecitando le organizzazioni di terzo settore, in primis, a cambiare narrazione.
      Pathos degli eroi

      Gli esempi di persone, professionisti e politici che sono stati idealizzati in virtù di reali o presunti talenti o gesta sono molteplici e coinvolgono frange della società civile – sia conservatrici e reazionarie, sia progressiste – così come il mondo della politica. Eroi che, spesso in virtù di altrettante semplificazioni, da figure mitologiche sono stati di punto in bianco trasformati in demoni o in capri espiatori, lasciando volutamente in ombra la complessità dei contesti, le relazioni, le fragilità, le emozioni e i comportamenti, spesso controversi, che accompagnano ogni essere umano, sia nei momenti di gloria, sia in quelli più bui.

      Nell’ambiente conservatore spicca la parabola di Vincenzo Muccioli, santificato negli anni ’80 come salvatore di migliaia di giovani spezzati dall’eroina, e poi demonizzato dai mezzi di informazione, prescindendo da un’analisi approfondita della sua controversa iniziativa. Tra gli esempi di persone e professionisti che sono stati santificati e poi travolti da un’onda di retorica colpevolista vi sono gli infermieri e i medici, celebrati come supereroi allo scoppio della pandemia Covid-19, passati nel secondo lockdown ad essere additati come appestati e untori, quando non complici di una messa in scena.[2]
      Emblematico è anche il caso dei volontari, portati puntualmente alla ribalta della cronaca come angeli durante catastrofi e crisi naturali, per poi svanire nel nulla in tempi non emergenziali, a dispetto del loro prezioso contributo quotidiano per migliorare la qualità della vita delle persone più vulnerabili.[3]
      Con riferimento all’ambiente più militante e progressista si distingue Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, passato dall’essere innalzato a mito dell’accoglienza dalla stampa e dal sistema SPRAR, in virtù dell’esperienza pionieristica sperimentata dal suo Comune, a essere abbandonato e attaccato da una parte dei media. Il cambio di atteggiamento nei confronti di Lucano coincide con la controversa vicenda giudiziaria che lo vede coinvolto per favoreggiamento dell’immigrazione e per la gestione di progetti di accoglienza, dopo che il suo Comune è stato per anni pressato dal Viminale e dalla Prefettura affinché ospitasse un gran numero di richiedenti asilo, rifiutati da altri progetti di accoglienza (Procacci, 2021). Nel mondo della politica istituzionale primeggia l’attuale santificazione di Mario Draghi, acclamato come unico possibile salvatore di un Paese al collasso dopo essere stato considerato un simbolo dei poteri finanziari forti negli anni della crisi economica globale (Dominjanni, 2021).
      Perché diffidare degli eroi?

      Le ragioni che portano a diffidare degli eroi sono molteplici. I riflettori accesi esclusivamente sulla dimensione dell’eccellenza[4]
      distolgono l’attenzione da tutto ciò che condiziona le azioni dell’eroe, come i contesti istituzionali e ambientali, incluso il bagaglio di risorse, non solo economiche ma anche sociali e culturali, su cui il singolo fa assegnamento. A influenzare i percorsi che portano alle presunte gesta eccezionali di chi viene incoronato come eroe, ci sono comunità e organizzazioni, più o meno coese, composte da una pluralità di individui che si relazionano tra di loro per contribuire, in base al ruolo ricoperto, al raggiungimento di obiettivi condivisi. Anche le scelte dell’imprenditore più autoritario e accentratore, sono condizionate dalle persone e dall’ambiente con cui è interconnesso. Il potenziale innovativo non è quindi un dono che gli dei fanno a pochi eletti (Barbera, 2021), ma un processo complesso che per essere compreso appieno presuppone un’analisi articolata, che ricomprende una pluralità di elementi economici, sociali e relazionali. Elementi che le analisi fondate sugli eroi nella maggior parte dei casi ignorano, riconducendo sovente il successo dell’iniziativa idealizzata esclusivamente a un’intuizione del singolo.

      A fomentare una narrazione personalistica ha contribuito lo storytelling che ha fatto dell’innovazione il mantra dominante (Barbera, 2021). Responsabile è principalmente la retorica di stampo neoliberista, incentrata sul mito dell’imprenditore individuale, che ha assoggettato la maggior parte dei campi del sapere, arrivando a giustificare le disuguaglianze poiché conseguenti a un processo liberamente accettato dove ognuno ha pari opportunità di accesso al mercato e alla proprietà (Piketty, 2020). Di qui la riconversione del cittadino in homo oeconomicus, orientato non più allo scambio come nel liberismo classico, bensì alla valorizzazione di sé stesso in quanto capitale umano (Dominjianni, 2017). Una parte della letteratura sul management del terzo settore ha introiettato questa logica, proiettandola nella figura eroica dell’imprenditore sociale (Waldron et al., 2016; Miller et al., 2012; Dacin et al., 2011; Short et al., 2009; Zahra et al., 2009; Bornstein, 2007; Martin, Osberg, 2007; Austin et al., 2006).[5]
      Sottolineando il connubio tra tratti etici e competenze creative e leadership, che permetterebbero all’imprenditore sociale di assumersi i rischi necessari a raggiungere obiettivi sociali straordinari, questa letteratura ha trascurato i processi organizzativi e decisionali che sono alla base del funzionamento delle diverse organizzazioni (Petrella, Battesti, 2014).

      Il culto degli eroi ha così contribuito ad allontanare l’attenzione da alcune caratteristiche precipue di associazioni e cooperative, tra cui in primis l’adozione di modelli di governo inclusivi ad ampia partecipazione, che dovrebbero favorire il coinvolgimento di una pluralità di portatori di interesse nei processi decisionali, in rappresentanza dei diversi gruppi sociali che abitano un territorio (Sacchetti, 2018; Borzaga e Galera, 2016; Borzaga e Sacchetti, 2015; Defourny e Borzaga, 2001).[6]
      Ciò si verifica, ad esempio, quando una organizzazione di terzo settore costituita su basi democratiche, è identificata con il nome di un singolo eroe: un fondatore, un religioso che – anche quando non ricopra effettivamente cariche formali apicali – si riconosce come ispirazione e figura carismatica. Sono casi in cui talvolta il percorso di sviluppo dell’ente passa in secondo piano rispetto a quello di un singolo individuo il cui nome è di per sé evocativo dell’intera organizzazione.
      Gli effetti delle narrazioni eroicizzate

      L’immediata spendibilità comunicativa delle narrazioni fondate su figure eroiche spiega perché esse siano largamente preferite da una parte rilevante della politica, da molti osservatori e dalla quasi totalità degli operatori dell’informazione rispetto a studi analitici volti a comprendere i fenomeni sociali e a rendere conto ai cittadini e agli attori esterni delle scelte di policy compiute. Di qui l’incapacità di comprendere le problematiche che affliggono la società contemporanea e la proiezione artificiale in una figura erta a simbolo, non senza implicazioni negative.
      Allontanano dall’individuazione di possibili soluzioni

      Oltre a offuscare il contesto di appartenenza, la retorica dell’azione straordinaria allontana l’attenzione da quello che dovrebbe essere il corretto funzionamento di qualsiasi sistema, a livello macro, così come a livello micro. Nelle narrazioni incentrate sugli eroi non c’è spazio né per analisi valutative comparate, né tantomeno per riflessioni su come dovrebbe funzionare, ad esempio, un’organizzazione.

      Scoraggiando la correttezza analitica su temi di rilevanza pubblica e disincentivando qualsiasi tipo di studio volto a misurare l’efficacia di singole iniziative di welfare o il loro impatto sull’occupazione e il benessere della collettività, le narrazioni eroicizzate impediscono di indagare la realtà in maniera approfondita. Di conseguenza, non consentono di comprendere le implicazioni, non solo economiche ma anche in termini di efficacia, che sono connesse alle diverse soluzioni di policy.

      La tendenza ad analizzare la realtà in maniera superficiale, spesso in nome di un’imperante “politica del fare”, ci allontana quindi dall’individuazione di possibili soluzioni ai problemi che affliggono le società contemporanee. I riflettori accesi su una singola esperienza nel campo delle dipendenze hanno per molto tempo impedito un confronto serio sull’efficacia degli interventi di riabilitazione sperimentati dalle diverse realtà di accoglienza, non solo in termini di disintossicazione, ma anche di reinserimento nel tessuto sociale delle persone accolte. L’esaltazione della figura di Vincenzo Muccioli ha contribuito a trascurare negli anni ‘80 le oltre 300 iniziative di accoglienza di tossicodipendenti che in quegli stessi anni stavano sperimentando percorsi di riabilitazione alternativi basati sull’ascolto individuale, la responsabilità e la condivisione comunitaria. Realtà che, basandosi su uno scambio tra contributi volontari e competenze professionali (sociologici, psicologi, educatori, psichiatri, ecc.), prendevano le mosse a partire dall’esperienza di organizzazioni già radicate come il Gruppo Abele, San Benedetto al Porto e la Comunità di Capodarco, così come nuove esperienze, tra cui il Ceis, Exodus, Saman, Villa Maraini a Roma e la comunità Betania a Parma (De Facci, 2021). Tra le tante comunità di accoglienza e recupero nate tra gli anni ’70 e ’80, particolarmente interessante è quella trentina di Camparta, che è stata recentemente raccontata da alcuni dei suoi protagonisti. Promossa su iniziativa di uno psicoterapeuta d’impronta basagliana e animata da ideali libertari e comunitari, Camparta ha sperimentato un metodo di riabilitazione olistico, fondato su un percorso di ricerca interiore, confronto e rifondazione culturale a tutto campo (I ragazzi di Camparta, 2021).

      La narrazione fortemente polarizzata tra posizioni idealizzate pro e anti migranti continua a impedire un’analisi rigorosa e sistematica del fenomeno migratorio che possa fornire utili indicazioni di policy su come andrebbe gestita l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati entro una visione di sviluppo locale piuttosto che secondo una logica emergenziale. L’idealizzazione di Mimmo Lucano ha distolto l’attenzione dalle tante altre esperienze di accoglienza di cui l’Italia è ricca. Iniziative che, prendendo in alcuni casi ispirazione dall’iniziativa pionieristica di Riace, hanno saputo innescare processi di sviluppo a livello locale grazie ad una proficua collaborazione tra enti di terzo settore e enti locali (Galera, Borzaga, 2019; Lucano, 2020).

      Coprendo le nefandezze e le carenze di un sistema sanitario al collasso, la celebrazione di medici e infermieri come angeli durante il primo lockdown ha ritardato una riflessione quanto mai necessaria su come dovrebbe essere riformato il sistema sanitario per renderlo maggiormente in grado di gestire le attuali sfide socio-sanitarie, così come quelle all’orizzonte per effetto dell’allevamento industriale intensivo, del massiccio impiego di antibiotici in allevamento e dei cambiamenti climatici (Galera, 2020; Tamino, 2020).

      A livello organizzativo, le narrazioni incentrate sull’azione straordinaria degli eroi imprenditori incoraggiano sistematicamente sia l’adozione di strumenti di management, sia l’adesione a culture organizzative che, svilendo la componente della partecipazione, indeboliscono la capacità del terzo settore di incidere a livello locale; e influenza, in modo negativo, pure le politiche, laddove, ad esempio nelle scelte di finanziamento, venga privilegiata l’idea “innovativa”[7]
      rispetto alla capacità di costruire legami di comunità e di rafforzare soggetti collettivi e inclusivi.

      A livello di sistema, l’impatto generativo del terzo settore è nondimeno minato dall’incapacità – insita in ogni idealizzazione – di discernere tra elementi non trasferibili, perché legati a particolari condizioni congiunturali e di contesto favorevoli, ed elementi “esportabili”. Tra questi, ad esempio, modelli di servizio, strumenti di lavoro, strategie di collaborazione o forme dell’abitare che, essendo stati sperimentati con esiti positivi, potrebbero essere modellizzati e replicati su più ampia scala, qualora liberati dal giogo dell’eroe.
      Forniscono l’alibi per rifugiarsi nell’inazione

      Tra i gruppi idealizzati rientrano i volontari e gli operatori impegnati in prima linea nelle situazioni emergenziali generate da catastrofi naturali. Nel caso dei volontari, la tendenza predominante è mitizzarne il coinvolgimento durante le emergenze e ignorarne sistematicamente il contributo nella vita quotidiana a sostegno delle persone più vulnerabili o del territorio che abitiamo per contenerne la fragilità.

      Tra gli esempi di mobilitazioni di volontari idealizzate vi sono quelle avvenute in occasione di nubifragi e terremoti. Tra queste l’alluvione che nel 1966 cosparse Firenze di acqua e fango, causando gravissimi danni sia alle persone sia al patrimonio artistico (Silei, 2013). Ulteriori esempi di mobilitazioni comunitarie sono rappresentati dal terremoto del 2012 in Emilia e dall’alluvione di Genova nel 2014. Catastrofi naturali che hanno attivato una catena di solidarietà in grado di compensare, almeno in parte, l’assenza di un’organizzazione centralizzata capace di gestire opportunamente le emergenze.

      L’uso di espressioni improprie come “angeli” e “eroi” mette tuttavia in ombra la normalità dell’azione di milioni di cittadini che nelle associazioni o individualmente nei loro posti di lavoro, in strada o su internet, chiedono l’attenzione delle istituzioni, anche prima delle emergenze, denunciano gli abusi e si battono per i propri diritti (Campagna #nonsonoangeli, 2014).[8]
      La mitizzazione dei volontari nei momenti di crisi non solo svilisce il loro prezioso contributo nella quotidianità. Appigliandosi al pretesto che l’impegno sia appannaggio di pochi eletti, l’idealizzazione offre ai così detti “cittadini ordinari” l’alibi per rifugiarsi nell’inazione.
      Scoraggiano la costruzione di un sistema valoriale alternativo

      Il pathos suscitato dagli eroi offre nondimeno la scorciatoia per non impegnarsi nella costruzione di un sistema valoriale coerente con i principi e i valori dichiarati. Il sistema di riferimenti valoriali riprodotto dall’eroe permette, infatti, di aggregare consenso in maniera immediata, senza alcuna fatica. Diversamente, un percorso di produzione valoriale sociale in grado di innescare cambiamenti consapevoli richiederebbe sia un impegno rilevante in termini di ascolto, confronti e negoziazioni volti a tracciare un itinerario di azione condiviso, sia tempi considerevoli.

      Di qui l’effimera illusione che l’eroe, consentendo di conseguire approvazione e sostegno nel breve termine, possa aiutarci a sostenere il nostro sistema valoriale in maniera più efficace. Le storie di eroi ci mostrano, invece, come i sistemi basati sull’idealizzazione siano nel medio e lungo periodo destinati a produrre l’effetto contrario. Creando una frattura netta tra gli eroi e i non eroi, influenzano in senso antisociale i comportamenti collettivi e individuali (Bonetti, 2020). E così facendo, ci allontanano da quello che dovrebbe essere il modello di società più rispondente al sistema valoriale che vorremmo promuovere.
      Incoraggiano la polarizzazione tra “buoni” e “cattivi”

      Di conseguenza, oltre a non contribuire a risolvere spinosi problemi sociali, le narrazioni idealizzate favoriscono una polarizzazione tra “buoni” e “cattivi” in cui le posizioni contrapposte si alimentano a vicenda, compromettendo il dialogo e la gestione dei conflitti.

      La tendenza a polarizzare è una prassi diffusa nel settore dell’informazione, incline a esaltare o distruggere personaggi simbolo (Sgaggio, 2011), così come tra opinionisti, osservatori, ricercatori, esperti e tra le organizzazioni della società civile.

      Quella della polarizzazione e categorizzazione è tuttavia una tendenza a cui siamo tutti soggetti, spesso inconsapevolmente. Siamo attratti maggiormente da notizie e informazioni che siano in grado di confermare le nostre interpretazioni del mondo, mentre siamo respinti magneticamente da tutto ciò che mette in discussione le nostre certezze o alimenta dubbi. Elaborare messaggi che si allineano con le nostre ideologie richiede, non a caso, uno sforzo cognitivo considerevolmente minore rispetto alla messa in discussione delle nostre sicurezze (Michetti, 2021).

      L’inclinazione a semplificare e categorizzare è in una certa misura una reazione incontrollata, indotta dall’esigenza di difenderci dal bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti sistematicamente. Una reazione che rischia di essere esasperata dallo stato emotivo di vulnerabilità a livello individuale e collettivo in cui ci troviamo a causa della pandemia. L’essere più fragili ci rende, infatti, più facilmente preda di abbagli e simboli in cui proiettare paure, ambizioni e desideri di cambiamento in positivo.
      Esasperano le fragilità delle persone idealizzate

      In mancanza della consapevolezza di essere oggetto di idealizzazione, la mitizzazione può avere conseguenze deleterie anche sulla persona idealizzata. Come alcune storie di eroi ci mostrano, l’idealizzazione può portare a una progressiva esasperazione di fragilità latenti e, nei casi estremi, a una dissociazione cognitiva. Di qui lo sviluppo – nelle persone borderline – di disturbi narcisistici e megalomani, che possono accelerare la caduta del mito, sempre al varco quando vi è un processo di santificazione in atto.[9]

      A prescindere dall’evoluzione dell’idealizzazione, delle competenze, talenti o accuse di cui può essersi macchiato il presunto eroe, si tratta di un percorso a termine, nella maggior parte dei casi destinato a lasciare spazio alla solitudine non appena la stagione della gloria si esaurisce, talvolta accompagnata dalla dissacrazione della figura dell’eroe.
      Il caso della pastora Agitu Ideo Gudeta e della “Capra Felice”

      La recente idealizzazione della pastora etiope Agitu Ideo Gudeta, titolare dell’azienda agricola “La Capra Felice”, esaltata a seguito della sua uccisione, confermano il bisogno compulsivo di eroi che affligge una rilevante fetta di società, in questo caso quella più militante e attenta alla giustizia sociale, ai valori della solidarietà e dell’antirazzismo. La sua storia è molto conosciuta.

      Agitu Ideo Gudeta nasce nel 1978 in Etiopia. Emigra in Italia per motivi di studio ma, appena laureata, torna nella sua terra d’origine per combattere contro il land-grabbing. Dopo aver ricevuto pesanti minacce per il suo impegno contro le multinazionali, rientra come rifugiata in Italia e avvia in Trentino un allevamento di ovini di razza pezzata mòchena, una specie autoctona a rischio di estinzione, e un caseificio, La Capra Felice, i cui prodotti biologici e gli intenti ambientalisti la portano ad ottenere riconoscimenti anche da Slow Food e da Legambiente. Per la sua attività Agitu Ideo Gudeta recupera un pascolo di oltre 10 ettari in stato di abbandono e occupa nel corso degli anni numerosi giovani richiedenti asilo e rifugiati.

      Quello di Agitu Ideo Gudeta è un racconto ineccepibile di cui tanti attivisti si sono innamorati, estrapolando pezzi della sua storia che calzavano a pennello con la loro retorica. Il suo percorso ha trovato terreno fertile nelle narrazioni sull’inclusione, nelle analisi di buone pratiche di imprenditoria migrante e femminista, nelle storie di rivitalizzazione di aree interne, negli esempi di recupero di specie animali autoctone a rischio di estinzione, e nella lotta contro il land-grabbing.

      La maggior parte delle analisi, in particolare quelle realizzate dopo la sua uccisione, si è tuttavia limitata ad una descrizione superficiale che ha sottovalutato le caratteristiche di un contesto contraddistinto da una molteplicità di sfide e criticità legate in primo luogo al settore di attività, la pastorizia, notoriamente a rischio di sfruttamento per le caratteristiche intrinseche a tutte le attività agricole. Si tratta di attività esposte a una molteplicità di fattori di incertezza; a quelli produttivi e di mercato si aggiungono rischi climatici, ambientali e istituzionali legati al cambio di normative e regolamenti, che condizionano fortemente le entrate economiche, specie delle aziende agricole di piccole dimensioni.

      Tra le caratteristiche di contesto rientra anche il tipo di territorio: la Valle Dei Mòcheni, un’area alpina periferica dove esistono ancora regole antiche che governano i rapporti tra i membri della comunità. Infine, un ulteriore elemento di complessità è legato alla tipologia di lavoratori impiegati dalla Capra Felice: richiedenti asilo e rifugiati, ovvero persone fragili che mostrano, in generale, un’alta vulnerabilità spesso dovuta a disturbi post-traumatici da stress (Barbieri, 2020).[10]
      Queste sfide e criticità si sono intrecciate con le difficoltà legate a un processo di sviluppo imprenditoriale che la Capra Felice ha intrapreso in un momento di grave instabilità e recessione economica.

      A dispetto delle drammatiche circostanze in cui i fatti si sono svolti, la retorica che potremmo chiamare della beatificazione seguita all’uccisione di Agitu Ideo Gudeta non ha lasciato alcuno spazio alla riflessione critica. Non solo le istituzioni pubbliche e gli operatori dell’informazione, ma anche molti politici e organizzazioni di terzo settore si sono rifugiati nella facile consacrazione dell’eroina, piuttosto che interrogarsi sulle fragilità dell’ambiente in cui Agitu Ideo Gudeta operava, sulle difficoltà incontrate da lei e dai suoi collaboratori, e persino sulle concause che potrebbero aver portato alla sua uccisione.

      Mentre si sono sprecate le parole per “eroicizzarla”, nessuno si è interrogato sulla qualità del lavoro, sul tipo di relazione lavorativa che la Capra Felice instaurava con i giovani richiedenti asilo e sull’esito dei loro percorsi di integrazione.

      Chi erano e che ruolo avevano i collaboratori della Capra Felice? Quanti richiedenti asilo hanno lavorato nel corso degli anni e in che misura e da chi erano seguiti nei loro percorsi di inclusione? Qual era il turn over dei lavoratori stranieri? Che rapporto avevano i collaboratori della Capra Felice con il territorio e la comunità locale? Dove vivono e lavorano ora gli ex lavoratori? Nel caso di lavoratori particolarmente fragili, qual era il ruolo dei servizi sociali e sanitari? Il percorso di sviluppo imprenditoriale della Capra Felice è stato seguito da qualche incubatore di impresa e, in caso negativo, perché no?

      Queste sono solo alcune delle domande su cui si sarebbe dovuto a nostro avviso interrogare qualsiasi osservatore non superficiale, interessato a comprendere e a sostenere i percorsi di accoglienza e inclusione sociale e lavorativa delle persone fragili.
      Progetti collettivi al posto di eroi e eroine

      La storia tragica di Agitu Ideo Gudeta sembra essere anche la storia di una società debole e fallimentare nel suo complesso, non solo di un’onda retorica che ha attraversato i mezzi di informazione e i social network per creare al suo centro l’eroina.

      Il fatto che la sua morte abbia generato un bisogno di santificazione e una gogna mediatica nei confronti dell’accusato, invece che sollecitare cordoglio e un esame di coscienza collettiva, smaschera un vuoto su cui forse varrebbe la pena riflettere.

      Un vuoto che può essere riempito solo con azioni concrete e durevoli, che siano il frutto di progetti collettivi a livello comunitario. A questo scopo, servono iniziative di autentica condivisione che aiutino a governare la complessità, a riconoscere le situazioni di fragilità e a prevenire e gestire i conflitti che inevitabilmente abitano i contesti sociali (Sclavi, 2003). A supporto di queste iniziative, c’è bisogno di una nuova narrazione, autentica e costruttiva, che sia innanzi tutto capace di apprendere dagli errori e dai fallimenti affinché le falle del nostro tessuto sociale non permettano più il perpetrarsi di simili tragedie. Quindi, una narrazione che non rifugge il fallimento e non lo percepisce come un pericolo da mascherare a qualsiasi costo, ma come un’opportunità di crescita e di cambiamento.

      Rispetto a quella che nutre gli eroi, è un tipo di narrazione di senso, incline ad alimentare una responsabilità collettiva e una nuova consapevolezza sociale, che può favorire un ribaltamento valoriale in senso solidale. È però una narrazione molto più faticosa da sviluppare. Presuppone, infatti, un’azione collettiva impegnativa in termini di relazioni, negoziazioni e confronti, che deve giocoforza poggiare sulla creazione di spazi di aggregazione e di collaborazione. Questa nuova narrazione non può che nascere da un rinnovato impegno civico di ciascuno di noi, in quanto cittadini responsabili che, praticando la solidarietà, prefigurano un cambiamento e un futuro possibile dove la cittadinanza attiva non è l’eccezione ma la costante.[11]

      Di qui la necessità di sostituire l’emulazione verbale e la ben sedimentata narrativa dell’eroe, normativamente accettata da un uso millenario, con un nuovo ordine normativo significante della realtà.
      Come sostenere la creazione di comunità accoglienti e inclusive

      La crisi della democrazia rappresentativa, la sfiducia nei partiti e l’allontanamento dalla politica hanno da tempo acceso i riflettori sulla società civile, organizzata e non, in quanto spazio di discussione e confronto, finalizzato non solo ad elaborare efficaci strategie in risposta a bisogni sempre più complessi, ma anche a prevenire e gestire le fragilità umane e i conflitti tra gruppi sociali contrapposti.

      Di fronte alla crisi epocale dei modelli politici e produttivi tradizionali, sono sempre più numerosi i dibattiti su come, in quale misura e attraverso quali strumenti, le comunità locali possano intervenire concretamente sulle profonde disuguaglianze economiche, sociali, territoriali che affliggono il nostro Paese, ribaltando i paradigmi dominanti e innescando cambiamenti profondi a vantaggio dei più deboli e della collettività.

      La storia, quella più lontana e quella più recente, ci mostra come spesso la forza della comunità risieda nel bagaglio di valori, tradizioni e relazioni fiduciarie, che sono radicati nel tessuto sociale e vissuto collettivo. Ed è questo bagaglio relazionale e valoriale che ha permesso in moltissimi casi alle comunità di sopravvivere e rigenerarsi nel corso della storia, spesso a seguito di eventi traumatici come calamità naturali, crisi economiche e sanitarie. Ma la storia ci riporta anche molti esempi di comunità in cui la valorizzazione delle identità locali ha originato fenomeni di chiusura particolaristica. Comunità esclusiviste che si sono e in molti casi continuano a identificare l’altro con il male (Bonomi, 2018; Langer, 1994).

      La comunità locali sono, quindi, lontane dall’essere sempre e comunque virtuose.

      Cosa fa pertanto la differenza tra una comunità e l’altra? Per diventare accoglienti e inclusive, le comunità devono potersi esprimere attraverso quelle organizzazioni della società civile che sono proiettate verso il bene comune e si avvalgono del coinvolgimento di una pluralità di portatori di interesse, in rappresentanza dei diversi pezzi di società che abitano un territorio. Sono quindi le organizzazioni di terzo settore maggiormente radicate sul territorio che andrebbero sostenute dalle politiche pubbliche all’interno di una cornice collaborativa in cui, anziché gestire prestazioni per conto dell’ente pubblico (Borzaga, 2019), il terzo settore dovrebbe configurarsi come un attivatore di risposte sociali innovative, che fanno leva sulla prossimità ai territori e alle persone, incluse quelle vulnerabili e disinformate, normalmente ai margini delle dinamiche di cambiamento (Manzini, 2018).

      Se è vero, come da più parti sottolineato, che la politica è in gran parte responsabile dello scarso riconoscimento della società civile organizzata, l’insufficiente apprezzamento del suo valore aggiunto è ascrivibile anche ad alcune prassi, culture e comportamenti organizzativi messi in atto dalle stesse organizzazioni di terzo settore. Tra questi, una retorica – quella degli eroi – incoerente con la loro natura, che ha generato atteggiamenti autoreferenziali e ha alimentato uno scollamento di molte organizzazioni di terzo settore dalle loro comunità di appartenenza. Una delle sfide che il terzo settore dovrebbe far propria è, quindi, a nostro avviso l’archiviazione, una volta per tutte, della retorica dell’eroe e dell’eroina e la sua sostituzione con una narrazione autentica e costruttiva che sia in grado di alimentare un’attiva partecipazione della cittadinanza alla gestione del bene comune.

      DOI: 10.7425/IS.2021.02.10

      Bibliografia

      Austin J., Stevenson H., Wei-Skillern J. (2006), “Social and Commercial Entrepreneurship: Same, Different, or Both?”, Entrepreneurship: Theory and Practice, 30(1) 1, pp. 1-22. DOI: 10.1111/j.1540-6520.2006.00107.x

      Barbera F. (2021), Per gli innovatori marginali contro la retorica del successo, Il Manifesto, 26 febbraio 2021.

      Barbieri A., Visco-Comandini F., Alunni Fegatelli D., Dessì A., Cannella G., Stellacci A., Pirchio S. (2020), “Patterns and predictors of PTSD in treatment-seeking African refugees and asylum seekers: A latent class analysis”, International Journal of Social Psychiatry, September. DOI: 10.1177/0020764020959095

      Bonetti C. (2020), Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi, ma di prende le sue responsabilità, Gli Stati Generali, 19 marzo 2020.

      Bonomi A. (2018), L’antidoto al rancore? Ripartire dagli esclusi, Avvenire, 24 gennaio 2018.

      Bornstein D. (2007), How to Change the World: Social Entrepreneurs and the Power of New Ideas, Oxford University Press, New York.

      Borzaga C., Galera G. (2016), “Innovating the provision of welfare services through collective action: the case of Italian social cooperatives”, International Review of Sociology, 26(1), pp. 31-47. DOI: 10.1080/03906701.2016.1148336

      Borzaga C., Sacchetti S. (2015), “Why Social Enterprises are Asking to Be Multi-Stakeholder and Deliberative: An Explanation Around the Costs of Exclusion”, Euricse Working Papers, 75|15.

      Dacin T., Tracey P., Dacin P.A. (2011), “Social Entrepreneurship: A Critique and Future Directions”, Organization Science, 22(5), pp. 1203-1213. DOI: 10.2307/41303113

      De Facci R. (2021), SanPa e quel modello repressivo del consumatore «colpevole» (che domina ancora oggi), Redattore Sociale, 15 gennaio 2021.

      Dominijanni I. (2017), “Fare e disfare il popolo. Un’ipotesi sul caso italiano”, Teoria Politica, Nuova serie Annali [Online], 7|2017.

      Dominijanni I. (2021), I governi non li porta la cicogna, Internazionale, 10 febbraio 2021.

      Forcesi G. (2019), Una e tante Riace, C3dem - Costituzione, Concilio, Cittadinanza, 14 giugno 2019.

      Galera G. (2020), “Verso un sistema sanitario di comunità”, Impresa Sociale, 2/2020, pp. 88-122.

      Galera G., Borzaga C. (2013), “Social Enterprise: An International Overview of Its Conceptual Evolution and Legal Implementation”, in Davis J.B., Christoforou A. (eds), The Economics of Social Institutions, Elgar Publishing, Cheltenham UK and Northampton MA, pp: 911-929.

      Langer A. (1994), Dieci punti per l’arte del vivere insieme. https://www.alexanderlanger.org/it/32/104

      Lucano D. (2020), Il fuorilegge. La lunga battaglia di un uomo solo, Feltrinelli, Milano.

      Martin R., Osberg S. (2007), “Social Entrepreneurship: The Case for Definition”, Stanford Social Innovation Review, Spring 2007.

      Manzini E. (2018), Politiche del quotidiano, Edizioni di Comunità, Roma.

      McClusky J. (2018), Disproving the hero myth of social entrepreneurship, Nonprofit Quarterly, 19 April 2021.

      Michetti F. (2021), Come selezioniamo le notizie online? La parola alla scienza, Agenzia Digitale, 26 gennaio 2021.

      Pai-Thornton D. (2016), “Tackling Heropreneurship”, Stanford Social Innovation Review, 23 February.

      Petrella F., Richez-Battesti N. (2014), “Social entrepreneur, social entrepreneurship and social enterprise: semantics and controversies”, Journal of Innovation Economics & Management, 14(2), pp. 143-156. DOI: 10.3917/jie.014.0143

      Pisani G. (2019), Welfare e trasformazioni del lavoro, Ediesse, Roma.

      Procacci G. (2021), Che cosa succede al processo contro Mimmo Lucano? Con le carte della difesa, la musica cambia, Comitato Undici Giugno-Milano, Pressenza International Press Agency, 22 marzo 2021.

      Piketty T. (2020), Capitale e ideologia, Feltrinelli, Milano.

      Sacchetti S. (2016), “Perché le imprese sociali devono avere una governance inclusiva”, Impresa Sociale, 11.2018.

      Sandel M. J. (2020), The Tyranny of Merit: What’s Become of the Common Good?, Allen Lane.

      Sclavi M. (2003), Arte di ascoltare e mondi possibili, Feltrinelli, Milano.

      Sgaggio F. (2011), Il paese dei buoni e dei cattivi, Minimum Fax, Roma.

      Short J.C., Moss T.W., Lumpkin G.T. (2009), “Research in Social Entrepreneurship: Past Contributions and Future Opportunities”, Strategic Entrepreneurship Journal, 3(2), pp. 161-194.

      Silei G. (2013), “Una lezione dai disastri? Il Vajont e l’alluvione di Firenze, in Storia e Futuro”, Rivista di storia e storiografia, 33, novembre.

      Smith Milway K. (2014), “How Social Entrepreneurs Can Have the Most Impact”, Harvard Business Review, 2 May 2014.

      Tamino G. (2020), Pandemie e condizioni del pianeta, volerelaluna.it, 23 marzo 2020.

      Waldron T.L., Fisher G., Pfarrer M.D. (2016), “How Social Entrepreneurs Facilitate the Adoption of New Industry Practices”, Journal of Management Studies, 53(5), pp. 821-845.

      Zahra S.A., Gedajlovic E., Neubaum D.O., Shulman J.M. (2009), “A typology of social entrepreneurs: Motives, search processes and ethical challenges”, Journal of Business Venturing, 24, pp. 519-532.
      Note

      La nozione di bene comune fa riferimento all’insieme delle risorse necessarie allo sviluppo della persona ed all’esercizio dei suoi diritti fondamentali. Presuppone condizioni di eguaglianza nell’accesso o utilizzo degli stessi. Sul concetto di beni comuni si rimanda ai lavori di E. Olstrom [tra cui: Olstrom E. (1990), Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, Cambridge UK]. Nel sistema italiano una definizione di riferimento è quella formulata dalla Commissione Rodotà nel 2008: “Cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”.
      https://nti.apet118.it/home
      “Quanto vale il volontariato in Italia? Istat, CSVnet e FVP lanciano la prima sperimentazione del Manuale ILO sul lavoro volontario”: https://www.csvnet.it/csv/storia/144-notizie/1226-quanto-vale-il-volontariato-in-italia-istat-csvnet-e-fvp-lanciano-i-dati
      Di qui l’elogio di chi ce la fa e “merita” (Piketty, 2020). Per un’analisi critica del “merito” si rimanda a Sandel (2020).
      Con riferimento alle critiche si veda John McClusky (2018).
      Modelli di governance che sono supportati da vincoli normativi o statutari – come il vincolo alla non distribuibilità degli utili (non-profit distribution constraint) e l’asset lock – pensati per garantire la sopravvivenza nel tempo dell’inclusività e dell’interesse generale perseguito.
      Approccio che vede l’intervento sociale in analogia all’innovazione tecnologica, dove una mente geniale, chiusa nel suo garage, inventa qualcosa che rivoluziona la vita di tutti.
      La campagna #nonsonoangeli prese avvio all’indomani dell’ultima alluvione di Genova dall’esigenza di ridefinire il ruolo del volontariato e della percezione di questi per i media, promuovendo da un lato una comunicazione meno stereotipata dell’impegno dei cittadini, in caso di emergenza e non, per il bene comune, e dall’altro una conoscenza del volontariato e della solidarietà così come queste si manifestano. https://nonsonoangeli.wordpress.com/2016/06/08/roma-8-giugno-2016-on-sono-angeli-il-volontariato-tra-stere
      Si veda a questo proposito: https://socialimpactaward.net/breaking-the-myth-of-hero-entrepreneurship - http://tacklingheropreneurship.com
      Si veda anche: https://mediciperidirittiumani.org/studio-salute-mentale-rifugiati - https://archivio.medicisenzafrontiere
      https://www.cesvot.it/comunicazione/dossier/hanno-detto-di-nonsonoangeli

      https://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/articolo/dalla-ricerca-di-eroi-alla-costruzione-di-progetti-comunitari

      #héros #narration #imaginaire_collectif #récit #moralité_culturelle #éthique #justice_sociale #contre-récit #communautés_locales #pathos #individualisation #Lucano #Mimmo_Lucano #Domenico_Lucano #excellence #storytelling #innovation #néo-libéralisation #libéralisme #management #leadership #figure_charismatique #charisme #Riace #idéalisation #polarisation #simplification #catégorisation #fragilisation #solitude #Capra_Felice #responsabilité_collective #société_civile

    • François Burland

      François Burland (1958) est artiste plasticien. Basé au Mont-Pèlerin/VD, son travail appartient à la scène internationale. Son oeuvre déploie une palette d’expressions artistiques multiples. A travers le dessin notamment, il rassemble diverses mythologies et croyances, mêlant des sources anciennes et contemporaines.
      Avec des matériaux de récupération, il crée des objets et ou réalise des installations monumentales.

      François Burland vivifie les idéologies de son enfance sans affirmer une vision politique, mais en faisant émerger humour, nostalgie et inventivité.

      Il initie récemment un tournant dans sa carrière artistique en valorisant les collaborations et l’organisation de projets participatifs. Il mène ainsi depuis 2011 des projets artistiques avec des jeunes migrants mineurs non-accompagnés (MNA) afin de les aider à s’insérer dans le monde du travail.

      https://www.francoisburland.com/biographie-francois-burland

  • Du malaise en milieu étudiant

    Seul un étudiant sur dix parvient encore à suivre ses #cours_en_ligne. Non, le problème n’est pas individuel. Arrêtez de nous envoyer vers des psychologues tout en prolongeant notre #isolement.

    Tous les cours se ressemblent. Se lever une demi-heure avant à grand-peine (rythme de sommeil complètement déstructuré), s’asseoir et ouvrir l’ordinateur, le connecter à la 4G instable du téléphone, chercher le lien de la visioconférence, couper le micro, et malaise.

    #Malaise des professeurs qui monologuent devant une galerie de portraits ennuyés et silencieux, au mieux, devant une grille de prénoms muets la plupart du temps. Mosaïques sinistres de visages qui en disaient davantage derrière un masque. Les professeurs disent : Je sais que les temps sont difficiles mais nous n’avons pas le choix, vous lirez cet article pour la fois prochaine, rendez-moi le travail pour mi-décembre. Ils disent aussi, sur un ton angoissé ou agacé – sûrement conscients du ridicule de la situation – Est-ce que ça va ? Vous m’entendez ? Quelqu’un veut répondre à la question ? Bon, s’il n’y a pas de remarque alors je poursuis. Malaise des étudiants, notre malaise. Il n’y a pas de questions parce qu’il n’y a rien à questionner ; on ne sait pas exactement ce qui vient d’être dit et on s’en fout, aussi. Trop difficile de rester concentré, les écrans finissent par brûler et fatiguer les yeux, la tête bourdonne des bruits de micros saturés. Malaise parce que ça ne rime à rien, parce que c’est complètement irréel, parce qu’on ne voit plus pourquoi on continuerait. Ça avait du sens lorsque c’était encore pris dans des relations sociales, lorsqu’il y avait un rapport entre le professeur et les étudiants, un jeu de regards, des interventions spontanées, des corps et des attitudes, un ancrage dans le réel. Ce n’est plus le cas. Et, pire, l’irréalité n’a plus de bornes depuis que le professeur donne cours dans nos chambres ; il n’y a plus guère de séparation spatiale entre vie étudiante et vie personnelle, et la première – celle qui déjà occupait et préoccupait beaucoup – envahit totalement la seconde. Avant, on refermait le cahier ou l’ordinateur portable, on faisait son sac, on discutait quelque temps avec des camarades ou un professeur, on prenait le métro, le bus, le vélo ou on marchait jusqu’à chez soi. Maintenant, on quitte la réunion Zoom et on reste sur la même chaise, dans la même chambre, avec la même solitude, à faire ce que l’on faisait de creux ou de sans intérêt pour passer le temps pendant le cours qu’on n’écoutait pas vraiment. Toujours ce sentiment d’irréalité, d’absurdité ; ce malaise.

    Les symptômes de ce malaise s’expriment partout, dans des circonstances plus ou moins terribles. Le premier confinement a été difficile, le second confinement est un coup de grâce. Nous sommes dans un sale état, toutes les enquêtes réalisées le prouvent : Article 1, dans une enquête datant du 16 novembre mené parmi 700 étudiants issus de milieux populaires, relève que 73.5 % d’entre eux se disent stressés et épuisés. À Sciences Po Paris, l’Association de l’École d’Affaires Publiques rapporte dans les résultats de son sondage (environ 1200 réponses) que les états dépressifs ont actuellement un taux de prévalence de 41 % parmi les étudiants, en plus de l’anxiété qui touche 61 % des interrogés (les moyennes françaises en octobre étaient respectivement autour de 15 % et 19 %). 91 % des étudiants affirment avoir des difficultés à suivre les cours en ligne. Dans le sondage réalisé dans notre spécialité de M1, on retrouve des chiffres similaires : onze personnes sur dix-huit (soit 61 %) rapportent des sentiments de tristesse ou de mélancolie, et seuls trois élèves sur dix-huit se disent capables de suivre correctement les cours. Les troubles du sommeil et les troubles alimentaires ont également des taux de prévalence particulièrement inquiétants. L’épuisement et la fatigue sont omniprésents, et concernent quinze étudiants sur dix-huit. On comprend aisément comment la charge de travail accrue, l’angoisse, l’exposition intensive aux écrans, les états dépressifs et l’isolement peuvent expliquer cette lassitude. Nous attendons les résultats d’enquêtes plus larges, mais rien ne laisse présager de meilleures conclusions.

    Malaise, donc : des professeurs font cours à des étudiants en souffrance qui ne les écoutent pas. Quel sens est-ce que ça peut bien avoir, pour nous comme pour nos enseignants ? Les professeurs et les administrations envoient les étudiants vers des psychologues, dans des messages pleins de bienveillance et de take care, parce qu’ils ne savent pas comment répondre autrement. Les tribunes et les articles qui paraissent ces dernières semaines sur le sujet ont beau faire ce même constat terrible, ils demandent également plus d’aide psychologique pour les étudiants. Ils se trompent : nous n’avons pas besoin de psychologues. Il est impossible de croire que le problème que nous rencontrons est individuel, alors qu’il concerne une majorité écrasante d’entre nous. Le problème n’est pas psychologique et ne se règle pas avec des séances chez un psy, des antidépresseurs ou des anxiolytiques. Ce n’est pas non plus une preuve de paresse des étudiants, et pas davantage un défaut d’adaptation que le temps corrigera. Nos études nous intéressent, nous voulons réussir et nous nous en savons capables : voilà pourquoi notre malaise est aussi dérangeant. Si le problème est aussi massif, c’est bien qu’il ne relève pas de fragilités individuelles et qu’un encouragement à s’accrocher ne suffit pas. Le problème, c’est que notre vie quotidienne est devenue insupportable et que tout le monde prétend ne rien voir parce que c’est plus simple.

    Il faut briser le silence et affronter ce malaise-là maintenant, parce que nous en payons les conséquences beaucoup trop cher. Affronter le fait qu’en moyenne sur Zoom, dans une classe de trente personnes, il n’y a que trois personnes qui écoutent effectivement. Affronter le fait que nous sommes envahis par les cours, les travaux à rendre et l’angoisse à l’idée de ne pas y parvenir. Affronter le fait que nous n’avons pour la plupart pas besoin d’un soutien psychologique, mais d’un changement matériel, réel de nos conditions d’étude. Affronter le fait que c’est pour la majorité d’entre nous un cauchemar qui n’en finit pas : si le déconfinement est prévu le 15 décembre, que tous les commerces sont ouverts et que les offices religieux peuvent se tenir à plus de trente personnes depuis le 28 novembre, les étudiants ne peuvent même pas rêver de retourner en cours avant mi-février – dans l’hypothèse plus que fragile qu’aucun nouveau confinement ne soit décrété. Le covid-19 ne nous a presque pas touchés, mais nous sommes écrasés par ses conséquences dans le déni général.

    Jusqu’à présent, chaque fois que nous avons osé parler, on nous a systématiquement répondu que dans les circonstances actuelles, on nous comprend mais que c’est une impasse et que tout le monde fait déjà au mieux. On nous répond – avec la facilité que cela comporte – qu’effectivement la période est difficile et frustrante, mais que les professeurs doivent bien évaluer leurs cours, qu’ils ne sont pas compétents en psychiatrie et qu’il faut consulter, et qu’on n’a pas le choix. Tous ces arguments sont audibles, mais aussi sans pertinence face à ce que nous vivons. Il n’y a pas d’impasse. Il n’y a d’impasse que parce qu’on refuse de toucher aux murs, parce qu’on se dit que les étudiants trouveront bien un moyen de tenir, qu’on notera gentiment leurs travaux médiocres, et que tout ça ne sera pas éternel ; comme on a toujours fait. Et on continue à faire des cours Zoom – au moins on ne se rend pas compte que personne n’écoute – en ignorant ce qui se passe de l’autre côté des écrans.

    Voilà ce qu’il y a, derrière les écrans, derrière les têtes fatiguées-ennuyées, les caméras éteintes et le mode muet : il y a nous qui ne tenons pas, nous qui arrivons de moins en moins à rendre des travaux même médiocres, nous pour qui l’horizon est complètement bouché. Alors il n’y a pas d’autre possibilité que de remettre en cause ce à quoi on refusait de toucher, dans sa totalité.

    https://blogs.mediapart.fr/maina-catteau/blog/051220/du-malaise-en-milieu-etudiant

    #ESR #étudiants #confinement #distanciel #enseignement #université #facs #enseignement_à_distance #témoignage #silence #interaction #concentration #relations_sociales #vie_étudiante #vie_personnelle #espace #séparation_spatiale #solitude #dépression #sondage #épuisement #fatigue #lassitude #souffrance #angoisse #conditions_d'étude #cauchemar #déconfinement #déni #covid-19 #coronavirus

    Déjà signalé ici : https://seenthis.net/messages/889944
    –-> j’ai ajouté des mots-clé

  • Je suis prof. Seize brèves réflexions contre la terreur et l’obscurantisme, en #hommage à #Samuel_Paty

    Les lignes qui suivent ont été inspirées par la nouvelle atroce de la mise à mort de mon collègue, Samuel Paty, et par la difficile semaine qui s’en est suivie. En hommage à un #enseignant qui croyait en l’#éducation, en la #raison_humaine et en la #liberté_d’expression, elles proposent une quinzaine de réflexions appelant, malgré l’émotion, à penser le présent, et en débattre, avec raison. Ces réflexions ne prétendent évidemment pas incarner la pensée de Samuel Paty, mais elles sont écrites pour lui, au sens où l’effort de pensée, de discernement, de nuances, de raison, a été fait en pensant à lui, et pour lui rendre hommage. Continuer de penser librement, d’exprimer, d’échanger les arguments, me parait le meilleur des hommages.

    1. Il y a d’abord eu, en apprenant la nouvelle, l’#horreur, la #tristesse, la #peur, devant le #crime commis, et des pensées pour les proches de Samuel Paty, ses collègues, ses élèves, toutes les communautés scolaires de France et, au-delà, toute la communauté des humains bouleversés par ce crime. Puis s’y est mêlée une #rage causée par tous ceux qui, d’une manière ou d’une autre, et avant même d’en savoir plus sur les tenants et aboutissants qui avaient mené au pire, se sont empressés de dégainer des kits théoriques tendant à minimiser l’#atrocité du crime ou à dissoudre toute la #responsabilité de l’assassin (ou possiblement des assassins) dans des entités excessivement extensibles (que ce soit « l’#islamisation » ou « l’#islamophobie ») – sans compter ceux qui instrumentalisent l’horreur pour des agendas qu’on connait trop bien : rétablissement de la peine de mort, chasse aux immigré.e.s, chasse aux musulman.e.s.

    2. Il y a ensuite eu une peur, ou des peurs, en voyant repartir tellement vite, et à la puissance dix, une forme de réaction gouvernementale qui a de longue date fait les preuves de son #inefficacité (contre la #violence_terroriste) et de sa #nocivité (pour l’état du vivre-ensemble et des droits humains) : au lieu d’augmenter comme il faut les moyens policiers pour enquêter plus et mieux qu’on ne le fait déjà, pour surveiller, remonter des filières bien ciblées et les démanteler, mais aussi assurer en temps réel la protection des personnes qui la demandent, au moment où elles la demandent, on fait du spectacle avec des boucs émissaires.

    Une sourde appréhension s’est donc mêlée à la peine, face au déferlement d’injures, de menaces et d’attaques islamophobes, anti-immigrés et anti-tchétchènes qui a tout de suite commencé, mais aussi face à l’éventualité d’autres attentats qui pourraient advenir dans le futur, sur la prévention desquels, c’est le moins que je puisse dire, toutes les énergies gouvernementales ne me semblent pas concentrées.

    3. Puis, au fil des lectures, une #gêne s’est installée, concernant ce que, sur les #réseaux_sociaux, je pouvais lire, « dans mon camp » cette fois-ci – c’est-à-dire principalement chez des gens dont je partage plus ou moins une certaine conception du combat antiraciste. Ce qui tout d’abord m’a gêné fut le fait d’énoncer tout de suite des analyses explicatives alors qu’au fond on ne savait à peu près rien sur le détail des faits : quel comportement avait eu précisément Samuel Paty, en montrant quels dessins, quelles interactions avaient eu lieu après-coup avec les élèves, avec les parents, qui avait protesté et en quels termes, sous quelles forme, qui avait envenimé le contentieux et comment s’était produit l’embrasement des réseaux sociaux, et enfin quel était le profil de l’assassin, quel était son vécu russe, tchétchène, français – son vécu dans toutes ses dimensions (familiale, socio-économique, scolaire, médicale), sa sociabilité et ses accointances (ou absences d’accointances) religieuses, politiques, délinquantes, terroristes ?

    J’étais gêné par exemple par le fait que soit souvent validée a priori, dès les premières heures qui suivirent le crime, l’hypothèse que Samuel Paty avait « déconné », alors qu’on n’était même pas certain par exemple que c’était le dessin dégoutant du prophète cul nu (j’y reviendrai) qui avait été montré en classe (puisqu’on lisait aussi que le professeur avait déposé plainte « pour diffamation » suite aux accusations proférées contre lui), et qu’on ne savait rien des conditions et de la manière dont il avait agencé son cours.

    4. Par ailleurs, dans l’hypothèse (qui a fini par se confirmer) que c’était bien ce dessin, effectivement problématique (j’y reviendrai), qui avait servi de déclencheur ou de prétexte pour la campagne contre Samuel Paty, autre chose me gênait. D’abord cet oubli : montrer un #dessin, aussi problématique soit-il, obscène, grossier, de mauvais goût, ou même raciste, peut très bien s’intégrer dans une #démarche_pédagogique, particulièrement en cours d’histoire – après tout, nous montrons bien des #caricatures anti-juives ignobles quand nous étudions la montée de l’antisémitisme, me confiait un collègue historien, et cela ne constitue évidemment pas en soi une pure et simple perpétuation de l’#offense_raciste. Les deux cas sont différents par bien des aspects, mais dans tous les cas tout se joue dans la manière dont les documents sont présentés et ensuite collectivement commentés, analysés, critiqués. Or, sur ladite manière, en l’occurrence, nous sommes restés longtemps sans savoir ce qui exactement s’était passé, et ce que nous avons fini par appendre est que Samuel Paty n’avait pas eu d’intention maligne : il s’agissait vraiment de discuter de la liberté d’expression, autour d’un cas particulièrement litigieux.

    5. En outre, s’il s’est avéré ensuite, dans les récits qui ont pu être reconstitués (notamment dans Libération), que Samuel Paty n’avait fait aucun usage malveillant de ces caricatures, et que les parents d’élèves qui s’étaient au départ inquiétés l’avaient assez rapidement et facilement compris après discussion, s’il s’est avéré aussi qu’au-delà de cet épisode particulier, Samuel Paty était un professeur très impliqué et apprécié, chaleureux, blagueur, il est dommageable que d’emblée, il n’ait pas été martelé ceci, aussi bien par les inconditionnels de l’ « esprit Charlie » que par les personnes légitimement choquées par certaines des caricatures : que même dans le cas contraire, même si le professeur avait « déconné », que ce soit un peu ou beaucoup, que même s’il avait manqué de précautions pédagogiques, que même s’il avait intentionnellement cherché à blesser, bref : que même s’il avait été un « mauvais prof », hautain, fumiste, ou même raciste, rien, absolument rien ne justifiait ce qui a été commis.

    Je me doute bien que, dans la plupart des réactions à chaud, cela allait sans dire, mais je pense que, dans le monde où l’on vit, et où se passent ces horreurs, tout désormais en la matière (je veux dire : en matière de mise à distance de l’hyper-violence) doit être dit, partout, même ce qui va sans dire.

    En d’autres termes, même si l’on juge nécessaire de rappeler, à l’occasion de ce crime et des discussions qu’il relance, qu’il est bon que tout ne soit pas permis en matière de liberté d’expression, cela n’est selon moi tenable que si l’on y adjoint un autre rappel : qu’il est bon aussi que tout ne soit pas permis dans la manière de limiter la liberté d’expression, dans la manière de réagir aux discours offensants, et plus précisément que doit être absolument proscrit le recours à la #violence_physique, a fortiori au #meurtre. Nous sommes malheureusement en un temps, je le répète, où cela ne va plus sans dire.

    6. La remarque qui précède est, me semble-t-il, le grand non-dit qui manque le plus dans tout le débat public tel qu’il se polarise depuis des années entre les « Charlie », inconditionnels de « la liberté d’expression », et les « pas Charlie », soucieux de poser des « #limites » à la « #liberté_d’offenser » : ni la liberté d’expression ni sa nécessaire #limitation ne doivent en fait être posées comme l’impératif catégorique et fondamental. Les deux sont plaidables, mais dans un #espace_de_parole soumis à une autre loi fondamentale, sur laquelle tout le monde pourrait et devrait se mettre d’accord au préalable, et qui est le refus absolu de la violence physique.

    Moyennant quoi, dès lors que cette loi fondamentale est respectée, et expressément rappelée, la liberté d’expression, à laquelle Samuel Paty était si attaché, peut et doit impliquer aussi le droit de dire qu’on juge certaines caricatures de Charlie Hebdo odieuses :

    – celles par exemple qui amalgament le prophète des musulmans (et donc – par une inévitable association d’idées – l’ensemble des fidèles qui le vénèrent) à un terroriste, en le figurant par exemple surarmé, le nez crochu, le regard exorbité, la mine patibulaire, ou coiffé d’un turban en forme de bombe ;

    – celle également qui blesse gratuitement les croyants (et les croyants lambda, tolérants, non-violents, tout autant voire davantage que des « djihadistes » avides de prétextes à faire couler le sang), en représentant leur prophète cul nul, testicules à l’air, une étoile musulmane à la place de l’anus ;

    – celle qui animalise une syndicaliste musulmane voilée en l’affublant d’un faciès de singe ;

    – celle qui annonce « une roumaine » (la joueuse Simona Halep), gagnante de Roland-Garros, et la représente en rom au physique disgracieux, brandissant la coupe et criant « ferraille ! ferraille ! » ;

    – celle qui nous demande d’imaginer « le petit Aylan », enfant de migrants kurdes retrouvé mort en méditerranée, « s’il avait survécu », et nous le montre devenu « tripoteur de fesses en Allemagne » (suite à une série de viols commis à Francfort) ;

    – celle qui représente les esclaves sexuelles de Boko Haram, voilées et enceintes, en train de gueuler après leurs « allocs » ;

    – celle qui fantasme une invasion ou une « islamisation » en forme de « grand remplacement », par exemple en nous montrant un musulman barbu dont la barbe démesurée envahit toute la page de Une, malgré un minuscule Macron luttant « contre le séparatisme », armé de ciseaux, mais ne parvenant qu’à en couper que quelques poils ;

    – celle qui alimente le même fantasme d’invasion en figurant un Macron, déclarant que le port du foulard par des femmes musulmanes « ne le regarde pas » en tant que président, tandis que le reste de la page n’est occupé que par des femmes voilées, avec une légende digne d’un tract d’extrême droite : « La République islamique en marche ».

    Sur chacun de ces dessins, publiés en Une pour la plupart, je pourrais argumenter en détail, pour expliquer en quoi je les juge odieux, et souvent racistes. Bien d’autres exemples pourraient d’ailleurs être évoqués, comme une couverture publiée à l’occasion d’un attentat meurtrier commis à Bruxelles en mars 2016 et revendiqué par Daesh (ayant entraîné la mort de 32 personnes et fait 340 blessés), et figurant de manière pour le moins choquante le chanteur Stromae, orphelin du génocide rwandais, en train de chanter « Papaoutai » tandis que voltigent autour de lui des morceaux de jambes et de bras déchiquetés ou d’oeil exorbité. La liste n’est pas exhaustive, d’autres unes pourraient être évoquées – celles notamment qui nous invitent à rigoler (on est tenté de dire ricaner) sur le sort des femmes violées, des enfants abusés, ou des peuples qui meurent de faim.

    On a le droit de détester cet #humour, on a le droit de considérer que certaines de ces caricatures incitent au #mépris ou à la #haine_raciste ou sexiste, entre autres griefs possibles, et on a le droit de le dire. On a le droit de l’écrire, on a le droit d’aller le dire en justice, et même en manifestation. Mais – cela allait sans dire, l’attentat de janvier 2015 oblige désormais à l’énoncer expressément – quel que soit tout le mal qu’on peut penser de ces dessins, de leur #brutalité, de leur #indélicatesse, de leur méchanceté gratuite envers des gens souvent démunis, de leur #racisme parfois, la #violence_symbolique qu’il exercent est sans commune mesure avec la violence physique extrême que constitue l’#homicide, et elle ne saurait donc lui apporter le moindre commencement de #justification.

    On a en somme le droit de dénoncer avec la plus grande vigueur la violence symbolique des caricatures quand on la juge illégitime et nocive, car elle peut l’être, à condition toutefois de dire désormais ce qui, je le répète, aurait dû continuer d’aller sans dire mais va beaucoup mieux, désormais, en le disant : qu’aucune violence symbolique ne justifie l’hyper-violence physique. Cela vaut pour les pires dessins de Charlie comme pour les pires répliques d’un Zemmour ou d’un Dieudonné, comme pour tout ce qui nous offense – du plutôt #douteux au parfaitement #abject.

    Que reste-t-il en effet de la liberté d’expression si l’on défend le #droit_à_la_caricature mais pas le droit à la #critique des caricatures ? Que devient le #débat_démocratique si toute critique radicale de #Charlie aujourd’hui, et qui sait de de Zemmour demain, de Macron après-demain, est d’office assimilée à une #incitation_à_la_violence, donc à de la complicité de terrorisme, donc proscrite ?

    Mais inversement, que devient cet espace démocratique si la dénonciation de l’intolérable et l’appel à le faire cesser ne sont pas précédés et tempérés par le rappel clair et explicite de l’interdit fondamental du meurtre ?

    7. Autre chose m’a gêné dans certaines analyses : l’interrogation sur les « #vrais_responsables », formulation qui laisse entendre que « derrière » un responsable « apparent » (l’assassin) il y aurait « les vrais responsables », qui seraient d’autres que lui. Or s’il me parait bien sûr nécessaire d’envisager dans toute sa force et toute sa complexité l’impact des #déterminismes_sociaux, il est problématique de dissoudre dans ces déterminismes toute la #responsabilité_individuelle de ce jeune de 18 ans – ce que la sociologie ne fait pas, contrairement à ce que prétendent certains polémistes, mais que certains discours peuvent parfois faire.

    Que chacun s’interroge toujours sur sa possible responsabilité est plutôt une bonne chose à mes yeux, si toutefois on ne pousse pas le zèle jusqu’à un « on est tous coupables » qui dissout toute #culpabilité réelle et arrange les affaires des principaux coupables. Ce qui m’a gêné est l’enchaînement de questions qui, en réponse à la question « qui a tué ? », met comme en concurrence, à égalité, d’une part celui qui a effectivement commis le crime, et d’autre part d’autres personnes ou groupes sociaux (la direction de l’école, la police, le père d’élève ayant lancé la campagne publique contre Samuel Paty sur Youtube, sa fille qui semble l’avoir induit en erreur sur le déroulement de ses cours) qui, quel que soit leur niveau de responsabilité, n’ont en aucun cas « tué » – la distinction peut paraitre simple, voire simpliste, mais me parait, pour ma part, cruciale à maintenir.

    8. Ce qui m’a gêné, aussi, et même écoeuré lorsque l’oubli était assumé, et que « le système » néolibéral et islamophobe devenait « le principal responsable », voire « l’ennemi qu’il nous faut combattre », au singulier, ce fut une absence, dans la liste des personnes ou des groupes sociaux pouvant, au-delà de l’individu #Abdoullakh_Abouyezidovitch, se partager une part de responsabilité. Ce qui me gêna fut l’oubli ou la minoration du rôle de l’entourage plus ou moins immédiat du tueur – qu’il s’agisse d’un groupe terroriste organisé ou d’un groupe plus informel de proches ou de moins proches (via les réseaux sociaux), sans oublier, bien entendu, l’acolyte de l’irresponsable « père en colère » : un certain #Abdelhakim_Sefrioui, entrepreneur de haine pourtant bien connu, démasqué et ostracisé de longue date dans les milieux militants, à commencer par les milieux pro-palestiniens et la militance anti-islamophobie.

    Je connais les travaux sociologiques qui critiquent à juste titre l’approche mainstream, focalisée exclusivement les techniques de propagande des organisations terroristes, et qui déplacent la focale sur l’étude des conditions sociales rendant audible et « efficace » lesdites techniques de #propagande. Mais justement, on ne peut prendre en compte ces conditions sociales sans observer aussi comment elles pèsent d’une façon singulière sur les individus, dont la responsabilité n’est pas évacuée. Et l’on ne peut pas écarter, notamment, la responsabilité des individus ou des groupes d’ « engraineurs », surtout si l’on pose la question en ces termes : « qui a tué ? ».

    9. Le temps du #choc, du #deuil et de l’#amertume « contre mon propre camp » fut cela dit parasité assez vite par un vacarme médiatique assourdissant, charriant son lot d’#infamie dans des proportions autrement plus terrifiantes. #Samuel_Gontier, fidèle « au poste », en a donné un aperçu glaçant :

    – des panels politiques dans lesquels « l’équilibre » invoqué par le présentateur (Pascal Praud) consiste en un trio droite, droite extrême et extrême droite (LREM, Les Républicains, Rassemblement national), et où les différentes familles de la gauche (Verts, PS, PCF, France insoumise, sans même parler de l’extrême gauche) sont tout simplement exclues ;

    – des « débats » où sont mis sérieusement à l’agenda l’interdiction du #voile dans tout l’espace public, l’expulsion de toutes les femmes portant le #foulard, la #déchéance_de_nationalité pour celles qui seraient françaises, la réouverture des « #bagnes » « dans îles Kerguelen », le rétablissement de la #peine_de_mort, et enfin la « #criminalisation » de toutes les idéologies musulmanes conservatrices, « pas seulement le #djihadisme mais aussi l’#islamisme » (un peu comme si, à la suite des attentats des Brigades Rouges, de la Fraction Armée Rouge ou d’Action Directe, on avait voulu criminaliser, donc interdire et dissoudre toute la gauche socialiste, communiste, écologiste ou radicale, sous prétexte qu’elle partageait avec les groupes terroristes « l’opposition au capitalisme ») ;

    – des « plateaux » sur lesquels un #Manuel_Valls peut appeler en toute conscience et en toute tranquillité, sans causer de scandale, à piétiner la Convention Européenne des Droits Humains : « S’il nous faut, dans un moment exceptionnel, s’éloigner du #droit_européen, faire évoluer notre #Constitution, il faut le faire. », « Je l’ai dit en 2015, nous sommes en #guerre. Si nous sommes en guerre, donc il faut agir, frapper. ».

    10. Puis, très vite, il y a eu cette offensive du ministre de l’Intérieur #Gérald_Darmanin contre le #CCIF (#Collectif_Contre_l’Islamophobie_en_France), dénuée de tout fondement du point de vue de la #lutte_anti-terroriste – puisque l’association n’a évidemment pris aucune part dans le crime du 17 octobre 2020, ni même dans la campagne publique (sur Youtube et Twitter) qui y a conduit.

    Cette dénonciation – proprement calomnieuse, donc – s’est autorisée en fait d’une montée en généralité, en abstraction et même en « nébulosité », et d’un grossier sophisme : le meurtre de Samuel Paty est une atteinte aux « #valeurs » et aux « institutions » de « la #République », que justement le CCIF « combat » aussi – moyennant quoi le CCIF a « quelque chose à voir » avec ce crime et il doit donc être dissous, CQFD. L’accusation n’en demeure pas moins fantaisiste autant qu’infamante, puisque le « combat » de l’association, loin de viser les principes et les institutions républicaines en tant que telles, vise tout au contraire leur manque d’effectivité : toute l’activité du CCIF (c’est vérifiable, sur le site de l’association aussi bien que dans les rapports des journalistes, au fil de l’actualité, depuis des années) consiste à combattre la #discrimination en raison de l’appartenance ou de la pratique réelle ou supposée d’une religion, donc à faire appliquer une loi de la république. Le CCIF réalise ce travail par les moyens les plus républicains qui soient, en rappelant l’état du Droit, en proposant des médiations ou en portant devant la #Justice, institution républicaine s’il en est, des cas d’atteinte au principe d’#égalité, principe républicain s’il en est.

    Ce travail fait donc du CCIF une institution précieuse (en tout cas dans une république démocratique) qu’on appelle un « #contre-pouvoir » : en d’autres termes, un ennemi de l’arbitraire d’État et non de la « République ». Son travail d’#alerte contribue même à sauver ladite République, d’elle-même pourrait-on dire, ou plutôt de ses serviteurs défaillants et de ses démons que sont le racisme et la discrimination.

    Il s’est rapidement avéré, du coup, que cette offensive sans rapport réel avec la lutte anti-terroriste s’inscrivait en fait dans un tout autre agenda, dont on avait connu les prémisses dès le début de mandat d’Emmanuel Macron, dans les injures violentes et les tentatives d’interdiction de Jean-Michel #Blanquer contre le syndicat #Sud_éducation_93, ou plus récemment dans l’acharnement haineux du député #Robin_Réda, censé diriger une audition parlementaire antiraciste, contre les associations de soutien aux immigrés, et notamment le #GISTI (Groupe d’Information et de Soutien aux Immigrés). Cet agenda est ni plus ni moins que la mise hors-jeu des « corps intermédiaires » de la société civile, et en premier lieu des #contre-pouvoirs que sont les associations antiracistes et de défense des droits humains, ainsi que les #syndicats, en attendant le tour des partis politiques – confère, déjà, la brutalisation du débat politique, et notamment les attaques tout à fait inouïes, contraires pour le coup à la tradition républicaine, de #Gérald_Darmanin contre les écologistes (#Julien_Bayou, #Sandra_Regol et #Esther_Benbassa) puis contre la #France_insoumise et son supposé « #islamo-gauchisme qui a détruit la république », ces dernières semaines, avant donc le meurtre de Samuel Paty.

    Un agenda dans lequel figure aussi, on vient de l’apprendre, un combat judiciaire contre le site d’information #Mediapart.

    11. Il y a eu ensuite l’annonce de ces « actions coup de poing » contre des associations et des lieux de culte musulmans, dont le ministre de l’Intérieur lui-même a admis qu’elles n’avaient aucun lien avec l’enquête sur le meurtre de Samuel Paty, mais qu’elles servaient avant tout à « #adresser_un_message », afin que « la #sidération change de camp ». L’aveu est terrible : l’heure n’est pas à la défense d’un modèle (démocratique, libéral, fondé sur l’État de Droit et ouvert à la pluralité des opinions) contre un autre (obscurantiste, fascisant, fondé sur la terreur), mais à une #rivalité_mimétique. À la #terreur on répond par la terreur, sans même prétendre, comme le fit naguère un Charles Pasqua, qu’on va « terroriser les terroristes » : ceux que l’on va terroriser ne sont pas les terroristes, on le sait, on le dit, on s’en contrefout et on répond au meurtre par la #bêtise et la #brutalité, à l’#obscurantisme « religieux » par l’obscurantisme « civil », au #chaos de l’#hyper-violence par le chaos de l’#arbitraire d’État.

    12. On cible donc des #mosquées alors même qu’on apprend (notamment dans la remarquable enquête de Jean-Baptiste Naudet, dans L’Obs) que le tueur ne fréquentait aucune mosquée – ce qui était le cas, déjà, de bien d’autres tueurs lors des précédents attentats.

    On s’attaque au « #séparatisme » et au « #repli_communautaire » alors même qu’on apprend (dans la même enquête) que le tueur n’avait aucune attache ou sociabilité dans sa communauté – ce qui là encore a souvent été le cas dans le passé.

    On préconise des cours intensifs de #catéchisme_laïque dans les #écoles, des formations intensives sur la liberté d’expression, avec distribution de « caricatures » dans tous les lycées, alors que le tueur était déscolarisé depuis un moment et n’avait commencé à se « radicaliser » qu’en dehors de l’#école (et là encore se rejoue un schéma déjà connu : il se trouve qu’un des tueurs du Bataclan fut élève dans l’établissement où j’exerce, un élève dont tous les professeurs se souviennent comme d’un élève sans histoires, et dont la famille n’a pu observer des manifestations de « #radicalisation » qu’après son bac et son passage à l’université, une fois qu’il était entré dans la vie professionnelle).

    Et enfin, ultime protection : Gérald Darmanin songe à réorganiser les rayons des #supermarchés ! Il y aurait matière à rire s’il n’y avait pas péril en la demeure. On pourrait s’amuser d’une telle #absurdité, d’une telle incompétence, d’une telle disjonction entre la fin et les moyens, si l’enjeu n’était pas si grave. On pourrait sourire devant les gesticulations martiales d’un ministre qui avoue lui-même tirer « à côté » des véritables coupables et complices, lorsque par exemple il ordonne des opérations contre des #institutions_musulmanes « sans lien avec l’enquête ». On pourrait sourire s’il ne venait pas de se produire une attaque meurtrière atroce, qui advient après plusieurs autres, et s’il n’y avait pas lieu d’être sérieux, raisonnable, concentré sur quelques objectifs bien définis : mieux surveiller, repérer, voir venir, mieux prévenir, mieux intervenir dans l’urgence, mieux protéger. On pourrait se payer le luxe de se disperser et de discuter des #tenues_vestimentaires ou des #rayons_de_supermarché s’il n’y avait pas des vies humaines en jeu – certes pas la vie de nos dirigeants, surprotégés par une garde rapprochée, mais celles, notamment, des professeurs et des élèves.

    13. Cette #futilité, cette #frivolité, cette bêtise serait moins coupable s’il n’y avait pas aussi un gros soubassement de #violence_islamophobe. Cette bêtise serait innocente, elle ne porterait pas à conséquence si les mises en débat du #vêtement ou de l’#alimentation des diverses « communautés religieuses » n’étaient pas surdéterminées, depuis de longues années, par de très lourds et violents #stéréotypes racistes. On pourrait causer lingerie et régime alimentaire si les us et coutumes religieux n’étaient pas des #stigmates sur-exploités par les racistes de tout poil, si le refus du #porc ou de l’#alcool par exemple, ou bien le port d’un foulard, n’étaient pas depuis des années des motifs récurrents d’#injure, d’#agression, de discrimination dans les études ou dans l’emploi.

    Il y a donc une bêtise insondable dans cette mise en cause absolument hors-sujet des commerces ou des rayons d’ « #alimentation_communautaire » qui, dixit Darmanin, « flatteraient » les « plus bas instincts », alors que (confère toujours l’excellente enquête de Jean-Baptiste Naudet dans L’Obs) l’homme qui a tué Samuel Paty (comme l’ensemble des précédents auteurs d’attentats meurtriers) n’avait précisément pas d’ancrage dans une « communauté » – ni dans l’immigration tchétchène, ni dans une communauté religieuse localisée, puisqu’il ne fréquentait aucune mosquée.

    Et il y a dans cette bêtise une #méchanceté tout aussi insondable : un racisme sordide, à l’encontre des #musulmans bien sûr, mais pas seulement. Il y a aussi un mépris, une injure, un piétinement de la mémoire des morts #juifs – puisque parmi les victimes récentes des tueries terroristes, il y a précisément des clients d’un commerce communautaire, l’#Hyper_Cacher, choisis pour cible et tués précisément en tant que tels.

    Telle est la vérité, cruelle, qui vient d’emblée s’opposer aux élucubrations de Gérald Darmanin : en incriminant les modes de vie « communautaires », et plus précisément la fréquentation de lieux de culte ou de commerces « communautaires », le ministre stigmatise non pas les coupables de la violence terroriste (qui se caractérisent au contraire par la #solitude, l’#isolement, le surf sur #internet, l’absence d’#attaches_communautaires et de pratique religieuse assidue, l’absence en tout cas de fréquentation de #lieux_de_cultes) mais bien certaines de ses victimes (des fidèles attaqués sur leur lieu de culte, ou de courses).

    14. Puis, quelques jours à peine après l’effroyable attentat, sans aucune concertation sur le terrain, auprès de la profession concernée, est tombée par voie de presse (comme d’habitude) une stupéfiante nouvelle : l’ensemble des Conseils régionaux de France a décidé de faire distribuer un « #recueil_de_caricatures » (on ne sait pas lesquelles) dans tous les lycées. S’il faut donner son sang, allez donner le vôtre, disait la chanson. Qu’ils aillent donc, ces élus, distribuer eux-mêmes leurs petites bibles républicaines, sur les marchés. Mais non : c’est notre sang à nous, petits profs de merde, méprisés, sous-payés, insultés depuis des années, qui doit couler, a-t-il été décidé en haut lieu. Et possiblement aussi celui de nos élèves.

    Car il faut se rendre à l’évidence : si cette information est confirmée, et si nous acceptons ce rôle de héros et martyrs d’un pouvoir qui joue aux petits soldats de plomb avec des profs et des élèves de chair et d’os, nous devenons officiellement la cible privilégiée des groupes terroristes. À un ennemi qui ne fonctionne, dans ses choix de cibles et dans sa communication politique, qu’au défi, au symbole et à l’invocation de l’honneur du Prophète, nos dirigeants répondent en toute #irresponsabilité par le #défi, le #symbole, et la remise en jeu de l’image du Prophète. À quoi doit-on s’attendre ? Y sommes-nous prêts ? Moi non.

    15. Comme si tout cela ne suffisait pas, voici enfin que le leader de l’opposition de gauche, celui dont on pouvait espérer, au vu de ses engagements récents, quelques mises en garde élémentaires mais salutaires contre les #amalgames et la #stigmatisation haineuse des musulmans, n’en finit pas de nous surprendre ou plutôt de nous consterner, de nous horrifier, puisqu’il s’oppose effectivement à la chasse aux musulmans, mais pour nous inviter aussitôt à une autre chasse : la #chasse_aux_Tchétchènes :

    « Moi, je pense qu’il y a un problème avec la #communauté_tchétchène en France ».

    Il suffit donc de deux crimes, commis tous les deux par une personne d’origine tchétchène, ces dernières années (l’attentat de l’Opéra en 2018, et celui de Conflans en 2020), plus une méga-rixe à Dijon cet été impliquant quelques dizaines de #Tchétchènes, pour que notre homme de gauche infère tranquillement un « #problème_tchétchène », impliquant toute une « communauté » de plusieurs dizaines de milliers de personnes vivant en France.

    « Ils sont arrivés en France car le gouvernement français, qui était très hostile à Vladimir Poutine, les accueillait à bras ouverts », nous explique Jean-Luc #Mélenchon. « À bras ouverts », donc, comme dans un discours de Le Pen – le père ou la fille. Et l’on a bien entendu : le motif de l’#asile est une inexplicable « hostilité » de la France contre le pauvre Poutine – et certainement pas une persécution sanglante commise par ledit Poutine, se déclarant prêt à aller « buter » lesdits Tchétchènes « jusque dans les chiottes ».

    « Il y a sans doute de très bonnes personnes dans cette communauté » finit-il par concéder à son intervieweur interloqué. On a bien lu, là encore : « sans doute ». Ce n’est donc même pas sûr. Et « de très bonnes personnes », ce qui veut dire en bon français : quelques-unes, pas des masses.

    « Mais c’est notre #devoir_national de s’en assurer », s’empresse-t-il d’ajouter – donc même le « sans doute » n’aura pas fait long feu. Et pour finir en apothéose :

    « Il faut reprendre un par un tous les dossiers des Tchétchènes présents en France et tous ceux qui ont une activité sur les réseaux sociaux, comme c’était le cas de l’assassin ou d’autres qui ont des activités dans l’#islamisme_politique (...), doivent être capturés et expulsés ».

    Là encore, on a bien lu : « tous les dossiers des Tchétchènes présents en France », « un par un » ! Quant aux suspects, ils ne seront pas « interpellés », ni « arrêtés », mais « capturés » : le vocabulaire est celui de la #chasse, du #safari. Voici donc où nous emmène le chef du principal parti d’opposition de gauche.

    16. Enfin, quand on écrira l’histoire de ces temps obscurs, il faudra aussi raconter cela : comment, à l’heure où la nation était invitée à s’unir dans le deuil, dans la défense d’un modèle démocratique, dans le refus de la violence, une violente campagne de presse et de tweet fut menée pour que soient purement et simplement virés et remplacés les responsables de l’#Observatoire_de_la_laïcité, #Nicolas_Cadène et #Jean-Louis_Bianco, pourtant restés toujours fidèles à l’esprit et à la lettre des lois laïques, et que les deux hommes furent à cette fin accusés d’avoir « désarmé » la République et de s’être « mis au service » des « ennemis » de ladite #laïcité et de ladite république – en somme d’être les complices d’un tueur de prof, puisque c’est de cet ennemi-là qu’il était question.

    Il faudra raconter que des universitaires absolument irréprochables sur ces questions, comme #Mame_Fatou_Niang et #Éric_Fassin, furent mis en cause violemment par des tweeters, l’une en recevant d’abjectes vidéos de décapitation, l’autre en recevant des #menaces de subir la même chose, avec dans les deux cas l’accusation d’être responsables de la mort de Samuel Paty.

    Il faudra se souvenir qu’un intellectuel renommé, invité sur tous les plateaux, proféra tranquillement, là encore sans être recadré par les animateurs, le même type d’accusations à l’encontre de la journaliste et chroniqueuse #Rokhaya_Diallo : en critiquant #Charlie_Hebdo, elle aurait « poussé à armer les bras des tueurs », et « entrainé » la mort des douze de Charlie hebdo.

    Il faudra se souvenir qu’au sommet de l’État, enfin, en ces temps de deuil, de concorde nationale et de combat contre l’obscurantisme, le ministre de l’Éducation nationale lui-même attisa ce genre de mauvaise querelle et de #mauvais_procès – c’est un euphémisme – en déclarant notamment ceci :

    « Ce qu’on appelle l’#islamo-gauchisme fait des ravages, il fait des ravages à l’#université. Il fait des ravages quand l’#UNEF cède à ce type de chose, il fait des ravages quand dans les rangs de la France Insoumise, vous avez des gens qui sont de ce courant-là et s’affichent comme tels. Ces gens-là favorisent une idéologie qui ensuite, de loin en loin, mène au pire. »

    Il faudra raconter ce que ces sophismes et ces purs et simples mensonges ont construit ou tenté de construire : un « #consensus_national » fondé sur une rage aveugle plutôt que sur un deuil partagé et un « plus jamais ça » sincère et réfléchi. Un « consensus » singulièrement diviseur en vérité, excluant de manière radicale et brutale tous les contre-pouvoirs humanistes et progressistes qui pourraient tempérer la violence de l’arbitraire d’État, et apporter leur contribution à l’élaboration d’une riposte anti-terroriste pertinente et efficace : le mouvement antiraciste, l’opposition de gauche, la #sociologie_critique... Et incluant en revanche, sans le moindre état d’âme, une droite républicaine radicalisée comme jamais, ainsi que l’#extrême_droite lepéniste.

    Je ne sais comment conclure, sinon en redisant mon accablement, ma tristesse, mon désarroi, ma peur – pourquoi le cacher ? – et mon sentiment d’#impuissance face à une #brutalisation en marche. La brutalisation de la #vie_politique s’était certes enclenchée bien avant ce crime atroce – l’évolution du #maintien_de l’ordre pendant tous les derniers mouvements sociaux en témoigne, et les noms de Lallement et de Benalla en sont deux bons emblèmes. Mais cet attentat, comme les précédents, nous fait évidemment franchir un cap dans l’#horreur. Quant à la réponse à cette horreur, elle s’annonce désastreuse et, loin d’opposer efficacement la force à la force (ce qui peut se faire mais suppose le discernement), elle rajoute de la violence aveugle à de la violence aveugle – tout en nous exposant et en nous fragilisant comme jamais. Naïvement, avec sans doute un peu de cet idéalisme qui animait Samuel Paty, j’en appelle au #sursaut_collectif, et à la #raison.

    Pour reprendre un mot d’ordre apparu suite à ce crime atroce, #je_suis_prof. Je suis prof au sens où je me sens solidaire de Samuel Paty, où sa mort me bouleverse et me terrifie, mais je suis prof aussi parce que c’est tout simplement le métier que j’exerce. Je suis prof et je crois donc en la raison, en l’#éducation, en la #discussion. Depuis vingt-cinq ans, j’enseigne avec passion la philosophie et je m’efforce de transmettre le goût de la pensée, de la liberté de penser, de l’échange d’arguments, du débat contradictoire. Je suis prof et je m’efforce de transmettre ces belles valeurs complémentaires que sont la #tolérance, la #capacité_d’indignation face à l’intolérable, et la #non-violence dans l’#indignation et le combat pour ses idées.

    Je suis prof et depuis vingt-cinq ans je m’efforce de promouvoir le #respect et l’#égalité_de_traitement, contre tous les racismes, tous les sexismes, toutes les homophobies, tous les systèmes inégalitaires. Et je refuse d’aller mourir au front pour une croisade faussement « républicaine », menée par un ministre de l’Intérieur qui a commencé sa carrière politique, entre 2004 et 2008, dans le girons de l’extrême droite monarchiste (auprès de #Christian_Vanneste et de #Politique_magazine, l’organe de l’#Action_française). Je suis prof et je refuse de sacrifier tout ce en quoi je crois pour la carrière d’un ministre qui en 2012, encore, militait avec acharnement, aux côtés de « La manif pour tous », pour que les homosexuels n’aient pas les mêmes droits que les autres – sans parler de son rapport aux femmes, pour le moins problématique, et de ce que notre grand républicain appelle, en un délicat euphémisme, sa « vie de jeune homme ».

    Je suis prof et j’enseigne la laïcité, la vraie, celle qui s’est incarnée dans de belles lois en 1881, 1882, 1886 et 1905, et qui n’est rien d’autre qu’une machine à produire plus de #liberté, d’#égalité et de #fraternité. Mais ce n’est pas cette laïcité, loin s’en faut, qui se donne à voir ces jours-ci, moins que jamais, quand bien même le mot est répété à l’infini. C’est au contraire une politique liberticide, discriminatoire donc inégalitaire, suspicieuse ou haineuse plutôt que fraternelle, que je vois se mettre en place, sans même l’excuse de l’efficacité face au terrorisme.

    Je suis prof, et cette #vraie_laïcité, ce goût de la pensée et de la #parole_libre, je souhaite continuer de les promouvoir. Et je souhaite pour cela rester en vie. Et je souhaite pour cela rester libre, maître de mes #choix_pédagogiques, dans des conditions matérielles qui permettent de travailler. Et je refuse donc de devenir l’otage d’un costume de héros ou de martyr taillé pour moi par des aventuriers sans jugeote, sans cœur et sans principes – ces faux amis qui ne savent qu’encenser des profs morts et mépriser les profs vivants.

    https://lmsi.net/Je-suis-prof

    #Pierre_Tevanian

    –—

    –-> déjà signalé sur seenthis :
    https://seenthis.net/messages/882390
    https://seenthis.net/messages/882583
    ... mais je voulais mettre le texte complet.

  • Petites erreurs du réel
    http://liminaire.fr/palimpseste/article/petites-erreurs-du-reel

    La place située entre la #Gare de l’Est et le Centre des Recollets, à #Paris dans le 10ème arrondissement, a été réaménagée et végétalisée en 2012 et porte depuis le nom de la résistante et femme politique Madeleine Braun, première femme vice-président de l’Assemblée nationale. En 1951, écartée du Parti Communiste, elle s’éloigne de la politique et devient co-directrice avec Louis Aragon des Éditeurs français réunis, où elle publie de nombreux auteurs comme Paul Valéry, Paul Eluard ou Vladimir Maïakovski. Cet (...) #Palimpseste / #Photographie, Paris, #Paysage, #Ville, #Regard, #Quotidien, Société, #Solitude, #Traces, #Rêve, #Poésie, (...)

    #Société
    http://museedelaresistanceenligne.org/media5438-Place-Madeleine-Braun-Paris-Xe
    https://www.seuil.com/ouvrage/le-propre-du-langage-voyages-au-pays-des-noms-communs-jean-christophe-bailly/9782020315623
    http://liminaire.fr/IMG/mp4/place.mp4

  • Jeune femme
    de Leonor Serraille avec Laetitia Dotsh
    https://www.arte.tv/fr/videos/092066-000-A/jeune-femme
    #film #femme #solitude

    Caméra d’or au Festival de Cannes en 2017, le portrait d’une trentenaire fantasque en plein chaos intime. Une comédie aussi bouillonnante qu’attachante, portée par la fabuleuse Laetitia Dosch.

    Quittée par Joachim, photographe en vue dont elle a partagé la vie à l’étranger pendant dix ans, Paula se tape la tête contre les murs, et plus particulièrement contre la porte que ce dernier lui a fermée. Sa blessure au front, elle traîne son chat, ses maigres bagages et sa détresse éruptive dans les rues d’un Paris qu’elle honnit. Sans expériences ni ressources, la jeune femme s’improvise baby-sitter d’une gamine rétive et vendeuse dans un « bar à culottes »…

    Hors normes
    Pour son premier long métrage, couronné par la Caméra d’or au Festival de Cannes 2017, Léonor Serraille compose le renversant portrait, débordant d’énergie et de sensibilité, d’une trentenaire paumée, forcée de se réinventer. Hors normes jusqu’aux yeux – vairons –, Paula déverse sa colère à torrents, renifle les sous-vêtements, invective les passants… Légèrement fêlée, sous l’assaut de la solitude, de la précarité et d’une maternité non désirée, elle s’efforce tant bien que mal, au fil de son errance et au hasard des rencontres (avec une lesbienne perruquée ou un agent de sécurité surdiplômé), de se frayer un chemin dans un monde hostile. D’un naturel ébouriffant, Laetitia Dosch (La bataille de Solférino) transcende cette comédie remarquablement écrite et mise en scène qui, à l’instar de sa très émotive héroïne, tangue sans cesse entre fantaisie débridée et gravité.

  • #Patrick_Boucheron : « La #jeunesse a payé un prix extravagant à cette #crise »

    Patrick Boucheron, historien et professeur au Collège de France, est l’invité du grand entretien de Nicolas Demorand et Léa Salamé, à 8h20, sur France Inter.

    Pour entamer ce « Monde d’après », Patrick Boucheron tire le bilan, d’un point de vue historique, de ce #confinement : « On est ramené aux conditions singulières de l’expérience, chacun confronté à sa propre #solitude (...) On a pas tous les mêmes fondations, sûres, et il est temps de descendre à la cave pour voir les dégâts (...) Il y a un gouffre qui s’ouvre devant nous, la #responsabilité_politique c’est l’autre temps, qui vient ».

    « Je me méfie spontanément des intellectuels à thèse (...) il y a une opportunité formidable, l’histoire n’est pas là pour nous rassurer sur nos certitudes, mais pour nous dire ‘là, il y a une entaille’ : ce qui va avoir lieu, c’est à nous d’en décider collectivement, politiquement ».

    « La terre entière a pris une décision incroyable au regard de l’Histoire : défendre toutes les vies, quoi qu’il en coûte »

    Pour Patrick Boucheron, ce geste politique a affirmé le fait que « la #vie est un bien inconditionnel, aujourd’hui, si on doit sauver des vies, ça vaut pour tout le monde, c’est à ce moment-là qu’il faut vérifier qu’on est bien d’accord, pour ceux qui rament dans la vie, ceux qui sont sur des canots en Méditerranée ».

    #Sacrifice_générationnel

    « Je ne vais pas dire que j’ai eu le confinement heureux, parce que franchement me séparer des autres, c’est m’affaiblir » explique l’historien, qui veut avant tout pointer du doigt le tribut payé à cette crise par les jeunes générations : « La jeunesse a payé un prix extravagant, et encore aujourd’hui : il y a eu un sacrifice générationnel, enfant compris, et les #étudiants ».

    « Dans les annonces gouvernementales, les #universités venaient toujours en dernier, après les terrasses et le #Puy_du_Fou de fou, on leur disait : ’elles ne rouvriront pas’. Mais quel scandale ! »

    « On ne parle que des #exames, on s’assure qu’ils [les étudiants] n’ont pas triché, on utilise leurs webcam comme outil de #télésurveillance. Ils [le gouvernement] ne sont pas très précis ni très pressés » estime l’historien et universitaire.

    « La population étudiante n’est pas qu’une question sanitaire : ce sont des lieux de vie et de production du savoir, et on n’a jamais autant parlé de sciences que pendant cette crise ».

    La jeune génération a des solutions

    « On doit dire à la jeunesse qu’elle a peut-être la solution à des questions que leurs ainés ont été incapables de poser (...) J’ai 54 ans, et je suis dans une société ou l’on considère que je suis jeune ! Ça ne va pas ! On encombre ! On doit penser à la jeunesse, il ne faut pas la pousser à la révolte, c’est absurde ! ».

    « On ne peut pas se laisser désigner par une catastrophe, la jeunesse ne peut [accepter de se faire appeler la génération Covid], à eux de donner le nom du temps qu’ils ont vécu (...) l’événement, c’est moins l’épidémie, que la réponse politique : ce sont les jeunes qui doivent dire, aujourd’hui, de quelle génération ils veulent être. »

    « Aujourd’hui ça n’a de sens, quand on est expert de rien, comme moi, [de prendre la parole] que pour dire ’ça commence’. »

    Médecine spectacle

    Sur les leçons à tirer du débat entre experts de la santé, Patrick Boucheron rappelle que des leçons avaient autrefois été tirées après les crises sanitaires provoquées par d’autres virus, comme le Sida ou Ebola, « où l’on avait compris que les médecins avaient besoin de sociologues et d’ anthropologues ». Évoquant, entre autres, des figures comme celles du professeur Raoult, il confesse : « Aujourd’hui, [certains] disent qu’ils ont raison parce que les Français ne leur donnent pas tort, comme Raoult : moi je ne comprends pas ce qu’il dit (...) On a vu comment se construit la #science, c’est compliqué ».

    « On s’est tous autoproclamés virologues, on a l’impression qu’il n’y a plus que ce métier. Or il y a aussi ceux des #sciences_sociales, qui consistent à douter », dit-il en revenant sur l’expérience des années sida : « On a rien à attendre d’une maladie, sinon qu’elle ne nous tue pas et qu’elle passe le plus vite possible, ce sont les malades, les marqueurs sociaux, ça veut dire qu’on va en discuter en commun (...) La #recherche-publique : c’est en faire un enjeu commun. »

    https://www.franceinter.fr/emissions/l-invite-de-8h20-le-grand-entretien/l-invite-de-8h20-le-grand-entretien-03-juin-2020
    #jeunes #SHS

  • « Pour les exilés, le confinement peut réveiller des images traumatiques »

    Si le suivi psychologique des exilés se poursuit notamment par téléphone, la psychologue Marie-Caroline Saglio-Yatzimirsky, qui reçoit ces patients, s’inquiète de l’aggravation de leur #solitude « déjà extrême ».

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2020/04/27/pour-les-exiles-le-confinement-peut-reveiller-des-images-traumatiques_603790
    #traumatisme #trauma #santé_mentale #asile #migrations #réfugiés #coronavirus #confinement #covid-19
    ping @isskein @karine4 @thomas_lacroix

  • « Nous ne reverrons jamais le monde que nous avons quitté il y a un mois » | Stéphane Audoin-Rouzeau, historien
    https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/120420/stephane-audoin-rouzeau-nous-ne-reverrons-jamais-le-monde-que-nous-avons-q

    Stéphane Audoin-Rouzeau, historien de la guerre de 1914-1918, juge que nous sommes entrés dans un « temps de guerre » et un moment de rupture anthropologique.

    Stéphane Audoin-Rouzeau est directeur d’études à l’EHESS et président du Centre international de recherche de l’Historial de la Grande Guerre de Péronne. Il a publié de nombreux ouvrages consacrés à la Première Guerre mondiale et à l’anthropologie historique du combat et de la violence de guerre. Nous l’avions reçu pour son dernier livre, Une initiation - Rwanda (1994-2016), publié aux Éditions du Seuil.

    Quel regard porte l’historien de la Grande Guerre que vous êtes sur la situation présente ?

    Stéphane Audoin-Rouzeau : J’ai le sentiment de me trouver plongé, soudainement et concrètement, dans mes objets d’étude ; de vivre, sur un mode évidemment très mineur, quelque chose de ce qu’a été la Grande Guerre – pour les civils naturellement, pas pour les combattants –, cette référence si présente aujourd’hui. La phrase la plus frappante d’Emmanuel Macron, lors de son second discours à Mulhouse, a été celle qui a été la moins relevée : « Ils ont des droits sur nous », pour parler des soignants. C’est le verbatim d’une phrase de Clemenceau pour parler des combattants français à la sortie de la guerre. La référence à la Grande Guerre est explicite, d’autant plus quand on sait que l’ancien directeur de la mission du Centenaire, Joseph Zimet, a rejoint l’équipe de communication de l’Élysée. De même, pour le « nous tiendrons ». « Tenir », c’est un mot de la Grande Guerre, il fallait que les civils « tiennent », que le front « tienne », il fallait « tenir » un quart d’heure de plus que l’adversaire…

    Ce référent 14-18 est pour moi fascinant. Comme historien, je ne peux pas approuver cette rhétorique parce que pour qu’il y ait guerre, il faut qu’il y ait combat et morts violentes, à moins de diluer totalement la notion. Mais ce qui me frappe comme historien de la guerre, c’est qu’on est en effet dans un temps de guerre. D’habitude, on ne fait guère attention au temps, alors que c’est une variable extrêmement importante de nos expériences sociales. Le week-end d’avant le confinement, avec la perception croissante de la gravité de la situation, le temps s’est comme épaissi et on ne s’est plus focalisé que sur un seul sujet, qui a balayé tous les autres. De même, entre le 31 juillet et le 1er août 1914, le temps a changé. Ce qui était inconcevable la veille est devenu possible le lendemain.

    Le propre du temps de guerre est aussi que ce temps devient infini. On ne sait pas quand cela va se terminer. On espère simplement – c’est vrai aujourd’hui comme pendant la Grande Guerre ou l’Occupation – que ce sera fini « bientôt ». Pour Noël 1914, après l’offensive de printemps de 1917, etc. C’est par une addition de courts termes qu’on entre en fait dans le long terme de la guerre. Si on nous avait dit, au début du confinement, que ce serait pour deux mois ou davantage, cela n’aurait pas été accepté de la même façon. Mais on nous a dit, comme pour la guerre, que c’était seulement un mauvais moment à passer. Pour la Grande Guerre, il me paraît évident que si l’on avait annoncé dès le départ aux acteurs sociaux que cela durerait quatre ans et demi et qu’il y aurait 1,4 million de morts, ils n’auraient pas agi de la même façon. Après la contraction du temps initiale, on est entré dans ce temps indéfini qui nous a fait passer dans une temporalité « autre », sans savoir quand elle trouvera son terme.

    On parle déjà de déconfinement, est-ce une illusion comparable à ce qu’a été l’idée que la guerre serait bientôt terminée ?

    Je suis fasciné par l’imaginaire de la « sortie » tel qu’il se manifeste aujourd’hui dans le cas du déconfinement, sur le même mode de déploiement déjà pendant la Grande Guerre. Face à une crise immense, ses contemporains ne semblent pas imaginer autre chose qu’une fermeture de la parenthèse temporelle. Cette fois, on imagine un retour aux normes et au « temps d’avant ». Alors, je sais bien que la valeur prédictive des sciences sociales est équivalente à zéro, mais l’histoire nous apprend quand même qu’après les grandes crises, il n’y a jamais de fermeture de la parenthèse. Il y aura un « jour d’après », certes, mais il ne ressemblera pas au jour d’avant. Je peux et je souhaite me tromper, mais je pense que nous ne reverrons jamais le monde que nous avons quitté il y a un mois.

    Pourquoi concevoir une telle rupture alors que, précisément, on n’est pas dans un moment de brutalisation et de violence comparable à ce qu’a été la Grande Guerre ?

    Je le dis en tant qu’historien et avec une franchise qui peut paraître brutale : l’ampleur du choc économique et social, mais aussi politique et moral, me paraît nous mener vers une période tout autre. Sur le plan politique, le conservateur que je suis se sent un peu comme un pacifiste à la fin du mois de juillet 1914, qui croit encore aux progrès de l’humanité, à l’entente entre les peuples, à la bonne volonté du gouvernement. Qui pense que les diverses internationales (catholique, protestante, ouvrière…) empêcheront la guerre, perçue comme une absurdité anachronique.

    Aujourd’hui, peut-on croire comme avant à l’Union européenne, à la libre circulation des individus, des idées ou des biens, au recul continu des souverainetés nationales ? En une semaine, sont réapparus les Nations et leurs États, avec le sentiment que plus l’État-nation est puissant, mieux il s’en sort. C’est aussi l’heure des chefs : on écoutait de moins en moins les chefs d’État, me semble-t-il, et là, nous voici suspendus à leurs lèvres. Les germes d’une crise politique grave étaient déjà présents avant le Covid-19, mais je crains que demain, la crise politique soit terrible, avec une reddition des comptes potentiellement meurtrière pour la classe politique.

    Mais à cela, il faut ajouter, d’un point de vue plus anthropologique, les risques d’une crise morale comparable à celle qui s’est produite après chacune des deux guerres mondiales. La Première a été un choc pour l’idée de progrès, qui était consubstantielle à la République. La fameuse phrase de Paul Valéry, « Nous autres, civilisations, nous savons maintenant que nous sommes mortelles », dit quelque chose de très profond sur l’effondrement de la croyance en un monde meilleur : un effondrement sans lequel on ne peut pas comprendre le développement des totalitarismes au cours de l’entre-deux-guerres. La Seconde Guerre mondiale a constitué un second choc anthropologique, non pas tellement par la prise de conscience de l’extermination des juifs d’Europe, bien plus tardive, mais avec l’explosion de la bombe atomique qui ouvrait la possibilité d’une autodestruction des sociétés humaines.

    À mes yeux, nos sociétés subissent aujourd’hui un choc anthropologique de tout premier ordre. Elles ont tout fait pour bannir la mort de leurs horizons d’attente, elles se fondaient de manière croissante sur la puissance du numérique et les promesses de l’intelligence artificielle. Mais nous sommes rappelés à notre animalité fondamentale, au « socle biologique de notre humanité » comme l’appelait l’anthropologue Françoise Héritier. Nous restons des homo sapiens appartenant au monde animal, attaquables par des maladies contre lesquelles les moyens de lutte demeurent rustiques en regard de notre puissance technologique supposée : rester chez soi, sans médicament, sans vaccin… Est-ce très différent de ce qui se passait à Marseille pendant la peste de 1720 ?

    Ce rappel incroyable de notre substrat biologique se double d’un autre rappel, celui de l’importance de la chaîne d’approvisionnement, déficiente pour les médicaments, les masques ou les tests, mais qui fonctionne pour l’alimentation, sans quoi ce serait très vite la dislocation sociale et la mort de masse. C’est une leçon d’humilité dont sortiront peut-être, à terme, de bonnes choses, mais auparavant, il va falloir faire face à nos dénis.

    De même qu’on avait prévu la Grande Guerre, on avait prévu la possibilité d’une grande pandémie. Par exemple, le Livre blanc de la Défense de 2008 inscrivait déjà les pandémies comme une des menaces à envisager. Mais, comme pour la guerre, il existe toujours une dissonance cognitive entre l’événement imaginé et l’événement qui survient. Ce dernier ne correspond jamais à ce que l’on avait prévu. Ceci nous a rendu incapables de profiter des capacités d’anticipation dont nous pensions disposer.

    Même si, comme chercheur, je trouve que ce confinement généralisé et interminable constitue une expérience sociale du plus haut intérêt, je crains donc que nous devions nous préparer à une sortie de temps de guerre très difficile.

    De quoi dépendra que l’après soit plus difficile ou porteur d’espoir ?

    Cela dépendra sans doute des modalités de la « victoire ». Je pense qu’il y aura victoire, car le virus a vocation à s’éteindre, comme s’est éteint celui de la grippe espagnole en 1918-1919. Mais le virus disparaîtra-t-il « naturellement » ou sera-t-il vaincu par nos capacités techniques et organisationnelles ? Et quel sera le prix de la victoire ? Si le bilan est très lourd, je crains alors que l’après-coup ne soit terrible. À cela s’ajoute le fait que certaines régions du monde pourront avoir le sentiment d’avoir vaincu la maladie, tandis que d’autres seront défaites, je pense notamment aux pays les plus pauvres.

    Pendant la Première Guerre mondiale en France, on n’imaginait pas vraiment le monde de l’après-guerre. Il fallait gagner, refermer la parenthèse, et puis « l’Allemagne paierait ». Pendant la Seconde Guerre mondiale, les choses ont été différentes puisque la construction de la société d’après-guerre a commencé bien avant que les combats ne se terminent.

    Cette fois, on a le plus grand mal à penser « l’après », même si on s’y essaie, parce qu’on sait qu’on ne sera pas débarrassés de ce type de pandémie, même une fois la vague passée. On redoutera la suivante. Or, rappelons que le Covid-19 a jusqu’ici une létalité faible par rapport au Sras ou à Ebola. Mais imaginons qu’au lieu de frapper particulièrement les plus âgés, il ait atteint en priorité les enfants ?… Nos sociétés se trouveraient déjà en situation de dislocation sociale majeure.

    Je suis, au fond, frappé par la prégnance de la dimension tragique de la vie sociale telle qu’elle nous rattrape aujourd’hui, comme jamais elle ne nous avait rattrapés jusqu’ici en Europe depuis 1945. Cette confrontation à la part d’ombre, on ne peut savoir comment les sociétés et leurs acteurs vont y répondre. Ils peuvent s’y adapter tant bien que mal, mieux qu’on ne le pense en tout cas, ou bien l’inverse.

    Je reste sidéré, d’un point de vue anthropologique, par l’acceptation, sans beaucoup de protestations me semble-t-il, des modalités d’accompagnement des mourants du Covid-19 dans les Ehpad. L’obligation d’accompagnement des mourants, puis des morts, constitue en effet une caractéristique fondamentale de toutes les sociétés humaines. Or, il a été décidé que des personnes mourraient sans l’assistance de leurs proches, et que ce non-accompagnement se poursuivrait pour partie lors des enterrements, réduits au minimum. Pour moi, c’est une transgression anthropologique majeure qui s’est produite quasiment « toute seule ». Alors que si on nous avait proposé cela il y a deux mois, on se serait récriés en désignant de telles pratiques comme inhumaines et inacceptables. Je ne m’insurge pas davantage que les autres. Je dis simplement que devant le péril, en très peu de temps, les seuils de tolérance se sont modifiés à une vitesse très impressionnante, au rythme de ce qu’on a connu pendant les guerres. Cela semble indiquer que quelque chose de très profond se joue en ce moment dans le corps social.

    L’ouvrage que vous aviez dirigé avec Christophe Prochasson en 2008, intitulé Sortir de la Grande Guerre (Tallandier), montrait notamment que la sortie de guerre n’avait pas le même sens dans chaque pays. Pensez-vous que dans un monde confronté au coronavirus, la sortie du confinement sera très différente selon les pays ?

    Nous ne sommes pas dans le même type d’événement. En 1918, il y avait des vainqueurs et des vaincus, des nations humiliées et d’autres triomphantes. Mais la gestion différentielle de la crise peut entraîner une dissociation qu’on voit déjà se profiler en pointillé. Entre les États qui s’en seront relativement bien sortis, comme peut-être l’Allemagne, et ceux qui auront été touchés de plein fouet, à l’instar de l’Italie. Entre les États qui se seront organisés en supprimant les libertés publiques, comme la Hongrie, et ceux qui auront essayé de les maintenir au moins en partie.

    Peut-on aussi imaginer des changements de statut selon les professions confrontées très inégalement à la crise ?

    La reprise de la phrase de Georges Clemenceau par Emmanuel Macron était discutable, mais elle dit quelque chose de vrai : les soignants vont sortir de là un peu comme les poilus en 1918-1919, avec une aura d’autant plus forte que les pertes seront là pour attester leur sacrifice. Le sacrifice, par définition, c’est ce qui rend sacré. On peut donc tout à fait imaginer la sacralisation de certaines professions très exposées, et une démonétisation de beaucoup d’autres (les métiers universitaires, par exemple ?). En termes de capital symbolique, comme aurait dit Bourdieu, les statuts sociaux vont se trouver modifiés. Pour parler de mon domaine, les sciences sociales, il se peut que des domaines entiers se trouvent démonétisés et que d’autres émergent, avec une nouvelle hiérarchie des centres d’intérêt et des priorités. Il n’est malheureusement guère possible de donner des exemples, car les sciences sociales sont dénuées de toute capacité prédictive y compris dans le champ qui leur est propre !

    Peut-on déterminer la durée d’une sortie de crise ou d’une sortie de guerre ?

    Il ne me semble pas. La notion d’après-guerre suggérait une date déterminant un avant et un après : l’armistice du 11 novembre par exemple ou le traité de Versailles de juin 1919. Mais la notion de « sortie de guerre », plus riche, suggère en réalité un glissement. À la limite, on peut ne jamais sortir complètement d’un événement guerrier… Certaines en sortent, d’autres pas. On peut faire l’hypothèse que les sociétés française et britannique, par exemple, ne sont jamais sorties complètement de la mort de masse du premier conflit mondial. La notion de sortie de guerre suggère une direction, pas un segment chronologique avec un début et une fin. N’en sera-t-il pas de même pour une « sortie de pandémie » dont on ne peut connaître ni les effets ni la durée ?

    Est-ce que, dès le début de la Grande Guerre, les responsabilités ont été recherchées, comme elles le sont aujourd’hui ?

    Pas vraiment. En raison de l’Union sacrée, l’inventaire des erreurs commises a été remis à plus tard. Cette fois, on sent bien qu’il y aura inventaire, mais on s’accorde globalement pour estimer qu’il n’est pas temps de le dresser au cœur de l’action. Mais « l’Union sacrée », selon l’expression du président Poincaré, le 4 août 1914, n’est qu’une suspension du combat politique. Elle ne consiste pas à dire qu’il n’existe plus d’affrontement, mais que chaque acteur a intérêt à y renoncer momentanément tout en pensant, plus tard, ramasser la mise.

    De ce point de vue, les accusations actuelles me semblent n’être rien par rapport à ce qui va suivre. À la sortie, le combat politique a de bonnes chances d’être plus impitoyable que jamais, d’autant qu’on ne manquera pas de déclarations imprudentes et de décisions malvenues pour alimenter la machine. Rappelons au passage qu’en France, les unions sacrées s’achèvent en général en profitant aux droites, voire à l’extrême droite. Cette seconde hypothèse, je la redoute beaucoup pour notre pays.

    Une couche du palimpseste de la chefferie nationale, la photo qui ouvre l’article


    Georges Clemenceau en 1904. © Paul Nadar

    #histoire #temporalité #communication #temps_de_guerre #heure_des_ chefs #soignants (aura des) #tragique #anthoropologie #solitude_des_mourants (augmentée) #société_d'abandon #droite

    • C’est la première fois que je vois apparaitre un peu de cette question qui me hante sur la remise en cause de notre rapport (déni) à la mort et à notre temporalité.

      La fameuse phrase de Paul Valéry, « Nous autres, civilisations, nous savons maintenant que nous sommes mortelles », dit quelque chose de très profond sur l’effondrement de la croyance en un monde meilleur : un effondrement sans lequel on ne peut pas comprendre le développement des totalitarismes au cours de l’entre-deux-guerres. La Seconde Guerre mondiale a constitué un second choc anthropologique, non pas tellement par la prise de conscience de l’extermination des juifs d’Europe, bien plus tardive, mais avec l’explosion de la bombe atomique qui ouvrait la possibilité d’une autodestruction des sociétés humaines.

      À mes yeux, nos sociétés subissent aujourd’hui un choc anthropologique de tout premier ordre. Elles ont tout fait pour bannir la mort de leurs horizons d’attente , elles se fondaient de manière croissante sur la puissance du numérique et les promesses de l’intelligence artificielle. Mais nous sommes rappelés à notre animalité fondamentale, au « socle biologique de notre humanité » comme l’appelait l’anthropologue Françoise Héritier.

      (…)

      Je reste sidéré, d’un point de vue anthropologique, par l’acceptation, sans beaucoup de protestations me semble-t-il, des modalités d’accompagnement des mourants du Covid-19 dans les Ehpad. L’obligation d’accompagnement des mourants, puis des morts, constitue en effet une caractéristique fondamentale de toutes les sociétés humaines.

  • Une ville vide : #Atelier d’écriture sur la ville et ses inventions

    http://liminaire.fr/au-lieu-de-se-souvenir/article/une-ville-vide

    Cet atelier s’inscrit dans le cadre d’une série d’ateliers d’écriture sur le thème de la ville que j’anime, depuis janvier 2020 et jusqu’en juin, pour le compte de la bibliothèque François Villon (fermée en ce moment pour travaux de rénovation) à la Maison des Associations et de la vie Citoyenne du 10ème. Dans l’impossibilité de le mener sur place, suite aux mesures sanitaires de confinement, je propose aux participants inscrits une version vidéo, à distance, de cet atelier d’écriture. J’en profite pour inviter celles et ceux qui souhaiteraient y participer, de m’envoyer leur texte pour que je les diffuse sur mon blog ou de m’indiquer l’adresse de leur blog s’ils y participent pour que je puisse m’en faire le relais, et si vous le diffusez sur les réseaux sociaux vous pouvez y associer le hashtag : #VilleVide
    #Atelier / #Architecture, #Paris, #Ecriture, #Récit, Ville, #Paysage, Absence, #Corps, #Dérive, #Sensation, #Solitude, #Fantôme, #Temps, (...)❞

  • L’indécise #Absence
    http://liminaire.fr/derives/article/l-indecise-absence

    Tant de fois tu avais imaginé, et secrètement espéré, cette curieuse situation sans t’y confronter réellement, tu rêvais parfois de lieux vides dans lesquels tu pourrais marcher librement, mais sans ressentir ce que tu percevais désormais, maintenant que tu traversais effectivement la #Ville déserte, à l’abandon, sans croiser un seul passant, dans l’inquiétude tenace et grandissante de ces circonstances incompréhensibles. Avancer seul dans une ville vide, c’était un peu comme s’endormir au cinéma pendant (...) #Dérives / #Architecture, #Paris, #Récit, Ville, #Paysage, Absence, #Corps, #Dérive, #Sensation, #Solitude, #Fantôme, #Temps, (...)

    #Amour
    https://lesheurescreuses.net/2020/03/15/une-aubaine-pour-les-oiseaux

  • Une #relève académique en #souffrance

    Il est urgent que le Conseil fédéral, le FNS, les universités et HES prennent au sérieux le #mal-être profond des doctorants, post-doctorants, enseignants et chercheurs, et qu’ils en tirent les conséquences en matière de #politique_de_la_recherche, écrivent cinq post-doctorants en sociologie de l’Université de Neuchâtel.

    Le monde académique est devenu un environnement de #travail toxique. L’article de la Tribune de Genève intitulé « Burn-out en série chez les chercheurs genevois » (https://www.tdg.ch/geneve/actu-genevoise/burnout-serie-chercheurs-genevois/story/10365762) (8.1.2020) offre un témoignage éclairant sur une réalité méconnue. Il souligne que les #conditions_de_travail très précaires sont le lot commun des doctorant-e-s, post-doctorant-e-s et autres enseignant-e-s et chercheurs-euses réuni-e-s sous l’appellation de « #corps_intermédiaire » – et ce pendant de longues années : contrats à durée déterminée et à temps partiel, salaires insuffisants, dépendance personnelle aux professeur-e-s, problèmes de management, inégalités de traitement, harcèlement, multiplication des #burn-out. Mais comment en est-on arrivé là ? Cette réalité relève d’un #problème_structurel qu’il est nécessaire de prendre à la racine afin d’y apporter des réponses.

    L’#effet_Bologne

    Le système académique international a connu une restructuration profonde avec la mise en place du #processus_de_Bologne. Celui-ci a permis de créer un espace européen de l’enseignement supérieur en mettant en #concurrence les universités. Dans ce contexte, le Fonds national suisse de la recherche scientifique (FNS) se donne pour mission d’encourager la #compétitivité et la mise en réseau de la recherche scientifique suisse au niveau international (art. 1 de ses statuts). Au sein des universités et hautes écoles spécialisées (HES), dont la marge de manœuvre se réduit, cela s’est traduit par une mise en concurrence extrême des chercheurs-euses à l’échelle internationale. Pour espérer trouver une stabilité professionnelle après le doctorat, il est désormais indispensable de disposer d’articles dans des revues prestigieuses, évalués de façon anonyme, suivant un processus long et pénible. Sans compter que l’#anglais (et la forme d’#écriture_scientifique_standardisée) a pris le dessus sur les langues nationales. Individualisée, la #performance est mesurée d’après des critères précis, qui imposent à chaque chercheur-euse d’indiquer explicitement dans son CV sa « #productivité_scientifique » (sic). L’#impact_factor (citations des travaux par les pairs) détermine toujours les chances d’obtention d’une chaire, peu importe s’il conduit à l’auto-référentialité ou à la multiplication d’articles sans plus-value pour la science.

    Les effets de cette #mise_en_concurrence sont néfastes tant pour la #santé des chercheurs-euses que pour la qualité des connaissances produites. Les #rapports_de_travail se dégradent fortement. Il n’est pas rare qu’un-e collègue de bureau soit vu-e comme un-e concurrent-e direct-e. Pour répondre aux critères d’éligibilité, il faut travailler régulièrement le soir et le week-end. L’injonction d’une #mobilité_internationale favorise des profils conjugaux particuliers, au risque d’impliquer le renoncement à une #vie_familiale et d’accroître les #inégalités_de_genre. Les burn-out en série – qui connaissent une forte hausse généralisée (NZZaS, 12.1.2020) – témoignent de la #solitude dans laquelle les #souffrances sont vécues. Une situation renforcée à l’#université par l’absence d’organisations de défense collective de type syndical.

    Les mécanismes de concurrence

    Pour ces différentes raisons, il nous semble de plus en plus urgent que le Conseil fédéral, le FNS, les universités et HES prennent au sérieux ce mal-être profond et qu’ils en tirent les conséquences en matière de politique de la recherche. Un premier pas vers des mesures concrètes pouvant éviter que le travail académique ne porte atteinte à la santé et à la vie familiale consisterait à réduire les mécanismes de mise en concurrence des chercheurs-euses. Le développement d’un statut intermédiaire stable et la limitation des #financements_par_projet doivent être sérieusement envisagés. La réflexion devrait également questionner l’impératif d’une mobilité internationale (lorsqu’elle se fait contre la volonté des chercheurs-euses) et une course à la #productivité à tout prix.

    Daniel Burnier, Nicola Cianferoni, Jacinto Cuvi, Thomas Jammet, Miriam Odoni (post-doctorant-e-s en sociologie, Université de Neuchâtel)

    https://www.letemps.ch/opinions/une-releve-academique-souffrance
    #Suisse #université #science

    –-

    ajouté à cette métaliste sur la #précarisation de la #carrière des enseignant·es-chercheur·es dans les universités suisses.
    https://seenthis.net/messages/945135

    • « Burn-out » en série chez les chercheurs genevois

      Il arrive que l’Université se transforme en machine à broyer. Doctorants et chercheurs témoignent.

      Yvan* aurait aimé terminer son doctorat « par une invitation à lecture publique ». Las. Alors qu’il lui restait encore un an pour achever une thèse en sciences politiques entamée en 2016, ce Genevois de 31 ans a dit « stop » il y a quelques semaines. Il s’en explique dans un long message sur Facebook, suscitant une avalanche de commentaires. Il y dénonce la condition « très précaire » des chercheurs et la « culture de travail toxique » à l’œuvre selon lui au sein de l’Université de Genève (UNIGE).

      En trois ans, Yvan a découvert « les coulisses du monde académique ». Du moins celles de la Faculté des sciences de la société. « Et ce n’est pas beau à voir, écrit-il. Des collègues surexploités et surmenés dont on peut voir dans leur regard qu’ils ne dorment pas assez la nuit. Une anxiété insidieuse et une dépression présente partout, à quoi s’ajoutent des burn-out en série. »

      Jungle de contrats

      Les départs « abrupts » font toutefois figure d’exception, tient à préciser l’UNIGE. Brigitte Galliot, la vice-rectrice en charge des relations humaines, explique qu’elle demande à voir toutes les lettres de démission. « Nous cherchons à déterminer si l’encadrement n’a pas été satisfaisant », assure-t-elle.

      Dans son appartement de la Servette, Yvan se souvient de son premier jour en tant que doctorant. « Je n’avais pas de bureau, pas d’assignation, aucune personne de contact. Je ne savais pas quoi faire. J’ai fini par m’asseoir à la place d’une personne qui était absente. » Son contrat de recherche mentionne un 70% rémunéré 3920 francs brut par mois. « Comme premier salaire, on se dit que 4000 francs, c’est bien. Mais quand on soustrait les charges et avec le coût de la vie à Genève, il ne reste pas grand-chose. » Exemple de cette précarité : il est rare que les étudiants vivent seuls. La plupart sont en colocation ou emménagent avec leur copain ou copine.

      Débute la quête de financements complémentaires. Un sport national à l’université. « On te dit : ne t’en fais pas, signe déjà ce contrat à temps partiel, et ensuite on trouvera quelque chose », explique Yvan. De fait, les 2300 doctorants évoluent dans une « véritable jungle de contrats ». Durant un semestre, Yvan a même hérité d’un 5%. Le pourcentage varie, le type de contrat également. Certains sont financés par le Fonds national suisse de la recherche scientifique (FNS), d’autres par le Département de l’instruction publique (DIP). Ces derniers donnent droit à une annuité, qu’il est conseillé de négocier habilement.

      Finir sa thèse au chômage

      Yvan poursuit : « Tu es toujours en train de chercher un bout de contrat pour boucher le prochain trou. Quand tu ajoutes à cela le manque de suivi et de reconnaissance inhérente au milieu universitaire, ça devient infernal. » Un premier burn-out survient en 2017. « Je ne l’ai pas fait parce que je bossais trop mais en raison de cet environnement toxique. »

      Yvan retrouve son bureau six mois plus tard. La perspective de devoir effectuer la dernière année de sa thèse au chômage semble inéluctable. « C’est très fréquent. On t’engage pour trois ou quatre ans et si tu n’as pas fini ton doctorat, on te dit que tu le peux terminer au chômage. » Le chômage devient un « outil pour pallier le manque de financement », dénonce Yvan. Qui raccroche définitivement en novembre.

      Ce tableau très noir est le propre de très nombreuses universités en Suisse et à l’étranger. Dans l’ultracompétitif monde académique, c’est « up or out » : soit on progresse, soit on sort. Mais certains mettent des années à s’en extraire, guettant le prochain contrat dans l’espoir de décrocher ensuite un poste de professeur. À y regarder de plus près, les doctorants sont encore les mieux lotis. La situation peut devenir « catastrophique » pour ceux qui restent dans le giron universitaire par la suite : les postdoctorants, les assistants, les chargés de cours et les maîtres d’enseignement. On appelle cela le corps intermédiaire. À l’UNIGE, il dénombre 3760 personnes, contre seulement 766 professeurs, les seuls à disposer d’un contrat fixe et à temps plein.

      « Système seigneurial »

      Pour accéder à ce « Graal », Cristina Del Biaggio a dû se résoudre à quitter Genève. Cette Tessinoise de 42 ans y avait fait son doctorat, puis enchaîné les contrats. « Vingt au total entre 2007 et 2017 », détaille celle qui officie désormais comme maîtresse de conférence à l’Université de Grenoble, en montrant son attestation. On y remarque qu’elle est passée une fois de la classe23 à la 19. « J’ai donc reculé de classe salariale. Était-ce bien légal ? » s’interroge-t-elle.

      Les étudiants dépendent de leurs professeurs, relais inévitables pour obtenir un nouveau financement ou soumettre un projet de recherche. Un « système seigneurial », selon Yvan. « Quoi que tu fasses, tu dois passer par ton seigneur », dit-il. Il vaut donc mieux s’entendre avec lui, même si son pouvoir s’avère souvent limité.

      Pour « joindre les deux bouts », mais aussi parce qu’elle n’a jamais vu le monde universitaire comme « une fin en soi », Cristina Del Biaggio s’engage en parallèle pour l’association Vivre Ensemble. La crise des politiques migratoires bat alors son plein et la géographe s’exprime régulièrement dans les médias. « J’y étais plus utile. Je n’ai jamais été dans cette logique de course à la publication pour des revues inaccessibles qu’imposent les universités. »

      Liberté académique

      Les « inégalités de statut » et l’opacité ambiante font partie des défis de l’Agrass, l’Association pour la relève académique de la Faculté des sciences de la société. « Il y a énormément de disparités, relève d’emblée Davy-Kim Lascombes, de l’Agrass. Entre les facultés mais aussi entre les différents départements. » Les cahiers des charges peuvent varier sensiblement d’un assistant à l’autre.

      Ces inégalités, le rectorat les déplore, tout en rappelant que les neuf facultés jouissent de « beaucoup d’autonomie ». « C’est à elles de faire le ménage chez elles », relève la vice-rectrice Brigitte Galliot. En vertu de la notion de la liberté académique, les étudiants ont en principe le droit de faire un doctorat sans être payés. Il revient toutefois au directeur de thèse de veiller aux conditions de financement. « Nous nous bagarrons contre les professeurs qui prennent douze étudiants et ne peuvent pas les payer. Certaines facultés, comme les sciences et la médecine, refusent d’inscrire des doctorants non financés », insiste Brigitte Galliot.

      Entre 2007 et 2011, Simon Anderfuhren a rédigé une thèse sur les questions de motivation au travail. Il aborde la gestion des ressources humaines et le burn-out. « J’ai consacré une bonne partie de mon temps à enquêter sur des choses dont, par ailleurs, j’ai été témoin », constate ce quadragénaire. Pour lui, l’aventure universitaire s’achève en 2016 par deux ans de chômage et six mois sans salaire. En « valorisant » ses charges de cours, Simon Anderfuhren est aujourd’hui en passe de réussir sa reconversion dans l’enseignement. « L’université est un milieu qui n’est pas habitué à la souffrance au travail », dit-il.

      Problèmes de harcèlement

      Cristina Del Biaggio va plus loin. Selon elle, la précarité devient un « terrain fertile » pour le harcèlement. Des affaires qui n’ont pas épargné l’UNIGE ces dernières années. « Cela tombe toujours sur des personnes précaires. Car elles ont souvent peur de parler et de ne pas voir leur contrat renouvelé », avance Cristina Del Biaggio. Elle regrette le manque de formation des professeurs. « Ils se retrouvent à gérer des carrières universitaires, sans pour autant avoir des compétences managériales avérées », complète Simon Anderfuhren.

      Le rectorat rappelle que la « cellule confiance » est à la disposition de ceux qui veulent faire part, en toute confidentialité, d’un problème de harcèlement ou de sexisme. « Un soutien psychologique et non juridique », regrette Davy-Kim Lascombes. Une charte universitaire du doctorat est par ailleurs en préparation. « C’est une période où les étudiants peuvent être vulnérables s’ils se retrouvent avec un seul superviseur, reconnaît Brigitte Galliot. L’objectif, c’est qu’ils soient évalués par trois personnes à la fin de la première année. » La vice-rectrice ajoute que depuis deux ans, les nouveaux professeurs doivent suivre une formation de management en milieu académique.

      Plus de contrats stables

      En septembre, les représentants du corps intermédiaire ont présenté au rectorat le rapport 2018 « Next Gen » de l’Académie suisse des sciences humaines et sociales. Parmi ses recommandations, la hausse du nombre de contrats stables. « Tout ce qu’a proposé le rectorat, c’est la création d’un groupe de travail », regrette Davy-Kim Lascombes. Brigitte Galliot : « Si l’on veut que l’Université crée des postes d’enseignements en CDI, il faut revoir son organisation et que les moyens alloués augmentent en conséquence. »

      De leurs années à l’UNIGE, Cristina Del Biaggo et Simon Anderfuhren gardent quand même un bon souvenir. « On sait pertinemment que tout le monde ne peut pas faire carrière. On connaît les règles du jeu. Mais on continue à y jouer », médite Simon Anderfuhren. Cristina Del Biaggio se remémore son dernier jour : « Cela faisait dix ans que j’y travaillais et je ne savais pas à qui donner la clé de mon bureau. J’ai fini par la laisser dans un casier. » D’une moue, elle ajoute : « Ce jour-là, personne ne m’a dit au revoir, ni merci. »

      *Identité connue de la rédaction

      https://www.tdg.ch/geneve/actu-genevoise/burnout-serie-chercheurs-genevois/story/10365762
      #santé_mentale

      –-> vous allez voir mon nom apparaître dans cet article dans lequel j’ai témoigné...

    • Malaise dans la recherche

      En ce mois de janvier, les langues se délient sur les conditions des chercheur-e-s en Suisse. Le Temps publie le 23 janvier le constat d’une équipe de post-doctorant-e-s de l’Université de Neuchâtel qui enjoint les instances responsables de la recherche de revoir leur politique, ou du moins de prendre conscience des conséquences qu’elle provoque (“Une relève académique en souffrance“). Quelques jours avant (08.01.2020), La Tribune de Genève informait sur les burn-out qui touchent les chercheur-e-s genevois-e-s (“Burn-out en série chez les chercheurs genevois“).

      Oui, le #malaise est là et les causes sont connues de toutes et tous, surtout de celles et ceux qui les vivent ! Pourtant, il n’est pas si aisé de faire part de son malaise, de peur des conséquences, c’est-à-dire de péjorer encore plus sa propre situation !

      Pour l’étudiant-e qui souhaite entreprendre un doctorat, le système suisse est performant et encadrant : écoles doctorales, ateliers divers aidant à entrer dans les métiers de la recherche, soutien financier pour se rendre à des colloques internationaux, aller se former un semestre à l’étranger ou effectuer des recherches de terrain, aides à la publication, etc. Durant ces années de formation, on apprend à devenir chercheur-e dans toutes ses dimensions, y compris celle de l’enseignement. Le travail intense (qui comprend régulièrement vacances et week-ends) fait déjà partie du jeu…Mais il faut bien admettre qu’il est impossible d’achever une thèse si, à un moment donné, on ne vit pas uniquement pour son travail de recherche…

      Les vrais ennuis surviennent après l’obtention du doctorat. Votre contrat ou votre bourse sont terminés, vous n’êtes plus affilié-e à aucune institution, mais il vous faut redoubler d’effort, car la vraie #compétition commence ! Ou vous vous retirez du jeu et essayez d’intégrer le monde professionnel, ce qui, quoi qu’on en dise, est très compliqué si vous vous êtes construit un profil de chercheur-e durant la thèse et implique souvent une formation complémentaire (nombreux sont ceux et celles qui se tournent vers la Haute école pédagogique par exemple…ce qui est, à juste titre, très mal vécu après des années d’étude !). Soit vous restez dans le jeu. Et c’est à ce moment-là qu’il faut devenir une bête de concours et être en mesure de cocher le plus de cases possible : prix, mobilité, publication de la thèse, articles dans des revues prestigieuses, réseau international, participation à des congrès internationaux, organisation de colloques, etc., etc., la liste est longue et augmente à chaque nouvelle demande et au fur et à mesure des années. Puisqu’il est un élément important à prendre en considération, la date de soutien de la thèse qui devient votre an zéro. A partir de là, votre cv doit obligatoirement s’allonger, c’est indispensable pour rester dans la course. Actuellement, il doit même comporter une dimension “utile à la société”, c’est-à-dire que vous devez être à même de justifier d’activités mettant en lien votre recherche et la société dans son ensemble : activités de vulgarisation, organisation d’expositions ou d’événements culturels, participation à des concours, etc. (voir un précédent article sur ce blog : https://blogs.letemps.ch/nadia-cattoni/2019/06/05/le-metier-de-chercheuse-en-etudes-indiennes).

      Toutes ces activités post-doctorat peuvent être menées soit par le biais de bourses du FNS (Fonds national suisse pour la recherche scientifique), soit en étant engagé-e par une université pour un poste appartenant au corps intermédiaire, souvent à temps partiel et généralement pour une durée déterminée. Et c’est bien là que le bas blesse, dans le cumul de contrats précaires sur une longue durée et parfois pour toute la carrière, lorsque l’accès au statut de professeur-e n’a pu être possible (pour des raisons qu’il serait trop long d’expliciter ici).

      A l’entrée dans le monde de la recherche académique, le-la chercheur-e est tout à fait conscient-e que ce qui est recherché est l’#excellence. Il faut travailler dur, il faut être passionné-e, il faut donner de son temps et dans certaines périodes, tout son temps, il faut répondre à un certain nombre de critères, qui ne sont pas inutiles, mais qui permettent de faire avancer la recherche. En prenant cette voie, tout-e chercheur-e est d’accord avec cela, pour une simple raison qui est la #passion. La passion pour ce que l’on fait. On est aussi le plus souvent d’accord de passer par la case mobilité, car on sait pertinemment combien notre recherche est susceptible de profiter de cette mobilité. A noter cependant que dans cette mobilité, aucun soutien logistique n’est fourni par les institutions suisses.

      Mais ce qui mène au burn-out, à la dépression ou à un profond #mal-être, ce n’est pas tant la #surcharge_de_travail, mais c’est surtout le statut précaire de chercheur-e et le fait de pouvoir à tout moment se voir complètement exclu du champ pour lequel on a tant travaillé. Dans quel autre domaine reste-t-on sur le carreau après tant de compétences accumulées et reconnues (puisque financées et récompensées) ?

      Le problème relève bien du politique. Veut-on vraiment financer des chercheur-e-s pour qu’ils-elles fassent des doctorats, des post-doctorats à l’étranger, des publications en open-access, puis leur dire au bout de dix ans, alors qu’ils-elles sont ultra-spécialisé-e-s et ultra-formé-e-s, que la recherche scientifique suisse n’a pas besoin d’eux ? Où doivent-ils-elles aller ? A l’étranger ? Au chômage ? Doivent-ils-elles se contenter d’un emploi à temps partiel sous-évalué, lorsqu’ils-elles en ont un ?

      Les chercheur-e-s de l’Université de Neuchâtel pointent du doigt la mise en concurrence : “Un premier pas vers des mesures concrètes pouvant éviter que le travail académique ne porte atteinte à la santé et à la vie familiale consisterait à réduire les mécanismes de mise en concurrence des chercheurs-euses. Le développement d’un statut intermédiaire stable et la limitation des financements par projet doivent être sérieusement envisagés.”

      La #mise_en_concurrence en vue de l’excellence est un mécanisme largement utilisé, dans d’autres domaines également : musique, danse, sport. Je pense qu’elle est bénéfique en début de carrière car elle permet une implication totale et fait ressortir le meilleur des potentialités. Mais elle est destructrice sur le long terme et comporte de nombreux effets pervers (voir l’article pré-cité) ! Un-e danseur-se qui gagne des concours se voit offrir une place dans une compagnie de ballet. Il-elle ne sera peut-être jamais danseur-se étoile, mais il-elle pourra travailler et si ses performances seront toujours évaluées, il lui faudra une grande baisse de performance pour être rejeté-e. Le chercheur-e quant à lui-elle, passe des concours à intervalles réguliers, parfois sur une carrière entière et avec des périodes sans financement aucun. Comment travailler avec cette #pression et cette #instabilité dans un domaine où le temps long nourrit la réflexion et est indispensable à une recherche de qualité ? Veut-on réellement faire de la précarité le lot des chercheur-e-s suisses ?

      https://blogs.letemps.ch/nadia-cattoni/2020/02/02/malaise-dans-la-recherche

    • J’ai demandé à des chercheurs étrangers pourquoi ils étaient venus en France. Ils viennent chercher la stabilité de l’emploi et la liberté académique. Ils veulent un cadre stable pour pouvoir prendre des risques. C’est quelque chose que le système anglo-saxon ne permet pas car tout est remis en cause tous les cinq ans pour chercher de nouveaux financements. Ce qui rend la France attractive, ce n’est pas le salaire, c’est le cadre.

      https://www.liberation.fr/france/2020/01/31/on-ne-peut-pas-reformer-la-recherche-sans-les-chercheurs_1776027

    • #Actionuni der Schweizer Mittelbau. Representing scientific staff in Switzerland

      actionuni der Schweizer Mittelbau / actionuni le corps intermédiaire académique suisse / actionuni il collegio intermediario academico svizzero represents young researchers as well as the associations of non-professorial academic staff of the Swiss cantonal universities, the Federal Institutes of Technology, the Swiss Universities of Applied Sciences, and the Swiss Universities of Teacher Education on the Swiss national as well as the international level. actionuni’s objectives are to improve the academic career tracks and to coordinate the activities of the Swiss associations of non-professorial academic staff.

      http://www.actionuni.ch
      #jeunes_chercheurs #jeune_recherche

    • Des doctorants suisses réclament de meilleures conditions de travail

      En publiant dimanche dernier, “Prise de Positions concernant L’Encouragement de la Relève Académique dans les Hautes Écoles Suisses“ (http://www.actionuni.ch/wp-content/uploads/2019/02/PP_FRE_V1.pdf), Actionuni, organisation représentante de jeunes chercheurs en Suisse, appelle à de meilleures conditions de travail pour les doctorants.

      Leur position paper liste 8 revendications :

      Diversification des Parcours Professionnels au sein des Hautes Écoles et Carrières Alternatives, avec des profils alternatifs, à durée indéterminée, et ne dépendant pas d’une chaire.
      Gestion Professionnelle du Personnel.
      Profil double „Recherche/Pratique“, pour dépasser le dogme du « up or out ».
      Transparence des Parcours Professionnel.
      Renforcement des hiérarchies horizontales et des modèles de travail inclusif.
      Temps Minimal de Recherche : la recherche doit être considérée comme une activité professionnelle donnant droit à une rémunération au même titre que n’importe quelle autre prestation. La recherche devrait représenter au moins 60% de temps absolu des doctorants, qui devraient également se voir accorder des semestres de recherche rémunérés.
      Des carrières Compatibles avec la Vie de Famille et autres Obligations.
      Droits de Participation aux choix des établissements en matière de stratégie et de règlements.

      Ce qui ressort principalement de cet appel, c’est une critique de la précarité des doctorants et la centralité de la recherche dans leur pratique. Pour la rectrice de l’Université de Lausanne, l’université n’a pas vocation à faire de la recherche, ni les moyens de contenter en postes stables tous les appétits de recherche, et doit se concentrer sur la formation (https://www.rts.ch/info/suisse/10244473-les-doctorants-de-suisse-reclament-de-meilleures-conditions-de-travail. ).


      https://academia.hypotheses.org/5087

    • Les doctorants de Suisse réclament de meilleures conditions de travail

      Les doctorants de Suisse se plaignent de leurs conditions de travail, qu’ils estiment néfastes pour la recherche et l’innovation. Dans un papier de position publié dimanche, ils demandent davantage de contrats à durée indéterminée.

      Dans son article, Actionuni, la faîtière des associations de chercheurs des hautes écoles suisses, revendique également une organisation compatible avec la vie de famille.

      « C’est difficile de se lancer dans un boulot si vous savez que, potentiellement, dans un an, ou même dans trois ans, il sera terminé. Ce sont des postes instables et souvent mouvants. Il faut tout le temps déménager, on vous pousse à le faire pour des critères d’excellence. C’est compliqué à gérer », explique Maximilien Stauber, secrétaire général de l’association ACIDUL à l’Université de Lausanne.

      Pour lui, un réel problème de précarité financière et de l’emploi subsiste : « Nous voulons que davantage de postes avec des durées indéterminées soient ouverts et qu’un temps minimal soit réservé pour la recherche. Dans ces emplois, il y a aussi souvent des tâches administratives et d’enseignement. A Lausanne, le temps minimal pour la recherche est de 50%, la faîtière propose maintenant 60%. »
      Mission de formation

      « Je comprends ces revendications. Le métier de la recherche est extrêmement dur, mais il me semble que la mission de l’université est avant tout de former les gens et pas de les employer pour faire de la recherche », estime la rectrice de l’Université de Lausanne Nouria Hernandez.

      « Il faut se rendre compte qu’il y a beaucoup plus de chercheurs et d’étudiants qui veulent faire de la recherche que de postes stables. Même si nous doublons ou triplons ce type de postes, cela va toujours être le cas », assure la biologiste.

      https://www.rts.ch/info/suisse/10244473-les-doctorants-de-suisse-reclament-de-meilleures-conditions-de-travail.

    • Dans les universités suisses, huit chercheurs sur dix n’ont pas de contrat fixe

      Dans le système académique suisse, seuls les professeurs bénéficient de postes fixes, à quelques exceptions près. Après l’obtention d’un doctorat, ceux qui veulent poursuivre une carrière dans la recherche et gravir les échelons vers ce statut tant convoité cumulent souvent pendant de longues années des contrats à durée déterminée. Ils forment une armée de chercheurs qui enseignent et publient, sans qui la « machine universitaire » ne tournerait pas, mais qui se battent avec des conditions de travail difficiles et des perspectives incertaines

      Pourquoi on en parle. Les incertitudes liées aux carrières dans la recherche universitaire ne sont pas nouvelles, ni propres à la Suisse. Mais le nombre de doctorants en Suisse augmente, ce qui accroît la pression sur le système et accentue la précarité. En 2018, les universités suisses ont décerné 4164 doctorats, contre 3100 en 2005. Les Académies suisses des sciences ont consacré l’an dernier un important rapport à ce sujet sensible. Et la pression est montée d’un cran ce printemps, avec la publication d’une série de revendications de la faîtière des associations de chercheurs, Actionuni.

      https://www.heidi.news/articles/dans-les-universites-suisses-huit-chercheurs-sur-dix-n-ont-pas-de-contrat-fi

    • Ein Königreich für einen Lehrstuhl

      Sie sind die neunzig Prozent, die den akademischen Betrieb aufrechterhalten: Berichte aus dem Inneren eines Systems, das aus der Perspektive des wissenschaftlichen Nachwuchses so nicht länger funktionieren darf.

      «Das hätte auch bei uns passieren können» – ein Satz, der immer wieder fällt. Gemeint sind die eskalierenden Konflikte an der ETH Zürich, die mit Mobbingvorwürfen von Doktorierenden am Astronomielehrstuhl begannen.

      Geäussert haben den Satz Mittelbauangehörige verschiedener Deutschschweizer Universitäten. Denn dieselben Probleme wie an der ETH dräuen auch an den Unis in Basel, Bern, Zürich, Luzern und St. Gallen. Das geht aus internen Dokumenten und zahlreichen Gesprächen mit Doktorierenden, Postdocs und wissenschaftlichen MitarbeiterInnen dieser Universitäten hervor. Sie waren nur unter Zusicherung absoluter Anonymität überhaupt bereit zu reden (Mittelbauangehörige werden hier als MBAs zitiert), weil ihre akademische Karriere andernfalls ein abruptes Ende nehmen könnte.

      Dabei stellt niemand von ihnen eine Einzelperson an den Pranger – die Probleme, unter denen primär der akademische Nachwuchs leidet, haben strukturelle Wurzeln. Und auch für die ProfessorInnen, das betonen viele aus dem Mittelbau, funktioniere dieses System immer weniger. Gemeint ist das Deutschschweizer Universitätsmodell mit seinen «Grossordinariaten», das im internationalen Vergleich anachronistisch, ja feudalistisch anmutet: Wenige, üppig ausgestattete Lehrstühle vereinen sämtliche Macht auf sich; die ProfessorInnen, die sie besetzen, sind auf Lebenszeit gewählt und gebieten über ein Heer von Nachwuchsforschenden – sie stellen neunzig Prozent des wissenschaftlichen Personals –, das unter höchst prekären Arbeitsbedingungen den universitären Betrieb aufrechterhält. Prekär bedeutet erst einmal: befristet angestellt, meist zu fünfzig Prozent bezahlt, aber hundert Prozent arbeitend, oft auch abends und am Wochenende.
      Das akademische Prekariat

      «Wer ein akademisches Karriereziel vor Augen hat, der kommt mit einer 42-Stunden-Woche nicht weit», so Thomas Grob, Vizerektor der Uni Basel, im hausinternen Magazin vom April 2019. Er reagierte auf eine breit angelegte Umfrage unter Doktorierenden und Postdocs, in der vierzig Prozent angeben, während ihres bezahlten Arbeitspensums keine Zeit für die eigene Forschung zu haben, mit der sie sich für die nächste Karrierestufe qualifizieren müssen. Im Schnitt wenden die Befragten über das bezahlte Pensum hinaus sogar noch einen Arbeitstag zusätzlich pro Woche zur Bewältigung von Arbeiten für den Lehrstuhl auf: Sie erledigen administrative Aufgaben, betreuen Studierende, unterrichten, korrigieren Prüfungen und helfen in anderen Projekten mit.

      Ähnliche Umfragen zur Arbeitssituation von Doktorierenden und Postdocs organisierte der Mittelbau in den letzten Monaten und Jahren auch an den anderen Deutschschweizer Unis. Mit praktisch deckungsgleichen Resultaten – obwohl sich die Rahmenbedingungen zwischen den Fakultäten, Instituten und einzelnen Lehrstühlen zum Teil stark unterscheiden. Sie zeigen: Prekär bedeutet auch, dass die befristete Anstellungsdauer oft zu kurz ist, um erfolgreich zu doktorieren oder sich zu habilitieren. Meist ist man auf drei Jahre hinaus angestellt, mit der Option auf Verlängerung um maximal drei weitere Jahre. In Basel erhalten Doktorierende sogar bloss einen einjährigen, Postdocs einen zweijährigen Vertrag, den sie um drei respektive vier Jahre verlängern können. Vier von fünf bekommen allerdings, wenn überhaupt, eine Verlängerung von einem Jahr oder weniger.

      Prekär bedeutet darüber hinaus: Der Lohn reicht kaum zum Leben – zumal, wenn man in der Stadt wohnt oder bereits eine Familie gegründet hat. In Luzern etwa hatte zum Zeitpunkt der Umfrage jedeR zweite Oberassistierende Kinder, der Bruttojahreslohn von 50 000 Franken genügte indes niemandem, um die Familie zu ernähren. Und familiäre Betreuungspflichten lassen sich, das betonte über die Hälfte aller Befragten mit Kindern, kaum mit einer wissenschaftlichen Qualifikation vereinbaren.

      Zunehmend prekär – namentlich mit Blick auf eine alternative Berufskarriere – wirkt sich auch die biografisch späte Selektion aus. «Über viele Jahre wissen bestens qualifizierte Akademikerinnen und Akademiker im Alter von 35–45 Jahren nicht, ob sie eine gesicherte Existenz an einer Hochschule oder im Wissenschaftssystem im Allgemeinen erreichen werden», hält der Report «Next Generation: Für eine wirksame Nachwuchsförderung» (2018) der Akademien der Wissenschaften Schweiz fest. Denn an Deutschschweizer Universitäten gibt es nur einen einzigen Karriereweg: «up or out» – rauf oder raus. Drei von vier Postdocs streben eine Professur an, aber nur jedeR zehnte unter ihnen schafft es tatsächlich, einen Lehrstuhl zu ergattern.

      Vor diesem Hintergrund bezeichnen MBAs den Rekrutierungspool, in dem sie selber schwimmen, als «Haifischbecken». In der Selektion sei die viel beschworene wissenschaftliche «Exzellenz» kein entscheidendes Kriterium – andere Kompetenzen seien gefragt: die Bereitschaft, sich auf prekäre Arbeitsbedingungen einzulassen, sich finanziell einzuschränken, sich selbst auszubeuten und unsichere Zukunftsperspektiven auszuhalten. «Wer im System überlebt, entspricht einem gewissen Typus Mensch: Haie, die ellbögeln, sich nur um sich selbst kümmern und gleichzeitig kuschen und das System nicht hinterfragen», bilanziert eine MBA.
      Alles QuerulantInnen

      Wer sich wehrt, auch darin sind sich MBAs verschiedener Unis einig, gilt rasch als QuerulantIn. Mitunter genüge bereits ein «kritisches Nachfragen», um dieses Label zu erhalten, sagt einer. Und seit an einem Kollegen «ein Exempel statuiert» worden sei, herrsche im Mittelbau seiner Uni ein «Klima der Angst». «Dieses System bietet viel Platz für Willkür. Und dieser Willkür werden keine Grenzen gesetzt von denjenigen, die es könnten: den Professoren. Sie haben alle Macht, aber eine verschwindend geringe Zivilcourage.» Auch an anderen Unis lautet die Diagnose ähnlich: Die ProfessorInnen getrauten sich nicht, einander auf die Finger zu klopfen – sei es «aus Angst, als Nestbeschmutzer zu gelten», sei es im Wissen darum, sich so selbst zur Zielscheibe zu machen.

      Im universitären Feudalsystem ist die Macht der ProfessorInnen quasi absolut. Jeder Lehrstuhl, jedes Institut, jede Fakultät ist ein kleines Königreich für sich, über das die ProfessorInnen im Rahmen der universitären Selbstverwaltung uneingeschränkt herrschen. Sie verfügen nicht nur über die Mittel, aus denen sie das wissenschaftliche Personal finanzieren, sondern bestimmen auch über die Pflichten und Rechte der damit Angestellten. Der Institutsleiter, die Fakultätsdekanin sowie der Unirektor sind bloss auf Zeit gewählt und werden aus den eigenen Reihen rekrutiert.

      Ähnlich absolut ist umgekehrt die Machtlosigkeit der Assistenten, Oberassistentinnen und wissenschaftlichen MitarbeiterInnen respektive ihre Abhängigkeit von einzelnen ProfessorInnen – eine Art Leibeigenschaft, um im Bild des Feudalsystems zu bleiben. Dieser Professor – in weit selteneren Fällen ist es eine Professorin – ist nämlich zugleich Arbeitgeber, Betreuer und Beurteiler der wissenschaftlichen Qualifikation. Konkret bedeutet das: Er bestimmt nicht nur über Dauer, Umfang, Lohn und Inhalt der Arbeit, er hält auch alle Fäden in der Hand, wenn es um die Chancen auf eine akademische Karriere geht, waltet er doch nicht nur als Förderer und Mentor, sondern beurteilt auch die wissenschaftliche Leistung.
      Macht und Missbrauch

      Der Förderung von «Exzellenz» ist diese Machtkonzentration in keiner Weise zuträglich, wie sämtliche Mittelbauumfragen zeigen. Im Gegenteil: Die Missstände sind deutlich und so weitverbreitet, dass von einem systembedingten Machtmissbrauch gesprochen werden kann. Eine Ausdrucksform davon ist Vernachlässigung. In den Umfragen beklagen sich je nach Uni 25, 35 oder gar über 40 Prozent aller Befragten über eine mangelnde oder völlig fehlende Betreuung und Unterstützung in Bezug auf ihre wissenschaftliche Qualifizierung. An der ETH hatten 60 Prozent der Doktorierenden nie ein Feedback- und Laufbahngespräch mit dem Professor. An der Universität Zürich schreiben viele von «Desinteresse vonseiten des Profs»: Er habe «keine Zeit, antwortet auf keine Mails», «nimmt sich keine Zeit, meine Beiträge / Kapitel der Diss zu lesen, und kommt unvorbereitet in eine Besprechung. Jedes Mal anderes Feedback.»

      Vielen ist bewusst, dass die ProfessorInnen selbst völlig überlastet sind: Die Zahl der Studierenden und Doktorierenden wächst ebenso wie der Aufwand, Drittmittel einzuwerben, und sie werden im Rahmen der universitären Selbstverwaltung mit immer mehr Administrationsaufgaben betreut. Vernachlässigen sie darob ihre Betreuungsfunktion zu stark, kann das für den Nachwuchs akademisch fatale Folgen haben. Eine MBA erzählt im Gespräch von mehreren ihr bekannten Fällen, in denen der Professor respektive die Professorin nach drei Jahren eine Dissertation oder sogar Habilitation abgelehnt habe – etwa mit der Begründung, es sei halt das «falsche Thema».

      Sowohl an der ETH wie an der Uni Zürich wird der Vorwurf des Machtmissbrauchs von jeder vierten Person in den Umfragen explizit erhoben – die persönlichen Erfahrungen sind die immer gleichen: Man wird gezwungen, auch am Wochenende zu arbeiten, stets erreichbar zu sein, selbst in den Ferien, die mitunter sogar verweigert werden. Vertragsverlängerungen werden an Bedingungen geknüpft. «Die Leute werden auf drei bis sechs Monate hinaus angestellt, Verträge als Druckmittel eingesetzt», sagt auch ein MBA einer anderen Uni.

      Zu den häufig und überall genannten Fällen von Machtmissbrauch gehört wissenschaftliches Fehlverhalten aufseiten von ProfessorInnen. So kommt es an einzelnen Unis offenbar immer wieder vor, dass sie Doktorierende Publikationen für Fachzeitschriften schreiben lassen, ohne sie auch nur als MitautorInnen zu nennen. Oder der Professor setze einfach seinen Namen drauf, obwohl er gar nichts zur eigentlichen Forschung beigetragen habe. Ein MBA berichtet, die Professorin habe ihn vor die Wahl gestellt, das zu akzeptieren oder sich einen neuen Job zu suchen.

      «Moralisch verwerfliches Verhalten im Umgang mit Angestellten ist häufig legal», sagt ein anderer MBA. Auch wenn an den einzelnen Unis unterschiedlichste Reglemente den Anstellungsrahmen definieren – das Reglement zu den Rechten und Pflichten von Assistierenden und Oberassistierenden der Uni Luzern gibt ihm recht: «Die Autorschaft und die Koautorschaft werden von der vorgesetzten Person (…) ermöglicht.» Oder, so der Tenor aus dem Mittelbau aller Unis: «Man ist dem Goodwill des Profs komplett ausgeliefert.»
      Bitte recht unverbindlich

      Wissenschaftliche Publikationen wie auch ausgewiesene Lehrerfahrung sind zentrale Meilensteine auf dem akademischen Karriereweg. Doch obwohl besonders in den philosophisch-historischen Fakultäten Assistierende und Oberassistierende extrem stark in die Lehre involviert sind, können sie das kaum je als eigene wissenschaftliche Leistung ausweisen. Zwar gibt es an den meisten Universitäten mittlerweile Reglemente, die den maximalen Umfang der Lehrverpflichtung festlegen – sie reichen von 20 Prozent der bezahlten Anstellung in Basel bis zu 66 Prozent in Luzern –, «das reicht aber nirgends hin», so eine MBA. «Einfordern kann die Beschränkung sowieso niemand», sagt eine andere: «Aufgrund der Machtverhältnisse getraut sich das keiner.»

      Das extreme und einseitige Abhängigkeitsverhältnis von Doktorierenden und Postdocs haben die Universitätsleitungen mittlerweile als Problem anerkannt. Man ist bemüht, die Abhängigkeit von einer einzigen Betreuungsperson zu reduzieren. Reglemente und Doktoratsvereinbarungen halten fest, dass eine zweite Betreuungsperson entweder als fachliche Zweitgutachterin oder besser noch als Förderin und Mentorin eingesetzt werden soll. An der Uni Zürich versucht man es seit 2010 mit Doktoratskomitees und seit Anfang des Jahres mit einer Graduiertenschule in der Philosophischen Fakultät, in der die Betreuung und Förderung aller Doktorierenden auf eine Leitungskommission, verschiedene KoordinatorInnen sowie Fachausschüsse verteilt ist. Auch gestehen die Reglemente dem wissenschaftlichen Nachwuchs ein Mindestmass an Zeit für die eigene Forschung sowie das Recht auf Unterstützungs- und Fördermassnahmen und regelmässige Laufbahngespräche zu.

      Bloss: Die Umsetzung all dieser Massnahmen ist freiwillig und bleibt den Fakultäten, Instituten und damit letztlich den einzelnen ProfessorInnen überlassen. Es gibt keine Zahlen darüber, ob und wie es tatsächlich geschieht. Oft wissen Doktorierende und Postdocs nicht einmal um ihre Rechte. «Wenn ich eine einjährige Assistenzstelle antreten will, muss ich mich selber um die Reglemente kümmern», sagt ein MBA. In den meisten Fakultäten kommt eine Mehrheit aller Doktorierenden und Postdocs aus dem Ausland und ist weder mit den hiesigen Gepflogenheiten noch mit der Sprache vertraut, in der Reglemente fast immer verfasst sind. Das verschärfe die Machtlosigkeit noch, empört sich eine andere MBA: «Es kann doch nicht sein, dass Doktorierende ihnen zustehende Rechte selber einfordern müssen!» Tatsache sei, so eine MBA einer dritten Uni, dass gerade Doktoratsvereinbarungen von den ProfessorInnen häufig ignoriert würden. Und die Umfrage an der Uni Zürich zeigt: Vier von fünf Befragten, die eine Doktoratsvereinbarung unterzeichnet haben, halten diese für «nicht hilfreich». Kein Wunder, fordern mehr als die Hälfte, es müssten Massnahmen zur Einhaltung der Reglemente und Vereinbarungen ergriffen werden.

      Als Reaktion hat die Uni Zürich einen «Best-Practice-Leitfaden» für die Doktoratsstufe erstellt, der genau darauf pocht. Allein, verbindlich ist auch dieser nicht. «Wir legen viel Wert auf akademische Selbstverwaltung», lautet die Begründung von Michael Schaepman, Prorektor Forschung, im «UZH Journal». «Es besteht immer ein Abhängigkeitsverhältnis zwischen Doktorierenden und ihren Professorinnen und Professoren und damit ein Potenzial für Konflikte», hält er fest. «Aber angesichts der speziellen Situation von Doktorierenden, die sich von den meisten anderen Arbeitsverhältnissen unterscheidet, ist die Zahl der Konflikte klein.»
      Deckel drauf

      Wohin sollten sie sich auch wenden? Aus der Perspektive des Mittelbaus bedeutet «akademische Selbstverwaltung» nichts anderes als innerbetriebliche Kontrolle und Unterdrückung. Zwar gibt es an allen Unis eine wachsende Zahl interner Beratungs- und Anlaufstellen personalrechtlicher, psychologischer und konfessioneller Natur sowie Ombudspersonen. In Basel und Zürich dürfen sich Doktorierende und Postdocs seit kurzem in jeder Fakultät an eine designierte «Vertrauensperson» wenden. Bloss handelt es sich bei ihnen um ProfessorInnen aus derselben Fakultät. Schlimmstenfalls landet also, wer Knatsch mit seiner Betreuungsperson hat, bei ebendieser.

      Die Rolle sämtlicher Stellen beschränkt sich darauf, zu beraten, zu vermitteln oder allenfalls zu schlichten. Im Zentrum stehen «Deeskalation, Krisenbewältigung, Kooperation und das Erreichen von Win-win-Situationen», wie es bei der neu eingerichteten Beratungs- und Schlichtungsstelle der Uni Zürich heisst. Auch die Ombudsperson kann nur Empfehlungen aussprechen, die «niemanden zu etwas verpflichten» (Bern), sie ist «kein Richter und trifft keine Entscheide» (Basel). Letztinstanzlich entscheidet immer das Rektorat.

      «Grundsätzlich will die Uni alle Konflikte intern regeln», sagt ein MBA, der selber erfahren hat, wie aussichtslos es ist, sich zu wehren. Sämtliche Stellen hätten sich im Verlauf der Schlichtungsgepräche auf die Seite der Uni geschlagen. «Mir sind keine Verfahren bekannt, die weitergegangen wären oder in Disziplinarverfahren gemündet hätten.» Und wer sich zu stark wehrt, dem bleibt im System des «up or out» nur die eine Option: out.

      Jüngst hat Actionuni, der Dachverband der Mittelbauorganisationen, ein Positionspapier zur Nachwuchsförderung veröffentlicht, das mit dem Dogma des «up or out» brechen will und einen radikalen Strukturwandel fordert. Im Zentrum steht eine Diversifizierung der Karrierewege ab Doktoratsstufe. Die Hälfte der Anstellungen soll unbefristet sein und alternative Karriereprofile in Forschungsmanagement, Lehre oder wissenschaftlicher Verwaltung eröffnen. Der Report «Next Generation» stärkt dieser Forderung den Rücken und zeigt sogar im Detail auf, wie sie sich praktisch umsetzen liesse – unter anderem mit einer Verlagerung der finanziellen Mittel weg von den «Grossordinariaten» hin zu unbefristeten Mittelbaustellen. «Da steckt viel Utopie drin», meint ein MBA, «so beharrlich, wie die Machtverhältnisse an den Universitäten sind.»

      https://www.woz.ch/-9ce8

    • Forschende der Universität Zürich fühlen sich ausgebeutet

      Eine Umfrage zeigt: An einem Zürcher Institut ist Gratisarbeit normal. Es ist kein Einzelfall.

      Am Historischen Institut der Universität Zürich müssten wissenschaftliche Angestellte weit mehr arbeiten, als in ihrem Vertrag steht. Zu diesem Ergebnis kommt eine Umfrage des Studierendenmagazins «etü» (http://www.etue.ch/die-mittelbau-umfrage). Von den gut 90 Doktoranden, Postdocs und Assistenten hat die Hälfte geantwortet. Zwei Drittel geben an, dass sie mehr als das vereinbarte Pensum arbeiten würden. Die Hälfte kommt sich ausgebeutet vor, wie aus den Zahlen hervorgeht, die der «NZZ am Sonntag» vorliegen.

      «Tatsächlich sind die Anstellungsbedingungen des Mittelbaus teils problematisch, teils – um es nett zu sagen – kreativ», schreiben die Autoren im Magazin, das am 15. Februar online erschien und am Montag, 17. Februar, zum Semesterbeginn verteilt wird.

      Wie die Autoren schreiben, müssen die Befragten bei einem vertraglichen Arbeitspensum von meist 50 bis 60 Prozent im Durchschnitt knapp einen Tag pro Woche zusätzlich unentgeltlich für den Lehrstuhl arbeiten. Oft betreiben sie ihre Forschung in der Freizeit, obwohl ihnen dafür ein Teil der Arbeitszeit zur Verfügung stehen sollte.
      Gut für die Wissenschaft

      Das Historische Seminar steht diesbezüglich nicht allein da in der Schweiz. Das Missverhältnis zwischen vereinbartem Pensum und effektivem Aufwand ist im Mittelbau allgegenwärtig. Das bestätigen nicht nur Vertreter der Standesorganisationen: «Es ist ein gesamtschweizerisches Phänomen», sagt auch Antonio Loprieno, ein Kenner der akademischen Welt. Loprieno war Präsident der Akademien der Wissenschaften, sitzt im Zürcher Universitätsrat und präsidierte einst die Uni-Rektorenkonferenz.

      Dazu muss man wissen, dass ein grosser Teil der Forschung und Lehre an den Universitäten von ebendiesem Mittelbau geleistet wird. Schweizweit sind dies 32 000 Personen, davon allein an der Uni Zürich 5300. Es sind Doktorierende, Postdocs und Assistierende, die den Wissenschaftsbetrieb am Laufen halten.

      Gleichzeitig arbeiten sie an ihrer akademischen Karriere, indem sie ihre Forschungsprojekte vorantreiben – viele mit dem Ziel einer Professur. Diese Stellen seien rar, entsprechend gross sei die Konkurrenz, sagt Loprieno: «Für die Wissenschaft ist das gut, für die Wissenschafter ist es schlecht.» Vor diesem Hintergrund sind fast alle bereit, ein Teilpensum anzunehmen und mehr zu arbeiten.

      Wie eine Auswertung von Zahlen des Bundesamtes für Statistik zeigt, sind die Mittelbauangehörigen je nach Universität im Durchschnitt zwischen 45 und 93 Prozent angestellt. Hohe Werte weisen die ETH Zürich und Lausanne auf, tiefe die Unis St. Gallen und Luzern.

      In den Geisteswissenschaften sind kleine Pensen weiter verbreitet als in den Naturwissenschaften. An der Universität Zürich ist das Problem schon länger bekannt: Bereits 2013 ergab eine Umfrage der Vereinigung akademischer Mittelbau, dass 64 Prozent mehr arbeiten, als im Vertrag steht.

      Dass sich seither wenig geändert hat, zeigt nun die Umfrage am Historischen Institut. Konkret heisst das, dass ein Assistent auf einen Lohn von rund 3500 Franken kommt für ein 50-Prozent-Pensum. Gemäss Umfrage von «etü» liegt der Median der Löhne der Befragten bei 4200 Franken im Monat. Ein Zusatzverdienst ist für viele nicht möglich, da sie mehr als das Pensum arbeiten und forschen müssen. «Es braucht einen Kulturwechsel an den Universitäten», fordert darum eine Sprecherin von Actionuni, der Vereinigung des Schweizer Mittelbaus. «Es geht nicht an, dass wir unser Privatleben aufgeben müssen für unsere Arbeit.»
      Uni erwartet Engagement

      Erstaunt ob der Umfrageergebnisse am Historischen Institut ist Co-Seminarvorstand Simon Teuscher: «Wir werden diesen Zahlen nachgehen», sagt der Professor. Sollte sich die Umfrage bestätigen, wäre er dafür, die Pensen der Angestellten zu erhöhen. Das Budget müsste aber gleich bleiben, das heisst: «Weniger Angestellte mit höheren Pensen und dafür bessere Förderung.»

      Übers Knie brechen liessen sich solche Massnahmen nicht. Die Uni selber sieht kaum Handlungsbedarf: «Bei den Doktoratsanstellungen handelt es sich um ein langjährig bewährtes Modell», schreibt die Pressestelle. Sie verweist auf die Rahmenpflichtenhefte, die den Angestellten einen Anteil der Arbeitszeit für die eigene Forschungszeit zur Verfügung stellen. Zudem sei ein «hohes, auch privates Engagement selbstverständlich», heisst es. «Es handelt sich ja auch um eine persönliche Weiterqualifizierung.»

      Auch Antonio Loprieno sieht kaum einen Ausweg. «Das System ist zwar für den Einzelnen brutal, aber es lässt sich nicht leicht verbessern.» Die Budgets der Universitäten blieben beschränkt und der Druck auf den wissenschaftlichen Output gross.

      https://nzzas.nzz.ch/schweiz/problematische-arbeitsbedingungen-uni-forschende-fuehlen-sich-ausgebeutet-

      #Zurich #université_de_Zurich #travail_gratuit

    • Le débat - La Suisse forme-t-elle trop de chercheurs ?

      Débat entre Yves Flückiger, recteur de l’UNIGE, président de swissuniversities, Ola Söderström, président de la division Sciences humaines et sociales du FNS, Verity Elston, responsable conseil en carrières, doctorat et postdoctorat au Graduate Campus de l’UNIL, et Céline Guérin, docteur en neurosciences.


      https://www.rts.ch/play/radio/forum/audio/le-debat-la-suisse-forme-t-elle-trop-de-chercheurs?id=11080302

      –-> Le journaliste fait référence à l’article de la Tribune de Genève (https://www.tdg.ch/geneve/actu-genevoise/burnout-serie-chercheurs-genevois/story/10365762) et demande au recteur de l’Université de Genève invité sur le plateau de réagir...
      Et il ne répond pas du tout, mais alors pas du tout !!!!!!

      Ola Söderström, lui, parle en tant que représentant du Fonds national suisse de la recherche scientifique... et commence par « les situations sont singulières »... évidemment, rien de structurel, tout est « individuel et singulier »... Et puis, eh voilà... il défend bec et ongles le « propre » du FNS : compétition, faut que les meilleurs restent, sélection précoce... et il faut plus de #tenure_track et de profs assistants qui sont évalués de manière « fine » pour pouvoir obtenir un poste de prof ordinaire...

    • Un environnement de travail toxique ? Débat sur les conditions de travail du corps intermédiaire

      Quel est votre degré de satisfaction ? C’est ce que le magazine zurichois d’étudiant·e·s « etü » a voulu savoir auprès des quelque 90 membres du corps intermédiaire du département d’histoire. La moitié d’entre eux ont répondu à l’enquête en ligne. Le magazine a publié les résultats à la mi-février. Deux tiers des participant·e·s ont déclaré travailler plus que la charge de travail convenue, la moitié a même affirmé se sentir parfois exploité·e·s. Le comité du département a mis les résultats en perspective dans une prise de position. Le co-directeur du département, Simon Teuscher, s’est quant à lui exprimé dans une interview en faveur de salaires et, surtout, de taux d’occupation plus élevés dans le corps intermédiaire.

      Les conditions de travail du corps intermédiaire académique, que beaucoup de personnes concernées considèrent comme précaires, font depuis longtemps l’objet d’une attention particulière dans les médias : le monde universitaire serait devenu un « environnement de travail toxique », selon un article d’opinion rédigé par cinq post-doctorant·e·s en sociologie de l’Université de Neuchâtel dans le journal « Le Temps ».

      Le Conseil fédéral, le Fonds national et les hautes écoles devraient de toute urgence prendre au sérieux le malaise des doctorant·e·s, des post-doctorant·e·s ainsi que des chercheurs et chercheuses afin d’en tirer les conséquences pour leur politique de recherche. Cette contribution a été précédée par un article publié en janvier dans la « Tribune de Genève » sur les conditions de travail précaires à l’Université de Genève.
      La Suisse forme-t-elle trop de chercheurs ?

      En 2018, les universités suisses ont décerné un total de 4164 doctorats, contre 3100 en 2005. Un nouveau rapport de l’Association suisse de science politique a examiné la situation dans son domaine et a recommandé un débat plus ouvert sur le nombre et les possibilités de carrière des doctorant·e·s. Un débat radiophonique diffusé par la Radio Télévision Suisse réunissant des acteurs du paysage de la recherche en Suisse a posé la même question sur les structures de promotion de la relève dans le système universitaire, mais en la formulant de manière plus provocante : « La Suisse forme-t-elle trop de chercheurs ? » En 2018, l’ASSH avait déjà esquissé une vision structurelle pour le nombre croissant de chercheurs et chercheuses de la relève en Suisse dans son rapport « Next Generation », qui envisageait des parcours de carrière diversifiés et davantage de postes bénéficiant d’un contrat de durée indéterminée.

      https://sagw.ch/fr/assh/offre/publications/newsletter/details-newsletter/news/ein-toxisches-arbeitsumfeld-debatte-zu-den-arbeitsbedingungen-des-mittelbaus

    • Parliamentary resolutions

      Thanks to the outreach of the petition, the Petition Committee and mid-level staff associations have been in touch with local and national politicians. This led to several parliamentary resolutions that support better working conditions and open-ended contracts for PhD Students and Post-docs in Swiss universities. All resolutions and responses can be downloaded in the links below.

      Federal Council

      - Interpellation 20.4622 de Christian Dandrès : "Lorsque la faim est à la porte, les chercheurs et chercheuses s’en vont par la fenêtre"
      https://www.parlament.ch/fr/ratsbetrieb/suche-curia-vista/geschaeft?AffairId=20204622

      - Question 20.5974 de Christian Dandrès : "Conditions de travail du “corps intermédiaire” dans les universités et les hautes écoles"
      https://www.parlament.ch/fr/ratsbetrieb/suche-curia-vista/geschaeft?AffairId=20205974

      – Interpellation 20.3121 de Fabien Fivaz : "Statut précaire du corps intermédiaire dans les hautes écoles"
      https://www.parlament.ch/fr/ratsbetrieb/suche-curia-vista/geschaeft?AffairId=20203121

      Canton of Neuchâtel

      - Interpellation Sera Pantillon 21.140 : "Quelle est la précarité du corps intermédiaire à l’UniNE ?"
      https://www.ne.ch/autorites/GC/objets/Documents/Interpellations/2021/21140_RepEcr.pdf

      Canton of Geneva

      - Question écrite urgente de Mme Amanda Gavilanes QUE 1429-A : "Fonctions et rémunérations à l’Université de Genève"
      https://ge.ch/grandconseil/data/texte/QUE01429A.pdf

      - Question écrite urgente de Mme Amanda Gavilanes QUE 1430-A : "Typologie des contrats et taux d’activité des membres du corps intermédiaire à l’Université de Genève"
      https://www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&ved=2ahUKEwjBo_nS2_rvAhXN4KQKHRxoBcw

      - Question écrite urgente de Mme Amanda Gavilanes QUE 1431-A : "Origine des financements des postes à l’Université de Genève"
      https://ge.ch/grandconseil/data/texte/QUE01431A.pdf

      https://info.petition-academia.ch/parlamentary-resolutions

    • Les hautes écoles universitaires s’emploient à promouvoir des conditions de travail, d’enseignement et de recherche optimales en faveur de la relève scientifique

      La pétition nationale pour mettre fin à la précarité dans les hautes écoles suisses exige de meilleures conditions de travail pour le personnel scientifique, notamment la création d’emplois permanents dans le monde académique après l’obtention du doctorat. Les hautes écoles universitaires sont sensibles aux demandes formulées dans la pétition. Elles offrent aux jeunes chercheur·se·s un encadrement et un environnement aussi favorables que possible, tout en mettant l’accent sur les plus hautes exigences de qualité selon les standards internationaux.

      Les associations du corps intermédiaire de différentes hautes écoles suisses ont lancé en octobre 2020, en concertation avec des syndicats, une pétition adressée à l’Assemblée fédérale. Cette pétition exige des mesures concrètes visant à améliorer les conditions de travail du personnel scientifique. Conscientes des préoccupations des pétitionnaires, les hautes écoles universitaires poursuivent leurs efforts visant à renforcer la promotion de la relève au cours de ces prochaines années.

      Les profils et les carrières académiques sont différents suivant les domaines d’études et le cadre institutionnel. Aussi les hautes écoles universitaires plaident-elles en faveur d’une compréhension globale des carrières académiques présentant des options au sein et en dehors des hautes écoles. Pour que les carrières puissent être planifiées, il faut que les procédures de sélection soient claires et transparentes et que les personnes concernées sachent à quel moment les décisions importantes sont prises. Il s’agit là d’une condition sine qua non pour que les membres du corps intermédiaire puissent participer activement à la gestion de leur carrière.

      Les hautes écoles universitaires ont pour mission de mener des recherches de haute qualité et d’offrir un enseignement exigeant. La meilleure promotion de la relève consiste à former de jeunes chercheur·se·s à même de réussir une carrière scientifique internationale. Par conséquent, les hautes écoles universitaires souhaitent leur offrir un environnement propice au plein développement de leur potentiel.

      Différents instruments déjà existants permettent de répondre aux objectifs visés par la pétition. En effet, les hautes écoles universitaires ont pris de nombreuses mesures au cours de ces dernières années en vue d’améliorer la situation du personnel scientifique et poursuivront leurs efforts dans ce sens. Elles ont notamment augmenté le nombre de postes de professeur·e·s assistant·e·s en tenure track et créé de nouvelles positions et de nouveaux emplois permanents au-dessous des postes de professeur·e·s. Grâce à ces mesures, elles seront à même d’offrir à la relève différentes options de carrière aux objectifs et aux possibilités de développement clairement définis. Outre les carrières académiques classiques, les profils du troisième espace (« third space ») peuvent également offrir de nouveaux débouchés au sein de la haute école. Par ailleurs, elles entendent structurer davantage la phase post-doctorale. Cette mesure va de pair avec une sélection précoce, des objectifs précis et une orientation de carrière personnelle. Enfin, les doctorant·e·s et les post-doctorant·e·s disposent d’instruments efficaces qui les soutiennent dans leur carrière académique ou en vue d’une activité hors de la haute école : attribution de temps protégé (« protected time »), possibilités d’allègement, mesures et offres permettant de renforcer l’égalité des chances, mentorats, consultations et cours pratiques.

      Les hautes écoles universitaires sont sensibles à l’argumentation des pétitionnaires selon lesquels les conditions de travail et d’emploi des chercheur·se·s et des enseignant·e·s devraient être améliorées afin qu’il·elle·s disposent d’un cadre optimal pour compléter leur formation et planifier leurs prochaines étapes de carrière. A cet égard, il faut tenir compte du fait que les postes de qualification après l’obtention du doctorat revêtent aussi un caractère formatif. Par ailleurs, il ne faudrait pas que la mise en place d’emplois fixes entrave la mobilité des jeunes chercheur·e·s censé·e·s se perfectionner et se qualifier dans d’autres universités. Enfin, la flexibilité du système ne devrait pas subir de restriction au détriment des futur·e·s chercheur·se·s.

      Du point de vue des hautes écoles universitaires, la création de postes stables constitue une mesure parmi d’autres. Pour que leur mise en œuvre soit efficace et garantie durablement, ces mesures doivent être réalisées par chaque haute école en fonction de son cadre institutionnel respectif. La création de postes stables pour les chercheur·se·s et les enseignant·e·s ayant obtenu un doctorat requiert des moyens financiers correspondants. Le financement de base des hautes écoles doit pouvoir suivre le rythme de croissance de l’encouragement à la recherche. En l’occurrence, swissuniversities a demandé une augmentation des contributions de base dans sa planification stratégique 2021-2024 afin de pouvoir poursuivre la concrétisation ciblée de mesures visant à améliorer la situation de la relève scientifique.

      https://www.swissuniversities.ch/fr/actualite/les-hautes-ecoles-universitaires-semploient-a-promouvoir-des-condi

    • Das Bild der Exzellenz hängt schief in der Akademie

      Über die Arbeitsbedingungen im akademischen Mittelbau wird lebhaft diskutiert. Ein neuer Bericht des Wissenschaftsrats analysiert die Situation der Postdocs.

      Diskussionen über akademische Karrierewege und den sogenannten «Mittelbau» im Hochschulsystem sind ein wissenschaftspolitischer Dauerbrenner. Schon 1962 forderte der damals 35-jährige Astronom Uli Steinlin in seiner Streitschrift «Hochschule wohin?» in Anlehnung an das amerikanische Modell eine flachere Hierarchie an den Universitäten, einen Abbau von Lehrstühlen und dafür mehr Assistenzprofessuren. 60 Jahre später sind die Universitäten zwar nicht mehr dieselben (die Zahl der Studierendaen hat sich seither fast verzehnfacht), das Grundproblem einer steilen Pyramide mit höchst unsicheren Karriereperspektiven ist aber noch immer da.
      Wird die Postdoc-Blase überschätzt?

      In den letzten zwei Jahren hat die Mittelbau-Debatte wieder Fahrt aufgenommen. Nun legt auch der Schweizerische Wissenschaftsrat, ein Beratungsorgan des Bundes, einen Bericht dazu vor. Anhand quantitativer und qualitativer Daten untersucht er darin die Situation der Postdocs an den Schweizer Hochschulen und formuliert Empfehlungen.

      Erfreulich ist: Der quantitative Teil des Berichts, der zusammen mit dem Bundesamt für Statistik (BfS) erarbeitet wurde, legt erstmals belastbare Zahlen über Zahl und Karriereverläufe der Postdocs vor. Das BfS schätzt, dass gegenwärtig rund 7000 Postdoktorierende an einer Schweizer Hochschule angestellt sind, 62 Prozent davon in den Mint-Disziplinen, 18 Prozent in den Bereichen Medizin und Pharmazie und ebenfalls 18 Prozent in den Geistes- und Sozialwissenschaften. Seit 2014 ist die Zahl der Postdocs nur leicht angestiegen. Daraus könnte man ableiten, dass das Bild einer «Postdoc-Blase», wie es unter anderem der SAGW-Bericht «Next Generation» von 2018 zeichnete, hinterfragt werden muss. Allerdings muss die Aussagekraft des kurzen Untersuchungszeitraums 2014–2020 ebenfalls hinterfragt werden. Wenn man zum Beispiel den Zeitraum seit der Jahrtausendwende in den Blick nimmt, zeigt sich ein ganz anderes Bild der Mengenausweitung punkto Zahl der Studierenden, der Doktoranden, der Postdocs, der Projekte, der Publikationen.

      „Heute sind schätzungsweise rund 7000 Postdoktorierende an einer Schweizer Hochschule angestellt“

      Aufhorchen lässt aber vor allem eine andere Zahl: Von den Forscherinnen und Forschern, die 2015 ihr erstes Postdoktorat antraten, haben nach vier Jahren lediglich rund 16 Prozent eine feste Anstellung in der Schweiz gefunden, die ihren Qualifikationen entspricht und mit Wissenschaft und Forschung zu tun hat. Gerade einmal ein Prozent der Kohorte erreichte in diesem Zeitraum eine Professur.
      Zurück auf Feld eins der Mittelbau-Debatte

      Die SAGW, die Mittelbauvereinigung Actionuni oder die Petition Academia haben in den letzten Jahren eine ganze Reihe von Berichten, Studien und Empfehlungen publiziert. Im Grundsatz sind sie sich einig: Das derzeitige Postdoc-System ist dysfunktional und muss grundlegend restrukturiert werden. Eine der wichtigsten Änderungen, die sie vorschlagen, ist die Einführung von mehr unbefristeten Stellen, im Mittelbau oder im sogenannten Third Space, beispielsweise als Lecturer, Data Stewards oder Forschungsmanager. Sie stehen damit weitgehend in Einklang mit den Schlussfolgerungen des 2021 veröffentlichten OECD-Berichts «Reducing the precarity of academic research careers».

      Die Empfehlungen des Wissenschaftsrats gehen in die entgegengesetzte Richtung. Sie stehen in einem losen Verhältnis zu den empirisch-analytischen Teilen des Berichts und beruhen teilweise auf «den kollektiven Erfahrungen» der Ratsmitglieder, wie SWR-Präsidentin Sabine Süsstrunk auf einem zur Publikation organisierten Podium sagte.

      Für ein auf Exzellenz ausgerichtetes System sei eine grosse «Postdoc-Population» eine flexible, kostengünstige und letztlich «unverzichtbare Ressource». Dass nur eine kleine Minderheit davon langfristig Chancen auf eine akademische Karriere hat, sei «an sich nicht problematisch, da ein Postdoc als die letzte Phase der wissenschaftlichen (und nicht nur akademischen) Ausbildung betrachtet werden sollte.» Der Wissenschaftsrat empfiehlt den universitären Hochschulen zwar, mehr Tenure-Track-Positionen zu schaffen, von unbefristeten Stellen unterhalb der Professur hingegen rät er aus ökonomischen Überlegungen ab.

      Postdocs, so ein Lösungsansatz des Berichts, sollten nach ihren Lehr- und Wanderjahren vielmehr dazu ermutigt werden, sich nach Stellen ausserhalb der akademischen Wissenschaft umzusehen oder unternehmerisch tätig werden und Start-ups gründen.

      Wer die Mittelbau-Debatte in den letzten Jahren verfolgt hat, reibt sich verwundert die Augen über dieses, nun ja, traditionelle Verständnis der Rahmenbedingungen für akademische Selektion, Kompetivität und Exzellenz, bei der jede unbefristete Stelle unterhalb der Professur die Universität in einen mediokren Ponyhof zu verwandeln droht.
      Dann heisst es «Pech gehabt» – für Forschende, Unis und Steuerzahler

      Weshalb sollten die besten Köpfe überhaupt mitmachen in einem System, das theoretisch für Exzellenz sorgt, in der Praxis aber erwiesenermassen anfällig für Fehler und Missbrauch ist? Ein aus dem Leben gegriffenes Beispiel für einen Karriereweg im heutigen System: Eine frisch habilitierte Politologin, Schweizerin, Promotion in England mit Auszeichnung, Forschungsaufenthalte in den USA und anderswo auf dem Erdball, wirbt mit 36 Jahren einen der angesehenen und in einem höchst kompetitiven Verfahren vergebenen Eccellenza-Fellowships des Nationalfonds ein. Sie wird schulterbeklopft und darf nun als Assistenzprofessorin an einer Schweizer Uni selbstständig forschen und lehren. Aber nur fünf Jahre lang, dann ist Schluss. Zu einer Tenure-Track-Position mit Entfristung bei guter Leistung kann oder will sich ihre Uni nicht entscheiden. Und die unbefristeten Professuren in ganz Europa in ihrem Spezialgebiet kann die Assistenzprofessorin an einer Hand abzählen. Wenn in dieser Zeit zufällig keine frei wird, gilt: Pech gehabt.

      „Man kann es drehen, wie man will, dieses traditionelle Verständnis von Exzellenz hängt schief und nur noch an einem Nagel in der Akademie“

      Aber wer hat hier eigentlich Pech? Die gut vernetzte Politologin, die sich nebenbei vielleicht längst ein zweites Standbein ausserhalb der Akademie als Beraterin aufgebaut hat? Oder die auf Exzellenz ausgerichtete Uni, die nun eine vom SNF als – eben – exzellent ausgewiesene Forscherin und Hochschullehrerin verliert? Oder die Steuerzahler, die jahrelang eine Karriere mitfinanzierten, die systembedingt in die Sackgasse führte?
      Hinkende Vergleiche mit dem Spitzensport

      Man kann es drehen, wie man will, dieses traditionelle Verständnis von Exzellenz hängt schief und nur noch an einem Nagel in der Akademie. Ins Bild passen die hinkenden Vergleiche mit dem Spitzensport, wie sie neulich auch am Podium des Wissenschaftsrats zu hören waren. Klar: Nur die wenigsten, die gerne und gut Fussball spielen, schaffen es auch in den Profi-Fussball oder gar in die Nationalmannschaft. Und wer zu wenig Leistung bringt, der fliegt aus dem Kader. Aber: Im Fussball gilt die laufende Evaluation nicht nur für die Spieler, sondern auch für die Trainer und die Sportdirektoren. Genauso klar: Nur wer herausragende Leistungen bringt, schafft es in die Top 10 der Tennisweltrangliste. Aber: Roger Federer ist mit 41 Jahren nach einer «Geschichte anhaltender Exzellenz», wie eine Sponsorin seine Karriere in einem Werbespot bezeichnete, als Tennis-Methusalem in einem Alter zurückgetreten, mit dem man im Wissenschaftsbetrieb gut und gerne noch als Nachwuchs durchgeht.
      Auf die Disziplin kommt es an

      Der Bericht des Wissenschaftsrats ist bewusst aus einer Makroperspektive verfasst. Das ist nachvollziehbar. Gleichzeitig scheint es sinnvoll, die Spezifika der einzelnen Fachbereiche stärker in den Vordergrund zu rücken. In den Geistes- und Sozialwissenschaften beispielsweise zeigen sich einige Probleme ausgeprägter als in den Natur- oder Technikwissenschaften: Geistes- und Sozialwissenschaftler sind im Durchschnitt etwas älter, wenn sie ihre erste Postdoc-Stelle antreten als Personen aus anderen Fächern (34 Jahre, Durchschnitt 32 Jahre) und sie sind früher wissenschaftlich unabhängig, weil Gruppen- und Laborarbeit weniger verbreitet sind als in den Mint-Disziplinen. Gleichzeitig sind sie viel häufiger in Teilzeitpensen angestellt.1 Zudem scheint in den Geistes- und Sozialwissenschaften ein Postdoc für den ausserakademischen Arbeitsmarkt tendenziell keinen Vorteil zu bringen, was für eine frühere Selektion und eine berufliche Weichenstellung nicht erst auf Postdoc-Stufe spricht. Eine Analyse der BfS-Daten spezifisch für die Geistes- und Sozialwissenschaften wäre aufschlussreich.

      «Die akademische Welt muss sich an die Anforderungen des heutigen Arbeitsmarktes anpassen, insbesondere an die Erwartungen der neuen Generationen, was ihre Unabhängigkeit und ihre Perspektiven betrifft», liess sich SNF-Direktorin Angelika Kalt kürzlich zitieren. Der Bericht des Wissenschaftsrats hat in seinen empirisch-analytischen Teilen die Grundlagen, auf denen diese Anpassungen gemacht werden müssen, erweitert. Die Schlüsse, die er daraus zieht – und an denen die SWR-Präsidentin in der Podiumsdiskussion eisern-orthodox festhielt – stimmen aber wenig zuversichtlich, dass sich in absehbarer Zeit ein produktives Gleichgewicht einstellen könnte. Die Mittelbau-Debatte bleibt so vorerst ein Dauerbrenner – zuungunsten vieler junger Forscherinnen und Forschern und zum Nachteil der Attraktivität der Universitäten und letztlich der Gesellschaft.
      Fussnoten

      1 2020 waren ein Viertel der Postdocs in den Geistes- und Sozialwissenschaften in einem Pensum von weniger als 60 Prozent angestellt. Gleichzeitig ist die Zahl der Studierenden in den Geistes- und Sozialwissenschaften deutlich höher als in anderen Fachbereichen und das Betreuungsverhältnis entsprechend schlechter. Im Jahr 2021/22 gab es rund 48 000 Studierende in den Geistes- und Sozialwissenschaften, rund 33 000 in den Naturwissenschaften, und je 21 000 in der Medizin und den technischen Wissenschaften.
      Referenzen

      Actionuni (2017): Positionspapier zur Nachwuchsförderung an Schweizer Hochschulen.

      Hildbrand, Thomas (2018): Next Generation: Für eine wirksame Nachwuchsförderung (Swiss Academies Reports 13,1). https://doi.org/10.5281/zenodo.1216424

      OECD (2021). Reducing the precarity of academic research careers (OECD Science, Technology and Industry Policy Papers 113).

      Pétition Academia (2021) : Pétition adressée à l’Assemblée Fédérale: Pour la création d’emplois permanents dans le monde académique: de meilleures conditions de recherche, d’enseignement et de travail.

      Schmidlin, Sabina, Eva Bühlmann und Fitore Muharremi (2020): Next Generation und Third Space: neue Karriereprofile im Wissenschaftssystem. Studie im Auftrag der Schweizerischen Akademie der Geistes- und Sozialwissenschaften (Swiss Academies Reports 15,3). https://doi.org/10.5281/zenodo.3923494

      Schweizerischer Wissenschaftsrat (2022): Postdoktorierende an Schweizer Hochschulen.
      Erkenntnisse und Empfehlungen des Schweizerischen Wissenschaftsrates SWR.

      Zürcher, Markus und Marlene Iseli (2018): Zur Diskussion: Qualität vor Quantität (Swiss Academies Communications 13,5). https://doi.org/10.5281/zenodo.1409674

      Zürcher, Markus: Vier Handlungsoptionen zur Stärkung des akademischen Mittelbaus (SAGW-Blog décodage), 14. Oktober 2021. https://www.sagw.ch/sagw/aktuell/blog/details/news/vier-handlungsoptionen-zur-staerkung-des-akademischen-mittelbaus

      https://www.sagw.ch/sagw/aktuell/blog/details/news/das-bild-der-exzellenz-haengt-schief-in-der-akademie

  • Le Monde parfait

    Le centre commercial moderne se veut un monde parfait. Esthétique, aseptisé, tempéré, baigné d’une musique douce et d’une lumière tamisée, sécurisé, accueillant, pratique avec son parking souterrain, animé pour les enfants, décoré pour les adultes, il offre un confort
    idéal pour amener les passants vers ses boutiques, restaurants et commerces de loisirs afin qu’ils y passent le plus de temps possible dédié à un seul objectif : la #consommation.


    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/56989_1
    #film #documentaire #film_documentaire
    #centre_commercial #France #Polygone #urban_matter #surveillance #consumérisme #shopping #prêt-à-consommer #compteurs #agents_de_sécurité #enfants #centres_commerciaux #esthétique

    A voir sur Arte :

    Une année durant, #Patric_Jean a filmé la vie dans un grand centre commercial. Sans commentaire, une immersion captivante dans un lieu où tout est pensé pour nous faire consommer.

    Plutôt que de rester seul chez lui, Pierre passe ses journées au centre commercial, où tout le monde le connaît. En vieil habitué, l’homme se régale de pouvoir y faire la bise chaque matin aux jolies vendeuses. Courant des parkings aux allées où se pressent les badauds, le directeur de cette gigantesque machinerie veille au grain : « Notre rôle, explique-t-il, est de mettre le client en condition d’acheter. Il faut qu’il pose son cerveau, qu’il oublie toutes ses contraintes. » Pour parvenir à cet objectif, rien n’est laissé au hasard. Sous la surveillance des vigiles et des caméras, chacun peut passer sans risque d’une boutique à l’autre, boire un verre ou se restaurer, enchaîner avec ses amis une partie de bowling et un karaoké. L’œil rivé sur les clients autant que sur leurs chiffres de ventes, petits patrons et franchisés ne ménagent pas leur peine, accumulant les heures tels des forçats ravis de leur sort.

    #Solitude
    Pendant un an, le cinéaste Patric Jean ("La raison du plus fort", « La domination masculine ») a filmé des scènes du quotidien dans le labyrinthe d’un immense centre commercial. Avec ses allées végétalisées, ses boutiques de vêtements ou de gadgets, ses animations pour les petits et ses distractions pour les grands, c’est un microcosme où les générations se croisent, des jeunes qui fuient les rideaux baissés des petits commerces aux seniors trompant le désœuvrement. Dans ce lieu de vie où tout est en perpétuel mouvement, la caméra s’attarde sur des clients, des flâneurs, des employeurs et des employés. De cet espace clos, sécurisé et pensé comme une utopie réalisée, Patric Jean fait jaillir la peur commune du vide et l’#idéal_fantasmé d’une #solitude_partagée.

    https://www.arte.tv/fr/videos/080151-000-A/le-monde-parfait

    ping @etraces

  • On a découvert les mécanismes probables de l’addiction, et ce n’est pas ce que vous pensez, HuffPost, by Johann Hari
    https://www.huffingtonpost.fr/johann-hari/causes-addictions-drogues_b_6643266.html

    Par l’auteur de Chasing the Scream : The First And Last Days of the War on Drugs (2015)

    Dans leur grande majorité, les rats qui menaient la belle vie n’étaient pas attirés par l’eau additionnée d’héroïne. Ils buvaient en moyenne un quart de ce que les sujets isolés consommaient, et ne développaient pas de dépendance. Aucun n’y succombait. A l’inverse, les rats isolés ou malheureux devenaient rapidement accro.

  • Sounds From Dangerous Places, de Peter Cusack
    http://liminaire.fr/entre-les-lignes/article/sounds-from-dangerous-places-de-peter-cusack

    Peter Cusack est un artiste, musicien, compositeur et improvisateur anglais qui s’intéresse plus particulièrement aux #Sons dans l’environnement. Il conduit parallèlement à son activité de musicien, des travaux assidus sur notre relation au sonore, en réalisant par le biais de son travail d’enregistrement de terrain, l’empreinte acoustique de lieux, naturels ou industriels, frappés par des catastrophes. En 1998, Cusack a lancé le projet Your Favorite London Sound, dont l’objectif était de demander aux (...) #Entre_les_lignes / #Art, #Écriture, #Inventaire, #Récit, Sons, #Vidéo, #Voix, #Numérique, #Livre, #Lecture, #Information, #Absence, #Fantôme, #Silence, #Dérive, #Mémoire, #Solitude, Société, #Politique, #Nature, #Russie, #Londres, #Ville, (...)

    #Société #Paysage
    https://www.crisap.org/people/peter-cusack
    https://www.youtube.com/watch?v=uJVKaAS9lBA


    http://writing.upenn.edu/epc/authors/goldsmith
    https://favouritesounds.org
    https://sounds-from-dangerous-places.org
    https://liminaire.fr/mot/zoo-project

  • Are we happier when we spend more time with others? - Our World in Data
    https://ourworldindata.org/happiness-and-friends

    In 1938, a group of Harvard researchers decided to start a research program to track the lives of a group of young men, in what eventually became one of the longest and most famous longitudinal studies of its kind. The idea was to track the development of a group of teenage boys through periodic interviews and medical checkups, with the aim of understanding how their health and well-being evolved as they grew up.1

    Today, more than 80 years later, it is one of the longest running research programmes in social science. It is called the Harvard Study of Adult Development and it is still running. The program started with 724 boys, and researchers continue to monitor today the health and well-being of those initial participants who are still alive, most in their late 90s.2

    This is a unique scientific exercise – most longitudinal studies do not last this long because too many participants drop out, researchers move on to other projects (or even die), or the funding dries up.

    So what have we learned from this unique study?

    Robert Waldinger, the current director of the study, summarized – in what is now one of the most viewed TED Talks to date – the findings from decades of research. The main result, he concluded, is that social connections are one of the most important factors for people’s happiness and health. He said: “Those who kept warm relationships got to live longer and happier, and the loners often died earlier”.

    #solitude #lien_social #santé

  • Plainte pour fichage de 35000 patientes atteintes d’un cancer

    Une grande solitude, la CNIL met cinq mois à répondre !
    https://souriez.info/Plainte-pour-fichage-de-35000

    RGPD une illusion de protection ?

    L’association Souriez vous êtes filmé·es s’insurge de tout fichage qui stocke des éléments confidentiels de santé dans une base de données de surcroit non déclarée et accessible à n’importe qui ainsi que du traitement réservé à sa plainte par la CNIL.

    Suite à la découverte de la page internet* sur laquelle le professeur Aubard du CHU de Limoges se vante avec moults détails d’avoir fiché 35000 patientes atteintes d’un cancer l’association Souriez vous êtes filmés a porté plainte auprès de la CNIL en décembre dernier.

    Plainte déposée le 11 décembre 2018

     : L’Association « Souriez vous êtes filmé.es » dépose plainte auprès de la CNIL concernant le fichier constitué par le Pr Aubard, fichier non déclaré à vos services. Nous vous demandons de nous tenir au courant de l’avancée de cette plainte. En effet, le Pr Aubard déclare sur le site de FileMaker (qui en profite pour faire sa publicité) avoir créé le fichage de plus de 35000 patientes avec un accès à 372 utilisateurs et pour chaque patiente ses coordonnées, ses informations d’état civil et familiales, ainsi que ses antécédents médicaux et chirurgicaux https://www.filemaker.com/fr/soluti... voir PDF de la page en Pièce jointe Extrait « Chaque intervenant doit pouvoir entrer dans la base ce qu’il a fait. Ca commence par le médecin en passant par la secrétaire, la sage-femme, l’infirmière, l’aide soignante, bref tout le service. Pour vous donner une idée, j’ai à ce jour donné 372 codes d’accès, il y a donc 372 utilisateurs de ma base de données », explique le Pr Aubard. Il ajoute : « Au fil des années, j’ai tout développé, ce qui m’a pris beaucoup de temps. Actuellement, il n’y a pas d’équivalent ! Si une nouveauté apparaît dans la spécialité, je l’intègre immédiatement dans mon fichier. »
    Réponse de la CNIL

    La CNIL, après avoir été relancée pour instruire la plainte enregistrée, nous répond par courrier le 7 mai 2019, soit près de 5 mois plus tard :

    « Dans le cadre de l’instruction de votre plainte, nous vous informons que nous adressons ce jour un courrier aux services du CHU de Limoges pour les interroger sur les différents points soulevés par celle-ci au regard du réglement Général sur la protection des Données (RGPD) applicable depuis le 25 mai 2018 »
    Qui est le Pr Aubard

    Le Pr Aubard qui se vante dans l’entretien d’avoir constitué de son propre chef le fichier des 35000 patientes non pas grippée mais atteinte d’un cancer est chef du service gynécologie-obstétrique au sein de l’hôpital de la mère et de l’enfant - CHU de Limoges. Le professeur Aubard apparait également comme signataire du texte qui comparait les femmes à des juments lors du congrès national des gynécologues obstétriciens https://www.francetvinfo.fr/societe/droits-des-femmes/au-congres-des-gynecologues-une-diapositive-compare-les-femmes-a-des-ju

    La peur des informaticiens du CHU

    En toute ignorance du droit informatique des patientes, le Pr Aubard ajoute dans l’interview où il expose ses méthodes de fichage des données confidentielles de 35000 femmes « Cette flexibilité et cette réactivité font peur aux informaticiens du CHU, qui ont beaucoup de mal à admettre que les médecins aient besoin de cela pour utiliser à plein un dossier informatique médicale. »

    L’association Souriez vous êtes filmés considère tout commentaire comme superflu.

    *Entretien disponible à l’adresse suivante https://www.filemaker.com/fr/solutions/customers/stories/aubard.html

    #plainte_CNIL #RGPD #fichage #médecine #cancer #sexisme_medical #femmes #CNIL #delirium_informatique #épée_dans_l'eau #solitude_du_militant #lanceur_d'alerte

  • La Une de #Marianne...
    L’offensive des obsédés de la race, du sexe, du genre, de l’identité...

    Reçu par email d’une collègue avec ce commentaire :

    la semaine passée j’ai retrouvé placardé sur les murs de mon département la Une de Marianne que vous trouverez en pièce jointe.

    Je me suis sentie assez seule je dois dire.. Et inquiète de me faire
    bientôt traiter d’identitaire (c’est déjà arrivé dans mon syndicat, que
    j’ai quitté) ou de fémi-nazie comme nos collègues du Brésil.

    #solitude #résistance #féminisme

    ping @mad_meg @aude_v

  • Malaisie : une adolescente se suicide après un vote sur Instagram - Asie-Pacifique - RFI
    http://www.rfi.fr/asie-pacifique/20190515-suicide-instagram-adolescente-malaisie-sondage-vote

    En Malaisie, une adolescente de 16 ans s’est suicidée sur l’île de Bornéo, après avoir publié un sondage auprès de sa communauté Instagram. Sur son compte personnel, elle a demandé à ses abonnés de choisir pour elle entre la vie ou la mort et majoritairement, les personnes ont voté pour la mort.

    Les #réseaux_sociaux modèle de socialisation déréalisée où les plus fragiles se retrouvent face à leurs angoisses dans une #solitude démesurée.
    #adolescence #suicide

  • Les parents de Yann (@lazuly) ont retrouvé chez lui un dossier de textes. Certains sans doute inédits.

    Par exemple, celui-ci, sur la solitude. Apparemment sans titre et sans date.

    Jeudi soir, je suis allé au cinéma. Seul, comme à mon habitude. Les gens ne comprennent jamais que l’on aille au cinéma seul. Ils vous regardent d’un air compatissant et vous expliquent que c’est triste, de sortir seul. Je pense que si je leur racontais que j’étais resté tranquillement chez moi devant ma télé, ils trouveraient ça tout-à-fait normal. Au lieu de quoi, je persiste à prendre ma voiture trois soirs par semaine, à traîner dans le crachin sur des routes de campagne pour assister dans des salles quasi-désertes à des projections confidentielles. C’est vrai, je n’en ai pas pour autant plus de rapports sociaux, mais il reste cette illusion, ces visages entrevus qui ont manifestement quelques points communs avec moi. C’est déjà ça. Il m’arrive souvent de revoir plusieurs fois le même film. Ca non plus, les gens ne le comprennent pas. Eux qui tous les soirs de l’année regardent la même émission, ils ne comprennent pas.

    Je n’ai pas la télévision. Ca aide à se sentir seul. Je n’avais pas bien compris, au début, l’importance de ce choix. Il s’agissait d’un simple exercice de vie, l’obligation de répondre chaque jour à la lancinante question « Que faire ce soir ? » en ayant au préalable interdit les six réponses les plus simples. L’été, c’est amusant. L’hiver, un peu moins. Il est plus difficile de s’enfuir.

    Je vous conseille l’exercice du disjoncteur : essayez, ne serait-ce qu’une soirée, de vous priver d’électricité. Si vous craignez pour le contenu de votre congélateur, trichez et accordez-lui quelques ampères.

    Restez dans votre fauteuil, plongé dans le noir et abandonnez l’ambiance sonore à vos seuls voisins. Vous entendez un vague bruit de fond : c’est leur télévision. Autorisez-vous quelques bougies si vous souhaitez lire. Goûtez ce calme. Goûtez à présent l’angoisse qui vous étreint. Votre vie devient douloureusement tangible. Vous n’êtes plus relié au monde. Vous êtes libre et vous avez mal.

    D’habitude, le samedi soir, je reste seul. Je ne trouve plus le courage de me joindre aux bruyants troupeaux de jeunes gens satisfaits qui hantent les bars ce soir-là et font la fête, comme ils disent, pour oublier la vacuité de leur semaine. Ils ont de la chance. Je n’arrive plus à oublier la vacuité de mes semaines. J’en conclus, à l’aide d’un raisonnement assez simple et d’un principe de récurrence, à la vacuité de mon existence. C’est assez déprimant. Heureusement que peu de gens y pensent.

    Le week-end, mes amis n’échappent pas à la règle. Ils font la fête et je n’enfuis. C’est en quelque sorte mon leitmotiv : le week-end, je ne suis pas là.

    Samedi dernier, Christine m’a téléphoné. En quelque sorte, elle s’était enfuie, elle aussi. Nous convenons d’un rendez-vous devant une pizzéria qui, paraît-il, mérite le détour. J’aime assez nos tête- à-tête entre fuyards. J’attends le soir.

    Il doit être environ 20h30 et Christine, je m’en doute, sera en retard. Je déambule un peu sur la place Saint-Gervais et m’arrête devant la vitrine d’un magasin navrant. Je crois que l’on appelle ça un magasin de cadeaux, mais on y trouve aussi toute sorte de farces et attrapes. Généralement, les articles oscillent entre le romantisme niaiseux des tee-shirts « Sans toi, je suis tout seul » et le mauvais goût le plus sûr.

  • #artisanat-Rencontre
    http://www.radiopanik.org/emissions/l-heure-de-pointe/artisanat-rencontre

    « Artisanat rencontre » est un récit radiophonique qui parle d’un centre d’expression et de créativité, où une vingtaine de #femmes âgées se réunissent pour rompre leur #isolement, pour découvrir et développer leurs capacités créatives.

    L’asbl Artisanat rencontre a pour but de permettre à des femmes souffrant de #solitude de se rencontrer par le biais d’activités artistiques et artisanales, liées notamment au domaine de la couture. Cette association est devenue un lieu de rencontre au sein duquel, à travers différentes formes d’expression créative, des femmes âgées trouvent des ressources pour sortir de la solitude, en développant leur estime de soi et en redéfinissant leur place au sein de la société. La souffrance liée à la solitude est ainsi combattue à travers la créativité collective, de manière à retrouver la (...)

    #senior #arts #arc_asbl #femmes,senior,arts,artisanat,arc_asbl,solitude,isolement
    http://www.radiopanik.org/media/sounds/l-heure-de-pointe/artisanat-rencontre_06395__1.mp3

  • Abécédaire des prépositions : Abandon
    http://liminaire.fr/palimpseste/article/abecedaire-des-prepositions-abandon

    https://youtu.be/QLQKOoPwg8g

    La forme détournée de l’abécédaire est un genre voué à la célébration de l’acte créateur (le livre des livres). Cette année j’ai décidé d’aborder l’abécédaire par la #Vidéo. Deux fois par mois, je diffuserai sur mon site, un montage d’extraits de films (à partir d’une sélection d’une centaine de mes films préférés : fiction, documentaire, #Art vidéo) assemblés autour d’un thème. Ces films d’une quinzaine de minutes seront accompagnés sur le site par l’écriture d’un texte de fiction. Ce projet est un dispositif à double (...)

    #Palimpseste / #Cinéma, Art, #Architecture, #Lecture, #Récit, Vidéo, #Sons, #Inventaire, #Histoire, #Écriture, #Absence, #Mort, #Solitude, #Silence, (...)

    #Temps
    « http://bit.ly/filmdesfilms »

    • @liminaire Extraordinaire, vraiment. Le plaisir que l’on tire de ce premier chapitre (et je présume des suivants) est presque décuplé par rapport à celui de tes textes parce qu’il y a ce plaisir de retrouver mentalement tous les originaux (je suis à presque 8/10 sur cette édition), certains qu’on a sur le bout de la langue ( Le Mépris ) et d’autres dont on se surprend de les reconnaître immédiatement alors que cela fait des années qu’on n’a plus pensé à ce film (The State Of Things). Quant aux prolongements sonores d’une scène à l’autre (le klaxon du dernier homme sur terre qui réveille Marcello dans la Dolce Vita ), alors là je suis admiratif.

      Et quel invraisemblable bonheur de se dire que tu nous réserves encore 25 autres épisodes !

    • @philippe_de_jonckheere merci beaucoup pour cette réaction qui me conforte dans mon parti pris et m’incite à continuer le travail sur ces vidéos et les récits qu’elles permettent de faire advenir. J’en profite pour te signaler que je diffuse ces vidéos dans le désordre, la première vidéo avait pour thème les reflets https://youtu.be/v5nLm3m_feg

      et celle que tu viens de voir est en fait la deuxième de la série. Rendez-vous pour le prochain épisode, le dimanche 10 février. Amicalement.

  • Mère célibataire, héroïne (éphémère) des ronds-points | Slate.fr
    http://www.slate.fr/story/172545/gilets-jaunes-meres-celibataires-conditions-vie-isolement

    Fin novembre, sur les ronds-points investis par les « gilets jaunes », figuraient beaucoup de femmes élevant seules des enfants, un phénomène très contemporain et en expansion. La France compte aujourd’hui deux millions de familles monoparentales (dans quatre cas sur cinq, c’est une femme qui est chef de famille) et celles-ci représentent 23% des familles contre 9% en 1975.

    Indirectement, donc, cette mobilisation a fourni un visage à ces profils bien cernés par les statistiques, mais mal connus. Le sujet des mères célibataires est monté en épingle dans les médias depuis une vingtaine d’années, notamment dans les fictions télévisées, sous la bannière de l’émancipation féminine, avec l’image flatteuse de la femme cadre qui se bat et qui gagne sur tous les fronts.

    Or, dans la « vraie » réalité, c’est plutôt une femme isolée subissant de difficiles conditions de vie, autant matérielles que psychologiques. De ce point de vue, elle incarne bien les catégories modestes se démenant dans le quotidien pour tenir la tête hors de l’eau, qui ont, dans un premier temps, posé les pierres de la protestation –par la suite le mouvement s’est masculinisé au fil de sa radicalisation.

    Dans un roman rédigé au scalpel sociologique, Tenir jusqu’à l’aube, Carole Fives décrit cette situation avec pour trame dramatique le vol de liberté culpabilisé que son héroïne opère la nuit en déambulant dans Lyon, après avoir endormi son fils de deux ans –après avoir lu une histoire, tenu la main, câliné, installé le stroboscope de la veilleuse lapin, un patient rituel qui, théoriquement, garantit un premier sommeil profond. « La porte d’entrée qu’elle referme derrière elle. Dans le hall, l’éclairage automatique se déclenche. Il y a encore tant de monde dehors. Un grand vent frais. Marcher, juste, marcher. À peine le tour du pâté de maison. »

    Cette mère célibataire est étranglée par les problèmes économiques. Le loyer du petit appartement est devenu trop cher pour elle depuis que le père de l’enfant est parti sans laisser d’adresse, et toute possibilité de déménagement tiendrait du miracle, car elle-même n’offre pas de garanties financières suffisantes.

    Graphiste en statut d’autoentrepreneur, elle travaille chez elle alors qu’elle s’occupe intégralement de l’enfant, n’ayant pas obtenu de place en crèche ; « d’autres femmes, bien plus prévoyantes, s’y étaient prises des mois avant l’arrivée de l’enfant, dès sa conception ! Elle, elle débarquait d’on ne sait où, et surtout : elle n’était pas salariée ».

    Ce roman témoigne de la quadrature du cercle à laquelle est confronté le parent isolé : difficulté de logement dû à un rétrécissement des revenus quand prend fin ce que l’Insee nomme sans sentimentalité la redistribution privée –la mise en commun des ressources au sein d’un couple– ; difficulté de l’emploi, quand disparaît la flexibilité d’organisation pour assurer la parentalité que permet (théoriquement) le couple moderne ; tracas administratifs –même si le système socio-fiscal français essaie de compenser la perte de revenus par diverses allocations.

    En 2017, les femmes seules avec une ou plusieurs personnes à charge représentent 35% des bénéficiaires du RSA.

    L’Observatoire des inégalités dépeint la condition sociale la plus courante de ces mères isolées : « Le niveau de vie médian mensuel des familles monoparentales (1.184 euros en 2014 pour un équivalent adulte) est inférieur de 30% à celui des couples avec enfants (1.712 euros, toujours pour un équivalent adulte). Ces familles représentent près d’un quart de la population pauvre. »

    Précarité de l’emploi, temps partiel subi, appartenance aux catégories socioprofessionnelles les moins favorisées, les femmes seules avec enfants cumulent les handicaps. Près du tiers d’entre elles occupent des emplois qualifiés mais aux revenus modestes, avec une surreprésentation du personnel hospitalier (aides-soignantes, infirmières, agentes hospitalières) et des soins à la personne à domicile. Elles sont en général moins diplômées que la moyenne : 26% d’entre elles ont un niveau d’étude supérieur au bac, contre 40% pour les mères en couple, 30% d’entre elles n’ont au mieux que le niveau du brevet, contre 20% pour les mères en couple. Autre donnée : en 2017, les femmes seules avec une ou plusieurs personnes à charge (pour la plupart un ou plusieurs enfants) représentent 35% des bénéficiaires du RSA.

    À LIRE AUSSI « Tenir jusqu’à l’aube », l’enfer domestique d’une mère célibataire
    Désert social

    « Vous ne pouvez pas savoir ce que l’on vit », ont répété sur des chaînes d’information plusieurs mères en solo. La solitude, c’est l’aspect le plus indicible du quotidien du parent célibataire, ce qu’aucun chiffre n’arrive à capter et dont seul un écrivain peut rendre compte. La charge mentale qu’implique le soin d’un enfant, sans relais d’une autre personne ou d’une institution, est finement dépeinte dans le roman de Carole Fives : l’héroïne s’est installée dans une ville qu’elle ne connaît pas pour suivre le père de l’enfant et son propre père, sa seule parenté au demeurant, habite loin et ne l’aide qu’à l’occasion.

    L’inclination commune vis-à-vis de ces mères isolées n’est pas la mansuétude ou la solidarité, mais plutôt l’idée que ce « c’est la faute à pas de chance », ou « qu’elle l’a bien cherché » et que sa progéniture va subir un déficit d’éducation. Une famille de son immeuble, ainsi, espace ses invitations, pour éviter que ses enfants ne fréquentent son petit garçon.

    Dans ce désert social, internet devient alors son meilleur ami pour conseiller et aider à régler les innombrables interrogations qui surviennent : suivre et accompagner le développement de l’enfant, maladies infantiles, astuces pour acheter moins cher ou accéder gratuitement à certains services, ou renégocier les contrats d’eau et électricité, etc.

    Apporter à l’enfant les éléments du bien-être selon les préceptes de la pédiatrie moderne (outre la protection affective et la complicité, les activités d’éveil, une nourriture saine, de l’exercice, des promenades et la fréquentation des jardins publics qui permet les contacts avec d’autres bambins) absorbe toutes ses journées et elle ne connaît de répit que quand il dort. Siestes et nuits sont mises alors à profit pour satisfaire les quelques contrats de graphiste qu’elle arrive à décrocher.

    Le budget est calculé à l’euro près, elle doit à de nombreuses reprises discuter de ses découverts avec sa conseillère bancaire (celle-ci, elle-même divorcée, entend surtout lui donner des conseils pour « faire payer » son ex-compagnon et lui indique comment monter un dossier avec un avocat), inutile de songer un seul instant à prendre une heure de baby-sitter pour s’accorder un loisir. Elle imagine alors ce que serait une vie dite « normale » : « Travailler, se préparer une retraite à peu près digne, dormir sept heures d’affilée, retrouver une vie sociale, faire du sport, aller au cinéma, lire et bien sûr, rêver… » Un modèle conforme à celui étalé dans tous les magazines.

    À LIRE AUSSI Il est absurde d’opposer « gilets jaunes » et #NousToutes
    Statut temporaire

    Dans ce contexte monacal, mère et fils sont accrochés l’un à l’autre par un lien fusionnel et par touches, on les voit progresser ensemble vers un mieux-être et une certaine maîtrise de la situation, le récit se déroulant sans misérabilisme, ponctué de touches d’ironie.

    Elle finit par décrocher une place en crèche, mais très loin de chez elle, ce qui engendre près d’une heure de trajet, elle peaufine son site internet, rappelle d’anciens clients, obtient un contrat d’une ancienne collègue « qui vient de lancer sa boîte », récupère sa vie et, cahin-caha, « redevient quelqu’un ». L’enfant grandit, « de plus en plus beau, de plus en plus rayonnant. C’est un mystère, cette beauté au milieu de tant de dureté… »

    En moyenne, 10% des enfants de moins de 18 ans de parents séparés ne revoient jamais leur père.

    Le point aveugle du récit, et finalement le plus poignant, c’est la recherche du père. L’enfant le réclame, la mère entame des démarches après d’un avocat pour le retrouver : « Elle, ce qu’elle voulait, plutôt que de l’argent, c’était que le père voie son fils. Comment amener un père à reprendre contact avec son fils ? »

    En moyenne, 10% des enfants de moins de 18 ans de parents séparés ne revoient jamais leur père : la proportions de pères « désengagés » est la plus forte chez les hommes de faible niveau de diplôme ou de revenus. La plupart du temps, cette relation se maintient avec plus ou moins de fréquence : en cas de séparation, 17% des pères ont la charge de l’enfant, 25% le voient une fois par semaine, 18% une fois par mois, d’après une statistique Insee datant de 2005.

    La situation de mère célibataire n’est pas un statut à vie, contrairement à ce que laisserait croire le discours larmoyant qui l’entoure. Ce statut est plutôt provisoire, l’ancienneté moyenne des familles monoparentales est d’un peu plus de cinq ans et le plus souvent, le parent isolé cherche et trouve un nouveau compagnon ou une nouvelle compagne. Dans ce nomadisme amoureux, une fois encore, internet s’impose comme « l’ami qui vous veut du bien ».

    Plus largement, cette solitude faussement colmatée par les artifices électroniques, c’est aussi ce qu’ont tenté d’enrayer des mères célibataires venues participer aux mobilisations des ronds-points.

    • L’article ne parle pas des brimades sociales continuelles et des injonctions morales à rentrer dans le rang faites aux femmes cheffes de famille monoparentale qui doivent encaisser les coups sans broncher.
      La société française s’organise très bien pour les humilier car de fait, elles se présentent seules donc sans personne pour être témoin des coups portés. Je ne compte plus le nombre de fois où on m’a dit de prendre un mec, un peu comme on m’aurait dit de prendre un chien de garde.
      Au village, les femmes se méfiaient que je leur pique leur mari et les hommes avaient des remarques déplacées parce que j’étais « libre ». Quand tu rentres seule ton bois pour l’hiver, les hommes passent mais ne vont pas t’aider, ils rigolent que tu en chies et te disent que ça réchauffe. A force, tu ne comptes plus sur personne, tu comprends rapidement le regard de la directrice du collège, au mieux plein de commisération poisseuse qui ne te propose aucune aide mais te demande si la petite voit toujours son père.

      #solitude #famille_monoparentale

    • J’ai pas lu le texte je l’avais copié pour le lire plus tard. Je suis désolé de voire comme on te fait payé ta liberté et ton indépendance aussi chèrement. C’est une chance de pas avoir de père, une chance d’avoir une mère libre et de pas subir l’oppression masculine à domicile. Pour ton histoire de bois, ca va pas te consolé, mais je me dit que vu le niveau des gars du coin, va savoir ce qu’ils exigeraient comme leur due si ils avaient levé le petit doigt pour toi.