• Gli utili record dei padroni del cibo a scapito della sicurezza alimentare

    I cinque principali #trader di prodotti agricoli a livello mondiale hanno fatto registrare utili e profitti record tra il 2021 e il 2023. Mentre il numero di persone che soffrono la fame ha toccato i 783 milioni. Il report “Hungry for profits” della Ong SOMO individua le cause principali di questa situazione. E propone una tassa sui loro extra-profitti

    Tra il 2021 e il 2022 -anni in cui il numero di persone che soffrono la fame nel mondo è tornato ad aumentare, così come i prezzi dei beni agricoli spinti verso l’alto da inflazione e speculazione finanziaria- i profitti dei primi cinque trader di materie prime agricole a livello globale sono schizzati verso l’alto.

    Nel 2022 le multinazionali riunite sotto l’acronimo Abccd (Archer-Daniels-Midland company, Cargill, Cofco e Louis Dreyfus Company) hanno comunicato ai propri stakeholder un aumento degli utili per il 2021 compreso tra il 75% e il 260% rispetto al 2016-2020. “Mentre nel 2022 i profitti netti sono raddoppiati o addirittura triplicati rispetto allo stesso periodo. In base ai rapporti finanziari trimestrali disponibili al pubblico, i profitti netti dei commercianti di materie prime agricole sono rimasti eccessivamente alti nei primi nove mesi del 2023”, si legge nel rapporto “Hungry for profits” curato dalla Ong olandese Somo. Dati che fanno comprendere meglio quali sono i fattori che influenzano l’andamento del costo dei prodotti agricoli e -soprattutto- chi sono i reali vincitori dell’attuale sistema agroindustriale.

    La statunitense Cargill è la prima tra i Big five in termini di ricavi (165 miliardi di dollari nel 2022) e utili (6,6 miliardi), seguita dalla cinese Cofco (che nello stesso anno ha superato i 108 miliardi di dollari e i 3,3 miliardi di utili) e da Archer-Daniels-Midland company (Adm, con 101 miliardi di ricavi e 4,3 miliardi di utili). Nello stesso anno il numero di persone che soffrono la fame ha raggiunto i 783 milioni (122 milioni in più rispetto al 2019) e i prezzi dei prodotti alimentari hanno continuato a crescere, spinti dall’inflazione.

    Complessivamente questi cinque colossi detengono una posizione di oligopolio sul mercato globale dei prodotti di base come i cereali (di cui controllano una quota che va dal 70-90%), soia e zucchero. “Questo alto grado di concentrazione e il conseguente controllo sulle più importanti materie prime agricole del mondo, conferisce loro un enorme potere contrattuale per plasmare il panorama alimentare globale”, spiega Vincent Kiezebrink, ricercatore di Somo e autore della ricerca.

    La posizione dominante che di fatto ricoprono sul mercato globale rappresenta uno dei fattori che ha permesso agli Abccd di registrare profitti e utili da record negli ultimi tre anni. “La sola Cargill è responsabile della movimentazione del 25% di tutti i cereali e i semi di soia prodotti dagli agricoltori statunitensi -si legge nel report-. Anche il principale mercato agricolo per l’approvvigionamento di soia, l’America Latina, è dominato dagli Abccd: oltre la metà di tutte le esportazioni di questo prodotto passano da loro”.

    La situazione non cambia se si guarda a quello che succede in Europa: l’olandese Bunge e la statunitense Cargill da sole sono responsabili di oltre il 30% delle esportazioni di soia dal Brasile verso l’Unione europea. Bunge, in particolare, è il principale fornitore di soia per l’industria della carne dell’Ue con una chiara posizione di monopolio in alcuni mercati come il Portogallo, dove controlla il 90-100% delle vendite di olio di soia grezzo.

    Questa concentrazione è stata costruita nel tempo attraverso fusioni e acquisizioni che non sono state limitate dalle autorità per la concorrenza: quelle europee, ad esempio, hanno valutato un totale di 60 fusioni relative alle società Abccd dal 1990 a oggi. “Tutte le operazioni, tranne una, sono state autorizzate incondizionatamente -si legge nel report-. La prossima grande fusione in arrivo è quella tra la canadese Viterra (specializzata nella produzione e nel commercio di cereali, ndr) e Bunge. Un’operazione senza precedenti nel settore agricolo globale e che avvicinerà la nuova società alle dimensioni di Adm e Cargill”.

    Un secondo elemento che ha permesso a queste Big five di accumulare ricavi senza precedenti in questi anni è poi la loro capacità di influenzare la disponibilità dei beni alimentari attraverso un’enorme potenzialità di stoccaggio. “Il rapporto speciale 2022 del Gruppo internazionale di esperti sui sistemi alimentari sostenibili (Ipes) ha evidenziato che i trader conservano notevoli riserve di cereali -si legge nel report-. E sono incentivati ‘a trattenere le scorte fino a quando i prezzi vengono percepiti come massimi’”. Per avere un’idea delle quantità di materie prime in ballo, basti pensare che la capacità di stoccaggio combinata di Adm, Bunge e Cofco, è pari a circa 68 milioni di tonnellate, è simile al consumo annuo di grano di Stati Uniti, Turchia e Regno Unito messi assieme.

    Terzo e ultimo elemento individuato nel report è il fatto che queste società sono integrate verticalmente e hanno il pieno controllo della filiera produttiva dal campo alla tavola: forniscono cioè agli agricoltori prestiti, sementi, fertilizzanti e pesticidi; immagazzinano, trasformano e trasportano i prodotti alimentari.

    A fronte di questa situazione, Somo ha invitato la Commissione europea a intervenire per porre un freno alla crescente monopolizzazione del comparto: “L’indagine dovrebbe concentrarsi sul potere che può essere esercitato nei confronti dei fornitori per comprimere i loro margini di profitto -concludono i ricercatori-. È preoccupante che alle multinazionali sia stato permesso di triplicare i loro profitti facendo salire i prezzi degli alimenti, mentre le persone in tutto il mondo soffrono di una crisi del costo della vita e i più poveri sono alla fame”. Per questo motivo l’organizzazione suggerisce di applicare un’imposta sugli extra-profitti delle società Abccd che, con un’ipotetica aliquota fiscale del 33%. A fronte di utili che hanno toccato i 5,7 miliardi di dollari nel 2021 e i 6,4 miliardi nel 2022, permetterebbe di generare un gettito fiscale pari rispettivamente a 1,8 e 2 miliardi di dollari.

    https://altreconomia.it/gli-utili-record-dei-padroni-del-cibo-a-scapito-della-sicurezza-aliment
    #agriculture #business #profits #industrie_agro-alimentaire #sécurité_alimentaire #inflation #Archer-Daniels-Midland_company #Cargill #Cofco #Louis_Dreyfus_Company (#Abccd) #oligopole #céréales #soja #sucre

  • Une organisation en #souffrance

    Les Français seraient-ils retors à l’effort, comme le laissent entendre les mesures visant à stigmatiser les chômeurs ? Et si le nombre de #démissions, les chiffres des #accidents et des #arrêts_de_travail étaient plutôt le signe de #conditions_de_travail délétères.

    Jeté dans une #concurrence accrue du fait d’un #management personnalisé, évalué et soumis à la culture froide du chiffre, des baisses budgétaires, le travailleur du XXIe siècle est placé sous une #pression inédite...

    L’étude de 2019 de la Darès (Ministère du Travail) nous apprend que 37% des travailleurs.ses interrogés se disent incapables de poursuivre leur activité jusqu’à la retraite. Que l’on soit hôtesse de caisse (Laurence) ou magistrat (Jean-Pierre), tous témoignent de la dégradation de leurs conditions de travail et de l’impact que ces dégradations peuvent avoir sur notre #santé comme l’explique le psychanalyste Christophe Dejours : “Il n’y a pas de neutralité du travail vis-à-vis de la #santé_mentale. Grâce au travail, votre #identité s’accroît, votre #amour_de_soi s’accroît, votre santé mentale s’accroît, votre #résistance à la maladie s’accroît. C’est extraordinaire la santé par le travail. Mais si on vous empêche de faire du travail de qualité, alors là, la chose risque de très mal tourner.”

    Pourtant, la #quête_de_sens est plus que jamais au cœur des revendications, particulièrement chez les jeunes. Aussi, plutôt que de parler de la semaine de quatre jours ou de développer une sociabilité contrainte au travail, ne serait-il pas temps d’améliorer son #organisation, d’investir dans les métiers du « soin » afin de renforcer le #lien_social ?

    Enfin, la crise environnementale n’est-elle pas l’occasion de réinventer le travail, loin du cycle infernal production/ consommation comme le pense la sociologue Dominique Méda : “Je crois beaucoup à la reconversion écologique. Il faut prendre au sérieux la contrainte écologique comme moyen à la fois de créer des emplois, comme le montrent les études, mais aussi une possibilité de changer radicalement le travail en profondeur.”

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/lsd-la-serie-documentaire/une-organisation-en-souffrance-5912905

    #travail #audio #sens #reconnaissance #podcast #déshumanisation #grande_distribution #supermarchés #Carrefour #salariat #accidents_du_travail # location-gérance #jours_de_carence #délai_de_carence #financiarisation #traçabilité #performance #néo-taylorisme #taylorisme_numérique #contrôle #don #satisfaction #modernisation #mai_68 #individualisation #personnalisation #narcissisation #collectif #entraide #épanouissement #marges_de_manoeuvre #intensification_du_travail #efficacité #rentabilité #pression #sous-traitance #intensité_du_travail #santé_au_travail #santé #épidémie #anxiété #dépression #santé_publique #absentéisme #dégradation_des_conditions_de_travail #sommeil #identité #amour_de_soi #santé_par_le_travail #tournant_gestionnaire #gouvernance_de_l'entreprise #direction_d'entreprise #direction #règles #lois #gestionnaires #ignorance #objectifs_quantitatifs #objectifs #performance #mesurage #évaluation #traçabilité #quantification #quantitatif #qualitatif #politique_du_chiffre #flux #justice #charge_de_travail

    25’40 : #Jean-Pierre_Bandiera, ancien président du tribunal correctionnel de Nîmes :

    « On finit par oublier ce qu’on a appris à l’école nationale de la magistrature, c’est-à-dire la motivation d’un jugement... On finit par procéder par affirmation, ce qui fait qu’on gagne beaucoup de temps. On a des jugements, dès lors que la culpabilité n’est pas contestée, qui font abstraction de toute une série d’éléments qui sont pourtant importants : s’attarder sur les faits ou les expliquer de façon complète. On se contente d’une qualification développée : Monsieur Dupont est poursuivi pour avoir frauduleusement soustrait 3 véhicules, 4 téléviseurs au préjudice de Madame Durant lors d’un cambriolage » mais on n’est pas du tout en mesure après de préciser que Monsieur Dupont était l’ancien petit ami de Madame Durant ou qu’il ne connaissait absolument pas Madame Durant. Fixer les conditions dans lesquelles ce délit a été commis de manière ensuite à expliquer la personnalisation de la peine qui est quand même la mission essentielle du juge ! Il faut avoir à chaque fois qu’il nous est demandé la possibilité d’adapter au mieux la peine à l’individu. C’est très important. On finit par mettre des tarifs. Quelle horreur pour un juge ! On finit par oublier la quintessence de ce métier qui est de faire la part des choses entre l’accusation, la défense, l’auteur de faits, la victime, et essayer d’adopter une sanction qui soit la plus adaptée possible. C’est la personnalisation de la peine, c’est aussi le devenir de l’auteur de cette infraction de manière à éviter la récidive, prévoir sa resocialisation. Bref, jouer à fond le rôle du juge, ce qui, de plus en plus, est ratatiné à un rôle de distributeur de sanctions qui sont plus ou moins tarifées. Et ça c’est quelque chose qui, à la fin de ma carrière, c’est quelque chose qui me posait de véritables problèmes d’éthique, parce que je ne pensais pas ce rôle du juge comme celui-là. Du coup, la qualité de la justice finit par souffrir, incontestablement. C’est une évolution constante qui est le fruit d’une volonté politique qui, elle aussi, a été constante, de ne pas consacrer à la justice de notre pays les moyens dont elle devait disposer pour pouvoir fonctionner normalement. Et cette évolution n’a jamais jamais, en dépit de tout ce qui a pu être dit ou écrit, n’ai jamais été interrompue. Nous sommes donc aujourd’hui dans une situation de détresse absolue. La France est donc ??? pénultième au niveau européen sur les moyens budgétaires consacrés à sa justice. Le Tribunal de Nîme comporte 13 procureurs, la moyenne européenne nécessiterait qu’ils soient 63, je dis bien 63 pour 13. Il y a 39 juges au Tribunal de Nîmes, pour arriver dans la moyenne européenne il en faudrait 93. Et de mémoire il y a 125 greffiers et il en faudrait 350 je crois pour être dans la moyenne. Il y avait au début de ma carrière à Nîmes 1 juge des Libertés et de la détention, il y en a aujourd’hui 2. On a multiplié les chiffres du JLD par 10. Cela pose un problème moral et un problème éthique. Un problème moral parce qu’on a le sentiment de ne pas satisfaire au rôle qui est le sien. Un problème éthique parce qu’on finit par prendre un certain nombre de recul par rapport aux valeurs que l’on a pourtant porté haut lorsqu’on a débuté cette carrière. De sorte qu’une certaine mélancolie dans un premier temps et au final un certain découragement me guettaient et m’ont parfois atteint ; mes périodes de vacances étant véritablement chaque année un moment où la décompression s’imposait sinon je n’aurais pas pu continuer dans ces conditions-là. Ce sont des heures de travail qui sont très très chargés et qui contribuent aussi à cette fatigue aujourd’hui au travail qui a entraîné aussi beaucoup de burn-out chez quelques collègues et puis même, semble-t-il, certains sont arrivés à des extrémités funestes puisqu’on a eu quelques collègues qui se sont suicidés quasiment sur place, vraisemblablement en grande partie parce que... il y avait probablement des problèmes personnels, mais aussi vraisemblablement des problèmes professionnels. Le sentiment que je vous livre aujourd’hui est un sentiment un peu partagé par la plupart de mes collègues. Après la réaction par rapport à cette situation elle peut être une réaction combative à travers des engagements syndicaux pour essayer de parvenir à faire bouger l’éléphant puisque le mammouth a déjà été utilisé par d’autres. Ces engagements syndicaux peuvent permettre cela. D’autres ont plus ou moins rapidement baissé les bras et se sont satisfaits de cette situation à défaut de pouvoir la modifier. Je ne regrette rien, je suis parti serein avec le sentiment du devoir accompli, même si je constate que en fermant la porte du tribunal derrière moi je laisse une institution judiciaire qui est bien mal en point."

    Min. 33’15, #Christophe_Dejours, psychanaliste :

    « Mais quand il fait cela, qu’il sabote la qualité de son travail, qu’il bâcle son travail de juge, tout cela, c’est un ensemble de trahisons. Premièrement, il trahi des collègues, parce que comme il réussi à faire ce qu’on lui demande en termes de quantité... on sait très bien que le chef va se servir du fait qu’il y en a un qui arrive pour dire aux autres : ’Vous devez faire la même chose. Si vous ne le faites pas, l’évaluation dont vous allez bénéficier sera mauvaise pour vous, et votre carrière... vous voulez la mutation ? Vous ne l’aurez pas !’ Vous trahissez les collègues. Vous trahissez les règles de métier, vous trahissez le justiciable, vous trahissez les avocats, vous leur couper la parole parce que vous n’avez pas le temps : ’Maître, je suis désolé, il faut qu’on avance.’ Vous maltraitez les avocats, ce qui pose des problèmes aujourd’hui assez compliqués entre avocats et magistrats. Les relations se détériorent. Vous maltraitez le justiciable. Si vous allez trop vite... l’application des peines dans les prisons... Quand vous êtes juges des enfants, il faut écouter les enfants, ça prend du temps ! Mais non, ’va vite’. Vous vous rendez compte ? C’est la maltraitance des justiciables sous l’effet d’une justice comme ça. A la fin vous trahissez la justice, et comme vous faites mal votre travail, vous trahissez l’Etat de droit. A force de trahir tous ces gens qui sont... parce que c’est des gens très mobilisés... on ne devient pas magistrat comme ça, il faut passer des concours... c’est le concours le plus difficile des concours de la fonction publique, c’est plus difficile que l’ENA l’Ecole nationale de magistrature... C’est des gens hyper engagés, hyper réglo, qui ont un sens de la justice, et vous leur faites faire quoi ? Le contraire. C’est ça la dégradation de la qualité. Donc ça conduit, à un moment donné, à la trahison de soi. Ça, ça s’appelle la souffrance éthique. C’est-à-dire, elle commence à partir du moment où j’accepte d’apporter mon concours à des actes ou à des pratiques que le sens moral réprouve. Aujourd’hui c’est le cas dans la justice, c’est le cas dans les hôpitaux, c’est le cas dans les universités, c’est le cas dans les centres de recherche. Partout dans le secteur public, où la question éthique est décisive sur la qualité du service public, vous avez des gens qui trahissent tout ça, et qui entrent dans le domaine de la souffrance éthique. Des gens souffrent dans leur travail, sauf que cette souffrance, au lieu d’être transformée en plaisir, elle s’aggrave. Les gens vont de plus en plus mal parce que le travail leur renvoie d’eux-mêmes une image lamentable. Le résultat c’est que cette trahison de soi quelques fois ça se transforme en haine de soi. Et c’est comme ça qu’à un moment donné les gens se suicident. C’est comme ça que vous avez des médecins des hôpitaux, professeurs de médecine de Paris qui sautent par la fenêtre. Il y a eu le procès Mégnien, au mois de juin. Il a sauté du 5ème étage de Georges-Pompidou. Il est mort. Comment on en arrive là ? C’est parce que les gens ont eu la possibilité de réussir un travail, de faire une oeuvre, et tout à coup on leur casse le truc. Et là vous cassez une vie. C’est pour cela que les gens se disent : ’Ce n’est pas possible, c’est tout ce que j’ai mis de moi-même, tous ces gens avec qui j’ai bossé, maintenant il faut que ça soit moi qui donne le noms des gens qu’on va virer. Je ne peux pas faire ça, ce n’est pas possible.’ Vous les obligez à faire l’inverse de ce qu’ils croient juste, de ce qu’ils croient bien. Cette organisation du travail, elle cultive ce qu’il y a de plus mauvais dans l’être humain. »

    #suicide #trahison #souffrance_éthique

    • Quels facteurs influencent la capacité des salariés à faire le même travail #jusqu’à_la_retraite ?

      En France, en 2019, 37 % des salariés ne se sentent pas capables de tenir dans leur travail jusqu’à la retraite. L’exposition à des #risques_professionnels – physiques ou psychosociaux –, tout comme un état de santé altéré, vont de pair avec un sentiment accru d’#insoutenabillité du travail.

      Les métiers les moins qualifiés, au contact du public ou dans le secteur du soin et de l’action sociale, sont considérés par les salariés comme les moins soutenables. Les salariés jugeant leur travail insoutenable ont des carrières plus hachées que les autres et partent à la retraite plus tôt, avec des interruptions, notamment pour des raisons de santé, qui s’amplifient en fin de carrière.

      Une organisation du travail qui favorise l’#autonomie, la participation des salariés et limite l’#intensité_du_travail tend à rendre celui-ci plus soutenable. Les mobilités, notamment vers le statut d’indépendant, sont également des moyens d’échapper à l’insoutenabilité du travail, mais ces trajectoires sont peu fréquentes, surtout aux âges avancés.

      https://dares.travail-emploi.gouv.fr/publication/quels-facteurs-influencent-la-capacite-des-salaries-faire-
      #statistiques #chiffres

  • Espagne : plus de 600 demandeurs d’asile s’entassent dans un terminal de l’aéroport de Madrid - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/54870/espagne--plus-de-600-demandeurs-dasile-sentassent-dans-un-terminal-de-

    Actualités Espagne : plus de 600 demandeurs d’asile s’entassent dans un terminal de l’aéroport de Madrid
    Par Marlène Panara Publié le : 30/01/2024 Dernière modification : 31/01/2024
    Plus de 600 exilés, marocains et sénégalais notamment, patientent actuellement dans l’aéroport de la capitale espagnole « dans des conditions insalubres ». Ces migrants, passagers de vols à destination de l’Amérique du Sud, ont demandé l’asile lors de leur escale à Madrid.
    La crise s’enlise à l’aéroport Barajas de Madrid. Près de 600 demandeurs d’asile s’entassent actuellement dans le terminal T4, qui accueille les passagers en transit en Espagne. Dimanche, 200 personnes supplémentaires, réparties dans quatre vols en provenance de Casablanca au Maroc, ont rejoint 400 autres migrants en attente du traitement de leur demande d’asile.
    Ce mardi 30 janvier, une salle d’accueil supplémentaire de 500m2 a été ouverte dans le terminal 1 pour faire face à ces nouvelles arrivées. Elle pourra accueillir jusqu’à 162 personnes, affirme RTVC.
    Ces deux dernières semaines, quatre salles d’accueils avaient déjà été ouvertes pour accueillir les demandeurs d’asile. Mais face aux arrivées presque quotidiennes, ces pièces d’attente, d’une capacité de 60 à 70 personnes, sont désormais saturées. « La surpopulation et les conditions insalubres ont atteint des points critiques, provoquant des infestations de punaises de lit, une accumulation d’ordures et une pénurie de serviettes pour l’hygiène personnelle », avait prévenu la semaine dernière l’ONG Commission espagnole d’aide aux réfugiés (CEAR) dans un communiqué.
    Certains exilés patientent donc désormais dans les couloirs de service du terminal et dorment sur des cartons. « Tous sont visibles du reste des voyageurs », puisqu’ils patientent « dans la zone de récupération des bagages », précise El Mundo. « Une image inhumaine et tout à fait regrettable », déplorent des voyageurs interviewés par le journal. D’autres migrants se sont installés ailleurs à l’aéroport, « pour échapper à la foule et à l’accumulation d’ordures concentrées dans les salles d’attente ». La situation a d’ailleurs poussé la Croix-Rouge, en charge jusqu’ici de l’accueil des demandeurs d’asile, à stopper ses activités dans le terminal. La promiscuité et les mauvaises conditions d’attente attisent aussi les tensions. D’après El Mundo, la police, « complètement débordée », a déjà dû intervenir dans plusieurs litiges entre les exilés.
    Depuis le 1er janvier, les autorités ont ordonné 108 expulsions depuis l’aéroport. Et selon le ministère de l’Intérieur, 864 demandes d’asile ont déjà été traitées par les responsables de la police et de l’Office d’Asile et Refuge (OAR). Depuis quelques mois, de nombreux exilés en provenance du Sénégal, du Maroc de la Somalie, du Venezuela et de la Colombie demandent l’asile à leur arrivée à Madrid, escale de leur vol à destination de la Bolivie, du Brésil ou du Salvador. Cette voie concerne aussi les jeunes migrants. Entre le 1er et le 17 janvier 2024, 188 mineurs isolés ont débarqué au terminal de Madrid pour rester dans le pays, via un vol à destination de l’Amérique latine.
    Pour freiner ces arrivées, l’Espagne a rendu obligatoire la semaine dernière un visa de transit aéroportuaire (TAP) pour les ressortissants sénégalais en escale dans les aéroports espagnols. Cette décision, déjà en vigueur pour les citoyens kényans, prendra effet le 19 février. Aucune mesure n’a encore été prise en revanche à l’encontre des voyageurs marocains. Mais la situation pourrait évoluer ce mardi 30 janvier, à l’issue de la rencontre prévue entre le ministre de l’Intérieur Fernando Grande-Marlaska et le nouvel ambassadeur espagnol au Maroc, Enrique Ojeda.,Celle-ci intervient après des échanges entre les deux entités la semaine dernière, visant à la plus grande vigilance quant aux voyageurs qui prendraient un vol depuis Casablanca à bord de la compagnie nationale Royal Air Maroc. Le 20 janvier, Fernando Grande-Marlaska, en visite à Rabat, a par ailleurs assuré « travailler pour éviter […] une utilisation frauduleuse lors des escales aériennes » de ces « avions pateras », du nom donné aux embarcations de fortune qui débarquent en Espagne par la mer.
    La très grande majorité des migrants atteignent l’Espagne après avoir traversé l’océan Atlantique ou la mer Méditerranée. En 2023, plus de 55 000 migrants sont arrivés dans le pays par la mer, sur un total de 57 000. Environ 37 000 d’entre eux emprunté la route migratoire des Canaries. Cette année-là aussi, plus de 163 000 demandes d’asile ont été enregistrées en Espagne, un record. Ces chiffres placent d’ailleurs Madrid au troisième rang des pays de l’Union européenne recevant le plus de demandes d’asile. D’après le ministère de l’Intérieur, plus de trois quarts de ces demandes ont été effectuées par des ressortissants latino-américains.

    #Covid-19#migrant#migration#espagne#maroc#senegal#visas#asile#canaries#routemigratoire#venezuela#bolivie#bresil#somalie#sansalvador#sante

  • A Mayotte, un camp de migrants africains cristallise toutes les colères de l’île
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/01/23/a-mayotte-un-camp-de-migrants-africains-cristallise-toutes-les-coleres-de-l-

    A Mayotte, un camp de migrants africains cristallise toutes les colères de l’île
    A Mamoudzou, des collectifs d’habitants demandent le démantèlement d’un camp informel d’environ 500 personnes originaires de la région des Grands Lacs et de Somalie.
    Par Jérôme Talpin (Saint-Denis, La Réunion, correspondant régional)
    A l’appel de plusieurs collectifs, près de 400 personnes ont manifesté sous la pluie, dimanche 21 janvier, dans le stade de Cavani, à Mayotte, pour exiger le démantèlement d’un camp d’environ 500 migrants. Séparés des protestataires par le grillage de l’enceinte sportive, les migrants originaires de la région des Grands Lacs et de Somalie, dont la moitié sont bénéficiaires de la protection internationale ou demandeurs d’asile, ont répondu en brandissant des drapeaux français et des morceaux de tissu blanc avec pour message : « Nous disons non à la xénophobie à Mayotte » ou encore « Halte au harcèlement des Africains réfugiés à Mayotte ».
    Depuis fin décembre et le rejet par le tribunal administratif d’une demande d’expulsion en urgence, la tension est vive dans ce quartier du sud de Mamoudzou. Soutenus par plusieurs collectifs de citoyens mahorais, les riverains protestent contre l’impossibilité d’utiliser les infrastructures sportives et désignent les étrangers comme les responsables de vols, d’agressions et de trafic de drogue.
    « Il existe ici une très forte stigmatisation contre eux et des violences quasi quotidiennes », observe Charline Ferrand-Pinet, directrice de Solidarité Mayotte, une association d’aide aux demandeurs d’asile dans ce département français. Des heurts ont éclaté, des véhicules ont été incendiés, des violences ont été commises contre les forces de l’ordre de la part de bandes de délinquants qui cherchent à en découdre avec les migrants.
    « Il y a la question de l’insécurité, mais ce camp pose de graves problèmes d’hygiène publique, dénonce Safina Soula, à la tête du Collectif des citoyens de Mayotte 2018. Les gens du quartier n’en peuvent plus. Mayotte est une petite île, on ne peut pas accueillir la misère de l’océan Indien [principalement des Comores et de Madagascar] et maintenant celle de l’Afrique continentale. »
    Faute de places dans les hébergements d’urgence de l’île, les migrants ont commencé, mi-mai 2023, à s’installer sur un terrain en pente surplombant la piste d’athlétisme du stade. Le nombre d’abris de fortune faits de bois, de bambous recouverts de bâches bleues, de nattes et de pagnes retenus par des cordes n’a jamais cessé de grandir. Venus de République démocratique du Congo (RDC), du Burundi, du Rwanda et de plus en plus fréquemment de Somalie, des hommes seuls ou des familles se lavent dans une canalisation à ciel ouvert qui traverse le terrain et puisent de l’eau dans une source voisine.
    Tous ont rejoint Mayotte par kwassa-kwassa, ces barques à fond plat, en partant des côtes tanzaniennes et en passant par les Comores. Un périlleux voyage que des réseaux de passeurs monnayent plusieurs centaines d’euros. Des migrants somaliens ont également fait état d’une traversée directe en bateau depuis leur pays, avant un transbordement au large des Comores.
    Dimanche 14 janvier, des habitantes du quartier ont tenté d’empêcher un groupe d’une soixantaine de Somaliens, qui venaient d’arriver, d’entrer dans le stade. « La population est très remontée et la situation est quasi insurrectionnelle, alerte la députée Estelle Youssouffa (groupe Libertés, Indépendants, Outre-mer et Territoires). Après celle venue des Comores, une nouvelle route migratoire s’est mise en place. Ce n’est pas possible. »
    Dans ce département le plus pauvre de France (77 % des habitants vivent sous le seuil de pauvreté) et épuisé par la crise de l’eau et l’insécurité, la population (310 000 personnes, dont la moitié ont moins de 18 ans) croît de 3,8 %, avec sept naissances sur dix de mère comorienne. En avril, les autorités françaises ont lancé l’opération « Wuambushu » contre l’habitat illégal insalubre, l’insécurité et l’immigration clandestine, lors de laquelle des centaines de Comoriens ont été renvoyés de force sur leur archipel.
    « Mayotte ne sera pas le Lampedusa de l’océan Indien, ni la place Stalingrad de Paris ! », a écrit le 16 janvier le député Mansour Kamardine (Les Républicains) à Gérald Darmanin, le ministre de l’intérieur et des outre-mer : « Je demande le déguerpissement sans délai des squatteurs, l’expulsion immédiate dans leur pays d’origine ou les pays de transit des déboutés du droit d’asile. »
    En déplacement à La Réunion pour constater les dégâts du cyclone Belal, M. Darmanin a indiqué, le lendemain, avoir « donné instruction au préfet [de Mayotte] de démanteler ce camp ». « Il n’y a pas de faillite de l’Etat », a-t-il assuré. Le numéro 3 du gouvernement de Gabriel Attal a également annoncé que « 40 personnes ayant obtenu le droit d’asile seront rapatriées dans l’Hexagone ».« Il est temps que le gouvernement agisse », tonne la députée Estelle Youssouffa, rappelant que l’ancien ministre délégué chargé des outre-mer, Philippe Vigier, a visité le camp le 2 novembre lors de son dernier déplacement à Mayotte. « On se moque de nous, s’exaspère Mansour Kamardine. Je ne peux pas imaginer que la France n’ait pas les moyens de lutter contre ces réseaux de trafiquants. Les Mahorais ont l’impression d’être dépossédés de la terre de leurs ancêtres. »
    Pour « faire réagir les élus locaux », plusieurs collectifs de citoyens ont cadenassé les services de quasiment toutes les mairies de l’île, du Conseil départemental de Mayotte, propriétaire du stade, et de plusieurs services de la préfecture.« Il faut pourtant qu’on travaille », réagit le maire de Mamoudzou, Ambdilwahedou Soumaïla. Avec ses agents communaux, il a lui-même commencé un sit-in quotidien, le 6 décembre, face au stade pour s’opposer à ce camp et à d’éventuelles autres installations. « Cette situation n’est pas acceptable, observe l’élu. L’Etat doit assumer. Il n’est pas possible d’accorder une protection à ces personnes et de les laisser dans cette situation d’insalubrité, sous le soleil ou sous la pluie. »Joint par téléphone, Amani (son prénom a été changé), un demandeur d’asile congolais de 29 ans, considère que « [s]a vie est en danger à Mayotte ». « Il y a des attaques tous les soirs contre les réfugiés, témoigne le jeune homme, qui a fui la guerre dans son pays. Il y a beaucoup de racisme ici. Les Mahorais ne veulent pas des Africains. Quand je monte dans un taxi collectif, on me dit : descend. »
    Comme tous les demandeurs d’asile, Amani a droit à une aide en bons alimentaires de 30 euros par mois. La plupart des réfugiés peinent à trouver un emploi, même non déclaré. Certains ressortissants somaliens songent à rentrer dans leur pays. « J’ai reçu un coup de fil d’un jeune me demandant comment joindre l’ambassade de son pays à Paris », témoigne Kitsuné, une dessinatrice réunionnaise qui s’est rendue dans le camp en août 2023.
    « Tout se passe comme si ces migrants fournissaient une explication à tous les maux de l’île », estime Charline Ferrand-Pinet. L’annonce du démantèlement du camp pose la question du relogement des migrants. « Les plus vulnérables devront être accueillis dans des hébergements d’urgence, qui sont limités dans l’île, souligne la directrice de Solidarité Mayotte. Les candidats au retour dans leur pays ne seront sans doute pas les plus nombreux. Il y a toutes les chances que ces migrants aillent s’installer ailleurs. »

    #Covid-19#migrant#migration#france#mayotte#hebergement#camp#migrationirreuguliere#afrique#somalie#violence#xenophobie#violence

  • Un nouveau barrage flottant pour empêcher les migrants de traverser la Manche - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/54453/un-nouveau-barrage-flottant-pour-empecher-les-migrants-de-traverser-la

    Actualités : Un nouveau barrage flottant pour empêcher les migrants de traverser la Manche
    Par Leslie Carretero Publié le : 11/01/2024
    Les préfectures du Pas-de-Calais et de la Somme ont installé un nouveau barrage flottant sur l’Authie, fleuve qui se jette dans la mer près de Fort-Mahon. Avec ce dispositif, les autorités espèrent empêcher le phénomène des « taxi-boats » - des petits canots pneumatiques partant du sud du littoral avant de récupérer des migrants vers les plages du nord – qui « est monté en puissance ces derniers mois ».
    Des barrages flottants sur les fleuves. C’est la nouvelle technique des autorités françaises pour tenter d’empêcher les traversées de la Manche. Mardi 9 janvier, les préfets de la Somme et du Pas-de-Calais ont mis à l’eau des flotteurs rigides ancrés sur 200 mètres en amont du port de la Madelon sur l’Authie, un fleuve qui se jette dans la mer, à cheval entre les deux départements du nord de la France.
    « Les services de l’État sont entièrement mobilisés, de jour comme de nuit, pour contrecarrer l’action des trafiquants qui exploitent la détresse des populations migrants », affirme dans un communiqué le préfet de la Somme. « L’objectif est clair : amplifier encore et toujours notre action en adaptant systématiquement nos dispositifs de lutte contre les traversées maritimes ».
    Avec ce dispositif, les autorités visent un nouveau mode opératoire utilisé par les passeurs, celui des « taxi-boats ». Il s’agit de bateaux pneumatiques partant plus au sud du littoral, où les contrôles sont moins fréquents, avec quelques personnes seulement – passeurs ou migrants – à bord. Ils mettent dans un premier temps le cap au nord, vers les plages plus proches de Calais, où se cachent les passagers ayant payé pour la traversée. Ceux-ci se jettent alors à l’eau pour embarquer : selon le droit maritime, les policiers ne peuvent pas interpeller les bateaux déjà en mer. Selon la préfecture, ce phénomène « dangereux et illégal » est « monté en puissance ces derniers mois ». Douze tentatives de traversées à bord de « taxi-boats » en baie d’Authie ont été enregistrées depuis la Somme et le Pas-de-Calais en 2023.
    Cette méthode peut mettre en danger les exilés, qui attendent les embarcations dans l’eau, parfois jusqu’au torse. Ils risquent « la noyade, l’hypothermie ou l’enlisement dans les vasières », avait déjà alerté cet été la préfecture du Pas-de-Calais. À cette période, un autre barrage flottant avait été installé plus au nord, près du Touquet, dans la Canche. Entre janvier et août, « 22 évènements ont été recensés sur le fleuve de la Canche, avec une moyenne de 46 migrants sur chaque embarcation », expliquaient alors les autorités.
    Pour esquiver les patrouilles policières déployées massivement dans le Pas-de-Calais, les zones de départ des migrants se déplacent de plus en plus au sud, vers la Somme, malgré les dangers. « Tous ces nouveaux dispositifs pousse uniquement les gens à aller encore plus loin. Ça ne fait que doubler le temps de traversée et les risques qui vont avec », assurait à InfoMigrants cet été Pierre Roques, délégué général de l’Auberge des migrants. Et d’ajouter : « Les réseaux de passeurs vont juste se réadapter et vont devenir encore plus indispensables ».

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  • Le #Niger défie l’Europe sur la question migratoire

    En abrogeant une #loi de 2015 réprimant le trafic illicite de migrants, la junte au pouvoir à Niamey met un terme à la coopération avec l’Union européenne en matière de contrôles aux frontières.

    En abrogeant une loi de 2015 réprimant le trafic illicite de migrants, la junte au pouvoir à Niamey met un terme à la coopération avec l’Union européenne en matière de contrôles aux frontières.

    L’épreuve de force est engagée entre le Niger et l’Union européenne (UE) sur la question migratoire. La junte issue du coup d’Etat de juillet à Niamey a fait monter les enchères, lundi 27 novembre, en abrogeant une loi datant de 2015, pénalisant le #trafic_illicite_de_migrants.

    Ce dispositif répressif, un des grands acquis de la coopération de Bruxelles avec des Etats africains, visant à endiguer les flux migratoires vers la Méditerannée, est aujourd’hui dénoncé par le pouvoir nigérien comme ayant été adopté « sous l’influence de certaines puissances étrangères » et au détriment des « intérêts du Niger et de ses citoyens ».

    L’annonce promet d’avoir d’autant plus d’écho à Bruxelles que le pays sahélien occupe une place stratégique sur les routes migratoires du continent africain en sa qualité de couloir de transit privilégié vers la Libye, plate-forme de projection – avec la Tunisie – vers l’Italie. Elle intervient au plus mauvais moment pour les Européens, alors qu’ils peinent à unifier leurs positions face à la nouvelle vague d’arrivées qui touche l’Italie. Du 1er janvier au 26 novembre, le nombre de migrants et réfugiés ayant débarqué sur le littoral de la Péninsule s’est élevé à 151 312, soit une augmentation de 61 % par rapport à la même période en 2022. La poussée est sans précédent depuis la crise migratoire de 2015-2016.

    Inquiétude à Bruxelles

    La commissaire européenne aux affaires intérieures, la Suédoise Ylva Johansson, s’est dite mardi « très préoccupée » par la volte-face nigérienne. La décision semble répondre au récent durcissement de l’UE à l’égard des putschistes. Le 23 novembre, le Parlement de Strasbourg avait « fermement condamné » le coup d’Etat à Niamey, un mois après l’adoption par le Conseil européen d’un « cadre de mesures restrictives », ouvrant la voie à de futures sanctions.

    « Les dirigeants à Niamey sont dans une grande opération de #chantage envers l’UE, commente un diplomate occidental familier du Niger. Ils savent que le sujet migratoire est source de crispation au sein de l’UE et veulent ouvrir une brèche dans la position européenne, alors qu’ils sont asphyxiés par les #sanctions_économiques décidées par la Communauté économique des Etats d’Afrique de l’Ouest [Cedeao]. Il ne leur a pas échappé que l’Italie est encline à plus de souplesse à leur égard, précisément à cause de cette question migratoire. »
    Mais le #défi lancé par la junte aux pays européens pourrait être plus radical encore, jusqu’à s’approcher du point de rupture. « La décision des dirigeants de Niamey montre qu’ils ont tout simplement abandonné toute idée de négocier avec l’UE à l’avenir, souligne une autre source diplomatique occidentale. Car un retour en arrière serait extrêmement difficile après l’abrogation de la loi. Ils montrent qu’ils ont choisi leur camp. Ils vont désormais nous tourner le dos, comme l’ont fait les Maliens. Ils ont abandonné leur principal point de pression avec l’UE. »

    Si l’inquiétude monte à Bruxelles face à un verrou migratoire en train de sauter, c’est le soulagement qui prévaut au Niger, où les rigueurs de la loi de 2015 avaient été mal vécues. Des réactions de satisfaction ont été enregistrées à Agadez, la grande ville du nord et « capitale » touareg, carrefour historique des migrants se préparant à la traversée du Sahara. « Les gens affichent leur #joie, rapporte Ahmadou Atafa, rédacteur au journal en ligne Aïr Info, installé à Agadez. Ils pensent qu’ils vont pouvoir redémarrer leurs activités liées à la migration. »

    Les autorités locales, elles aussi, se réjouissent de cette perspective. « Nous ne pouvons que saluer cette abrogation, se félicite Mohamed Anako, le président du conseil régional d’#Agadez. Depuis l’adoption de la loi, l’#économie_régionale s’était fortement dégradée. »

    Il aura donc fallu huit ans pour que le paradigme des relations entre l’UE et le Niger change du tout au tout. Le #sommet_de_La_Valette, capitale de Malte, en novembre 2015, dominé par la crise migratoire à laquelle le Vieux Continent faisait alors face dans des proportions inédites, avait accéléré la politique d’externalisation des contrôles aux frontières de l’Europe. Les Etats méditerranéens et sahéliens étaient plus que jamais pressés de s’y associer. Le Niger s’était alors illustré comme un « bon élève » de l’Europe en mettant en œuvre toute une série de mesures visant à freiner l’accès à sa frontière septentrionale avec la Libye.

    Satisfaction à Agadez

    A cette fin, le grand architecte de ce plan d’endiguement, le ministre de l’intérieur de l’époque – #Mohamed_Bazoum, devenu chef d’Etat en 2021 avant d’être renversé le 26 juillet – avait décidé de mettre en œuvre, avec la plus grande sévérité, une loi de mai 2015 réprimant le trafic illicite de migrants. Du jour au lendemain, les ressortissants du Sénégal, de Côte d’Ivoire, du Mali ou du Nigeria ont fait l’objet d’entraves administratives – le plus souvent en contradiction avec les règles de #libre_circulation prévues au sein de la Cedeao – dans leurs tentatives de rallier Agadez par bus en provenance de Niamey.
    Dans la grande ville du Nord nigérien, le gouvernement s’était attaqué aux réseaux de passeurs, au risque de fragiliser les équilibres socio-économiques. L’oasis d’Agadez, par où avaient transité en 2016 près de 333 000 migrants vers l’Algérie et la Libye, a longtemps profité de ces passages. Ultime porte d’accès au désert, la ville fourmillait de prestataires de « services migratoires » – criminalisés du jour au lendemain –, guidant, logeant, nourrissant, équipant et transportant les migrants.

    Avec la loi de 2015, « l’ensemble de la chaîne de ces services à la migration s’est écroulé », se souvient M. Anako. Le coup a été d’autant plus dur pour les populations locales que, dans les années 2010, la floraison de ces activités était venue opportunément compenser l’effondrement du tourisme, victime des rébellions touareg (1990-1997 et 2007-2009), puis du djihadisme. A partir de 2017, Agadez n’était plus que l’ombre d’elle-même. Certains notables locaux se plaignaient ouvertement que l’Europe avait réussi à « imposer sa frontière méridionale à Agadez ».

    Aussi, l’abrogation de la loi de 2015 permet à la junte de Niamey de faire d’une pierre deux coups. Outre la riposte à l’Europe, elle rouvre des perspectives économiques dans une région où les partisans du président déchu, M. Bazoum, espéraient recruter des soutiens. « Il y a à l’évidence un “deal” pour que les Touareg d’Agadez prêtent allégeance à la junte », relève le diplomate occidental.

    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/11/28/le-niger-defie-l-europe-sur-la-question-migratoire_6202814_3212.html
    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #abrogation #contrôles_frontaliers #coopération #arrêt #UE #EU #Union_européenne #économie #coup_d'Etat #loi_2015-36 #2015-36

    ping @karine4

    • Sur la route de l’exil, le Niger ne fera plus le « #sale_boulot » de l’Europe

      La junte au pouvoir à Niamey a annoncé l’abrogation d’une loi de 2015 qui criminalisait l’aide aux personnes migrantes. Un coup dur pour l’Union européenne, qui avait fait du Niger un partenaire central dans sa politique d’externalisation des frontières. Mais une décision saluée dans le pays.

      DepuisDepuis le coup d’État du 26 juillet au Niger, au cours duquel l’armée a arraché le pouvoir des mains de Mohamed Bazoum, qu’elle retient toujours au secret, c’était la grande crainte des responsables de l’Union européenne. Les fonctionnaires de Bruxelles attendaient avec angoisse le moment où Niamey mettrait fin à l’une des coopérations les plus avancées en matière d’externalisation des contrôles aux frontières.

      C’est désormais devenu une réalité : le 25 novembre, le régime issu du putsch a publié une ordonnance qui abroge la loi n° 2015-36 relative au « trafic illicite de migrants » et qui annule toutes les condamnations prononcées dans le cadre de cette loi.

      Le gouvernement de transition a justifié cette décision par le fait que ce texte avait été adopté en mai 2015 « sous l’influence de certaines puissances étrangères » et au détriment des « intérêts du Niger et de ses citoyens », et qu’il entrait « en contradiction flagrante » avec les règles communautaires de la Communauté économique des États de l’Afrique de l’Ouest (Cedeao).

      La commissaire européenne aux affaires intérieures, la Suédoise Ylva Johansson, s’est dite « très préoccupée » par cette décision qui intervient alors que les relations entre l’Europe et le Niger sont tendues : le 23 octobre, le Conseil européen avait adopté un « cadre de mesures restrictives » ouvrant la voie à de possibles sanctions contre le régime putschiste, et le 23 novembre, le Parlement européen a « fermement » condamné le coup d’État.

      Pour l’UE et sa politique antimigratoire, c’est une très mauvaise nouvelle, d’autant que les arrivées en provenance du continent africain ont, selon l’agence Frontex, sensiblement augmenté en 2023. La loi 2015-36 et la coopération avec le Niger étaient au cœur de la stratégie mise en œuvre depuis plusieurs années pour endiguer les arrivées d’exilé·es sur le sol européen.

      Mais au Niger, l’abrogation a été très bien accueillie. « C’est une mesure populaire, indique depuis Niamey un activiste de la société civile qui a tenu à rester anonyme. Cette loi n’a jamais été acceptée par la population, qui ne comprenait pas pourquoi le gouvernement nigérien devait faire le sale boulot à la place des Européens. »
      Satisfaction à Agadez

      À Agadez, grande ville du Nord qui a été la plus touchée par la loi de 2015, le soulagement est grand. « Ici, c’est la joie, témoigne Musa, un habitant de la ville qui a un temps transporté des migrant·es. Les gens sont très contents. Beaucoup de monde vivait de cette activité, et beaucoup m’ont dit qu’ils allaient reprendre du service. Moi aussi peut-être, je ne sais pas encore. »

      Un élu de la municipalité d’Agadez indique lui aussi être « pleinement satisfait ». Il rappelle que c’était une revendication des élus locaux et qu’ils ont mené un intense lobbying ces dernières semaines à Niamey. Le président du conseil régional d’Agadez, Mohamed Anacko, a quant à lui salué « cette initiative très bénéfique pour [sa] région ».

      Satisfaction aussi au sein de l’ONG Alarme Phone Sahara, qui a pour mission de venir en aide aux migrant·es dans le désert. « Cette abrogation est une nouvelle surprenante et plaisante », indique Moctar Dan Yaye, un des cadres de l’ONG. Depuis plusieurs années, Alarme Phone Sahara militait en sa faveur. En 2022, elle a déposé une plainte contre l’État du Niger auprès de la Cour de justice de la Cedeao, dénonçant l’atteinte à la liberté de circulation de ses ressortissant·es. Mais elle pointe aussi les conséquences sur l’économie d’Agadez, « qui a toujours vécu des transports et de la mobilité », et surtout sur la sécurité des migrant·es, « qui ont été contraints de se cacher et de prendre des routes plus dangereuses alors qu’avant, les convois étaient sécurisés ».
      Avant que la loi ne soit appliquée en 2016 (à l’initiative de Mohamed Bazoum, alors ministre de l’intérieur), tout se passait dans la transparence. Chaque lundi, un convoi de plusieurs dizaines de véhicules chargés de personnes désireuses de rejoindre la Libye, escortés par l’armée, s’ébranlait depuis la gare routière d’Agadez.

      « Toute la ville en vivait, soulignait en 2019 Mahaman Sanoussi, un acteur de la société civile. La migration était licite. Les agences de transporteurs avaient pignon sur rue. Ils payaient leurs taxes comme tout entrepreneur. » En 2016, selon une étude de l’ONG Small Arms Survey, près de 400 000 migrant·es seraient passé·es par Agadez avant de rejoindre la Libye ou l’Algérie, puis, pour certain·es, de tenter la traversée de la Méditerranée.
      Le coup de frein de Bruxelles

      À Bruxelles, en 2015, on décide donc que c’est dans cette ville qu’il faut stopper les flux. Cette année-là, l’UE élabore l’Agenda européen sur la migration et organise le sommet de La Valette (Malte) dans le but de freiner les arrivées. Des sommes colossales (plus de 2 milliards d’euros) sont promises aux États du Sud afin de les pousser à lutter contre la migration. Un Fonds fiduciaire d’urgence de l’UE pour l’Afrique (EUTF) est mis en place. Et le Niger est au cœur de cette stratégie : entre 2016 et 2019, l’EUTF lui a alloué 266,2 millions d’euros – plus qu’à tout autre pays (et 28 millions supplémentaires entre 2019 et 2022).

      Ce fonds a notamment financé la création d’une unité d’élite en matière de lutte contre les migrations. Mais tout cela n’aurait pas été possible sans une loi criminalisant ceux qui aident, d’une manière ou d’une autre, les migrant·es. À Niamey, le pouvoir en place ne s’en cachait pas à l’époque : c’est sous la pression de l’UE, et avec la promesse d’une aide financière substantielle, qu’il a fait adopter la loi 2015-36 .

      Avec ce texte, celui qui permettait à une personne en exil d’entrer ou de sortir illégalement du territoire risquait de 5 à 10 ans de prison, et une amende pouvant aller jusqu’à 5 millions de francs CFA (7 630 euros). Celui qui l’aidait durant son séjour, en la logeant ou la nourrissant, encourait une peine de 2 à 5 ans.

      Après sa mise en œuvre, plus de 300 personnes ont été incarcérées, des passeurs pour la plupart, des centaines de véhicules ont été immobilisés et des milliers d’emplois ont été perdus. Selon plusieurs études, plus de la moitié des ménages d’Agadez vivaient de la migration, qui représentait en 2015 près de 6 000 emplois directs : passeurs, coxers (ou intermédiaires), propriétaires de « ghettos » (le nom donné sur place aux lieux d’hébergement), chauffeurs, mais aussi cuisinières, commerçant·es, etc. Ainsi la loi 2015-36 a-t-elle été perçue par nombre d’habitant·es comme « une loi contre Agadez ». « Vraiment, ça nous a fait mal, indique Mahamane Alkassoum, un ancien passeur. Du jour au lendemain, on n’a plus eu de source de revenu. Moi-même, je suis toujours au chômage à l’heure où je vous parle. »

      Cette loi a eu des effets : selon l’UE, les arrivées en Italie ont chuté de 85 % entre 2016 et 2019. Mais elle a aussi fragilisé les migrant·es. « Avant, dans les convois, quand il y avait un problème, les gens étaient secourus. Avec la loi, les passeurs prenaient des routes plus dangereuses, la nuit, et ils étaient isolés. En cas de problème, les gens étaient livrés à eux-mêmes dans le désert. Il y a eu beaucoup de morts », souligne Moctar Dan Yaye, sans pouvoir donner de chiffres précis.

      En outre, les « ghettos » sont devenus clandestins et les prix ont doublé, voire triplé… « Le manque de clarté de la loi et sa mise en œuvre en tant que mesure répressive – au lieu d’une mesure de protection – ont abouti à la criminalisation de toutes les migrations et ont poussé les migrants à se cacher, ce qui les rend plus vulnérables aux abus et aux violations des droits de l’homme », constatait en octobre 2018 le rapporteur des Nations unies sur les droits de l’homme des migrants, Felipe González Morales.

      Dans un rapport publié la même année, le think tank Clingendeal notait que « l’UE a contribué à perturber l’économie locale sans fournir d’alternative viable », ce qui « a créé frustration et déception au sein de la population ». L’UE a bien financé un programme de réinsertion pour les anciens acteurs de la migration. Mais très peu en ont bénéficié : 1 080 personnes sur 6 564 identifiées.

      Et encore, cette aide était jugée dérisoire : 1,5 million de francs CFA, « cela ne permet pas de repartir de zéro », dénonce Bachir Amma, un ancien passeur qui a essayé d’organiser le secteur. « L’Europe n’a pas tenu ses promesses, elle nous a trahis, renchérit Mahamane Alkassoum. Alors oui, si je peux, je reprendrai cette activité. Ce n’est pas par plaisir. Si on pouvait faire autre chose, on le ferait. Mais ici, il n’y a rien. »

      L’Europe doit-elle pour autant s’attendre à une nouvelle vague d’arrivées en provenance du Niger, comme le craint Bruxelles ? Si nombre d’anciens passeurs assurent qu’ils reprendront du service dès que possible, rien ne dit que les candidat·es à l’exil, de leur côté, retrouveront la route d’Agadez. « La situation a changé, souligne Moctar Dan Yaye. La frontière avec l’Algérie est quasi fermée et la situation en Libye a évolué. Beaucoup de véhicules ont été saisis aussi. » En outre, la plupart des États de la Cedeao d’où viennent les candidat·es à l’exil ont fermé leur frontière avec le Niger après le coup d’État.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/021223/sur-la-route-de-l-exil-le-niger-ne-fera-plus-le-sale-boulot-de-l-europe

    • Au Niger, la loi du 26 mai 2015 n’est plus un obstacle pour les migrants de l’Afrique subsaharienne

      Le Président du Conseil National pour la Sauvegarde de la Patrie (CNSP), le Général Abdourahamane Tiani, a signé le 25 novembre 2023, une ordonnance portant abrogation de la loi du 26 mai 2015 relative au trafic des migrants. La loi abrogée prescrivait des peines d’emprisonnement allant d’un (1) à trente (30) ans et des amendes de trois (3) à 30 millions de francs CFA. Elle avait permis de démanteler des réseaux de passeurs dans le nord du Niger, favorisant ainsi le recours des migrants à d’autres réseaux encore plus dangereux qui les exposent davantage aux traitements inhumains et au péril dans le désert. Dans les zones où transitent les migrants, cette loi avait conduit au chômage plusieurs milliers d’acteurs de la filière, au détriment de l’économie locale et la quiétude dans le nord nigérien. La décision du CNSP est favorablement accueillie non seulement dans les localités de transit des migrants, mais aussi au niveau des Organisations de la société civile qui qualifiaient la loi incriminant le trafic des migrants d’instrument de violation de droits humains et du principe de libre circulation des personnes. Par ailleurs, une partie de l’opinion considère l’abrogation de la loi du 26 mai 2015 comme une réplique à l’attitude de plus en plus irritante de l’Union Européenne (UE) vis-à-vis des nouvelles autorités nigériennes. Néanmoins, certains observateurs voient en cette décision du CNSP, des perspectives de gestion plus équilibrée de la migration au Niger.

      Une réponse du berger à la bergère ?

      L’abrogation de la loi du 26 mai 2015 intervient au lendemain du vote par le parlement européen d’une résolution condamnant le coup d’état du 26 juillet 2023 et appelant à la restauration du régime déchu. Ainsi, d’aucuns estiment que cette décision des autorités nigériennes est une réplique à l’attitude de l’UE envers le nouveau régime du Niger. En effet, depuis l’avènement du CNSP au pouvoir, l’Union Européenne, principale bénéficiaire de la loi du 26 Mai 2015, dénie toute légitimité aux nouveaux dirigeants nigériens. Ce déni s’est traduit par la réduction de la coopération entre l’UE et le Niger à l’appui humanitaire, une série de sanctions ciblant les nouvelles autorités nigériennes et la récente résolution du parlement européen, entre autres. Selon le Président du Réseau National de Défense de Droits Humains (RNDDH), M. Kani Abdoulaye, cette décision du CNSP peut être considérée comme une réponse ou une réplique à la position de l’Union européenne vis-à-vis des nouveaux dirigeants du Niger. « De ce point de vue, la loi sur la migration constitue une arme redoutable pour les autorités actuelles du Niger », a estimé M. Kani Abdoulaye.

      Une loi inadaptée initiée sous l’influence de l’Union Européenne

      Dans un communiqué relatif à l’abrogation de la loi du 26 Mai 2015, le Gouvernement nigérien a rappelé que ladite loi a été adoptée en 2015 sous l’influence de certaines puissances étrangères, et qu’elle érigeait et incriminait en trafic illicite certaines activités par nature régulières. Selon le Président du RNDDH, Il y avait des accords politiques entre le Niger et l’Union Européenne et un moment l’Union Européenne a octroyé des financements au Niger dans le cadre de la lutte contre le trafic des migrants.

      Pour sa part, M. Hamadou Boulama Tcherno de l’Association Alternative Espaces Citoyens (AEC), a laissé entendre que cette loi a été écrite par le gouvernement et adoptée par le parlement sous une avalanche de pressions politique et diplomatique des pays occidentaux. « En atteste le ballet ininterrompu des dirigeants européens pour encourager les autorités de l’époque à endosser la sous-traitance de la gestion des flux migratoires », a-t-il rappelé. Le responsable de l’AEC a également estimé que l’élaboration de cette loi a largement été inspirée, sinon dictée par des experts de l’UE et que son adoption est une réponse positive à l’agenda de l’UE visant à stopper les arrivées des migrants, notamment africains aux frontières de l’espace Schengen. « En effet, au fil des ans, l’UE a réussi le tour de magie de ramener ses frontières juridiques au Niger, d’abord à Agadez, et ensuite à Zinder. Depuis lors, nos Forces de Défense et de Sécurité (FDS) travaillent en étroite collaboration avec des policiers européens pour la surveillance des flux migratoires aux frontières terrestres et aériennes de notre pays », a-t-il déploré. « Cette collaboration a permis à l’Agence Frontex dont on connait le bilan accablant de la surveillance des frontières européennes, de poser ses cartons dans notre pays, à EUCAP SAHEL d’avoir un mandat étendu à la gestion des migrations », a ajouté M. Hamadou Boulama Tcherno.

      Une loi impopulaire farouchement combattue pour ses conséquences néfastes

      L’adoption de la loi du 26 Mai 2015 a eu d’importants impacts négatifs sur les migrants et les demandeurs d’asile. Aussi, sans mesures alternatives conséquentes à l’économie de migration, elle a mis fin de façon brutale aux activités de plusieurs milliers de professionnels de la migration dans les différentes localités de transit. Depuis son adoption, des associations et acteurs locaux appelaient à l’abrogation ou la révision de cette loi afin d’atténuer son impact sur l’économie locale. Selon M. Hamadou Boulama Tcherno, l’application rigide de loi contre la migration a conduit des milliers de ménages dans une situation de pauvreté. Il a rapporté qu’environ 6.500 personnes vivaient de manière directe ou indirecte des revenus liés à la migration, d’après le Conseil régional d’Agadez. « Avec la criminalisation de la loi, la majorité d’entre elles s’est retrouvée au chômage », a-t-il déploré.

      « A Alternative Espaces Citoyens, nous avons combattu cette loi avant même son adoption par le parlement nigérien », a rappelé M. Hamadou Boulama Tcherno de l’Association Alternative Espaces Citoyens. Selon lui, AEC n’a jamais fait mystère de sa farouche opposition à cette loi criminalisant la mobilité. « Avec la modestie requise, je peux dire qu’au Niger, l’association a été à la pointe du combat citoyen pour discréditer cette loi, en dénonçant régulièrement ses effets néfastes sur les économies des villes de transit et sur les droits humains », a affirmé le responsable de AEC. Dans le même ordre d’idée, depuis 2015, l’Association Alternative Espaces Citoyens a mené des actions multiformes de sensibilisation sur les droits humains des migrants, de mobilisation sociale et de plaidoyer en faveur du droit à la mobilité, selon M. Hamadou Boulama Tcherno.

      La loi du 26 Mai 2015, un instrument de violation des droits humains et du principe de libre circulation des personnes

      Dans son communiqué, le Gouvernement nigérien a notifié que la loi abrogée a été prise « en contradiction flagrante avec nos règles communautaires et ne prenait pas en compte les intérêts du Niger et de ses citoyens ». Ainsi, selon le document, « c’est en considération de tous les effets néfastes et du caractère attentatoire aux libertés publiques de cette loi que le Conseil National pour la Sauvegarde de la Patrie a décidé de l’abroger ». De son côté, le Président du RNDDH a rappelé que lors de l’adoption de ladite loi, d’un point de vue communautaire, les Organisations de la société civile ont relevé que l’Etat du Niger a failli à ses obligations en matière de libre circulation des personnes et des biens, un principe fondamental du protocole de la Communauté Economique des Etats de l’Afrique de l’Ouest (CEDEAO). En effet, « on arrêtait les ressortissants des pays de la CEDEAO en supposant qu’ils vont aller en Europe, donc, de notre point de vue, cela faisait du Niger la première frontière de l’Union Européenne en Afrique », a expliqué M. Kani Abdoulaye. Ainsi, « nous avons toujours estimé que cela constituait pour le Niger un manquement à ses obligations au niveau de la CEDEAO », a-t-il poursuivi. Le Président du RNDDH a également estimé que l’adoption de la loi du 26 mai 2015 est une violation grave de droits de l’homme en ce que depuis la nuit des temps, les populations se déplacent. « Le Niger est aussi signataire de la Convention des Nations-Unies qui protège tous les travailleurs migrants et leurs familles », a ajouté M. Kani Abdoulaye.

      Selon M. Hamadou Boulama Tcherno, la mise en œuvre de cette loi s’est soldée par des abus des droits et une augmentation des morts dans le désert. « Décidés à poursuivre leur parcours migratoire, les migrants empruntent des routes de contournement des postes de contrôle. Malheureusement, parmi eux, certains perdent la vie, faute d’eau, après généralement la panne du véhicule de transport ou leur abandon dans le désert par des conducteurs sans foi, ni loi », a-t-il indiqué. Se basant sur des rapports élaborés par AEC, M. Hamadou Boulama Tcherno a relevé que durant les huit (8) ans de mise en œuvre de cette loi sur la migration, les personnes migrantes ont connu une violation de leurs droits et une situation de vulnérabilité sans précédent. « Cette loi adoptée officiellement dit-on pour protéger les droits des migrants a été utilisée dans la réalité comme un outil de répression des acteurs de l’économie de la migration et des migrants. Les moins chanceux ont été victimes d’arrestations arbitraires et d’emprisonnement, sans possibilités de recours », a-t-il dénoncé. De même, le responsable de AEC a affirmé que la loi du 26 Mai 2015 a favorisé l’encasernement des migrants dans les centres de transit de l’OIM et a porté un coup rude à la liberté de circulation communautaire avec les refoulements des citoyens de la CEDEAO aux portes d’entrée du Niger. Elle a même permis d’interner des nigériens dans leur propre pays, selon M. Hamadou Boulama Tcherno.

      L’abrogation de la loi du 26 Mai 2015, une ébauche de politique migratoire basée sur les droits fondamentaux ?

      Pour le responsable de AEC, l’abrogation de cette loi est une bonne nouvelle pour tous les défenseurs des droits des personnes migrantes. « C’est aussi un ouf de soulagement pour les autorités locales et les populations des régions, Agadez et Zinder en tête de peloton, fortement impactées par la lutte contre les migrations dites irrégulières », a-t-il ajouté. Aussi, « nous saluons cette abrogation, car elle offre une occasion inespérée de sortir du piège mortel de l’externalisation du contrôle de la mobilité humaine », a annoncé M. Hamadou Boulama Tcherno. Il a également espéré que l’abrogation de la loi du 26 Mai 2015 va ouvrir des perspectives heureuses pour les citoyens, notamment un changement de cap dans la gouvernance des migrations. « Notre souhait est de voir le Niger prendre l’option de se doter d’une politique migratoire centrée sur les droits fondamentaux, la solidarité et l’hospitalité africaine », a formulé le responsable de AEC.

      Quant au Président de la Plate-Forme ‘’Le Défenseur des Droits’’, M. Almoustapha Moussa, il a souligné la nécessité de convoquer des Etats généraux avec l’ensemble des parties prenantes sur le plan national et international, avec les ONG qui ont lutté pour l’abrogation de cette loi ou sa révision, pour que des mesures immédiates puissent être prises afin d’organiser une gestion équilibrée de la migration sur le territoire du Niger. En effet, tout en soulignant que le Niger ne doit pas être à la solde de l’Union Européenne, M. Almoustapha Moussa a estimé qu’en même temps, le Niger ne doit pas occulter les trafics qui se font sur son territoire, les trafics qui utilisent son territoire comme zone de transit. « Il y a des réseaux qui viennent du Nigéria, du Cameroun, du Soudan, du Tchad etc… le fait que cette loi soit abrogée ne doit pas donner l’espace pour que le trafic illicite des migrants et éventuellement la traite des êtres humains puissent se faire sur le territoire du Niger », a-t-il expliqué. « A cet effet, une loi doit être rapidement adoptée et pour cela, les différents acteurs doivent être convoqués afin qu’ils fournissent des informations utiles à l’élaboration d’une prochaine loi », a conclu le Président de la Plate-Forme ‘’Le Défenseur des Droits’’.

      Selon un document de l’Institut d’Etude de Sécurité ISS Africa, les migrations humaines depuis l’Afrique vers l’Europe sont de plus en plus présentées comme une menace pour la sécurité des États et des sociétés. D’après des estimations évoquées dans le document, un tiers des migrants qui transitent par Agadez, ville située sur l’un des principaux itinéraires migratoires reliant l’Afrique de l’Ouest, le Sahel et le Maghreb, finissent par embarquer sur la côte méditerranéenne, à bord de bateaux pneumatiques à destination de l’Europe. C’est pourquoi depuis 2015, l’Union Européenne se base sur cette ville considérée comme la porte du désert nigérien pour endiguer les migrations de l’Afrique subsaharienne vers l’Europe. Les mécanismes de contrôle qui résultent de la loi du 26 Mai 2015 ont abouti à une diminution de 75 % des flux migratoires vers le Nord via Agadez en 2017, contribuant ainsi à la baisse globale des arrivées de migrants en Europe par les différents itinéraires méditerranéens. En 2018, l’Europe a enregistré une baisse de 89% des arrivées de migrants par rapport à 2015. En 2019, la Commission européenne a annoncé la fin de la crise migratoire. Mais suite à l’abrogation de la loi sur la migration, les ressortissants de l’Afrique subsaharienne sont désormais libres de transiter par le Niger. Dans ce contexte, l’Union Européenne dispose-t-elle d’alternative pour s’éviter une reprise de la ‘’bousculades des migrants’’ à ses portes ?

      https://lematinal-niger.com/index.php/politique/item/124-migration-au-niger-la-loi-du-26-mai-2015-n-est-plus-un-obstacle

    • À Agadez, sur la route de l’exil, le « business » des migrants n’est plus un crime

      Au Niger, les militaires au pouvoir ont abrogé une loi qui criminalisait le trafic des migrants depuis 2015, fin novembre. À Agadez, aux portes du Sahara, devenue un carrefour migratoire pour des milliers de Subsahariens vers l’Europe, les habitants espèrent voir se relancer le marché de l’exil.

      Depuis un peu plus d’un mois, le Niger est redevenu la plaque tournante légale des migrants vers l’Europe. Fin novembre, la junte qui a pris le pouvoir après un coup d’État a abrogé une loi criminalisant le trafic des exilés africains à la frontière, dénonçant un texte « voté sous l’influence de puissance étrangères ».

      Adoptée en 2015, sous pression de l’Union européenne, la loi prévoyait jusqu’à trente ans de prison pour les passeurs. À Agadez, la ville du nord du Niger aux portes du Sahara, les habitants sont ravis et espèrent voir repartir le « business » d’antan.

      Reportage à Agadez, de notre correspondante Sophie Douce.

      À l’autogare d’Agadez, les pickups du désert défilent. À l’arrière, ils sont des dizaines entassés, accrochés avec un bout de bois pour ne pas tomber.

      Halilou Boubacar : « Là, présentement, nous avons plus de Nigériens, des Ghanéens, des Camerounais. On les met dans des pick up qui peuvent prendre 35 à 40 personnes, ils sont concentrés comme des sardines. »

      Lunettes noires, turban, manteau et gants. Destination : la Libye, puis l’Europe, pour les plus chanceux.

      Boubacar Halilou est « coxer », un rôle d’intermédiaire entre les chauffeurs et les migrants : « Le prix, ça se négocie toujours, ce n’est pas un prix fixe, c’est le business comme ça. »

      Comptez entre 450 à 500 euros la place. À côté, les rabatteurs haranguent la foule au milieu des vendeurs ambulants. Un bonnet, des cigarettes…De quoi tenir les deux ou trois jours de traversée jusqu’à Sebha en Libye, dernière étape avant la Méditerranée.
      « Avant, c’était pas facile, c’est comme si on te voyait avec de la drogue »

      Plus besoin de se cacher… Une « bouffée d’oxygène » pour les habitants, dont beaucoup vivaient de ce marché depuis l’effondrement du tourisme il y a dix ans :

      Boubacar Halilou : « On revit, parce que ici, à Agadez, tout le monde trouve son compte : les locations de maison, les transporteurs, les marchés, les hôtels, les taxis, on peut prendre des passagers tranquille tu peux aller là où tu veux circuler, parce que avant c’était pas facile, c’est comme si on te voyait avec de la drogue. »

      Des dizaines de passeurs ont été libérés. Mais après huit années de clandestinité, la méfiance demeure et la fraude persiste. Dans une ruelle, des pickups débordent, sans plaque d’immatriculation.
      Un homme fait signe de déguerpir…Il faut vite ranger la caméra et le micro.

      La peur de la police… Car ici certains continuent d’embarquer dans des « gares clandestines », près des « ghettos », les maisons de migrants louées par des passeurs.

      Dans le quartier « Misrata », ils sont nombreux à s’entasser dans ces dortoirs en banco, en attendant la prochaine étape.
      Dans une cour en terre, des femmes arrivées de Sierra Leone cuisinent avec leurs enfants.

      À côté, Issouf Sako, un Ivoirien de 28 ans, rêve de travailler en France ou en Italie. Son « coxer » a organisé son exil par Whatsapp.

      Issouf Sako : « C’est mon frère qui m’a mis en contact avec lui, lui aussi est en Europe, j’ai économisé un peu un peu, je prends la route maintenant, arrivé à Tripoli, le prix du bateau, ça peut être 700 000-800 000. Bon, on vient en Europe, c’est pas pour se promener, puisqu’on souffre chez nous, il n’y a pas de travail. »

      Au total, son voyage devrait lui coûter plus de 1 500 euros. Et la route est longue, dangereuse.
      L’interdiction a poussé les conducteurs à passer par des voies à haut risque pour échapper aux contrôles.

      Alors en 2016, des habitants se sont mobilisés pour aider les migrants pris au piège dans le désert, en créant un numéro vert.

      Chéhou Azizou, le coordonnateur du projet « Alarme Phone Sahara » :"Il suffit qu’un véhicule en détresse contacte le numéro et nous donne sa localisation, on prépare la mission et on part à leur secours, on ne peut pas marcher longtemps dans le désert, la mort est certaine".

      Pour cet activiste, la politique d’externationalisation des frontières de l’Union européenne est un échec :

      « Si certaines organisations humanitaires prétendent avoir contrôlé les flux migratoires, moi ça me fait rire. Nous enregistrons des expulsions en provenance de l’Algérie à hauteur de 22 à 25 000 refoulés par année. On a empêché aux passagers de suivre les voies officielles oui, mais on n’a pas réduit les flux migratoires et ça ce sont pour les refoulés, alors combien sont enterrés dans le désert ? Dieu seul sait ».

      En attendant, l’inquiétude monte à Bruxelles, face à ce verrou migratoire en train de sauter, avec la crainte de nouveaux morts dans le désert.

      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/le-reportage-de-la-redaction/a-agadez-sur-la-route-de-l-exil-le-business-des-migrants-n-est-plus-un-c

  • [lift ou esstich] frétillez,
    https://www.radiopanik.org/emissions/lift-ou-esstich/tremblez

    Avec l’aimable autorisation de diffuser sur les ondes panikéennes.

    « L’Objet petit a » projet de fin d’années d’études de Louis Viste, à l’INSAS Bruxelles. Mise en lumières Ijou Ahoudij.

    Composition musicale de Baxter Nocturne avec les voix de Tara Veyrunes et Clarina Sierro, ici en version courte pour une version de démonstration, normalement jouée en direct sur 30 minutes de représentation.

    tracklist

    intro Makadopoulos et son orchestre - Les enfants du piree reverse S.p.y.r - Surge Froid Dub - First Floor Beat Aca - Grillito 2 Titan Arch - Inception Scratchlart & Griffit Vigo - Goosebumps Mica Levi - Delete #beach (japanese) #jardin - Female Voice Enter (lips tongue migrate)-(feat eve) La claud - Far from Straight Path Ehua - Leggera Prc-Beats - Pedra de 800 kg Genevieve (...)

    #dance #club #lips #sombre #dîner #circlusion #d&b #sorcellerie #venus #dance,jardin,club,lips,sombre,beach,dîner,circlusion,d&b,sorcellerie,venus
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/lift-ou-esstich/tremblez_15720__1.mp3

  • Ukraine : derrière la Russie, les USA visent la Chine
    https://journal.lutte-ouvriere.org/2023/03/01/ukraine-derriere-la-russie-les-usa-visent-la-chine_528276.ht

    Depuis le #sommet_de_Munich sur la sécurité, les États-Unis mènent campagne contre la #Chine, qu’ils accusent chaque jour de vouloir armer la Russie dans sa guerre en Ukraine. Venant de Washington l’accusation pourrait faire sourire.

    On ne peut cependant oublier que les États-Unis, qui ont fourni pour 26,4 milliards de dollars d’aide militaire à l’Ukraine en un an, à quoi s’ajoute tout ce que lui ont livré ses alliés de l’Otan, portent par là même une responsabilité écrasante dans le fait que la guerre dure et que le nombre de ses victimes ne cesse de croître.

    Le secrétaire d’État américain Antony Blinken a été le premier à prétendre, le 18 février, que la Chine s’apprêtait à fournir des « armes létales » à la Russie. Pékin ayant démenti la chose, la vice-Présidente Kamala Harris a renchéri, affirmant que Washington était « troublé par le fait que Pékin approfondisse ses relations avec Moscou ».

    Le lendemain, l’ambassadrice américaine aux #Nations_unies s’est faite plus précise dans ses menaces : pour elle, aider militairement la Russie, c’est « franchir la ligne rouge ». Le 20, le ministre chinois des Affaires étrangères rétorqua qu’au lieu de « propager de fausses nouvelles », les États-Unis feraient mieux de « prendre de véritables mesures en faveur […] de l’avancement des pourparlers de paix ». Malgré cela, le 26 février, #Jake_Sullivan, conseiller à la Sécurité nationale de la Maison Blanche, fit encore monter la pression en affirmant que Pékin « devra choisir s’il fournit ou pas une aide militaire » à Moscou, et que, « s’il choisit cette voie, cela aura un coût réel pour la Chine ».

    Derrière ce qui reste, pour l’instant, un bras-de-fer diplomatique, il y a toute l’arrogance de la première puissance militaire et économique mondiale, sûre de son bon droit, celui du plus fort qui entend dicter sa loi à la planète. Que l’État impérialiste le plus puissant accuse les pays qui s’opposent à lui, ou pourraient le vouloir, d’être des agresseurs ennemis de la démocratie, c’est une constante de la politique des grands États occidentaux, y compris quand, pour faire respecter leur ordre mondial, ils mettent à feu et à sang d’autres pays et leurs populations. On l’a constaté du #Vietnam à l’#Algérie, de l’#Irak à l’#Afghanistan et en tellement d’autres occasions.

    Dans le cas de la guerre qui oppose en #Ukraine la Russie au bloc de l’#Otan, il s’agit de cela aussi, mais pas seulement. Les États-Unis et leurs alliés veulent empêcher que des pays menacés par leur puissance hégémonique fassent bloc pour y résister.

    Ainsi, en représailles de ce qu’il fournit des drones de combat à la #Russie, l’#Iran vient de voir s’abattre des sanctions américaines sur ses entreprises qui fabriquent et acheminent ces armes : leurs avoirs et biens situés aux États-Unis sont gelés.

    S’agissant de la Chine, qui subit déjà certains embargos sur des productions ou fournitures que l’Occident considère comme stratégiques, les menaces de Washington sont d’un autre niveau. Dans la perspective d’une guerre plus large que celle d’Ukraine, une guerre de « haute intensité » dont les dirigeants politiques et militaires occidentaux parlent ouvertement, c’est la Chine qui devient leur cible principale.

    Pour eux, il s’agit de préparer les peuples à cette nouvelle guerre en leur désignant par avance l’ennemi à combattre. Ainsi, parmi d’autres de son acabit, le #général_Minihan, chef des forces aériennes aux #États-Unis, a déclaré dans une note interne, confirmée ensuite par le Pentagone : « J’espère me tromper. Mais mon instinct me dit que nous combattrons en 2025. » Et cela vise la Chine.

    Si les travailleurs veulent vivre en paix, ils doivent d’abord refuser toute solidarité avec de tels fauteurs de guerre. Mais ils doivent aussi se préparer à transformer cette guerre menée contre les peuples en une guerre sociale, une guerre de classe contre le système capitaliste. Car il faut renverser ce système qui « porte en lui la guerre comme la nuée porte l’orage », comme disait Jaurès à la veille de la Première Guerre mondiale.

    #capitalisme #ONU #impérialisme

  • Les écrans : un désastre comportemental, intellectuel & cognitif.

    Une journée (le 6 février) sans téléphone portable, c’est bien (pour les malades que nous sommes).

    Entre 2 et 8 ans un enfant « moyen » consacre aux écrans récréatifs l’équivalent de 7 années scolaires complètes ou 460 jours de vie éveillée (1,25 année), ou encore l’exacte quantité du temps de travail personnel requis pour devenir un solide violoniste.

    Mais il faudrait aussi (365 jours sur 365) la suppression stricte, intégrale, immédiate et en tout lieux (y compris à l’école) des écrans pour tous les enfants de moins de 6 ans. Et la réduction à 30 mn à 1 h (tous usages cumulés) par jour pour tous les moins de 16 ans.

    Michel Desmurget le démontre dans son bouquin : sans quoi les jeunes générations d’aujourd’hui ne donneront que des crétins.

    Quelques extraits tirés au fil de ma lecture :

    « Selon les termes d’une étude récente, « seulement 3 % du temps consacré par les #enfants et #adolescents aux #médias_digitaux est utilisé à la création de contenus » (tenir un blog, écrire des programmes informatiques, créer des vidéos ou autres contenus « artistiques », etc.).

    .. Plus de 80 % des ados et préados déclarent ne « jamais » ou « quasiment jamais » utiliser leurs #outils_numériques pour faire œuvre créative. »

    « Croire que les #digital_natives sont des ténors du bit, c’est prendre ma charrette à pédale pr une roquette interstellaire ; croire que le simple fait de maîtriser une app informatique permet à l’utilisateur de comprendre quoi que ce soit aux éléments physiques & logiciels engagés »

    De « l’effarante débilité de cette triste fiction » des DigitalNatives… comme « un groupe mutant à la fois dynamique, impatient, zappeur, multitâche, créatif, friand d’expérimentations, doué pour le travail collaboratif, etc. Mais qui dit mutant dit différent…

    .. Dès lors, ce qui transparaît implicitement ici, c’est aussi l’image d’une génération précédente misérablement amorphe, lente, patiente, monotâche, dépourvue de #créativité, inapte à l’expérimentation, réfractaire au #travail_collectif, etc.

    .. Drôle de tableau qui, a minima, dessine deux axes de réflexion. Le premier interroge les efforts déployés pour redéfinir positivement toutes sortes d’attributs psychiques dont on sait depuis longtemps qu’ils sont fortement délétères pour la #performance_intellectuelle : #dispersion, #zapping, #multitasking, impulsivité, impatience, etc. Le second questionne l’ubuesque acharnement mis en œuvre pour caricaturer et ringardiser les #générations_prédigitales. »

    « Les changements anatomiques [chez les gamers] dont se gaussent certains médias pourraient très bien poser, non les jalons d’un avenir intellectuel radieux, mais les bases d’un #désastre_comportemental à venir. »

    « les digital natives ou autres membres de je ne sais quelle confrérie des X, Y, Z, lol, zappiens ou C, n’existent pas. L’enfant mutant du numérique, que son aptitude à taquiner le #smartphone aurait transformé en omnipraticien génial des nouvelles technologies les + complexes que #Google Search aurait rendu infiniment plus curieux, agile et compétent que n’importe lequel de ses enseignants prédigitaux ; qui grâce aux jeux vidéo aurait vu son cerveau prendre force et volume ; qui grâce aux filtres de Snapchat ou Instagram aurait élevé sa créativité jusqu’aux + hauts sommets ; etc. ; cet enfant n’est qu’une légende. Il n’est nulle part dans la littérature scientifique. […] Ce qui est extraordinaire, c’est qu’une telle absurdité perdure contre vents et marées, &, en plus, contribue à orienter nos politiques publiques notamment dans le domaine éducatif. Car au-delà de ses aspects folkloriques, ce mythe n’est évidemment pas dénué d’arrière-pensées. Sur le plan domestique, d’abord, il rassure les parents en leur faisant croire que leurs rejetons sont de véritables génies du numérique et de la pensée complexe, même si, dans les faits, ces derniers ne savent utiliser que quelques (coûteuses) applications triviales.

    .. Sur le plan scolaire, ensuite, il permet, pour le plus grand bonheur d’une industrie florissante, de soutenir la numérisation forcenée du système et ce, malgré des performances pour le moins inquiétantes. »

    « Plus globalement, si un observateur ose s’alarmer du temps passé par les enfants devant les écrans de ttes sortes, la triste légion des tartufes conspue sans délai le fâcheux, arguant qu’il s’agit là d’une position « sexiste », représentant fondamentalement « un nouvel outil de #culpabilisation des mères » […] « pr nos néosuffragettes du droit à l’abrutissement, suggérer que les enfants passent bien trop de temps avec leurs écrans signifie juste, en dernière analyse, que « ns n’aimons pas les innovations qui rendent + faciles la vie des mères ».

    « Quand les adultes ont constamment le nez scotché sur leur mobile, les #interactions_précoces essentielles au #développement_de_l’enfant sont altérées. »

    « Une étude vous déplaît, trouvez-la alarmiste, idiote, dogmatique, moralisatrice, exagérée, excessive, biaisée, absurde, culpabilisante ou sexiste. Affirmez vaguement qu’on pourrait trouver d’autres recherches contradictoires tout aussi convaincantes (évidemment sans les citer).

    .. Criez aux heures noires de la prohibition, évoquez la censure, dénoncez les stratégies de la peur, beuglez votre haine de l’oppression culturelle. En désespoir de cause, caricaturez l’auteur, raillez sa #bêtise, faites-le passer pour un #crétin, un demeuré, un réactionnaire un triste sermonnaire ou un sombre élitiste. Tronquez, trompez, truquez. Mais, surtout, ne regardez jamais les faits, ne considérez jamais le cœur du travail discuté. Ce n’est pas si difficile. Avec un peu d’habitude, vous apprendrez aisément à masquer l’absolue vacuité de vos propos sous l’ombrage d’un humanisme paisible et rassurant. Une fois acquises les bases du job, vous parviendrez en quelques mots, avec la dextérité du virtuose illusionniste, à transformer la plus solide recherche en affligeante pitrerie. »

    L’explication de cette limite apparemment arbitraire des 3 ans ? « Cet âge semble constituer le seuil optimal à partir duquel inscrire efficacement dans les neurones des gosses la trace de la grenouille Budweiser, de la virgule Nike, de l’estampille Coca-Cola, du clown McDonald ou du mâle viril forcément fumeur. Selon une enquête du gpe Lagardère Publicité, dès 4 ans, + de 75 % des demandes d’achat émises par les enfants sont consécutives à une exposition publicitaire, pour un taux d’acceptation parental supérieur à 85 %. »

    « En disant, pas de télé avant 3 ans, on affiche sa bonne foi, sa probité et son indépendance. [et] en proscrivant la télé avant 3 ans, ce que l’on exprime vraiment, in fine, c’est l’idée selon laquelle l’exposition devient possible au-delà de cet âge »…

    « Avant 3 ans, petit humain n’est guère intéressant. Ce n’est qu’autour de cet âge qu’il devient une cible publicitaire pertinente et, de ce fait, une potentielle source de revenus pour les opérateurs. Peu importe alors que la télé ampute son développement. »

    « L’#industrie_audiovisuelle ne fut pas longue à réaliser le profit qu’elle pourrait tirer de cette césure. Elle accepta sans états d’âme d’abandonner le secondaire pr préserver l’essentiel. À travers ses relais experts & médiatiques elle opéra alors selon 2 axes complémentaires 1) en soutenant diligemment la condamnation des usages précoces (ce qui ne lui coûtait rien). 2) en se lançant dans une subtile (et efficace) campagne d’attiédissement des restrictions tardives. Ainsi, on ne parla plus d’une à 2 h par jour max, mais d’usages « excessifs ». »

    « La dernière étude en date montre, sans la moindre ambiguïté, que l’usage d’une #tablette « interactive » non seulement ne développe pas, mais altère lourdement le développement de la motricité manuelle fine chez des enfants d’âge préscolaire. »

    « Les recherches montrent que la tablette est, la plupart du temps, pour le jeune enfant, un écran « passif » servant à consommer des contenus audiovisuels dont on nous dit précisément qu’ils sont déconseillés (dessins animés, films, clips, etc.). »

    « Au-delà des variations de protocoles, de populations, d’approches et de méthodologies, le résultat n’a jamais varié : les contenus violents favorisent à court et long terme l’émergence de comportements agressifs chez l’enfant et l’adulte. »

    « Le lien empirique [entre contenus violents et agression] n’est donc plus à démontrer aujourd’hui, quoi qu’en disent les gamers et quelques démago-geeks qui caressent l’industrie du jeu violent dans le sens du poil. »

    « Les médias présentent souvent “les deux côtés” du débat associant violence médiatique et agression en appariant un chercheur avec un expert ou un porte-parole de l’industrie ou même un contradicteur universitaire, ce qui crée une fausse équivalence et la perception erronée que les travaux de recherches et le consensus scientifique font défaut. » Pourtant : « ds le NYT, le secr. géné. de l’Association de #psychologie déclarait que « les preuves sont écrasantes. Les contester revient à contester l’existence de la gravité ».

    Ce qui n’empêche pas « les bons petits soldats du numérique [de continuer], sous couvert d’expertise, à emplir l’espace collectif de leur affligeante #propagande. »

    « Les études qui ont mesuré l’exposition durant la petite enfance (avec ou sans analyse de contenus) ont démontré de manière constante que regarder la télévision est associé à des conséquences développementales négatives. Cela est observé pour l’attention, les performances éducatives, les fonctions exécutives et les productions langagières ». Autrement dit, pour les jeunes enfants, l’impact de la télévision n’est nullement complexe. Il est immuablement néfaste. Point. »

    « Prenez le lien entre #consommation_audiovisuelle précoce et déficits cognitifs tardifs. Même avec la meilleure volonté du monde, il semble diantrement difficile de rejeter l’hypothèse de causalité sachant, par exemple, que : (1) la présence d’une télé dans une maison effondre la fréquence, la durée et la qualité des interactions intrafamiliales ; (2) ces interactions sont fondamentales pour le #développement_cognitif du jeune enfant ; (3) certains outils statistiques reposant sur des protocoles dits « longitudinaux » ont permis d’établir la nature causale du lien observé, chez le jeune enfant, entre l’accroissement du temps d’écrans et l’émergence de retards développementaux. »

    « Il est aujourd’hui solidement établi que les écrans ont, sur la durée et la qualité de nos nuits, un impact profondément délétère. Certaines influences se révèlent relativement directes ; par ex, quand le sommeil est altéré, la mémorisation, les facultés d’apprentissage et le fonctionnement intellectuel diurne sont perturbés, ce qui érode mécaniquement la #performance_scolaire. Certaines influences s’avèrent plus indirectes ; par ex, quand le sommeil est altéré, le système immunitaire est affaibli, l’enfant risque davantage d’être malade et donc absent, ce qui contribue à augmenter les difficultés scolaires. Certaines influences émergent avec retard ; par ex, quand le sommeil est altéré, la maturation cérébrale est affectée, ce qui, à long terme, restreint le potentiel individuel (en particulier cognitif) et donc mécaniquement, le rendement scolaire. […] La plupart des influences sont multiples et il est évident que l’impact négatif des #écrans récréatifs sur la #réussite_scolaire ne repose pas exclusivement sur la détérioration du #sommeil. Ce dernier levier opère ses méfaits en synergie avec d’autres agents dont – nous y reviendrons largement – la baisse du temps consacré aux devoirs ou l’effondrement des #capacités_langagières et attentionnelles. Dans le même temps, cependant, il est clair aussi que l’influence négative des écrans récréatifs sur le sommeil agit bien au-delà du seul champ scolaire. Dormir convenablement se révèle essentiel pour abaisser le risque d’accident, réguler l’humeur et les émotions, sauvegarder la #santé, protéger le cerveau d’un #vieillissement_prématuré, etc. »

    « Ce qui ne s’est pas mis en place durant les âges précoces du développement en termes de langage, de #coordination_motrice, de prérequis mathématiques, d’#habitus_sociaux, de #gestion_émotionnelle, etc., s’avère de + en + coûteux à acquérir au fur et à mesure que le temps passe. »

    Les moins de 2 ans : « Les enfants de moins de deux ans consacrent, en moyenne, chaque jour, une cinquantaine de minutes aux écrans. […] La valeur paraît sans doute raisonnable de prime abord… elle ne l’est pas. Elle représente presque 10 % de la durée de veille de l’#enfant ; et 15 % de son temps « libre », c’est-à-dire du temps disponible une fois que l’on a retiré les activités « contraintes » telles que manger (sept fois par jour en moyenne avant 2 ans), s’habiller, se laver ou changer de couche. […] Cumulées sur 24 mois, ces minutes représentent plus de 600 heures. Cela équivaut à peu près aux trois quarts d’une année de maternelle ; ou, en matière de #langage, à 200 000 énoncés perdus, soit à peu près 850 000 mots non entendus. […] Pour le seul sous-groupe des usagers quotidiens, la moyenne de consommation s’établit à presque 90 mn. Autrement dit, plus d’1/3 des enfants de moins d’1 an ingurgitent 1 h 30 d’écrans par jour — […] principalement dans les milieux socioculturels les moins favorisés. […]

    .. En fonction des groupes étudiés, entre 1 h 30 et 3 h 30 d’usage journalier. Principale raison avancée par les #parents pour expliquer cette incroyable orgie : faire tenir les gamins tranquilles dans les lieux publics (65 %), pendant les courses (70 %) et/ou lors des tâches ménagères (58 %). Chaque jour, près de 90 % des enfants défavorisés regardent la #télévision ; 65 % utilisent des outils mobiles ; 15 % sont exposés à des consoles de jeux vidéo. En 4 ans, la proportion de bambins de - de 12 mois utilisant des écrans mobiles est passée de 40 à 92 %. »

    « La consommation numérique [Du 2-8 ans] : entre 2 et 4 ans, 2 h 45 par jour. […] Sur la dernière décennie, elles ont augmenté de plus de 30 %. Elles représentent quasiment 1/4 du temps normal de veille de l’enfant. Sur une année, leur poids cumulé dépasse allègrement 1 000 h. Cela veut dire qu’entre 2 et 8 ans un enfant « moyen » consacre aux écrans récréatifs l’équivalent de 7 années scolaires complètes ou 460 jours de vie éveillée (1,25 année), ou encore l’exacte quantité du temps de travail personnel requis pour devenir un solide violoniste. »

    « Durant la préadolescence [entre 8 et 12 ans], les enfants voient leur besoin de sommeil diminuer sensiblement. Chaque jour, ils gagnent naturellement entre 1 h 30 et 1 h 45 d’éveil. Cette « conquête », dans sa quasi-totalité, ils l’offrent à leurs babioles numériques.

    .. Ainsi, entre 8 et 12 ans, le temps d’écrans journalier grimpe à presque 4 h 40, contre 3 heures précédemment. […] Cumulé sur 1 an, cela fait 1 700 h, l’équivalent de deux années scolaires ou, si vous préférez, d’un an d’emploi salarié à plein-temps. »

    « Les préados issus de milieux défavorisés consacrent chaque jour presque 2 h de + aux écrans que leurs homologues + privilégiés. Pr sa + gde partie, cet écart provient d’un usage accru d’une part des contenus audiovisuels (+ 1h15) et d’autre part des réseaux sociaux (+ 30 mn). »

    « « Il existe une corrélation négative entre le bien-être socio-émotionnel et le temps consacré aux écrans ». Autrement dit, les préados & ados qui passent le moins de temps dans le monde merveilleux du cyber-divertissement sont aussi ceux qui se portent le mieux ! »

    .. Conclusion : nos gamins peuvent très bien se passer d’écrans ; cette abstinence ne compromet ni leur équilibre émotionnel ni leur intégration sociale. Bien au contraire ! »

    Les ados [13-18 ans] : « La consommation quotidienne de numérique atteint alors 6 h 40. […] Il équivaut à un quart de journée et 40 % du temps normal de veille. Cumulé sur un an, cela représente plus de 2 400 heures, 100 jours, 2,5 années scolaires ou encore la totalité du temps consacré de la sixième à la terminale, pour un élève de filière scientifique, à l’enseignement du français, des mathématiques et des Sciences de la Vie et de la Terre (SVT).

    .. Autrement dit, sur une simple année, les écrans absorbent autant de tps qu’il y a d’heures cumulées d’enseignement du français, des maths et des SVT durant tt le secondaire. Mais cela n’empêche pas les sempiternelles ruminations sur l’emploi du tps trop chargé des écoliers. »

    « Si vs voulez exalter l’exposition de votre progéniture au numérique, assurez-vs que le petit possède en propre smartphone/tablette et équipez sa chambre en tv/console. Cette attention pourrira son sommeil, sa santé et ses résultats scolaires, mais au moins vous aurez la paix. »

    « Pr être pleinement efficace à long terme, le cadre restrictif ne doit pas être perçu comme une punition arbitraire, mais comme une exigence positive. Il est important que l’enfant adhère à la démarche et en intériorise les bénéfices. Quand il demande pourquoi il n’a « pas le droit » alors que ses copains font « ce qu’ils veulent », il faut lui expliquer que les parents de ses copains n’ont peut-être pas suffisamment étudié la question ; lui dire que les écrans ont sur son cerveau, son intelligence, sa concentration, ses résultats scolaires sa santé, etc., des influences lourdement négatives ; et il faut lui préciser pourquoi : moins de sommeil ; moins de temps passé à des activités plus nourrissantes, dont lire, jouer d’un instrument de musique, faire du sport ou parler avec les autres ; moins de temps passé à faire ses devoirs ; etc. Mais tout cela, évidemment, n’est crédible que si l’on n’est pas soi-même constamment le nez sur un écran récréatif.

    .. Au pire, il faut alors essayer d’expliquer à l’enfant que ce qui est mauvais pour lui ne l’est pas forcément pour un adulte, parce que le cerveau de ce dernier est « achevé » alors que celui de l’enfant est encore « en train de se construire ». »

    « ÉTABLIR DES RÈGLES, ÇA MARCHE ! […] Et que se passe-t-il si l’on retire la télé ? Eh bien, même s’il déteste ça, l’enfant va se mettre à lire. Trop beau pour être vrai ? Même pas ! Plusieurs études récentes ont en effet montré que notre brave cerveau supportait très mal le désœuvrement. Il a ainsi été observé, par exemple, que 20 minutes passées à ne rien faire entraînaient un niveau de fatigue mental plus important que 20 minutes passées à réaliser une tâche complexe de manipulation des nombres. Dès lors, plutôt que de s’ennuyer, la majorité des gens préfère sauter sur la première occupation venue même si celle-ci s’avère a priori rébarbative ou, pire, consiste à s’infliger une série de chocs électriques douloureux. Cette puissance prescriptive du vide, la journaliste américaine Susan Maushart l’a observée de première main, le jour où elle a décidé de déconnecter ses trois zombies adolescents169. Privés de leurs gadgets électroniques, nos heureux élus commencèrent par se cabrer avant progressivement, de s’adapter et de se (re)mettre à lire, à jouer du saxo, à sortir le chien sur la plage, à faire la cuisine, à manger en famille, à parler avec maman, à dormir davantage, etc. ; bref, avant de se (re)mettre à vivre. »
    « Si les neurones se voient proposer une « nourriture » inadéquate en qualité et/ou quantité, ils ne peuvent « apprendre » de manière optimale ; et plus la carence s’étire dans le temps, plus elle devient difficile à combler. »

    « Les expériences précoces sont d’une importance primordiale. Cela ne veut pas dire que tt se joue avant 6 ans, comme le claironne abusivement le titre français d’un best-seller américain des années 1970. Mais cela signifie certainement que ce qui se joue entre 0 et 6 ans influence profondément la vie future de l’enfant. Au fond, dire cela, c’est affirmer un truisme. C’est stipuler que l’apprentissage ne sort pas du néant. Il procède de manière graduelle par transformation, combinaison et enrichissement des compétences déjà acquises. Dès lors, fragiliser l’établissement des armatures précoces, notamment durant les « périodes sensibles », c’est compromettre l’ensemble des déploiements tardifs. »

    PAS D’ÉCRAN AVANT (AU MOINS) 6 ANS ! « En 6 ans, au-delà d’un monceau de conventions sociales et abstraction faite des activités « facultatives » comme la danse, le tennis ou le violon, le petit humain apprend à s’asseoir à se tenir debout, à marcher, à courir, à maîtriser ses excrétions, à manger seul, à contrôler et coordonner ses mains (pour dessiner, faire ses lacets ou manipuler les objets), à parler, à penser, à maîtriser les bases de la numération et du code écrit, à discipliner ses déchaînements d’émotions & pulsions, etc. Ds ce contexte, chaque minute compte. […] Cela signifie “juste” qu’il faut le placer ds un environnement incitatif, où la “nourriture” nécessaire est généreusement accessible. Or, les écrans ne font pas partie de cet environnement. […] Plusieurs études, sur lesquelles nous reviendrons également, ont ainsi montré qu’il suffisait, chez le jeune enfant, d’une exposition quotidienne moyenne de 10 à 30 minutes pour provoquer des atteintes significatives dans les domaines sanitaire et intellectuel. […] Ce dont a besoin notre descendance pr bien grandir, ce n’est donc ni d’Apple, ni de Teletubbies ; c d’humain. Elle a besoin de mots, de sourires, de câlins. Elle a besoin d’expérimenter, de mobiliser son corps, de courir, de sauter, de toucher, de manipuler des formes riches. Elle a besoin de dormir, de rêver, de s’ennuyer, de jouer à « faire semblant ». Elle a besoin de regarder le monde qui l’entoure, d’interagir avec d’autres enfants. Elle a besoin d’apprendre à lire, à écrire, à compter, à penser. Au coeur de ce bouillonnement, les écrans sont un courant glaciaire. Non seulement ils volent au développement un temps précieux & posent les fondations des hyperusages ultérieurs, mais en + ils déstructurent nombre d’apprentissages fondamentaux liés, par ex., à l’attention. »

    « En compilant les résultats obtenus, on observe que nombre de problèmes émergent dès la première heure quotidienne. En d’autres termes, pour tous les âges postérieurs à la prime enfance, les écrans récréatifs (de toutes natures : télé, jeux vidéo, tablettes, etc.) ont des impacts nuisibles mesurables dès 60 minutes d’usage journalier. Sont concernés, par exemple, les relations intrafamiliales, la réussite scolaire, la concentration, l’obésité, le sommeil, le développement du système cardio-vasculaire ou l’espérance de vie. […] Au-delà de la prime enfance, toute consommation d’écrans récréatifs supérieure à une heure quotidienne entraîne des préjudices quantitativement détectables et peut donc être considérée comme excessive. »

    De l’importance primordiale, autrement dit, de « maintenir en deçà de 30 (borne prudente) à 60 (borne tolérante) minutes l’exposition quotidienne aux écrans récréatifs des individus de 6 ans et plus.

    .. Précisons […] : un enfant qui ne consommerait aucun écran récréatif les jours d’école et regarderait un dessin animé ou jouerait aux jeux vidéo pendant 90 minutes les mercredis et samedis resterait largement dans les clous… »

    « Les écrans sapent l’intelligence, perturbent le développement du cerveau, abîment la santé, favorisent l’obésité, désagrègent le sommeil, etc. […] À partir de la littérature scientifique disponible, on peut formuler deux recommandations formelles :

    .. (1) pas d’écrans récréatifs avant 6 ans (voire 7 ans si l’on inclut l’année charnière de cours préparatoire) ; (2) au-delà de 6 ans, pas plus de 60 minutes quotidiennes, tous usages cumulés (voire 30 minutes si l’on privilégie une lecture prudente des données disponibles). »

    « Des heures passées principalement à consommer des flux audiovisuels (films, #séries, clips, etc.), à jouer aux jeux vidéo et, pour les plus grands, à palabrer sur les réseaux sociaux à coups de lol, like, tweet, yolo, post et selfies. Des heures arides, dépourvues de fertilité développementale. Des heures anéanties qui ne se rattraperont plus une fois refermées les grandes périodes de plasticité cérébrale propres à l’enfance et à l’adolescence. »

    « La #littérature_scientifique démontre de façon claire et convergente un effet délétère significatif des écrans domestiques sur la réussite scolaire : indépendamment du sexe, de l’âge, du milieu d’origine et/ou des protocoles d’analyses, la durée de consommation se révèle associée de manière négative à la #performance_académique. »

    « Le smartphone (littéralement « téléphone intelligent ») nous suit partout, sans faiblesse ni répit. Il est le graal des suceurs de cerveaux, l’ultime cheval de Troie de notre décérébration. Plus ses applications deviennent « intelligentes », plus elles se substituent à notre réflexion et plus elles nous permettent de devenir idiots. Déjà elles choisissent nos restaurants, trient les informations qui nous sont accessibles, sélectionnent les publicités qui nous sont envoyées, déterminent les routes qu’il nous faut emprunter, proposent des réponses automatiques à certaines de nos interrogations verbales et aux courriels qui nous sont envoyés, domestiquent nos enfants dès le plus jeune âge, etc. Encore un effort et elles finiront par vraiment penser à notre place. »

    « L’impact négatif de l’usage du smartphone s’exprime avec clarté sur la réussite scolaire : plus la consommation augmente, plus les résultats chutent. »

    Y compris en « filières d’excellence. Les études de médecine en offrent une bonne illustration. En France, le concours d’entrée admet, en moyenne, 18 candidats sur 100. À ce niveau d’exigence le smartphone devient rapidement un #handicap insurmontable. Prenez, par exemple, un étudiant non équipé qui se classerait 240e sur 2 000 et réussirait son concours. 2 h quotidiennes de smartphone le conduiraient à une 400e place éliminatoire. »

    Même chose s’agissant des réseaux sociaux : « Là encore, les résultats sont aussi cohérents qu’opiniâtrement négatifs. Plus les élèves (#adolescents et #étudiants principalement) consacrent de temps à ces outils, plus les performances scolaires s’étiolent. »

    Et les usages numériques à l’école : « En pratique, évidemment, personne ne conteste le fait que certains outils numériques peuvent faciliter le travail de l’élève. Ceux qui ont connu les temps anciens de la recherche scientifique, savent mieux que quiconque l’apport “technique” de la récente révolution digitale. Mais, justement, par définition, les outils et logiciels qui nous rendent la vie plus facile retirent de facto au cerveau une partie de ses substrats nourriciers. Plus nous abandonnons à la machine une part importante de nos activités cognitives et moins nos neurones trouvent matière à se structurer, s’organiser et se câbler. Dans ce contexte, il devient essentiel de séparer l’expert et l’apprenant au sens où ce qui est utile au premier peut s’avérer nocif pour le second. »

    « « Malgré des investissements considérables en ordinateurs, connexions internet et logiciels éducatifs, il y a peu de preuves solides montrant qu’un usage accru des ordinateurs par les élèves conduit à de meilleurs scores en #mathématiques et #lecture. » En parcourant le texte, on apprend que, après prise en compte des disparités économiques entre États & du niveau de performance initiale des élèves, “les pays qui ont moins investi dans l’introduction des ordinateurs à l’école ont progressé + vite, en moyenne, que les pays ayant investi davantage”. »

    Des chercheurs « se sont demandés si l’usage de logiciels éducatifs à l’école primaire (lecture, mathématiques) avait un effet sur la performance des élèves. Résultat : bien que tous les enseignants aient été formés à l’utilisation de ces logiciels, de manière satisfaisante selon leurs propres dires, aucune influence positive sur les élèves ne put être détectée. »

    « #Bill_Joy, cofondateur de #Sun_Microsystem et programmeur de génie, concluant comme suit une discussion sur les vertus pédagogiques du numérique : « Tout cela […] ressemble à une gigantesque perte de temps…

    .. Si j’étais en compétition avec les États-Unis, j’adorerais que les étudiants avec lesquels je suis en compétition passent leur temps avec ce genre de merde. »

    « L’introduction du #numérique dans les classes est avant tout une source de distraction pour les élèves. »

    « Dans une recherche réalisée à l’université du Vermont (États-Unis), pour un cours de 1 h 15, le temps volé par les activités distractives atteignait 42 %. »

    « Les résultats se révélèrent sans appel : tout dérivatif numérique (SMS, #réseaux_sociaux, #courriels, etc.) se traduit par une baisse significative du niveau de compréhension et de mémorisation des éléments présentés. »

    « De manière intéressante, une étude comparable avait précédemment montré que l’usage de l’ordinateur se révélait délétère même lorsqu’il servait à accéder à des contenus académiques liés à la leçon en cours. »

    « Bien sûr, ce qui est vrai pour l’#ordinateur l’est aussi pour le smartphone. Ainsi, dans un autre travail représentatif de la littérature existante, les auteurs ont établi que les étudiants qui échangeaient des SMS pendant un cours comprenaient et retenaient moins bien le contenu de ce dernier. Soumis à un test final, ils affichaient 60 % de bonnes réponses, contre 80 % pour les sujets d’un groupe contrôle non distrait. Une étude antérieure avait d’ailleurs indiqué qu’il n’était même pas nécessaire de répondre aux messages reçus pour être perturbé. Il suffit, pour altérer la prise d’information, qu’un #téléphone sonne dans la salle (ou vibre dans notre poche). »

    "Pourquoi une telle frénésie ? Pourquoi une telle ardeur à vouloir digitaliser le système scolaire, depuis la maternelle jusqu’à l’université, alors que les résultats s’affirment aussi peu convaincants ? [… Parce que] « si l’on diminue les dépenses de fonctionnement, il faut veiller à ne pas diminuer la quantité de service, quitte à ce que la qualité baisse. On peut réduire, par exemple, les crédits de fonctionnement aux écoles ou aux universités, mais il serait dangereux de restreindre le nombre d’élèves ou d’étudiants. Les familles réagiront violemment à un refus d’inscription de leurs enfants, mais non à une baisse graduelle de la qualité de l’enseignement ». C’est exactement ce qui se passe avec l’actuelle numérisation du système scolaire. En effet, alors que les premieres études n’avaient globalement montré aucune influence probante de cette dernière sur la réussite des élèves, les données les plus récentes, issues notamment du #programme_PISA, révèlent un fort impact négatif. Curieusement, rien n’est fait pour stopper ou ralentir le processus, bien au contraire. Il n’existe qu’une explication rationnelle à cette absurdité. Elle est d’ordre économique : en substituant, de manière plus ou moins partielle, le numérique à l’humain il est possible, à terme, d’envisager une belle réduction des coûts d’enseignement. […] "« Le monde ne possède qu’une fraction des enseignants dont il a besoin ». Car le cœur du problème est bien là. Avec la massification de l’enseignement, trouver des professeurs qualifiés se révèle de plus en plus compliqué, surtout si l’on considère les questions de rémunération. Pour résoudre l’équation, difficile d’envisager meilleure solution que la fameuse « révolution numérique ». […] Le « professeur » devient alors une sorte de passe-plat anthropomorphe dont l’activité se résume, pour l’essentiel, à indiquer aux élèves leur programme numérique quotidien tout en s’assurant que nos braves digital natives restent à peu près tranquilles sur leurs sièges. Il est évidemment facile de continuer à nommer « enseignants » de simples « gardes-chiourmes 2.0 », sous-qualifiés et sous-payés ; et ce faisant, d’abaisser les coûts de fonctionnement sans risquer une révolution parentale. […] [en Floride], les autorités administratives se sont révélées incapables de recruter suffisamment d’enseignants pour répondre à une contrainte législative limitant le nombre d’élèves par classe (vingt-cinq au #lycée). Elles ont donc décidé de créer des classes digitales, sans professeurs. Ds ce cadre, les élèves apprennent seuls, face à un ordinateur, avec pour unique support humain un « facilitateur » dont le rôle se limite à régler les petits problèmes techniques et à s’assurer que les élèves travaillent effectivement. Une approche « criminelle » selon un enseignant, mais une approche « nécessaire » aux dires des autorités scolaires. […] 95 % du budget de l’Éducation nationale passe en salaires ! »

    Conclusion :

    1) « Plus les élèves regardent la télévision, plus ils jouent aux jeux vidéo, plus ils utilisent leur smartphone, plus ils sont actifs sur les réseaux sociaux & plus leurs notes s’effondrent. Même l’ordinateur domestique, dont on nous vante sans fin la puissance éducative, n’exerce aucune action positive sur la performance scolaire.

    2) Plus les États investissent dans les « technologies de l’information et de la communication pour l’enseignement » (les fameuses TICE), plus la performance des élèves chute. En parallèle, plus les élèves passent de temps avec ces technologies et plus leurs notes baissent.

    3) le numérique est avant tout un moyen de résorber l’ampleur des dépenses éducatives. […]

    4) Pour faire passer la pilule et éviter les fureurs parentales, il faut habiller l’affaire d’un élégant verbiage pédagogiste. Il faut transformer le cautère digital en une « révolution éducative », un « tsunami didactique » réalisé, évidemment, aux seuls profits des élèves. Il faut camoufler la paupérisation intellectuelle du corps enseignant et encenser la mutation des vieux dinosaures prédigitaux en pétillants (au choix !) guides, médiateurs, facilitateurs, metteurs en scène ou passeurs de savoir. Il faut masquer l’impact catastrophique de cette « révolution » sur la perpétuation et le creusement des inégalités sociales. Enfin, il faut éluder la réalité des usages essentiellement distractifs que les élèves font de ces outils. »

    « Si l’usage des écrans affecte aussi lourdement la réussite scolaire, c évidemment parce que leur action s’étend bien au-delà de la simple sphère académique. Les notes sont alors le symptôme d’une meurtrissure + large, aveuglément infligée aux piliers cardinaux de notre dévéloppement. Ce qui est ici frappé, c’est l’essence même de l’édifice humain en développement : langage + #concentration + #mémoire + QI + #sociabilité + #contrôle_des_émotions. Une agression silencieuse menée sans états d’âme ni tempérance, pr le profit de qqs-uns au détriment de presque tous. »

    « Le #cerveau_humain s’avère, quel que soit son âge, bien moins sensible à une représentation vidéo qu’à une présence humaine effective. C’est pr cette raison, notamment, que la puissance pédagogique d’un être de chair et d’os surpasse aussi irrévocablement celle de la machine. »

    « Pr favoriser le développement d’un enfant, mieux vaut accorder du tps aux interactions humaines : [...] l’une des méthodes les + efficaces pr améliorer le dév. de l’enfant passe par les interactions de haute qualité entre l’adulte et l’enfant, sans la distraction des écrans. »

    « Le temps total d’interaction volé par 60 mn quotidiennes de télé sur les 12 premières années de vie d’un enfant s’élève à 2 500 heures. Cela représente 156 journées de veille, presque 3 années scolaires et 18 mois d’emploi salarié à temps complet...

    .. Pas vraiment une paille, surtout si l’on rapporte ces données à des consommations non plus de une, mais de 2 ou 3 heures quotidiennes. Et, à ce désastre, il faut encore ajouter l’altération relationnelle engendrée par les expositions d’arrière-plan. »

    « La consommation d’écrans interfère fortement avec le développement du langage. Par ex., chez des enfants de 18 mois, il a été montré que chaque 1/2 h quotidienne supplémentaire passée avec un appareil mobile multipliait par 2,5 la probabilité d’observer des retards de langage. De la même manière, chez des enfants de 24 à 30 mois, il a été rapporté que le risque de #déficit_langagier augmentait proportionnellement à la durée d’exposition télévisuelle. Ainsi, par rapport aux petits consommateurs (moins de 1 heure par jour), les usagers modérés (1 à 2 heures par jour), moyens (2 à 3 heures par jour) et importants (plus de 3 heures par jour) multipliaient leur probabilité de retard dans l’acquisition du langage respectivement par 1,45, 2,75 et 3,05. [...] Le risque de déficit était quadruplé, chez des enfants de 15 à 48 mois, qd la consommation dépassait 2 h quotidiennes. Ce quadruplement se transformait même en sextuplement lorsque ces enfants avaient été initiés aux joies du petit écran avant 12 mois (sans considération de durée). »

    Plus augmente la consommation d’écrans et plus l’#intelligence_langagière diminue. « Notons que le lien alors identifié était comparable, par son ampleur, à l’association observée entre niveau d’intoxication au plomb (un puissant perturbateur endocrinien) et QI verbal [...] si vous détestez [le] marmot de vos horribles voisins & que vous rêvez de lui pourrir la vie [...], inutile de mettre du plomb ds sa gourde. Offrez-lui plutôt une télé/tablette/console de jeux. L’impact cognitif sera tout aussi dévastateur pr un risque judiciaire nul. »

    « Le jour où l’on substituera le numérique à l’humain, ce n’est plus 30 mois (comme actuellement) mais 10 ans qu’il faudra à nos enfants pour atteindre un volume lexical de 750 à 1 000 mots. »

    « Au-delà d’un socle fondamental, oralement construit au cours des premiers âges de la vie, c’est dans les livres et seulement dans les livres que l’enfant va pouvoir enrichir et développer pleinement son langage. »

    .. [...] « Chaque heure quotidienne de jeux vidéo entraînait un affaissement de 30 % du temps passé à lire seul. Des éléments qui expliquent, au moins pour partie, l’impact négatif des écrans récréatifs sur l’acquisition du code écrit ; impact qui compromet lui-même, en retour le déploiement du langage. Tout est alors en place pr que se développe une boucle pernicieuse auto-entretenue : comme il est moins confronté à l’écrit, l’enfant a + de mal à apprendre à lire ; comme il a + de mal à lire, il a tendance à éviter l’écrit et donc à lire moins ; comme il lit moins, ses compétences langagières ne se développent pas au niveau escompté et il a de plus en plus de mal à affronter les attendus de son âge. Remarquable illustration du célèbre "#effet_Matthieu". »

    Attention – « Chaque heure quotidienne passée devant le petit écran lorsque l’enfant était à l’école primaire augmente de presque 50 % la probabilité d’apparition de troubles majeurs de l’attention au collège. Un résultat identique fut rapporté dans un travail subséquent montrant que le fait de passer quotidiennement entre 1 et 3 heures devant la télévision à 14 ans multipliait par 1,4 le risque d’observer des difficultés attentionnelles à 16 ans. Au-delà de 3 heures, on atteignait un quasi-triplement. Des chiffres inquiétants au regard d’un résultat complémentaire montrant que l’existence de troubles de l’attention à 16 ans quadruplait presque le risque d’échec scolaire à 22 ans. »

    Un travail « du service marketing de #Microsoft, curieusement rendu public, [explique] que les capacités d’attention de notre belle humanité n’ont cessé de se dégrader depuis 15 ans [pour atteindre] aujourd’hui un plus bas historique : inférieures à celles du… poisson rouge. Cette altération serait directement liée au développement des technologies numériques. Ainsi, selon les termes du document, "les modes de vie digitaux affectent la capacité à rester concentré sur des périodes de temps prolongées". »

    « Sean Parker, ancien président de Facebook, admettait d’ailleurs que les réseaux sociaux avaient été pensés, en toute lucidité, pour "exploiter une vulnérabilité de la psychologie humaine". Pour notre homme, "le truc qui motive les gens qui ont créé ces réseaux c’est : “Comment consommer le maximum de votre temps et de vos capacités d’attention” ?" Ds ce contexte, pour vous garder captif, "il faut vous libérer un peu de dopamine, de façon suffisamment régulière. D’où le like ou le commentaire que vous recevez sur une photo, une publication. Cela va vous pousser à contribuer de plus en plus et donc à recevoir de plus en plus de commentaires et de likes, etc. C’est une forme de boucle sans fin de jugement par le nombre". Un discours que l’on retrouve quasiment mot pour mot chez Chamath Palihapitiya, ancien vice-président de Facebook (questions de croissance & d’audience). La conclusion de ce cadre repenti (qui déclare se sentir "immensément coupable") est sans appel : "Je peux contrôler ce que font mes enfants, et ils ne sont pas autorisés à utiliser cette merde !" »

    Conclusion – « Les écrans sapent les trois piliers les plus essentiels du développement de l’enfant.
    – 1) les interactions humaines. [...] Pour le développement, l’écran est une fournaise quand l’humain est une forge.

    – 2) le langage. [...] en altérant le volume et la qualité des échanges verbaux précoces. Ensuite, en entravant l’entrée dans le monde de l’écrit.

    – 3) la concentration. [...] Ds qqs dizaines ou centaines de milliers d’années, les choses auront peut-être changé, si notre brillante espèce n’a pas, d’ici là, disparu de la planète. En attendant, c’est à un véritable #saccage_intellectuel que nous sommes en train d’assister. »
    « La liste des champs touchés paraît sans fin : #obésité, #comportement_alimentaire (#anorexie/#boulimie), #tabagisme, #alcoolisme, #toxicomanie, #violence, #sexualité non protégée, dépression, sédentarité, etc. [...] : les écrans sont parmi les pires faiseurs de maladies de notre temps »

    Manque de sommeil : « c’est l’intégrité de l’individu tout entier qui se trouve ébranlée dans ses dimensions cognitives, émotionnelles et sanitaires les plus cardinales. Au fond, le message porté par l’énorme champ de recherches disponible sur le sujet peut se résumer de manière assez simple : un humain (enfant, adolescent ou adulte) qui ne dort pas bien et/ou pas assez ne peut fonctionner correctement. »
    « Le sommeil est la clé de voûte de notre intégrité émotionnelle, sanitaire et cognitive. C’est particulièrement vrai chez l’enfant et l’adolescent, lorsque le corps et le cerveau se développent activement. »

    Il est possible d’améliorer (ou de dégrader) « très significativement [le fonctionnement de l’individu] en allongeant (ou en raccourcissant) de 30 à 60 mn les nuits de notre progéniture. »

    « L’organisme peut se passer d’#Instagram, #Facebook, #Netflix ou GTA ; il ne peut pas se priver d’un sommeil optimal, ou tt du moins pas sans csquences majeures. Perturber une fonction aussi vitale pr satisfaire des distractions à ce point subalternes relève de la folie furieuse. »

    « Aux États-Unis, l’#espérance_de_vie augmenterait de presque un an et demi si la consommation télévisuelle moyenne passait sous la barre des 2 h quotidiennes. Un résultat comparable fut rapporté par une équipe australienne, mais à rebours. Les auteurs montrèrent en effet que la sédentarité télévisuelle amputait de quasiment deux ans l’espérance de vie des habitants de ce pays. Formulé différemment, cela veut dire "[qu’]en moyenne, chaque heure passée à regarder la télévision après 25 ans réduit l’espérance de vie du spectateur de 21,8 mn". En d’autres termes, publicité comprise, chaque épisode de Mad Men, Dr House ou Game of Thrones enlève presque 22 minutes à votre existence. »

    Conclusion | « La consommation d’#écran_récréatif a un impact très négatif sur la santé de nos enfants et adolescents. Trois leviers se révèlent alors particulièrement délétères.
    – 1) les écrans affectent lourdement le sommeil – pilier essentiel, pour ne pas dire vital, du développement.

    – 2) Les écrans augmentent fortement le degré de sédentarité tt en diminuant significativement le niveau d’#activité_physique. Or, pr évoluer de manière optimale et pour rester en bonne santé, l’organisme a besoin d’être abondamment & activement sollicité. Rester assis nous tue !

    – 3) Les contenus dits « à risque » (sexuels, tabagiques, alcooliques, alimentaires, violents, etc.) saturent l’espace numérique. Aucun support n’est épargné. Or, pour l’enfant et l’adolescent, ces contenus sont d’importants prescripteurs de normes (souvent inconsciemment). »

    « Ce que nous faisons subir à nos enfants est inexcusable. Jamais sans doute, dans l’histoire de l’humanité, une telle expérience de décérébration n’avait été conduite à aussi grande échelle. 
    7 règles essentielles :

    1) AVANT 6 ANS, pas d’écrans (du tout)
    2) APRÈS 6 ANS, pas + de 30 mn à 1 h par jour (tout compris)
    3) pas dans la chambre
    4) pas de contenus inadaptés
    5) pas le matin avant l’école
    6) pas le soir avant de dormir
    7) une chose à la fois.

    #éducation_nationale

  • EU mulls more police powers for west Africa missions

    The EU wants to further prop up anti-terror efforts at its overseas civilian missions in places like #Niger.

    Although such missions already seek to counter terrorism, the latest proposal (framed as a “mini-concept” by the EU’s foreign policy branch, the #European_External_Action_Service, #EEAS), entails giving them so-called “semi-executive functions.”

    Such functions includes direct support to the authorities by helping them carry out investigations, as well as aiding dedicated units to prosecute and detain suspected terrorist offenders.

    The concept paper, drafted over the summer, points towards a European Union that is willing to work hand-in-glove with corrupt and rights-abusing governments when it comes to issues dealing security and migration.

    This includes getting EU missions to seal cooperation deals between EU member state intelligence and security services with the host governments.

    And although the paper highlights the importances of human rights and gender equality, the terms are couched in policy language that clearly aims to boost policing in the countries.

    From helping them develop systems to collect biometric data to preserving and sharing “evidence derived from the battlefield”, the 14-page paper specifically cites the EU missions in Niger, Mali, Somalia, Libya, Iraq and Kosovo as prime examples.

    In Niger, the EU recently handed its mission a €72m budget and extended its mandate until September 2024.

    That budget includes training staff to drive armoured vehicles and piloting drones.

    Another EU internal document on Niger, also from over the summer, describes its mission there as “the main actor in the coordination of international support to Niger in the field of security.”

    It says Niger’s capacity to fight terrorism, organised crime and irregular migration has improved as a direct result of the mission’s intervention.

    The country was given €380m in EU funding spread over 2014 to 2020.

    In Mali, the EU mission there already supports the country’s dedicated units to intervene and investigate terror-related cases.

    But it had also temporarily suspended in April the operational training of formed units of the Malian armed forces and National Guard.
    Clash with Wagner in Mali

    The suspension followed reports that EU security trained forces in Mali were being co-opted by the Kremlin-linked Russian mercenary group Wagner, which was also operating in the Central African Republic.

    Mali has since withdrawn from the G5 Sahel, an anti-jihad grouping of countries in the region currently composed of Niger, Burkina, Mauritania, and Chad.

    And an internal EU paper from May posed the question of whether Malian authorities even want to cooperate with the EU mission.

    The EU’s mission there was also recently extended until 2024 with a €133.7m purse.

    The EU’s mini-concept paper on fighting terrorism, follows another idea on using specialised teams at the missions to also tackle migration.

    Part of those plans also aims to give the missions “semi-executive functions”, enabling them to provide direct support to police and carry out joint investigations on migration related issues.

    https://euobserver.com/world/156143

    #sécurité #migrations #asile #réfugiés #EU #UE #Union_européenne #externalisation #anti-terrorisme (toujours la même rhétorique) #Mali #mini-concept #semi-executive_functions #services_secrets #coopération #biométrie #données #collecte_de_données #Somalie #Libye #Kosovo #Irak #drones #complexe_militaro-industriel #G5_Sahel #budget #coût #police #collaboration

    ping @rhoumour @isskein @_kg_

  • Des colonies à l’Empire fasciste. La conquête de l’Afrique racontée aux enfants italiens

    En Italie, la conquête et la colonisation de l’Afrique se sont inscrites dans la #littérature pour l’enfance au fur et à mesure de l’occupation des territoires, en correspondance avec l’évolution idéologique qui l’accompagna. Dans les dernières décennies du XIXe siècle, lorsque l’Italie libérale entreprend l’occupation de la #corne_de_l’Afrique, en Érythrée puis en #Somalie, la colonisation trouve quelques échos dans les romans de #Salgari. On trouve aussi des textes qui célèbrent l’#héroïsme des soldats tombés au combat en affrontant des indigènes barbares et cruels, et d’autres qui critiquent la politique coloniale de l’État. Au début du XXe siècle, les ambitions coloniales semblent avoir été mises entre parenthèses ; des #romans africains d’aventures, écrits sur le mode de la #parodie, tournent en ridicule les Africains pour faire rire les plus petits. Ensuite la guerre de Libye (1911-1912) marque un tournant, et dans les ouvrages publiés au moment de la campagne perce la nouvelle idéologie nationaliste. Après la Grande Guerre, le fascisme au pouvoir veut créer la « conscience coloniale » des Italiens, en y associant la littérature pour l’enfance. Lors de la guerre d’Éthiopie paraissent de nombreux #contes et #romans qui racontent la #campagne_militaire sous diverses formes fictionnelles, allant du conte au roman. Cette production présentera la conquête éthiopienne comme une #aventure enthousiasmante pour les enfants italiens, et la colonisation comme un immense bienfait pour les enfants indigènes.

    https://journals.openedition.org/strenae/322

    #impérialisme #Italie #colonialisme_italien #Italie_coloniale #histoire #colonialisme #colonisation #Italie #Erythrée #nationalisme #littérature_pour_enfants

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  • L’émigration italienne en #Afrique_orientale

    La question migratoire eut des effets sur la #politique_coloniale italienne à partir de la fin du xixe siècle. L’Italie projeta de créer un empire où une part considérable des populations métropolitaines pourraient être envoyées. Mais la défaite d’Adoua face aux Éthiopiens en 1896 mit fin à ce rêve. En outre l’Érythrée comme la Somalie n’étaient pas en mesure d’accueillir autant d’immigrants européens. De plus, très peu de choses furent faites pour développer les infrastructures et l’économie des colonies. Seuls quelques milliers d’Italiens vécurent en Afrique orientale jusqu’en 1935.
    La situation se transforma radicalement lorsque Mussolini conquit l’Éthiopie. Le Duce rêvait de créer une nouvelle Italie en Afrique, où pourrait être expérimentée une société totalitaire inédite, conforme aux préceptes fascistes. L’Éthiopie aurait été peuplée par des centaines de milliers d’Italiens, qui par leur labeur auraient fait croître l’agriculture et le reste de l’économie. La #colonisation_fasciste s’inspirait de l’ancienne colonisation romaine. Un des problèmes les plus sérieux fut le développement des villes, notamment en raison de ses imbrications avec la politique démographique et raciale du régime fasciste.

    https://www.cairn.info/revue-annales-de-demographie-historique-2007-1-page-59.htm

    #émigration #migrations #migrants_italiens #colonialisme #Corne_de_l'Afrique #colonisation #fascisme #Erythrée #Somalie #Ethiopie #impérialisme #agriculture #économie #politique_démographique #politique_raciale

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  • #Colonia_per_maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere

    Quella degli italiani che combatterono o lavorarono nelle colonie africane del fascismo è una storia poco e mal conosciuta. Questo libro intende fornire un contributo di conoscenza sui comportamenti e i sentimenti di quanti, militari o civili, furono coinvolti nella colonizzazione dell’Etiopia (1935-41). Attraverso lo studio di memorie e diari inediti, ma anche della propaganda e della letteratura coloniale coeva, il volume indaga sul significato del colonialismo per gli italiani in termini di identità maschile, sia sul piano dell’esperienza vissuta che su quello dell’immaginario e della rappresentazione, pubblica e privata. Partendo dall’ipotesi della conquista coloniale come «terapia» per arginare la «degenerazione» del maschio e, in questa chiave, dal mito dell’Africa come luogo di frontiera e «paradiso dei sensi», il saggio intreccia l’analisi dei modelli maschili e delle politiche coloniali del fascismo con la ricostruzione delle esperienze quotidiane e delle percezioni di sé degli italiani. In particolare, sulla scia di molti studi coloniali stranieri focalizzati sulle variabili di genere e razza, l’analisi si sofferma sulla sfera dei complessi e multiformi contatti con gli uomini e le donne della società locale. Ne emerge un quadro articolato e contraddittorio, un complesso di relazioni tra colonizzatori e colonizzati sicuramente caratterizzato da gerarchie e razzismo, ma anche da rapporti amicali, erotici e omoerotici, paternalistici e, talora, paterni.
    Come scrive Luisa Passerini nella prefazione, questo libro è un «contributo originale [...] a un tema di grande rilevanza, che permette di comprendere meglio sia la complessità del passato recente della nazione sia le difficoltà di fare i conti con il suo retaggio coloniale».

    http://www.ombrecorte.it/vecchio/more.asp?id=129&tipo=documenta

    #colonialisme #colonisation #Italie_coloniale #colonialisme_italien #genre #femmes #livre #masculinité #identité_masculine

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    • La conquête de l’Éthiopie et le rêve d’une #sexualité sur ordonnance (1), par Marie-Anne Matard-Bonucci.

      PARTIE 1

      Le 9 mai 1936, à Rome, dans un discours retransmis par des milliers de haut-parleurs dans toute l’Italie, Mussolini annonce la conquête de l’Éthiopie. Du Palais de Venise où il est acclamé par une foule en liesse, le Duce prétend donner au monde une leçon de civilisation, célébrant le combat de l’Italie contre « l’arbitraire cruel », « l’esclavage millénaire » et la victoire de la justice sur la barbarie. La veille, dans un climat analogue, le Duce s’est adressé aux organisations féminines du régime, et a remercié les femmes d’avoir soutenu l’héroïsme de leurs frères, fils et maris en résistant aux sanctions décrétées par la Société des Nations1. Quelques mois plus tôt pour la journée de la « Foi », des cohortes de femmes avaient offert leur alliance, le don de l’anneau nuptial symbolisant l’engagement de toute la nation dans l’aventure coloniale.

      Cette communion des genres sur l’autel de l’impérialisme fasciste ne doit pas masquer que la guerre d’Éthiopie fut un pic d’exaltation de la virilité par un régime qui l’avait élevée à des sommets jamais atteints2. « Rappelez-vous que la passion des colonies est la plus masculine, la plus fière et la plus puissante qu’un Italien puisse nourrir ; aimez-les plus encore pour les sacrifices qu’elles nous ont coûtés et qu’elles nous coûteront que pour les richesses qu’elles pourront nous apporter. Préparez-vous à mesurer dans les colonies votre force de dominateur et votre pouvoir de condottiere » exhortait le maréchal Rodolfo Graziani, devenu vice-Roi d’Éthiopie en juin 19363. Guerre coloniale et fasciste, le conflit éthiopien fut pensé comme un temps fort dans la stratégie destinée à créer un « homme nouveau fasciste »4. Soldats et colons étaient invités par le Duce, le maréchal Graziani et les élites fascistes à se comporter en peuple dominateur et impitoyable. Tous les moyens furent bons pour écraser un adversaire aussi mal équipé que déterminé : emploi de gaz asphyxiants, bombardements, massacres de civils, anéantissement des élites5. L’Éthiopie fut le théâtre d’une violence extrême. Soldats et hiérarques expérimentèrent l’hubris guerrière, comme aux meilleurs temps du squadrisme, l’infériorité présumée des indigènes autorisant une cruauté particulière. Dans son journal, l’intellectuel et hiérarque fasciste Giuseppe Bottai déplorait des épisodes de barbarie dont s’étaient principalement rendus coupables des officiers et dirigeants : « Le mouton des classes moyennes devient un petit lion, confondant l’héroïsme et la cruauté »6. Starace, le secrétaire national du parti fasciste, n’avait pas hésité à donner l’exemple, se livrant à des exercices de tir sur des prisonniers tandis que des soldats prenaient la pose près de cadavres ou brandissaint des restes humains comme des trophées.

      En dépit de discours affichant un humanisme à l’italienne, les autorités fascistes ne réprimèrent pas ces pratiques barbares des combattants, jugeant plus important de modifier les comportements sur un autre terrain : celui de la sexualité. Quelques mois après le début des hostilités, les relations des Italiens avec les femmes éthiopiennes devinrent, aux yeux des élites fascistes, une véritable « question » politique et une bataille prioritaire du régime.

      Les Éthiopiennes, obscurs objets de désir

      Préparée par plusieurs décennies d’idéologie nationaliste, la conquête de l’Éthiopie avait suscité de nombreuses attentes au sein de la population italienne. Au désir des plus démunis d’accéder à la propriété foncière s’ajoutaient des motivations plus complexes où se mêlaient confusément, comme dans d’autres contextes coloniaux, exotisme et érotisme. La beauté légendaire des femmes de la région n’était pas pour rien dans l’attrait de cet Eldorado, l’espoir de les posséder apparaissant aussi légitime que la prétention à s’emparer des terres.
      Photographies d’Éthiopiennes forcément dénudées, comme dans la plupart des représentations des femmes africaines jusqu’aux années Trente, romans populaires publicités et chansons avaient aussi contribué, avant et pendant la conquête, à répandre le stéréotype de créatures à la sensualité exacerbée, offertes au plaisir de l’homme blanc7. Dans l’Italie puritaine qui n’autorisait la nudité que dans l’art, les poitrines des Éthiopiennes nourrissaient tous les fantasmes. « Les Italiens avaient hâte de partir. L’Abyssinie, à leurs yeux, apparaissait comme une forêt de superbes mamelles à portée de main » se souvient Léo Longanesi8. Pendant la guerre, de nombreux dessins humoristiques véhiculés par la presse ou des cartes postales opposaient l’image d’un peuple d’hommes arriérés et sauvages et de femmes séduisantes et avenantes9. Dans un registre qui se voulait humoristique, le dessinateur Enrico De Seta, sur une carte intitulée « Bureau de poste », montrait un soldat devant un guichet postal. Il s’apprêtait à expédier un curieux colis : une femme abyssine empaquetée dans une couverture, dont dépassaient la tête et les pieds10 !

      En 1935, la chanson Faccetta Nera, (Petite frimousse noire) avait accompagné les troupes en campagne. Composée d’abord en dialecte romain, la chanson était devenue très populaire dans sa version italienne11. Les paroles étaient à l’image des sentiments complexes des colonisateurs à l’égard des femmes africaines : volonté de possession et de domination, promesse de libération et de civilisation, désir et fascination. « Facetta Nera, Belle abyssine, attends et espère, l’heure est prochaine. Quand nous serons près de toi nous te donnerons une autre loi et un autre roi. Notre loi est esclavage d’amour, notre slogan est liberté et devoir etc. »12.

      L’imaginaire des romanciers ou chansonniers n’était pas sans rapport avec une certaine réalité des rapports hommes femmes en Éthiopie. Tandis qu’en Italie les interdits pesant sur la sexualité des femmes étaient encore très forts, l’Éthiopie offrait aux femmes, surtout aux Amharas, une liberté plus grande, les relations hors mariage n’étant pas frappées d’opprobre comme dans les sociétés catholiques européennes. Non seulement le concubinage était une pratique qui n’était pas réprouvée par l’entourage – le mariage dämòs permettait aux femmes une forme d’union contractuelle temporaire- mais il pouvait s’inscrire, comme l’ont révélé des travaux récents, du point de vue des Éthiopiennes, dans le cadre d’une stratégie d’élévation sociale, voire d’émancipation13. La pratique du madamismo était répandue, en Somalie et en Érythrée, y compris parmi les fonctionnaires et militaires de haut grade14. En Érythrée, le fonctionnaire Alberto Pollera, pour convaincu qu’il fût des bienfaits de la colonisation, et en dépit de ses responsabilités, n’en avaient pas moins six enfants de deux femmes érythréennes15. Comme l’écrit Giulia Barrera : « The madamato was a set of relationships grounded in the material basis of colonialism and shaped by colonial discourse but it was lived out by concrete individuals : by men who participated in very different ways in the colonial enterprise and by women who were note merely passive victims »16.

      Pour les 300 000 pionniers et soldats présents après la conquête, certains subirent, effectivement, le « doux esclavage » mentionné par la chanson. Même quand la fascination n’était pas au rendez-vous, le concubinage s’imposait presque par défaut, représentant « la véritable institution des rapports sexuels sous le colonialisme »17. En dépit de la propagande visant à les attirer, bien peu de femmes de métropole avaient accepté de s’installer sur place, craignant l’insécurité ou des conditions de vie précaire. Peu après la conquête, un navire de 2000 épouses et fiancées fut appareillé à destination de l’Empire18. En 1938, 10 000 Italiennes avaient accepté de participer à l’aventure coloniale, dont la moitié dans la capitale de l’Empire. Le régime avait également cherché à installer des prostituées blanches recrutées dans la péninsule mais, là encore, l’offre était restée largement inférieure à la demande19. Les hommes continuaient de fréquenter assidûment les sciarmute, les prostituées indigènes, que les autorités s’efforçaient contrôler. Parmi les 1500 femmes autorisées à faire le commerce du sexe à Addis Abeba, et contrôlées lors de visites médicales, les autorités distinguaient trois catégories, identifiables à la couleur d’un petit drapeau affiché sur leur tucul, l’habitation traditionnelle : jaune pour les officiers, verte pour les soldats et travailleurs, noir pour les troupes coloniales. Cette prostitution encadrée et hiérarchisée ne couvrait pas davantage les besoins et certains responsables militaires s’indignaient des longues files d’attente devant les bordels indigènes. Restaient enfin les prostituées occasionnelles ou clandestines, présentes sur l’ensemble du territoire.

      Entre l’exploitation sexuelle des indigènes et la chasteté existait toute une gradation de comportements. Le concubinage fut l’un d’entre-eux qui présentait, avant d’être placé hors la loi, de nombreux avantages pour les colons. Avant la conquête de l’Éthiopie, dans les colonies italiennes d’Afrique noire, Somalie et Érythrée, il était fréquent que des fonctionnaires de l’administration coloniale ou des militaires vivent avec des femmes africaines. Les compagnes des Italiens étaient nommées les madame et le concubinage le madamismo. Ces unions donnaient souvent lieu à la naissance d’enfants métis qui eurent la possibilité, à partir de 1933, en vertu de la « Loi organique pour l’Érythrée et la Somalie » d’obtenir la nationalité italienne20. En Érythrée, en 1935, on comptait 1000 métis sur une population de 3500 Italiens21. Pour les colons, la mise en ménage avec des Éthiopiennes, résultait de motivations diverses, parfois concomitantes, qui n’excluaient pas le sentiment amoureux : disposer d’une compagne pour partager le quotidien et les tâches ménagères, disposer d’une partenaire sexuelle stable et plus sûre que des prostituées. Le journaliste Indro Montanelli, enrôlé comme volontaire en Éthiopie à l’âge de 23 ans, fut nommé à la tête d’un bataillon d’indigènes Érythréens. Il dit avoir « acheté » à son père pour 500 lires, une jeune fille de douze ans. Pratique répréhensible en métropole mais diffusée dans les colonies, celle-ci était justifiée en ces termes : « mais à douze ans [en Afrique] les jeunes filles sont déjà des femmes ». À son départ, il revendit la jeune fille « petit animal docile » à un officier de haut rang, lequel disposait déjà d’un « petit harem »22 Selon son témoignage, la jeune fille était musulmane.

      Avant que le racisme ne devînt doctrine officielle du fascisme, les points de vue sur les unions mixtes étaient partagés. Lidio Cipriani s’alarmait du métissage alors que les démographes Corrado Gini ou Domenico Simonelli y voyait une opportunité de régénération des populations européennes et, pour le second, un facteur de peuplement pour les colonies23. Dans la presse coloniale, les unions mixtes n’étaient pas encore dénoncées24. En février 1936, dans l’Illustrazione coloniale, Lorenzo Ratto opposait l’attitude raciste des colonisateurs britanniques à la tradition « romaine » de fraternisation avec les populations vaincues. Réprouvant le métissage avec les « nègres », il admettait les unions mixtes avec les Éthiopiennes, racialement supérieures : « les plus belles filles de race sémitico-éthiopiennes, facilement sélectionnables sur les plateaux éthiopiens pourront être choisies par les pionniers du Génie militaire rural pour faire partie de nos colonies en tant qu’épouses légitimes (…) »25.

      Texte paru in D. Herzog, Brutality and desire. War and Sexuality in Europe’s Twentieth Century, Palgrave Macmillan, 2008.

      Pour aller plus loin :

      La guerre d’Éthiopie, un inconscient italien, par Olivier Favier. Sur le mausolée au maréchal Graziani à Affile (août 2012), la naissance d’une littérature italophone et postcoloniale et le documentaire de Luca Guadagnino, Inconscio italiano (2011). Voir aussi : L’Italie et ses crimes : un mausolée pour Graziani, par Olivier Favier.
      Mémoire littéraire, mémoire historique, entretien croisé avec Aldo Zargani et Marie-Anne Matard-Bonucci, par Olivier Favier.
      Le fascisme, Auschwitz et Berlusconi, par Marie-Anne Matard Bonucci, Le Monde, 11 février 2013. Marie-Anne Matard-Bonucci est professeure d’histoire contemporaine à Paris VIII, Institut Universitaire de France. Elle est également l’auteure de L’Italie fasciste et la persécution des juifs, Paris, Puf, 2012.

      « Éloge des femmes italiennes » discours prononcé le 8 mai 1936, in B. Mussolini, Édition définitive des œuvres de B. Mussolini, ed. Flammarion, vol. XI, 1938, p. 69-71. [↩]
      Voir G. L. Mosse, L’image de l’homme. L’invention de la virilité moderne, Pocket, Agora, p. 179-203. B., Spackman, Fascist Virilities : Rhetoric, Ideology, and Social Fantasy in Italy, University of Minnesota Press, 1996. [↩]
      Cité par F. Le Houérou, L’épopée des soldats de Mussolini en Abyssinie. 1936-1938. Les ensablés, L’Harmattan, 1994, p. 50. [↩]
      M.-A. Matard-Bonucci, P. Milza, L’Homme nouveau entre dictature et totalitarisme, Fayard, 2004. [↩]
      A. Sbacchi, Legacy of Bitterness. Ethiopia end fascist Italy, 1935-1941, The Read Sea Press, 1997. Voir en particulier le chapitre 3, “Poison gas and atrocities in the Italo-Ethiopian War, 1935-1936”, p. 55-85. A. Del Boca (dir.) , I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Roma, Editori riuniti, 1996. G. Rochat, « L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia 1936-1937 », in Italia contemporanea, 1975, n. 118, pp. 3-38. Plus généralement, voir l’œuvre considérable d’A. Del Boca, de R. Pankhurst. Voir aussi A. Mockler, Haile Selassie’s war : The Italian Ethiopian campaign, 1936-41, Oxford University Press, 1984, rééd. Grafton Books, 1987. [↩]
      G. Bottai, Diario 1935-1944, Ed . Bur, 2001, p. 102, note du 16 mai 1936. [↩]
      Sur la littérature coloniale : G. Tomasello, La letteratura coloniale italiana dalle avanguardie al fascismo, Palerme, Sellerio, 1984. R. Bonavita, « Lo sguardo dall’alto. Le forme della razzizzazione nei romanzi coloniali nella narrativa esotica », in La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Grafis, Bologne, 1994, p. 53-62. [↩]
      Cité par A. Petacco, Faccetta nera, Mondadori, ed. 2008, p. 191. [↩]
      Voir les vignettes reproduites dans le catalogue La Menzogna della Razza, p. 156-157. Sur l’iconographie coloniale : A. Mignemi., Immagine coordinata per un impero, GEF, 1984, Novara. G. Campassi, M.-Teresa Sega, « Uomo bianco, donna nera. L’immagine della donna nella fotografia coloniale » in Rivista di storia e teoria della fotografia, vol. 4, n° 5, 1983, p. 54-62. [↩]
      L. Goglia, « Le cartoline illustrate italiane della guerra etiopica 1935-1936 : il negro nemico selvaggio e il trionfo della civiltà di Rome » dans le catalogue de l’exposition La menzogna della Razza, cit. p. 27-40. L’image décrite est située dans le catalogue, à la p. 175. [↩]
      S. Pivato, Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, GLF, Editori Laterza, Bari-Laterza, 2007, p. 161-162. [↩]
      Le texte de la chanson est publié par A. Petacco, op. cit., p. 189-190. [↩]
      Après avoir été ignorée dans leur dimension raciste et sexiste, les relations hommes-femmes ont été analysées en privilégiant la clef de lecture de l’oppression coloniale puis du genre. Voir G. Campassi, « Il madamato in Africa orientale : relazioni tra italiani e indigene come forma di agressione coloniale » in Miscellanea di storia delle esplorazioni, Genova, 1987, p. 219-260. Giulia Barrera, dans une étude pionnière, se place du point de vue des femmes érythréennes livrant une vision plus complexe des rapports de genre dans ce contexte : G. Barrera, Dangerous Liaisons, Colonial Concubinage in Eritrea, 1890-1941, PAS Working Paper, Program of african Studies, Northwestern University, Evanston Illinois, USA, 1996. [↩]
      Carlo Rossetti « Razze e religioni nei territori dell’Impero », L’impero (A.O.I). Studi e documenti raccolti e ordinati da T. Sillani, Rome, La Rassegna italiana, XVI, p. 76. L’auteur était le chef du Bureau des études du Ministère de l’Afrique italienne. [↩]
      B. Sorgoni, Etnografia e colonialismo. L’Eritrea e l’Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939, Torino, Bollato Boringhieri, 2001. [↩]
      G. Barrera, Ibid., p. 6. [↩]
      Voir A. Gauthier, “Femmes et colonialisme” in M. Ferro (dir.), Le livre noir du colonialisme. XVIe-XXIe siècle : de l’extermination à la repentance, Poche, Pluriel, Hachette, 2006, p. 759-811. La citation est à la p. 802. Voir également A.-L. Stoler, Carnal Knowledge and Imperial Power : Race and the Intimate in Colonial Rule, Berkeley : University of California press, 2002. [↩]
      Article de Carlo Rossetti, Capo dell’Ufficio studi del Ministero dell’Africa italiana, « Razze e religioni eni territori dell’Impero », in L’impero (A.O.I). Studi e documenti raccolti e ordinati da T. Sillani, La Rassegna italiana, XVI, p. 76. [↩]
      Sur la prostitution, A. Del Boca, La caduta cit. p. 244-245. Pankhurst, R. « The history of prostitution in Ethiopia », Journal of Ethiopian Studies, 12, n° 2, p. 159-178. [↩]
      À condition, disait le texte de loi, que les intéressés « se montrent dignes de la nationalité italienne par leur éducation, culture et niveau de vie ». Loi du 6 juillet 1933, n° 999. [↩]
      Chiffre cité par A. Del Boca, op. cit., p. 248. [↩]
      Le témoignage de I. Montanelli est cité par E. Biagi in 1935 e dintorni, Mondadori, 1982, 58-61. [↩]
      Sur C. Gini, M.-A. Matard-Bonucci, L’Italie fasciste op. cit., p. 74-75. D. Simonelli, La demografia dei meticci, 1929. [↩]
      Avant la guerre d’Éthiopie, on ne trouve pas de textes dénonçant les méfaits du métissage dans la presse coloniale. Voir le mémoire de maîtrise inédit de F. Marfoli, La vision des Éthiopiens sous le fascisme : étude de quatre revues coloniales italiennes, dir. O. Dumoulin, Université de Rouen, sept-oct 2001. [↩]
      Illustrazione coloniale, Fev. 1936, n.2, « Metodo romano per colonizzare l’Etiopia ». [↩]

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      PARTIE 2
      La conquête de l’Éthiopie et le rêve d’une sexualité sur ordonnance (2), par Marie-Anne Matard-Bonucci.

      Le spectre du #métissage

      La proclamation de l’Empire représenta un tournant dans l’histoire du racisme et de la doctrine fasciste. Jusque-là, la domination des Italiens sur les populations coloniales s’était traduite par un racisme colonial assez banal. En Libye, aucune législation sur le métissage n’avait été adoptée et les Arabes étaient autorisés à fréquenter les bordels des Européens. À une économie propre au racisme qui valorisait les populations arabes par rapport aux habitants d’Afrique noire s’ajoutaient des facteurs objectifs limitant les risques de procréation des couples mixtes : les femmes italiennes y étaient plus nombreuses et les mariages « à court terme » n’existaient pas1.

      Dans la radicalisation raciste de l’été 1936, il est difficile de savoir si la question sexuelle fit office de catalyseur ou servit de révélateur. Mussolini était ulcéré depuis longtemps par l’idée même des couples mixtes. En avril 1934, il avait exigé de retirer de la circulation le roman Amour noir : « Il s’agit des amours d’un Italien avec une négresse. Inadmissible de la part d’une nation qui veut créer un Empire »2. Deux jours après la proclamation de l’Empire, le chef du gouvernement ordonna à Badoglio et Graziani de n’autoriser aucun Italien civil ou militaire à rester plus de six mois sans femme en Éthiopie pour prévenir « les terribles et prévisibles effets du métissage »3. Échafaudant de grands projets d’expansion économique pour l’Empire, Mussolini avait expliqué, à la même époque, au baron Aloisi, chef de cabinet du Ministère des affaires étrangères, son intention d’y envoyer « beaucoup d’Italiens, mais avec l’obligation d’emmener leurs femmes, car il faut absolument éviter le danger d’une race de métis qui deviendraient nos pires ennemis »4. En juin 1936, Facetta Nera tomba en disgrâce peu après avoir subi les assauts du journaliste à succès, Paolo Monelli. Dans un article intitulé « Donne e buoi dei paesi tuoi », et peut-être écrit sur ordonnance, il mettait au défi l’auteur de la chanson de partager quelques jours de l’existence d’une « facetta nera », « une de ces abyssines crasseuses, à la puanteur ancestrale qui puent le beurre rance qui dégouline à petites gouttes dans le cou ; détruites dès l’âge de vingt ans par une tradition séculaire de servage amoureux et rendues froides et inertes dans les bras de l’homme ; pour une beauté au visage noble cent ont les yeux chassieux, les traits durs et masculins, la peau variolée »5. La plume haineuse vitupérait le romantisme à l’eau de rose de la chanson et dénonçait l’incitation à fréquenter les « petites négresses puantes », qui conduisait au métissage et au « délit contre la race ». En rupture avec le climat de badinage et de libertinage qui avait accompagné la conquête de l’Éthiopie, l’article était en phase avec l’évolution idéologique de l’époque. En novembre 1936, devant le Grand Conseil du fascisme Mussolini affirma la nécessité « d’affronter le problème racial et de l’introduire dans la littérature et la doctrine fascistes »6.

      À cette date, la constitution d’un corpus de littérature et de propagande raciste était en bonne voie. Depuis plusieurs mois, le roman d’aventure de la conquête coloniale occupait les pages des journaux. À partir de mai 1936, s’insinua bientôt la figure d’épouvante du métis, en métropole comme dans les colonies, dans les feuilles fascistes comme dans la presse dite d’information7. Non seulement le métissage portait atteinte au prestige de la race mais le métis était présenté tantôt comme un délinquant en puissance, tantôt comme un malheureux. Un haut fonctionnaire du Ministère de l’Afrique italienne brossait un tableau assez sombre : « On a assez vu, en Érythrée et en Somalie, des officiers et fonctionnaires, parfois de grade élevé, vivre maritalement avec des femmes indigènes donnant naissance à une catégorie d’infortunés ; leur paternité italienne n’empêchait pas, une fois le père rentré en métropole, et si les missionnaires n’intervenaient pas, qu’il vive son adolescence dans le milieu de la race maternelle. Ces malheureux étaient évités par les Blancs et méprisés par les Indigènes8.

      Pour la bataille de la race on fit appel à des racistes patentés tels Lidio Cipriani, lequel agitaient depuis le début des années Trente l’épouvantail du métissage entre races supérieures et inférieures9. Ses multiples expéditions « du Cap au Caire » l’avaient imposé comme spécialiste des populations africaines, par des reportages dans des journaux grand public et dans l’Illustrazione italiana10. En 1937, il devint le directeur de l’Institut et du musée d’anthropologie de Florence, l’un des plus renommés d’Italie. Il s’imposa comme l’un des acteurs de premier plan de la croisade contre le métissage jouant un rôle important dans la principale revue du racisme militant, La Difesa della razza, lancée à l’été 193811. Il mit à la disposition de la revue ses collections de photographies des populations africaines12.

      La Difesa della Razza excella dans l’invention de procédés de photomontages destinée à matérialiser visuellement le métissage. Un quart des couvertures interpellait les lecteurs sur ce thème. L’une d’entre elles montrait l’addition d’un faciès de femme blanche et d’homme noir dont il résultait un masque grotesque. Une autre accolait une tête de blanche et d’Africain : de cet étrange Janus, surgissait une tête de mort édentée. Deux mains, l’une blanche, l’autre noire s’enlaçaient laissant choir une fleur fanée. Plus classique, la couverture de mai 1940, mettait en présence une Ève africaine offrant le fruit défendu à un « aryen ». Un cactus, au premier plan signalait, une fois encore, le danger de la fusion des races13.Le Parti fasciste suscita sa propre littérature sur le sujet. En 1939, parut Le problème des métis sous l’égide de l’institut fasciste de l’Afrique italiennes14. « Dieu a créé les blancs, le diable les mulâtres » pouvait-on lire en exergue15. En Afrique, le Parti fasciste fit campagne pour changer les mentalités. Guido Cortese, secrétaire du faisceau d’Addis Abeba, interprétait fidèlement le nouveau cours politique16 : « Le folklore, celui des nus, des pleines lunes, des longues caravanes et des couchers de soleil ardents, des amours folles avec l’indigène humble et fidèle, tout cela représente des choses dépassées, qui relèvent du roman de troisième ordre. Il serait temps de détruire tout de suite les romans, illustrations et chansonnettes de ce genre afin d’éviter qu’ils donnent naissance à une mentalité tout autre que fasciste ».

      Réformer les pratiques sexuelles des Italiens dans l’Empire

      Le 19 avril 1937, un décret-loi fut adopté pour sanctionner les rapports « de nature conjugale » entre citoyens italiens et sujets de l’Empire, passibles de un à cinq ans de prison17. La loi frappait les Italiens seuls et non les sujets de l’Empire – une situation qui serait bientôt considérée comme injuste par certains fascistes qui réclameraient un durcissement de la loi18. Avec les mesures pour la défense de la race qui installèrent l’antisémitisme d’État à l’automne 1938, la question était affrontée dans le cadre de la partition entre citoyens, ou non, de race italienne. Les juifs, comme les sujets de l’Empire, n’appartenaient pas à la race italienne. Dans ce cadre, les mariages entre individus de race différente étaient interdits : même si elle s’appliquait à l’Empire, la loi visait principalement les unions mixtes impliquant des juifs, très fréquentes, alors que celles-ci prolongeaient rarissimement une situation de madamismo.

      Dans l’Empire les troupes d’occupation et les colons pouvaient continuer à fréquenter les maisons closes et les très nombreuses prostituées africaines, les sciarmute19. En juin 1939, une nouvelle loi précisait et aggravait la précédente, la répression des couples mixtes et du métissage s’intégrant dans un texte plus large de défense du prestige de la race20. Tout délit, quel qu’il fût, était passible d’une peine plus lourde (un quart à un tiers) s’il y avait atteinte au prestige de la race italienne, ou lorsqu’il était commis en présence d’un indigène ou en complicité avec celui-ci. La loi reconduisait les dispositions de 1937 sanctionnant les relations de nature conjugale entre Italiens et sujets de l’Empire mais une disposition nouvelle marquait le franchissement d’un seuil dans la lutte contre le métissage. L’article 11, « Inchiesta relativa ai meticci » invitait les Procureurs à diligenter une enquête, en présence d’un enfant métis, probablement conçu après l’entrée en vigueur de la loi d’avril 1937. Le texte annonçait (art 20, Meticci) des dispositions à venir concernant la position des métis dans l’Empire. En mai 1940, de nouvelles dispositions assimilaient les métis à des sujets africains, interdisant aux pères italiens de les reconnaître. À l’instar des mesures antisémites, les lois coloniales ignoraient le statut de métis, par crainte sans doute que l’invention d’une catégorie juridique n’installe durablement le phénomène.

      La répression s’exerça de plusieurs façons. Plusieurs officiers furent rapatriés en métropole et parfois radiés des cadres de l’armée21. S’agissant des civils, il incombait à la police et à la justice de mettre un terme à des agissements qualifiés par le Duce de « scandaleux » et de « criminels ». Une « police » du madamismo était habilitée à distribuer des « billets jaunes » de mise en garde22.

      Plusieurs procès furent attentés à des Italiens pour réprimer le délit de madamismo23. Un premier jugement fut rendu en septembre 1937. Plusieurs dizaines d’autres procès suivirent devant les tribunaux d’Addis Abeba, Asmara, Gondar, Harar. Le nombre de procès peut sembler anecdotique en regard d’un phénomène qui concernait plusieurs milliers d’individus. Mais les textes des décisions de justice sont cependant riches d’enseignements quant à la façon dont les juges interprétaient la loi. La difficulté consistait dans l’établissement du délit, avec ce que cela supposait d’atteintes à la vie privée des individus. Confronté à un premier procès pour madamismo, en novembre 1938, le Tribunal de Gondar admettait la difficulté à juger en regard du caractère récent de la jurisprudence constituée. Il résumait efficacement la ligne de conduite suivie par les juges dans la plupart des procès : « Compte-tenu des jugements rendus par les autres Tribunaux de l’Empire, ce Tribunal entend diriger l’enquête vers la recherche des preuves matérielles telle que la vie commune menée pendant un certain temps et caractérisée par des rapports sexuels réitérés ; il s’agit aussi de déceler, sur le plan moral ou psychique, les éléments attestant d’un lien spirituel particulier qui ressemble d’une façon ou d’une autre à notre affectio maritalis24. À l’évidence, le fait d’avoir des relations sexuelles avec des Africaines n’était pas en cause. Plusieurs sentences laissaient transparaître la compréhension des juges à l’égard des « besoins sexuels » des expatriés, de la nécessité d’un « défoulement physiologique ». Les rapports sexuels occasionnels avec une domestique dès lors qu’elle ne vivait pas sous le même toit n’étaient pas condamnés25.

      Le sexe était toléré avec les indigènes pourvu qu’il fût dénué de tout affect. Dans une affaire de madamismo, les juges de Gondar estimaient que l’accusé -que son attachement manifeste à la femme accablait- n’aurait pas été coupable « s’il s’était servi de la femme seulement comme prostituée en lui payant le prix d’accouplements occasionnels puis en la congédiant après avoir satisfait ses besoins sexuels »26. En dépit de l’affichage d’un tel cynisme, certains juges prétendaient imposer une morale dans le commerce sexuel entre homme blancs et femmes noires, s’indignant parfois des pratiques de certains colons27. Deux Italiens furent ainsi condamnés pour atteinte au prestige de la race, pour avoir partagé une seule chambre à coucher avec deux Éthiopiennes. « Sans nul doute, l’acte sexuel accompli en présence de tiers offense la pudeur et dénote une pudeur inférieure à celle qui existe chez les peuples civilisés, et en particulier au sein du peuple italien du fait de la conjonction heureuse des principes du fascisme et des enseignements moraux du catholicisme. Cela est d’autant plus répréhensible si l’on tient compte de la réserve notoire des femmes indigènes en matière de sexualité. »28

      Comment statuer sur l’existence de rapports sexuels dès lors qu’ils n’étaient plus « de simples échanges destinés à assouvir une pulsion physique »29. Comment établir la réalité d’une relation de nature conjugale ? La cohabitation prolongée constituait donc une présomption importante qui ne fut pas toujours considérée comme suffisante pour l’établissement des faits. Le caractère passionnel de certaines relations était considéré comme preuve de culpabilité. Quelques procès avaient été motivés par des plaintes de femmes contre la violence dont elles avaient été victimes30. La violence contre les femmes n’intéressait pas les juges en tant que telle mais en ce qu’elle révélait une dépendance affective des accusés, en proie à la jalousie. Plusieurs affaires trahissaient le manque de confiance des Italiens à l’égard de leurs compagnes31. Les recommandations de fidélité sexuelle étaient prises pour l’aveu d’une affection coupable. Les cadeaux étaient considérés comme des indices à charge : le caractère utilitaire de certains présents pouvait être plaidé mais ceux qui n’étaient manifestement destinés qu’à faire plaisir, enfonçaient les accusés32. Tous les éléments « à charge » étaient réunis dans une affaire jugée en septembre 1939. Une Africaine avait été embauchée pour 150 lires par mois comme domestique par un homme dont elle partageait le couvert et la couche. L’homme était subjugué par cette femme au point de vanter ses qualités dans son entourage, de lui offrir des parfums. Il était allé la rechercher quand elle l’avait abandonné pour épouser un « homme de sa race ». Pour les juges, la culpabilité était flagrante : « Cohabitation, table commune, confiance et tendresse, jalousie réciproque, cadeaux de coquetterie et non utilitaires font de la petite servante une compagne de vie, ce qu’est justement l’épouse »33. Les marques de tendresse ou d’attention particulière à l’égard des indigènes étaient particulièrement suspectes : raccompagner une femme chez elle le soir, la désigner comme sa femme34, lui rendre visite lorsqu’elle était malade35.

      « L’affection », la passion qualifiée parfois « d’enivrement » étaient en revanche répréhensibles. Le mot « amour » n’était jamais employé, tant les juges considéraient cette éventualité comme improbable ou inconvenante. En janvier 1939, un homme fut condamné à un an et demi de prison pour madamismo. Facteur aggravant, l’homme avait avoué aimer la femme indigène36. Il avait admis lui avoir fait des cadeaux, à elle et à sa mère. Espérant fonder un foyer, il avait préparé une lettre au Roi pour demander à l’épouser. Les juges diagnostiquaient un cas « macroscopique d’ensablement »37, « car ici, le blanc ne désire pas simplement la Vénus noire en la tenant à ses côtés pour des raisons de tranquillité et pour bénéficier de rapports faciles et sûrs mais c’est l’âme de cet Italien qui est troublée ; il est entièrement dévoué à la jeune noire qu’il veut élever au rang de compagne de sa vie et qu’il associe à tous les évènements, y compris hors sexualité, de sa vie38. »

      La lutte contre le métissage inaugura bien, sur le plan juridique, la mise en œuvre d’un racisme biologique fondé sur le principe de la pureté du sang. En ce sens, elle marquait un changement radical dans les conceptions qui avaient prévalu jusque-là en matière de citoyenneté et d’identité, dans l’Empire comme en métropole. Toutefois, ces mesures furent adoptées pour répondre à une question de gouvernance coloniale locale : il n’était pas encore question d’une politique globale de la race -à aucun moment, des mesures analogues ne furent envisagées pour prévenir les métissages arabo-italiens en Libye, autre importante colonie de peuplement italienne- ni de mesures visant les juifs39.

      La partie qui se jouait en Éthiopie concernait autant l’Italie que la corne de l’Afrique. Le front pionnier de l’Empire ramenait sur le devant de la scène les projets de révolution anthropologique et de construction de l’homme nouveau et les difficultés à les mettre en œuvre.

      Sexe, race et totalitarisme fasciste.

      Une fois l’Empire proclamé, le rêve colonial et l’utopie fasciste de l’homme nouveau se trouvèrent en contradiction, non sur le terrain de la violence mais sur celui de la sexualité. Objets de désir, d’abord instrumentalisées par la propagande, les « Vénus noires » furent bientôt diabolisées, leur fréquentation n’étant autorisée que dans le cadre d’une relation proscrivant tout affect. En organisant la prostitution en terre coloniale, le fascisme heurtait la morale en usage dans la péninsule, suscitait la réprobation du Vatican, mais se comportait comme la plupart des puissances coloniales confrontées à la demande sexuelle des troupes en campagne40.

      En revanche, en menant la lutte contre le madamismo à un niveau d’État, le fascisme se singularisait par une démarche fusionnant racisme et totalitarisme, la doctrine de la race venant au secours du projet de révolution anthropologique du régime. D’un côté, en traquant le concubinage des Italiens et des Africaines, les responsables fascistes cherchaient à prévenir le métissage au nom de conceptions racistes qui n’étaient guère originales en contexte colonial41. Mais le régime pourchassait aussi d’autres démons, les défauts supposés d’un peuple que le Duce voulait transformer : le sentimentalisme, un certain humanisme et des comportements jugés aux antipodes de la virilité fasciste.

      Dans la métropole, la volonté d’orienter les comportements affectifs et sexuels était à l’œuvre depuis plusieurs années. La famille et la procréation devaient borner l’horizon amoureux des Italiens. Dans cette perspective, l’homosexualité -masculine seulement- fut réprimée par le code pénal de 1931. En décembre 1926 une taxe sur le célibat fut adoptée, les célibataires ne cessant par la suite d’être montrés du doigt et pénalisés, par exemple dans leur carrière lorsqu’ils étaient fonctionnaires. Paolo Orano intellectuel proche du pouvoir assimilait le célibat à une forme « de fuoruscitismo » civil et social42.

      S’agissant du couple, il n’était guère besoin de légiférer sur les rapports hommes femmes tant la domination des premiers allait de soi. Toutefois, certains fascistes rêvaient aussi de marquer les relations amoureuses au sceau du totalitarisme fasciste. Dès 1915, le nationaliste Giovanni Papini, l’une des sources d’inspiration du fascisme, recommandait dans Maschilità de se libérer de la famille, du romantisme et de l’amour, opposant les femmes et hommes, le miel et la pierre, et dénonçant l’amour comme un asservissement43. Pour un régime qui érigeait la famille en absolu et qui s’appuyait sur l’Église pour gouverner, il semblait difficile, après 1922, de souscrire à la totalité de ce programme. Paolo Orano proposait une voie de compromis étant entendu que sous le fascisme, « L’État entre avec méthode et énergie au cœur de la moralité individuelle et domestique, car il est le maître de la vie sociale ». Il convenait de se libérer de l’idée bourgeoise suivant laquelle l’amour devait précéder le mariage et en finir avec les illusions romantiques et égoïstes de l’amour comme fin en soi. Le couple devenait une forme d’association tendue vers la procréation dont l’amour était une conséquence et non un préalable44.

      Cette philosophie des rapports homme femme inspira la politique fasciste en Éthiopie. L’éloignement, de plus fortes contraintes pour les hommes dans un contexte de guerre puis d’occupation permettaient, en théorie, de contrôler plus efficacement les comportements amoureux. Dans l’économie licite des pratiques sexuelles deux solutions s’offraient aux soldats colons fascistes, célibataires par force : la chasteté, le colonisateur cédant la place à une forme de moine soldat, ou la pratique d’une sexualité déconnectée de tout sentiment.

      Ceux qui firent le premier choix furent une minorité. Certains hommes mariés mirent un point d’honneur à résister à la tentation du sexe qui « était au cœur de toutes les préoccupations »45. Brandissant l’étendard de la fidélité au mariage, ils justifiaient l’obligation de chasteté et la frustration sexuelle par la morale, les valeurs du catholicisme, la loi fasciste et une répulsion d’ordre raciste46. Laissant femme et enfants dans la péninsule, Nicola Gattari était venu en Éthiopie comme soldat et y était resté pour se faire une situation, comme patron de camion. Dans certaines lettres adressées à sa femme bien-aimée, il abordait ce sujet délicat47 « Je suis un homme jeune plein de désirs mais qui peut les satisfaire ? Ces femmes noires puantes auprès de qui des milliers d’hommes de tous les âges contractent des infections ? Non, ma chérie, ton Nicola reviendra comme il est parti, je te le jure (…) Pense à nos retrouvailles, comme notre étreinte sera belle ! » Répondant à son épouse qui lui avait demandé, sans trop y croire, s’il était tombé amoureux d’une petite noire, il réaffirmait sa constance : … « Oui, je passerai peut-être pour un imbécile par rapport à d’autres et je dois admettre que ma volonté de rester fidèle aux liens sacrés du mariage doit être le fait d’un résident sur mille en Afrique. Si je me suis amouraché d’une petite négresse ? Je pourrais te répondre que pour conquérir une de ces pouilleuses il n’y a pas besoin d’être amoureux car ce sont des filles faciles : 5 lires suffisent et l’affaire est conclue ».

      La prostitution constituait donc une porte de sortie. Celle-ci ne bloquait pas nécessairement l’appel du concubinage, le passage de la condition de sciarmutta à celle de madama étant fréquente chez les femmes éthiopiennes48. En allant inspecter les chambres à coucher, en suscitant les confessions intimes lors des procès, l’État avait, en effet, pénétré « au cœur de la moralité individuelle et domestique ». De trop nombreuses barrières rendaient l’entreprise difficile dans la métropole : elle fut tentée, au nom de la lutte contre le métissage, dans l’Empire. Par leurs recommandations concernant les échanges avec les indigènes, les juges inventaient un idéal-type, celui d’une sexualité émancipée de tout sentiment, ramenée en définitive, à la « masculinité » exaltée par Papini.

      Quel fut l’impact des procès et des condamnations qui en résultèrent ? Le traitement judiciaire de la question permit aux juges de montrer leur zèle fasciste. Les sentences des procès furent autant de leçons de racisme et de fascisme, infligées peut-être surtout pour l’exemple à des hommes de milieux modestes49. En infligeant une peine d’un an et demi de prison à un prévenu manifestement amoureux d’une Éthiopienne le juge prétendait lui « éclaircir les idées »50.La répression installa un climat de peur parmi certains colons, à en juger par les comportements des couples qui se cachaient et d’amants qui se réunissaient une fois la nuit tombée51.

      En janvier 1939, l’anthropologue raciste Lidio Cipriani, était modérément optimiste : « Malheureusement l’obscénité des rapports sexuels entre Blancs et indigènes continue, mais il semblerait que les mesures racistes aient conduit à une diminution sensible des cas de fécondation indésirables … Il est probable que le blanc commence désormais à se rendre compte de l’inconvénient qu’il y a à s’abandonner sans vergogne à une femme de couleur »52. Toutefois, la plupart des témoignages invitent à penser que la loi contre le madamismo ne fut guère respectée, y compris par ceux qui devaient imposer l’ordre fasciste, et notamment les carabiniers53. En Érythrée, on dénombrait 10 000 les femmes africaines vivant avec des Italiens en 1935 et 15 000 en 194054.

      La question du sexe et du métissage, comme d’autres mesures destinées à réformer les comportements en profondeur traçait les limites de l’emprise fasciste sur les esprits et de sa capacité à façonner les mœurs.

      Texte paru in D. Herzog, Brutality and desire. War and Sexuality in Europe’s Twentieth Century, Palgrave Macmillan, 2008.

      Pour aller plus loin :

      La guerre d’Éthiopie, un inconscient italien, par Olivier Favier. Sur le mausolée au maréchal Graziani à Affile (août 2012), la naissance d’une littérature italophone et postcoloniale et le documentaire de Luca Guadagnino, Inconscio italiano (2011). Voir aussi : L’Italie et ses crimes : un mausolée pour Graziani, par Olivier Favier.
      Mémoire littéraire, mémoire historique, entretien croisé avec Aldo Zargani et Marie-Anne Matard-Bonucci, par Olivier Favier.
      Le fascisme, Auschwitz et Berlusconi, par Marie-Anne Matard Bonucci, Le Monde, 11 février 2013. Marie-Anne Matard-Bonucci est professeure d’histoire contemporaine à Paris VIII, Institut Universitaire de France. Elle est également l’auteure deL’Italie fasciste et la persécution des juifs, Paris, Puf, 2012.

      C. Ipsen, Demografia totalitaria, Il Mulino, p. 256. [↩]
      Propos rapporté par le Baron Pompeo Aloisi, chef de cabinet du ministre des affaires étrangères à partir de juillet 1932 : Journal (25 juillet 1932-14 juin 1936), Plon, Paris, 1957, p. 185. [↩]
      Télégramme de Mussolini à Badoglio et Graziani, in La menzogna cit., p. 20. [↩]
      B Aloisi, Journal, cit., p. 382. La conversation est datée du 8 mai. [↩]
      L’article parut dans La Gazzetta del popolo de Turin, le 13 juin 1936. [↩]
      G. Bottai, Diario 1936-1943, op. cit., p. 115. 19 novembre 1936. Rien ne prouve qu’à cette date, Mussolini songeait aussi à l’antisémitisme. [↩]
      La presse coloniale fut particulièrement mobilisée : en janvier 1940, Africa italiana sortait un numéro spécial « Discipline et tutelle des races dans l’Empire ». Un mois plus tard, la même revue traitait du rôle de la femme italienne dans l’Empire. [↩]
      C. Rossetti, Ibid. [↩]
      L. Cipriani, Considerazioni sopra il passato e l’avvenire delle popolazioni africane, 1932. Sur le personnage, voir : R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze, 1999, p. 161-163. [↩]
      In Africa, dal Capo al Cairo est le titre du livre publié en 1932, Florence, Bemporad. [↩]
      Sur le rôle de cette revue dans le dispositif propagandiste raciste, M. A. Bonucci, L’Italie fasciste et la persécution des juifs, Perrin, 2007. [↩]
      P. Chiozzi, “Autoritratto del razzismo : le fotografie di Lidio Cipriani in La menzogna della razza, cit., p. 91-94. [↩]
      Les couvertures évoquées sont respectivement celles des numéros : A. III, 14-20/05/40
      A. III, 11- 5/04/40 ; A. IV, 3-5/12/40 ; A. III, 8-20/02/1940. [↩]
      G. Masucci, Il problema dei meticci, Istituto Fascista dell’Africa italiana, 1939, XVII. [↩]
      Un compte-rendu figure dans Razza e Civiltà, A. I, n°1, 23 mars 1940, p. 107. [↩]
      G. Cortese, Problemi dell’Impero, Pinciana, Rome, 1937. Cité in F. Le Houerou, op. cit., p.95. [↩]
      Décret-Loi (RDL) du 19 avril 1937, n°880, « Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi » [↩]
      Voir la position de Giovanni Rosso, « Il reato di madamismo nei confronti dell’indigena che abbia una relazione di indole coniugale con un cittadino italiano » in Razza e Civiltà, An I, n°1, p. 131-139. [↩]
      Voir A. Del Boca, La caduta dell’Impero, op. cit., p. 243-245. [↩]
      RDL n°1004 du 29 juin 1939. [↩]
      A. Del Boca évoque plusieurs cas, in La caduta cit. , p. 246-247. [↩]
      F. Le Houerou, op. cit., p. 95. [↩]
      La Revue Razza e Civiltà, publiée à partir de mars 1940 : il s’agissait de l’organe du Conseil Supérieur et de la Direction générale pour la Démographie et la race. Dans le cadre de la rubrique « Giurisprudenza e legislazione razziale » a publié de nombreux extraits des décisions judiciaires. Les analyses présentées ci-dessus se fondent sur l’analyse de 28 cas présentés par la revue. La moitié conclut au délit de madamismo ou d’atteinte à la dignité raciale. [↩]
      Sentence du Tribunal de Gondar du 19 novembre 1938, Président Maistro, Accusé Spano. RC, An I, n.1 p. 128-131. [↩]
      Sentence du 7 février 1939, accusé Venturiello, Pres. Carnaroli, RC, A. I, n°5-6-7, p. 549. [↩]
      Sentence du Tribunal de Gondar du 19 novembre 1938, Accusé Spano, Président Maistro RC, An I, n.1 p. 1p. 130. [↩]
      Voir Sentence de la Cour d’Appel d’Addis Abeba, 4 avril 1939, accusé Isella, Pres Carnaroli, RC, A. I, n°5-6-7, p. 552. [↩]
      Sentence du 21 décembre 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, accusés Lauria et Ciulla, Pres. Morando, RC, A. I, n°5-6-7, p.548. [↩]
      Sentence du 3 janvier 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Accusé Melchionne, Pres Carnaroli, RC, A. I, n°5-6-7, p.548. « I congressi carnali perdono il carattere d’incontro a mero sfogo fisiologico ». [↩]
      Ainsi, le procès contre G. Spano a été suscité par une plainte de sa concubine auprès des carabiniers. Sentence du tribunal de Gondar du 19 novembre 1938, RC, An I, n°1, p. 128. [↩]
      Cour d’Appel d’Addis Abeba, Sentences du 31 janvier 1939, Accusé Seneca, Pres Guerrazzi ; 3. janvier 1939 Accusé Marca, Pres. Guerrazzi, RC, A. I, n°5-6-7, p. 548 et 551. [↩]
      Des cadeaux sont mentionnés dans plusieurs affaires. [↩]
      Sentence du 5 septembre 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Procès contre Fagà, Pres Carnaroli, RC, A. I, n°5-6-7, p. 547. [↩]
      Sentence du 14 février 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Procès contre Autieri, Pres Carnaroli , RC, A. I, n°5-6-7, p. 549. [↩]
      Sentence du 3 janvier 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Procès contre Giuliano, Pres Carnaroli RC, A. I, n°5-6-7, p. 550. [↩]
      L’expression utilisée est « volerle bene ». [↩]
      On désignait comme insabbiati, « ensablés », les hommes restés vivre en Éthiopie, souvent aux côtés d’une Africaine. [↩]
      Sentence du 31 janvier 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, Procès contre Seneca, Pres Guerrazzi , RC, A. I, n°5-6-7, p 548-549 [↩]
      Outre que le métissage semblait inspirer moins de crainte s’agissant des Arabes que des populations d’Afrique noire, des raisons tenant au contexte proprement libyen expliquent un tel choix : présence plus nombreuse de femmes italiennes en Libye ; statut différent du mariage dans ce pays par rapport à l’Éthiopie. Cf. C. Ipsen, op. cit, p. 256. [↩]
      Au demeurant, en métropole aussi, le fascisme avait une politique visant à contrôler la prostitution sans l’interdire définitivement. Sur la duplicité du gouvernement italien qui réprima la présence de prostituées dans la rue et mais la tolérait dans des bordels soumis à un contrôle policier et sanitaire : V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, Tascabili Marsili, p. 73-74. [↩]
      V. Joly écrit : « Les amours exotiques doivent être éphémères. Les femmes indigènes ne sont que des substituts qu’imposent la solitude et l’éloignement de la promise qui attend en métropole, simple rêve parfois. Elles ne doivent pas plus être sentimentales tant est vive la crainte du « métissage » affaiblissement pour la race du vainqueur », in « Sexe, guerre et désir colonial » in F. Rouquet, F. Virgili, D. Voldman, Amours, guerres et sexualité 1914-1945, Gallimard, BDIC, 2007, 62-69. [↩]
      La formule est de Paolo Orano in « Famiglia, razza, potenza », Il fascismo, vol. II, Pinciana, Rome, XVIII, p. 391-429. Le fuoruscitismo désignait l’exil antifasciste. [↩]
      Maschilità, Firenze, Libreria della Voce, 1915. [↩]
      P. Orano, Ibid. [↩]
      A. Del Boca, Gli Italiani in Africa orientale, La caduta dell’Impero, Rome-Bari, Laterza, 1982, p. 243. [↩]
      A. Del Boca donne quelques exemples parmi lesquels celui du Résident de Bacco ou encore le témoignage d’un Consul de la Milice. Ibid. p. 250. [↩]
      Ces lettres ont été publiées par S. Luzzatto, La strada per Adis Abeba. Lettere di un camionista dall’Impero (1936-1941), Paravia. Scriptorium, 2000 : Les citations sont aux pages 85 et 144. [↩]
      G. Barrera, op. cit. p. 26. [↩]
      Les sentences des procès ne permettent pas toujours de connaître la profession des accusés. Reste que l’impression dominante est celle de procès attentés à des hommes de condition modeste, issus du prolétariat ou d’une basse classe moyenne. Sur la sociologie des colons éthiopiens, F. le Houérou, op. cit., p. 115-135. [↩]
      Sentence du 31 janvier 1939, Cour d’Appel d’Addis Abeba, accusé Seneca, Président Guerrazzi, RC, A. I, n°5-6-7, p. 548-549. [↩]
      Autant qu’on puisse en juger par les allusions contenues dans certaines sentences à la crainte de perquisitions de la police pendant la nuit pour constater le délit. [↩]
      Archivio Centrale dello Stato (Rome) MCP, Gab., b. 151, lettre du 18/01/1939. Dans une autre lettre de l’hiver 1939, à une époque où il propose, il est vrai, ses services comme « consulente razziale nell’Impero », Cipriani revient sur la question (Lettre de Cipriani à Landra du 31/01/39, in ACS, MCP, Gab., b. 151). [↩]
      F. Le Houérou a recueilli 35 témoignages dont la plupart émanent des « ensablés », les Italiens restés sur place souvent après avoir vécu avec une Madama. Par sa nature, la population interviewée amplifie peut-être la réalité du phénomène. Voir en particulier, op. cit. p. 97-105. [↩]
      Chiffres cités par G. Barrera, op. cit., p. 43. [↩]

      http://dormirajamais.org/conquete-2

      via @olivier_aubert à qui je dis #merci (@olivier_aubert —> j’ai déplacé la référence ici, car plus appropriée qu’ici : https://seenthis.net/messages/972185)

      #femmes #stéréotypes #caricature #dessin_de_presse #passion #condottiere #squadrisme #désir #Faccetta_Nera #imaginaire #Amharas #concubinage #mariage_dämòs #union_contractuelle_temporaire #madamismo #Somalie #Erythrée #Ethiopie #doux_esclavage #rapports_sexuels #sciarmute #prostitution #bordels #exploitation_sexuelle #Loi_organique_pour_l’Erythrée_et_la_Somalie #Indro_Montanelli #racisme #fascisme #unions_mixtes #Difesa_della_Razza #photographie

  • Il latte è buono (2005)

    Il latte è buono è un romanzo che si assapora senza moderazione. Anzi, vi porta lontano, molto lontano all’interno e al di fuori di voi.
    (Abdourahman Waberi)

    Sostengo che Il latte è buono di Garane Garane sia il primo romanzo postcoloniale italiano. Fino ad ora la nostra letteratura del 900 aveva un solo capolavoro, Tempo di uccidere, di Ennio Flaiano e una pletora di romanzi coloniali dimenticati e dimenticabili; ora abbiamo la prima voce decolonizzata africana che ci riguarda e racconta.
    (Armando Gnisci)

    —> considéré par Armando Gnisci le « premier roman décolonial italien »

    https://www.cosmoiannone.it/edizioni/il-latte-e-buono

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    Résumé :

    Il libro parte con la descrizione mitica della nascita di Shakhlan Iman, regina somala che è stata dodici mesi nella pancia della madre. Shakhlan è figlia dell’Iman Omar, Ajuran dell’Azania. Nel corso degli anni, Shakhlan partorisce un figlio, che a sua volta avrà un figlio, Gashan, che è il protagonista di questo romanzo parzialmente autobiografico, insieme alla Somalia.

    Gashan ha la fortuna di studiare nelle scuole italiane e si innamora dell’Italia e della sua cultura. Gashan ama il Duce, che gli ha consentito di avere un’istruzione italiana, ama tutto ciò che è italiano e disprezza la Somalia e l’Africa in generale, perché non così raffinate come l’Italia. Finalmente un giorno Gashan avrà la possibilità di andare a Roma, terminate le scuole superiori. Roma però non gli piace, si sente uno straniero, tutti lo chiamano “negretto” e gli parlano usando i verbi all’infinito sebbene il suo italiano sia perfetto e raffinato. Decide così di andare a Firenze, dove si laurea in Scienze Politiche, ma infine abbandonerà l’Italia per Grenoble, dove si laurea in Letteratura italiana e Lingua francese. Anche la Francia gli resterà stretta e deciderà poi di trasferirsi negli Stati Uniti, dove insegna in una piccola università, per poi infine tornare in Somalia in seguito allo scoppio della guerra civile il 31 dicembre 1990.

    Le peregrinazioni, l’esilio, insegneranno a Gashan ad amare la sua patria, ma in definitiva il risultato sarà per lui quello di sentirsi straniero ovunque, sia nella sua terra che in altri paesi. L’amore per l’Africa tuttavia non passerà così facilmente.

    Accanto alla storia di Gashan vediamo scorrere davanti ai nostri occhi la storia della Somalia, dall’Azania, passando per la colonizzazione italiana, per l’indipendenza e arrivando alla guerra civile. Vediamo anche, in questo libro, i nostri odiosi pregiudizi di europei di fronte agli africani, pregiudizi che venti o trent’anni fa erano di sicuro molto più forti e radicati di adesso, dato che non avevamo ancora – soprattutto noi italiani – l’abitudine di vedere “negretti” in giro per il nostro paese.

    Un bel libro che merita di essere letto, anche per cercare di superare i pregiudizi di cui sopra. Tra l’altro, il libro viene definito il primo romanzo post-coloniale scritto in italiano, definizione secondo me molto interessante e che è poi stata quella che mi spinse anni fa ad acquistare il volumetto.

    https://sonnenbarke.wordpress.com/2015/10/28/garane-garane-il-latte-e-buono-somalia

    #roman #livre #décolonial #Italie_coloniale #Somalie

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    ajouté à la métaliste sur la #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

  • L’impérialisme à l’état pur : Biden redéploye des forces en #Somalie | T.I. Coles - The #Grayzone

    Donald Trump avait décidé de retirer les troupes US de Somalie. Biden revient sur cette décision et va y redéployer des forces d’opérations spéciales. Ce n’est que le dernier chapitre d’une longue histoire d’ingérence destructive américano-britannique dans la Corne de l’Afrique.

    https://www.investigaction.net/fr/limperialisme-a-letat-pur-biden-redeploye-des-forces-en-somalie

  • #Serbie : les exilés au pied des murs

    Dans les #Balkans comme ailleurs, toutes sortes de barrières entravent le périple des personnes exilées. Des murs concrets hérissés de barbelés, comme celui que la #Hongrie a fait construire à la frontière de la Serbie. Mais aussi des murs législatifs, technologiques, policiers ou politiques, bâtis en vue de satisfaire l’Union européenne (UE) et ses politiques concertées de rejet des « indésirables ». Pour les principaux concernés, venus d’Afghanistan, de Syrie ou d’Afrique du Nord, c’est l’assurance de violences accrues et de destins enlisés. Reportage au nord de la Serbie, aux confins de l’UE.

    Première vision du centre-ville de #Sombor : quatre jeunes migrants prennent tranquillement le soleil sur un banc d’une artère commerçante. C’est le début de l’après-midi, le dernier dimanche avant la Pâque orthodoxe, et les rues sont presque vides dans cette ville moyenne et proprette de la région de la #Bačka, au nord-ouest de la Serbie. Deux flics approchent : échange de signes, contrôle des papiers, fouille des sacs, c’est bon pour cette fois. Illico, les quatre jeunes décampent, message reçu : ils ne sont pas bienvenus en ville.

    Un peu plus loin, sur la route qui mène aux frontières hongroise et croate (toutes deux à environ 25 km de Sombor), on roule le long d’un faubourg résidentiel. Sur le bas-côté, des silhouettes discrètes chargées de sacs de course. À l’orée d’un petit bois, on débouche sur une sorte de kermesse pas drôle. Une vingtaine de taxis attendent les clients potentiels, qui prennent le frais sous les ombrages en attendant la rupture du jeûne du Ramadan. Derrière l’enseigne « Night-Club Grizzly », des exilés se pressent dans une petite boutique ou papotent sur un vieux terrain de basket, assis en cercle sur des chaises en plastique. Dans une arrière-cour, de jeunes types du cru d’allure pas commode – survêt’, bombers, crâne rasé – rigolent autour d’un barbecue. Une impression latente et désagréable, confirmée plus tard par des connaisseurs du site : on est tombés au cœur d’un business, où chauffeurs de taxis et jeunes du coin profitent de la détresse des exilés pour arrondir les fins de mois. Pas vraiment le temps d’approfondir : le maître des lieux, un colosse patibulaire, nous prie virilement d’aller voir ailleurs1.

    « Ailleurs », c’est le camp officiel, à quelques centaines de mètres. Une allée d’arbres conduit à une ancienne colonie de vacances, réaffectée à un Centre d’accueil du Commissariat pour les réfugiés et les migrations de la République de Serbie (KIRS). Le grillage est défoncé et le portail ouvert. Assis sur un banc, quatre jeunes Syriens décrivent à gros traits le quotidien du camp de Sombor plein à craquer, où tout est pourri. Ils sont là depuis huit mois dans le vide absolu – « No money, no work ». Le dialogue est interrompu par l’irruption d’un employé tremblotant qui nous fait raccompagner par un vigile. Devant l’entrée, le mot a tourné : personne ne veut causer. Ambiance.

    Bruxelles sous-traite

    Le camp de Sombor est l’un des quatorze ouverts par la Serbie à destination des migrants présents sur son sol. Frontalière de quatre pays membres de l’Union européenne (Croatie, Hongrie, Roumanie, Bulgarie) dont un (la Hongrie) fait partie de l’espace Schengen, elle-même candidate à l’adhésion et dépendante des subsides européens, la Serbie obéit aux desiderata de Bruxelles. Les procédures d’adhésion prévoient un alignement progressif des candidats sur les politiques communautaires – y compris en matière d’immigration. C’est la quadrature du cercle qui enserre la Serbie, la Bosnie-Herzégovine ou encore l’Albanie dans ses rets : pays de transit, ils se voient néanmoins contraints de défendre les murs d’une forteresse Europe dont ils ne font pas partie, et contribuent donc, bon gré mal gré, à l’externalisation de la politique migratoire européenne, en deuxième ligne derrière la Turquie, la Libye ou le Maroc.

    En jeu ? L’exemption de visas pour leurs ressortissants dans l’espace Schengen (obtenue par la Serbie en 2009 seulement), et surtout le fonds, sonnant et trébuchant, de préadhésion à l’UE. Quand il s’agit de repousser les migrants aussi, l’Union crame la CB : 90 % du budget du KIRS en provient. Les camps ne s’en portent pas mieux pour autant. « On peut mettre tout l’argent qu’on veut, ça ne change rien car personne ne prend soin des lieux », explique le juriste Radoš Đurović, directeur de l’association de soutien juridique Azylum Protection Center (APC), à Belgrade. Son organisation, pourtant reconnue par l’État serbe, jouit d’un accès limité à l’intérieur des camps. C’est par des vidéos fuitées qu’elle documente la vétusté des lieux, l’absence d’hygiène, les toilettes infectes, le surpeuplement et le désespoir.

    Au camp de Subotica, la grande ville du nord de la Serbie, à un jet de pierres de la frontière hongroise, « la gale est endémique », affirme un membre de l’association de soutien aux exilés Collective Aid, qui remet une couche : « Nous avons vu des migrants porteurs de plaies ouvertes surinfectées par la gale. » Quand on y passe au petit matin, des exilés dorment dans des duvets à l’extérieur, par un froid peu printanier. Selon l’APC, ils seraient 350 pour une capacité d’accueil de 200. Deux jours plus tard, un Marocain y sera retrouvé mort : d’une overdose d’alcool et d’opioïdes, affirme le KIRS. Comment savoir ? Les médecins sont spécialement appointés par l’administration des camps, à qui ils doivent leur gagne-pain, explique encore Radoš Đurović – difficile, dès lors, de dénoncer la corruption, les trafics, les mauvais traitements…

    L’incurie de la Serbie dans la gestion des camps reflète son rôle de petit rouage de la machine à refouler européenne. Les violences de la police serbe sont documentées, mais sans commune mesure avec celles de ses homologues croate et hongroise. La Serbie prend tout de même sa part du jeu sinistre des « pushbacks2 en cascade », d’un pays à l’autre, d’Italie ou d’Autriche vers la Slovénie, puis la Croatie, puis la Serbie, le long de ce que le réseau Migreurop dénonce comme « une chaîne de violation de droits ». Dans le sens retour aussi, la Serbie est un cul-de-sac : la Macédoine du Nord, pays de transit précédent sur la route de l’Europe, refuse systématiquement les réadmissions. Triste routine, les autorités conduisent donc les pushbackés au camp serbe de Preševo, aux confins de la Macédoine et du Kosovo. À Preševo, les exilés sont retenus quelques jours illégalement avant de reprendre, à prix d’or, un taxi pour la capitale et le nord du pays. Manège absurde.

    Dans une région qui a récemment connu d’importants déplacements de population, les habitants semblent globalement ne pas sombrer en masse dans la haine contre les migrants. Des milices d’extrême droite ont bien entrepris de les terroriser, mais le phénomène reste relativement marginal3. Politiquement, cependant, le sujet peut se montrer aussi porteur en Serbie qu’ailleurs : les tabloïds proches du régime d’Aleksandar Vučić (voir encadré) font à l’occasion leur beurre d’un fait divers, et le ministre de l’Intérieur, l’aboyeur ultranationaliste Aleksandar Vulin, multiplie les déclarations tonitruantes. Mais en dehors de ces effets de manche xénophobes, la tendance est surtout à l’occultation : la Serbie n’est pas concernée par la crise migratoire, d’ailleurs elle la gère à merveille. Et les keufs d’assurer l’invisibilité des indésirables en mettant des bâtons dans les roues des collectifs d’aide4, en démantelant squats et campements informels et en faisant la chasse aux migrants dans les centres-villes, toujours direction Preševo. « La police communique toujours sur les mêmes nombres de migrants, multiples du nombre de bus mobilisés dans l’opération, lesquels peuvent accueillir 84 personnes. Ça n’a aucun sens », grincent à Belgrade les militants d’une autre association de soutien aux exilés, Klikaktiv. Rien qu’en avril, deux grandes rafles ont été menées contre les exilés dans la région.

    Mais squats et campements sont fatalement l’exutoire de l’insalubrité et de la saturation des camps. Employé à la gare de Subotica, Marko nous raconte que certains jours, il a compté 100 à 130 personnes migrantes sur les voies de fret, entre les squats et wagons misérables qu’ils occupent de part et d’autre des rails. « Ça me fait de la peine. Je suis orthodoxe, pour moi tous les hommes sont égaux. » Il les a filmés à destination d’un copain journaliste, qui a prudemment refusé de diffuser les images. « Le gouvernement raconte que les migrants envahissent les villes. Mais en réalité, c’est là qu’ils traînent, sur les voies. » Le milieu du rail bruisserait de rumeurs de migrants morts sous les roues de trains de marchandises. La rançon, peu surprenante, de l’indifférence.
    Murs et châtiments

    Si les personnes migrantes sont aussi nombreuses à Sombor et Subotica, c’est évidemment à cause de la proximité de l’Union européenne. D’un côté, la Croatie, dont la frontière est principalement marquée par le Danube, large à cet endroit de plusieurs centaines de mètres. Ça se tente. Le journaliste Philippe Bertinchamps, correspondant du Courrier des Balkans à Belgrade, nous montre les images filmées par ses soins d’un Zodiac se dirigeant vers la berge. Mais, depuis deux ans, la police croate s’est rendue tristement célèbre par les violences exercées contre les exilés et le caractère systématique de ses refoulements. Sur tout le territoire, fût-ce à l’autre bout du pays, les personnes migrantes arrêtées sont brutalisées et renvoyées en Serbie ou en Bosnie-Herzégovine. Côté hongrois, c’est pire : non seulement les violences et les pushbacks, mais aussi le « mur » construit en 2015 sous les ordres du Premier ministre d’extrême droite Viktor Orbán, sur toute la frontière sud du pays.

    Le mur, le voilà. Balafrant la plaine plate comme la main, immense et monotone, qui s’étend de Budapest à Belgrade, coupant en deux une opulente région agricole dont les populations mêlées ont toujours joué à saute-frontières. À l’arrière des jardins du village de Rastina, à une vingtaine de kilomètres au nord de Sombor, parmi les vergers et les cultures de colza, deux barrières métalliques, hautes de quatre et trois mètres, hérissées de barbelés concertina, encadrent une voie réservée aux patrouilles des flics et des douaniers. Le dispositif sécuritaire est agrémenté d’un arsenal de gadgets dernier cri, comme le rappelle un récent rapport du précieux réseau Migreurop : « Cette barrière est équipée de technologies capables de délivrer des chocs électriques, de capteurs de chaleur, de caméras ainsi que de haut-parleurs s’adressant aux personnes exilées en plusieurs langues5 » Le nec plus ultra.

    Pour financer ces petits bijoux et encadrer le sale boulot des gardes-frontières, on retrouve Frontex, l’agence de surveillance des frontières extérieures de l’Union européenne, dotée de moyens colossaux6. Témoin voire complice quotidien des abus de la police hongroise, des chiens d’attaque lancés sur les passe-frontières ou des migrants enfermés dans des conteneurs avant d’être refoulés7, Frontex a attendu février 2021 pour quitter le pays d’Orbán, sous la pression médiatique et après que la Cour de justice de l’Union européenne a interdit (en vain) à la Hongrie de procéder aux pushbacks. La duplicité européenne – se dire étranger aux exactions tout en les supervisant – avait fini par se voir. Sur le terrain, il y a longtemps qu’elle ne faisait de doute pour personne. Après des années passées en lien avec les institutions internationales, Radoš Đurović s’est fait une religion sur la question : « Ce n’est pas vrai qu’il n’y a pas de politique migratoire européenne commune. Dans la pratique, elle consiste tout simplement à freiner voire arrêter les migrations. » À n’importe quel prix. « L’Europe sait parfaitement ce qui se passe ici. Toutes les associations ont des contacts avec les institutions européennes, à qui elles font remonter les infos. » Violences comprises ? Oui. « À cette échelle, des violences aussi systématiques ne peuvent être orchestrées que d’en haut », lâche-t-il.

    À côté de Frontex, des accords bilatéraux entre États permettent aussi d’organiser des opérations de police communes. Quand cette coopération s’effectue au sein du très réac’ groupe de Visegrád8 au nom de la « défense collective des frontières de l’Europe » chère à Orbán, le pire est attendu : la police tchèque prêterait la main aux brutalités de la police hongroise. En revanche, la présence de la police allemande exercerait des vertus apaisantes, l’opinion du pays étant plus scrupuleuse en matière de droits humains. Misère des petits jeux diplomatiques... Passer, à tout prix

    Si médiatisé soit-il, le mur hongrois fait pâle figure à côté de ses prédécesseurs des enclaves espagnoles de Ceuta et Melilla, ou de la frontière gréco-turque. Un jeune Marocain, rencontré à Subotica, ne s’est même pas posé la question : « La frontière espagnole, c’est juste impossible. C’est grave ce qui se passe là-bas. La Hongrie, ça va beaucoup plus vite. » « Le mur n’a rien d’efficace, confirme Radoš Đurović. Il alimente juste le trafic des passeurs. » Même son de cloche du côté de l’association Klikaktiv : « Les gens continuent à tenter de passer par le mur parce que c’est la voie la plus rapide. Les barbelés et les chiens n’y changent rien. » De temps à autre, la police découvre un tunnel creusé sous le mur, au risque pour ceux qui l’empruntent de se faire cueillir à la sortie, ou de mourir étouffés sous les éboulis.

    Passer, donc, ça se fait. Le désespoir donne des ailes et l’adrénaline occulte momentanément la douleur (voir le témoignage de Zyed ci-contre). Surtout, il n’est aucun problème auquel le marché ne propose sa solution frelatée, et le « game » du passage nourrit une économie florissante9. De la course en taxi surtaxée au « package » migratoire complet, tout un catalogue de services est mis à disposition – auxquels certains migrants prêtent parfois la main pour financer leur prochaine tentative. Aux plus offrants, les passeurs proposent un « guarantee game », un passage « garanti », comme nous l’expliquent les membres de Klikaktiv : pendant qu’une première troupe est envoyée en diversion, les candidats plus fortunés tentent la traversée à un autre endroit. Côté hongrois, si tout va bien, un véhicule attend et les douaniers – dont la corruption est proverbiale en Hongrie – regardent ailleurs.

    Ensuite, les personnes migrantes s’évanouissent dans la campagne hongroise. Lancé début 2015, le groupe de solidarité MigSzolt, à Szeged (à 15 km au nord de la frontière serbe), a ainsi fermé boutique dès novembre 2017. Parmi ses fondateurs, le chercheur Mark Kékesi raconte : « Nous n’avions plus d’activité. Les migrants avaient disparu de Hongrie. Il faut dire que les arrestations sont permanentes et que beaucoup d’exilés se retrouvent en prison ou expulsés, souvent après dénonciation des habitants. Ceux qui passent réémergent ensuite en Autriche ou en Allemagne, mais leur circulation sur le territoire est invisible, et sans doute liée au crime organisé. »

    Pour ceux, nombreux, qui n’ont pas les moyens financiers nécessaires, les chances sont beaucoup plus minces. Dans un square proche de la gare routière de Belgrade, Djelaluddin résume la situation en quelques phrases désabusées : « Ça fait quatre mois que je suis dans ce pays et j’ai déjà tenté plusieurs fois de passer. Et partout j’ai été brutalisé. En Hongrie, en Croatie, en Roumanie, on te tape à chaque fois. Ils m’ont aussi pris mon argent et mon téléphone. Je ne sais plus quoi faire. » Pourtant, son histoire ne laisse aucun doute sur son droit à l’asile politique : « Je suis parti d’Afghanistan quand les talibans sont revenus [en août 2021]. À cette époque, j’étais dans l’armée. Nous n’étions même pas au combat, seulement en exercice. Ça a suffi pour que les talibans me considèrent comme un ennemi », raconte-t-il en montrant les stigmates des exactions subies : un doigt tordu dans le mauvais sens et une vilaine cicatrice au cou. Il retrace à grands traits son périple, l’Iran, la Turquie, la Grèce, la Bulgarie, un trajet assez rapide, mais semé d’embûches. « Je connais trois personnes qui ont été tuées par des chiens à la frontière bulgare. Partout, on nous traite comme des animaux. » Ses yeux s’illuminent encore quand il raconte son rêve : le Canada. En attendant la rupture du jeûne, Djelaluddin propose de nous payer un sandwich. Il peut se le permettre, dit-il : il lui reste 14 ou 15 euros. Quand on le quitte, il lève le pouce, souriant.

    D’autres n’ont plus cette énergie. Chez Klikaktiv, Vuk Vučković ne compte plus les personnes blessées en franchissant le mur, ou après avoir rencontré les matraques hongroises, qui reprennent la route sans attendre d’être guéries – et finissent invalides. Quand tous les horizons sont bouchés, « certains sombrent dans la drogue ou la folie », nous explique Radoš Đurović. Ils perdent alors de vue ce territoire rêvé qui se démène pour les refouler : l’Europe, juste de l’autre côté du mur.

    Le triangle mord

    Tout a une fin – les murs aussi. Depuis 2020, une nouvelle route s’est ouverte afin de contourner le mur hongrois par le Banat, région à cheval sur la Serbie et la Roumanie10. Au niveau du poste-frontière qui relie Rabe (Serbie) à Kübekháza (Hongrie), la clôture aboutit à un simple portail métallique. De l’autre côté de la chaussée, une campagne ouverte, ponctuée de quelques bosquets : la frontière serbo-roumaine, que rien n’indique sur le terrain, pas même un bout de grillage. Un pick-up de la police roumaine se dirige vers nous avant de se garer près de la guérite des douaniers. Quelques minutes plus tôt, on l’avait repéré, arrêté à notre hauteur, tandis que nous approchions d’un squat de personnes migrantes, dans une usine abandonnée entre les hameaux de Majdan et Rabe.

    Car, en dépit des apparences, la Roumanie n’est guère plus accessible que la patrie d’Orbán. Caméras à vision thermique, chiens équipés de GPS, dispositifs de détection des battements du cœur… Toute la quincaillerie de Frontex est mobilisée pour interdire le passage. Certains exilés s’y seraient repris des dizaines de fois. Pendant des semaines ou des mois d’attente, ils rasent alors les murs des villages sinistres, aux trois quarts vides et en ruines, que relient des routes en béton défoncé le long de la frontière. Les derniers mois, on a compté jusqu’à 300 migrants squattant les maisons abandonnées de Majdan – soit davantage que la population officielle du village. Ils se font discrets, car les relations avec les habitants sont tendues ; quelques-unes des belles pintades qui errent au milieu des rues auraient assouvi la faim d’exilés.

    À une dizaine de kilomètres à l’ouest, par-delà les champs, le village de Đala s’étend mollement jusqu’à la rivière Tisza qui, sur quelques kilomètres, marque la frontière entre Serbie et Hongrie. Début 2020, la Hongrie a déployé des unités maritimes armées pour dissuader les migrants de tenter la traversée à la nage. Côté serbe, une grosse bagnole de police patrouille sur la berge, parmi les herbes hautes.

    Un peu en retrait, le bourg de Srpski Krstur semble presque vivant. C’est la sortie des classes, des enfants roms, nombreux dans la commune, gambadent sur les trottoirs. Un peu à l’écart de la route principale, un faubourg délabré s’étire en direction de la rivière. Devant une épicerie, une dizaine d’exilés papotent ou boivent des coups. Un Marocain nous raconte qu’il prend la route pour la deuxième fois. Après treize ans à Bologne, malgré femme et enfant, il a été expulsé au Maroc, d’où il est reparti pour rentrer chez lui. Son récit est interrompu quand, branle-bas de combat, deux taxis débarquent coup sur coup, déchargeant des personnes migrantes en provenance de villes voisines. Deux autres voitures arrivent dans la foulée et font chacune monter un groupe. Le conducteur de la deuxième, un jeune Serbe élégamment mis, nous jette un regard peu amène. Derrière nous, la porte de l’épicerie se ferme brusquement à double tour, clac. En quelques minutes, les exilés s’évaporent dans la nature. L’un d’eux, avec qui nous venions d’échanger quelques mots, se cache derrière l’angle du mur, son foulard remonté sur son visage.

    Comme à Sombor, nous dérangeons. C’est toute une économie locale dont les voyageurs de l’exil, pris au piège, sont la clientèle captive. Du petit taxi indépendant au réseau transfrontalier armé de sa propre flotte de voitures, le trafic des passeurs aux frontières nord de la Serbie aurait représenté entre 8,5 et 10,5 millions d’euros en 2020, selon les chiffres de la Global Initiative Against Transnational Organized Crime. Avec la complicité inévitable de la police, très présente au quotidien dans tous les pays de la région, et largement corrompue. Prises en étau entre l’Europe qui les rejette et les mafias qui leur font les poches, les flics qui les frappent et ceux qui les rackettent, les personnes exilées subissent un enfer humain. Attendant le moment où elles seront libérées de ce bourbier de frontières. Et où, à l’instar de Zyed, jeune Tunisien arrivé en Autriche après des années d’errance, elles pourront enfin dire : « C’est la fin des ténèbres. »

    http://cqfd-journal.org/Serbie-les-exiles-au-pied-des-murs
    #murs #migrations #barbelés #frontières #asile #réfugiés #barrières_frontalières #route_des_Balkans #violence #violences

    • Stanze – di Gianluca e Massimiliano De Serio – Videoinstallazione – Italia 2010

      Il diritto d’asilo calpestato, poesia civile sulle tracce delle “catene poetiche” della tradizione orale somala. E i muri, e le vicende, dell’ex caserma La Marmora di via Asti, a Torino, autentica «centrifuga» simbolica della storia d’Italia.

      «Quanto è sconnessa la terra sotto i miei piedi,/ quanto è vasta la sabbia,/ andavo avanti sballottato e dappertutto le dune si moltiplicavano».

      «Mi hanno preso le impronte, non sono più come i miei coetanei./ Mi hanno reso povero in tutto, sono senza prospettiva di vita qui in via Asti./ Chi ci ha respinto ci ha fatto restare sul marciapiede in mezzo a una strada, ci ha relegato a dormire lungo i muri./ Ci obbligano a tornare indietro,/ non possono capire che il trattato di Dublino è il colonialismo: a chi possiamo denunciarlo?».

      In Stanze si respira la vertigine deserto, si intuisce la fatica del viaggio. Si ascolta una madre che teme per il figlio emigrato. Si sente sotto i piedi la lastra nera del mare. Si impara che cosa sia il bisogno di fuggire da una terra invivibile, ma anche la disillusione per essere finiti in un Paese diverso da come lo si sognava. Si diventa testimoni della miseria e dell’indifferenza vissuti in Italia. E si è inchiodati alla denuncia: «Gli italiani non hanno mantenuto la promessa fatta», quella di un’accoglienza che dia un minimo di sostanza al diritto d’asilo concesso sulla carta.

      Nato come videoinstallazione, Stanze è stato girato con un gruppo di giovani rifugiati somali che sono stati “ospiti” degli spogli locali dell’ex caserma La Marmora di via Asti, a Torino. Le riprese, senza luce artificiale, si sono svolte in un’unica giornata ma la preparazione è durata mesi, in collaborazione con la mediatrice culturale e scrittrice Suad Omar. In questo «film di parola e non di azione» (è la definizione dei fratelli De Serio) gli attori, a turno, narrano le loro storie per circa un’ora, fermi davanti alla camera da presa, in versi somali con sottotitoli in italiano.

      La forma recupera e riattualizza il genere della “catena poetica” (una serie di liriche collegate fra loro, strumento di dibattito pubblico e politico nella tradizione orale della Somalia). Mentre, nei contenuti, la cronaca e la testimonianza si fanno poesia civile, con un’asprezza senza tempo che ricorda a tratti i salmi più scabri e le denunce più dure dei profeti dell’Antico Testamento.

      Una parte dei testi proposti dal gruppo di giovani rifugiati non si limitano alla situazione del diritto d’asilo ma “interpretano” anche la storia dell’ex caserma La Marmora, decifrando in quelle mura «una vera e propria centrifuga della storia italiana», come ricorda l’associazione di “mutuo soccorso cinematografico” Il Piccolo Cinema di Torino: «Fondata durante il primo periodo coloniale italiano nel corno d’Africa, la caserma è poi diventata sede, durante il fascismo, della Guardia nazionale repubblicana e vi si sono consumate torture e fucilazioni dei partigiani prigionieri». Da qui la ripresa in Stanze (stanze come strofe poetiche, stanze di mattoni) di alcuni stralci degli atti del processo che, nel 1946, vide alla sbarra alcuni fascisti che “lavorarono” in via Asti. Ancora Il Piccolo Cinema: «Nel film gli ex abitanti della caserma, attraverso un percorso di sdoppiamento storico ed esistenziale, si fanno carico della nostra stessa storia e delle sue mancanze».

      Prodotto per la prima edizione del “Premio Italia Arte Contemporanea” del Maxxi di Roma, Stanze ha ottenuto la menzione speciale della giuria «per l’uso innovativo del linguaggio filmico nel rappresentare la condizione umana di sofferenza e di oppressione che attraversa la nostra storia».

      Alcune scene e una presentazione del video da parte di Gianluca e Massimiliano De Serio sono presenti su You Tube: https://www.youtube.com/watch?v=GvWW0Ui7Nr0

      Il sito Internet dei fratelli De Serio è: www.gmdeserio.com
      https://viedifuga.org/stanze

    • Intervista a Gianluca e Massimiliano De Serio - Quella stanza fuori dall’Africa

      Quella stanza fuori dall’Africa Teresa Macri ROMA Incontro con i gemelli De Serio, menzione speciale della giuria per il Premio Italia Arte Contemporanea al Maxxi. «Abbiamo girato un film-catena poetica che recupera la tradizione orale somala, prima dell’avvento della scrittura. Nel nostro caso, la narrazione orchestrata dalla poetessa Suad Omar è declinata da alcuni rifugiati politici che interpretano le loro storie di esiliati» Gianluca e Massimiliano De Serio con il mediometraggio Stanze, si sono aggiudicati una menzione speciale da parte della giuria e una passione smodata da parte del pubblico. Sarebbe stato un esemplare epilogo se, nel catastrofico crinale italiano come quello che stiamo attraversando, la giuria avesse inviato un chiaro segno politico puntando sul loro film che riesce a coagulare paradigma storico, displacement, soggettività e funzione del linguaggio poetico attraverso i racconti di alcuni politici somali in Italia. Comunque sia i fratelli De Serio (Torino, 1978) sono stati appena premiati alla 28ma edizione di Torino Film Festival con il documentario Bakroman sui ragazzi di strada del Burkina Faso. Fin dal 1999, i gemelli indagano senza tregua e senza alcun rigurgito ideologico sui temi dell’identità culturale, «negoziata», fluida e in divenire nell’epoca tardo-capitalista, sui conflitti tra urbanità e minoranze etniche che stanno ridefinendo le nostre società occidentali. La loro è una ricerca «etica», indirizzata sullo scontro degli spazi sociali e sul disagio dell’estetica, nei confronti della politica. Una ricerca in con-trotendenza con l’immaginario simulacra-le così ripercorso dalla loro stessa I-Generation. Ragione dei numerosissimi riconoscimenti internazionali ricevuti finora: Nastro d’Argento per il miglior cortometraggio (2004), il festival di Edimburgo (2006), Oberhausen (2006), Stoccarda (2005), Vendó me (2005 e 2006) e, come miglior film italiano, per tre anni consecutivi al Tff. L’asserzione dell’artista Francis Alys «a volte fare qualcosa dl poetico può diventare politico e a volte fare qualcosa dl politico può diventare poetico» sembra descrivere li vostro film. Come è nata e si è sviluppata l’idea dl «Stanze»? Poesia e politica non sono per forza estranee. Al contrario. Cosl come l’estetica può veicolare un contenuto etico, il rapporto fra le due sfere deve essere il più coerente possibile. In particolare, Stanze è un lavoro che si sviluppa in entrambe le direzioni. E un film/catena poetica che recupera la tradizione orale somala prima dell’avvento della scrittura. La poesia era lo strumento di discussione etica e politica della società somala, con essa si creavano catene poetiche attraverso le quali si dibatteva: venivano apprese a memoria dalla società e servivano per un dibattito pubblico, sublimato dalla bellezza e dal rigore della metrica. Nel nostro caso, le poesie, create sotto la maestria della poetessa Suad Omar, sono declinate da un gruppo di rifugiati politici che interpretano le loro storie di esiliati e si fanno carico della nostra storia e delle nostre mancanze.
      «Stanze» è centrato sulle forme di potere autoritarie: dal colonialismo italiano In Africa al fascismo del ventennio fino all’attuale stato dl diritto discrezionale... Il film è un lento scivolare dalla diaspora dei somali all’inadeguatezza del nostro paese nell’accoglierli secondo le regole internazionali. Progressivamente, i rifugiati arrivano ad interpretare stralci del processo, del 1946 nella caserma di via Asti di Torino, in cui vennero condannate alcune guardie nazionali repubblicane fasciste, colpevoli di sevizie, di torture e uccisioni di numerosi partigiani (tutti amnistiati, creando in questo modo un vuoto storico e giudiziario). I somali, figli indiretti della nostra storia e delle colpe coloniali e fasciste e oggi rifiutati dalla nostra società, prendono la voce dei testimoni del processo, attuando una sorta di sdoppiamento storico ed esistenziale che incolpa prima di tutto l’Italia e ne riempie il vuoto morale e politico. I luoghi di ogni «stanza poetica» sono alcune sale della tremenda caserma di via Asti, che paradossalmente è stata un provvisorio posto di accoglienza di centinaia di rifugiati politici somali nel 2009, alcuni dei quali protagonisti del film. Lo sradicamento del soggetto post-coloMale è al centro delle vostre analisi sia In «Zakarla» che in «Stanze». In ciò conta molto l’humus torinese dove vivete? Torino è una città che ha visto nascere i movimenti di potere, ma anche di protesta e di avanguardia in Italia. E un luogo di spe:
      * rimentazione sociale dove si cerca di supplire alle mancanze del govemo in materia di rifugiati politici. Molte delle nostre storie nascono e si creano nel nostro quartiere o nella nostra città. Qui ha sede il Centro Studi Africani, dove ha avuto inizio la ricerca per realizzare Stanze. Il presidente, ora purtroppo scomparso, era Mohamed Aden Sheickh, ex ministro somalo che è stato sei anni in cella di isolamento sotto la dittatura di Siad Barre ed è a lui e ai rifugiati politici che dedichiamo il lavoro. Grazie a lui abbiamo incontrato Abdullahi, Suad Omar e tutti i rifugiati politici protagonisti. La necessità dl ritornare su accadimenti passati della storia Italiana (come II film dl Martone "Nol credevamo») è un meccanismo dl presa di coscienza del presente attraverso una di logica della memoria? Il nostro è un tentativo di creare una nuova immagine del presente, fuori da ogni formato e da ogni cliché, capace di farsi carica di significato e di aprirsi a riflessioni future e a ri-letture del passato, sotto una nuova estetica e rinnovati punti di vista. Stanze, per esempio, parte dalle storie della diaspora presente, dalle torture in Libia e dai respingimenti, dai non diritti dei rifugiati, che si perpetuano tutti i giorni tra Africa e Italia, fin dentro il nostro stesso paese. Questa diaspora ha radici profonde e interpella la nostra storia più nera, sconosciuta o opportunisticamente dimenticata, quella del colonialismo, degli eccidi in Somalia da parte degli italiani, delle colpe dei fascisti, mai pagate fino in fondo come ci insegna via Asti. C’è nella vostra ricerca una attenzione alla struttura metrica che stabilisce anche Il ritmo del film. II riferimento è alla catena poetica dl Stanze», alla rima del rappers in «Shade ? Da anni onnai lavoriamo sul tentativo, di volta di volta diverso, di creare una «nuova oralità». La trilogia dedicata a Shade era un lungo flusso di coscienza in freestyle, che abbandonava le classiche regole del genere per farsi nuova parola e immagine, icona, memoria di se stessa. In Stanze abbiamo spazializzato il suono, lo abbiamo reso scultura, capace di riflettersi su un’immagine aderente al concetto di catena poetica e in grado di farsi bella, perfetta, ipnotica, sia nella metrica e nel suono, ma anche nei colori e nelle luci. Solo così crediamo si possa restituire la dignità e il coraggio di mettersi in gioco dei nostri protagonisti: ognuno con i suoi strumenti, in un dialogo continuo che si fa scambio, dialettica, alleanza.
      PREMIO ITALIA ARTE Rossella Biscotti presenta il suo «Processo» dopo il 7 aprile L’artista Rossella Biscotti è la vincitrice della prima edizione del Premio Italia Arte Contemporanea, curato da Bartolomeo Pietromarchi e organizzato dal Mani per sostenere e promuovere l’arte italiana rigosamente under 40. «II Processo», realizzato dalla Biscotti (Molfetta, 1978, ma vive in Olanda) consta in una installazione molto formale di architetture residuali in cemento armato ispirate alla conversione logistica subita dalla razionalista palestra della scherma realizzata da Luigi Moretti al Foro Italico in aula bunker durante i processi politici degli anni di piombo, tra cui quelli legati al caso Moro. Parallelamente e più pregnantemente un audio, disseminato nel museo, invia le registrazioni del famoso processo .7 Aprile». A colpire la giuria è stata «l’intensità del lavoro e il forte legame che l’artista ha saputo costruire fra l’architettura del museo e quella dell’opera». L’installazione sarà acquisita dal Marci e verrà pubblicata una monografia dell’artista. Tre gli altri finalisti in lizza: Rosa Barba (Agrigento, 1972) con il suo museo nascosto» nei depositi; Piero Golia (Napoli 1974) che cerca di confondere lo spettatore spostando continuamente il punto di vista, e i gemelli De Serio, menzione speciale per il loro mediometraggio «Stanze».

      https://archive.ph/Ob2nj#selection-68.0-68.2

    • Italy’s De Serio Brothers on CineMart-Selected Colonial-Era Drama ‘Prince Aden’ (EXCLUSIVE)

      Gianluca and Massimiliano De Serio, the Italian directing duo best known internationally for their Locarno premiere “Seven Acts of Mercy,” are developing a colonial-era drama that they’re presenting during the Rotterdam Film Festival’s CineMart co-production market.

      “Prince Aden” begins in 1935, when a 16-year-old Somali boy passes the test to become a dubat, a soldier in the Italian army that has invaded Ethiopia on the orders of Mussolini. Aden Sicré is sent to the frontlines, but after being injured on his first day of service he’s forced to return home – where he is unexpectedly hailed as a war hero by the Fascist regime.

      Five years later, Aden is recruited to take part in a recreation of the daily life of an African village at the newly built Mostra d’Oltremare exhibition center in Naples. But when Italy enters the Second World War, the “human zoo” suddenly closes, stranding Aden and the other African inhabitants for three years as Allied bombs destroy the city around them.

      Inspired by the book “Partigiani d’Oltremare,” by the Italian historian Matteo Petracci, the film follows the unexpected turns in the years after, as Aden and other African fighters play a pivotal role in the partisan struggle against fascism in Europe, and the would-be shepherd is hailed as the film’s titular prince.

      “Prince Aden” sheds light on an “unknown story” that helped shape the course of Italy in the 20th century, according to Gianluca. Yet it’s a story that’s become increasingly relevant against the backdrop of modern-day Europe.

      “We found that this story is not so far from those of thousands of young people who leave their homeland and come to Italy and Europe to find a new life today,” he said. “There is a kind of mirror” with current events.

      Massimiliano said that “this story is a contemporary story, not only a story of our recent past,” which reflects how events between the colonial era and the present day are connected.

      “We need to talk about not only our origin [as colonizers and fascists], but also we need to talk about the importance of Africa to our story, and also the importance of the Italian story to the African one,” he added. “The film will not only be a film about colonialism, because everything starts from there, but also about post-colonialism.”

      The De Serio Bros. addressed similar topics in their 2010 film installation “Stanze” (Rooms) (pictured), which looked at issues of colonialism, post-colonialism and their consequences on the condition of migrants today.

      Central to “Prince Aden” will be an interrogation of the ways in which the Fascist regime exploited the image of its young African hero for its own purposes. The brothers will also examine the role played by the Mostra d’Oltremare, as well as the Italian film industry, in promoting the propaganda of the Fascist government, raising questions of how history is staged and narratives framed.

      It’s a timely subject in an era when previously marginalized voices across the world are struggling to reclaim their own stories. Massimiliano noted how an increasing number of young Italian writers, artists and musicians with African roots have in recent years begun to produce art that echoes their own experiences as second- and third-generation Italians.

      However, he said, “there is not a real debate in Italy’s culture about our colonialism and the ashes of this colonialism after the ‘60s” similar to how the Black Lives Movement has cast fresh light on race history in the U.S.

      That lack of accountability or reflection extends to cinema, which “didn’t really face up to colonialism” after the fall of the fascist regime, Massimiliano said. That, in turn, has had a profound effect on Italian culture today.

      “Cinema works with images. It gives visibility to something, and it hides something else,” said Gianluca. “For us, cinema is a responsibility…. It’s a choice. It’s close to the work of archaeologists: going under the surface and looking for pieces of our identity that are hidden not only in the past, also in the present.”

      The De Serio Brothers’ debut feature, “Seven Acts of Mercy,” made a splash on the festival circuit after premiering in competition in Locarno in 2011. The brothers later premiered in the Venice Film Festival in 2016 with the documentary “River Memories,” about one of the largest shanty towns in Europe. Two years ago, they bowed “The Stonebreaker,” starring “Gomorrah’s” Salvatore Esposito, in the festival’s Venice Days strand.

      “Prince Aden” is produced by Alessandro Borrelli for La Sarraz Pictures. As the filmmakers search for potential co-producing partners during CineMart, Massimiliano stressed that their film is inherently a “European project” that is “important for Europe.”

      “We are the doors of Europe in the Mediterranean today,” he said, “and I think that this project could be a way for Europe to understand better the European roots that are not only the European, Christian roots, but also the roots of our tragic and somehow also beautiful links [and] violent links with Africa. The film will be violent and tender at the same time.”

      https://variety.com/2022/film/global/rotterdam-cinemart-de-serio-brothers-prince-aden-1235167410

    • La macabra storia dell’ex Caserma La Marmora di Torino

      Ormai in disuso, la vecchia Caserma La Marmora dal ’43 al ’45 fu luogo di detenzione e di tortura, dove persero la vita molti italiani.

      Al giorno d’oggi, al civico numero 22 di via Asti a a Torino si trova l’ex #Caserma_Dogali, ora Caserma La Marmora.

      La struttura militare fu il centro di terribili atti di tortura e fucilazione durante il Secondo conflitto mondiale.

      Alle origini, la caserma di via Asti divenne la sede di un Reggimento di fanteria.

      Costruita dal 1887 al 1888, il progetto della struttura fu opera del capitano del Genio, #Giuseppe_Bottero.

      Inizialmente, all’inaugurazione si scelse il nome di caserma “Dogali” di Torino (solo in futuro poi prenderà il nome “La Marmora”).

      Questa denominazione in particolare, richiama l’infausta battaglia di Dogali, la quale ebbe luogo in corrispondenza della costruzione dell’edificio.

      Al tempo, il corpo si spedizione italiano era impegnato nel Corno d’Africa, in Eritrea, per portare avanti le pretese coloniali del governo #Depretis.

      Risaputa è la sconfitta dell’esercito italiano, che proprio durante la battaglia di Dogali del 26 gennaio del 1887 venne piegato da un’impensabile esercito etiope.

      La disfatta coprì di vergogna l’Italia agli occhi delle potenze mondiali.

      In seguito, il ministro Depretis diede le dimissioni a distanza di poche settimane.

      Indubbiamente, il catastrofico evento generò clamore in tutta la penisola.

      Nel capoluogo piemontese si prese la decisione di intitolare una via con il nome del tenente colonnello Tommaso De Cristoforis, casalese di origini che perse la vita durante la campagna africana.

      Mentre, invece la nuova caserma prese il nome dell’infima battaglia.

      Come primo impiego militare, si ospitarono al suo interno due reggimenti di fanteria.

      Mentre dal luglio del 1912, fu sede del comando del Battaglione Aviatori della neo-aeronautica militare italiana.

      Nel 1920, su richiesta dell’Alto Comando militare, la caserma ospitò un reggimento di Bersaglieri, il IV.

      Mentre l’anno successivo cambiò nome, diventando Caserma “La Marmora”, in onore di #Alfonso_La_Marmora, generale e politico de Regno di Sardegna, ideatore dell’unità dei bersaglieri.

      Purtroppo, nel 1943 la Caserma La Marmora divenne il centro di terribili avvenimenti.

      Dopo l’armistizio dell’ 8 settembre 1943, i partigiani, grazie all’appoggio degli alleati, misero a ferro e fuoco il Piemonte.

      Così si decise di riconvertire la caserma come quartier generale dell’#Ufficio_Politico_Investigativo (l’#Upi).

      Sotto la gestione della #Guarda_Nazionale della neo-nata #Repubblica_Sociale.

      Il nuovo incarico era quello di reprimere ed eventualmente annichilire ogni forma di lotta clandestina partigiana, con ogni maniera necessaria.

      Nelle camere della caserma, sotto il comando del colonnello #Giovanni_Cabras e del maggiore #Gastone_Serloreti, si rinchiudevano e si interrogavano i partigiani catturati.

      Gli interrogatori venivano portati avanti attraverso spietate torture psicologiche e fisiche.

      Che si concludevano con la fucilazione o con la deportazione in Germania dei ribelli, in accordo con i nazisti.

      Tra la notte del 27 e del 28 gennaio però, un’incursione partigiana, comandata da #Livio_Scaglione, riuscì ad occupare la caserma e liberare i prigionieri.

      Con la fine della guerra, l’ex struttura militare cadde inevitabilmente nella desuetudine, che continua fino ai giorni nostri.

      Tuttavia nel 1962, in ricordo degli eroi che persero la vita, venne posta una lapide nella caserma, esattamente nel luogo in cui avvennero le esecuzioni.

      https://mole24.it/2021/05/05/la-macabra-storia-dellex-caserma-la-marmora-di-torino
      #partisans

  • Food crisis looms as Ukrainian wheat shipments grind to halt
    Prices soar as Black Sea ports at virtual standstill amid Russian assault.

    At this time of year, Kees Huizinga is normally busy planting wheat, barley and corn on his farm in central Ukraine. But, having lost workers to the frontline, the Dutch national left his grain silos to sound the alarm about the impact of the Russian invasion on global wheat supply.

    Russia and Ukraine supply almost a third of the world’s wheat exports and since the Russian assault on its neighbour, ports on the Black Sea have come to a virtual standstill. As a result, wheat prices have soared to record highs, overtaking levels seen during the food crisis of 2007-08.

    “If farmers in Ukraine don’t start planting any time soon there will be huge crisis to food security. If Ukraine’s food production falls in the coming season the wheat price could double or triple,” said the Dutch national, who has been farming for two decades in Cherkasy, 200km south of Kyiv. He is part of a farming union, whose 1,100 members cover just under 10 per cent of the country’s farmland.

    While well stored wheat, such as that on Huizinga’s farm, can last several months, agricultural experts and policymakers have warned of the impact of delayed shipments on countries reliant on the region for wheat, grain, sunflower oil and barley.

    “They’re going to have to find different suppliers and all that means higher prices,” said Joseph Glauber, the former chief economist at the US Department of Agriculture and a senior fellow at agricultural policy think-tank IFPRI.

    The surge in prices will fuel soaring food inflation — already at a seven-year high of 7.8 per cent in January — and the biggest impact will be on the food security of poorer grain importers, warned analysts and food aid organisations.

    Ukraine accounts for 90 per cent of Lebanon’s wheat imports and is a leading supplier for countries including Somalia, Syria and Libya. Lebanon is “really struggling with an already high import bill and this is only going to make things worse,” said James Swanston, emerging market economist at Capital Economics.

    Russia also provides its Black Sea neighbour Turkey with more than 70 per cent of its wheat imports, according to the International Trade Centre. Even before the Russian invasion of Ukraine, inflation in Turkey had had hit a 20-year high of 54.4 per cent in February. “The war is only going to exacerbate the cost of food,” said Ismail Kemaloglu, the former head of the state Turkish Grain Board and now the director of the consultancy IK Tarimussu.

    “What’s critical here is that the Black Sea offers a logistical and price advantage . . . Costs will rise significantly when [Turkey] buys from the US or Australia,” he said. “Even if the war ends tomorrow, Ukraine’s planting season has already been disrupted and it will impact the 2022 harvest regardless.”

    The UN World Food Programme, which procures grains and food to distribute to poorer countries, bought just under 1.4m tonnes of wheat last year of which 70 per cent came from Ukraine and Russia.

    Prior to the invasion it was already facing a 30 per cent increase in the cost of wheat, because of poor harvests in Canada, the US and Argentina. The latest surge in grain prices would further curtail its ability to provide aid, it said.
    “This is an unnecessary shock of mega proportions,” said Arif Husain, chief economist at the WFP.

    High prices could trigger unrest, analysts said.

    The last time wheat prices spiked to these levels in 2007 and 2008 because of severe production declines in leading producing countries such as Australia and Russia, protests spread through nearly 40 countries from Haiti to the Ivory Coast, while a jump in grain prices in 2009-10 is regarded as one of the triggers of the Arab Spring uprisings in the Middle East.

    Russia accounts for two-thirds of Egypt’s wheat imports. Egyptian authorities say their wheat inventories will last until mid June and the Egyptian local harvest should start coming in by mid April. Any rise in subsidised bread prices and further increase in food inflation in Egypt “increases the threat of social unrest,” said Swanston.

    It is also unclear how long the crisis will last, said analysts, a fact that is boosting prices. “The market is worried that this is not a problem that’s going to be solved any time soon,” said Tim Worledge at Agricensus, the agricultural data and pricing agency.

    Wheat inventories are tight everywhere and as Chinese and South Korean buyers of Ukrainian corn, used to feed livestock, sought sellers elsewhere, EU agricultural ministers on Wednesday discussed allowing farmers to boost production using the 10 per cent of land they usually leave fallow in response to the war in Ukraine.

    In the short term, Ukrainian farmers contending with a war may struggle to spread fertilisers and pesticides and plant seeds for the spring crop. The next crop is due in the European summer. That harvest will depend on how long the Russian invasion lasts and for how long exports via the ports will be blocked.

    Sitting in his friend’s house in Siret close to the Romania-Ukraine border, Huizinga said the main question raised during a call with 75 fellow Ukrainian farmers was whether to plant or not to plant. They may struggle to get fertiliser and crop protection and it is unclear whether they could actually harvest and ship the crop. “The supply chain is broken,” he said.

    Some of the 400 staff on his 15,000 hectare farm have gone to fight and Huizinga has posted videos on social media of fellow farmers in the bomb shelters and villagers slaughtering pigs to deliver food to those in Kyiv and in the army. The difficulty, he said, could soon extend way beyond Ukraine. “We can face a huge problem, especially the poor people, who will have difficulty getting bread.”

    https://www.ft.com/content/457ba29e-f29b-4677-b69e-a6e5b973cad6

    #crise_alimentaire #blé #Ukraine #guerre #prix #Russie #Liban #Somalie #Syrie #Libye #Turquie #impact #Mer_Noire #mondialisation #globalisation #Egypte #inflation #pain

  • Android Developers Blog: Google for Games Developer Summit returns March 15
    https://android-developers.googleblog.com/2022/02/google-for-games-developer-summit-returns.html

    The Google for Games Developer Summit returns virtually on March 15, 2022 at 9AM Pacific. From mobile to cloud, learn about our new solutions for game developers that make it easier to build high-quality games and reach audiences around the world.

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #business #google #google_games_developer_summit #annonce #date #salon #conférence #sommet #android #google_play

  • #EMSA signs cooperation agreements with EU Naval Missions to provide enhanced maritime awareness for operations in Somalia and Libya

    EMSA is supporting EU Naval Force operations – #Atalanta and #Irini – following the signature of two cooperation agreements with EU #NAVFOR-Somalia (#Operation_Atalanta) on the one hand and #EUNAVFOR_MED (#Operation_Irini) on the other. Operation Atalanta targets counter piracy and the protection of vulnerable vessels and humanitarian shipments off the coast of Somalia, while operation Irini seeks to enforce the UN arms embargo on Libya and in doing so contribute to the country’s peace process. By cooperating with EMSA in the areas of maritime security and #surveillance, multiple sources of ship specific information and positional data can be combined to enhance maritime awareness for the #EU_Naval_Force in places of particularly high risk and sensitivity. The support provided by EMSA comes in the context of the EU’s Common Security and Defence Policy.

    EUNAVFOR-Somalia Atalanta

    EMSA has been supporting the EU NAVFOR-Somalia Atalanta operation since April 2011 when piracy off the coast of Somalia was at its peak. The various measures taken to suppress piracy have been successful and the mandate of the operation was not only renewed at the beginning of last year but also expanded to include measures against illegal activities at sea, such as implementing the arms embargo on Somalia, monitoring the trafficking of weapons, and countering narcotic drugs. Through the cooperation agreement, EMSA is providing EU NAVFOR with access to an integrated maritime monitoring solution which offers the possibility of consulting vessel position data, central reference databases and earth observation products. This is integrated with EU NAVFOR data – such as vessel risk level based on vulnerability assessments – creating a specifically tailored maritime awareness picture. The new cooperation agreement extends the longstanding collaboration with EU NAVFOR for an indefinite period and is a great example of how EMSA is serving maritime security and law enforcement communities worldwide.

    EUNAVFOR MED Irini

    The EUNAVFOR MED operation Irini began on 31 March 2020 with the core task of implementing the UN arms embargo on Libya using aerial, satellite and maritime assets. It replaces #operation_Sophia but with a new mandate. While EMSA has been providing satellite AIS data to EUNAVFOR MED since 2015, the new cooperation agreement allows for access to EMSA’s #Integrated_Maritime_Services platform and in particular to the Agency’s #Automated_Behaviour_Monitoring (#ABM) capabilities. These services help EUNAVFOR officers to keep a close eye on Libya’s ports as well as to monitor the flow of maritime traffic in the area and target specific vessels for inspection based on suspicious behaviour picked up by the ABM tool. While the agreement is open ended, operation Irini’s mandate is expected to run until 31 March 2023.

    https://www.emsa.europa.eu/newsroom/press-releases/item/4648-emsa-signs-cooperation-agreements-with-eu-naval-missions-to-provide

    #coopération #Somalie #Libye #mer #sécurité #sécurité_maritime #Agence_européenne_pour_la_sécurité_maritime (#AESM) #piraterie #piraterie_maritime #armes #commerce_d'armes #drogues #trafic_maritime

    ping @reka @fil

  • #Emmanuel_Macron, 19.01.2022 : « Refonder le partenariat avec l’#Afrique »

    « En lien avec #Charles_Michel et #Ursula_von_der_Leyen, nous avons ainsi souhaité que nous puissions tenir un #sommet au mois de février afin de refonder notre partenariat avec le #continent_africain », a annoncé Emmanuel Macron

    Un partenariat notamment dans le cadre de la pandémie, Emmanuel Macron annonçant que « 700 millions de doses auront été distribuées d’ici juin 2022 », mais pas seulement, le président prônant aussi le fait de « réinventer une nouvelle alliance avec le continent, d’abord à travers un New Deal économique et financier avec l’Afrique ».

    L’Europe a « le devoir de proposer une nouvelle alliance au continent africain, les destins des deux rives de la Méditerranée sont liés », a fait valoir Emmanuel Macron. « Nous ne pouvons aborder décemment le sujet des migrations sans traiter les causes profondes », a-t-il soutenu, ajoutant que « c’est en Afrique que se joue une partie du bouleversement du monde ».

    https://fr.finance.yahoo.com/actualites/avortement-russie-%C3%A9tat-droit-quil-111427046.html

    #Europe #Macron #partenariat #discours #alliance #New_Deal_économique #New_Deal #migrations #root_causes #causes_profondes

    via @karine4
    ping @isskein @rhoumour

  • Covid long : les enfants et les ados dans le brouillard médical [octobre 2021]
    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2021/10/05/covid-long-les-enfants-et-les-ados-dans-le-brouillard-medical_6097133_165068

    Il cite notamment une étude, publiée en août dans le Lancet Children Adolescent Health, mentionnant que 4 % d’enfants de 5 à 17 ans infectés par le SARS-CoV-2 ont des symptômes persistants quatre semaines après l’infection.

    L’Office national de statistiques britannique a récemment publié des données plus rassurantes : entre douze et seize semaines après l’infection, 3,2 % des enfants de 2 à 11 ans et 3 % des 12-16 ans présentent toujours un des symptômes persistants (fièvres, maux de tête, douleurs articulaires, perte du goût ou de l’odorat…). Selon le gouvernement israélien, qui a questionné les parents de plus de 13 000 enfants âgés de 3 à 18 ans infectés par le virus, 1,8 % des enfants de moins de 12 ans et 4,6 % des enfants de 12 à 18 ans rapportaient des symptômes plus de six mois après la phase aiguë de la maladie.

    (Je suis un peu obtus, je n’arrive pas à comprendre pourquoi il est écrit « des données plus rassurantes ».)

    • Oui, mais c’est 3% entre 12 et 16 semaines après l’infection, comparé à 4% après 4 semaines. Et les 1,8% et 4,6%, c’est carrément six mois (24 semaines) après.

      La seule façon que je vois de trouver que c’est rassurant, c’est de considérer que certes une proportion pas négligeable de gamins en chient encore six mois après avoir fait un Covid, mais au moins ils ne sont pas morts.

    • Alors bon, la question à 1000 brouzoufs : est-ce qu’Omicron va provoquer des Covid longs, notamment chez les enfants ? Est-ce qu’il existe la moindre donnée médicale qui laisserait penser que non ? Ou bien est-ce un pari politique qu’on a tous pris collectivement, à l’unanimité, pendant le débat intitulé « oh là là y’en a marre des restrictions ! » chez Hanouna ?

    • [des lignes en intro absentes] Les familles décrivent de multiples symptômes comme des douleurs, des maux de ventre, de la fatigue, des difficultés d’apprentissage, des symptômes souvent non spécifiques, qui peuvent, dans certains cas, fortement peser sur la vie quotidienne. « Nous voyons des enfants qui suivent à l’école mais qui n’enregistrent plus, ou sont trop fatigués pour aller au sport. Le Covid long peut prendre le masque d’une dépression ou d’une baisse du rendement scolaire », constate Dominique Salmon-Ceron, infectiologue à l’Hôtel-Dieu. Constat partagé par plusieurs médecins.

      Très peu de cas [en octobre dernier, et selon les français]

      Qu’en est-il de ce brouillard cérébral, qui se traduit par des troubles de l’attention, de la concentration, décrit par les enfants comme les adultes ? Le professeur Eric Guedj, avec des pédiatres de l’hôpital de la Timone (Marseille), a mené des travaux chez 7 enfants de 10 à 13 ans ayant une persistance de symptômes (fatigue, troubles cognitifs…) plus de quatre semaines après les premiers symptômes du Covid-19. Il a comparé leur TEP-scan à celui de 21 enfants témoins et 35 adultes touchés par le Covid long, et 44 sujets sains. « Ces études en neuro-imagerie réalisées cinq mois plus tard ont montré des anomalies cérébrales similaires à celles des adultes avec Covid longs », explique le professeur Guedj. « Ces résultats fournissent des arguments en faveur d’un possible Covid long chez les enfants », est-il souligné dans l’étude publiée en août dans l’European Journal of Nuclear Medicine and Molecular Imaging.

      « Au regard de ce que nous voyons à travers les urgences, les hospitalisations et les consultations hospitalières, nous avons très peu de cas », estime cependant la professeure Christèle Gras-Le Guen, pédiatre et chef des urgences pédiatriques et du service de pédiatrie générale du CHU de Nantes. « Ce qui nous inquiète, ce n’est pas le Covid long, que je ne nie pas, c’est l’explosion de demandes en santé mentale liée aux effets de la crise sanitaire », poursuit la pédiatre. Même constat pour le professeur François Angoulvant, président du Groupe francophone de réanimation et d’urgences pédiatriques (Gfrup) et pédiatre à l’hôpital Robert-Debré : « Nous avons peu d’enfants qui viennent consulter à l’hôpital pour un Covid long. »

      « Il est fréquent de voir des enfants douloureux, fatigués, il est difficile de savoir si ces symptômes sont directement liés ou non au virus ou si ce sont des enfants déprimés, ou autre chose », poursuit François Angoulvant. Il n’est pas toujours simple de faire le diagnostic différentiel avec la dépression. Pour y voir plus clair, il coordonne une étude, à partir de la cohorte #Pandor, qui suit des enfants hospitalisés pour Covid, afin de voir quels sont les symptômes persistant six mois à un an après. « La plupart des enfants souffrant de Covid long pédiatrique n’ont pas connu de forme grave de la maladie nécessitant une hospitalisation d’urgence ou un passage en réanimation », souligne toutefois l’association #ApresJ20.

      Par ailleurs, les pédiatres distinguent les Covid longs des #PIMS, ces syndromes inflammatoires multisystémiques pédiatriques décrits pour la première fois en avril 2020, qui surviennent à distance de l’infection, environ quatre à cinq semaines plus tard. Entre le 1er mars 2020 et le 22 août 2021, 640 cas ont été signalés chez des enfants, selon les données de surveillance de Santé publique France, avec un âge médian de 7 ans.

      La réalité du Covid long reste controversée au sein du corps médical. « C’était difficile d’en parler jusqu’à il y a trois ou quatre mois », constate Mélanie Heard, responsable du pôle santé de Terra Nova et membre du COSV, qui évoque le déni de certains pour qui « c’est psychosomatique, ce n’est pas une réalité ». Mélanie Heard y voit « un échec cuisant de la démocratie sanitaire qui ne permet finalement toujours pas que la parole des patients soit entendue ».

      « Trop de familles sont confrontées au déni de la maladie et se voient proposer une prise en charge uniquement psychologique, sous prétexte de troubles psychosomatiques », déplore Cristina, mère d’Antoine, âgé de 13 ans et qui souffre de Covid long depuis mars 2020 – il utilise un fauteuil roulant pour aller trois heures par semaine au collège. « Des familles décrivent des parcours du combattant », poursuit Cristina, qui gère le groupe Facebook Covid long enfants/adolescents, créé en octobre 2020, qui compte 1 550 membres.

      « Nous demandons que le Covid long de l’enfant soit inclus dans les recommandations de la HAS, souligne Cristina, afin que les médecins soient informés et que les enfants et adolescents puissent être pris en charge et adressés dans des centres spécialisés, qui n’existent aujourd’hui que pour les adultes. »

      On se souvient que jusqu’à preuve du contraire (arrivée de nouveaux variants), la vaccination diminue le risque de covid long, et qu’elle réduit aussi pour partie la gravité des covid longs.

      On vérifie que les pathologies psychosomatiques font rigoler les toubibs. La somatisation les confronte à leur impuissance à prodiguer des soins ("va donc verbaliser, ailleurs !"). Ils y pigent que dalle, c’est pas de leur ressort, une perte de temps, un gaspillage d’examens divers (quasiment de l’escroquerie). Et pourtant, elle existe. C’est vu comme aussi secondaire que ce fut le cas de la douleur. On renvoie au mieux vers des psys et des pédo-psys, introuvables.

      #covid-19 #covid_long #covid_long_pédiatrique #enfants #somatisation #vaccination

    • Selon cet article d’octobre, la vaccination diminuerait de moitié les Covid longs (c’est bien, mais c’est pas non plus monstrueux : la vaccination diminue d’un facteur 10 à 20 les entrées en réa et les décès) :
      https://seenthis.net/messages/943938
      Alors qu’on atteint de niveaux de contamination dans ces classes d’âge absolument jamais vus.

      Et les moins de 11 ans, eux, ne sont carrément pas vaccinés (j’aimerais bien parvenir à faire vacciner les miens avant qu’ils chopent cette merde, mais le ministre est visiblement très opposé à cette idée).