• #Marco_Albino_Ferrari. Contro l’assalto alle Alpi

    I territori montani sono minacciati da modelli di sviluppo ormai superati. È tempo di un pensiero nuovo, consapevole e rispettoso, come racconta il giornalista e scrittore, responsabile del settore cultura del Club alpino italiano

    “Assalto alle Alpi”, l’ultimo libro di Marco Albino Ferrari, giornalista, direttore editoriale e responsabile del settore cultura del Club alpino italiano (Cai), si apre con il racconto di una storia dimenticata ma dalla grande portata simbolica, quella di Viola Saint Gréé: un piccolo Comune in provincia di Cuneo dove negli anni Sessanta del Novecento iniziarono i lavori per la costruzione di un moderno complesso sciistico, sul modello delle stazioni “sky total” allora di moda in Francia. Nel volgere di pochi anni furono costruiti alberghi, appartamenti e multiproprietà e un enorme complesso edilizio (la Porta delle Alpi) dove gli sciatori potevano trovare tutto il necessario per il soggiorno e lo svago: dai ristoranti ai minimarket, dalle sale convegni a quelle per gli spettacoli.

    Per alcuni anni fu un successo. Poi, a partire dalla fine degli anni Ottanta, le nevicate si fecero sempre meno frequenti e abbondanti e gli anni Novanta segnarono la fine dell’avventura del piccolo comprensorio piemontese. Mentre cammina all’interno degli enormi locali vuoti e ormai vandalizzati, Ferrari si chiede quante siano le Viola Saint Gréé che punteggiano le Alpi: “Quante avventure fallimentari esistono intorno a noi, sulle quali ci ostiniamo a puntare grosse partite di denaro pubblico?”.

    Ferrari invita però a non demonizzare l’industria dello sci: “In passato ha evitato lo spopolamento di molte vallate sulle Alpi, ridotto la povertà e portato sviluppo economico -dice ad Altreconomia-. Oggi però la situazione è radicalmente cambiata. Molte stazioni sciistiche, soprattutto a quelle a bassa quota, hanno dovuto chiudere per effetto dei cambiamenti climatici: solo in Piemonte quelle attive oggi sono 30 a fronte delle 46 del 2013. Abbiamo tante piccole realtà che chiedono risorse pubbliche per poter continuare a operare. E poi ci sono le grandi società che gestiscono i grandi complessi, che puntano a crescere sempre più”.

    Può farci qualche esempio?
    MAF Penso a Dolomiti Supersky, con i suoi 12 comprensori e 450 impianti di risalita, che si estende su un totale di 1.200 chilometri di piste: l’equivalente della distanza tra Milano e Cosenza. Una superficie enorme dove si fa largo uso dei cannoni per produrre neve artificiale, ma le giornate in cui la temperatura rimane costantemente sotto i meno due gradi (in gergo, i cosiddetti “giorni-neve”) sono sempre meno e in quel ristretto lasso di tempo va prodotta la maggior quantità di neve possibile. Questo richiede una grande disponibilità d’acqua, servono quindi più invasi artificiali per raccoglierla e conservarla. Tutte queste infrastrutture resteranno sul territorio per sempre: si tratta di azioni irreversibili. Ma questi grandi comprensori non chiedono di aumentare la propria capacità di offerta per adeguarsi alla domanda degli sciatori (provenienti soprattutto dall’estero e da Paesi non alpini) ma per battere la concorrenza, vantare un nuovo primato. Un po’ come avviene nelle città con i centri commerciali che diventano sempre più grandi senza che ci sia una reale domanda.

    È possibile trovare una sostenibilità per l’industria dello sci?
    MAF Sì, è possibile. Ma per prima cosa occorre interrompere quell’accanimento terapeutico che permette di mantenere in vita le piccole stazioni sciistiche situate in località dove la neve è destinata a scomparire. E bisogna dire basta all’aumento delle piste da sci: non c’è bisogno di nuove infrastrutture dal momento che il numero di praticanti di questa disciplina non sta aumentando. L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato che da parte delle persone c’è voglia di montagna, di stare all’aria aperta: ma lo sci è solo un mezzo per farlo. Dopo il Covid-19 abbiamo visto grandi affollamenti di turisti in molte località alpine, soprattutto quelle più famose e pubblicizzate.

    “L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato che da parte delle persone c’è voglia di montagna, di stare all’aria aperta. Ma lo sci è solo uno dei mezzi per farlo”

    Vede il rischio di ripetere con il turismo estivo quello che è stato fatto con quello invernale?
    MAF Sì, questo pericolo c’è. Non si può impedire a nessuno di andare in montagna e se ha voglia di farlo è giusto che vada: però si può riflettere su dove andare. Oggi ci sono grandi concentrazioni e altrettanto grandi vuoti. Il Parco nazionale del Gran Paradiso o le Dolomiti, solo per fare due esempi, sono frequentati da milioni di persone, mentre appena al di fuori dai loro confini il numero di turisti ed escursionisti cala significativamente. Stiamo creando una geografia di luoghi “di serie A” certificati in diversi modi come eccellenze, come è successo alle Dolomiti con il riconoscimento di Patrimonio dell’umanità dell’Unesco, e in questo modo tutti gli altri vengono automaticamente declassati a luoghi ordinari e “di serie B”.

    Come fare per cambiare questa situazione?
    MAF Indicando strade alternative, evitando l’eccessiva concentrazione di turisti sia nei luoghi sia nel tempo. Le Alpi si affollano nel mese di agosto, certamente chi ha le ferie in quel periodo dell’anno non può fare diversamente, ma l’autunno è una stagione meravigliosa per frequentare le montagne e oggi i rifugi alpini tendono a prolungare le aperture. Occorre passare da un modello “concentrato e grande” a uno “diffuso e più piccolo” attraverso un’operazione culturale che aiuti questo cambio di prospettiva. Anche noi che facciamo comunicazione dovremmo lavorare per sostenere questo cambiamento.

    In “Assalto alle Alpi”, pubblicato per Einaudi, lei scrive che l’unica via per arginare la cultura dell’eccesso è promuovere un senso diffuso della misura e le Alpi possono insegnarci molto da questo punto di vista. Di quale insegnamento si tratta?
    MAF Abitare una vallata alpina significa fare i conti con un territorio che è limitato per definizione, che può offrire solo una quantità di risorse limitata. Le comunità alpine storiche hanno dovuto fare i conti con questa finitezza dei luoghi e di conseguenza hanno dovuto sempre tenere sott’occhio l’andamento demografico: se diminuiva non c’erano abbastanza braccia per i lavori collettivi, ma se invece le bocche da sfamare aumentavano era necessario emigrare, andarsene. Analogamente, anche il nostro Pianeta è un luogo finito, proprio come un fondovalle alpino. La mia vuole essere una provocazione, io non sono una persona che guarda al passato come a un luogo di verità: però questo rappresenta l’esempio lampante di come una crescita infinita, come quella che ci impone il moderno sistema capitalistico, sia impossibile. Così come il mito di una storia che punta sempre verso un progresso non reversibile.

    “Abitare una vallata alpina significa fare i conti con un territorio che è limitato per definizione e che può offrire solo un quantità finita di risorse”

    Quali interventi sono necessari per costruire un nuovo rapporto, più proficuo e sostenibile, tra città e aree montane?
    MAF Innanzitutto ricordando che la montagna non è solo turismo, come dimostrano le esperienze delle tante famiglie giovani che tornano o scelgono di trasferirsi nelle terre alte. La montagna ha bisogno di una legge quadro: durante la scorsa legislatura il Consiglio dei ministri aveva approvato un testo che sarebbe dovuto poi andare alle Camere, ma poi con la caduta dell’esecutivo si è fermato tutto. Ora bisognerà ricominciare da capo. Servono diverse tipologie di interventi per incentivare il ritorno della vita in montagna, ad esempio favorire la ricomposizione fondiaria dei terreni che, nel passaggio di padre in figlio, si sono sempre più ridotti di dimensioni fino a ridursi a microparticelle che singolarmente non sono sufficienti per vivere. Occorre intervenire per favorire le aziende che nascono in montagna per iniziativa dei giovani, ma soprattutto una visione complessiva che metta insieme tutte queste azioni. Ovviamente questo intervento da solo non basta, ma è urgente agire. Tenendo conto che purtroppo le aree montane offrono pochissimi voti e quindi, spesso, la politica se ne dimentica.

    Dedica anche ampio spazio all’analisi degli stereotipi che riducono le Alpi a luoghi salvifici o a parco di divertimenti per le persone in fuga dalla città. Quando nascono?
    MAF Nascono nell’Ottocento e individuano le Alpi come luogo alternativo alle città che, negli anni della seconda rivoluzione industriale, diventano sempre più inquinate e invivibili. Le vette alpine e i suoi abitanti vengono idealizzati, diventano il luogo salvifico per antonomasia: un mondo in cui tutto è bene, pulito, buono e armonioso. Questa idea di alterità rispetto alla città, in cui in montagna rimane tutto fermo e uguale a sé stesso continua fino ai giorni nostri e provoca uno scollamento dalla realtà che però non fa bene né ai cittadini né a chi abita sulle Alpi.

    https://altreconomia.it/marco-albino-ferrari-contro-lassalto-alle-alpi
    #Alpes #assaut #développement #modèle_de_développement #transition #ski #post-neige #montagne #livre #sky_total #industrie_du_ski #Dolomiti_Supersky #soutenabilité #tourisme_hivernal #alternatives #représentations #stéréotypes

  • Enjeux climatiques : la recherche ne peut plus produire de la connaissance à tout prix
    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2023/01/27/enjeux-climatiques-la-recherche-ne-peut-plus-produire-de-la-connaissance-a-t

    Pour le physicien Pablo Jensen, la crise écologique force les sciences à s’interroger sur le type de savoir qu’elles créent et à s’ouvrir aux recherches menées en dehors des universités.

    Le 14 novembre 2022, le CNRS a publié son bilan carbone : un chercheur émet, en moyenne, 14 tonnes de CO2 par an. Comparer ce chiffre aux 2 tonnes permises par les accords de Paris, activités personnelles comprises, donne le vertige. Car il est difficile d’imaginer comment on pourrait réduire de plus de 80 % les émissions sans repenser profondément les activités de recherche.
    Lire aussi : Article réservé à nos abonnés Devant l’urgence climatique, de plus en plus de scientifiques tentés par la radicalité : « La désobéissance civile est un acte désespéré, pour alerter sur la situation dramatique dans laquelle on est »

    Puis, le 12 décembre, le comité d’éthique du même organisme, le Comets, abandonnait ce qui a été, depuis le début des sciences modernes, la position standard de la plupart des chercheurs : faire avancer la connaissance, c’est forcément bon, à la société de décider ensuite des bonnes ou mauvaises « applications ». Position paresseuse, voire hypocrite, car elle conduit à revendiquer les bonnes applications (médicaments…), en rejetant sur la société les mauvaises (pollutions, bombes…). Le Comets affirme, au contraire, que, face à la gravité de la situation environnementale, la recherche doit tenter d’évaluer ses impacts au préalable, en se demandant si « utiliser ou développer tel grand équipement (accélérateur de particules, grand calculateur) ou travailler sur telle thématique (biologie synthétique, génomique) est susceptible d’engendrer des impacts néfastes pour la biosphère ».

    Je vois là deux signes d’un grand basculement en train de redéfinir les savoirs et leur place dans la société. Pour mieux en saisir l’ampleur, peignons à grands traits les étapes passées. Jusqu’au XVIIe siècle, on vivait dans un monde dominé par le biologique, au niveau de l’économie (agriculture, construction en bois…) ou de la pensée (Aristote). Les sciences modernes ont émergé à la suite d’une double révolution, technique et politique : le déferlement des machines et l’émergence d’individus libres.

    Les nouvelles technologies (imprimerie, navigation, télescope…) ont élargi la connaissance du monde et bousculé les certitudes anciennes. Une nouvelle science « machinique », intimement associée aux réseaux technologiques, a permis une rétroaction positive inédite entre connaissance théorique et croissance industrielle, à l’exemple de la génétique moderne, née dans les laboratoires du brasseur Carlsberg, qui cherchait à stabiliser des levures pour produire de la bière en masse.

    Côté politique, l’urbanisation contribua à l’émergence d’individus confiants en leur capacité à comprendre et à maîtriser le monde. Ces deux révolutions partageaient des valeurs, comme le souci du débat critique, mais ont toujours été en tension, car les sciences prétendent disposer d’un savoir supérieur à l’« opinion » des non-experts, et engendrent des technologies qui bouleversent les sociétés par les marchés, sans débat démocratique.
    S’adapter à un monde devenu fini

    La grande accélération qui s’est ensuivie ébranle désormais la planète entière et impose de recréer des savoirs adaptés à un monde devenu fini. Des savoirs moins dépendants de technologies sophistiquées, et mieux insérés dans nos espaces délibératifs. Il ne s’agit nullement d’un retour romantique à des savoirs prémodernes, mais, au contraire, de l’approfondissement de la révolution démocratique, pour la création de savoirs « terrestres ».

    Concrètement, il s’agira d’abord de mieux financer des savoirs jugés essentiels pour apprendre à vivre dans ce monde fini : mieux comprendre les enchevêtrements entre tous les vivants, l’impact des inégalités, les alternatives low-tech, etc. Plus profondément, il faudra redéfinir ce que sont les savoirs et leur articulation avec les activités sociales. De nombreuses pistes concrètes ont été présentées aux Journées d’été des savoirs engagés et reliés (Jeser), tenues à Lyon, fin août, et organisées par un collectif de onze associations (Mouvement-ser.or).

    Ainsi, la Commission de recherche et d’information indépendantes sur la radioactivité (Criirad) et les observatoires écocitoyens ouvrent à la société civile un savoir expert (mesure de la radioactivité, toxicologie…) pour contrer un monopole privé ou étatique potentiellement opaque. Les Jeser ont aussi donné la parole à des recherches menées en dehors des universités. Ainsi, ATD Quart Monde croise les savoirs des personnes qui connaissent la pauvreté et les savoirs académiques pour créer des connaissances engagées, car l’association veut que « ça change ». Les paysans-boulangers ont, eux, créé une filière entière, allant des semences aux consommateurs, grâce à des savoirs spécifiques sur les variétés de blés paysans, et des outils low tech partagés garantissant leur souveraineté technologique. Tout en dialoguant avec la recherche académique, comme ils l’expliquent dans leur superbe livre Notre pain est politique (La Dernière Lettre, 2019).

    On pourrait imaginer une société parsemée de chercheurs, alternant des périodes d’engagement sur le terrain et d’autres plus en retrait, pour affiner les outils conceptuels de leurs communautés disciplinaires. Comme le proposait Bruno Latour dans son dernier discours à Sciences Po : dans la « nouvelle université des sciences terrestres », les sciences fondamentales auront pour tâche, non d’être une avant-garde trouvant les solutions, mais un « back-office » contribuant à « redéfinir ce que pourrait être le problème », et aidant les professionnels grâce aux « outils les plus avancés ». De quoi redonner aux sciences l’élan qui animait le philosophe John Dewey, pour qui « le futur de la démocratie [était] lié à l’extension de l’attitude scientifique ».

    Pablo Jensen(directeur de recherche CNRS, Laboratoire de physique, chargé de mission Transition écologique à l’ENS Lyon)

    Pablo Jensen est également l’auteur de Deep Earnings chez C&F éditions

    #Pablo_Jensen #Sciences_participatives #Recherche #Ethique #Soutenabilité

  • « Nous, démissionnaires » : enquête sur la désertion d’en bas
    https://www.frustrationmagazine.fr/enquete-desertion

    Les discours vibrants d’étudiants d’une grande école d’ingénieurs agronomes, au moment de la remise de leur prestigieux diplôme, qui déclarent ne pas vouloir suivre la voie royale que notre société de classe leur réserve, ont eu un grand retentissement. Or, si la désertion d’une petite frange de nos élites est un événement, elle masque trop souvent la désertion d’en bas, moins flamboyante mais parfois plus héroïque, des membres de la classe laborieuse. Elle survient actuellement dans tous les secteurs, de la restauration à l’informatique en passant par l’Éducation nationale ou l’associatif. Les démissionnaires d’en bas disent beaucoup du dégoût du travail et de la vie sous le capitalisme. Ils remettent en question avec force la façon dont on produit, dirige et travaille dans ce pays comme ailleurs. Ils (...)

    • Des étudiants d’AgroParisTech appellent à « déserter » des emplois « destructeurs »

      Huit diplômés de l’école d’ingénieurs agronomes se sont exprimés, lors de leur cérémonie de remise de diplômes, contre un avenir tout tracé dans des emplois qu’ils jugent néfastes.

      « Ne perdons pas notre temps, et surtout, ne laissons pas filer cette énergie qui bout quelque part en nous. » Sur la scène de la luxueuse salle parisienne Gaveau, ce 30 avril, ils sont huit ingénieurs agronomes, fraîchement diplômés de la prestigieuse école AgroParisTech, à prendre la parole collectivement. Dans l’ambiance plutôt policée de cette soirée de remise de diplômes, après une introduction de musique disco sous éclairage de néons violet et vert bouteille, ils déroulent, d’un ton calme, un discours tranchant très politique.

      https://www.lemonde.fr/planete/article/2022/05/11/des-etudiants-d-agroparistech-appellent-a-deserter-des-emplois-destructeurs_

    • « Nous, démissionnaires » : enquête sur la désertion d’en bas

      Les discours vibrants d’étudiants d’une grande école d’ingénieurs agronomes, au moment de la remise de leur prestigieux diplôme, qui déclarent ne pas vouloir suivre la voie royale que notre société de classe leur réserve, ont eu un grand retentissement. Or, si la désertion d’une petite frange de nos élites est un événement, elle masque trop souvent la désertion d’en bas, moins flamboyante mais parfois plus héroïque, des membres de la classe laborieuse. Elle survient actuellement dans tous les secteurs, de la restauration à l’informatique en passant par l’Éducation nationale ou l’associatif. Les démissionnaires d’en bas disent beaucoup du dégoût du travail et de la vie sous le capitalisme. Ils remettent en question avec force la façon dont on produit, dirige et travaille dans ce pays comme ailleurs. Ils sont un groupe dont on ne parle pas mais qui augmente en nombre et dont l’existence est un caillou dans la botte du patronat. Enquête sur la désertion d’en bas.

      Il y a un an, j’ai conclu une rupture conventionnelle et quitté mon dernier CDI. Deux mois plus tard, une amie faisait de même. Six mois plus tard, un autre m’annonçait sa démission. Il y a deux semaines, mon frère a démissionné de son premier CDI, il a vécu ce moment comme une libération. Après des années de brimades et de résistances dans une association, ma belle-mère a fait de même. Autour de moi, au travail, “on se lève et on se casse”. “Félicitations pour ta démission !” est un message que j’envoie plus souvent que “bravo pour ta promotion !” . Le récit du premier rendez-vous Pôle Emploi est devenu, parmi mes proches, plus répandu que celui du prochain entretien d’embauche. Le média en ligne Reporterre nous a informé la semaine dernière que nous n’étions pas les seuls, loin de là. Le phénomène de la « grande démission », qui a concerné aux Etats-Unis autour de 47 millions de personnes, semble toucher la France. L’enquête périodique du ministère du Travail sur les mouvements de main-d’œuvre le confirme : on assiste depuis 2 ans à une augmentation importante des démissions (+20,4% entre le premier trimestre 2022 et le dernier trimestre 2019).

      Ça n’a échappé à personne tant que le matraquage médiatique est intense : des secteurs peinent à recruter, ou perdent du personnel. C’est le cas de la restauration, dont le patronat se plaint, dans Le Figaro, de ne plus oser parler mal à ses salariés de peur qu’ils fassent leur valise. Mais c’est aussi le cas de l’hôpital public ou de l’Education nationale. Les explications médiatiques laissent le plus souvent à désirer : pour le Point, nous aurions perdu le goût de l’effort, tandis que la presse managériale se lamente sur ce problème qui serait générationnel. Ces dernières semaines, le thème de la désertion est essentiellement traité du point de vue d’une petite partie de la jeunesse diplômée et bien née, qui pour des principes éthiques et politiques, refuserait, comme par exemple dans les discours devenus viraux des étudiants d’AgroParisTech dont nous parlions en introduction, de diriger une économie basée sur la destruction de notre habitat pour se reconvertir dans l’agriculture paysanne.

      Mais qu’en est-il de cette désertion du milieu et d’en bas, celle des employés, des cadres subalternes, des fonctionnaires, des techniciens et des exécutants de la société capitaliste qui décident – souvent parce qu’ils n’en peuvent plus – de quitter leur emploi ? Derrière les grands principes, la réalité du travail est exposée dans la cinquantaine de témoignages que nous avons reçue, issus de tous secteurs : la désertion de la classe laborieuse est avant tout une quête de survie individuelle dans un monde du travail absurde et capitaliste. Elle dit beaucoup de la perte de nos outils collectifs de résistance aux injustices, de la solitude des travailleurs dont tout le monde se fout, mais aussi d’un refus puissant de jouer le rôle qu’on nous assigne. La grande démission est-elle une chance à saisir pour changer la société ?

      La démission, une question de survie face à la violence au travail

      Arthur* ne parle pas de « désertion ». Il n’a pas eu l’occasion de faire un discours vibrant lors de sa remise de diplôme. C’est normal, il est devenu apprenti pâtissier dès ses 14 ans et n’a pas eu le temps de souffler depuis. Mais il y a deux mois, il a démissionné de son emploi dans la restauration. Son patron a refusé la rupture conventionnelle, ce dispositif légal qui permet de partir, avec l’accord de son employeur, en échange d’indemnités minimales mais d’un accès aux indemnités chômage. Sa justification ? « Je t’ai appris des valeurs donc tu ne vas pas pointer au chômage ». Parmi les valeurs de ce Père La Morale : l’homophobie, qui a contraint Arthur à devoir cacher sa sexualité, avant d’être poussé au coming out, devant des collègues, par son patron. Dans cette petite entreprise, il a enduré des années de brimades et d’humiliations qui lui ont fait perdre confiance en lui et le goût de son travail. Depuis sa démission, il est sans revenus et a du mal à retrouver un emploi décent. Il n’empêche qu’il vit son départ comme un soulagement, après avoir enduré tête baissée ces années de captivité professionnelle, avec ses horaires décalées, son chef tyrannique et sa paye minimale. Le confinement de 2020 a joué un rôle déterminant dans sa prise de décision : Arthur a enfin eu du temps pour voir ses proches, sa famille, pour s’intéresser à la politique et ainsi, avancer.

      Les problèmes de turnover du secteur de la restauration ne sont quasiment jamais décrits du point de vue d’Arthur et de ses collègues. La presse est entièrement mobilisée pour relayer le point de vue du patronat, qui se plaint d’une pénurie de main-d’œuvre. Arthur rit jaune devant un tel spectacle : « ça me fait autant marrer que ça me dégoûte, m’explique-t-il, et mon patron tenait aussi ce discours de ouin-ouin « il y a un grand turn over plus personne ne veut travailler… » alors qu’on faisait quasiment tous 65h payées 39h ». Le secteur de la restauration est à l’avant-poste de tout ce qui dysfonctionne – ou plutôt fonctionne selon les intérêts du patronat – dans le monde du travail : des salariés isolés, sans représentation syndicale efficace, une hiérarchie omniprésente et intrusive, un travail difficile, en horaires décalés, avec beaucoup d’heures supplémentaires (souvent non payées) et avec peu d’autonomie et où le droit est très peu respecté.

      C’est aussi à cause de la violence généralisée que Yann a quitté plusieurs emplois successifs, dans la manutention puis le bâtiment. Pour lui, le problème venait tout autant de hiérarchies « maltraitantes » que de l’ambiance générale entretenue au sein des entreprises qu’il a connu : « J’avais cette sensation qu’on m’obligeait à bosser avec des personnes que j’aurais détesté fréquenter en dehors, et d’un autre côté qu’on me mettait en compétition avec des gens avec qui j’aurais pu être pote » m’a-t-il raconté. L’ambiance « stupidement viriliste » au travail ne lui convenait pas et il n’a pas trouvé de possibilités d’améliorer les choses.

      La plupart des témoignages reçus viennent confirmer une tendance lourde du monde du travail des années 2020 : si la violence est aussi répandue, c’est parce que la pression au travail s’est accrue, et pèse sur les épaules de toute une partie des effectifs, des managers aux employés de base. L’absence d’empathie des chaînes hiérarchiques semble être devenue la norme, comme nous l’avions déjà décrit dans un précédent article. C’est ainsi que Sara*, responsable de boutique dans une chaîne d’épicerie, a fini par quitter son emploi, après avoir gravi tous les échelons. Déjà éprouvée par la misogynie continuelle qu’elle subissait au quotidien, elle s’est retrouvée seule face à une situation de violence au travail, sans réaction de sa hiérarchie. Dans cette structure jeune, très laxiste sur le droit du travail, elle n’a pas trouvé de soutien face à la pression continuelle qu’elle subissait. Résultat, nous dit-elle, « j’allais au travail la boule au ventre, je faisais énormément de crises d’angoisse chez moi le soir, beaucoup d’insomnies aussi. J’ai un terrain anxieux depuis l’adolescence mais c’était la première fois depuis des années que j’ai ressenti le besoin d’être sous traitement. Je me sentais impuissante et en danger ».

      Ce témoignage est tristement banal : il semblerait qu’en France, les hiérarchies se complaisent dans l’inaction face aux atteintes à la santé des salariés. Il faut dire que les dernières évolutions législatives ont considérablement favorisé cette nouvelle donne. Nous en avons parlé à de multiples reprises : depuis la loi El Khomri de 2016 et les ordonnances travail de 2017, la santé au travail est reléguée au second plan, et le pouvoir du patronat face aux salariés a été considérablement renforcé. Le prix à payer était, jusqu’ici, l’augmentation du mal-être au travail, du burn out ainsi que des accidents, qui fait de la France une triste championne d’Europe de la mortalité au travail.

      La démission et le turn over qui en résultent, ainsi que la difficulté à recruter dans de nombreux secteurs, est désormais le prix que doivent payer les employeurs, et ils ne sont pas contents : peut-être auraient-ils pu y songer quand ils envoyaient toutes leurs organisations représentatives (MEDEF, CPME…) plaider pour détricoter le code du travail auprès des gouvernements successifs.

      La « perte de sens » : une question matérielle et non spirituelle

      Dans les témoignages reçus, la question du sens occupe une place moins grande que celle des (mauvaises) conditions de travail. Là encore, la désertion d’en bas diffère de la désertion d’en haut décrite dans la presse, où la question du sens et des grands principes est centrale. Au point que les grands groupes s’adaptent pour retenir leurs « talents » (c’est comme ça que les cadres sup appellent les autres cadres sup) en se donnant une « raison d’être » qui ne soit pas que la satisfaction de l’appât du gain des actionnaires. Ce dispositif est permis par la loi PACTE depuis 2019, et il ne sert à rien d’autre qu’à faire croire qu’une boîte capitaliste n’est pas seulement capitaliste : elle aime les arbres, aussi. Quand il s’agit du sens au travail, personne n’évoque la politique de “Responsabilité Sociale et Écologique » que les grands groupes affichent fièrement sur des affiches dans le hall du siège social. En revanche, trois cas de figures semblent se dessiner : le sentiment d’absurdité et d’inutilité, le sentiment de ne pas réussir à faire correctement son travail et de voir ses missions dévoyées, et enfin celui de faire un travail nuisible, intrinsèquement mauvais, qu’il convient de quitter pour des raisons politiques et morales.
      1 – L’absurdité au rendez-vous : « qu’on existe ou pas, ça ne change rien »

      Mon frère a quitté une structure associative où il était constamment noyé de boulot… sans savoir à quoi il servait. « J’ai encore une histoire à la The Office à te raconter » avait-il l’habitude de m’écrire. The Office, brillante série américaine, met en scène des salariés qui font toujours autre chose que leur travail, car constamment sollicités par un patron égocentrique et extravagant les entraînant dans un tourbillon de réunions, formations sécurité, séminaires de team building, concours de meilleur employé etc. Mais à la fin, ils servent à quoi, ces gens qui travaillent ? Dans le cas de mon frère, si le sens était altéré, c’était d’abord en raison d’une mauvaise gestion, d’un objet mal défini par un compromis politique reconduit chaque année par un directoire composé d’élus locaux. Il n’empêche que pour mon frère, l’intérêt de son job pour la société n’était pas avéré : « qu’on existe ou pas, ça ne change rien » m’a-t-il dit avant de décider de partir.

      Le thème des « bullshit jobs », ces métiers inutiles et ennuyeux dont l’existence a été brillamment théorisée par l’anthropologue britannique David Graeber, peut expliquer tout un pan du désamour d’une partie des cadres moyens pour leurs professions vides de sens. Pour mon ami A., son activité de consultant s’inscrivait en partie dans ce paradigme-là. Bien sûr, son action avait une utilité pour l’entreprise cliente, car le logiciel qu’il y mettait en place et pour lequel il formait le personnel à une organisation dédiée améliorait vraiment les choses. Mais que faire si l’entreprise elle-même avait une activité absurde ?

      Le capitalisme contemporain, nous dit Graeber, génère une immense aristocratie constituée de services de ressources humaines et de cabinets de consultants, c’est-à-dire de gens dont le travail est de gérer le travail des autres. Forcément, l’utilité ne tombe pas toujours sous le sens. Cette masse de gens qui dépendent de cette économie des services pour le travail n’a cessé de grossir, et ses contradictions génèrent sa propre croissance : dans ces entreprises où les cadres s’ennuient et se demandent à quoi ils servent, il faut faire venir des consultant en bien-être au travail qui vont organiser des ateliers et des cercles de parole pour parler de ce problème.

      Le problème du sentiment d’absurdité au travail, c’est qu’aucune hiérarchie ne tolère qu’il s’exprime librement. Les techniques de management des années 2020 insistent sur la nécessité de l’engagement, en toute bienveillance évidemment : il s’agit d’être sûr que tout le monde adhère à fond au sens de son travail. Ecrire un hymne en l’honneur de l’entreprise, comme A. a été invité à le faire lors d’un week-end de « team building », poster des photos de son travail et de son enthousiasme sur un réseau social interne, comme doivent le faire les salariés d’un grand groupe agroalimentaire où j’ai eu l’occasion de mener une expertise en santé au travail. Le non-engagement est sanctionné : dans cette entreprise, une évaluation comportementale annuelle se penche sur le niveau d’engagement et d’implication des salariés. Le soupir n’est pas de mise. Comment, dans ces conditions, tenir le coup sans devenir un peu fou ? A., comme d’autres consultants qui m’ont écrit, a choisi la démission.
      2 – La qualité empêchée : « j’aimerais juste pouvoir faire mon travail »

      Le sentiment d’absurdité ne peut expliquer à lui seul la succession de démissions et de déception professionnelle. Au contraire, nombre de récits reçus sont ceux de gens qui croyaient en ce qu’ils faisaient mais se sont vu empêcher de mener correctement leurs missions. La question du sens est le plus souvent abordée sous l’angle de la capacité ou non à bien faire son travail. Or, autour de moi et dans les témoignages reçus pour cette enquête, tout le monde semble frappé de ce que les psychologues du travail appellent la « qualité empêchée ».

      L’histoire de Céline*, maîtresse de conférence dans l’université d’une grande ville française, s’inscrit en partie dans ce cadre. Elle aussi a été poussée au départ par une pression administrative constante et l’absence de solidarité de son équipe. Elle a quitté une situation pourtant décrite comme confortable et stable : fonctionnaire, dans l’université publique… Pour elle, son travail est détruit par « les dossiers interminables pour avoir des moyens ou justifier qu’on a bien fait son travail », mais aussi les programmes et l’organisation du travail qui changent constamment et, évidemment, le manque de moyens. Paloma, enseignante dans le secondaire, a pris conscience de son envie de partir lors des confinements, mise face à la désorganisation de l’Education nationale, au niveau du pays comme des deux établissements où elle enseignait. Plus généralement, elle m’a confié que “le plus dur, c’était de constater que les élèves détestent l’école et les profs aussi, et qu’on ne cherche pas à faire réfléchir les élèves ou à développer leur sens critique. Je ne voulais pas contribuer à ça.”

      La question du manque de moyens est omniprésente lorsque l’on discute avec les personnels des services publics. Ce manque, qui se ressent dans la rémunération mais qui transforme toute envie d’agir ou d’améliorer les choses en parcours du combattant face à des gestionnaires omniprésents et tâtillons, brisent l’envie de rester. Les soignant.e.s ne cessent de le répéter, apparemment en vain : « En formation, on apprend que chaque patient est unique et qu’il faut le traiter comme tel, résumait Thierry Amouroux, porte-parole du Syndicat National des Professionnels Infirmiers. Mais quand on arrive à l’hôpital, on est face à un processus bien plus industriel, où on n’a pas le temps d’accompagner le patient, d’être à l’écoute. Il y a alors le sentiment de mal faire son travail et une perte de sens ». C’était il y a un an. Désormais, la pénurie de personnel entraîne la fermeture de services d’urgences la nuit, un peu partout en France. Ce sont les patients, et le personnel qui continue malgré tout, qui subissent de plein fouet les départs en masse de l’hôpital public où « la grande démission » n’est pas une légende médiatique.

      Face à ces problèmes très concrets, la question du sens devient presque une opportunité rhétorique pour le gouvernement et les strates hiérarchiques : il faudrait « réenchanter la profession », donner du sens aux métiers du service public à base de communication abstraite, plutôt que de donner les moyens de travailler correctement.
      3 – Le sentiment de faire un travail nocif : ​​”j’étais surtout un maillon de la perpétuation de la violence sociale”

      Hugo* travaillait pour un important bailleur social d’Île-de-France. Désireux de sortir de la précarité continue qu’il connaissait en enchaînant les CDD dans la fonction publique, il est devenu chef de projet dans cette structure, en ayant l’espoir de pouvoir se rendre utile. « J’y suis arrivé plein d’entrain car j’avais à cœur de faire un métier « qui ait du sens » … loger les pauvres, être un maillon de la solidarité sociale, etc ». Il a vite déchanté : « Globalement, je me suis rendu compte que j’étais surtout un maillon de la perpétuation de la violence sociale. In fine, malgré tout l’enrobage du type « bienveillance », « au service des plus démunis », des photos de bambins « de cité » tout sourire, il s’agissait d’encaisser les loyers pour engraisser les actionnaires (c’était un bailleur social privé, pas public). J’ai ainsi participé à une opération de relogement d’une tour de 60 habitants, qui allait être démolie dans le cadre du « renouvellement urbain ». Autant vous dire que les locataires n’étaient pour beaucoup (hormis quelques fonctionnaires communaux ayant encore un peu d’âme) que des numéros. Des « poids » à dégager au plus vite. Toutes les semaines je devais faire un « reporting » sur combien étaient partis, combien il en restait encore, avec un objectif… Je devais faire 3 propositions de logement aux locataires et leur mettre la pression pour qu’ils acceptent, en brandissant la menace de l’expulsion à demi-mot. Je voyais l’angoisse sur le visage des gens. » Hugo a fini par craquer et obtenir – au forceps – une rupture conventionnelle.

      Selma* et Damien* travaillaient aussi dans des professions participant de la façon dont on construit et on habite les villes. La première est urbaniste, le second architecte. Ils ont quitté des métiers pourtant souvent perçus comme intéressants et utiles parce que les effets de leur action leur semblaient vains voire néfastes, sur le plan social et écologique. Pour Selma, les mauvaises conditions de travail liées aux contraintes financières de son entreprise rachetée par un grand groupe sapait la qualité de son travail. Quant à Damien, il déplore les activités de son ancienne agence d’architecture : “Les projets sur lesquels je travaillais étaient très loin de mes convictions : des logements pour des promoteurs, en béton, quasiment aucune réflexion sur l’écologie (au-delà des normes thermiques obligatoires). Je faisais partie d’une organisation qui construisait des logements dans le seul but de faire de l’argent pour les promoteurs avec qui je travaillais.” Sa conclusion est sans appel : “Globalement, j’en suis arrivé à la conclusion que nous allions tous dans le mur (écologique). Les villes seront bientôt invivables, ne sont pas résilientes au changement climatique (essayez de passer un été sans clim à Strasbourg). J’ai constaté que j’étais totalement impuissant pour changer un tant soit peu les choses.”

      Les personnes qui travaillent dans des domaines d’activité nocifs à la société et qui en souffrent évoluent dans une contradiction forte, qui se termine souvent par un départ, faute d’avoir pu faire changer les choses de l’intérieur. Le manque d’autonomie conjugué à la quête de sens peut expliquer le nombre croissant de démissions et la pénurie de main-d’œuvre dans certains secteurs (le nucléaire, par exemple, a de grosses difficultés à recruter – étonnant, non ?). Chercher du sens dans son travail pose néanmoins une question de ressources : la stabilité économique doit d’abord être garantie, et la majeure partie de la classe laborieuse n’a pas le luxe de s’offrir le sens et la sécurité tout à la fois.
      La démission : une forme (désespérée) de protestation au travail ?

      Je repense à mes départs successifs (trois, au total : un non-renouvellement de CDD, une démission, une rupture conventionnelle) avec soulagement mais aussi une pointe de culpabilité. Quitter un emploi, c’est laisser derrière soi des collègues que l’on appréciait, avec qui l’on riait mais aussi avec qui on luttait. Deux de mes départs ont été le résultat de petites ou de grosses défaites collectives, accompagné d’un dégoût ou d’un désintérêt pour des secteurs ou des entreprises que j’estimais impossibles, en l’état du rapport de force, à changer. J’ai donc demandé à toutes les personnes qui m’ont raconté leur démission si elles avaient tenté de changer les choses de l’intérieur, et comment cela s’était passé. La majeure partie des personnes qui m’ont répondu ont tenté de se battre. En questionnant la hiérarchie sur les conditions de travail, en réclamant justice, en poussant la structure à s’interroger sur le sens de son action et de ses missions… en vain.

      Les situations les plus désespérées en la matière m’ont sans doute été racontées de la part de démissionnaires du monde associatif. Les associations, des structures où l’on exerce en théorie des métiers qui ont du sens… et qui sont progressivement vidées de leur essence par des hiérarchies calamiteuses, des conditions de travail très dégradées, des logiques néolibérales et gestionnaires qui viennent s’appliquer au forceps, contre l’intérêt des salariés et des usagers… Et le pire, c’est que le discours du sens y est devenu une arme mobilisée par le patronat associatif pour mater les salariés récalcitrants en leur opposant la noblesse de leur mission et la nécessité de ne pas y déroger pour ne pas nuire aux usagers. Antoine, démissionnaire d’une association d’éducation populaire dans l’ouest de la France, résume bien la situation : “dans l’associatif, la répression syndicale est super forte, joli combo avec le côté « on est dans une association alors on est toustes des gens biens et militants donc ça se fait pas de parler de domination”, qui décourage pas mal à se mobiliser…”.

      Il y a des secteurs qui sont structurellement moins propices à la résistance salariale collective, et l’associatif en fait partie, et pas seulement à cause du discours évoqué par Antoine. Le syndicat ASSO, la branche de Solidaires dédié aux salariés de l’associatif, rappelle qu’il s’agit d’un secteur “très atomisé, où nombre de salarié.e.s se trouvent seul.e.s dans de très petites structures : plus de 80 % des associations emploient moins de 10 salarié.e.s. L’organisation d’élections n’est pas obligatoire selon le code du travail pour les structures de moins de 10 salarié.e.s (6 pour la Convention de l’animation). Très peu de salarié.e.s ont une voix officielle, via un représentant.e du personnel, pour participer aux discussions sur leurs conditions de travail et pas d’appuis en interne en cas de conflit.” Par ailleurs, “près de 30% des salarié.e.s associatifs ne sont pas couverts par une convention collective (contre 8% dans le secteur privé marchand)”. On part donc de plus loin, quand on est salarié de l’associatif, que d’autres, pour améliorer les choses. Mais c’est le cas, d’une façon générale, dans l’ensemble des secteurs du pays qui ont tous subi d’importants reculs en matière de rapport de force salarial. Partout, le patronat est sorti renforcé des différentes réformes gouvernementales.

      C’est le cas à la SNCF, dont le personnel est massivement sur le départ depuis 2018, date de la réforme ferroviaire et d’une longue grève brisée par Macron et Borne, alors ministre des Transports et depuis Première ministre. En 2019, les départs ont augmenté de 40% par rapport à 2018, et ils suivent depuis le même rythme. La direction de la SNCF a tout fait pour briser les collectifs de travail, atomiser les salariés et modifier leurs conditions de travail. Dans Libération, les cheminots racontent comment la fin de leur statut a mis fin, entre autres, à la retraite garantie à 55 ans, compensation d’un rythme de travail épuisant.

      Difficile de résister quand les syndicats sont de moins en moins présents et nombreux. Yann, notre manutentionnaire démissionnaire, s’en prend quant à lui à la perte de culture du rapport de force chez ses collègues : « J’ai 35 ans et j’ai entendu de plus de plus les discours managériaux et les exigences patronales dans la bouche des ouvriers. C’est d’une déprime… Rien à prendre aussi du côté des « anciens » avec des dos défoncés qui ressassent des discours du type « on se plaignait pas avant », « les jeunes veulent plus rien faire »… ». Le problème dépasse largement, selon Yann, la culture de son ex-entreprise. Il s’étonne : “C’est fou que le sujet du malheur au travail ne soit quasiment jamais abordé à part par le côté clinique des burn out. Le sujet est absent de toutes les dernières campagnes électorales.”

      La solitude et la désunion, ou du moins l’absence de culture du rapport de force au travail, est une réalité qu’il est facile d’éprouver : la baisse continue des effectifs syndicaux n’en est que l’illustration statistique la plus flagrante. La démission devient alors une façon de mettre le collectif face à ses contradictions, d’interpeller collègues, direction et la société plus globalement sur les injustices qui s’accumulent. C’est un peu ce que concluait mon amie Orianne, infirmière à l’AP-HP et depuis en disponibilité pour exercer dans le privé. Comme des milliers de soignant.e.s en France, elle a déserté des hôpitaux publics détraqués par les gouvernements successifs – et celui-ci en particulier. Membre du collectif InterUrgences, Orianne s’est pourtant battue pendant plusieurs années, avec ses collègues, pour obtenir une revalorisation salariale et de meilleures conditions de travail, globalement en vain. Les applaudissements aux fenêtres durant le premier confinement n’auront donc pas suffi : le départ a été pour elle une issue personnelle et, dans un sens, collective ; face au manque de soignant.e.s, le gouvernement va-t-il finir par réagir ?

      De là à dire que la démission est une forme radicale et individuelle de grève, il n’y a qu’un pas que nous franchirons pas : car les grèves renforcent le collectif, soudent les collègues autour d’un objectif commun alors que la démission vous laisse le plus souvent seul, même si des effets collectifs peuvent se créer. Antoine a bon espoir que sa démission ait un peu secoué les choses : “mon départ a pas mal remué le Conseil d’Administration de mon association qui a prévu un gros travail sur la direction collégiale entre autres. A voir si cela bouge en termes de fonctionnement interne”, me dit-il. Lorsque mon frère a quitté son association, il s’est demandé si ses supérieurs hiérarchiques allaient “se remettre en question”. Je lui ai plutôt conseillé de ne pas en attendre grand-chose : les hiérarchies sont généralement expertes pour ne pas se remettre en question. Les “départs” sont évoqués, dans les entreprises, avec une grande pudeur, voire carrément mis de côté ou rangés du côté des fameux “motifs personnels” qui sont la réponse préférée des hiérarchies aux manifestations de la souffrance au travail.
      La quête (vaine ?) d’un ailleurs

      “Si ça continue, je vais partir élever des chèvres dans le Larzac moi” : c’est une phrase que j’ai souvent entendu, cliché du changement de vie après des déceptions professionnelles. Force est de constater que ce n’est pas la route empruntée par la plupart des démissionnaires, sinon les départements de la Lozère ou de l’Ariège auraient fait un signalement statistique. La plupart des personnes qui ont témoigné au cours de cette enquête ont des aspirations plus modestes : trouver un emploi avec des horaires moins difficiles, quitter une entreprise toxique, prendre le temps de réfléchir à la suite ou devenir indépendant.

      La reconversion agricole ou la reconversion tout court restent des possibilités accessibles à une minorité de personnes, en raison du temps et de l’argent que cela requiert. Yann, à nouveau, a tout résumé : “J’entends souvent le type de discours sur la perte de sens des CSP+ qui rêvent d’ouvrir un food truck ou un salon de massage, et ça m’irrite au plus haut point. Quand on est cadre, on a le capital financier/scolaire et le réseau pour faire autre chose. C’est nettement plus difficile quand on est préparateur de commande”. Mon compagnon fait partie de celles et ceux qui ont choisi la reconversion agricole comme planche de salut après des expériences désastreuses dans d’autres secteurs de l’économie. Il est le premier à relativiser le discours qui fait de l’agriculture un “ailleurs” au capitalisme . Ce n’est d’ailleurs pas pour ça qu’il a franchi ce cap, mais bien en raison d’un désir de vivre à la campagne, loin de la ville et dans un secteur qui l’intéressait davantage. Mais pour lui ce n’est pas une “alternative” au capitalisme, et c’est loin d’être une activité qu’il conseillerait à toutes celles et ceux qui veulent déserter les bureaux ou les entrepôts de la vie capitaliste : “C’est dur et tu gagnes mal ta vie”.

      Loin de l’image d’Epinal de la reconversion agricole enchantée où l’on vit d’amour et d’eau fraîche dans des cabanes dans les bois, façon vidéo Brut, l’agriculture, même biologique, s’insère dans un marché et dans des rapports de force qui sont tout sauf anticapitalistes. Le poids politique de l’agriculture intensive, le règne de la FNSEA, le principal lobby agro-industriel qui impose ses vues à tout le monde, avec le soutien du gouvernement, ne font pas de ce secteur un endroit apaisé et éloigné des turpitudes décrites précédemment.

      J’ai voulu un temps m’y lancer moi aussi (depuis, je me contente d’être vendeur au marché, ce qui me convient très bien) et j’ai vu, lors des formations que je suivais, l’attraction que le secteur exerçait sur de nombreux salariés désireux de changer, littéralement, d’horizon. J’ai vu ceux d’en bas, qui luttaient pour obtenir un lopin de terre à peine cultivable, et ceux d’en haut, qui rachètent des domaines immenses, font creuser des étangs et plantent le jardin bio-permaculture de leur rêve – pardon, font planter par des ouvriers agricoles – et semblent y jouer une vie, comme Marie-Antoinette dans la fausse fermette construite pour elle dans les jardins de Versailles. Puis ils s’étonnent que la population locale ne les accueille pas à bras ouverts… Bref, le monde agricole n’est pas un ailleurs, il est une autre partie du capitalisme où il faut lutter – même si le paysage y est souvent plus beau. Et d’ailleurs, les agriculteurs démissionnent aussi – de leur métier ou, c’est une réalité tragique, de leur propre vie. Les exploitants agricoles ont malheureusement la mortalité par suicide la plus élevée de toutes les catégories sociales.

      S’il y a bien un désir qui réunit la majeure partie des démissionnaires à qui j’ai parlé, et qui m’a moi-même animé, c’est celui de sortir du lien de subordination et du monde étouffant de l’entreprise en devenant indépendant. Ce désir d’indépendance, souvent snobé, quand on est de gauche, car il s’apparenterait à de la soumission déguisée en autonomie entrepreneuriale, n’est pourtant pas vécu comme un “projet” disruptif et capitaliste. Bien au contraire, les gens qui choisissent la voie de “l’auto-entrepreneuriat” et du freelance savent que c’est aussi une précarité économique que l’on peut vivre si on en a les moyens : quelques économies, un niveau de qualification suffisant, un petit réseau… Mais parfois, après avoir subi la violence du lien hiérarchique, on peut s’en contenter si c’est une possibilité. Mohamed, ingénieur, résume ce qui, pour lui, mène à l’envie d’indépendance, et qui résulte directement des impasses structurelles du travail sous le capitalisme contemporain : “Je n’ai que trois possibilités : faire partie d’un grand groupe (Atos, Orange, Thales, etc.), pire solution car travaillant exclusivement pour des actionnaires avec un boulot qui n’a aucun sens. Repartir en PME, ce qui est très bien pour 5 ans maximum mais on finit toujours par se faire racheter par les gros. Ou devenir indépendant.” Mais pour beaucoup, après la démission, c’est la quête d’un boulot salarié “moins pire” qui reste le seul choix possible.

      Démissionnaires de tous les secteurs, unissons-nous !

      Poussés dehors par des entreprises et des services publics de plus en plus macronisés (c’est-à-dire où la violence des rapports humains, la fausseté du discours et la satisfaction des actionnaires ou des gestionnaires prennent toute la place), nous sommes amenés à chercher des recours possibles pour mener une vie plus tranquille, un peu à l’égard de la guerre que le capitalisme nous mène. Mais l’ailleurs n’existe pas, ou bien il implique des choix de vie radicaux et sacrificiels. “Je me demande s’il y a moyen de dire fuck à la société capitaliste sans devenir un primitiviste babos qui ne se lave plus”, me résumait cette semaine mon frère, sans pitié. Franchement, sans doute pas. On peut s’épargner des souffrances inutiles en refusant le salariat, des boulots absurdes et profondément aliénants – quand on le peut – mais partout où on l’on se trouve, il faut lutter.

      Ce constat serait plombant si j’étais le seul à avoir quitté à répétition mes derniers emplois. Mais ce n’est pas le cas. Nous, démissionnaires, sommes des dizaines de milliers. Nous, les rescapés des ruptures conventionnelles, les démissionnaires sans allocations, les abandonneurs de postes, rejoignons chaque jour le cortège ordinaire des licenciés, des en-incapacité-de-travailler, des accidentés, des malades, de tous ceux qui ont été exclus ou se sont exclus du cursus honorum que le capitalisme accorde à celles et ceux qui ne font pas partie de la classe bourgeoise : baisse la tête, obéis au chef, endette-toi, fais réparer ta voiture et peut-être qu’à 40 ans tu seras propriétaire de ton logement.

      Nous, démissionnaires, sommes si nombreux et si divers. Les écœurés du virilisme des chantiers comme Yann, les saoulées du sexisme de boutique comme Sara, les rescapés de la brutalité patronale comme Arthur, les Selma et Damien qui ne veulent pas nuire aux habitants en faisant de la merde, les Céline, Paloma et Orianne qui n’ont pas rejoint le service public pour maltraiter élèves et patients mais aussi les Mohamed, les Hugo qui ne veulent pas engraisser des actionnaires en faisant de l’abattage de dossier pour gonfler les chiffres… Démissionnaires = révolutionnaires ? En tout cas, leur démission est une preuve de non-adhésion au système capitaliste.

      Démissionnaires de tous les secteurs : vous n’êtes pas seuls, nous sommes des milliers, et notre existence fait le procès de l’entreprise capitaliste. Notre amour du travail bien fait, de la justice et de la solidarité sont incompatibles avec la façon dont le capitalisme transforme nos activités, même celles qui en sont a priori le plus éloignées. Démissionnaires de tous les secteurs : unissons-nous !

      https://www.frustrationmagazine.fr/enquete-desertion

      #désertion #désertion_d'en_bas #démissionnaires #travail

  • #Résurgence holocénique contre plantation anthropocénique

    La « soutenabilité » est le rêve de transmettre une #terre_habitable aux générations futures, humaines et non-humaines. Cet article soutient qu’une soutenabilité digne de ce nom exige la #résurgence d’un modèle multi-espèces, en résistance aux tendances de la #colonisation_capitaliste qui transforme tout en #plantations de #monoculture. Pour affronter les défis de l’Anthropocène, nous devons faire davantage attention aux #socialités qui se trament entre les espèces, socialités dont nous dépendons tous. Aussi longtemps que nous maintenons une séparation imperméable entre nous et tout ce qui n’est pas humain, nous faisons de la soutenabilité un concept cruel relevant de l’#esprit_de_clocher. Nous perdons de vue le tramage commun qui rend possible la vie sur Terre des #humains avec les #non-humains. De toutes façons, maintenir cette #séparation ne fonctionne pas : les efforts des investisseurs pour réduire tous les autres êtres au statut d’actifs ont généré de terrifiantes écologies, que je qualifie ici de #proliférations_anthropocéniques.

    https://www.cairn.info/revue-multitudes-2018-3-page-77.htm
    #soutenabilité #anthropocène #humain #non-humain #Anna_Tsing #écologie #extinction #prédation #matsutake

  • La #transition_électrique : les doigts dans l’emprise — #Datagueule_98
    https://peertube.datagueule.tv/videos/watch/38560d1d-1e4a-4fc3-9d83-670e776455c5

    En 2017, 4 md de tonnes de pétrole consommés ainsi que 1,8 milliard de tonnes équivalent pétrole d’électricité contre 0,8 milliard équivalent pétrole d’électricité en 1990.
    En 2017, 38 % de la production électrique mondiale provenait du #charbon et 23 % du #gaz_naturel.
    #Énergies_renouvelables : #métaux_rares, #acides.
    #Chauffage_électrique : 10 % en 1970 des logements, 45 % en 1980.
    #Efficacité_énergétique : #paradoxe_de_Jevons.

    Entretien avec Mme Mathilde Szuba, maître de conférences en sciences politiques à Sciences Po Lille. Elle cite une étude du Crédoc sur l’engagement de façade des #classes supérieures :https://www.credoc.fr/publications/consommation-durable-lengagement-de-facade-des-classes-superieures
    Sa thèse, Gouverner dans un monde fini : des limites globales au #rationnement individuel, sociologie environnementale du projet britannique de politique de #Carte_carbone(1996-2010) : https://tel.archives-ouvertes.fr/tel-01794527/document

    #électricité #énergies #transition_énergétique #coûts_cachés #soutenabilité #seuils_de_normalité #niveaux_de_revenus #taxe_carbone #politique_énergétique #quotas #avion #loterie #sobriété

  • We Destroyed the Oceans. Now Scientists Are Growing Seafood in Labs. – Mother Jones
    https://www.motherjones.com/food/2019/12/we-destroyed-the-oceans-now-scientists-are-growing-seafood-in-labs

    Do you love burgers—but not the animal cruelty and environmental degradation that go into making them? I come bearing good news: Someday, you might be able to get your meat fix, without all that bad stuff. Scientists can now grow animal flesh, without raising—or in most cases killing—an animal. This food, called “lab-grown meat,” “cell-based meat,” “cultured meat,” “cultivated meat,” “clean meat,” or as comedian Stephen Colbert jokingly called it in 2009, “shmeat,” has set off a flurry of media attention in recent years. Dozens of lab-grown meat companies have materialized, most aiming to solve the problems associated with large-scale beef, pork, poultry, and seafood production.

    Finless Foods, a 12-person food-tech startup founded in 2017 and based in Emeryville, California, claims to be the first company to focus on lab-grown fish, although a handful of other startups have since joined them. In October, 28-year-old Finless Foods co-founder Mike Selden gave me a tour of their facility, and I dished about it on the latest episode of the Mother Jones food politics podcast Bite:

    Selden and his co-founder Brian Wyrwas, both products of an agricultural biochemistry program at UMass Amherst, started the company, he says, to “make something good.”

    “We started off with zebrafish and goldfish,” which already had a lot of cell biology research behind them, Selden explains. “From there, we did our first prototypes, which were carp.” The company grew tilapia, bass, rainbow trout, salmon, Mahi Mahi, lobster, and Fugu (poisonous pufferfish) meat before settling on Bluefin tuna, whose stocks have dropped sharply in the last few decades.

    The idea behind lab-grown fish, Selden says, is multi-pronged. The technology, they hope, will prevent the killing of animals for food, cut down on overfishing, and eliminate mercury and microplastic contamination in seafood. “We see this as creating a clean food supply on land: no mercury, no plastic, no animals involved, and it can still meet people’s needs.”

    Do you love burgers—but not the animal cruelty and environmental degradation that go into making them? I come bearing good news: Someday, you might be able to get your meat fix, without all that bad stuff. Scientists can now grow animal flesh, without raising—or in most cases killing—an animal. This food, called “lab-grown meat,” “cell-based meat,” “cultured meat,” “cultivated meat,” “clean meat,” or as comedian Stephen Colbert jokingly called it in 2009, “shmeat,” has set off a flurry of media attention in recent years. Dozens of lab-grown meat companies have materialized, most aiming to solve the problems associated with large-scale beef, pork, poultry, and seafood production.

    Finless Foods, a 12-person food-tech startup founded in 2017 and based in Emeryville, California, claims to be the first company to focus on lab-grown fish, although a handful of other startups have since joined them. In October, 28-year-old Finless Foods co-founder Mike Selden gave me a tour of their facility, and I dished about it on the latest episode of the Mother Jones food politics podcast Bite:

    Selden and his co-founder Brian Wyrwas, both products of an agricultural biochemistry program at UMass Amherst, started the company, he says, to “make something good.”

    “We started off with zebrafish and goldfish,” which already had a lot of cell biology research behind them, Selden explains. “From there, we did our first prototypes, which were carp.” The company grew tilapia, bass, rainbow trout, salmon, Mahi Mahi, lobster, and Fugu (poisonous pufferfish) meat before settling on Bluefin tuna, whose stocks have dropped sharply in the last few decades.

    The idea behind lab-grown fish, Selden says, is multi-pronged. The technology, they hope, will prevent the killing of animals for food, cut down on overfishing, and eliminate mercury and microplastic contamination in seafood. “We see this as creating a clean food supply on land: no mercury, no plastic, no animals involved, and it can still meet people’s needs.”

    Selden doesn’t like the term “lab-grown.” Industry insiders argue it makes their products sound artificial and unappetizing. He instead prefers to call it “cell-based.” He argues that the process of growing fish in a lab is actually very similar to how fish grow and develop in the wild.

    It begins with a sample—about the size of a grain of rice—of real meat from a real fish. (The tuna doesn’t have to die during this process, but often does. In the company’s two-and-a-half-year history, they’ve killed fewer than 20 tuna.) Those cells are put in a liquid “feed,” like a nutritious soup, which gives them the energy to grow and divide, just like they would in a real, growing fish.

    When I ask Selden why people would choose his product over other alternatives, like sustainably caught or farm-raised fish, he says, “They won’t.” He elaborated: “We’re specifically shooting for people who really don’t care about sustainability.” To appeal to seafood connoisseurs, he says, his company plans to first sell to upscale restaurants rather than grocery stores. Fine dining, he believes, is an “easier way to get public perception on your side—especially when we’re specifically searching for foodies rather than for a sustainably-minded consumer.”

    Funders seem to agree—they have already invested millions of dollars into Finless Foods. Early supporters include an aquaculture investment firm based out of Norway called Hatch, an Italian food science company, Hi-Food, a Japanese tuna company, Dainichi Corporation, and Draper Associates, a venture capital firm founded by Silicon Valley investor Tim Draper. Animal welfare organizations including PETA and Mercy for Animals have voiced support for lab-grown meat as a whole. And according to a 2018 survey conducted by Faunalytics, a non-profit animal advocacy research organization, 66 percent of consumers were willing to try clean meat.

    It is yet to be seen whether Finless Foods’ sashimi will win over die-hard seafood fanatics. Then again, they might not have a choice: As climate change worsens, and the ocean becomes too hot, too acidic, too polluted, and over-fished, it’s possible that one day some types of seafood may come only in a lab-grown variety. As Specht told me, “I think cultivated meat may truly be our only option for preserving the diversity of aquatic species we eat.”

    #pêche #poisson #viande_de_culture_cellulaire #viande_in_vitro #in_vitro #végan #start-up #soutenabilité #poubelle_industrielle #soleil_vert #make_the_world_a_better_place #animal

    Lien avec
    Jocelyne Porcher, Cause animale, cause du capital
    https://journals.openedition.org/lectures/39443

    Aux yeux de l’auteure, le déploiement de l’agriculture cellulaire, qui crée des produits similaires à ceux issus de l’agriculture traditionnelle mais à partir de la culture de cellules, pourrait susciter la « disparition » de ces animaux. Ce marché encore embryonnaire serait propulsé par les acteurs de la cause animale, qui défendent précisément la libération des animaux de toute activité de travail, dans un souci de garantir leur bien-être. Cependant, pour la sociologue, ladite libération pourrait susciter l’effet inverse : « les chiens, les chevaux et d’autres animaux engagés dans le travail peuvent souffrir d’en être écartés » (p. 40) car une part importante de leurs comportements a été acquise dans le travail. Ainsi, elle propose comme alternative de « refaire de l’élevage », c’est-à-dire de redéfinir ses bases, en le rapprochant de l’élevage traditionnel ou paysan, en évitant son assujettissement au système industriel et en permettant aux éleveurs et à leurs bêtes de vivre dignement.

  • #Ciné_vert. #Environnement et #industrie_cinématographique

    Aux représentations hollywoodiennes du changement climatique, de type catastrophiste et sensationnaliste, s’oppose l’émergence d’un nouveau type de cinéma plus authentiquement écologique, qui prend en compte la question de la #soutenabilité tant dans ses thématiques que dans ses #méthodes_de_production.


    https://laviedesidees.fr/Cine-vert.html
    #cinéma #changement_climatique #climat #écologie

  • « Le scénario de l’effondrement l’emporte » (Dennis Meadows, Libération)
    https://www.liberation.fr/futurs/2012/06/15/le-scenario-de-l-effondrement-l-emporte_826664

    Chaque pays est d’accord pour signer en faveur de la paix, de la fraternité entre les peuples, du développement durable, mais ça ne veut rien dire. Les pays riches promettent toujours beaucoup d’argent et n’en versent jamais.
    […]
    Tant qu’on ne cherche pas à résoudre l’inéquation entre la recherche perpétuelle de #croissance_économique et la limitation des #ressources_naturelles, je ne vois pas à quoi ça sert.
    […]
    Tout comme les termes #soutenabilité et #développement_durable, le terme d’#économie_verte n’a pas vraiment de sens. Je suis sûr que la plupart de ceux qui utilisent cette expression sont très peu concernés par les problèmes globaux.
    […]
    Dans à peine trente ans, la plupart de nos actes quotidiens feront partie de la mémoire collective […]. Du coup, les gens se demandent si nous allons appuyer sur la pédale de frein à temps. Pour moi, nous sommes à bord d’une voiture qui s’est déjà jetée de la falaise et je pense que, dans une telle situation, les freins sont inutiles. Le #déclin est inévitable.
    […]
    La première chose à dire, c’est que les #problèmes_écologiques ne proviennent pas des humains en tant que tels, mais de leurs #modes_de_vie.
    […]
    Chaque fois, on ne résout pas le problème, on fait redescendre la pression, momentanément, on retarde seulement l’#effondrement.
    […]
    Or, le cerveau humain n’est pas programmé pour appréhender les problèmes de long terme. C’est normal : Homo Sapiens a appris à fuir devant le #danger, pas à imaginer les dangers à venir. Notre vision à court terme est en train de se fracasser contre la réalité physique des #limites de la planète.
    […]
    C’est fini, la #croissance économique va fatalement s’arrêter, elle s’est déjà arrêtée d’ailleurs. Tant que nous poursuivons un objectif de croissance économique « perpétuelle », nous pouvons être aussi optimistes que nous le voulons sur le stock initial de #ressources et la vitesse du #progrès_technique, le système finira par s’effondrer sur lui-même au cours du XXIe siècle. Par effondrement, il faut entendre une #chute combinée et rapide de la population, des ressources, et de la production alimentaire et industrielle par tête.
    […]
    Le système reste un #outil, il n’est pas un #objectif en soi. Nous avons bâti un #système_économique qui correspond à des #idées. La vraie question est de savoir comment nous allons changer d’idées. Pour des pans entiers de notre vie sociale, on s’en remet au système économique. Vous voulez être heureuse ? Achetez quelque chose ! Vous êtes trop grosse ? Achetez quelque chose pour mincir ! Vos parents sont trop vieux pour s’occuper d’eux ? Achetez-leur les services de quelqu’un qui se chargera d’eux ! Nous devons comprendre que beaucoup de choses importantes de la vie ne s’achètent pas. De même, l’#environnement a de la #valeur en tant que tel, pas seulement pour ce qu’il a à nous offrir.

  • #Villes et quartiers durables : la place des habitants. La participation habitante dans la mise en #durabilité urbaine : discours, effets, expérimentations et mises à l’épreuve

    1ère partie : Mises en perspectives et contextualisations de la problématique
    Paul Claval
    Étudier la ville à travers son fonctionnement ou à travers l’art d’habiter
    Jean-Pierre Augustin
    La #ville_durable : #écologie et #urbanisme en question
    Augustin Berque
    La ville insoutenable
    2ème partie : Prégnance et effets d’un gouvernement de la participation
    Annick Monseigne
    Le discours participatif de remédiation. Les maux des mots
    Florence Rudolf
    Les #éco-quartiers, une innovation sociotechnique au service d’une culture de la #soutenabilité_urbaine ou de nouveaux marchés ?
    Georges-Henry Laffont et Matthieu Adam
    La durabilité en pratique(s) : gestion et appropriation des principes durabilistes véhiculés par les écoquartiers
    Richard Morin, Anne Latendresse et Nicolas Lozier
    « #Quartiers_verts » et programmation de la participation publique : de l’ordonnancement à la légitimation
    Didier Laugaa et Grégoire Le Campion
    Comportements écologiques responsables et #participation_citoyenne dans les écoquartiers : entre discours et réalité
    Nicolas D’Andrea et Luc Greffier
    Le Centre social et socioculturel activateur de participation dans le projet urbain durable : les conditions d’une intégration opérante
    Sarah Montero
    Durabilité culturelle et enjeux participatifs : penser la coopération entre élus et citoyens dans le cadre des #agendas_21 de la #culture
    3ème partie : Opportunités d’appropriations et de « résistances » citoyennes/habitantes
    Édith Hallauer
    Résidence principale : de l’architecte habitant
    Guy Mercier, Francis Roy et Etienne Berthold
    Les écoquartiers de #Québec ou la fortune d’une idée aussi engageante que malléable
    Hassina Imerzoukene-Driad, Philippe Hamman et Tim Freytag
    Participation et engagement citoyen : l’exemple des éco-quartiers de #Rieselfeld et #Vauban à #Fribourg
    Abdourahmane Ndiaye
    Écoquartiers, circuits courts alimentaires de proximité et modes d’habiter : vers une typologie du consommateur responsable
    Guillaume Faburel et Mathilde Girault
    Les éco-quartiers : vers une infrapolitique par les modes de vie et leurs communs ?
    Élisa Goudin-Steinmann
    Particularités et ambiguïtés de la notion de #participation à l’exemple d’espaces collectifs dédiés à la culture en #Allemagne
    Guy Di Méo et Karen Foussette
    Les représentations sociales des écoquartiers. Leurs interactions avec les enjeux de la concertation, de la participation et de la #consommation_responsable
    Pierre Cabrol et Joseane Silva
    Participation et durabilité urbaine : la propriété en débat
    Ridha Abdmouleh
    La gestion communale des #déchets en #Tunisie. De la transition à la durabilité : le cas de la commune de #Sfax
    4ème partie : Focus sur des technologies « impliquantes », leviers et freins dans la participation
    Patrick Faucher, Margot Pousseur, Grégoire Le Campion et al.
    Eco-quartiers : vers une nouvelle forme de relation entre l’usager et l’équipement
    Guillaume Christen et Philippe Hamman
    Quelle participation habitante dans les projets locaux d’#énergie_renouvelable ? Retour sur un dispositif d’énergie « citoyenne » dans une commune alsacienne
    Marie Mangold
    L’habitant, acteur du logement « durable » ? Le cas de constructions individuelles écologiques et à haute performance énergétique en #Alsace
    Elisabeth Lehec
    La participation habitante, un objet de recherche pour la mise en durabilité de la gestion urbaine. Le cas du compostage des déchets
    Benoit Granier
    La participation des habitants comme préalable au changement de leurs comportements ? Réflexions à partir des #Smart_Communities japonaises

    http://books.openedition.org/cse/102
    #urban_matter #livre #habitants #participation #écoquartiers #aménagement_du_territoire #géographie_urbaine #Japon

  • Migrations et #développement_soutenable

    La question des migrations est, plus que jamais, liée à celle du développement. Elle concerne actuellement tous les pays, au Nord comme au Sud : « Presque toutes les régions du monde sont concernées par les migrations, internes et internationales : on compte aujourd’hui 214 millions de migrants internationaux, soit 3 % de la population mondiale, et 740 millions de migrants internes. Un sixième...

    http://www.cairn.info/numero.php?ID_REVUE=MED&ID_NUMPUBLIE=MED_172&WT.rss_f=geographie&WT.tsrc=RSS

    #migrations #développement #soutenabilité #développement_durable
    via @ville_en